Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA SOCIETA’

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

         

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Le profezie per il 2022.

I festeggiamenti di capodanno.

Il palindromo.

Il Primo Maggio.

Il Ferragosto.

73 anni dalla tragedia di Superga.

65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.

60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.

52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

51 anni dalla morte di Louis Armstrong.

50 anni dalla morte di Dino Buzzati.

49 anni dalla morte di Bruce Lee.

49 anni dalla morte di Anna Magnani.

45 anni dalla morte di Elvis Presley.

43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.

42 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.

40 anni dalla morte di Marty Feldman.

40 anni dalla morte di John Belushi.

40 anni dalla morte di Beppe Viola.

37 anni dalla morte di Francesca Bertini.

34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.

33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.

33 anni dalla morte di Olga Villi.

32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

31 anni dalla morte di Miles Davis.

30 anni dalla morte di Marisa Mell.

29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

28 anni dalla morte di Moana Pozzi.

28 anni dalla morte di Kurt Cobain.

28 anni dalla morte di Massimo Troisi.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Gianni Versace.

25 anni dalla morte di Ivan Graziani.

24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.

24 anni dalla morte di Frank Sinatra.

23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

22 anni dalla morte di Antonio Russo.

22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

20 anni dalla morte di Layne Staley.

20 anni dalla morte di Alex Baroni.

20 anni dalla morte di Umberto Bindi.

20 anni dalla morte di Carmelo Bene.

19 anni dalla morte di Alberto Sordi.

19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

18 anni dalla morte di Ray Charles.

16 anni dalla morte di Alida Valli.

15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

14 anni dalla morte di Paul Newman.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor. 

10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.

10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

10 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lucio Dalla.

10 anni dalla morte di Piermario Morosini.

10 anni dalla morte di Renato Nicolini.

10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.

10 anni dalla morte di Gore Vidal.

9 anni dalla morte di Pietro Mennea.

9 anni dalla morte di Virna Lisi.

9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

8 anni dalla morte di Robin Williams.

7 anni dalla morte di Pino Daniele.

7 anni dalla morte di Francesco Rosi.

6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.

6 anni dalla morte di Lou Reed.

6 anni dalla morte di George Michael.

6 anni dalla morte di Prince.

6 anni dalla morte di David Bowie.

6 anni dalla morte di Bud Spencer.

6 anni dalla morte di Marta Marzotto.

5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.

4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

4 anni dalla morte di Luigi Necco.

3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

3 anni dalla morte di Nadia Toffa.

3 anni dalla morte di Antonello Falqui.

2 anni dalla morte di Ennio Morricone.

2 anni dalla morte di Diego Maradona.

2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.

2 anni dalla morte di Gigi Proietti.

2 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.

2 anni dalla morte di Kobe Bryant.

1 anno dalla morte di Lina Wertmüller. 

1 anno dalla morte di Max Mosley.

1 anno dalla morte di Gino Strada.

1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.

1 anno dalla morte di Ennio Doris.

1 anno dalla morte di Paolo Isotta.

1 anno dalla morte di Franco Battiato.

I Beatles.

Duran Duran.

I Nirvana.

Gli ABBA.

I Queen.

Emerson Lake & Palmer.

I Simpson.

Il Maggiolino.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Avvocato…

Quelli che se ne vanno…

John Elkann.

Lapo Elkann.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

Vivi per sempre.

Le morti del Cazzo…

L’Eutanasia. 

Il Necrologio.

L’Eredità.

E’ morto il giornalista Alessio Viola.

È morto il cantante Terry Hall.

E’ morto il regista Mike Hodges.

È morto lo storico Asor Rosa.

E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.

E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.

E’ morta la cantante Terry Hall.

E’ morto il produttore Alex Ponti.

Addio all’attore Lando Buzzanca.

E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.

È morto il fotografo Carlo Riccardi.

È morto il compositore Angelo Badalamenti.

È morto il cantante Ichiro Mizuki.  

È morto Romero Salgari.

E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.

Morto l’attore Gary Friedkin.

E’ morta l’attrice Kirstie Alley.

Morto lo scrittore Dominique Lapierre.

E’ morto il pilota Patrick Tambay.

E’ morto il sarto Cesare Attolini.

E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.

E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.

E’ morto l’attore Brad William Henke.

E’ morto l’attore Frank Vallelonga.

È morto il politico Gerardo Bianco.

È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.

È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.

E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.

E’ morta la cantante e attrice Irene Cara. 

Addio allo stilista Renato Balestra.

Addio al sarto Cesare Attolini.

Morto l’attore Mickey Kuhn.

È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.

E’ morto il cantautore Pablo Milanés.

E’ morta l’attrice Nicki Aycox.

Morto il filosofo Fulvio Papi.

E’ morto il regista Jean-Marie Straub.

E' morto il giornalista Gianni Bisiach.

E’ morto il cantante anni Nico Fidenco. 

E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.

E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.

E’ morta la scienziata Alma Dal Co.

Addio all’industriale Vallarino Gancia.

È morto il musicista Keith Leven.

Morto il manager Luca Panerai.

E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.

E’ morta la musicista Mimi Parker.

È morto il musicista Carmelo La Bionda.

È morto il musicista Aaron Carter.

E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.

E’ morto il batterista Marino Rebeschini.

Morto il manager Franco Tatò.

Morto il manager Mauro Forghieri.

È morta la scrittrice Julie Powell.

È morto lo stuntman Holer Togni.

È morto il senatore Domenico Contestabile.

E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.

E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.

E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.

Morto il critico Marco Vallora.

Addio al critico Franco Fayenz.

E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.

E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.

Addio all’attore Ron Masak.

E’ morto il cantante Franco Gatti.

E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.

È morta la cantante Christina Moser.

E' morto l'attore Robbie Coltrane.

E’ morta Jessica Fletcher.

E’ morto il filosofo Bruno Latour.

E’ morta la cantante Jody Miller.

E’ morta la stilista Franca Fendi.

E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.

E’ morto l’industriale Armando Cimolai

E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz. 

Morto lo storico Paul Veyne. 

E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.

Morto il regista Franco Dragone.

E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.

Morto lo scrittore Jim Nisbet.

È morto il rapper Coolio.

Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.

Morto il comico Bruno Arena.

E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.

E’ morta l’attrice Anna Gael.

E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.

E’ morta l’attrice Kitten Natividad.

È morta la scrittrice Hilary Mantel.

È morta l’attrice Louise Fletcher.

E’ morto il tronista Manuel Vallicella.

E’ morto l’attore Henry Silva.

È morto il playboy Beppe Piroddi.

Morto l’attore Jack Ging.

È morta l’attrice Irene Papas.

E’ morto l’industriale Andrea Riello.

E’ morto il regista Jean-Luc Godard.

Morto il regista Alain Tanner. 

Addio al giornalista Piero Pirovano.

E' morto il fotografo William Klein.

È morto lo scrittore Javier Marias.

E’ morto il giornalista Roberto Renga.

Morto il latinista Franco Serpa.

E’ morto l’attore Claudio Gaetani.

È morto il regista Just Jaeckin.

Morta la poetessa Mariella Mehr.

Morto lo scrittore Oddone Camerana. 

E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.

Addio al radioastronomo Frank Drake. 

E’ morto il cantante Drummie Zeb.

E’ morto il pittore Gennaro Picinni.

È morta l’attrice Charlbi Dean.

È morto Camilo Guevara.

E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.

Morto il giornalista Giulio Giustiniani.

L’addio al politico Mauro Petriccione. 

E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.

Morta l’attrice Paola Cerimele.

E' morto il fotografo Tim Page.

Morta la scienziata Laura Perini.

È morto l’attore Enzo Garinei.

Addio al magistrato Domenico Carcano.

E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey. 

E’ morto il comico Gino Cogliandro.

È morto il comico Vito Guerra.

È morta la comica Anna Rita Luceri.

È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.

E’ morta la stilista Hanae Mori.

È morto il regista Wolfgang Petersen.

E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.

È morto lo scrittore Nicholas Evans.

E’ morta l’attrice Robyn Griggs.

E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro. 

Addio all’attrice Denise Dowse.

E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.

E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.

E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.

E’ morta l’attrice Anne Heche.

E’ morto il calciatore Claudio Garella.

È morto lo stilista Issey Miyake.

È morto l’attore Roger E. Mosley. 

E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.

E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.

Morto l’attore Alessandro De Santis.

E’ morto l’attore John Steiner.

È morta l’attrice Nichelle Nichols.

E’ morto il giornalista Omar Monestier.

E’ morto l’attore Antonio Casagrande.

E’ morto il cestista Bill Russell.

Morto l’attore Roberto Nobile.

Morto il pittore Enrico Della Torre. 

E’ morta la sciatrice Celina Seghi.

E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.

E’ morto lo scienziato James Lovelock.

E’ morto lo scrittore Pietro Citati.

E’ morto l’attore David Warner.

È morto l’attore Paul Sorvino.

Morto il regista Bob Rafelson.

E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.

E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.

È morto il linguista Luca Serianni.

È morta la cantante Shonka Dukureh.

È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.

E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morta Ivana Trump.

È morto il giornalista Eugenio Scalfari.

E’ morto il mago Tony Binarelli.

Addio il giornalista Amedeo Ricucci.

E’ morto il compositore Monty Norman.

E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.

E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.

E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.

E’ morto l’attore Tony Sirico.  

E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.

È morto l’attore James Caan.

E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.

E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.

E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.

È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.

E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.

E’ morto il regista Peter Brook.

E' morta la cantante Irene Fargo.

E’ morto l’attore Joe Turkel. 

E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.

E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.

E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.

E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.

E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.

E’ morto il musicista James Rado.

E' morto l'architetto Jordi Bonet.

E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.

È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.

E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.

E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.

È morto l’attore Philip Baker Hall.

È morto il produttore musicale Piero Sugar.

E’ morta la cantante Julee Cruise.

E’ morta la pittrice Paula Rego.

E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.

E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.

Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.

E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.

È morto il bassista Alec John Such.

È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund

E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata. 

E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.

Morto lo scrittore Joseph Zoderer. 

Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.

Addio all’attore Franco Ravera.

Morto il partigiano Carlo Smuraglia.

Morto il conte Manfredi della Gherardesca.

E’ morto il fantino Lester Piggott.

E’ morto l’attore Marino Masé.

E’ morto lo scrittore Boris Pahor.

E’ morto il musicista Alan White. 

È morto l'attore John Zderko.

E’ morto il musicista Andrew Fletcher.

E’ morto l’attore Ray Liotta.

E’ morto il cardinale Angelo Sodano.

E’ morto l’attore Bo Hopkins.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morto Ciriaco De Mita.

E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.

E’ morto il taverniere Guido Lembo.  

Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.

E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.

E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.

È morto l’attore Fred Ward.

E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.

E’ morto il musicista Richard Benson.

E’ morto l’attore Mike Hagerty.

E’ morto l’attore Enzo Robutti.

È morto l’attore Lino Capolicchio.

È morto il fotografo Ron Galella.

Addio alla cantante Naomi Judd. 

Addio all’attrice Jossara Jinaro.

È morto il procuratore Mino Raiola.

E' morto il politologo Percy Allum.

Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.

E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.

E’ morto l’industriale Antonio Molinari.

È morto il cantante Marco Occhetti.

Morto Paolo Mauri.

È morto l’attore Jacques Perrin.

È morta l'attrice Ludovica Bargellini.

È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.

È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.

E’ morta l’attrice Catherine Spaak. 

E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.

E’ morta la giornalista Giusi Ferré.

È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi. 

E’ morto il calciatore Freddy Rincon.

E’ morto l’attore Michel Bouquet.

E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.

È morto l’attore Gilbert Gottfried.

E’ la storica Morta Chiara Frugoni.

E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.

E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.

E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.

E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.

E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.

E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.

È morto Tom Parker.

Addio al giornalista Franco Venturini.

È morto l’attore Lars Bloch.

E’ morto l’attore Gianni Cavina.

E’ morto il batterista Taylor Hawkins.

Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.

E' morto il giornalista Sergio Canciani.

E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.

Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.

Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.

E' morto l’attore William Hurt.

E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.

Addio al giornalista Stefano Vespa. 

E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.

E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.

E’ morto Antonio Martino.

Morto l’attore John Stahl.

E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.

E’ morto il cantante Gary Brooker. 

Addio al cantante Mark Lanegan.

E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.

E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli. 

E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.

E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.

E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.

Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.

Morto il pugile Bepi Ros.

Addio al cantante Fausto Cigliano.

Morto il cantante Amedeo Grisi. 

E’ morto il doppiatore Tony Fuochi. 

E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman. 

E’ morto l’artista John Wesley.  

E’ morto il musicista Ian McDonald.

Addio a Betty Davis, la regina del Funk.

E’ morta Donatella Raffai.

E’ morto l’attore Bob Saget.

E’ morto Luc Montagnier.

E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.

Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.

Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema. 

Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".

E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.

E’ morta Monica Vitti.

È morto l’attore Paolo Graziosi.

E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini. 

E' morto Tito Stagno.

E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.

E' morto l’attore Renato Cecchetto.

Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.

È morto il faccendiere Flavio Carboni.

E’ morto lo stilista Thierry Mugler. 

E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.

Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.

Addio al giornalista Sergio Lepri.

E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri. 

E’ morto il cantante Meat Loaf.

E’ morto l’attore Hardy Kruger.

E’ morto l’attore Camillo Milli.

E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.

E’ morta  l’attrice Yvette Mimieux.

E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.

E’ morto lo stilista Nino Cerruti.

E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.

E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.

È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.

E’ morta Silvia Tortora.

E’ morta Margherita di Savoia.

Addio all’attore comico Bob Saget.

E’ morto Michael Lang.

E’ morto l’attore Mark Forest.

E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.

E’ morto il regista Mariano Laurenti.

E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.

E’ morto l’attore Sidney Poitier.

E’ morto il regista Peter Bogdanovich.

E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.

È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.

È morto il giornalista Fulvio Damiani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le stirpi reali.

Gli scandali dei Windsor.

Vittoria.

Elisabetta.

La morte della Regina.

Filippo.

Carlo.

Camilla.

Andrea.

Anna.

Diana.

William e Kate.

Harry e Meghan.

 

 

LA SOCIETA’

QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

·        È morto Ciriaco De Mita.

Morto l'ex premier Ciriaco De Mita. (ANSA il 26 maggio 2022) - L'ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto questa mattina alle 7 nella sua abitazione di Nusco, in provincia di Avellino, città di cui era sindaco. 

Lo ha reso noto il vice sindaco, Walter Vigilante. De Mita era stato sottoposto a febbraio scorso a un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. 

Secondo quanto si è appreso successivamente, De Mita è morto nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino e non nella sua abitazione di Nusco. De Mita stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore per la caduta dello scorso febbraio.  

Si è spento all’età di 94 anni l’ex premier Ciriaco De Mita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Maggio 2022.  

L'ex presidente del Consiglio e segretario della Democrazia Cristiana era ricoverato in una casa di cura, dove stava seguendo un percorso di riabilitazione in seguito ad una frattura

Il vice sindaco di Nusco Walter Vigilante ha reso noto che Ciriaco De Mita è morto nella prima mattina di oggi giovedì 26 maggio. L’ex premier si trovava nella casa di cura “Villa dei Pini” clinica di riabilitazione di Avellino, dove si è spento all’età di 94 anni. Il politico campano si era sottoposto lo scorso febbraio ad un intervento chirurgico per la frattura del femore, in seguito ad una caduta avvenuta nella sua abitazione.  De Mita, rieletto di recente per la seconda volta sindaco di Nusco, era stato ricoverato in seguito a un attacco ischemico il 10 aprile scorso al “Moscati” di Avellino; in precedenza era stato operato al femore, e per questo si trovata nella struttura di riabilitazione. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Aveva compiuto 94 anni lo scorso febbraio.

I funerali si svolgeranno domani, venerdì, alle 18,30, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che sabato è impegnato in una visita ufficiale a Napoli. La famiglia dell’ex premier aveva inizialmente deciso proprio sabato mattina per il rito funebre. Il feretro di De Mita ha lasciato la casa di cura Villa dei Pini, dove l’ex leader DC era ricoverato dal 13 aprile scorso, questa mattina alle 11, salutato da un applauso dei degenti e da un coro “addio Presidente”. Scortato dalla Polizia e dai Carabinieri, seguito dalle auto con a bordo la moglie Annamaria Scarinzi e dai figli Antonia, Giuseppe, Simona e Floriana, è arrivato dopo mezz’ora a Nusco, per la camera ardente nella villa di famiglia. In mattinata i familiari hanno ricevuto in clinica la visita del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e il prefetto di Avellino Paola Spena.

Chi era Ciriaco De Mita

Classe 1928 era nato a Nusco ed era stato uno dei principali esponenti della Prima Repubblica. Dal 1988 al 1989 ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio. Dopo essere stato ministro per quattro legislature, è diventato sindaco della sua città natale nel 2014. Il politico è stato anche segretario e presidente della Dc, ed è stato un parlamentare dal 1963 al 1994 ed ancora dal 1996 al 2008. Dopo la scomparsa della Dc ha fatto parte del Partito Popolare italiano, della Margherita quindi dell’Unione di Centro.

Il ricordo di Mattarella

“La notizia della scomparsa di Ciriaco De Mita è motivo di grande tristezza. De Mita ha vissuto da protagonista una lunga stagione politica. Lo ha fatto con coerenza, passione e intelligenza, camminando nel solco di quel cattolicesimo politico che trovava nel popolarismo sturziano le sue matrici più originali e che vedeva riproposto nel pensiero di Aldo Moro” ha detto il presidente della Repubblica, “Il suo impegno politico ha sempre avuto al centro l’idea della democrazia possibile. Quella da costruire e vivere nel progressivo farsi della storia delle nostre comunità, della vita concreta delle persone, delle loro speranze e dei loro interessi. Nasceva da questa visione della democrazia come processo inesauribile l’attenzione per il rinnovamento e l’adeguamento delle nostre istituzioni, che non a caso fu bersaglio della strategia brigatista che, uccidendo Roberto Ruffilli, suo stretto consigliere, alla vigilia dell’insediamento del suo governo, intese colpire proprio il disegno riformatore di De Mita“, aggiunge il Capo dello Stato. 

“Dobbiamo ricordarne l’impegno incessante per un meridionalismo intelligente e modernizzatore. Così come la vivacità intellettuale, la curiosità per le cose nuove, la capacità di dialogare con tutti, forte di una ispirazione cristiana autenticamente laica“, prosegue Mattarella.

“L’attenzione alle nuove generazioni per un rinnovamento della politica fatto di scelte coraggiose e concrete, anche favorendo, da segretario del suo partito, un profondo ricambio di classe dirigente. Non meno importante fu, soprattutto nella sua azione di governo, la sua visione internazionale e, in modo particolare, l’attenzione che ebbe per cio’ che la leadership di Gorbaciov stava producendo in Unione sovietica alla fine degli anni Ottanta” conclude il presidente della Repubblica.

Il cordoglio del premier Draghi

Il presidente del consiglio Mario Draghi ha espresso “il più sentito cordoglio” per la scomparsa di De Mita, “protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana”. “Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime il più sentito cordoglio per la scomparsa di Luigi Ciriaco De Mita. Presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, più volte Ministro, protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana, fino all’ultimo è stato impegnato nelle istituzioni locali, come Sindaco del comune di Nusco. Alla famiglia, le condoglianze di tutto il Governo” si legge in una nota di Palazzo Chigi.

BIOGRAFIA DI CIRIACO DE MITA

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Ciriaco De Mita (Luigi Ciriaco D.M.), nato a Nusco (Avellino) il 2 febbraio 1928 (91 anni). Politico. Sindaco di Nusco (dal 26 maggio 2014). Già presidente del Consiglio (1988-1989), ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno (1976-1979), ministro del Commercio con l’estero (1974-1976), ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (1973-1974); già deputato (Dc, Ppi, Dl, Pd) (1963-1994; 1996-2008); già europarlamentare (Ppe) (1984-1988; 1999-2004; 2009-2014). Ex segretario nazionale (1982-1989) ed ex presidente (1989-1992) della Democrazia cristiana. «Io ero Dc prima che nascesse la Dc»

Figlio di un sarto e di una casalinga, si accostò alla politica in tenera età. «Avevo 8 o 9 anni. A Nusco il regime mandò dei confinati. Venivano nella bottega di mio padre, che era sarto, chiudevano le porte e chiacchieravano. Ma il mio primo maestro di politica fu il preside della scuola media, un sacerdote. […] Capii le colpe del re e del regime, e che non bastava volere la caduta del fascismo e la fine della monarchia. Il punto era che dovevamo perdere la guerra» (a Stefano Cappellini).

«“Chiocchiò”, […] amico d’infanzia di “Ciriachino”, […] ricorda: “Lui era sempre il capo: giocavamo ai soldati ed era il comandante, ai preti ed era il vescovo, ai suonatori ed era il direttore d’orchestra”» (Virginia Piccolillo). 

«Io non sono nato semplice. Sono stato sempre molto problematico, e in fondo mi sono convinto della validità di quella verità che mi consegnava mio nonno: “Bada a chi vuole far apparire semplice una cosa complessa: significa che non l’ha capita”. Nella vita ho applicato questa massima costantemente ai miei comportamenti, sin dagli inizi della mia attività politica, quando a 16 anni tenni il mio primo comizio a Montella e l’avversario di allora, un comunista che chiamavano Nerone, mi avvertì che tanto dopo mi avrebbero bruciato. Giusto per comprendere il clima di quei tempi» (a Generoso Picone).

«“A metà degli anni Quaranta ero presidente dei giovani di Azione cattolica. Quando, durante una riunione dei comitati antifascisti, sentii alcune espressioni forti contro la Chiesa, pensai: ‘Non ci siamo!’”. Nel 1946, malgrado non possa votare per motivi d’età, De Mita è attivo nella campagna elettorale che sforna l’Assemblea costituente e che decide la forma repubblicana del Paese. La Democrazia cristiana non dà un’indicazione di voto.

“La stragrande maggioranza dei diccì campani era a favore della Monarchia – racconta De Mita –. Io, che ho sempre avuto la tentazione della guida, costrinsi un gruppo di ragazzi a giurare che avrebbero sostenuto la Repubblica anche se nessuno di noi poteva votare. Mio padre, sarto, che a Nusco era vice segretario cittadino dello Scudo crociato e che votava Monarchia, si lamentava con mia madre: ‘Che figura! Che figura!’. La sera delle elezioni cercai di discuterne, ma lui chiuse la conversazione dicendo che a tavola non si parla di politica”» (Vittorio Zincone).

Grazie a una borsa di studio, s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano. «Quand’ero ragazzo io, […] ebbi una discussione con un compagno della Cattolica, un marxista. Gli esposi – il discorso durò ore – la mia idea della politica, e lui mi disse: “Ciriaco, tu sei crociano”. Io non avevo mai studiato Croce, ma compresi che alcune cose si respirano nell’aria, si sedimentano, ritornano anche senza evocazioni solenni o spiegazioni teoretiche». 

«Ero stato una sorta di contestatore alla Cattolica, nei primi anni Cinquanta. Insieme con Gerardo Bianco facemmo sì che i professori concordassero con gli studenti il piano di studi. E introducemmo la lettura di tutti i quotidiani, compresa l’Unità». Una volta laureatosi, trovò impiego come consulente presso l’ufficio legale dell’Eni, senza mai però abbandonare l’impegno politico.

«“Io nel ’48 feci molti comizi”. […] Tra il 1953 e il 1954 la Dc cambia pelle: fuori la vecchia generazione che aveva frequentato il Partito popolare, e dentro i nuovi che si raggruppano intorno alla corrente di “Iniziativa democratica” e al leader Amintore Fanfani. De Mita: “Fanfani era professore alla Cattolica. Andai a sentire una sua lezione e non mi ci trovai. A me piace il pensiero delicato, lui aveva un pragmatismo veloce”. […] Si chiude un’era, De Gasperi muore proprio in quel 1954. “Nella mia vita ho pianto due o tre volte – racconta De Mita –. Una di queste è stata quando è morto Alcide”. Nel frattempo nasce la Base, corrente di sinistra di cui fanno parte Giovanni Marcora, Ezio Vanoni e lo stesso De Mita. Tra i fondatori-finanziatori c’è anche il mega-boiardo del petrolio italiano Enrico Mattei, parlamentare Dc della prima legislatura ed ex partigiano bianco.

“La Base è un’esperienza culturale complessa – racconta il leader irpino –. È l’individuazione su varie parti del territorio di elementi di vivacità culturale, giovani, militanti delusi, persone di capacità straordinaria. A me in questo movimento è sempre piaciuto pensare, elaborare piani”. […] A metà anni Cinquanta, e soprattutto dopo la rottura del Psi con il Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, l’idea che comincia a balenare nella testa di De Mita è la possibilità di un’alleanza con i socialisti.

L’ex premier racconta: “Iniziai a riflettere sul come e sul perché. E iniziai a teorizzare non tanto l’alleanza tra i partiti, ma la convergenza delle culture che collaborano per la realizzazione di un disegno comune. Questo disegno era l’organizzazione dello Stato moderno, la risposta ai nuovi bisogni, alle nuove libertà e alle nuove relazioni”.

La gerarchia ecclesiastica non è molto d’accordo. Quando De Mita si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1958, i vescovi del suo territorio gli remano contro e appoggiano i suoi concorrenti all’interno delle liste democristiane. “A uno di questi vescovi che cercava di convincermi a non candidarmi proposi un patto: ‘Lei spiega ai contadini che l’idea del centrosinistra non costituisce eresia e io non faccio la campagna elettorale insistendo su quella posizione’. Il monsignore domandò: ‘Mi vuole insegnare a fare il vescovo?’. E io replicai: “Lei vuole dire a me come fare politica?’”.

Alla fine della campagna elettorale, De Mita nella piazza di Avellino arrivò ad accusare i vescovi di simonia perché si vendevano le preferenze. […] Il congresso di Napoli del 1962 è quello che traghetta definitivamente la Dc nella prospettiva del centrosinistra. Moro, segretario in carica, riconfermato, parla per sette ore.

De Mita: “Più che relazioni, le nostre erano spesso delle lezioni. Moro è stato il gestore della Dc più raffinato, aveva una spiccata intelligenza operativa”. Nascono i governi con l’appoggio dei socialisti. Ma comincia anche un quindicennio durissimo in cui si alternano riforme, piani eversivi, governi balneari, colpi di Stato abortiti, stragi, contestazioni giovanili, lotte operaie e di nuovo scontri durissimi all’interno della Dc. All’epoca De Mita ha ricoperto anche l’incarico di sottosegretario agli Interni. […] La mattina del 16 marzo 1978, quando Moro viene rapito e la sua scorta massacrata dai terroristi, si deve votare la fiducia del secondo governo Andreotti. Il Pci ha alcune perplessità sui nomi dei ministri. “Stavo andando in Consiglio dei ministri”, racconta De Mita, che allora era titolare del dicastero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno.

“Mi chiamò Mastella per darmi la notizia. Corsi alla Camera. Poi a Palazzo Chigi. C’era grande smarrimento. […] La tesi prevalente era che non si doveva trattare con le Br, perché la trattativa non era praticabile”. È la linea della fermezza, su cui Dc e Pci si saldano durante tutti i 55 giorni della prigionia di Moro. Inamovibili. […] “Col senno di poi, bisognava trattare, certo, ma non sembrava proprio che ci fosse alcuna agibilità”. 

Con la morte di Moro crolla la solidarietà nazionale. I partiti sbandano. […] Esplode anche lo scandalo P2. Nelle liste della loggia massonica di Licio Gelli compaiono molti democristiani. Il governo Forlani si dimette. “Alla fine del 1981”, spiega De Mita, “organizzammo un’Assemblea con militanti, professori universitari, economisti”. L’Assemblea degli esterni. “Un modo per recuperare il rapporto con il retroterra del mondo cattolico, perché negli anni precedenti ci eravamo un po’ sputtanati. Fu un successo. Io preparai una bozza di intervento conclusivo. Spiegai a Piccoli che se l’avesse pronunciato il segretario sarebbe stato molto più efficace.

Lui lo lesse e si prese molti applausi. Nei giorni successivi Piccoli si presentò nel mio ufficio. Era molto soddisfatto. Mi disse che aveva parlato con la moglie e che dovevo essere io il segretario. Lui parlava sempre con la moglie prima di prendere una decisione. Appena cominciammo le riunioni di periferia per organizzare il congresso, però, Piccoli, galvanizzato dal nuovo clima che si era creato intorno al partito, cambiò idea. Io non sono uno stratega, non mi piace ottenere le cose per forza, però ormai ero in gioco, e allora mossi le mie relazioni all’interno della Dc per giocare”. Siamo alla vigilia del congresso Dc del 1982. […] 

Il partito cerca il rinnovamento ed elegge un segretario che sarà il più longevo della storia scudocrociata: Ciriaco De Mita. […] Nel giugno 1983 si va a elezioni. La Dc ha un tracollo: passa dal 38% al 33%. Il Psi sale. “A quel punto ipotizzai un governo Craxi – racconta De Mita –. C’incontrammo in un convento sull’Appia Antica. Craxi mi disse che lui avrebbe voluto fare metà legislatura a testa. Replicai che ero d’accordo, perché sarebbe stato strano se la Dc, partito di maggioranza, non fosse andata alla guida del governo per l’intera legislatura.

A Craxi ho sempre spiegato che lui aveva due strade percorribili: mettersi a capo del rinnovamento della sinistra o allearsi con me, a condizione, però, di rinnovare insieme le istituzioni”. La vulgata vuole che sia stato Craxi in quegli anni il motore di una possibile riforma istituzionale. “Non è vero – continua De Mita –. I socialisti durante i loro congressi parlavano dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma poi politicamente non aprivano mai un dialogo sulle riforme”. […]

Con Craxi e il Pentapartito si raggiunge una solida stabilità di governo. La Dc, però, fibrilla. Al congresso del 1984, durante il quale De Mita si esibisce in una relazione fiume di più di quattro ore, i delegati vengono alle mani. Da una parte i demitiani e le cosiddette truppe mastellate, dall’altra i cislini di Franco Marini. […] Il 1985 è l’anno […] della proclamazione al Quirinale di Francesco Cossiga. “Andreotti voleva diventare presidente – racconta De Mita –. Alessandro Natta, segretario del Pci post-berlingueriano, però, mi fece sapere che loro non lo avrebbero sostenuto.

Allora, con una liturgia ben preparata, feci in modo che il nome di Francesco Cossiga entrasse nelle terne dei papabili di tutti i partiti”» (Zincone). «“Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: ‘Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui’. 

Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo, d’accordo con Cossiga, che dal Colle avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta”. Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita. “Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle.

Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlagli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: ‘Dì a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui’. Lui morì, io rimasi senza sapere”» (Tommaso Labate). «Alla fine degli anni Ottanta, l’irpino De Mita oltre che segretario della Dc diventa anche presidente del Consiglio. 

In Transatlantico comincia a circolare la battuta secondo cui “Napoli è stata ribattezzata Avellino Marittima”. Il “clan degli avellinesi”, i collaboratori più stretti dello stesso De Mita, diventa perno centrale prima della Regione Campania e poi del governo nazionale. […] Craxi e De Mita, i due pesi massimi della politica italiana degli anni Ottanta, pur facendo parte della stessa maggioranza, si combattono politicamente per un decennio. Sulla stampa si arriva addirittura alla diatriba becera su chi dei due abbia più “palle”.

De Mita: “Credo che fossimo d’accordo sul fatto che le avevamo entrambi. La prima volta che ho incontrato Craxi non mi fece una buona impressione. Stavo camminando per strada con Giovanni Marcora, e lui, che lo conosceva, vedendolo venirci incontro, gli chiese: ‘Dove vai?’. Craxi replicò: ‘A chiavare!’. Nel 1989, poi, Craxi si comportò in modo mediocre per come fece cadere il mio governo. Ma dopo di allora ci fu un rapporto d’incredibile solidarietà umana. Veniva a casa mia, discutevamo”. 

Sono gli anni del Caf, l’asse politico Dc-Psi, tra Craxi, Andreotti e Forlani che governa il Paese, mentre crolla il Muro di Berlino e finisce la storia del Pci. Politiche del 1992. Le indagini di Tangentopoli sono già in corso, ma i partiti non sono ancora consapevoli di che cosa gli si sta per rovesciare addosso. “Allora ero presidente della Dc – ricorda De Mita –. Dopo le elezioni proposi un governo di larga solidarietà, anche con il Pds. Ne andai a parlare con Craxi. Non era disponibile. Spostò il discorso proponendomi di fare il presidente della Camera, ma gli spiegai che avrei preferito guidare la Bicamerale per le riforme”. […]

Dopo la morte di Falcone, i partiti lavorano per la nascita del nuovo governo. “Craxi era convinto di ricevere l’incarico – racconta De Mita –. Voleva assegnare l’Economia a Bruno Visentini. A me disse: ‘Ma quale Bicamerale? Vieni a fare il ministro degli Esteri e giriamo il mondo’. Non aveva capito nulla di quello che sarebbe successo ai partiti con Tangentopoli”» (Zincone). 

Attraversata indenne Tangentopoli, allo scioglimento della Dc De Mita aderì dapprima al Partito popolare, quindi alla Margherita e, nel 2006, al Pd, dal quale uscì però polemicamente solo due anni dopo, quando il segretario Veltroni decise di non ricandidarlo alla Camera, in ossequio all’appena introdotto limite dei tre mandati parlamentari (disatteso, però, per tutti i principali maggiorenti del partito).

De Mita aderì allora all’Udc: fallita nel 2008 l’elezione al Senato, l’anno successivo riuscì però a entrare al Parlamento europeo, mentre nel 2014, tra la sorpresa di molti osservatori e l’entusiasmo dei concittadini, si fece eleggere sindaco della natia Nusco (con il 77,35% dei voti), proponendosi di «ricostruire la comunità». Distintosi nell’ottobre 2016 come pugnace esponente del fronte del «no» per il referendum costituzionale anche in un teso dibattito televisivo con Matteo Renzi, nel novembre 2017 abbandonò l’Udc, in polemica con il riavvicinamento del partito al centrodestra. 

Fondò allora insieme al nipote Giuseppe De Mita, eletto alla Camera nel 2013 nelle file dell’Udc, il movimento «L’Italia è popolare», che in vista delle elezioni politiche del 2018 aderì alla lista «Civica popolare» guidata da Beatrice Lorenzin e alleata al Pd, senza però ottenere alcun seggio. Nell’agosto 2018 De Mita ha annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi alle elezioni comunali del 2019. «La volta scorsa mi sono impegnato come candidato a Nusco ponendomi come obiettivo quello di ricostruire il tessuto valoriale della comunità locale. […] 

Ho subìto una opposizione meschina e insopportabile: mi hanno persino denunciato alla Procura della Repubblica. Ce l’ho messa tutta, ho tentato di promuovere discorsi costruttivi, di coinvolgere quante più persone nelle decisioni. Ma alla fine non c’è stato nulla da fare. E dire che c’ero già passato. […] Nel 1956 provai a candidarmi qui a Nusco. Proposi di portare l’acqua e l’energia elettrica in campagna. Ma fui osteggiato da un movimento locale che invece tutelava interessi, diciamo, diversi. E persi le elezioni. La situazione, dopo oltre sessant’anni, non è cambiata». «Io ragiono in giorni. E spero che i giorni durino più a lungo possibile. Se legassi il mio impegno politico all’essere sindaco a Nusco, qualcuno potrebbe pensare che mi sono rincoglionito»

Ha partecipato alla realizzazione de L’animale politico di Carmine Caracciolo e Roberto Flammia (2018), film-documentario incentrato sulla sua vita

Sposato con Anna Maria Scarinzi (classe 1939), quattro figli: Antonia (1967), Giuseppe (1969), Floriana (1973) e Simona (1974)

«Fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più. A novant’anni ha detto addio al pediatra. “No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato”» (Labate)

«Si sfotte la mia fonetica. Ma lo sa, che in un saggio il linguista Tullio De Mauro scrisse che la mia pronuncia era giusta?» (a Vittorio Zincone)

«“Una volta un professore della Cattolica mi disse: ‘Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero’. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che, se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste ‘nemmeno le briciole’.

Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime, le faccio. Le seconde, no”. 

Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare. “Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare. […]

Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti, ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro: io lo feci cadere nel vuoto”. Si è pentito, poi? “Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi”» (Labate)

«“E di De Mita cosa pensa?”, domanda Giovanni Minoli. La risposta di Gianni Agnelli è di quelle che si condensano subito in una definizione proverbiale, destinata ad appiccicarsi al bersaglio per tutta la vita: “Lo considero un tipico intellettuale del Mezzogiorno, di quella formazione filosofica, di quella tradizione di pensiero tipica della Magna Grecia”. 

Era il 1984. Da allora in poi, non c’è stato articolo di giornale che nominasse Ciriaco De Mita senza prestare omaggio all’insuperabile arguzia dell’avvocato Agnelli e alla sua sottilissima, brillantissima, spiritosissima definizione di “intellettuale della Magna Grecia”. Indro Montanelli, che lo detestava, ne ricavò anche una battuta che faceva ridere: “Dicono che De Mita sia un intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c’entri la Grecia”.

Tra tutti i grandi attori della Prima Repubblica, De Mita non è stato né il più potente né il più popolare, ma è stato certamente il più versatile: protagonista della battaglia per il ricambio generazionale nella Dc sin dai tempi di Fanfani, simbolo di un sistema clientelare e corrotto ai tempi del terremoto in Irpinia, campione del fronte del rinnovamento e della moralizzazione ai tempi dello scontro con Bettino Craxi. Modernizzatore e tradizionalista, riformista e conservatore, rottamatore e rottamato: De Mita, come la Dc, è stato tutto. […] 

Per un certo periodo ha goduto anche di buona stampa. “When De Mita presides, everybody sits up”, scriveva l’Economist nel momento del suo splendore. Eugenio Scalfari puntò tutto su di lui» (Francesco Cundari). 

«Quando lungo il Transatlantico di Montecitorio si spostava, […] non era la sua semplice transumanza, ma quasi trionfale ingresso di un galeone in porto – il braccio ficcato con decisione dentro l’incavo di quello dell’interlocutore, concettosi arabeschi nell’aria, avanti e indietro, la bella convinzione di un suggestivo ragionamento e la triste consapevolezza della scarsità intellettuale dell’altro. 

Dai giornalisti, mica a torto, poco si aspettava: “Dimiche’, io provo a formulare un ragionamento politico. Non so se tu sei in grado di comprenderlo…”. Pausa, occhiata prima dubbiosa e poi rassegnata al cronista che gli offriva il sostegno del proprio avambraccio: “Mah, non credo… Ne dubito molto…”» (Stefano Di Michele).

«Nel giugno 1988, quando era da due mesi il presidente del Consiglio, andò a Toronto per un vertice dei capi di governo. Ad un certo punto, gli statisti che lo ascoltavano, per prima la signora Margaret Thatcher, pensarono di aver dei problemi con l’auricolare. Invece era l’interprete di Ciriaco che aveva gettato la spugna, stroncato dalla suprema difficoltà di tradurre in inglese i ragionamenti demitiani» (Giampaolo Pansa) 

«Non bisogna mai confondere la condizione reale con il desiderio personale». «Sono il solo politico che ha allevato classe dirigente. Quando mi elessero, in provincia di Avellino c’era un solo deputato. Non è colpa mia se a ogni elezione ne eleggevo uno nuovo. Ma era tutta classe dirigente». «Gli uomini hanno un pezzo di immoralità, tutti. Poi la affrontano, la risolvono, a volte prevalgono, a volte soccombono. Ma nessuno è una vergine»

«Pure Gorbaciov guardava al modello di partito democristiano italiano come a un riferimento. […] Nella mia visita in Urss da presidente del Consiglio nell’ottobre del 1988, stabilii con lui un rapporto per niente protocollare ma molto amichevole, e mi confessò che guardava con interesse alla nostra forma di partito. Gorbaciov amava l’Italia e la democrazia, puntava a inserire straordinari elementi di novità nel sistema sovietico, e soprattutto era convinto che senza spiritualità non c’è l’uomo, la spiritualità ne è la vera sostanza.

Poi l’Urss scelse Eltsin al posto suo, e abbiamo visto come è andata». «Il merito della Dc non è nelle cose fatte; è stato creare la democrazia in Italia, portare su posizioni democratiche un popolo istintivamente reazionario». «La Dc in realtà non è finita per colpe. La Dc è finita perché il Padre Eterno l’ha punita: vedendo che avevamo esaurito la grande motivazione ideale, negli ultimi anni mandò a dirigere il partito persone poco competenti»

«Io sono uno di quelli che ha lottato per assegnare alla sinistra un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra democrazia. Finita questa storia democristiana che molti vogliono solo negativa, mi sapete dire che cosa è successo dopo? Chi è arrivato?». «È finita la cultura della sinistra: in Italia ha esaurito il suo ruolo, lasciando un Pd che è una superstizione»

«A me non sembra che vi sia un governo. Certo, noto che vi sono persone al comando differenti per intelligenza ed educazione, ma le quali pensano che la soluzione del problema sia l’individuazione del problema stesso. Le sembra possibile?» (ad Angelo Agrippa, nell’agosto 2018). «Soltanto col pensiero si esce da questo periodo. 

“Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”, disse una volta Moro. Vale ancora più oggi che la volta in cui Moro lo disse»

«Anziano? Ricordo che senza memoria storica non si può costruire il futuro». «Mi sento più giovane di tutti, anche di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi». «L’età si misura dalla testa: se funziona, l’età non c’è; quando non funziona, l’età c’è. La testa è garantita per me dal Padreterno, per gli altri dalle leggi biologiche» (a Enrico Fierro). «Solo chi si arrende è vecchio in politica»

«Quando iniziò il declino della Dc, e a un convegno si discuteva su quello che bisognava o non bisognava fare, chiusi il mio intervento citando un poeta spagnolo: “Quando morirò, seppellitemi con la mia chitarra”. Da allora sono passati quasi trent’anni. E, visto che sono ancora in tempo per cambiare idea, cambio il messaggio. Quando morirò, seppellitemi con un biglietto in cui c’è scritto “Sono stato democristiano”. Aspetti. Non “sono stato”. Nel biglietto ci dev’essere scritto “Sono democristiano”. Al tempo presente» (a Tommaso Labate).

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Redazione Online del Corriere della Sera il 26 maggio 2022.   

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile scorso a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore a seguito di una caduta in casa, lo scorso febbraio. Nato a Nusco (Avellino) nel 1928, nella sua lunga carriera politica è stato presidente del Consiglio dal 1988 al 1989, segretario e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1982 al 1989, quattro volte ministro e parlamentare per un’intera generazione. Il suo ingresso nella Dc risale al 1953: eletto deputato per la prima volta nel 1963, nel 1968 era entrato a far parte per la prima volta in un governo come sottosegretario all’Interno. Diverse le cariche ministeriali tra il 1973 e il 1982. Era sindaco di Nusco dal 2014. «Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili. E che ha investito come pochi altri sull’apertura della politica ai giovani in un tempo in cui avveniva esattamente l’opposto. Tanti, intensi ricordi», lo ricorda su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene», ha aggiunto il ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Non eravamo pronti, non siamo pronti. Oggi mi sento disorientato, da domani parleremo dello statista, del leader, e avremo da parlarne per tutto il resto della nostra vita. Ora è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla signora Annamaria e ai suoi figlioli», afferma il vice presidente del gruppo di Fi alla Camera, Gianfranco Rotondi.

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto oggi nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. 

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile scorso a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore a seguito di una caduta in casa, a febbraio. 

Nato a Nusco (Avellino) nel 1928, figlio di un sarto, si laureò in Giurisprudenza all’università del Sacro cuore di Milano e lavorò all’Eni di Enrico Mattei. Nella sua lunga carriera politica è stato presidente del Consiglio dal 1988 al 1989, segretario e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1982 al 1989, quattro volte ministro e parlamentare per un’intera generazione. Il suo ingresso nella Dc risale al 1953: eletto deputato per la prima volta nel 1963 (vi rimase per 30 anni, diventando un protagonista della Prima Repubblica), nel 1968 era entrato a far parte per la prima volta in un governo come sottosegretario all’Interno. Diverse le cariche ministeriali ricoperte tra il 1973 e il 1982. Per sette anni rimase leader del partito, fino al 1989, e per un anno fu anche capo del governo. Era sindaco di Nusco, la sua città natale, dal 2014. Del resto, come aveva modo di ripetere spesso, «senza memoria non ci può essere futuro». 

«Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili», lo ricorda su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno», aggiunge il ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Una preghiera per Ciriaco De Mita: al di là delle diverse opinioni, la sua passione per la politica e l’attenzione per la comunità meritano rispetto. Condoglianze alla sua famiglia», ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini. Con De Mita «scompare un grande protagonista della politica italiana. Spesso non ho condiviso le sue scelte e le sue idee, ma ho condiviso con lui anni al Parlamento europeo nel gruppo del Ppe, dove avevamo costruito un bel rapporto umano. Una preghiera», ha aggiunto su Twitter il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. «Ha rappresentato una parte di storia personale e di storia italiana e l’orgoglio, la cultura della civiltà contadina, di arrivare alla gestione del potere nel nostro Paese non con una forma di arroganza, ma nel tentativo di cambiare le cose secondo quel tratto di umanità tipico della nostra gente. In parte fu incompreso», le parole di Clemente Mastella. E anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso «il più sentito cordoglio per la scomparsa di De Mita, protagonista politica italiana, fino all’ultimo impegnato in istituzioni».

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, è morto nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Dal 2014 era sindaco di Nusco, il suo paese natale. 

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino.

Qualche giorno fa, mentre era già in ospedale, lo era andato a trovare un amico che lavora alla Rai. E ne era uscito quasi confortato. «Ciriaco ha momenti di confusione per via delle medicine. Ma quando mi ha visto ha detto: "Quanto sei brutto! Ma prima eri peggio…". Insomma, era lui». Già, quelle parole sarcastiche, che in realtà nascondevano una sorta di affettuosità tagliente, erano lo specchio di questo democristiano arcigno come la sua Irpinia . E così appassionato della politica da averla abbracciata e tenuta stretta per decenni: dal cursus honorum dentro la Dc, a qualche ministero «di spesa», fino a farne nel 1982 al 1989 il contrastato segretario del rinnovamento, compresa una breve parentesi a Palazzo Chigi nel 1988. Ma quel doppio incarico, di leader di partito e di governo, aveva segnato anche l’inizio del suo declino, perché in un partito-femmina come la Democrazia cristiana l’idea che chiunque potesse assumere troppo potere faceva rabbrividire. E soprattutto provocava la nascita di anticorpi spietati. E gli anticorpi, allora, avevano le dita lunghe, le unghie curate e la voce narcotica di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani, che nel 1989 normalizzarono il partito dopo gli anni demitiani. Non che De Mita fosse un oratore brillante. Le sue chilometriche relazioni congressuali ricordavano un po’ quelle di Aldo Moro, suo mito politico e referente ideale e strategico. E spesso le sue interviste erano una croce e una delizia per lo sforzo necessario per renderle meno «ragionate». Eppure è stato un politico di razza: talmente «totus politicus» da avere scelto negli ultimi anni di fare il sindaco di Nusco, il paesino irpino dove era nato e abitava.

La carriera politica

È stato l’ultimo leader scudocrociato a tentare l’estrema operazione di salvataggio di un partito-Stato schiacciato da quarant’anni al potere e da un’Italia e un mondo che cambiavano. Un esperimento ardito e controverso: il «rinnovamento» della Dc dopo il tragico 1978 e l’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse. Fu sua nel 1982 l’idea di inserire degli «esterni» come consiglieri chiamati a rianimare una forza sfiancata dalle logiche di potere. Si chiamavano Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. Romano Prodi, futuro presidente dell’Iri, poi premier, poi presidente della Commissione europea. Fabiano Fabiani, manager e prima direttore del telegiornale della rai. E un costituzionalista mite come Roberto Ruffilli: un galantuomo assassinato alla fine degli Anni Ottanta dal terrorismo rosso. Dovevano essere le avanguardie intellettuali e gli emblemi di un’operazione che, nell’ottica di De Mita, recuperava il contatto con il «retroterra naturale» della Dc: il mondo cattolico. Alcuni provenivano dall’Università cattolica di Milano, dove da studenti squattrinati del Mezzogiorno si erano affacciati su una realtà meno provinciale e creato le basi di un ruolo importante nella politica, nell’economia, nel mondo bancario. Amicizie destinate a durare tutta la vita con personaggi come Gerardo Bianco, l’economista Pellegrino Capaldo, il direttore della Rai Biagio Agnes.

«L'operazione demitiana»

De Mita si trasferì con alcuni di loro in un piccolo appartamento i via Confalonieri 5, a Roma, quartiere Prati. E il suo compagno di stanza, il giornalista Pier Antonio Graziani, ricordava sempre che per scherzo, ogni mattina un gruppetto andava nella sua stanza. E, dopo avergli regalato un galero, il cappello di panno rosso dei cardinali, lo invocava scherzosamente: «Cirì, dacci la benedizione!». E lui, assonnato e pigro, gliela dava. Nel 1982, quel gruppo allargato si ritrovò al potere. L’esito dell’operazione degli «esterni» fu osteggiato e contraddittorio, perché nel 1983 il «decidi Dc» demitiano fece perdere tre milioni di voti al partito: il verbo «decidere» era troppo forte per un partito intriso di cultura della mediazione e del compromesso. Ma la domanda era se quei consensi il partito non li avesse persi già da prima; e se quell’operazione non rappresentasse in realtà una consapevolezza del declino imminente, destinata a prendere corpo traumaticamente con la fine della Guerra fredda; e un tentativo di risposta ambiziosa, di qualità. Il 1983, però, fu usato dagli avversari interni per frenare l’operazione demitiana. E finì per accentuare le logiche di potere anche nella cerchia del segretario. Furono gli anni in cui si parlò di «clan degli avellinesi»; in cui il cinismo del padrone della Fiat Gianni Agnelli bollò De Mita come «un intellettuale della Magna Grecia».

Lo scontro antropologico con Craxi

Eppure, con tutti i limiti e le contraddizioni di un uomo del Sud che voleva modernizzare la Dc, De Mita vide e capì l’inadeguatezza di un modello di sistema politico e di società. In fondo, nel suo scontro quasi antropologico con Bettino Craxi, il leader socialista degli anni Ottanta, si intuiva anche la percezione di trovarsi di fronte qualcuno che aveva capito come e più di lui un’Italia in subbuglio; ma offriva soluzioni «decisioniste», da potere verticale e presidenzialista, indigeste alla cultura democristiana. Era un tentativo quasi disperato di stabilizzare il sistema, scegliendo il Partito comunista come interlocutore, sempre con lo sguardo rivolto alle strategie di Moro. Entrambi, Dc e Pci, dovevano arginare l’ascesa culturale, prima che elettorale, del craxismo. E De Mita, dal suo studio a Piazza del Gesù, più ancora che nella breve parentesi a Palazzo Chigi, fu la prima linea di questa resistenza. In realtà, quando diventò presidente del Consiglio il suo potere aveva già cominciato a erodersi. Stava smottando silenziosamente verso Forlani, Andreotti e proprio Craxi, il nemico. Il compito di provare l’ultima manovra di congelamento di un sistema vacillante toccò a loro, nel 1989. De Mita perse la segreteria, ma rimase a Palazzo Chigi per qualche mese ancora, assediato. E quando gli fu chiesto che cosa ne sarebbe stato di lui senza la segreteria della Dc, rispose d’istinto che bisognava chiedersi cosa sarebbe stata la Dc senza lui segretario. Perfido, Andreotti chiosò la sconfitta demitiana al congresso del partito sostenendo che era così convinto di essere vittima di un complotto da essersi suicidato politicamente per avere ragione. Forse. Ma l’uscita di scena di De Mita confermava una presunzione di eternità del potere democristiano che anticipava il suicidio politico collettivo del partito-Stato. La fine della Guerra fredda lo avrebbe certificato in modo drammatico.

De Mita: «Nel 1985 potevo fare il capo dello Stato, ma amo chiacchierare, e un presidente non può». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Con Cossiga ho rotto nel 1990. Lo portai io al Quirinale disegnando un metodo che faceva scegliere lui. Poi mi voltò le spalle. Chiesi di parlargli prima che morisse, ma non riuscii. 

Riproponiamo questa intervista dell'1 febbraio 2018 nel giorno della morte di Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc aveva 94 anni. 

«Una volta un professore della Cattolica mi disse: “Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero”. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste “nemmeno le briciole”. Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime le faccio. Le seconde no».

Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare.

«Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare».

Magari dice così perché non ha mai avuto la possibilità di farlo.

«Non è così. Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro, io lo feci cadere nel vuoto».

Si è pentito, poi?

«Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi».

Tentare di riavvolgere il nastro dell’esistenza di Ciriaco De Mita con Ciriaco De Mita, che oggi compie novant’anni, è come attraversare un fiume con una barca a remi lasciandosi trasportare dalla corrente. Al mare non ci arriverai mai. Ma la corrente ti porterà in angoli di quel percorso che non pensavi esistessero. Per esempio, fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più.

A novant’anni ha detto addio al pediatra.

«No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«L’amicizia è quella conoscenza approfondita in cui non c’è convenienza. Avviene quando la traiettoria della vita di due o più persone si allontana dalla loro naturale propensione alla solitudine. Per questo è un valore, più che un legame».

Impossibile, quindi, che lei abbia avuto amici veri all’interno della Dc.

«Gli amici li avevo nell’Azione cattolica e all’università».

E nella Dc?

«Le racconto una cosa. Per una vita sono stato in conflitto con Carlo Donat Cattin. Si figuri se, in un rapporto del genere, erano previsti scambi di regali o cose del genere. Invece, poco prima che morisse, a gennaio del ’91 mi arrivarono tre libri sulla storia di Roma con un biglietto firmato da lui. Non diceva nulla di che, tipo “ti chiedo scusa se ti sono arrivati in ritardo rispetto alle feste di Natale…”. Eppure in quelle righe vidi un’intensità umana che andava molto oltre il loro contenuto. Avevo ragione e ne ebbi la riprova nel consiglio nazionale che precedeva di poco il varo di un governo Andreotti. Donat Cattin si alzò e disse: “L’ultimo presidente del consiglio democristiano è stato De Mita”».

Con Cossiga, invece, aveva smesso di parlarsi nel 1990.

«L’avevo fatto io presidente della Repubblica».

Di nuovo l’elezione del 1985, quella che poteva essere sua.

«Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: “Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui”. Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo d’accordo con Cossiga che, dal Colle, avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta».

Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita.

«Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle. Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlagli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: “Di’ a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui”. Lui morì, io rimasi senza sapere».

I suoi detrattori dicono di lei che ha sempre avuto a cuore una cosa: se stesso.

«È falso. La politica di oggi si fa coi programmi. Ma i programmi non contengono la soluzione per la crescita di un Paese. La nascita o la rinascita di un Paese sta nelle parole. Perché le parole contengono le regole. E non esiste programma se prima non ci sono le regole».

Lei le ha sempre rispettate, le regole?

«Ho sempre pensato alle regole e mai a chi dovesse applicarle. Ho sempre pensato alle soluzioni e mai a chi dovesse metterle in pratica. Io ho il pensiero. Una volta che passa quel pensiero, quasi mi disinteresso a chi tocca fare il segretario, il presidente del Consiglio o della Repubblica. Mi è sempre interessato il come, poco il chi».

Se come Scalfari si fosse trovato a scegliere tra Di Maio e Berlusconi, come avrebbe risposto?

«Avrei risposto “nessuno dei due”. Le domande capestro sono proprie dei tiranni. Il saggio se ne chiama fuori».

Lei si sente saggio?

«Saggio o no, io ho sempre fatto delle battaglie di principio. Cosa che, per esempio, non ho mai visto fare ad Andreotti, che ragionava sempre sulla base della sua opportunità. Oggi, a novant’anni, guardo al futuro partendo dal passato. Ed è una cosa che non vedo fare a quelli giovani, che si occupano esclusivamente del presente».

Quanto vorrebbe vivere ancora?

«Le do una risposta. Ma non le permetterò di scriverla».

Ciriaco De Mita è morto, ex premier e segretario della Dc, fu un simbolo della Prima Repubblica. Concetto Vecchio su La Repubblica il 26 Maggio 2022.  

Aveva 94 anni. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, è stato uno dei grandi leader del Dopoguerra.

L'ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto stamattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Lo ha reso noto il vice sindaco di Nusco, Walter Vigilante. A febbraio era stato sottoposto ad un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. Aveva 94 anni e attualmente era sindaco di Nusco, il suo paese.

Ciriaco De Mita, simbolo della Prima Repubblica

C'è stato un tempo, sul finire degli anni Ottanta, in cui Ciriaco De Mita è stato contemporaneamente segretario della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio: praticamente l'uomo più potente d'Italia.

Esponente della corrente di sinistra, veniva dalla provincia profonda. Nusco era la sua Macondo. Figlio di un sarto, dopo il liceo si trasferì a Milano, alla Cattolica (1949-1953), in una stagione in cui l'ascensore sociale funzionava meglio di adesso. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963 vi rimase per trent'anni di fila. Avellino aveva già un leader, Florentino Sullo - un democristiano di raro coraggio che aveva sfidato i palazzinari - De Mita alla fine degli anni Sessanta lo sconfisse e ne prese il posto. Nel 1969 divenne vicesegretario della Dc, quattro anni dopo per la prima volta ministro, all'Industria.

La politica allora era una pazzesca. Si dividevano i buoni e i cattivi in base all'ideologia. C'erano i partiti di massa divisi al loro interno in un groviglio di infinite correnti. Si tenevano congressi con migliaia di delegati che duravano giorni. Milioni di italiani avevano la tessera in tasca. La Dc dominava tutto: dal parastato alla Rai. Il Popolo, il suo quotidiano, nel 1982 costava 4 miliardi e 800 milioni di lire, e ne incassava 702 milioni.

Ciriaco De Mita e la Dc

Per quarant'anni la Dc resse le sorti del Paese. Sembrava immutabile, un monolite invincibile. De Mita la sintetizzò così durante una visita in Guatemala: "Un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c'è l'intervento equilibratore del governo". La definizione è riportata in Piazza del Gesù, il diario compilato dal suo portavoce, Giuseppe Sangiorgi.

Che anni! Che Paese! L'Avellino di Juary giocava in serie A, nel campionato più bello del mondo: dieci campionati di fila, dal 1978 al 1988, che coincideranno, forse non a caso, quasi per intero con il potere demitiano. De Mita fu la rivincita della provincia meridionale. Quando divenne segretario, il 6 maggio 1982, metà città si riversò a Roma per festeggiarlo, ci si faceva raccomandare persino per poter giocare a tressette con lui. Nacque la corrente detta degli avellinesi: Nicola Mancino (poi presidente del Senato), Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, a cui si aggiungerà da Benevento, Clemente Mastella, il giovane responsabile dell'informazione. La campagna celebrava la sua storica rivalsa contro la capitale, Napoli.

Rimase leader del partito per sette anni, fino al 1989, e per un anno pure capo del governo, mentre scorreva una stagione selvaggia, opulenta e crudele. Il Paese rinasceva dopo il buio del terrorismo e scalò le posizioni al punto da diventare la sesta potenza del mondo.

Ciriaco De Mita e il rinnovamento

La parola chiave del suo settennato fu rinnovamento. La Dc del dopo Moro non ritrovava il suo centro, perdeva peso, fiaccata dal malaffare, pesava lo scandalo della P2. Nel 1981 il segretario del Pci Enrico Berlinguer aveva rilasciato a Eugenio Scalfari la sua famosa denuncia sulla questione morale. De Mita reagì. Allevò una nuova classe dirigente, da Sergio Mattarella a Mino Martinazzoli, da Pierluigi Castagnetti a Giovanni Goria (che sarà premier). Grazie a questo sostegno Leoluca Orlando diventò sindaco di Palermo, nell'85, l'alfiere della primavera siciliana. De Mita fu quindi lo scopritore del futuro Presidente della Repubblica, a cui diede le chiavi del partito in Sicilia per emendarlo dai suoi vizi e dalle contiguità con la mafia.

Riuscirà il rinnovamento di De Mita? Fino a un certo punto.

A un certo punto la politica perse slancio, esplose il debito pubblico, fu tutto un duellare con Bettino Craxi, il leader del Partito socialista, a palazzo Chigi dal 1983 al 1987. Craxi e De Mita determinarono la grande narrazione, si tifava o per l'uno o per l'altro. Antonio Ghirelli, il portavoce di Pertini, li descrisse così: "Non potrebbero essere più diversi: cittadino, post-moderno, mondano Craxi; provinciale, tradizionale, familiare De Mita". De Mita dialogava col Pci sulle riforme istituzionali, da cui la Commissione Bozzi (1983), e insieme ai comunisti scelse Francesco Cossiga presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio il 24 giugno 1985. In questo senso De Mita fu l'ultimo erede di Moro.

Ciriaco De Mita, gli aneddoti

Come tanti politici dell'epoca parlava una lingua spesso incomprensibile ai profani. Era il trionfo del ragionamendo. Gianni Agnelli lo bollò perciò come "un intellettuale della Magna Grecia". De Mita si prese una rivincita una domenica pomeriggio al Comunale di Torino, quando, seduto in tribuna accanto all'Avvocato, assistette alla clamorosa rimonta dell'Avellino contro la Juve: da 0-3 a 3-3. Era permalosissimo. Indro Montanelli lo criticò ferocemente più volte, fu pure querelato: quando si ritrovarono faccia a faccia per un'intervista il grande giornalista venne accolto con un "Piacere, Cutolo!".

Ha scritto di lui Marco Follini: "De Mita fu il più concreto e insieme il più astratto tra gli ultimi leader democristiani. Parlava a braccio, a volte senza un riga di appunti, volando alto e seguendo il filo di ragionamenti che potevano apparire fin troppi concettosi e immaginifici. E poi planava sulla realtà prosaica della quotidianità di quel sottosuolo locale e amicale da cui ogni leader politica trae la sua forza". Follini negli anni Settanta fece il suo primo discorso al consiglio nazionale dc, "di rara pochezza", ammetterà poi nel suo libro Democrazia cristiana. Sulle scale s'imbatté poi in De Mita: "Prima di sentirti parlare non ti conoscevo. Ma devo dire che anche dopo averti sentito parlare continuo a non conoscerti".

Con Ciriaco De Mita muore insomma l'ultimo grande protagonista della Prima Repubblica, il simbolo degli anni Ottanta, un'epoca vitale e selvaggia a cui oggi si è tentati di guardare con crescente indulgenza.

Draghi: "De Mita fu protagonista della politica italiana". Letta: "Aprì la Dc alla società e ai giovani". Laura Mari su La Repubblica il 26 Maggio 2022.

Il cordoglio dei partiti e delle istituzioni per la scomparsa dell'ex presidente del Consiglio. Franceschini: "Un grande della Repubblica". Salvini: "Al di là delle diverse opinioni, la sua passione politica merita rispetto".

"Presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, più volte ministro, protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana, fino all'ultimo è stato impegnato nelle istituzioni locali, come sindaco del comune di Nusco. Alla famiglia, le condoglianze di tutto il governo". E' il messaggio di cordoglio per la morte di Ciriaco De Mita inviato da Palazzo Chigi a nome dell'esecutivo del premier Draghi. E tra i primi a commentare la scomparsa è stata anche il segretario del Pd, Enrico Letta. "Un grande leader, davvero appassionato di politica, che ha fatto la storia della politica italiana, protagonista degli anni '80 e ha cambiato la politica italiana - ha sottolineato il dem - Ha reso possibile una Dc che ha tentato di aprirsi alla società e ai giovani, lui esponente della sinistra democristiana, in contrasto con le linee politiche che non condivideva". A ricordare la figura di De Mita anche il ministro della Cultura, Dario Franceschini: "Ci ha lasciato un grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all'ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene''.

Matteo Salvini sottolinea: "Al di là delle diverse opinioni, la sua passione per la politica e l'attenzione per la comunità meritano rispetto" e Ettore Rosato, presidente di Italia viva, ricorda che De Mita è stato "un uomo per cui la politica è stata passione ed impegno. Ha servito il Paese con grandi responsabilità, fiero sostenitore del pensiero popolare come argine alle derive demagogiche". Dello stesso avviso il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, che su Twitter ammette: "Spesso non ho condiviso le sue scelte e le sue idee, ma ho condiviso con lui anni al Parlamento europeo nel gruppo del Ppe, dove avevamo costruito un bel rapporto umano".

Paolo Gentiloni, commissario europeo, ricorda dell'ex Dc "le qualità di un leader politico autentico. L'orgoglio delle radici nel suo territorio. La statura intellettuale. E una straordinaria curiosità per le opinioni e le storie diverse dalle proprie".

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 27 maggio 2022.

Dagli anfratti dei cassetti e dai fondali della memoria riemerge una maschera, di cartoncino lucido e con tanto di elastico, che raffigura Ciriaco De Mita. La disegnò nella seconda metà degli anni 80 Giorgio Forattini e venne acclusa in dono da Panorama per le centinaia di migliaia di lettori, a riprova dell'eccezionale popolarità del leader democristiano. Eppure De Mita non fu mai una maschera, se non nell'accezione, per molti versi drammatica e a suo modo preveggente, che ne aveva dato dieci anni prima Pasolini osservando al telegiornale i potenti democristiani. Per un settennato al potere nella Dc - se il potere ha un valore, cosa di cui si è autorizzati a dubitare - egli fu l'uomo più potente d'Italia.

Di questo ebbe certo consapevolezza, ma strenuamente e contraddittoriamente si opponeva a questo destino, nel suo intimo assegnando il primato, più che al comando, al pensiero, anzi al Pensiero, alle cui virtù tributò di continuo dedizione, ma di cui fece anche sfoggio e forse abuso, sconfinando a tratti nella superbia e indulgendo talvolta al disprezzo. Detta in modo meno aulico: De Mita dava i voti a tutti, forse anche a se stesso, ma in modo più sommesso, anche se intimamente doloroso, vedi la foto stravaccato su un divano con la mano sulla testa dopo la sconfitta elettorale del 1983. 

In qualche modo si poteva permettere una certa quota di boria perché fu l'ultimo grande leader intellettuale all'altezza di un tempo in cui la politica e la cultura non si erano ancora separate. Sul piano politico, di quel suo settennato, si potranno dire le cose più varie, ma è innegabile che De Mita ridiede cuore, senso, grinta e smalto a una Dc che senza Moro aveva perso l'anima. Detta anche qui in termini più brutali: regalò allo scudo crociato altri dieci anni di vita.

Poi, prima di mollare il doppio osso della segreteria e di Palazzo Chigi, illuso poi fatto secco da quegli stessi alleati che da giovane aveva anche duramente contrastato (Gava e Andreotti, un po' meno Forlani con cui sentiva un'affinità generazionale), ecco, nessuno più lucidamente di lui teorizzò cosa avrebbe significato la fine della Dc per l'Italia, il venir meno di quel biblico e mitologico contenimento, fra katechon e vaso di Pandora, un blocco sociale senza cui sarebbero dilagati la mafia, il giustizialismo, la reazione, il berlusconismo, il populismo e così via. 

Ma non fu mai compreso quanto lui avrebbe voluto (cioè tantissimissimo). Peggio: più lui si impegnava nei "ragionamendi" sui massimi sistemi, a volte davvero alti e preziosi, irti com' erano di salti e ribaltamenti; più si esaltava sulla limpidezza della politica, più si sforzava a delineare una "nuova statualità" immaginata fin dagli anni della Cattolica e dalle lotte sotterranee con i vescovi nella sua terra (gli impedirono di candidarsi) e della lunga azione per il centrosinistra, più un potente campo magnetico lo incatenava all'immagine del figlio del sarto di Nusco fattosi boss di provincia e circondato da fedelissimi adoranti. Compiuto manager della miseria, progressista a Roma e clientelare nella sua Irpinia. Fortunata la definizione di Pannella: "Il clan degli avellinesi".

Fu il suo cruccio, ma non il suo camposanto. Ebbe cause giudiziarie con Montanelli e con i comunisti ("De Mita si è arricchito col terremoto"). Fu sbeffeggiato, più che accusato, per la pronuncia impropria e cantilenante, per l'attenzione spasmodica alla propria terra (Napoli condannata a essere "Avellino marittima"), per certi scivoloni da parvenu, la casa faraonica dell'ente pubblico e una famiglia un pochino ingombrante. 

Nulla, s' intende, rispetto a quello che si sarebbe visto poi. Ma lui, tignoso come pochi, seguitò a dare i voti, ad alzare gli occhi al cielo, a declamare autori conosciuti e reconditi e a far la guerra a Craxi lasciando che il Pci rimanesse nel limbo della sua crisi imminente, piccolo grande capolavoro tattico e magari autolesionista, ma così va il mondo per queste faccende.

Arrivato a presiedere il governo dopo averne creati, tollerati e sabotati diversi, si contornò del fior fiore della cultura di governo laico-lamalfiana (Maccanico & Manzella) e forte del suo rapporto privilegiato con Eugenio Scalfari rispose da par suo, e quindi dall'alto, a chi lo combatteva sfottendolo per l'ossessiva mania anti-stress del tressette spizzichino: erano session talvolta superiori alle 10 ore di seguito, sparring partner un signore promosso presidente dell'Iacp di Avellino, Tonino Pagliuca, detto "Sputazzella". 

Il punto è che i leader di solito non se ne rendono conto, ma il sole comincia a tramontare a mezzogiorno, e a Palazzo Chigi Ciriaco era già cotto a puntino. Eppure aveva dato al suo partito, al suo paese e in fondo a se stesso tutto quel che poteva e doveva per avere la coscienza a posto. Ebbe fastidi da Tangentopoli, ma oltre a riuscirne indenne, con qualche immaginazione si può pensare che negli ultimi trent' anni, lui così innamorato di una politica che nel frattempo si era immiserita e poi desolatamente degradata, s' impegnò a diventare saggio. A parlarci, in lunghe telefonate di allegra pignoleria, risultava curioso e spiritoso (lo era più di quanto sembrasse), però mai distaccato, con che la via della sapienza gli restava preclusa, a differenza dal nonno che pure Ciriaco nipote ricordava nei congressi (ed è una delle poche cose che restano impresse in discorsi che duravano anche quattro cinque ore).

La maschera di Forattini dice fino a che punto De Mita incrociò la mediatizzazione della politica. Eccolo: la coccia pelata, le basette, il naso a patata, la bocca sottile. La fisiognomica dell'intelligenza trasmette un messaggio agrodolce. I ricordi, anche personali, lasciano una tenerezza che vale più del potere. La povertà del presente ci ricorda che uomini così si possono salutare addirittura con riconoscenza.

È morto Ciriaco De Mita, ex segretario Dc e presidente del Consiglio. Il Domani il 26 maggio 2022

È morto questa mattina alle 7 Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario della Democrazia cristiana. Aveva 94 anni. Lo ha reso noto il vicesindaco di Nusco, in provincia di Avellino, città dove De Mita era nato e dove era sindaco al secondo mandato. Lo scorso febbraio De Mita era stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura di un femore, dopo una caduta in casa. Ad aprile era stato poi ricoverato a causa di attacco ischemico.

Esponente della corrente di sinistra della Dc, uno dei grandi notabili intramontabili della prima repubblica, era soprannominato “l’uomo dal doppio incarico” perché per un periodo era stato in contemporanea presidente del Consiglio (fra il 1988 e il 1989) e segretario Dc (1982-1989). 

Dopo lo scioglimento del suo partito, De Mita è rimasto in politica seguendo gli eredi della corrente di sinistra del partito nel percorso che li avrebbe portati a fondare il Partito Popolare, la Margherita e infine a confluire nel Pd.

Ciriaco De Mita ad un evento della Dc negli anni 80.

Nel Partito Democratico però rimane poco, in polemica con la regola che all’epoca imponeva un tetto di tre legislature e che gli avrebbe impedito di partecipare alle elezioni del 2008.

Si sposta così nel centrodestra entrando nell’Udc, il partito dove sono confluiti i suoi antichi rivali democristiani di destra, con i quali viene eletto al Parlamento europeo. Nel 2014, quando in piena epoca della “rottamazione” renziana si candida sindaco del suo paese natale a 86 anni, per De Mita arriva una seconda ondata di notorietà. Schieratosi per il “no” al referendum costituzionale del 2016, affronta l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi in un dibattito televisivo.

«È stato protagonista della vita parlamentare e politica italiana», ha detto il premier Mario Draghi. Ciriaco De Mita era nato il 2 febbraio 1928 a Nusco.

Mastella: «De Mita maestro di molti, ma alla fine anche i suoi popolari non lo vollero». DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 26 Maggio 2022.

Il sindaco di Benevento: «Mi fece deputato a 28 anni, il nostro fu un grande innamoramento. Finì con la fine della Dc. Lui scelse i popolari. Lo avvertii che quegli amici avevano idee un po’ moralistiche, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono»

È lungo l’elenco dei nomi della classe dirigente che Ciriaco De Mità formò, nei decenni. La parte più consistente è certamente quella regionale, a cui il leader della Dc scomparso stamattina all’età di 94 anni - che fu segretario per sette anni, dal 1983 al 1989, il più longevo segretario, più di De Gasperi e di Fanfani, e sindaco della sua Nusco dal 2014 fino a oggi - si dedicò per tutta una vita. Sono nomi meno conosciuti di quelli nazionali, che a loro volta sono moltissimi.

Uno dei più noti è Clemente Mastella. Che ricorda come iniziò quel sodalizione che durò fino alla fine della Dc: «Avevo 28 anni quando divenni deputato, nel '76, grazie a lui. Gli avevo scritto una lettera, animavo un gruppo di amici legati al Concilio, eravamo cattolici democratici. Ma non eravamo iscritti alla Dc, che per noi era troppo conservatrice. Lui venne a trovarci e dialogammo. Poi ci fu una forma di innamoramento fra lui e me. Divenni vicesegretario della Dc regionale. Riconobbe in me un po’ di talento. Molti non lo ricordano ma grazie a lui Romano Prodi divenne presidente dell’Iri, e qualche anno dopo Giovanni Goria divenne presidente del Consiglio. Devono a lui Pier Luigi Castagnetti, Bruno Tabacci. E Sergio Mattarella, che da lui fu spinto ad impegnarsi in politica e che nel 1984 lo mandò a fare il commissario della Dc in Sicilia»

E Nicola Mancino, e Gerardo Bianco.

Sì ma loro sono la classe dirigenti di qui, nostra. La verità è che abbiamo esportato un modello di comportamento politico da qui, dalla Campania, all'Italia. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi. Fummo contrastati dai poteri forti.

I poteri forti contro di voi che eravate potentissimi?

Lo fummo. Perché il fatto che arrivavamo dalla provincia non piaceva. Figuriamoci: a me hanno contestato il fatto di essere sindaco di Benevento perché vengo da Ceppaloni. E così se venivi dall'Irpinia o dal Sannio, guai ad arrivare ai vertici del potere. A De Mita veniva contestato persino il modo di parlare.

Non è che fosse chiarissimo. Era una scelta?

Nessuno può dire che avesse problemi di grammatica, era un uomo coltissimo. Gli veniva contestata la pronuncia. Ma chi voleva capire, capiva. Poi certo, lui faceva ragionamenti politici e c'è chi la politica non la capisce. Per lui la politica era con la maiuscola, era la filosofia della politica. De Mita era un leader, un maestro, un riferimento. Altrimenti non sarebbe arrivato a prendere 200mila voti. E noi demitiani eravamo l'elemento trasmissivo dei suoi orizzonti politici. La sua fu una scuola. Avevamo l'orgoglio della nostra intellettualità. Aveva studiato Sturzo e De Gasperi, ma anche Gramsci. Fu un grande innovatore, ebbe grandi intuizioni.

Il doppio incarico, per esempio: fu segretario e presidente del consiglio, l'unico precedente di Matteo Renzi.

Fu una scelta contestata. E gli imposero di scegliere. Ma oggi tutti i leader europei hanno il doppio incarico.

La sinistra di base della Dc, di cui lui era leader, vide prima degli altri anche la nascita del potere di Silvio Berlusconi. 

Con Berlusconi ebbe sempre un rapporto controverso. Io invece avevo un atteggiamento più tranquillizzante. Cercavo di spiegargli che come la Fiat trattava con i repubblicani e i socialisti, noi avremmo dovuto trattare con Berlusconi, ma senza sottomissioni.

Direi peggio che controverso: nel ‘90 i ministri della sinistra Dc si dimisero contro l'approvazione della legge Mammì.

Sì, io non lo convinsi e con Berlusconi non si intesero mai. Poi anche noi ci dividemmo, quando la Dc finì. Io feci il Ccd con Pier Ferdinando Casini e invece lui si scelse con il partito popolare. Lo avvertii che quegli amici avevano un'idea un po’ moralistica, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono. Fu un’amarezza per lui. Ci sentimmo ancora per molto tempo, anche quando fui ministro di Berlusconi. Poi ci perdemmo. Ma quando nel 2016 mi candidai a sindaco di Benevento venne a trovarmi.

De Mita lascia tanti allievi tuttora attivi in politica?

Lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all'epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l'attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto. Al fondo l’accusa che gli è sempre stata rivolta è quella di interessarsi ai problemi delle nostre realtà. Ed è un errore, perché la vocazione del parlamentare è proprio quella di rispondere ai bisogni di una comunità. Era la sua scelta, e l'ha portata fino in fondo, fino alla fine. Aveva una clientela, ma era una sana clientela.

Come è fatta una clientela "sana".

È fatta da chi non ha riparo nelle istituzioni e cercava il politico per avanzare nella società, magari attraverso un figlio che aveva studiato ma non trovava nessuna altra possibilità. De Mita aprì un varco anche per le zone interne, penso alla Fiat di Grottaminarda. Grazie a lui per la prima volta si parlò delle zone interne della Campania.

Fabio Martini per “la Stampa” il 27 maggio 2022.

Pochi, come Clemente Mastella, hanno conosciuto politicamente Ciriaco De Mita e in questa intervista a La Stampa, l'ex pupillo racconta una storia italiana, di quelle che resero grande il Paese tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, la storia di un ragazzo dell'Irpinia che, passo dopo passo, diventò presidente del Consiglio. Dice Mastella: «Con De Mita si chiude un ciclo a suo modo "glocal": un leader che era riuscito a trasferire la cultura del villaggio dell'entroterra campano al governo dei processi politici nazionali. Per quegli anni fu un unicum».

Irpinia anni Cinquanta: ce la possiamo immaginare?

«No. De Mita viveva in una zona dove c'erano una Dc clericale e una Chiesa pre-conciliare. Questo lo portava ad essere spesso in dissenso. Lo chiamavano "comunistello di sacrestia", una definizione che ricordo perché 20 anni dopo la usavano anche per me. La prima volta non fu neppure eletto. Ci rimase male ma non si disamorò».

Un giovane aspirante deputato come si faceva strada?

«Quando partecipai al mio primo congresso della Dc di Benevento, dissi a mio padre: "non venire, dirò cose ardite". E invece venne De Mita a sentirmi, io ero emozionato e gli dissi: "Non riesco a parlare! "».

Lei come lo chiamava? Onorevole?

«Si figuri che gli davo del voi! Ma poi si sviluppò un rapporto di paternità politica ed umana. Potevi capire, non capire, ma si pensava. Il voi lo superai, dicendogli: "onore', tutti le danno del tu e la gente non capisce perché l'allievo prediletto continua col voi!». 

Nel 1976 lei entra nella mitica cordata di De Mita e ad appena 28 anni è eletto deputato; come riuscì a battere la concorrenza?

«Di me gli piaceva questo dato di giovinezza, accoppiata a una dose di intelligenza che riteneva io avessi. Io venivo da un paesino che portava poche preferenze eppure fui scelto tra tanti. Lui, Bianco, Gargani ed io, alle elezioni del 1976, ci presentammo con questa quaterna 1-9-7-6. Alle Europee 1988 prese un milione di preferenze. Mi chiamò col suo solito intercalare: "Dove sei? ". E io: "Ma dove vuoi che stia? A far follie? Sono distrutto!"». 

Quando De Mita era il potente segretario della Dc, gli interessavano più la Rai o i giornali? Il suo rapporto con Eugenio Scalfari?

«I giornali gli interessavano più della tv. Ottimo il rapporto con Scalfari. Una volta lo accompagnai io a Nusco. Condividevano l'ostilità per Craxi». 

Con Craxi De Mita perse il duello: quali erano i veri rapporti?

«Con Craxi in pubblico si combattevano, ma ogni tanto si appartavano senza che nessuno sapesse dove fossero. Andavano in un convento di suore sull'Appia Antica. Tra di loro c'era un riconoscimento reciproco di intelligenza».

Berlinguer?

«Ottimo rapporto, attraverso Tonino Tatò. Quando Berlinguer ebbe l'ictus fatale, chiamai De Mita alle 3 del mattino e lui mi rispose: "Una tragedia. Per tutti"». 

Congresso Dc 1989, in campo le truppe mastellate: la vera storia?

«Martinazzoli aveva avuto spontaneamente 17 minuti di applausi e per De Mita volevamo arrivare a 18! Ne mancavano due, io ero esausto, stavo per cadere ma poi ce la facemmo».

A lui quanto davano fastidio gli sfottò sul suo accento irpino?

«Era coltissimo. Gli veniva contestata la pronuncia. Forse gli dava fastidio, ma non lo ha mai ammesso. Diceva: se io parlo così qual è il problema?». 

Il ritorno a Nusco come sindaco?

«Non era come il ritorno dei salmoni alle origini, ma c'era la politica come dovere di pensare alla propria comunità. Lui pensava che meritava di essere aiutato il figlio di un contadino che aveva fatto sacrifici e non trovava lavoro. Clientelismo? Era giusto così».

Mastella: «Con De Mita volevo creare la Dc del Mezzogiorno». «Ha rappresentato la speranza politica per le aree interne. Il sequestro Moro e la morte di Berlinguer furono le notizie più dure che gli ho dovuto comunicare». MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

«Con Ciriaco De Mita volevo creare la Democrazia cristiana del Sud, ma il progetto, per un motivo o per un altro, non riuscì mai a concretizzarsi». Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, parlamentare e ministro democristiano di lungo corso, parla con commozione del suo mentore politico. Con De Mita ha intrapreso buona parte dei sui percorsi politici.

«De Mita – sottolinea – ha fatto scuola». Lo ha fatto nel suo partito con Nicola Mancino, poi presidente del Senato, Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, e poi anche proprio con Mastella, che arrivava da Benevento.

Mastella, lei fu anche capo ufficio stampa della Dc. Ci racconta qualche episodio particolare del suo legame con De Mita?

«Avevo 18 anni e con dei ragazzi cattolici ci dedicavamo alle letture di testi conciliari. Allora eravamo fuori dalla Democrazia cristiana che ci sembrava conservatrice. A De Mita scrissi una lettera, in cui gli spiegai queste cose, per invitarlo a parlare da noi. E lui venne. Ebbi poi con lui un dialogo fitto. E mi ricordo che venne a sentire al congresso provinciale della Dc in cui fui sconfitto. Io gli davo del “Voi”. E in quella occasione De Mita mi disse “siccome tutti ritengono che fra lei e me ci sia un rapporto eccezionale, facciamo perlomeno finta di darci del tu”».

Cosa ha rappresentato De Mita per il Sud e la Campania?

«È stato una speranza politica per le aree interne. De Mita ha rappresentato una parte di storia personale e di storia italiana e l’orgoglio identitario, la cultura della civiltà contadina, di arrivare alla gestione del potere nel nostro Paese non con una forma di arroganza, ma nel tentativo di cambiare le cose secondo quel tratto di umanità tipico della nostra gente. In parte fu anche incompreso. I suoi discorsi erano avvolgenti e esprimevano una naturalezza della politica di cui si è persa traccia. È stato un vero statista e un grande leader. Ha rappresentato davvero tanto per la Campania e il Mezzogiorno. Da allora non si è più ripetuta una storia analoga per incisività istituzionale e levatura politica».

Ritiene che De Mita sia stato un rinnovatore della politica?

«Non solo è stato un grande rinnovatore, ma anche un maestro che ha lanciato tanti noi giovani di allora, tra cui Giovanni Goria. Io, per esempio, sono diventato parlamentare a 28 anni e mezzo. Ha dato spazio ai giovani, ha attuato gesti di straordinaria novità come la nomina di Sergio Mattarella a commissario della Dc in Sicilia in anni veramente difficili, di Romano Prodi alla presidenza dell’Iri. Devono molto a lui anche Pier Luigi Castagnetti e Bruno Tabacci».

De Mita lascia oggi tanti suoi allievi ancora in attività in politica?

«Direi che lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all’epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l’attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto».

E proprio per questa particolare predilezione per i territori siete stati destinatari anche di dure critiche…

«Sì, lui ed io siamo stati ingiustamente accusati di attenzione eccessiva ai localismi ma l’intuizione era proprio quella di portare il territorio, le zone interne, al centro dell’attenzione del governo. De Mita riteneva, sulla scia del pensiero sturziano, che la politica avesse il dovere di rispondere ai bisogni delle comunità, soprattutto dove questo bisogno è più scoperto».

Secondo lei, De Mita è stato un politico lungimirante?

«Sicuramente sì. È stato lungimirante perché aveva concepito un partito che rispondesse alle esigenze di una società in continua evoluzione. La sua umanità diretta rispetto alle persone portava qualcosa di diverso alla politica. La verità? Credo che abbiamo esportato un modello di comportamento politico dalla Campania all’Italia intera. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi».

Quali sono state le notizie per cui ha dovuto trovare più forza e coraggio da comunicarle a lui?

«Due eventi, uno drammatico e l’altro molto triste. Il sequestro di Aldo Moro: ricordo che restò di sasso quel giovedì di sangue. E poi fu profondamente addolorato quando gli comunicai il decesso di Enrico Berlinguer a Padova. Lo chiamai alle 3 del mattino: gli dissi che era appena morto il segretario del Pci. Lui mi rispose: “Questa è una tragedia per tutti”».

Che rapporti aveva con lui?

«Abbiamo percorso un lunghissimo tratto di strada assieme. Il nostro rapporto è stato sempre eccezionale e cordiale. Poi purtroppo si è incrinato. Io organizzai il Ccd, lui si arrabbiò. E si spostò più verso sinistra…Io gli dissi: guarda che non ti candideranno. E così fu. Alle Politiche del 2008 non fu candidato per via dello statuto del Partito democratico, che puntava ad un rinnovo della classe politica».

E con i rapporti con gli altri big della politica nazionale?

«Ricordo che con Bettino Craxi, a distanza, mal si sopportavano. Ma a tu per tu si rispettavano reciprocamente. Invece aveva un eccellente rapporto con Enrico Berlinguer».

De Mita, conoscere la politica per saperla dominare con intelligenza. Creare "nuova statualità", in grado di canalizzare la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole condivise. GERARDO BIANCO su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

«La politica è conoscere le vicende e dominarle con l’intelligenza», così De Mita apriva il suo discorso al XV Congresso della Democrazia Cristiana che lo elesse Segretario del Partito. È stata questa la sua costante convinzione: la politica intesa, appunto, come ragionamento, “freddo e lucido” continuava a dire, per capire gli eventi e trovare le appropriate soluzioni.

Ciò significa creare “nuova statualità”, in grado di canalizzare armonicamente la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole da tutti condivise. La politica per De Mita, la grande passione della sua vita, è, quindi, soprattutto, cultura delle istituzioni.

Se dovessi indicare una data per l’origine, o comunque la “messa a punto” di questa visione della politica come progressiva costruzione e cura dello Stato democratico, risalirei agli anni della sua formazione universitaria nella Cattolica di Milano. Siamo nell’aureo quinquennio degasperiano, tra il 1949 e il 1953. De Mita approdava a Milano avendo già esperienza associativa e politica; conosceva Fiorentino Sullo, l’indiscusso e innovatore leader democristiano dell’Irpinia, era convinto per le sue letture, che bisognava superare lo Stato liberale, ma è nella vivace e raffinata facoltà giuridica della Cattolica, nell’insegnamento del suo maestro Domenico Barbero e dei dialoghi inesausti, anche notturni, con noi puntigliosi colleghi dell’Augustinianum, che egli andò precisando il suo pensiero politico come costruzione costante di regole ampiamente condivise, ma con grande attenzione alle trasformazioni in atto di una società “ribollente” come quella post-bellica, che andavano ben interpretate.

Siamo agli albori dei primi anni ’50 del secolo scorso e dei primi slanci vitali di una rinascita, appunto, dopo la distruzione fascista, che si manifestava a Milano in modo particolarmente vigorosa. Continue erano le scoperte e le innovazioni, dalle mostre pittoriche, ai grandi incontri culturali, ai concerti di leggendari pianisti, alla rinascita del teatro e del cinema che aveva in Mario Apollonio, l’italianista della Cattolica, uno dei più ascoltati ispiratori, mentre si avviava la grande ricostruzione edilizia, e robusta riprendeva la produzione industriale. La città si animava di nuovi negozi, cinema e mostre, a partire da Viale Manzoni, dove eleganti si aprivano al pubblico le vetrine di Motta e di Alemagna.

Dinanzi a tanto dinamismo era inevitabile che la politica cercasse di mantenere il passo, e numerosi erano i circoli e i dibattiti, anche pubblici, in Galleria e in Piazza Duomo. La tradizione del popolarismo e il rilancio della Democrazia Cristiana erano a Milano molto robusti. Ciò non poteva non avere un forte impatto nella “Cattolica” dove consistente era, con Giuseppe Lazzati, la presenza del dossettismo, ma anche di tendenze legate ai Comitati Civici di Gabrio Lombardi. E fu in occasione di una sua conferenza all’Università che De Mita organizzò una manifestazione di netto dissenso che metteva ben in luce la sua concezione anti-integralista della politica, l’ascendenza ideale alla lezione degasperiana, rivisitata da una coscienza più attenta verso le trasformazioni sociali necessarie, a partire dal Mezzogiorno d’Italia che fu un punto fermo della sua vita politica.

Nella logica di questo orientamento “naturale” fu l’incontro di De Mita con la corrente di Base, che proprio a Milano aveva origine, con Marcora e Granelli, e che si apriva a nuovi orizzonti di allargamento dell’area democratica, con un colloquio avviato con il socialismo meneghino nella città fortemente radicato. Nella Base De Mita divenne, per molti aspetti, il teorico della piattaforma politica e istituzionale.

Sulla sua lunga vicenda politica, che ha le radici nell’Irpinia dell’immediato dopoguerra, e nel fervido laboratorio intellettuale dell’Università Cattolica di Milano degli anni ’50, e sul concreto operato politico nelle diverse esperienze di governo e di partito, può addentrarsi solo un’avveduta ricerca storica, scevra da pregiudizi che valuti successi, sconfitte e anche contraddizioni. Ma ciò che si può già affermare è che egli ha sentito la politica come alta vocazione, che indubbia è la coerenza del suo pensiero che si condensò in una dottrina democratica nella quale le “istituzioni pensano e agiscono”, lanciando fortunate formule politiche come il “patto costituzionale” e “l’arco costituzionale”.

A testimoniare l’autentica passione politica v’è la sua biografia. Egli, infatti, non ha mai considerato gerarchie nei ruoli da svolgere, passando, appunto, dai vertici della Repubblica alla guida come Sindaco di un piccolo comune, Nusco, sia pure paese natio.

In un momento storico nel quale sempre più si manifesta la crisi della democrazia rappresentativa e, quindi, del Parlamento, e riemergono tentazioni decisioniste con le proposte presidenzialiste, la lezione politico-istituzionale di Ciriaco De Mita, risulta di grande attualità e ci ammonisce di quanto sia illusoria e pericolosa la soluzione del Governo affidata al leader di turno, favorendo, così, le spinte populiste, invece di costruire lo spirito pubblico e il consolidamento sociale di un popolo.

Questo ragionamento ascoltavo nei lontani anni della Cattolica, l’ho ritrovato, limpidamente esposto, nei suoi libri e l’ho sentito ribadito ancora di recente, nell’estate scorsa. È un insegnamento che resiste nel tempo, perché solido e meditato e che rende De Mita un indiscusso protagonista della tormentata democrazia italiana. Non sempre le decisioni, le scelte, la gestione del potere sono state da me condivise.

Agli anni della profonda intesa, nata negli ambulacri della Cattolica, proseguita nelle battaglie politiche avellinesi e nel cammino del primo, comune decennio parlamentare, sono seguiti periodi di dissenso, ma poi anche di robusto accordo per difendere la storia dei cattolici democratici, al momento della grande frattura buttiglioniana. Diversa ancora è stata la valutazione dello sbocco politico del popolarismo nell’afono movimento pidiessino, ma comune resta la difesa intransigente di una storia politica come quella democristiana che ha costruito la Repubblica democratica dell’Italia, in un quadro rigorosamente europeo.

In questo lungo tempo di alterni rapporti, non si è, comunque, mai spezzato il filo sottile dell’amicizia che ha continuato ad accomunarci, anche nella condivisa profonda amarezza per il tramonto della forza politica, la Democrazia cristiana, alla quale abbiamo dedicato la vita, ma che resta un prezioso serbatoio di dottrine e di metodo politico che può ancora indicare la strada di una nuova, seconda rinascita dell’Italia.

Aloise ricorda il vecchio leader: «Quando vinsi De Mita a carte». Il rapporto con Misasi, la nascita della sinistra di base. Negli anni '80 mandò Mattarella a mettere ordine nella Dc di Reggio. MASSIMO CLAUSI su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022. 

La Calabria aveva Riccardo Misasi e le bastava. Gli ex appartenenti locali della corrente della sinistra di base della vecchia Dc su questo punto sono tutti concordi. In Calabria il leader era Riccardo che con De Mita viveva quasi una simbiosi politica. Merito del vecchio rapporto d’amicizia fra i due, nato addirittura fra i banchi del Collegio Augustinianum ai tempi della Cattolica di Milano. Una fucina della futura classe dirigente democristiana.

Dopo l’esperienza di studi, la leggenda narra che Misasi tornò a Cosenza, con l’idea di svolgere la professione di avvocato, ma fu proprio De Mita a convincerlo a intraprendere una carriera politica che lo vide sempre al fianco del futuro segretario nazionale della Dc. Un rapporto simbiotico fra i due, accomunati dall’idea che la politica doveva sempre e comunque partire da un pensiero forte, da un’analisi. Non era il classico rapporto fra il leader nazionale e il plenipotenziario locale. No, i due erano praticamente sullo stesso piano. Insieme tracciavano le strategie, insieme si posero il problema del rapporto con le altre forze politiche che li portarono a fondare appunto la corrente della sinistra di base, contrapposta alla sinistra sociale di Donat Cattin. Per questo De Mita si interessava poco e con apparente distacco delle vicende politiche calabresi. A quelle ci pensava Riccardo.

Ma guai a pensare che De Mita non seguisse da vicino una delle roccaforti della vecchia Dc. Fu proprio lui, da segretario di partito, ad inviare nell’83 e nel 1987 Sergio Mattarella a Reggio Calabria, prima nelle vesti di osservatore, poi di commissario della sezione reggina della Dc. Erano anni complicati in cui le voci su possibili interferenze della criminalità organizzata nel partito si facevano sempre più insistenti. De Mita e Misasi decisero che quel ragazzo promettente, che molto bene aveva fatto già a Palermo. poteva essere l’uomo giusto per rimettere le cose in riga senza fare troppo rumore.

«Ricordo la gente che affollò il comizio di De Mita a Reggio Calabria nel 1987 – ricorda oggi Peppino Aloise – Anche io ero candidato alle Politiche e con noi c’era pure Ludovico Ligato. Ricordo che De Mita fece un discorso dei suoi: lungo, articolato, complesso. Ma la piazza restò sempre piena ad ascoltare le sue analisi. Certo erano tempi diversi, oggi che imperano i social quel tipo di discorsi non è più nemmeno immaginabile».

Ma Aloise ricorda ancora una grande passione del politico di Nusco: le carte. «Era un amante del gioco delle carte, un campione di scopa e tressette. Era il suo modo di rilassarsi. Un giorno andammo a Nusco a trovarlo e mi sfidò a scopa. Vinsi la prima mano, lui si arrabbiò molto e volle una rivincita. Vinse le altre due partite e poi con un sorriso sornione mi chiese: non è che mi fai vincere apposta?».

Sono tanti i ricordi legati a De Mita di Aloise. Il più esaltante la nascita del primo governo di centrosinistra grazie anche al contributo di Guarasci. «Tutti e tre sostenevano con forza la necessità della cultura come essenziale alla costruzione di una nuova classe dirigente e al riscatto del Meridione. Ricordo con grande emozione i discorsi serrati per la nascita dell’università ad Arcavacata. All’epoca la Dc giocò un ruolo che non sempre gli viene riconosciuto e lo fece proprio grazie a Misasi, De Mita e Guarasci».

De Mita, l'ultimo leader di una politica scomparsa: intuì prima di tutti l’esigenza del cambiamento. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

Ciriaco De Mita è l’ultimo tentativo nobile di valorizzare il cattolicesimo politico come cemento laico della riforma dello Stato e della modernizzazione del Paese, ma che non riuscì perché la Democrazia cristiana e i suoi eredi non potevano più rappresentare il veicolo della nuova sintesi nazionale. Con il senno di poi si è, forse, capito l’errore della contrapposizione frontale a Craxi che impedì il dialogo con un’area di riferimento riformista più congeniale al cambiamento, da tutelare e preservare durante la stagione di decadenza dei grandi partiti che sono stati l’ultima espressione di radicamento della politica nella società. Si dovette piuttosto constatare che non c’era più lo spazio per fare quello che si aveva in mente di fare perché si era esaurita la stagione dei valori di mediazione politica e di cultura diffusa che avevano positivamente segnato i tempi di De Gasperi e di Moro.

Provò De Mita, a ben pensarci, a mettere la sfida del rinnovamento della Dc in un rinnovamento più generale delle istituzioni politiche e economiche del Paese. Per le prime e il disegno di una nuova architettura dello Stato scelse il professore Roberto Ruffilli, tragicamente ucciso da un commando di undici brigatisti rossi, per le seconde partendo dall’economia pubblica che bisognava aprire al mercato il professore Romano Prodi. Che andò alla guida dell’Iri in coppia con Reviglio alla guida dell’Eni, che era di Craxi come Prodi era di De Mita. Per dire che pezzi di dialogo costruttivo iniziale tra i due grandi capi della Dc e del Psi in effetti ci furono.

La verità è che il Paese era già cambiato per capire e fare proprio il messaggio rinnovatore.   Era troppo tardi perché era cambiato il mondo. Nessuno, però, potrà mai togliere a De Mita il merito di avere capito, seppure in ritardo, prima di tutti gli altri la deriva di lacerazione della coesione sociale e di impoverimento competitivo verso la quale il Paese, le sue istituzioni, la sua stessa tenuta sociale e economica, si erano improvvidamente avviati. Neppure Pietro Scoppola, ancora anni dopo,  lo capì fino in fondo perché erano ancora in troppi ad essere convinti non che il cattolicesimo politico avrebbe potuto ritornare ad avere un ruolo positivo di stimolatore del cambiamento sui tempi lunghi, ma addirittura in quelli a loro contemporanei.

Dovettero toccare tutti con mano che il “dominio ecclesiastico” delle parrocchie e delle idee era giunto alla fine dei suoi giorni. Si puntava su una rete di connessione che si pretendeva che esistesse ma non c’era più e ci si illudeva di realizzare il cambiamento allargando l’area di influenza laica dentro quei valori cattolici di modernizzazione mitigandoli, a volte cambiandoli, quasi mai snaturandoli, ma senza mai riuscire ad arrivare a una sintesi effettiva che facesse prevalere le ragioni nobili comuni del futuro dello Stato e dell’economia così lucidamente intuite come ineludibili.

Si dovette fare i conti con il grande dibattito politico-mediatico degli anni 80 mandando all’aria il cuore rinnovatore dello sforzo politico finendo per buttarsi a volte nelle mani della parte più burocratica e conservatrice della Dc. Le grandi intuizioni di Ruffilli e Prodi del riformismo cattolico si scontrarono con un muro invalicabile,   ma pagarono anche il conto – bisogna dirlo – di quell’anima di riformismo cattolico intorno a loro violentemente anti-socialista, che con venature diverse risale perfino a Dossetti,   che ammetteva e perdonava gli errori nel proprio campo ma era affetta da sfiducia costitutiva nei confronti del campo avverso.

Tutto questo non può togliere al segretario della Democrazia cristiana di più lungo corso, al presidente del Consiglio, al giovane studente della Cattolica di Milano con il fratello Enrico prima e al sindaco di Nusco morto “attivo” sul suo campo di battaglia a 94 anni dopo, i tratti assoluti del politico di razza che appartengono ai grandi della Repubblica italiana e quelli di uno dei pochi capi della politica italiana che inseguiva il cambiamento e parlava ai giovani. Il leader riconosciuto di una classe dirigente che ha espresso da Maccanico a Tabacci grandi servitori dello Stato, che ha cercato e scommesso sui professori inseguendone il contributo intellettuale, ma ha lottato fino all’ultimo respiro perché la sua Dc e i suoi eredi più o meno sparpagliati non perdessero il primato della politica e del dibattito pubblico e tenessero alta la bandiera più laica e liberale dei valori cattolici.

Sul Mezzogiorno fu oggetto di molti attacchi ingiusti perché se è vero che la politica, tutta la politica, vive di compromessi, la forza politica spesa da De Mita per lo sviluppo delle zone interne e affinché il  Paese non si dimenticasse in modo miope le ragioni di venti milioni di persone, hanno nel confronto tra queste e le aree metropolitane meridionali e proprio nella ricostruzione post terremoto dell’Irpinia i segni tangibili di un’azione concreta fatta di cose che si toccano e si vedono.

Con il passare degli anni ho maturato una certa allergia per chi privilegia i propri ricordi personali nel raccontare un protagonista della politica e dell’economia. Dirò solo che nel settembre del 2020 guidai un dibattito con De Mita a Sant’Angelo dei Lombardi che accompagnava la nascita a Nusco della Newco SAI, un’eccellenza dell’automotive europea, perché mi aiuta a spiegare qual è l’idea di futuro che ha sempre avuto in testa per la sua terra e per il Mezzogiorno e di quanto fosse forte in questa direzione il suo impegno di sindaco. E ricorderò anche una telefonata che gli feci il giorno della prima nomina di Sergio Mattarella a Capo dello Stato perché mi dicesse qualcosa di lui. Mi colpì la  prima cosa che buttò lì: «È una persona seria. Non è vero che è un uomo cupo, quante volte abbiamo riso e scherzato, quante volte ci siamo presi in giro». Poi, aggiunse: «Viviamo tempi in cui la politica è fatta di parole e di speranze non motivate, si sono perse le radici, ebbene Mattarella è un uomo concreto e lo vedrete all’opera, con i suoi criteri oggettivi saprà mettere in difficoltà chi fa le cose sbagliate, chi cerca le scorciatoie».

Mattarella non ha solo messo in difficoltà chi fa le cose sbagliate o cerca le scorciatoie, ma ha salvato il Paese nel momento più buio della grande crisi pandemica e economica con mano ferma, giocando al momento giusto la carta estrema Draghi. Il metodo seguito, però, è quello indicato da Ciriaco e, se gli italiani amano Mattarella così tanto, è anche perché hanno capito che non è un uomo cupo e sa dare alle cose e alle   persone il giusto peso. Ha saputo farlo anche su di sé da Capo dello Stato con la giusta leggerezza quando era necessario.

È morto l'ex premier De Mita, il diccì che non si fece rottamare. Francesco Curridori il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Si è spento all'età di 94 anni Ciriaco De Mita, 66 anni passati dentro la Democrazia Cristiana da militante e da segretario, poi l'ingresso nel Pd e una carriera politica finita da sindaco di Nusco, sua città natale, tra le fila dell'Udc.

Con Ciriaco De Mita se ne va un altro pezzo di storia della Democrazia Cristiana. Un uomo che ha fatto della sua città natale, Nusco, il suo feudo elettorale e dove ricopriva la carica di sindaco dal 2014.

Il 'basista' De Mita entra in Parlamento

L’attività politica di De Mita inizia però nel 1963 quando all’età di 35 anni entra in Parlamento tra le file della sinistra “di Base”, corrente della Dc fondata da Enrico Mattei e da Giovanni Marcora. Un anno dopo, dentro la ‘balena bianca’ si consuma una lotta intestina per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Da una parte ‘la destra’ del partito sostiene Giovanni Leone quale candidato ufficiale, da ‘sinistra’, invece, spunta la candidatura di Amintore Fanfani e ‘i franchi tiratori’ prendono il sopravvento. Alla fine venne eletto il socialdemocratico Giuseppe Saragat e Leone ricorderà sempre che, all’epoca, due capicorrente ribelli come Donat Cattin e De Mita “si facevano pubblico vanto di non avermi votato” e perciò furono temporaneamente sospesi dalla Dc per “atti di rilevante indisciplina politica”.

La 'rottamazione' di San Genesio

Ma è nel 1969 che l’attivismo di De Mita si fa sempre più fervente. Assume l’incarico di sottosegretario del ministero dell’Interno nel primo governo di Mariano Rumor e lancia la proposta di un patto costituzionale col Pc, antesignano del compromesso storico. A fine settembre promuove il convegno di San Genesio, a pochi chilometri da Macerata, dove stipula, insieme ad Arnaldo Forlani, il “patto dei quarantenni” per ‘rottamare’ Aldo Moro e Amintore Fanfani e contendersi loro la leadership del partito, come, poi, avverrà negli anni successivi. Moro, riguardo a tale progetto, disse: “L’onorevole De Mita sembra avere l’idea fissa di emarginare Fanfani e me. Potrei ringraziarlo a nome della mia famiglia. Ma le persone valgono non per quello che hanno ma per quello che sono”. Il ‘patto di San Genesio”, malgrado le parole di Moro, dà i suoi frutti e, sempre nel 1969, Forlani assume la carica di segretario del partito e De Mita quella di vicesegretario fino al 1973.

Negli anni ’70 assume la guida di più dicasteri: prima ministro dell’Industria, poi del commercio con l’estero e, infine, quello per il Mezzogiorno. È in questi anni che De Mita fa dell’Irpinia il suo feudo elettorale, scalzando dal ruolo di ‘ras locale’ della Dc, il ministro Fiorentino Sullo, cui sua moglie faceva da segretaria. La rottura tra i due esponenti della sinistra democristiana porta Sullo alle dimissioni da ministro e all’abbandono del partito. Una decisione che consente a De Mita di ottenere più di 100mila preferenze alle Politiche del 1976 e prendersi la rivincita nei confronti di quel Sullo che nel 1958 gli fece mancare i voti per entrare in Parlamento.

De Mita segretario Dc e presidente del Consiglio

Gli anni ’80 decretano la consacrazione definitiva di De Mita che nel 1982 viene eletto segretario della Dc con il 57% dei voti contro il 43% ottenuto da Forlani, sostenuto dalla ‘destra’ del partito. Una vittoria che dà la possibilità agli ‘irpiniani’ Nicola Mancino e Gerardo Bianco di calcare la politica nazionale e ai giornalisti come Gigi Marzullo e Francesco Pionati di entrare in Rai. Un giovanissimo Clemente Mastella diventa portaborse del segretario De Mita il quale ‘lancia’ anche Romano Prodi nominandolo presidente dell’Iri.

Appena eletto, De Mita, nel suo primo intervento, spiega la sua strategia politica. È arrivato il momento di accettare il fatto che l’epoca del compromesso storico è finita e si deve cercare una sponda verso il Psi di Bettino Craxi. È la nascita del ‘pentapartito’ che, però, inizialmente viene maldigerito dall’elettorato democristiano tanto che le Politiche del 1983 segnano un calo di 5 punti per la Dc che si ferma al 32,9%. De Mita stipula il ‘patto della staffetta’ con Craxi che prevede che il secondo, a metà legislatura, lasci Palazzo Chigi in favore del primo. Il segretario socialista, arrivati al dunque, si rifiuta di cedere la poltrona di primo ministro e si apre una crisi che porta il Paese alle elezioni anticipate del 1987 e l’anno successivo De Mita diventa il primo politico diccì a coprire sia la carica di segretario Dc sia quella di capo del governo. Nel 1988 scoppia il caso ‘Irpiniagate’ dopo che il Giornale pubblica un’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati alle popolazioni del terremoto del 1980 e De Mita querela il direttore Indro Montanelli per un editoriale in cui veniva definito “il padrino”. La risposta viene affidata a un ‘Controcorrente’ in cui Montanelli scrive: "Di rischi gravi, questa querela ne comporta uno solo: che De Mita la ritiri”.

La svolta anti-berlusconiana e l'ultima battaglia contro la riforma costituzionale

Nel 1989 De Mita, nel corso del 18esimo Congresso del partito, lascia la segreteria della Dc che viene affidata ad Arnaldo Forlani e, grazie all’amnistia del 1990, non verrà sfiorato dall’inchiesta Tangentopoli. Nella sua relazione finale di quel Congresso, De Mita tratta temi ancora attualissimi: dalla riforma costituzionale del bicameralismo perfetto alla modifica del sistema elettorale, con la Dc divisa tra ‘proporzionalisti e uninominalisti’. Nel 1990, De Mita si schiera contro il voto di fiducia sulla legge Mammì e costringe i ministri della sinistra Dc (tra cui c’era anche Sergio Mattarella) a dimettersi. In quei giorni dichiarò al giornale di partito ‘Il Popolo’ di non essere “né a favore né contro Berlusconi. Per la democrazia però è rischioso che gli strumenti di comunicazione siano in mano a una sola persona”.

Era chiaro quale percorso politico avrebbe seguito il leader dei ‘basisti’ nella Seconda Repubblica. Prima Ppi, poi la Margherita e, infine, il Pd dove resterà fino al 2008 quando l’allora segretario Walter Veltroni decide di non ricandidarlo e lui passa con l’Udc. Una scelta che Matteo Renzi gli rinfaccerà nel corso del dibattito sul referendum costituzionale del 2016 avvenuto durante uno speciale di Enrico Mentana su La7. Renzi, che in gioventù fu proprio immortalato in una celebre foto in compagnia di De Mita, gli dirà:“La tua idea di politica è che cambi partito quando non ti danno un seggio”, dimenticandosi che, in occasione delle Regionali 2015, proprio il voltafaccia dell'ex segretario della Dc aveva permesso a Vincenzo De Luca di battere il presidente uscente Raffaele Caldoro, sostenuto da De Mita fino al giorno prima della chiusura delle liste. Battere "il maestro" sul terreno della coerenza non è un'impresa facile nemmeno per un allievo come Renzi che, nemmeno in quel dibattito televisivo, riuscirà a prevalere sullo scaltro ex democristiano. De Mita replicherà con fermezza:“Questa è una volgarità che non mi aspettavo soprattutto se detta da chi in politica le ha inventate tutte. Tu non hai diritto di parlare di moralità della politica. È un mestiere che vuoi gestire in maniera autoritaria”. Negli ultimi anni aveva tenuto un profilo defilato e, anche per il sopravanzare dell'età, aveva smesso di occuparsi della politica nazionale. Il 10 aprile scorso era stato ricoverato al Moscati di Avellino per un attacco ischemico e, una volta ripresosi, era tornato a Villa dei Pini, la clinica di riabilitazione del capoluogo irpino dove De Mita si è spento stanotte e dove si trovava da quando, qualche mese fa, era stato operato al femore.

Omaggio a De Mita dal "colonnello" Mattarella. L'eterno potere della sinistra democristiana. Stefano Zurlo il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.

La Dc non c'è più, ma lo zoccolo duro della sua classe dirigente resta ai vertici.

Il partito, di cui fu leader negli anni Ottanta, non gli è sopravvissuto ma quel pezzo di classe dirigente a lui legata, la sinistra Dc della Base, è ancora oggi il sale di parte dello schieramento politico. Contraddizioni e intuizioni di Ciriaco De Mita, potente e ingombrante nella Dc che lentamente si spegneva. Un uomo che respirava la modernità, forse l'ultimo a tentare con la stagione degli «esterni» il rinnovamento impossibile di un mondo che si andava dissolvendo, sotto i colpi di una cultura sempre più spregiudicata e lontana dalla tradizione e in vista dell'imminente crollo del Muro di Berlino.

Lui abita un partito vecchio ma non si arrende: ha studiato alla Cattolica, fucina della nomenklatura del Paese, ha respirato il personalismo di Maritain, poi interpretato da un'ala del mondo cattolico come apertura alle ideologie del ventesimo secolo, ha iniziato la sua carriera all'ufficio legale dell'Eni, con Enrico Mattei, lo stesso mitico presidente del cane a sei zampe che finanzia la Base di Giovanni Marcora.

Gli anni Ottanta sono il decennio in cui questo crogiolo diventa una linea di potere e un tentativo di pilotare la modernizzazione dell'Italia. Sette anni alla segreteria della Dc, dall'82 all'89, l'alleanza che in realtà è una rivalità accesissima, antropologica, con Bettino Craxi, la rottura del cosiddetto patto della staffetta con i socialisti, le elezioni anticipate nell'87, l'amicizia, almeno per un certo periodo, di Eugenio Scalfari, timoniere della corazzata Repubblica e bandiera dei progressisti, la conquista di Palazzo Chigi. Prima con la breve ascesa di Giovanni Goria, poi fra l'88 e l'89 De Mita è in simultanea capo del partito e presidente del consiglio.

Tanto. Troppo. È così nell'89 il Caf, insomma Craxi, Andreotti e Forlani riconquistano le chiavi del Palazzo; i due big dello scudo crociato normalizzano il partito e tutti e tre offrono poi il collo al boia di Mani pulite che taglierà le teste della Prima repubblica.

Sette anni al vertice, dunque. Nell'85 Il Mondo colloca De Mita sul podio fra gli uomini più potenti d'Italia, e in quel periodo Gianni Agnelli spiega in tv, a Mixer, che De Mita gli pare un tipico intellettuale della Magna Grecia. Una definizione che lo farà imbestialire e gli rimarrà appiccicata tutta la vita.

Nell'82 è lui a inventare, pescandolo nel retroterra degli «esterni», Romano Prodi che catapulta alla guida dell'Iri, e con lui chiama un manager del calibro di Fabiano Fabiani, Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, Roberto Ruffilli, il costituzionalista che verrà assassinato dalle Br.

Contemporaneamente, il clan degli «avellinesi», insomma più o meno i suoi compaesani e presunti amici, entra in massa nella stanza dei bottoni: Antonio Maccanico, l'onnipotente dominus della Rai Biagio Agnes, Gerardo Bianco, Nicola Mancino.

Poi nella geografia demitiana ci sono i colonnelli, gli evergreen ancora strategici nella Seconda repubblica: Bruno Tabacci, presidente della Regione Lombardia in quello scorcio e protagonista di infinite operazioni politiche fino ai giorni nostri e poi, come reazione al sacco di Palermo e alla stagione cupa di Vito Ciancimino, Sergio Mattarella, nominato nell'84 commissario di una Dc palermitana azzerata proprio da De Mita.

Insomma, se la Dc finisce, ì democristiani forgiati nell' officina di Nusco passano miracolosamente indenni per le forche caudine di Tangentopoli, come ripete nei suoi libri Paolo Cirino Pomicino.

Quando la scelta si fa manichea, o di qua con Berlusconi o di là con la sinistra, saltano tutti semplificando, dall'altra parte. Tutti, con l'eccezione forse di Clemente Mastella, il portavoce dell'ormai ex premier che sceglie il lato destro dello schieramento e rompe con il maestro che è entrato nel Partito popolare di Mino Martinazzoli, altro intellettuale ma proveniente dal profondo Nord bresciano.

Astri vecchi e nuovi. Dario Franceschini a Ferrara ed Enrico Letta a Pisa, mentre Romano Prodi diventa il presidente della Commissione europea e poi il premier dell'Ulivo, nell'eterna competizione con il Cavaliere.

La partecipazione del «colonnello» Mattarella alle esequie più che un omaggio istituzionale è il riconoscimento di una figliolanza che prosegue trent'anni dopo la fine della Dc. L'eterno ritorno della sinistra democristiana.

Morto Ciriaco De Mita, l'ex premier aveva 94 anni: a febbraio era stato operato dopo una caduta. Libero Quotidiano il 26 maggio 2022

E' morto Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio, storico segretario della Dc e attuale sindaco di Nusco, in provincia di Avellino. Il decesso, come riporta Repubblica, sarebbe avvenuto questa mattina intorno alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dopo che a febbraio scorso era stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. A diffondere la notizia è stato il vice sindaco Walter Vigilante. 

De Mita, 94 anni, era un esponente della corrente di sinistra. Nato a Nusco, dopo il liceo si trasferì a Milano per frequentare la Cattolica. Poi venne eletto alla Camera per la prima volta nel 1963 e vi rimase per trent'anni di fila. Nel 1969 iniziò la scalata nella Democrazia Cristiana, dove divenne vicesegretario. Quattro anni dopo, invece, fu ministro per la prima volta: venne messo a capo del dicastero dell'industria, del commercio e dell'artigianato. 

Divenne il segretario della  Dc il 6 maggio 1982. E una volta, parlando del suo partito durante una visita in Guatemala, l'ex premier disse: "Un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c'è l'intervento equilibratore del governo". Rimase leader del partito per sette anni, fino al 1989, e per un anno pure capo del governo. Oggi con lui muore uno dei protagonisti più importanti della Prima Repubblica.

Lutto nella politica italiana, è morto l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita. Il decesso è avvenuto la scorsa notte nella clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Il Dubbio il 26 maggio 2022.

È morto Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio, ex segretario della Dc e sindaco di Nusco (Avellino) in carica. De Mita aveva 94 anni. Il decesso è avvenuto la scorsa notte nella clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni.

«Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili. E che ha investito come pochi altri sull’apertura della politica ai giovani in un tempo in cui avveniva esattamente l’opposto. Tanti, intensi ricordi». Lo scrive su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta, nel ricordare l’ex presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita.

«Ricordo Ciriaco De Mita. Le qualità di un leader politico autentico. L’orgoglio delle radici nel suo territorio. La statura intellettuale. E una straordinaria curiosità per le opinioni e le storie diverse dalle proprie». Lo scrive su twitter il Commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni.

«Non eravamo pronti, non siamo pronti. Non muore un patriarca defilato ma un protagonista attivo con un pensiero moderno. La mia vita è scorsa fino a oggi nel ragionare con lui, spesso in disaccordo. Oggi mi sento disorientato, da domani parleremo dello statista, del leader, e avremo da parlarne per tutto il resto della nostra vita. Ora è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla signora Annamaria e ai suoi figlioli». Lo afferma in una dichiarazione all’Adnkronos, il vice presidente del gruppo di Fi alla Camera, Gianfranco Rotondi, ricordando Ciriaco De Mita.

«Sono sinceramente addolorato per la scomparsa del Presidente Ciriaco De Mita. E sono vicino alla mia amica Antonia De Mita». Così Bobo Craxi su twitter, sulla morte di Ciriaco De Mita. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene«. Così il ministro della Cultura, Dario Franceschini, commenta la notizia della morte di Ciriaco De Mita.

Morto Ciriaco De Mita, ex premier, padre della Dc e sindaco a 94 anni: “Non avevo lo stile per il Quirinale”. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2022.  

Se ne è andato a 94 anni, compiuti lo scorso 2 febbraio. Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario storico della Democrazia Cristiana, è morto poco dopo l’alba di questa mattina, 26 maggio, in una casa di cura dove era arrivato il 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni

Le condizioni di De Mita, sindaco di Nusco dal 2014, cittadina in provincia di Avellino dove viveva, si sono aggravate negli ultimi giorni. Il 20 febbraio scorso venne operato all’ospedale Moscati di Avellino dopo la frattura del femore in seguito a una caduta avvenuta in casa mentre scendeva le scale. Quel giorno, 19 febbraio, dopo una mattinata cominciata come di consueto con la lettura dei quotidiani e le telefonate con assessori e uffici del comune di Nusco, dopo pranzo si è concesso un breve riposo prima di scendere al piano terra della sua abitazione per la consueta partita a carte con gli amici di sempre e per organizzare il lavoro della giornata successiva. È stata una caduta dolorosa che lo ha fatto rotolare per alcuni metri in seguito alla quale l’ex presidente del Consiglio e leader della DC non ha mai perso conoscenza.

Una vita in politica tra premier, ministro, segretario e parlamentare per oltre 40 anni

De Mita raggiunse l’apice del potere politico negli anni Ottanta, quando fu Presidente del Consiglio dei ministri in un governo formato dalla coalizione del Pentapartito (DC-PSI-PRI-PSDI-PLI) che cadde nel maggio del 1989, a causa di una crisi di governo cagionata dal leader socialista Bettino Craxi (suo principale alleato-rivale). È stato inoltre segretario nazionale dal 1982 al 1989 e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1989 al 1992, nonché quattro volte ministro. Deputato dal 1963 al 1994 e dal 1996 al 2008 ed europarlamentare dal 1999 al 2004 (è contemporaneamente deputato ed eurodeputato, analogamente a Franco Marini) e dal 2009 al 2014, dopo la Dc ha fatto parte del Partito Popolare Italiano e della Margherita e dal 2008 al 2017 dell’Unione di Centro.

“Non avevo lo stile per il Quirinale”

“Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale”. Ma “ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un Presidente della Repubblica non può chiacchierare“. Ciriaco De Mita lo raccontava al ‘Corriere della Sera‘ in occasione del suo 90esimo compleanno, evocando inevitabilmente quei ragionamenti, ‘ragionamendi’ per dirla con cadenza irpina, elogiati da alcuni, criticati da altri, e che portarono l’avvocato a Agnelli a definirlo in modo pungente “un intellettuale della Magna Grecia“.

L’espressione intellettuale “è stata usata nei riguardi di Moro e paragonare un politico a Moro, dentro e fuori la Democrazia cristiana, è un complimento”, fu la replica dell’allora segretario della Dc, che non esitò a definire Agnelli “un mercante moderno, con poche idee e tanti interessi particolari“.

L'addio all'ex segretario della Dc. De Mita, la vita a Nusco di ‘Ciriachì’: briscola, tressette e il cugino all’opposizione. “Quando sarò morto continuerò a parlare”. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Maggio 2022.

Dai grandi esponenti della politica nazionale al compagno di briscola e tressette nella tranquilla Nusco. Tutti hanno parole, ricordi, aneddoti per raccontare Ciriaco De Mita, ex premier e segretario della Democrazia cristiana e dal 2014, nonostante i suoi 94 anni, sindaco della cittadina dell’Irpinia, Nusco appunto, dove era nato e da dove negli anni ’50 era partito alla volta di Roma, passando per Milano.

«Quando sarò morto continuerò a parlare», disse in una delle sue tante interviste. Non aveva un ufficio stampa, bastava comporre il numero di casa De Mita per parlare con lui. Del resto il suo rapporto con la stampa, con gran parte di essa, è sempre stato molto stretto, soprattutto negli anni Ottanta quando il potere della Dc era condizionante dappertutto. De Mita è stato un politico di potere, un leader, espressione di una politica colta, la politica di un tempo. Con lui se ne vanno gli Ottanta, qualche interrogativo sulla ricostruzione post-terremoto, la storia della Prima Repubblica. Agnelli lo definì «un intellettuale della Magna Grecia». «De Mita era un uomo che vedeva il potere figlio della politica, non la politica figlia del potere», racconta Cirino Pomicino. Lui e De Mita sono stati amici pur nella distanza politica, avversari nei congressi, alleati nel governo. Un anno fa avevano anche pensato a una lista comune per le elezioni amministrative a Napoli ma il progetto poi sfumò. «De Mita il potere lo usava secondo i riti democristiani, un potere discreto», aggiunge Pomicino.

Il potere aveva portato De Mita a confrontarsi sulla scena politica nazionale, le carte e qualche amico di lunga data gli tenevano invece compagnia nella casa di provincia sulle montagne avellinesi. Le carte rigorosamente napoletane. Briscola, tressette, scopa. Il tavolo da gioco in un bar a pochi metri dalla sua villa di Nusco, in via Piano. Smazzava e raccontava dei suoi incontri con personaggi della storia come Gorbaciov, Mitterand, il Papa e tanti altri. «Aveva una memoria di ferro, oltre alla cultura», racconta Agostino Majurano, ex sindaco di Nusco. Usa la metafora della briscola per spiegare la storia politica di De Mita: «È lo stesso gioco – dice – perché Ciriaco nasce come politico nel dopoguerra, quando i comizi si facevano da due balconi contrapposti. E lui giovanissimo, appena diciottenne, il primo scontro lo ebbe con Carlo Muscetta». Il famoso latinista contro un giovane che avrebbe scelto di frequentare l’università a Milano e poi arrivare a Roma, capitale delle istituzioni. «È proprio questo che non si potrà cancellare della sua storia», sottolinea Majurano.

La scalata di De Mita, da figlio di un sarto di un piccolo paese di provincia a uomo potente della politica nazionale. Sicuramente a quei tempi l’ascensore sociale funzionava meglio di adesso, ma De Mita ci mise del suo. «Scompare con Ciriaco De Mita un’eccezionale figura di politico che ha attraversato fin da giovane la vita del Parlamento repubblicano impegnandosi a diffondere i temi della democrazia rappresentativa», afferma l’avvocato Vincenzo Siniscalchi, già parlamentare del gruppo Ds – Ulivo e componente del Csm. «Il patrimonio di cultura politica e ricerca del dialogo, originale ricchezza del suo impegno culturale e dialettico, non verrà disperso e dovrà formare tema di ricerca e di studio per la nostra democrazia e per le necessarie riforme», conclude Siniscalchi.

Da destra a sinistra non c’è parte politica che non abbia espresso un proprio ricordo di De Mita. «Lo tsunami di Mani pulite, “del giustizialismo a tutti i costi” che travolse la politica dopo il 1992, ci separò: io qui a Napoli, definitivamente uscito di scena, lui arroccato nella sua Nusco, anche se da lì ha continuato a influenzare in maniera rilevante la politica nazionale e regionale. Al di là del dato politico che ci vedeva contrapposti, con lui c’erano rapporti personali e di rispetto reciproco», ricorda Giulio Di Donato, deputato per tre legislature del partito socialista e fedelissimo di Bettino Craxi. Il governatore Vincenzo De Luca, che nel 2007 lo aveva definito «il problema della politica in Campania» ricorda De Mita con queste parole: «Scompare con Ciriaco De Mita uno dei massimi esponenti del cattolicesimo democratico del nostro Paese, che ha rappresentato con maggiore coerenza e tenacia le esigenze del Mezzogiorno d’Italia e della sua terra. Scompare uno dei rari esponenti politici che ha sempre tentato di legare l’azione politica a un percorso di lungo periodo». «È stato un protagonista di primo piano nella vita del Paese – commenta Antonio Bassolino – , un leader animato da forte passione politica, un uomo legatissimo alla sua terra tanto da essere fino alle sue ultime ore di vita sindaco di Nusco. Ci siamo sempre confrontati con grande rispetto e reciproca stima e simpatia».

Oggi Nusco, che si prepara ai funerali di De Mita alla presenza delle più alte cariche politiche a partire dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, è un paese a lutto. Ieri all’alba si è svegliato senza più il suo sindaco, morto in una clinica di Avellino dove stava cercando di riprendersi da una brutta caduta e un intervento per sanare le fratture. Improvvisamente catapultato all’attenzione nazionale. «Il sindaco De Mita era sempre il primo ad arrivare in Comune, la puntualità era una sua fissazione. Non gli ho mai dato del tu, l’ho chiamato sempre Presidente, anche se ci conoscevamo da una vita», dice Walter Vigilante, vicesindaco di Nusco. Giovanni Marino, invece, è il cugino di De Mita, anche lui impegnato in politica, prima sulla sponda della sinistra più estrema poi con il Pd.

Al Comune di Nusco De Mita guidava la maggioranza, Marino è all’opposizione: «Una volta mi disse che ero la pecora rossa della famiglia, io gli dicevo “Ciriachì (come lo chiamavamo in famiglia) tu in fondo sei leninista, nel Pci avresti fatto carriera – racconta – . Una volta gli rimproverai di aver abbandonato il suo pensiero politico per la cultura di governo e che aveva dato il meglio di sé tra gli anni ’50 e ’60. Lui non mi rispose, attese che glielo dicessi un’altra volta in privato e sbottò: “Non hai capito niente, il meglio di me l’ho dato nel 1988 con Gorbaciov e ancora prima quando da ministro del Commercio con l’Estero incontrai Fidel Castro favorendo disgelo nei rapporti”. La lezione politica che ci lascia – conclude Marino – è il valore della politica. Non si può cambiare la società senza la politica. E su questo, nonostante le differenze, posso dire che la pensavamo allo stesso modo».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L’ultimo dei grandi protagonisti delle Prima Repubblica. La morte di Ciriaco De Mita, il ricordo di un avversario. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

È morto probabilmente l’ultimo dei grandi protagonisti delle Prima Repubblica. Incarnava più di altri una contraddizione, la stessa che gli rimproveravo quaranta anni fa: quella di tentare di perseguire a Roma, una politica riformatrice della società e dello stato, sistematicamente contraddetta dalle scelte concrete che la sua Dc compiva in Campania e nella sua Avellino, fondando il suo potere sul peggiore clientelismo meridionale e partitocratico.

Negli anni 70 e nella prima metà degli anni 80 fu nostro deciso avversario, nonostante che la sua corrente – la Base, che aveva ereditato da Vanoni e Fiorentino Sullo e che poi divenne sinistra politica della Dc in alternativa alla “sinistra sociale” di Donat Cattin – fosse la meno lontana dalle posizioni radicali soprattutto in materia di diritti civili: basta pensare agli oltre due milioni di voti dei “cattolici per il NO”, nel voto al referendum sul divorzio, e al fatto che il democristiano Marcora fu con noi uno dei protagonisti della legge sull’obiezione di coscienza.

Lo stesso Ciriaco De Mita divenne nostro interlocutore quando con ogni evidenza insieme avvertimmo che stavano per verificarsi due fatti strettamente collegati tra loro. L’implosione del mondo comunista e la fine degli equilibri di Yalta che avevano consentito il difficile governo democratico della Prima Repubblica.

Con noi dialogò sulla necessità di un cambiamento e una riforma dell’ordinamento politico repubblicano, che ne rendese possibile, con la possibilità di alternative, una governabilità e stabilità democratica. Purtroppo le abitudini e la prassi partitocratiche che nel Mezzogiorno si sposavano al peggiore clientelismo elettorale (abitudini e prassi di cui era protagonista) gli impedirono di portare alle loro naturali conseguenze quei propositi riformatori. E insieme ad altri esponenti della prima Repubblica (dalla Dc al Pci), divenne uno dei corresponsabili della mancata autoriforma dei partiti e della mancata riforma del sistema politico, aprendo la strada al populismo che ha portato alle loro estreme conseguenze i vizi e i difetti della Prima repubblica.

Ho il ricordo nitido di un comizio a Cuneo, con lui e il comunista Petruccioli, nel quale chiedevamo le firme per il referendum che avrebbe consentito il superamento del proporzionale. La Lega aveva già avuto alle regionali del Nord il 20% dei voti. Se la cosa si fosse ripetuta e aggravata alle successive politiche gli equilibri non sarebbero mai stati gli stessi e l’alternativa alla Prima repubblica si sarebbe realizzata con altri protagonisti. Le riforme non ci davano tempo. Occorreva agire in fretta. Ricordo ancora oggi il suo stupore per questo mio drammatico richiamo alla realtà. Di quelle esitazioni, di quello stupore, di quella incapacità di decidere, che condivise con gli altri protagonisti della Prima repubblica (democristiani, laici e socialisti e comunisti), paghiamo ancora le conseguenze. Gianfranco Spadaccia

Il ritratto dell'ex segretario Dc. Ciriaco De Mita, dal clan degli avellinesi alla vendetta contro Craxi. David Romoli su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

Non se lo ricorda quasi nessuno ma quando diventò segretario della Dc, nel 1982, Ciriaco De Mita, allora cinquntaquattrenne, non si presentò al grande pubblico vantando le raffinate doti intellettuali che pochi anni dopo Gianni Agnelli avrebbe insieme esaltato e irriso con quella celebre definizione: “un tipico intellettuale della Magna Grecia”. Non sfoderò i “ragionamendi” tortuosi ma brillanti che avrebbero fatto a lungo la gioia del cronista di turno, beatificato dal favore del grand’uomo, preso sottobraccio e trascinato su e giù per il Transatlantico ad ascoltare le sue elaborazioni barocche.

In quell’esordio pubblico Ciriaco De Mita da Nusco, capo riconosciuto di quel che sarebbe giustamente passato alla storia come “il clan degli avellinesi”, accentuò soprattutto “la grinta”, termine oggi desueto, allora popolarissimo. La grinta era la carta vincente di Bettino il Rampante, la dote ruvida che permetteva al socialista di fare il bello e il cattivo tempo alla faccia dei voti scarsi, almeno a confronto con le due portaerei della politica italiana, la Dc e il Pci. La regola d’ingaggio per il segretario che sostituiva il doroteo Piccoli dopo aver sconfitto il candidato sostenuto dai dorotei, Forlani, era semplice: doveva controbilanciare, contenere, ridimensionare il vorace Bettino, per gli amici e soprattutto per i nemici “Bokassa”.

Figlio di un sarto, laureato con onore in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, debutto al governo cinque anni più tardi, come sottosegretario agli Interni, De Mita era stato prima il protetto e poi il rivale di Fiorentino Sullo, storico leader della sinistra Dc, anche lui avellinese, di cui aveva sposato la segretaria Anna Maria Scarinzi. Scontro duro, senza esclusione di colpi: quando si trattava di colpire il sofisticato Ciriaco picchiava duro. Nel 1969 Sullo, allora ministro della Pubblica istruzione, provò a rinviare il congresso provinciale avellinese per evitare che l’astro nascente gli facesse le scarpe. Il segretario Flaminio Piccoli si mise in mezzo, obbligò il ministro a dimettersi dalla Pi e a celebrare le assise. La carica dei demitiani, destinati a figurare poi tutti in qualche vertice politico o statale, fece il resto, seppellì la carriera di quello che era forse il più brillante erede di Dossetti.

Negli anni 70 De Mita rimase in pista come puledro di razza ma senza emergere troppo: fu vicesegretario del partito con Forlani leader dal 1969 al ‘73 ma si dimise quando il Patto Fanfani-Moro di palazzo Giustiniani rimise al loro posto i giovani emergenti. Fu ministro dell’Industria, del Commercio con l’Estero e, nei governi di solidarietà nazionale, del Mezzogiorno: postazione strategica. Il terremoto in Irpinia del 1980 e la gestione dei fondi per la ricostruzione ne moltiplicarono potere e peso nella Balena bianca. Il suo momento arrivò quando la Dc, dopo aver liquidato il Pci, si trovò alle prese con il nuovo alleato-rivale, Craxi/Ghino di Tacco.

L’esordio della nuova segreteria fu sconsolante: una catastrofe elettorale nel 1983, cinque punti percentuali persi dalla Dc alla Camera, oltre sei punti al Senato. Ma De Mita, tra un ragionamento e l’altro, era uomo d’azione, capace di tradurre le labirintiche dissertazioni in decisioni drastiche: chiese a Craxi un colloquio segreto, che per una volta rimase davvero tale. I due si incontrarono in un convento sulla via Appia, come da miglior tradizione scudocrociata, e il democristiano andò giù piatto: “Devi guidare il governo: non c’è altro compromesso possibile”. Craxi accettò e rilanciò: “Così non reggerebbe: io farò il premier nella prima metà della legislatura, tu nella seconda”. Nacque così “la staffetta”, pubblicamente annunciata con tripudio di mortaretti e fuochi artificiali, croce e delizia della politica italiana nei ruggenti anni 80. Lo scontro, in quella strana coppia che segnò per intero gli anni 80, fu continuo: politico, culturale, antropologico. Il cozzo si evitò fino al momento di passare il testimone, poi, quando Craxi fece capire e alla fine dichiarò apertamente di non avere alcuna intenzione di sloggiare da palazzo Chigi, diventò inevitabile.

De Mita riuscì a far cadere il governo Craxi anche a costo di elezioni anticipate e nella nuova legislatura si installò per un anno a palazzo Chigi, primo segretario della Dc a occupare anche la poltrona di capo del governo dai tempi di Fanfani. Ma di nemici De Mita se ne era fatti parecchi anche in casa propria. I capicorrente non vedevano l’ora di liberarsi da un leader che da un lato aveva tentato di sgominare correnti e signori delle tessere, dall’altro aveva proceduto a un’occupazione capillare del potere affidata ai fedelissimi, agli “avellinesi”: Nicola Mancino, Gerardo Bianco e Giuseppe Gargani in Parlamento, Clemente Mastella da Ceppaloni fatto assumere con ordine tassativo dalla Rai e poi proconsole demitiano per l’Informazione, Biagione Agnes da Serino alla Rai.

De Mita contava anche sulle teste d’uovo “esterne” alla struttura del partito, dislocate nei gangli vitali del potere per regalare linfa vitale a una Dc gigantesca ma esangue. De Rita al Censis, Prodi all’Iri, l’economista Pellegrino Capaldo. Dalla ricostruzione dell’Irpinia, che gli costò la carica di presidente della Bicamerale quando il fratello fu inquisito salvo poi essere assolto con formula piena, a Tangentopoli, dal crack Parmalat all’acquisto a prezzi stracciati di un appartamento nel centro di Roma De Mita è stato coinvolto in diversi scandali ma l’unica certezza assoluta è che tra i suoi metodi il clientelismo ha sempre figurato in testa all’agenda, senza alcuna dissimulazione.

Furono i capicorrente a detronizzarlo nel 1989 togliendogli la segreteria del partito, carica che aveva mantenuto più a lungo di qualsiasi altro segretario della Dc: «Era così convinto di essere vittima di un complotto che si è suicidato politicamente per dimostrare di avere ragione», ironizzò Andreotti che in realtà, con Forlani e giocando di sponda con Craxi, era stato il vero artefice della caduta di De Mita. Pochi mesi, e l’ormai ex segretario fu estromesso anche da palazzo Chigi. Tra i grandi leader della prima Repubblica, il leader avellinese è tra i pochi rimasti in campo anche dopo il fatidico 1993: nel Ppi, nella Margherita, nel Pd, nell’UdC, nel movimento da lui fondato “L’Italia è popolare”. Ma soprattutto come sindaco, dal 2014 al momento della morte, di Nusco: una terra dalla quale, nonostante la vertiginosa ascesa e l’enorme potere esercitato negli anni 80, non si era mai davvero allontanato.

L’ “intellettuale della Magna Grecia” era, sapeva di essere e voleva restare tanto paesano quanto l’antico nemico Bettino era intimamente uomo della metropoli. La “grinta” non la aveva persa. Lo dimostrò nel confronto televisivo contro Renzi, nella campagna referendaria del 2016. La decisione di contrapporre al giovane e aggressivo premier un uomo della prima Repubblica con 88 primavere sulle spalle sembrò un suicidio. Non lo fu. De Mita, con i suoi “ragionamendi” non vinse ai punti. Mise KO l’avversario. David Romoli

Politici & antipolitici. Il ricordo di Berlinguer e De Mita nell’Italia dei populisti al potere. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.  

L’interminabile faida grillina evidenzia la differenza tra i leader di ieri e i demagoghi di oggi: che quelli erano in grado di suscitare ammirazione anche tra gli avversari, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti. 

La coincidenza tra il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e la morte di Ciriaco De Mita ci ricorda come un tempo leader politici diversissimi, schierati su fronti opposti, fossero tuttavia capaci di suscitare stima e apprezzamento molto oltre i confini dei propri partiti e del proprio tempo.

Quanto fossero diversi Berlinguer e De Mita, anche per quello che hanno rappresentato e ancora rappresentano nella coscienza collettiva, non dovrebbe esserci bisogno di dirlo. Basta comunque a ricordarcelo il fatto che la rottura con la Democrazia cristiana e con la stagione della solidarietà nazionale, sulla linea che culminerà un anno dopo nella famosa intervista a Repubblica sulla «questione morale», Berlinguer la inaugura nel 1980 proprio dai luoghi di quel terremoto in Irpinia che segnerà, in modo ben diverso, l’immagine di De Mita.

Fa però un certo effetto, oggi, assistere a tanti segnali di nostalgia e a tante rivalutazioni delle grandi figure della cosiddetta Prima Repubblica, a lungo così disprezzata. Un effetto tanto maggiore nel momento in cui il movimento che più di ogni altro ha lucrato sulla demonizzazione di quella storia e di quell’idea della politica, fondata sul ruolo dei partiti, va letteralmente in pezzi, nella stessa legislatura inaugurata dalla sua trionfale vittoria elettorale, al primissimo contatto con la prova del governo.

Mentre da un lato gli antichi avversari, nel ricordo dei militanti e dei dirigenti che li hanno seguiti o che li hanno combattuti, si tributano reciproci attestati di stima e persino di affetto, dall’altro parlamentari, ministri e dirigenti del Movimento 5 stelle non fanno altro che offendersi e scomunicarsi a vicenda, a un ritmo tale da rendere arduo ogni conteggio.

Non si fa in tempo ad appassionarsi alla vicenda dell’ex presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli, schierato con Putin, che accusa gli altri di avere tradito gli ideali del movimento (non del tutto a torto, peraltro), che si presenta il caso del candidato a sostituirlo, fortunatamente senza successo, Gianluca Ferrara, autore di un libro in cui si parla degli Stati Uniti come dell’«Impero del male». Ma non c’è il tempo di chiarire nemmeno questo episodio (ammesso ci sia ancora qualcosa da chiarire), che spunta il deputato (e tesoriere) Claudio Cominardi, il quale pubblica su Instagram un bel graffito raffigurante Mario Draghi al guinzaglio di Joe Biden, suscitando la comprensibile indignazione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e la meno comprensibile replica del leader, Giuseppe Conte: «Adesso non mi fate parlare di una foto postata. Mi hanno detto che si tratta di graffiti, non diamo importanza».

Ma non c’è tempo di soffermarsi neanche su questa interessante vicenda, perché esplode, in tutta la sua potenza cinematografico-letteraria, il caso Giarrusso, inteso come Dino. L’europarlamentare grillino se la prende infatti sia con Conte (il quale a sua volta lo accusa di volere solo poltrone e incarichi), sia con l’ex oppositore interno (ora forse sostenitore esterno, vai a sapere) Alessandro Di Battista, dopo avere coperto di contumelie quelli che prima di lui (lui Giarrusso, s’intende) avevano lasciato il movimento ma non avevano lasciato il seggio parlamentare. Cioè esattamente quello ha annunciato di voler fare.

È probabile che mentre questo articolo sarà in stampa (si fa per dire) il numero dei casi nel frattempo scoppiati e il numero degli scoppiati nel frattempo fuoriusciti (o rincasati, o rincasati e rifuoriusciti), sarà ulteriormente aumentato, com’è naturale e forse anche giusto che sia, in un partito nato da una cerimonia chiamata Vaffa Day. In fondo, è un ritorno alle origini.

La coincidenza temporale tra queste surreali vicende e il nostalgico ricordo di Berlinguer e De Mita ci segnala così anche la principale differenza tra politica e antipolitica, o per meglio dire tra i politici di ieri e i populisti di oggi: che quelli erano in grado di suscitare rispetto e ammirazione anche tra gli avversari più lontani, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti.

I ragionamenti. Con Ciriaco De Mita se ne va per sempre anche la prima Repubblica. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 26 maggio 2022.  

Il leader della Democrazia Cristiana, fautore di un’alleanza con il Partito Comunista e avversario di Bettino Craxi, è stato il protagonista degli anni Ottanta. Ma non ha mai smesso di fare politica. Una conversazione inedita che risale all’inizio del Conte bis. 

È morto Ciriaco De Mita. Io l’ho conosciuto bene. Prima di raccontarvi il nostro ultimo incontro, tre anni fa, devo dirvi qualcosa di me e di lui.

Facevo il cronista politico per il manifesto durante il periodo della sua ascesa politica e del lungo duello con Bettino Craxi, alleato-rivale negli anni ’80. Ciriaco aveva da sempre dialogato con la sinistra comunista di Pietro Ingrao, alla cui scuola, prima di lasciare il Pci si erano formati i fondatori del giornale dove lavoravo. Da qui una consuetudine e una simpatia verso un leader che però, ai nostri e ai miei occhi era pur sempre un avversario politico, essendo il manifesto sostenitore dell’alternativa alla Dc (“Non moriremo democristiani” fu il celebre titolo scelto da Luigi Pintor dopo la sconfitta dc alle elezioni del 1983).

Figuratevi la mia sorpresa quando anni dopo scoprì, leggendo il diario di uno dei suoi più stretti collaboratori (Giuseppe Sangiorgi, “Piazza del Gesù”, Mondadori) che a un certo punto aveva pensato di propormi come direttore del Popolo, il quotidiano della Dc. L’Ulivo era ancora lontano e la sua era una folle idea, che neppure mi fu mai proposta, la ricordo solo per raccontare quanto gli piacesse la seduzione intellettuale che su di me esercitava, come con tanti altri, nelle lunghissime e sfibranti passeggiate sottobraccio in Transatlantico. Quando cercavo di interromperlo, facendo domande precise che lo facessero scendere dai cieli della strategia e mi procurassero qualche notizia da mettere in pagina, la sua risposta era: «Foti’, ma che fai il pubblico ministero?».

Un altro episodio divertente fu quando in mezzo a decine di cronisti e di telecamere, avendo cercato io di rompere il suo mutismo all’uscita di una riunione importante, mi ero avvicinato per fargli i complimenti per la cravatta e lui se la sfilò e me la mise attorno al collo, lasciandomi come un babbeo a subire la perfida ironia dei colleghi. Era una Hermès, non l’ho mai indossata, ma la conservo ancora come ricordo.

Nato a Nusco, in provincia di Avellino, nel 1928, padre sarto e segretario della Dc, mamma casalinga, nonno contadino, Ciriaco De Mita vince una borsa di studio, si iscrive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove conosce Beniamino Andreatta; poi ministro, segretario, presidente del Consiglio, presidente della Commissione per le riforme istituzionali, De Mita è stato negli anni ’80 contrastatissimo leader della Dc, sugli altari del doppio incarico di Segretario e presidente del Consiglio, com’era successo prima di lui solo ad Amintore Fanfani e bruscamente deposto, esattamente come l’aretino, da entrambi i ruoli perché la Dc, si sa, non tollerava gli uomini forti.

Ma chi è stato davvero De Mita? Il leader rinnovatore della Dc? Il filocomunista e dunque nemico giurato di Bettino Craxi e del Psi arrembante, il modernizzatore della Dc, l’interlocutore della borghesia laica, oppure il dominus di un sistema di potere clientelare, l’intellettuale della Magna Grecia, definizione non proprio benevola di Gianni Agnelli? «Mi chiamava così perché cercavo di spiegargli cos’è la democrazia mentre lui pensava che è il comando dei ricchi», mi disse nel nostro ultimo incontro, tre anni fa. Ecco la conversazione finora inedita.

Ogni vecchio cronista sa che l’intervista con Ciriaco De Mita è un combattimento. Lo era quando era leader e uomo potente, lo è ancor di più oggi, quando i suoi 91 anni gli consentono maggior libertà. I suoi “ragionamendi” – ecco il difetto di pronuncia che l’ha reso celebre e che neppure la scuola di dizione è riuscita a correggere – si concludono solo dopo aver attraversato il labirinto di riflessioni entro cui “Cirì” li costringe nella penombra dell’ampio studio, un tavolino con sopra le carte napoletane dell’amato tresette, in lontananza l’abbaiare di un cane, al piano terra della grande casa di Nusco, la cittadina arrampicata nel cuore dell’Irpinia, tirata a lucido come una cittadina svizzera, della quale De Mita, un uomo che ha frequentato i potenti del mondo, si ostina a fare il sindaco amato-odiato, quasi non possa vivere senza i piedi piantati nella propria tradizione, con tutto il portato di beghe personali, piccole lotte, pettegolezzi; una sorta di “schizofrenia” che, ha scritto Filippo Ceccarelli nella sua monumentale e formidabile enciclopedia del potere italiano (“Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, Feltrinelli) ne fa una figura «ispida e padronale in Irpinia, da aspirante statista a Roma».

«Io ricordo uomini politici che non parlavano a caso: pensavano, capivano, spiegavano. La storia della democrazia in Italia – spiega De Mita – è una storia particolare: malgrado avessimo il partito comunista più forte dell’Occidente non ci chiudemmo mai: ho dialogato con tutti i comunisti, a parte Togliatti. I dirigenti comunisti li ho conosciuti tutti, in particolare Giancarlo Pajetta che, all’indomani dello scioglimento del Pci mi confessò: “voglio solo morire”. Il primo col quale dialogai fu Pietro Ingrao, mi pare nel 1963. Ci incontravamo a casa di Lino Jannuzzi, allora giornalista dell’Espresso, e io cercavo di convincere Ingrao della necessità di riforme istituzionali. Lentamente Ingrao si convinse. Poi, al congresso comunista di Bologna, nel 1969, a proposito dello stato, Umberto Terracini (uno dei fondatori del Pci ndr) citò Lenin, Enrico Berlinguer Machiavelli. Fui molto colpito e allora il mio amico Aniello Coppola, ingraiano, direttore di Rinascita, mi portò a pranzo con Berlinguer in una bettola romana, ed io gli spiegai cosa pensassi sulle istituzioni della democrazia».

Tuttavia, finita l’esperienza della solidarietà nazionale, la Dc demitiana non va al governo con i comunisti ma con Craxi: «Se avessi avuto la possibilità io avrei fatto il governo con Berlinguer – risponde De Mita – non certamente quello con Craxi. Ma Berlinguer non ha mai voluto farlo. In realtà lui, dopo il fallimento del compromesso storico, pensava all’alternativa. Decise di fare il governo con me solo poco prima di morire, anche se negli anni del pentapartito mi aveva dimostrato grande solidarietà: ogni volta che era minacciata una crisi di governo lui mi diceva di stare tranquillo, che i voti dei comunisti ci sarebbero stati per una maggioranza. Però questa scelta in verità non la fece mai fino in fondo, perché riteneva davvero che la sua concezione democratica potesse salvare il comunismo, che lui non avrebbe mai rinnegato. Io gli spiegai, ma non so se lui capì», racconta oggi De Mita. Invece, aveva capito benissimo, ma il patto «gli era parso, direi giustamente, una trappola da cui il Pci avrebbe fatto bene a tenersi lontano», racconta Paolo Franchi nel suo bel libro “Il Tramonto dell’avvenire” edito per Marsilio, riportando la versione che gliene diede il suo amico e allora direttore a Rinascita, Aniello Coppola.

L’antagonista principale di De Mita, dunque, non fu il Pci, ma il Psi di Bettino Craxi, conosciuto in modo abbastanza irrituale: «Ero a Roma con Alberto Marcora che lo conosceva, in un ristorante vicino il Senato– racconta De Mita – Vediamo quest’omone che si avvicina, con la giacca sulla spalla e Marcora gli chiede: dove vai? E lui risponde: vado a chiavare. Non è che io sia un moralista, ma confesso che rimasi di sasso. Ecco questo fu il mio primo approccio con lui. Poi non ho mai condiviso il suo pensiero, anche se la sua aspirazione a ritrovare uno spazio autonomo socialista tra la Dc e il Pci, non era infondata». Ma era proprio questa autonomia socialista che dava fastidio a democristiani e comunisti che tuttavia, malgrado dialoghi e incontri non riuscirono ad allearsi.

La fusion ulivista, immaginata da Beniamino Andreatta scomparso nel 2007 dopo un lunghissimo coma durato sette anni, protagonista del rinnovamento democristiano – «Era di una distrazione proverbiale, tanto che una volta dimenticò la moglie in un autogrill, ma era un genio che aveva l’umiltà del pensiero», dice di lui De Mita – non era ancora neppure un sogno.

Dopo le elezioni politiche perse dalla Dc, nel 1983 nasce dunque il famoso o famigerato “patto della staffetta”. Ecco come lo ricorda l’ex-leader democristiano: «Craxi mi disse che la prima fase l’avrebbe fatta lui e la seconda io. Io gli risposi: lascia stare me, perché io non voglio andarci, ma dopo due anni e mezzo è giusto che sia un democristiano ad andare a Palazzo Chigi. Poi Bettino disattese quel patto. Nella prima fase non ci furono molti problemi, anche perché vincemmo il referendum sulla scala mobile ed io mi preparavo all’elezione del capo dello stato con la maggioranza che sosteneva il governo».

Perso il referendum, il segretario del Pci, Alessandro Natta, cerca De Mita: «Mi chiama e mi dice che loro sono pienamente disponibili a concorrere all’elezione del capo dello stato – ricorda l’ex-leader democristiano. I sogni di Arnaldo Forlani, che era il principale alleato di Craxi, e voleva andare al Quirinale vanno in fumo. Nel Pci a quel punto prevale la lezione pragmatica togliattiana che distingueva il capo del governo che rappresenta la maggioranza politica e il capo dello stato che rappresenta l’unità della nazione. E fu così che diventai togliattiano sia pure in ritardo, ma io questo metodo l’avevo già proposto nel 1970».

È qui che nasce il metodo De Mita che porta all’elezione plebiscitaria di Francesco Cossiga. Allora fu un’indubbia vittoria, anche perché Cossiga proveniva dalla sinistra dc, come De Mita. Si rivelò in realtà un gigantesco boomerang, il declino dei partiti tradizionali non si fermò, anche grazie alle picconate di Cossiga, e di lì a poco tangentopoli e le stragi mafiose avrebbero seppellito la prima repubblica…«Noonnnn…non mi hai capito, corri troppo – si scalda De Mita. In quegli anni la Dc è rispettata, recupera consensi, ma risalire la china subito non era immaginabile. In un convegno di giovani in Umbria, dissi che, andando avanti così, la Dc stava tirando le corde e Andreotti mi rispose: con la famosa frase: “Meglio tirare le corde che tirare le cuoia”. Dopo le elezioni del 1987 mentre io pensavo che i vecchi equilibri ormai fossero insufficienti, Martinazzoli, che puntava alla segreteria, aveva fatto l’accordo con Andreotti che infatti diventò presidente del Consiglio dopo di me. Quando gliene chiesi conto rispose: “Anche per entrare a Parigi dovettero passare dalle fogne”.

Il governo De Mita dura circa un anno, segnato dalla tragedia dell’assassinio da parte delle Brigate Rosse, di Roberto Ruffilli, uno degli intellettuali più miti che io abbia mai conosciuto, consigliere del governo per le riforme istituzionali, per poi lasciare spazio al Caf, il patto tra Craxi, Andreotti e Forlani.

In questo continuo riferimento alla comprensione dei cambiamenti il faro di De Mita si chiama Aldo Moro. Un leader al quale fu legato da un rapporto complesso: De Mita anticipatore dell’apertura al Psi negli anni ’50 e al Pci negli anni ’60 («Lo proposi nel 1963»), e Moro che vuole cambiare ma portandosi dietro tutta la Dc: «Da lui ho imparato che non basta il pensiero per risolvere i problemi: il pensiero anticipa gli eventi, la politica deve creare le condizioni perché possano realizzarsi. Era una persona di una rara finezza intellettuale. Moro riteneva che troppi ragionamenti fossero inutili: quando riteneva che un processo fosse maturo lavorava per realizzarlo».

È inevitabile planare sull’attualità. Ecco allora l’anatema verso leghisti e grillini: «Li guardo in tv: parlano ma non esprimono mai un pensiero. Noi rincorriamo le conseguenze, manca la percezione dell’origine dei nostri problemi, dei problemi dell’Europa. A loro non interessa cercare le origini dei problemi e indicare soluzioni, che sarebbe poi l’essenza della politica. A loro basta usare le parole: troppi immigrati. Punto. La denuncia della realtà è forte, la promessa di soluzione del problema non c’è o è debole».

Ma il pericolo principale è Matteo Salvini: «Ho visto con simpatia la formazione del nuovo governo (quando incontrai De Mita era appena nato il Conte-2 con Salvini fuori dal governo, ndr) perché bisognava fermare quell’analfabeta politico, accumulatore di desideri proiettati all’infinito. Tutte le volte che parla non sento alcun ragionamento ma solo affermazioni che vanno incontro all’emotività popolare. Ogni tanto, quando parla mi viene da chiedergli cosa voglia dire. E quanto all’esibizione del crocefisso: la fede non può essere spiegazione della politica, bensì arricchimento della coscienza umana, la confusione tra questi due piani è un pasticcio».

Proseguendo questa carrellata sui protagonisti di oggi, i giudizi sono talvolta sorprendenti, per esempio su Grillo: «L’ho difeso quando i socialisti volevano cacciarlo dalla Rai. Al Poeta che ha fondato il M5S occorre riconoscere il merito di aver indicato la malattia, il disagio del paese. Il problema è che non ha la diagnosi e la cura».

Matteo Renzi, l’ha detto lui più volte, è cresciuto, con il mito De Mita, ma poi nel corso del Referendum ci fu uno scontro furibondo. «All’intellettuale fiorentino – dice oggi De Mita – direi che forse ha consentito la nascita del governo anche per correggere i propri errori mettendo al primo punto la difesa democratica. Gli suggerirei di non usare il governo per incrementare la propria rappresentanza. È vero che alla Leopolda c’era tanta gente, ma le mie antenne in quel mondo mi dicono che era in larga parte da aspiranti candidati alle elezioni regionali e dalle loro claque».

Andrea Muratore per tag43.it il 26 maggio 2022.

Ciriaco De Mita è morto oggi a 94 anni. Lo storico esponente campano della Democrazia Cristiana, ex presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, sindaco di Nusco, suo paese natale, dal 2014 alla morte è stato spesso coinvolto in scontri politici accesi. In cui ha messo in campo, più volte, la tagliente retorica per cui è diventato celebre. 

De Mita contro l’Avvocato Agnelli: «Mercante senza idee»

«De Mita? Un intellettuale del Mezzogiorno, di quel pensiero tipico della Magna Grecia». Gianni Agnelli durante la trasmissione della Rai Mixer, nel marzo del 1984, definì così l’allora segretario della Democrazia Cristiana.

L’Avvocato intendeva sottolineare, con una punta di malizia, la propensione di De Mita ai ragionamenti complessi, lontani a suo dire da pragmatismo e concretezza. La replica di De Mita non si fece attendere.

«L’espressione intellettuale è stata usata nei riguardi di Moro e paragonare un politico a Moro, dentro e fuori la Democrazia Cristiana, è un complimento», disse, non esitando poi a definire Agnelli «un mercante moderno, con poche idee e tanti interessi particolari».

Il dualismo De Mita-Craxi

Nel 1987 Bettino Craxi ruppe il Patto della Staffetta, stretto tra i leader del Psi e della Dc quattro anni prima, che prevedeva l’alternanza con De Mita al governo a metà legislatura. «Mi sembra che questo affare della staffetta sia stato collocato su un sentiero che si è fatto sempre più stretto e sempre più tortuoso e, quindi, sempre più improbabile», ammise Craxi il 17 febbraio di quell’anno a Mixer, ammettendo pubblicamente il tradimento dell’accordo.

De Mita, che sarebbe arrivato a Palazzo Chigi un anno dopo, entrò così in rotta di collisione col segretario socialista. «Mi ha fregato una volta, la seconda si è fregato da solo. Io i socialisti non li conoscevo, erano un po’ saccenti e superbi… se dovessi dire che lavoravo per l’alleanza con loro direi una bugia», confidò De Mita nel 2021 in una delle ultime interviste concessa a IlGiornale.it.

«Io ho avuto buoni rapporti con i vecchi socialisti appena eletto parlamentare, personaggi di grande saggezza poi fatti fuori da Craxi», fu il suo secco commento ex post sull’era craxiana.

De Mita-De Luca, odi et amo

In anni più recenti, uno scontro a distanza si è consumato tra De Mita e l’attuale presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Nel 2008 De Luca, allora sindaco di Salerno, definì senza giri di parole l’ex presidente del Consiglio «il problema della Campania da 40 anni».

Successivamente però, De Luca ha cercato spesso l’appoggio di De Mita, che lo ha sostenuto alle Regionali 2015 e ha speso per lui parole al miele dopo l’emergenza Covid. Una riappacificazione segnata dal messaggio di cordoglio del governatore della Campania: «Scompare con Ciriaco De Mita uno dei massimi esponenti del cattolicesimo democratico del nostro Paese. È stato il politico che ha rappresentato con maggiore coerenza e tenacia le esigenze del Mezzogiorno d’Italia e della sua terra. Scompare uno dei rari esponenti politici che ha sempre tentato di legare l’azione politica a un percorso di lungo periodo». 

I giudizi severi sui due Matteo

Diverso, e ben più duro, l’atteggiamento di De Mita contro i due Matteo della politica italiana, Renzi e Salvini. Con il primo De Mita ebbe modo di scontrarsi nel 2016 duellando nello speciale di La7 sul referendum costituzionale promosso dall’allora premier. 

«Quando la politica è mestiere deve essere breve, quando è pensiero può essere a vita», spiegava ospite di Mentana su La7. «L’idea che sia pensiero la politica tua, che cambi partito ogni vola che ti tolgono il seggio…», rispondeva Renzi riferendosi lo strappo di De Mita con il Partito Democratico che per statuto gli aveva negato la candidatura nel 2008. «La sua è una volgarità che non mi aspettavo», fu la risposta del leader Dc che bocciò la riforma perché «frettolosa poco motivata, scritta male».

«Se io fossi giurista», aggiunse, «avrei grossa difficoltà a leggerla così come è, con periodo lunghissimi. E le norme costituzionali devono essere brevi. Fare un periodo lungo tre colonne è una cosa che non si è mai vista».

E, ancora: «Io avrei tolto il Senato o lo avrei fatto con i notabili, persone che rappresentano la società cresciuta, insomma il patrimonio culturale che si esprime in una comunità e dà consigli».

De Mita poi in un successivo confronto con Andrea Orlando liquidò il renzismo come una somma di «parole senza pensiero». Tre anni dopo, sempre su La7, Renzi e Salvini furono presi entrambi d’infilata dal vecchio leone democristiano: «Il primo ha opinioni insopportabili e un eloquio senza senso. Il secondo? Emette suoni, non parla». Una delle sue ultime, grandi frecciate. 

Federico Geremicca per “la Stampa” il 28 maggio 2022.

A chi è venuto a rendere omaggio Sergio Mattarella, che se ne sta lì impietrito in prima fila, gli occhi fissi su quel feretro chiaro e disadorno? Sono le sei del pomeriggio e siamo nella piccola chiesa di Sant' Amato, giusto in cima al cucuzzolo sul quale è appollaiata Nusco. La cattedrale è colma per le esequie di Ciriaco De Mita: ma chi era, appunto, De Mita? 

Si dice che gli uomini possano esser giudicati anche per le battaglie che hanno combattuto, per gli amici con i quali hanno camminato e per gli avversari che hanno contrastato. Ciriaco De Mita ha avuto tre grandi nemici, se possiamo dir così: Bettino Craxi negli '80, Silvio Berlusconi in quelli '90, Giulio Andreotti per tutta la vita. È un elenco che lo metterebbe, secondo molti, dalla parte giusta della storia. Ma gli amici? 

Il primo è appunto lì, in prima fila con la figlia Laura, a pochi passi dalla moglie e dalla grande famiglia del presidente scomparso. Definire De Mita e Mattarella amici è forse troppo: o forse troppo poco. Quel giovane professore universitario palermitano, infatti, fu il primo e più riuscito azzardo che il leader irpino osò appena arrivato alla guida della Dc: commissario del partito in Sicilia per cercare di arginare lo strapotere della corrente andreottiana, da sempre in comprovati rapporti con la mafia. A Mattarella le cosche avevano ammazzato il fratello Piersanti pochissimi anni prima: ma per Sergio quello fu solo un motivo in più per rispondere subito sì. Era il 1984. 

Gli altri amici sono confusi tra la folla stipata in chiesa, in mezzo a canti e fumo d'incenso: invecchiati, affaticati, a volte irriconoscibili a causa della mascherina. Nicola Mancino, Clemente Mastella, Giuseppe Gargani, Gerardo Bianco, Gianfranco Rotondi... Li guardi e potresti confonderli con dei tranquilli pensionati: ma avevano un amico - un capo - che aveva fatto di loro un invincibile gruppo di potere. Dopo Sassari - con i suoi Cossiga, Segni, Pisanu e Berlinguer - nessuna altra zona d'Italia ha mai avuto una simile concentrazione di leader e di potere: il funerale di De Mita rende orfani anche loro, oltre che l'intera Nusco, paesino ora assai meno significante su qualunque mappa del Paese.

Ma il funerale di Ciriaco De Mita è forse il funerale di tante altre cose. Della "balena bianca", di cui l'ex premier era l'ultimo grande leader in vita. Della Prima Repubblica, anche: che in questa piccola chiesa di provincia si prende una plateale rivincita sulla Seconda, con Luigi Di Maio che applaude commosso il feretro, come se non ci fosse un passato, una memoria capace di custodire disprezzo, insulti e odio.

Qui è lì, confusi tra i banchi e tra la gente, alcuni volti noti: un quasi presidente come Pier Ferdinando Casini, un sempre presidente come Vincenzo De Luca, molti ex giovani dc e poi la sorpresa di Bobo Craxi. Per il PD nessun dirigente nazionale, per i Cinquestelle la delegazione più folta (Gubitosa e Sibilia, oltre Di Maio). Imbarazzante la rappresentanza di Camera e Senato, con un vicepresidente (Rosato) e un segretario di presidenza (Puglia): magari un po' poco per un leader che ha letteralmente trascorso la vita tra Montecitorio e i palazzi del governo.

In chiesa, dopo l'omelia, parlano nipoti e amici dell'ex presidente. Quindi il suo storico portavoce, Giuseppe Sangiorgi. Riporta una frase che De Mita, mutando don Sturzo, ripeteva spesso: la nostra idea non sarà vincente se non diventerà il sentire del popolo. Guardi indietro, alla storia del Paese, e pensi che vincente lo è stata per decenni. Poi guardi intorno, osservi le lacrime e la folla, e c'è poco da fare: su quell'idea, un po' sturziana e un po' demitiana, qui il sole non è calato mai.

La messa finisce, il feretro è portato a spalla fuori della chiesa. Sergio Mattarella lo fissa e lo segue. Il presidente è arrivato in elicottero ed in elicottero lascia questo paesone circondato da nubi e da montagne. Nusco era De Mita, e si chiede cosa diventerà ora. Certo, non è l'interrogativo più importante, ma forse per Ciriaco lo sarebbe stato: è a Nusco che aveva dedicato le sue ultime energie ed è qui che ha voluto funerali e sepoltura. È non può essere un caso, ripetono le signore del paese, che abbia deciso di morire nel giorno dell'ottavo anniversario della sua elezione a sindaco. Credenze popolari. O forse no.

La vergogna, le calunnie e i (pochi) silenzi. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.  Da quando la spudoratezza è diventata consuetudine? Da quando ha sfondato quelle pareti che ci permettono di distinguere l’indegnità dalla dignità? In occasione della morte di Ciriaco De Mita, il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (quello che pensa che l’allunaggio sia stato una messinscena) ha inviato un messaggio di condoglianze alla famiglia da condividere con «tutti quelli che in lui hanno sempre visto un riferimento politico». Gesto istituzionale? Cordoglio di maniera? Può darsi. Ma forse il silenzio sarebbe stato più appropriato perché in passato Sibilia ha più volte calunniato De Mita, tra l’altro accusandolo di avere «la schiena imbottita di tangenti». Ormai si può dire di tutto, senza vergogna. I social hanno di colpo affrancato le individualità e con esse le presunzioni (psicopatologie?) dei singoli: più che alla personalità si punta al personaggio. Ciò che più preoccupa è il Sibilia che è in noi, la sfacciataggine con cui molti uomini pubblici portano le loro facce. È da ingenui pensare che la politica non conosca l’infingardaggine, lo so; tuttavia, sono convinto che si è spudorati più per indole che per scelta. La faccia tosta del Sibilia che è in noi è specchio del temperamento, non solo delle convinzioni politiche, delle credulonerie, dell’opportunismo. Si cambiano le idee, il carattere resta immutato.

LA MORALITÀ DELLA POLITICA È L'EFFICIENZA. PNRR & SUD / LE INTUIZIONI MERIDIONALISTE DI DE MITA E IL FARE CHE SERVE OGGI. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 27 Maggio 2022.

“Fu un errore rimuoverlo, dopo di lui tutto andò male”. Con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto Ciriaco De Mita fece autocritica pubblica per la scelta del governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti, di rimuovere Gabriele Pescatore dalla presidenza della prima Cassa del Mezzogiorno. La Cassa delle grandi opere che aveva un organico di poco più di 300 ingegneri e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Fece dell’Italia la lepre europea nell’utilizzo dei fondi europei. Gabriele Pescatore era Irpino come De Mita. Il primo era di Serino, il secondo di Nusco.

Nel giorno dei funerali dell’ultimo grande leader democristiano, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, e del suo “popolo”, mi è venuta in mente questa dichiarazione pubblica che fotografa come meglio non si potrebbe lo spartiacque tra una lunga stagione di efficienza dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno e quella inefficiente e smaccatamente clientelare che ad essa subentrò. De Mita rappresenta più di ogni altro l’ambizione di costruire un Mezzogiorno industrialista che realizzasse la profezia di Morandi, capo dei partigiani milanesi e primo presidente della Svimez. La profezia era: l’Italia sarà il Mezzogiorno industrialista che sarà.

Molto dell’industria pubblica di mercato che ancora oggi opera con successo nel Mezzogiorno e una parte altrettanto rilevante di investimenti privati, piccoli, medi e nazionali avvenuti nel Mezzogiorno d’Italia dopo la stagione d’oro del primo intervento straordinario, sono dovuti all’azione testarda e mai divisiva di promozione dello sviluppo industriale che De Mita svolse in tutti i suoi ruoli politici. Come amministratore, come ministro, come segretario della Democrazia cristiana e come presidente del consiglio. Sulla ricostruzione abitativa e industriale dell’Irpinia fu oggetto di una campagna di diffamazione tanto violenta quanto ingiusta. Perché se c’è un pezzo di quel Mezzogiorno di dentro che, al netto delle inevitabili piccole ruberie, ha fatto quello che doveva fare, questo è l’Irpinia.

In questa sede non si vuole ricordare il politico di razza della prima Repubblica che intuì prima di tutti l’esigenza del cambiamento, ma non poté realizzare la nuova sintesi perché era arrivato primo ma troppo tardi. Perché il mondo era già cambiato e il cattolicesimo democratico, ancorché aperto alle istanze laiche e liberali, non poteva più essere la risposta ai problemi di quella stagione. In questa sede si vuole solo ricordare che le due grandi intuizioni meridionaliste di De Mita sono oggi di straordinaria attualità.

La prima era quella di restituire efficienza alla macchina amministrativa con un ruolo centrale di guida e di indirizzo e strutture operative territoriali profondamente rinnovate nella capacità di fare le cose.

Potremmo chiamarla rigenerazione amministrativa. La seconda intuizione che è sempre stata quella di stimolare la crescita dell’economia privata dei territori e la capacità di attrazione di investitori produttivi nazionali e internazionali, è assolutamente oggi la più straordinaria opportunità per l’Italia e l’Europa prima ancora che per il Mezzogiorno.

La storia oggi combatte a favore dei territori meridionali. Perché la pandemia globale ha cambiato i canoni fondamentali della globalizzazione e questo spinge i capitali globali usciti dai Paesi emergenti a indirizzarsi in aree sicuramente più attrezzate come sono quelle del Mezzogiorno e, allo stesso tempo, le filiere produttive europee non hanno alternativa se vogliono mantenere un minimo di efficienza e di sicurezza competitive sullo scacchiere mondiale. Perché la guerra di Putin in Ucraina, nel cuore dell’Europa, qualunque siano esito e durata, ridisegna l’ordine mondiale e “condanna” il Mezzogiorno d’Italia a diventare l’hub energetico dell’intera Europa diventandone la porta sul Mediterraneo e l’anello di collegamento con i Paesi del nord Africa e del Medio Oriente. Per tutte queste ragioni riteniamo che lo sforzo di accelerazione nell’attuazione delle riforme di strutture e di investimenti sollecitato con successo dal presidente Draghi al suo Governo e ai partiti sia decisivo per il futuro di questo Paese. Riteniamo, però, che la riforma più importante di tutte sia quella che riguarda il capitale umano del Mezzogiorno. Il racconto reale che il governo fa di un Mezzogiorno non più peso del Paese ma grande opportunità di crescita per l’intero Paese ha bisogno di camminare attraverso le teste e le gambe di una nuova classe dirigente meridionale della politica e della Pubblica amministrazione. Scommessa che vale per l’oggi e, ancora di più, per il domani.

Per questo non è ammissibile che i comuni del Mezzogiorno rinuncino agli stanziamenti in asili nido, palestre, mense scolastiche, così come non è ammissibile che l’intero sforzo messo in essere sulla filiera – scuola di base, scuole tecniche, industria e ricerca – abbia un solo anche minimo ritardo o tentennamento. Per la prima volta, grazie ai fondi europei e a un quadro internazionale in movimento c’è la concreta possibilità di attuare le due intuizioni meridionaliste di De Mita che custodivano dentro di sé il senso storico di un Paese nuovo che metteva insieme la Cattolica di Milano, i professori di Bologna, la ricerca e l’industria emiliano-romagnola con quelle di un Mezzogiorno industriale altrettanto competitivo e innovatore. Ancora una volta il Paese si gioca tutto sul futuro del suo Mezzogiorno e devono essere gli amministratori pubblici e le imprese meridionali a guidare questo processo di cambiamento che è culturale prima ancora che economico. È un problema di teste e di organizzazione prima ancora che di fondi europei. Serve uno spirito collettivo nuovo che bandisce la lamentazione e si nutre di atti che infondono e moltiplicano la fiducia. Questo è il nuovo meridionalismo che serve al Mezzogiorno e all’Europa. Serve, come è stato ricordato ieri, quello che De Mita non ha mai smesso di ripetere: la moralità della politica è l’efficienza. Perché dopo le belle parole, servono i fatti.

Il pregiudizio antimeridionale dietro il silenzio su De Mita. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

Caro Aldo,

bastava il trafiletto in prima pagina per ricordare la morte di De Mita. Le due pagine interne sono state semplicemente l’apologia di un reato ovvero il reato di danneggiamento e malversazione della cosa pubblica. Vergognatevi.

Marco R., Brescia

Caro Marco,

Non solo era doveroso per i giornali dare spazio a una figura importante come quella di Ciriaco De Mita; al contrario di lei, trovo che nel Paese la sua scomparsa sia passata quasi sotto silenzio. Si è parlato molto di più del centenario della nascita di Berlinguer. Si continua a parlare molto di più di Craxi. Nel primo caso, è il mito del comunismo italiano, questo incantesimo per cui un’idea rivelatasi fallimentare e criminale ovunque sia andata al potere diventava in Italia giusta, o almeno nobile (questo senza sminuire l’indubbia statura internazionale di Enrico Berlinguer, tale da fare impallidire le figure politiche di oggi). Nel secondo caso, la vita avventurosa e la fine tragica continuano a dividere e a ispirare film e documentari. Nessuno farà un film su Ciriaco De Mita. Poco male. Resta da capire perché tanta smemoratezza e tanta freddezza per l’uomo che negli anni ’80 era il più potente d’Italia. Certo, la Dc non era un partito personale; era un sistema. Ma su De Mita, inutile negarlo, pendeva un pregiudizio anti-meridionale. Oltretutto non era un raffinato napoletano, ma un orgoglioso provinciale irpino. «Intellettuale della Magna Grecia» disse Agnelli. «C’è una parola di troppo: la Grecia» chiosò Montanelli. Che aggiunse: «Non mi piacciono né lui, né Craxi. Ma Craxi si sveglia a Milano, e ha una visione del mondo. De Mita si sveglia a Nusco, e ha la visione dei caciocavalli appesi» (va ricordato che Montanelli stimava invece altri politici del Sud, ad esempio Emilio Colombo). «L’avellinese ci farà perdere tre milioni di voti» commentò Donat-Cattin quando nel 1982 De Mita fu eletto segretario (si sbagliava, ma non di molto: l’anno dopo di voti la Dc ne perse due milioni). Il vero De Mita era un uomo colto e anche avveduto. Un solo episodio: quando era presidente del Consiglio — nella Prima Repubblica poteva accadere che per far fuori uno lo si mandasse a Palazzo Chigi — gli americani obbligarono gli europei a scortare con navi militari le petroliere nel Golfo Persico, per mettere pressione sull’Iran. Lui fece notare: «Mi pare una cosa inopportuna e foriera di pericoli. Se poi ci fosse un conflitto a fuoco?». Mancavano 25 anni alla storia dei marò. Il punto è che quell’intuizione fu espressa durante un bagno in piscina, con i cronisti in giacca e cravatta che lo seguivano a bordo vasca. De Mita non era insomma neppure sfiorato dal dubbio che fosse eccessivo il potere — fino al capriccio — dei partiti e dei loro capi. Tuttavia non fu sconfitto dal nuovo che avanzava, bensì dal vecchio che tornava. La ebbero vinta i dorotei e Andreotti. Che però sarebbero durati poco. Lo intervistai due volte, nell’attico che affittava a prezzo politico e nella sua Nusco. Era un battutista formidabile; ma alle battute preferiva i ragionamenti. Con la t.

"Sfido chiunque a ricordarmi una sua grande idea politica". Ciriaco De Mita ha portato alla morte la democrazia in Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2022.  

È morto De Mita, Ciriaco De Mita, grande capo della Democrazia Cristiana (soprattutto nei primi anni ’80), grande personaggio della Prima Repubblica, ex ministro, capocorrente della sinistra democristiana. Si parlerà molto bene di lui. Io invece voglio parlarvene male.

Penso che De Mita sia l’uomo che ha trascinato alla morte la Prima Repubblica e quindi la democrazia italiana. La grande democrazia italiana, anche quella che c’è adesso, è ciò che ci è rimasto di quella costruzione gigantesca che fu la democrazia della Prima Repubblica; la democrazia e il conflitto, la democrazia e il conflitto sociale, la democrazia e la lotta politica, la democrazia e i suoi insuccessi, anche la democrazia e le stragi e la violenza. Lo Stato di Diritto e la democrazia sono stati trascinati in un fallimento alla fine degli anni ’80.

Io penso che uno, o forse il principale responsabile di quel fallimento fu Ciriaco De Mita. Perché? Perché De Mita non è mai stato uno statista. De Mita è stato un uomo politico di manovra, capace molto nella manovra politica e nella tattica e capace moltissimo nella gestione del potere. Però De Mita aveva un’idea molto semplice: che la politica fosse il potere, punto. Non che il potere fosse un aspetto della politica. In un’epoca in cui la politica, forse oggi è difficile spiegarlo, erano grandi idee. Era l’epoca di Fanfani, di Moro, di Craxi e di Berlinguer.

Fanfani è stato un grande riformista. Ha fatto le riforme del ’62: ha riformato la scuola media, ha fatto un grande piano casa dandola agli italiani, ha riformato il welfare. Passa per uomo di destra ma Fanfani lo è stato solo su alcune questioni di costume come il divorzio, non certo sul piano sociale dove è stato un riformista, ed era uno che aveva un’idea precisissima di società, un’idea di società molto cristiana e capace di essere più giusta. Era un uomo di sinistra Fanfani. Moro no.

Moro era un conservatore, ma un grande conservatore. Aveva l’idea che bisognava conservare la struttura della democrazia italiana, così com’era, senza modificarla, bisognava permettere a questa struttura di essere la chiave dello sviluppo economico e per fare ciò bisognava tenere a bada il conflitto sociale. Moro era bravissimo in questo. Questa tattica, questa tecnica politica, era la tecnica che gli serviva per arrivare al suo obiettivo che era quello di mantenere le cose. I conservatori non devono riformare. Moro non era un riformista, una balla. Era un conservatore dalle grandissime idee, dalle grandissime capacità politiche. L’hanno dovuto abbattere perché se non lo avessero fatto avrebbe vinto lui. Se non lo abbattevano vinceva Moro.

Craxi e Berlinguer erano due uomini di sinistra, due grandi riformisti con idee completamente diverse. Craxi pensava che la questione fondamentale fosse sviluppare moltissimo la libertà e quindi liberalizzare l’Italia sul piano dell’economia e quindi aprire le porte al liberismo, sul piano della cultura, sul piano della politica con il decisionismo, semplificazione, Repubblica Presidenziale. Berlinguer no. Non è che fosse anti liberale, ammetteva la libertà ma come lusso. La questione di Berlinguer era l’equità e la giustizia economica, e quindi livellare gli stipendi, aumentare il potere d’acquisto dei poveri e ridurre le grandi ricchezze. Fece delle grandi riforme: fra il ’78 e il ’79 fu il Pc a fare le grandi riforme della Casa, della Sanità, anche la riforma della Psichiatria, l’Equo canone, la Scala mobile.

Non è vero che Craxi e Berlinguer erano incompatibili perché si odiavano, erano incompatibili perché avevano due idee completamente diverse di sinistra su due giganteschi pilastri ideali: la libertà e l’uguaglianza. Non potevano mettersi d’accordo non perché ci fossero questioni tattiche perché c’erano due questioni di idealità. Erano due sinistre diverse. Berlinguer liquidò Lenin ma non liquidò Marx, Craxi liquidò Marx e scelse Proudhon.

Adesso noi siamo un po’ più impicciati perché la questione fondamentale che ci riguarda è quella di Giarrusso e Petrocelli, ma allora non si discuteva di Giarrusso e Petrocelli, può sembrare strano ma si discuteva di queste cose. Erano queste le questioni aperte. In questa politica fatta di strategie, di ipotesi e realizzazione di riforme per costruire un’Italia diversa, De Mita non c’entrava nulla.

Sfido chiunque a ricordarmi una grande idea politica di De Mita. Volete sapere di Craxi? Tagliò la Scala mobile per favorire le imprese (ero contrario e lo sono ancora adesso), però quella era la sua politica, la Repubblica presidenziale, la politica estera autonoma dagli Stati Uniti. Volete sapere cosa fece Berlinguer? Ve l’ho detto: la riforma sanitaria, la riforma della casa. Se si chiede anche a una persona che ha studiato quell’epoca: “De Mita che idea aveva?”. Nessuno sa rispondere. De Mita non aveva nessuna idea, aveva l’idea di governare, di prendere il potere e non gli riuscì perché Craxi lo spazzò via. Lo scontro fra Craxi e De Mita che avvenne negli anni ’80 è lo scontro fra un uomo fortissimo sul piano della gestione del potere e un uomo che invece nella gestione del potere non era tanto forte ma che aveva idee e carisma fortissimi.

De Mita ebbe la capacità di prendere in mano la stampa italiana, tutto il sistema dell’informazione, e di guidare il sistema delle correnti. L’uomo che gli realizzò tantissimi dei suoi progetti tattici, che gli fece vincere i congressi era Clemente Mastella. Uomo intelligentissimo, modernissimo, che sapeva governare le correnti. Fu inventata credo da Giampaolo Pansa la frase ‘per vincere un congresso ci vogliono le truppe mastellate’, e in effetti De Mita vinse parecchi congressi con le truppe mastellate non con le idee. Non usciva nessuna idea da quei congressi, uscivano maggioranze.

E poi controllava la stampa italiana. Ce l’aveva tutta. La Rai era tutta roba sua, allora aveva il monopolio. Poi il Corriere della Sera, La Stampa, Il Giorno, L’Unità, Paese Sera. Controllava tutti. Anche molti dei giornalisti di oggi, posso citare Mauro, Franco, Caprarica, Padellaro erano tutti in questa grande corte dei giornalisti ‘demitiani’. Lui controllava tutto per questo restò a galla tanto tempo eppure perse alla fine anche le battaglie di potere perché le vinse Craxi.

Quando nel 1984 morì Berlinguer per un ictus mentre era in corso una battaglia feroce sulla Scala mobile quindi sulla politica economica fra le due sinistre, fra Berlinguer e Craxi (la Dc non contava niente), poi qualche anno dopo nel ’92 la magistratura spazzò via Craxi e non rimase più nulla della grande politica, rimase il ‘demitismo’. Craxi non è l’uomo che ha portato la corruzione in Italia, io li ricordo bene, Craxi non si è mai venduto, io non so come funzionava il sistema delle tangenti, le prendevano tutti, però poi c’è un altro aspetto: cioè chi manteneva fermi i principi della sua politica e chi no.

Craxi ha sempre tenuto fermi i suoi principi, io li ho conosciuti quando ero ancora un giornalista politico molto giovane e sono sempre stato ferocemente anti-craxiano (perché ero comunista), ma Craxi lo riconoscevi. Il resto era robetta, manovretta, cose che non avevano nulla a che fare con la grande politica. Quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il ‘demitismo’ e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica e quindi, dico io, è stata spazzata via la democrazia italiana. E questo non è un merito. Piero Sansonetti

Il contro- necrologio. De Mita rovinò l’Italia, ecco perché. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2022.  

Ciriaco De Mita, secondo me, è stato l’uomo che ha portato al disastro la prima repubblica. Cioè la democrazia italiana. Ho letto ieri moltissimi articoli sui giornali italiani, compreso il nostro, anche molto belli, acuti. Secondo me, però, eccessivamente generosi verso l’ex segretario democristiano e sbagliati nel giudizio di fondo. Capisco che il mio è un giudizio molto minoritario e forse persino un po’ maleducato. Ma sono molto convinto di quel che scrivo.

Io credo che De Mita avesse alcune delle doti del grande politico: una notevole abilità tattica, una buona strategia delle alleanze, la capacità di conquistare, e dominare, e sottomettere i giornalisti e i mass- media. Però gli mancava la visione. De Mita spesso incantava con la sua retorica un po’ fumosa, ma non era capace di produrre idee politiche. Era il suo punto debole. Stiamo parlando di un’epoca nella quale le idee erano fondamentali in politica. L’epoca di Moro e Fanfani, e poi di Craxi e Berlinguer. Moro era un conservatore, un uomo di centro. Anzi, era il gigante del centro politico. Voleva consolidare la struttura della democrazia italiana e fare in modo che questa potesse accompagnare lo sviluppo economico, riducendo al minimo le tensioni sociali. Tutte le sue scelte politiche erano ispirate a questo disegno. Conciliare e conservare.

Fanfani invece era un riformista, e tendenzialmente, sul piano sociale, uno statista di sinistra. Diede impulso al welfare, realizzò il piano casa, riformò la scuola media. Craxi e Berlinguer erano due politici con una impronta fortissima e simile: mettevano la strategia al di sopra della tattiche. Il fine davanti a tutto. Cioè i programmi, la visione, erano per loro la sostanza della politica, e la manovra era solo il mezzo. Craxi fu anche un ottimo manovratore, e anche Berlinguer. Ma il loro carisma non era fondato sulle tattiche: si reggeva sulle idee e su un progetto di società. Craxi e Berlinguer avevano due progetti di società molto diversi. Quasi opposti. Craxi voleva liberalizzare il paese, sul piano dell’economia, ma anche della cultura, del senso comune, e poi sul piano politico, semplificando la macchina decisionale, introducendo il presidenzialismo, deburocratizzando il parlamento. Ve lo ricordate? Dicevano che fosse un decisionista. Il suo decisionismo era una subordinata del liberalismo sociale.

Berlinguer non era un illiberale. Però non considerava la libertà il principio essenziale attorno al quale costruire una strategia. Da vecchio comunista togliattiano, e anche un po’ da para-cattolico, metteva l’equità e l’uguaglianza al centro di tutto. Non la libertà. Sanità uguale per tutti, diritto alla casa, livellamento salariale, riduzione delle grandi ricchezze. La stagione ‘78-79 (la seconda grande stagione riformista del dopoguerra, dopo quella di Fanfani ) è opera sua. Se Berlinguer e Craxi non trovarono mai una intesa, se la sinistra restò divisa, la cosa non dipese da “incompatibilità caratteriale”, o eccesso di competitività. No. Dipese dalla lontananza delle idee delle due sinistre. Berlinguer liquidò Lenin, ma non Marx. Craxi liquidò Marx e scelse Proudhon. Allora la politica era questo, le questioni relative a Giuarrusso e Petrucelli non si erano ancora affacciate.

De Mita si è sempre tenuto lontano da queste “beghe intellettuali”. A lui interessava quella politica che Rino Formica chiamava “sangue e merda”. La battaglia di campo, la ricerca del consenso, il governo delle correnti, che erano l’anima della Dc. Anche Moro era abile nel governo delle correnti, ma era diverso l’approccio. Moro si misurava con le parti “alte” delle correnti. Perché nella Dc le correnti erano due cose: truppe (assistenzialismo, clientelismo) e grandi idee. Basso e alto. Ricordo alcuni convegni a Saint Vincent della corrente di Donat Cattin che valevano dieci lezioni universitarie di dottrine politiche. Soprattutto la sinistra Dc, erede di Dossetti, di La Pira, di Marcora, era fortissima sul piano intellettuale. Lo era anche la sinistra di Base (Marcora, appunto) che aveva intellettuali raffinatissimi al suo interno, come Galloni e se non ricordo male anche Martinazzoli, Granelli e Belci.

De Mita era più interessato alla parte un po’ grezza del correntismo. L’organizzazione. Quella che permetteva poi di vincere i congressi, regolando l’afflusso dei voti e degli appalusi. Aveva un colonnello fantastico, che ancora è alla ribalta, ed era bravissimo. Clemente Mastella. Credo che fu Gianpaolo Pansa, ad un congresso Dc, a scrivere che il congresso lo avevano vinto le “truppe mastellate”... Mastella era anche l’uomo che organizzò la “testuggine“ dei giornali intorno a De Mita. Prima conquistò la Rai (quando Mediaset ancora non esisteva e la Rai aveva il monopolio) poi i grandi giornali. De Mita, direttamente o attraverso Mastella – uomo intelligentissimo e modernissimo – controllava il Corriere, Repubblica, l’Unità, la Stampa, Paese Sera, il Giorno, il Messaggero. C’era una corte di giornalisti che pendeva dalle sue labbra. Anche penne celebri allora e celebri ancora adesso. Ne cito qualcuno, alla rinfusa, per non essere vago.

C’erano Ezio Mauro, Massimo Franco, Antonio Caprarica, Candiano Falaschi, Giorgio Rossi, Antonio Padellaro e tantissimi altri. Quelli fuori dal coro erano pochissimi, e generalmente finivano per appoggiarsi a Craxi. Penso a Paolo Franchi, a Walter Tobagi e un paio d’altri. Però Craxi non distribuiva potere, De Mita sì. In quel periodo ero un giovane giornalista politico dell’Unità. Abbastanza emarginato. Non sopportavo la corte di De Mita (forse l’avete capito anche leggendo queste righe…) e avevo notato lo squilibrio, sul piano dello scambio di potere, tra craxismo e demitismo. Nel craxismo era bassissimo. Poi mi dissero che Craxi era corrotto. Per come lo conoscevo tendo a escluderlo, Penso che in quel mondo politico, nel quale la corruzione non era un difetto – faceva parte del sistema – Craxi fosse uno dei pochi incorruttibili. Non dico sul piano dei soldi, quello non lo so.

Il sistema delle tangenti funzionava per tutti con regole ferree. Era considerato più che tollerabile da tutti. Dico sul piano della politica. Per me Craxi non si è mai venduto: nel senso che le sue scelte politiche erano assolutamente autonome, non erano condizionate da scambi di favori o di potere, o da manovre, o da compromessi. Craxi, dopo la morte di Berlinguer e di Moro, era restato l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Nella Dc non era così: lo scambio tra scelte politiche e vantaggi vari era piuttosto frequente. Lo scontro fra Craxi e De Mita fu tutto qui. La possenza del sistema di potere democristiano contro il carisma e le idee e le doti di statista di Craxi. Lo sapete, negli anni ottanta vinse Craxi, spostò l’Italia, in parte controriformando le riforme berlingueriane di fine anni 70, in parte innovando, “europeizzando” e forzando la mano sull’indipendenza del paese.

La Dc fu per la prima volta messa in secondo piano. Grande potere, grande sottogoverno, ma fuori dalle scelte importanti. Politica estera, politica economica, politica sociale: decideva il Psi, la Dc o approvava o faceva un po’ di fronda strizzando l’occhiolino al Pci. Quando dalla politica italiana sono scomparsi prima Berlinguer e poi Craxi è scomparsa anche la grande politica. Non si sono sentite più le idee. Nessuno capace di immaginare il futuro, di pensare. Restò il potere, la ricerca del consenso, i sondaggi, le tattiche, i congressi di manovra. Era il demitismo che si allargava, si prendeva la vendetta, ma non dopo aver vinto una battaglia ,semplicemente per la legge dei “vuoti”. Lo dico in modo un po’ brusco, ma io credo che il demitismo sia stata la malattia che ha portato la prima repubblica a implodere, a consumarsi, e a finire preda di un pugno di magistrati milanesi. Quattro o cinque, svegli e con un po’ di manette a disposizione.

L’Italia, alla vigilia del ‘92, era diventata la quarta potenza mondiale. Era un paese molto più giusto e molto più democratico del paese che è oggi. Aveva sconfitto il terrorismo e dato le legnate di Falcone alla mafia. Non restò nulla. Iniziò il declino. Colpa di De Mita? Ma no, per carità, non dico questo. Certo De Mita non portò neppure un granello di sabbia a difesa della grandiosa stagione della democrazia politica. La sua eredità politica, siamo sinceri, non è vastissima.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Prima repubblica e crisi della politica. La morte della democrazia non fu colpa solo di De Mita. Enzo Carra su Il Riformista il 5 Giugno 2022. 

Caro direttore, nel tuo epicedio per Ciriaco De Mita, così diverso dagli altri da sembrare stonato, ma la politica non obbedisce a un canone melodico, tu concludi, perdona la citazione demitiana, con un ragionamento. Dici che da “quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il demitismo e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica.”

Così, tu attribuisci a De Mita un ruolo imponente nell’ultima fase di quella che con leggerezza chiamiamo Prima Repubblica (è forse stata cambiata la Costituzione?). Certo, dal caso Moro in poi quella parte della nostra storia ha proseguito il suo corso come sospesa, malamente, senza idee e senza progetti. La cosiddetta lotta politica s’era trasformata dalla fine degli Anni settanta in uno scontro tra i detentori del potere e quelli che volevano impossessarsene. Per dire: Andreotti spogliato del governo dopo il caso Moro punta sull’elezione di De Mita alla segreteria della Democrazia Cristiana per poi mollarlo appena ottenuto il ministero degli esteri da Bettino Craxi. Per dire.

Negli Anni ottanta la “grande politica” è assente. Molta tattica, un governo a guida socialista appoggiato da una parte della Democrazia Cristiana e il partito di Scalfari-Repubblica che appoggia De Mita: c’è questo e poco altro in quel fine secolo ed è complicato limitare a uno solo dei protagonisti dell’epoca la responsabilità del crollo. È sicuro invece che questo crollo, tu lo definisci icasticamente la “morte della democrazia”, avviene nel maggio del 1982 quando si vota per il presidente della repubblica. Sarà il successore di Francesco Cossiga, il “picconatore” tanto per restare in tema di crolli. In quei giorni si consuma l’ultimo atto della repubblica dei partiti. Si inizia con un saggio di filodrammatici, li chiamano franchi tiratori, che seminano trappole e si finisce avvolti dalle fiamme in una tragedia che brucia uomini e istituzioni.

Cominciamo dalla fine, una fine vera. Lunedì 25 maggio a metà giornata i grandi elettori applaudono Oscar Luigi Scalfaro nuovo capo dello stato: hanno votato a stragrande maggioranza una persona che prima di quell’infernale week end avevano escluso dalla lista degli eleggibili. Sono le fiamme e la tragedia di Capaci a obbligare quell’esercito allo sbando a votare per Scalfaro, il candidato al di sopra di ogni sospetto. E alla domanda perché Riina e gli altri assassini abbiano scelto quel giorno per la strage la risposta è: Andreotti. Dopo Salvo Lima, Cosa Nostra completa la sua vendetta contro chi l’ha scaricata con quell’orrore inimmaginabile che impedirà a Andreotti di chiudere al Quirinale la sua carriera politica.

Per ottenere questo risultato però non c’era bisogno di quintali di tritolo perché già dall’estate del 1990, al rientro a Roma della commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte da una importante e rivelatrice missione a Palermo, i comunisti fanno sapere ad alcuni dirigenti democristiani che il partito non sosterrà più Andreotti. La Democrazia Cristiana tiene conto di questa decisione del partito con il quale ha sempre condiviso la scelta al Colle più alto. Una prassi che ha tollerato un’unica eccezione, il voto per Giovanni Leone che mandò il giurista al Quirinale e su tutte le furie il partito comunista, neutralizzato in quell’occasione, che poi seppe come dilaniare il presidente che non doveva ringraziarlo. Il 1992 è un anno speciale. Mani Pulite è partita da poco ma promette grandi cose e i partiti, tutti i partiti comunisti compresi, non hanno lo smalto di una volta, anzi boccheggiano.

Un’ultima volata, un disperato sforzo di restare in piedi per non mandare all’aria il sistema -la Prima Repubblica– che non ha alternative se non quella dell’avventura come sistema, è questo il tentativo del quadripartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali). Un’operazione che nello scrutinio decisivo potrà raccogliere i cosiddetti voti in libertà da sinistra e forse anche da destra. Una scelta conservativa, sì ma per evitare il peggio. È vero, all’occorrenza ci sarebbe anche Oscar Luigi Scalfaro, il “candidato di Marco Pannella” come scrivono i giornali. Non è per questo che sul quel nome ci sia il “no” della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita, presidente del partito con Forlani segretario, non dimentica la severità curiale, l’enfasi moraleggiante, la demagogia con cui Scalfaro ha condotto, da presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, i fatti della ricostruzione in Irpinia.

Prima Montanelli sul Giornale, con una grande inchiesta giornalistica di Paolo Liguori, ha sommerso di accuse il “clan degli avellinesi”, poi la commissione parlamentare ha messo in bella copia e dettagliato quelle denunce. Raro esempio di un’azione giudiziaria ispirata e sorretta da un’inchiesta giornalistica, da allora in poi infatti avverrà il contrario e i giornali aspetteranno il via, soprattutto le carte dalle procure. De Mita controlla un buon quaranta per cento dei grandi elettori della Democrazia Cristiana e i suoi orientamenti influenzano l’intero arco costituzionale che del resto è una sua invenzione. Arnaldo Forlani è capo della parte moderata che adesso si chiama Azione popolare e comprende la vecchia cara corrente del Golfo che fa capo a Antonio Gava.

Insomma, il candidato Forlani parte bene anche se Mario Segni, ex capo dei superanticomunisti democristiani, i “101” di Massimo De Carolis e Luigi Rossi di Montelera, sta molto simpatico al capo dei democratici di sinistra Achille Occhetto. Segni chiede un completo rinnovamento del suo partito, a cominciare dal candidato alla presidenza, ma i suoi amici di partito non raccolgono l’appello. Non tanto per il rinnovamento in sé quanto per gli uomini che lo reclamano. Superato questo problema resta solo la prova dell’aula. De Mita e Forlani sentono odore di bruciato, è soprattutto De Mita a intuire che qualcuno sta armando una piccola ma efficace forza speciale di franchi tiratori. All’operazione lavora probabilmente Cirino Pomicino e quei pochi che credono nel rientro di Andreotti.

Tra i congiurati non figura Vittorio Sbardella, lo Squalo, come è sobriamente definito il capo andreottiano di Roma e dintorni, odia talmente Pomicino da fare qualunque cosa pur di far fallire i piani del rivale. Il cui piano è però talmente striminzito da sfuggire ai controlli. “Mi dissero che si trattava di bloccare Forlani perché poi sarebbe entrato Andreotti e con lui noi parlavamo meglio” mi racconta anni dopo un ex sottosegretario socialista di Ariano Irpino che un tempo si chiamava Ariano di Puglia ed è distante da Nusco. I franchi tiratori che sfuggono a De Mita e atterrano Forlani sono 39 al quinto scrutinio e 29 al sesto. Voti di andreottiani che sperano, socialisti che odiano Bettino Craxi, qualche socialdemocratico e un paio di liberali del genere hai visto mai.

Ecco fatto, Forlani getta la spugna, sconfitto dai franchi tiratori, dopo aver respinto con sdegno una possibile trattativa con Bossi proposta da Pierferdinando Casini. Chi si sente sconfitto più di lui è De Mita che vede con chiarezza pararsi davanti la fine della democrazia nel senso della Prima Repubblica, come la definisci tu, caro direttore. Stavolta, davvero, non è colpa sua ma dei sogni irrealizzabili di certi avventurieri. Enzo Carra

·        E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.

(ANSA il 24 maggio 2022) - E' morto improvvisamente questa mattina a Roma l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo. A darne notizia all'ANSA, la moglie Christine. Sessant'anni appena compiuti, originario di Pozzuoli (NA), Cannavacciuolo era cresciuto alla scuola di Eduardo De Filippo. Elegantissimo ed eclettico mattatore ha calcato tutti i teatri d'Italia, dal San Carlo di Napoli al Teatro Verdi di Trieste, dal Sistina di Roma, all'Augusteo di Napoli e il Manzoni di Milano, interpretando i ruoli più disparati, sia di prosa che di canto fino ai recital e one man show.

Tra i suoi ultimi impegni, l'omaggio in palcoscenico a "Yves Montand. Un italien à Paris" e la tournée di quest'inverno di "Milva. Donna di teatro", in cui aveva cucito insieme note di alcuni dei più grandi successi della cantante e momenti delle sue interpretazioni teatrali, da Brecht a Patroni Griffi. 

Attivo anche nel cinema e nella televisione, Cannavacciuolo era anche nella serie internazionale Clash of Future, per il quale era stato premiato nel ruolo di Silvio Crespi. Da anni viveva a Roma dove lascia la moglie e il figlio di nove anni. Le esequie si terranno sabato 28 maggio alle 14 nella chiesa di San Bellarmino.

Aveva compiuto da poco 60 anni. È morto Gennaro Cannavacciuolo, attore e cantante allievo di Eduardo De Filippo. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

Gennaro Cannavacciuolo era stato attore e cantante, eclettico mattatore da palcoscenico, era cresciuto alla scuola di Eduardo De Filippo. È morto all’improvviso questa mattina a Roma. Aveva appena compiuto sessant’anni. A dare la notizia la moglie Christine.

Cannavacciuolo era originario di Pozzuoli. Era stato attore eclettico ed elegante. Aveva calcato i palchi di tutti i teatri d’Italia. Dal San Carlo di Napoli al Teatro Verdi di Trieste, dal Sistina di Roma all’Augusteo di Napoli fino al Manzoni di Milano.

Si era esibito in canto come nei recital come in one man show. Tra i suoi ultimi impegni l’omaggio in palcoscenico a Yves Montand – Un italien à Paris e la tournée dello scorso inverno di Milva – Donna di teatro. In quest’ultimo spettacolo aveva messo insieme grandi successi della cantante e sue interpretazioni teatrali.

Era stato attivo anche nella televisione e per la sua interpretazione di Silvio Crespi nella serie internazionale Clash of Future era stato premiato. Viveva a Roma da anni. Lascia la moglie e un figlio di nove anni. I funerali si terranno sabato 28 maggio alle 14:00 nella chiesa di San Bellarmino.

·        E’ morto il taverniere Guido Lembo.  

Lembo e il mondo in una taverna. «Con lui i vip ballavano sui tavoli». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Capri, i racconti di Carlo Rossella sull’amico scomparso. Diego Della Valle: ci ritroveremo lì per ricordarlo. 

«La grandezza di Guido Lembo era quella di regalare a ognuno i famosi 15 minuti di celebrità: chi saliva a cantare sul suo palco veniva in un certo modo incoronato». Carlo Rossella, giornalista e scrittore bon vivant, ricorda le notti in taverna — come gli habitué chiamano Anema e Core — insieme all’amico Guido, scomparso giovedì sera dopo una lunga malattia, e i cui funerali saranno celebrati oggi nell’isola di Capri. «Credo che il modo migliore per ricordarlo ora sia quello di parlare delle cose belle. Come quando noi amici gli telefonavamo e gli chiedevamo: «E a Capri come va»? e lui rispondeva: «Che ti dico... Devi venì!»

L’intuizione di aprire un locale diverso dagli altri era nata a New York, come lo stesso Lembo ha raccontato nel libro edito da Rizzoli Anema e Core. «Andai al Baraoonda, erano tutti sui tavoli a ballare. Decisi: “Il mio locale lo faccio così”». L’incontro con una taverna sfitta, il timore iniziale («e chi la riempie?»), il successo immediato. Entrare nel mondo di Guido Lembo significava immedesimarsi in una parte, perché «lui stesso era un attore», racconta Rossella. A fare da collante era la musica napoletana: di questa scenografia facevano parte i tavoli in legno dove venivano serviti gin tonic e champagne e quegli sgabelli sui quali bisognava per forza saltarci su, tra «tedeschi che cantavano Luna Rossa e Scapricciatiello nella lingua di Goethe», ricorda Rossella. L’intuizione era stata quella di rendere la strofa napoletana meno melodrammatica, grazie a qualche licenza. «La pennellata a sfondo sessuale colorava il repertorio, come le allusioni canore: “E se Carlo Rossella stanotte vulesse c...”.

Se la risposta di Guido era: “Nun ce la fa“ mi sentivo uno straccio, ma se cantava ”Ce la fa, ce la fa!”, ero un eletto!» . Lo stesso Guido Lembo si vantava di aver intonato la goliardica canzonetta anche al Principe Alberto di Monaco e probabilmente a una lista infinita di clienti, da Diego Armando Maradona a Katy Perry, da Jennifer Lopez a Luca Cordero di Montezemolo, che scelse la taverna nel 2001 per festeggiare la vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. «Eravamo tutti all’Anema e Core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa», ricorda Montezemolo.

Anche i social si sono popolati di ricordi, foto, aneddoti. «Caro Guido sei riuscito a far ballare sui tavoli intere generazioni» ha twittato il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis. Guido Lembo tirava il sasso, ma non nascondeva la mano. Come quando invitò Tyson a sfilarsi la camicia e mostrare i muscoli sul palco: il pugile rispose che se voleva vederlo a torso nudo doveva andare a un combattimento. E poi Tom Cruise, Aznavour, Renzo Arbore, Beyoncé e Jay-Z, Lucio Dalla e Naomi.

In taverna gli scicchissimi sandali capresi venivano abbandonati in favore di tacchi 12, bisognava conquistare il palco e fare la «mossa» alla Sophia, accompagnati da un rullo di batteria. Ma nessuno avrebbe parlato di catcalling: «Le donne erano le regine e noi uomini succubi — annota Rossella —. Per essere all’altezza indossavamo i mocassini e il pullover sulle spalle». Un luogo in cui l’atmosfera da bar incrociava quella da saloon. «Quando i miei amici americani Leonardo DiCaprio e Lanny Kravitz passavano per Capri, dopo cena, mi chiedevano di andare all’Anema e Core», dice Diego Della Valle, presidente e Ad di Tod’s, amico di lunga data di Lembo. «A volte a fine serata andavamo a pescare: la cosa che lo rendeva più orgoglioso era vedere il figlio Gianluigi cantare al suo posto e avere un enorme successo, con la taverna sempre più piena. La nostra era un’amicizia cementata dall’ironia: noi amici ci siamo ripromessi di ritrovarci in taverna e ricordarlo cantando “e se stasera Guido vulesse...”». 

Claudia Catuogno per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 20 Maggio 2022.

Capri piange Guido Lembo. Lo chansonnier caprese, patron dell’Anema e Core, la taverna dei vip di Capri, si è spento qualche ora fa dopo una lunga malattia. La notizia ha fatto immediatamente il giro della sua amata piazzetta, dove ogni mattina d’estate era solito bere il caffè e leggere i giornali, seduto al solito tavolino. Qui Guido non mancava mai di scambiare quattro chiacchiere con ammiratori e turisti, ai quali dedicava pezzi di canzoni napoletana e dava appuntamento per la serata. Nella sua taverna aveva duettato con tutti i più grandi: politici, imprenditori, rockstar, calciatori e star. Recente, dopo il primo anno della pandemia, il siparietto sul palco con il governatore della Campania Vincenzo De Luca. 

Da Jennifer Lopez a Di Caprio: tutti pazzi per Guido e la sua chitarra

Dagli habitué Diego Della Valle, Luca Cordero di Montezemolo, a Tronchetti Provera e Carlo Rossella, da Fiona Swarovski, Caterina Balivo, Alessandro Preziosi ai calciatori del Napoli Mertens e Insigne su tutti. E poi Jennifer Lopez, Mariah Carey, Katy Perry e Orlando Bloom, Laura Pausini, Lenny Kravitz, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Giorgio Armani , Lucio Dalla, Flavio Briatore, Chiara Ferragni e Fedez, Francesco Totti con Ilary Blasi. E ancora LeBron James, Leonardo di Caprio, Matthew Mcconaughey, Renzo Arbore, Valeria Marini, Gigi D’Alessio, Jon Bon Jovi, Belen Rodriguez e tanti altri. Lucio Dalla e Giorgio Armani tra i primi ad esibirsi con lui in taverna.

La svolta al by night

Guido, istituzione caprese per eccellenza, ha dato una svolta al by night caprese, inventando un genere nuovo, rivisitando le canzoni storiche del panorama musicale partenopeo in chiave moderna e facendole conoscere così al grande pubblico. La sua carriera, però, parte da lontano e racconta storie di musica e parole: era solo un ragazzino quando insieme al fratello Bruno iniziò a esibirsi nelle ville dei signori dell’epoca, alla “corte” della principessa Sirignano, dalla duchessa Serra di Cassano e in quel di Cesina a casa del Principe Parente. Lascia Capri per trascorrere un periodo a Londra ma rientra poco dopo e decide che la musica sarà la sua strada. 

Dagli inizi al successo

Dal Guarracino, il locale di famiglia di via Castello alla centralissima taverna Anema e Core, nel cuore della “Rodeo Drive” isolana, il passo è breve ma il successo è enorme e dura da quasi trent’anni, tanto quanto l’amore che il musicista caprese nutriva per la sua isola e per la sua amata moglie Anna, compagna di vita e di lavoro. Una vita lunga e costellata di successi che Guido ha voluto raccontare nella sua autobiografia “Tutto cominciò così”, scritta a quattro mani dallo chansonnier caprese con la blogger Serena Papini. Per non dimenticare nulla di quegli anni speciali in cui l’Anema e Core è diventata il simbolo della vita notturna isolana e Guido incoronato re della movida, un testimone passato al figlio Gianluigi che oggi guida il locale e porta in giro il nome di Capri nel mondo tra concerti e tournée.

A 75 anni si è spento Guido Lembo, lo chansonnier di Capri. Francesca Galici il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Guido Lembo era da tempo malato. La sua taverna Anima e core, nella celebre Piazzetta, ha cambiato per sempre il volto notturno dell'isola di Capri.

Si è spento a 75 anni lo chansonnier Guido Lembo, icona e cuore della movida di Capri. Nel 1994 decise di fondare un piccolo locale a ridosso dell'iconica Piazzetta di Capri e da quel momento l'Anima e core ha cambiato il volto dell'isola. Da lì sono passati vip, attori, cantanti, imprenditori, da Jennifer Lopez, a Naomi Campbell. Non sono mancati i calciatori e chiunque sia stato a Capri almeno una volta ha cenato nella taverna di Guido Lembo. Aveva una passione straripante per la musica e a fine serata invitava i suoi ospiti a salire sul tavolo e a cantare le melodie classiche napoletane, che lui stesso eseguiva con la chitarra davanti alle celebrità e ai clienti comuni.

In pochi anni l'Anima e core è diventato un simbolo delle notti capresi e dalla primavera in poi è difficile trovare un tavolo per una cena, se non è si è preventivamente prenotato. Nonostante le difficoltà, Guido Lembo decise di scommettere tutto sull'apertura di questo locale nella sua Capri, lui che era caprese doc, figlio di un pescatore, e che aveva imparato dai fratelli a suonare la chitarra, con la quale si accompagnava nell'esecuzione delle melodie classiche napoletane. Nonostante l'amore per la sua isola, dopo il diploma decise di trasferirsi a Londra per imparare l'inglese. Qui, aveva trovato lavoro in una trattoria italiana e alla sera suonava la sua chitarra.

Ha viaggiato in tutta Europa accompagnato dalla sua chitarra e tentò anche un'esperienza in Florida prima di far ritorno a Capri, nel 1972. Qui aprì insieme ai fratelli, che lo avevano spinto a tornare, il suo primo locale. Si chiamava 'O Guarracino, come il titolo di una celebre canzone. Era una tavernetta, dove si eseguiva musica napoletana antica. Un locale che trovò subito l'apprezzamento dai vacanzieri, così come l'Anima e core, aperto nel 1994.

Dopo la mezzanotte, la taverna si animava e i commensali diventavano pubblico e al tempo stesso protagonisti delle performance. I tavoli del locale diventavano un palcoscenico per cantare e ballare in un' atmosfera di grande allegria, che proseguiva quasi fino alle prime luci dell'alba. In una delle ultime apparizioni in pubblico, Guido Lembo era nella Piazzetta di Capri per celebrare la "liberazione" dal Covid dell'isola azzurra, dopo la campagna di vaccinazione. Chitarra in mano, aveva intonato, di fronte al presidente della giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca, una strofa di "Malafemmena".

Si è spento in una clinica di Castellammare di Stabia e negli ultimi tempi la malattia lo aveva purtroppo tenuto lontano dalla sua Capri, che non dimenticherà mai uno dei suoi figli prediletti.

Guido Lembo, chi era lo chansonnier di Capri che conquistò star e divi di Hollywood. Pasquale Raicaldo su La Repubblica il 20 Maggio 2022.  

Con la sua celebre "Taverna Anema e Core" conquistò i divi di Hollywood: "Era un inguaribile sognatore, l'ambasciatore dell'isola nel mondo".

Era nato il 13 novembre del 1947, naturalmente a Capri. Su una barchetta a remi, o quanto meno così amava raccontare. Figlio di pescatore, fratello di musicisti. "Così a un certo punto passai dalle reti alla chitarra, abbandonando il sogno di solcare gli oceani per riempirmi l'anima con le note".

È stata una vita leggendaria quella di Guido Lembo, chansonnier - con la sua celebre taverna "Anema e Core" - di una Capri d'antan che con lui ha saputo resistere alla globalizzazione, difendendo con trasporto la "Dolce Vita" dell'isola. Se n'è andato a 74 anni, dopo una lunga malattia, in una clinica di Castellammaredi Stabia. Per quel piccolo cenacolo del divertimento a due passi dalla piazzetta sono passati - dall'apertura nel 1994 - attori e cantanti, imprenditori e divi di Hollywood. Gli davano tutti del tu e si lasciavano trascinare dal sorriso contagioso di quell'ospite affabile: dagli amici Luigi Abete e Diego Della Valle a Jennifer Lopez, da Naomi Campbell a Francesco Totti. A fine serata Guido li invitava a salire sul palco e cantare, insieme a lui, le melodie classiche napoletane. 

Pur non nascondendo una vena nostalgica per le atmosfere di un tempo ("Ricordo il patron di Chantecler, il principe Pignatelli, il panfilodi Onassis, il conte Agusta: negli anni '60, a Capri, c'erano solo persone ricche") e denunciando i rischi del turismo mordi- e- fuggi, Lembo non aveva mai smesso di credere nelle potenzialità dell'isola, lasciando negli ultimi anni il palcoscenico al figlio Gianluigi. 

A Capri era tornato dopo un vivace pellegrinaggio giovanile in giro per il mondo, da Londra ( dove approdò con il fratello Bruno dopo il diploma da ragioniere, iniziando a lavorare in un ristorante italiano per pagarsi le lezioni di lingua) a Palm Beach, negli Stati Uniti, dove arrivò appena ventenne. "L'America mi è rimasta nel cuore", avrebbe poi confessato, non disdegnando di tornarci quando poteva. Con i figli Gianluigi e Marianna, psicologa, lo piangono l'adorata moglie Anna, che lo aveva sempre sostenuto nelle scelte imprenditoriali e con la quale si sono tenuti per mano sin dall'adolescenza, e l'intera comunità caprese. "Un inguaribile sognatore, ambasciatore di Capri nel mondo", lo ricorda lo scrittore Luciano Garofano. Esprime cordoglio anche Vincenzo De Luca, parlando di un " artista poliedrico e coinvolgente, chansonnier effervescente, che ha donato allegria ai visitatori di tutto il mondo " e sottolineandone " la generosa disponibilità per tante iniziative solidali". 

Tra le ultime apparizioni pubbliche la presentazione, la scorsa estate, del suo libro "Anema e Core", edito da Rizzoli, la stessa casa editrice che gli aveva pubblicato, nel 2014, " Tutto cominciò così", con la prefazione dell'amico Della Valle: ai Giardini della Flora Caprense, a fine agosto, lo applaudirono in tanti e lui non esitò a improvvisare, come sempre, una canzone dietro l'altra, dedicando " Tu sì na cosa grande" alla moglie Anna e chiudendo con le note di "Meraviglioso". E sembrò guardarsi intorno, pensando al mare, al sole, alla vita e all'amore. E a Capri, naturalmente.

Capri, è morto Guido Lembo: addio allo chansonnier dell'Anema e core. Più famosa del Mediterraneo, nella sua autobiografia “Tutto cominciò così“, ripercorreva  le tappe della sua carriera, lunga 50 anni, icona di un’ammuina canterina fatta di tormentoni, tammurriate e tarantelle, fece perdere l’aplomb ai potenti di mezzo mondo, fece cantare al principe Alberto di Monaco Io vulesse chiavà…di Januaria Piromallo su Il Fatto Quotidiano il 20 Maggio 2022.

Fino all’ultimo, come il maestrale che soffia, dolce e furioso, non si è abbattuto. Fino all’ultimo respiro. Il primo tumore comparve 7 anni fa. Abitava a Marina Grande per una vita ha respirato i veleni che sputavano le ciminiere della centrale elettrica che alimentava la funicolare. Prima di lui l’amara sorte era toccata ad altri isolani, prima che la macchina pompa/veleni, l’Ilva dell’isola azzurra fosse messa sotto sequestro e poi chiusa definitivamente. Paradossale che nella Mecca del turismo vip l’elettricità fosse fornita da un impianto a gasolio datato 1903, gestito dalla società privata Sippic.

Ha combattuto Guido come un leone prima per denunciare il “bollettino di guerra” delle vittime della cattiva gestione Sippic, poi contro la malattia che aggrediva ogni cellula del corpo e dello spirito. Diego Della Valle a Milano lo affidò alle migliori cure. Sembrava guarito, ma era solo una proroga che il destino gli concedeva. La bestiaccia ricomparve dua anni dopo all’occhio. Il calvario ricominciava. Ma ha cantato fino all’ultimo soffio. Il palco lo divideva con il figlio Gianluigi, laureato in legge, voleva fare l’avvocato, invece ha deposto toga e manuali di diritto per raccogliere l’eredità di un padre troppo speciale. Chi se non io, ripeteva a mamma Anna, amorevole vestale di Guido, a lei le dedicava qualche mese fa, nei Giardini della Flora Caprense, tra lacrime e sorrisi: Tu si na’ cosa grande… Nelle vene gli scorreva il mare azzurro e l’ugola più famosa del Mediterraneo, nella sua autobiografia “Tutto cominciò così“, ripercorreva le tappe della sua carriera, lunga 50 anni, icona di un’ammuina canterina fatta di tormentoni, tammurriate e tarantelle, fece perdere l’aplomb ai potenti di mezzo mondo, fece cantare al principe Alberto di Monaco Io vulesse chiavà…

Guido, inesauribile, in taverna fino alle 3 di notte, alle 6 del mattino, già in gozzo a pescare alici e pezzogne. Lui non dimenticava di essere figlio di pescatore, rimane la sua essenza più verace. “Non ha mai perso lo spirito dell’uomo di paese, dai valori solidi. Basta uno sguardo per capirci tra di noi che le tradizioni ce le portiamo dentro…”, ha scritto Della Valle nella prefazione.

Intanto ‘Anema ‘e core’ diventava un appuntamento imperdibile per le star internazionali, Guido invitava sul palco Luciano Pavarotti, Mariah Carey, Beyoncé, Jennifer Lopez e Chiara Ferragni . Lustrini e ‘bling bling’ non lo hanno mai tentato e d’inverno preferiva rimanersene a Capri, regina di rocce, nel suo vestito color giglio e amaranto sono vissuto… come scriveva Pablo Neruda. E le note di quel Meraviglioso di Domenico Modugno con il quale ha diviso il palco, rimarranno per sempre il suo Inno alla Vita. Un mio ricordo: ha cantato alla mia zuppa di nozze. “ Sei sicura? – mi disse -Non mi piace cantare ai matrimoni. Se poi vi lasciate, non te la pigliare con me….”. Ovviamente scherzava ma ci aveva visto giusto. Il mio matrimonio naufragò poco dopo.

Morto Guido Lembo, Montezemolo: «La sera che mi aiutò con Edwige Fenech e la festa con Schumacher». L’ex presidente della Ferrari legato al patron della taverna caprese «Anema e core» da un’amicizia lunga mezzo secolo: «Suonò con Bennato a Paoli per i miei 60 anni». Gimmo Cuomo su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.  

Amico è un termine impegnativo. Spesso usato a sproposito. Ma per Luca Cordero di Montezemolo Guido Lembo, morto ieri dopo una lunga malattia, era davvero un «amico». Il manager apprende dal cronista la notizia della scomparsa dell’animatore della movida caprese. E resta un attimo in silenzio. Poi: «Sapevo che purtroppo stava male, ma non per questo si è mai preparati. Sono sinceramente dispiaciuto. Guido è stato una bellissima persona». Un rapporto personale che durava da mezzo secolo. «La nostra conoscenza — ricorda l’ex presidente della Ferrari — risale agli anni Settanta. Ripeto: sono molto addolorato». 

Lei lo ha frequentato dall’inizio dell’avventura dell’Anema e core?

«Certo, potrei dire che sono stato un cofondatore del locale». 

Un duro colpo?

«Molto duro. Guido è stata una persona che sprizzava gioia di vivere da tutti i pori. Riusciva a comunicarla. Ed era sempre disponibile con tutti». 

È stato presente in momenti importanti della sua vita?

«Assolutamente sì. Ricordo che è stato, insieme con Edoardo Bennato e Gino Paoli, alla festa dei miei sessant’anni. Una persona di grandissima disponibilità». 

Ne ricorda, naturalmente, anche gli esordi?

«Sì, lo conoscevo dall’inizio del suo percorso. In questo momento il mio pensiero va anche alla sua famiglia, alla moglie, persona straordinaria, così come il figlio. Con la scomparsa di Guido, Capri perde molto. Ha sempre amato incondizionatamente la sua isola. E, partendo da zero, è riuscito a portare il mondo nel suo locale. Una parabola certamente non scontata». 

Tra i suoi ricordi, sicuramente, ce n’è qualcuno indimenticabile.

«Due momenti in particolare». 

Il primo?

«Come sa, ho avuto un lungo rapporto con Edwige Fenech. Una sera eravamo all’Anema e core e Guido incitò i presenti a dedicarle un applauso. Edwige, molto timida, scappò fuori e io dovetti correre a “recuperarla”». 

L’altro?

«Indimenticabile la sera della vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. Eravamo tutti all’Anema e core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa, fantastica. C’era anche Diego Della Valle, un altro grande e sincero amico di Guido. Certo, ne è passato di tempo. Ma le immagini di quei momenti non saranno mai cancellati dalla memoria. E tutto questo soprattutto grazie alla sua grandissima umanità». 

Lembo era un artista istrionico e coinvolgente. Come le piace ricordarlo?

«Innanzitutto come una bellissima persona. Aveva scelto il suo percorso e lo seguiva con grande entusiasmo. Ha rappresentato un vero esempio. Ha sempre messo tutto se stesso in quello che faceva, riuscendo a trasmettere gioia ed energia agli ospiti del suo locale. Come le ho detto, la notizia della sua scomparsa mi rende triste. Però non mi fa dimenticare quanta spensieratezza è riuscito a dispensare a quelli che lo hanno amato. Sono sicuro che rimarrà nella memoria di tutti quelli che lo hanno conosciuto. Capri gli deve moltissimo: un grande artista. Rischio di ripetermi: una persona straordinaria, bellissima, come la sua famiglia alla quale, in questo momento, va tutto il mio affetto e la mia vicinanza».

Dagospia il 21 maggio 2022. Lettera di Roberto Russo in ricordo di Guido Lembo

Guido è stato un vero provocatore di felicità ed allegria. La sua taverna Anema & Core, l'ombelico del mondo. Guido definiva la taverna: "la sua creatura" Una scommessa partita nel lontano 1994, quando furono in pochi a credere nel nuovo progetto di Guido, aprire una taverna nel centro di Capri e proprio di fronte al Grand Hotel Quisisana. Fu un successo clamoroso e senza precedenti nel panorama della movida caprese. Un visionario che aveva sbaragliato tutti...

Entrare in taverna significava spogliarsi della propria identità ed entrare in un mondo surreale, dove non contava chi eri, ma chi eri diventato cantando con lui e con tutto il "popolo" come amava definire i suoi clienti, lo stesso Guido. "La vera felicità", diceva Guido, "costa poco. Se è cara non è di buona qualità".

La taverna Anema & Core è stato il primo vero laboratorio di felicità. Un aneddoto su tutti: Era il 29 giugno del 2002. Location: Grand Hotel Quisisana, Ristorante La Colombaia. Eravamo a cena per festeggiare l'uscita del libro di Leonardo Mondadori: Conversione. Riuniti intorno ad un tavolo: Il sottoscritto accompagnato da mia moglie Daniela, Leonardo Mondadori, Francesco Durante, Giorgio Napolitano accompagnato da sua moglie Clio Napolitano.

Era il compleanno di Giorgio Napolitano. Guido mi chiama: "Roberto, facciamo una sorpresa a Giorgio Napolitano" "Arriviamo all'improvviso al Quisisana e gli cantiamo la canzone di buon compleanno, ed infine Anema & Core a lui ed alla Signora Clio". 

"Ottima idea" risposi a Guido. "Procedi" E così fu  Guido con la sua allegria sorprese tutti i commensali ed alla fine delle canzoni, Guido disse a Giorgio Napolitano: " Onorevole, voi sarete il prossimo Presidente della Repubblica Italiana" Ovviamente tutti risero di quella battuta, ma quella battuta, dopo pochi anni, divenne una vera e propria profezia, perché Giorgio Napolitano nel 2005, divenne realmente Presidente della Repubblica Italiana.

Claudia Catuogno per corriere.it il 21 maggio 2022.  

Accolto dalla sua gente, questa mattina Guido Lembo è tornato nella sua amata Capri per restare immortale. 

Lo chansonnier isolano, patron di Anema e Core, scomparso giovedì sera, dopo una lunga malattia, ha compiuto il suo ultimo viaggio verso la sua amata Capri a bordo dello yacht Altair, il panfilo dell’amico Diego Della Valle. 

A salutare il suo ingresso in porto le sirene delle navi, dei motoscafi e dei gozzi presenti in porto mentre una piccola folla di parenti e amici attendeva in silenzio sulle banchine del porto turistico di Capri.

L’inchino all’ingresso di Anema e core

Il corteo funebre ha poi sfilato lungo Marina Grande per raggiungere il salotto del mondo. Piccoli gruppi di isolani si sono radunati lungo la strada per porgere l’ultimo straziante saluto allo chansonnier caprese, animatore delle notti di vip e star.

Mentre in piazzetta si è radunata fin dalle 11 una moltitudine commossa di amici e habitué, mescolati ai tanti turisti di un classico sabato d’estate, pronta a rendere omaggio all’arrivo in piazzetta del corteo che non si è fermato e ha proseguito lungo via Vittorio Emanuele per arrivare fino all’ingresso della taverna Anema e Core. Un «inchino», l’ultimo del re delle notti capresi prima di raggiungere l’ex Cattedrale di Santo Stefano dove alle 12 sono stati celebrati i funerali.

Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2022.

«La grandezza di Guido Lembo era quella di regalare a ognuno i famosi 15 minuti di celebrità: chi saliva a cantare sul suo palco veniva in un certo modo incoronato». Carlo Rossella, giornalista e scrittore bon vivant, ricorda le notti in taverna - come gli habitué chiamano Anema e Core - insieme all'amico Guido, scomparso giovedì sera dopo una lunga malattia, e i cui funerali saranno celebrati oggi nell'isola di Capri. 

«Credo che il modo migliore per ricordarlo ora sia quello di parlare delle cose belle. Come quando noi amici gli telefonavamo e gli chiedevamo: «E a Capri come va»? e lui rispondeva: «Che ti dico... Devi venì!» L'intuizione di aprire un locale diverso dagli altri era nata a New York, come lo stesso Lembo ha raccontato nel libro edito da Rizzoli Anema e Core .

«Andai al Baraoonda, erano tutti sui tavoli a ballare. Decisi: "Il mio locale lo faccio così"». L'incontro con una taverna sfitta, il timore iniziale («e chi la riempie?»), il successo immediato. Entrare nel mondo di Guido Lembo significava immedesimarsi in una parte, perché «lui stesso era un attore», racconta Rossella.

A fare da collante era la musica napoletana: di questa scenografia facevano parte i tavoli in legno dove venivano serviti gin tonic e champagne e quegli sgabelli sui quali bisognava per forza saltarci su, tra «tedeschi che cantavano Luna Rossa e Scapricciatiello nella lingua di Goethe», ricorda Rossella. L'intuizione era stata quella di rendere la strofa napoletana meno melodrammatica, grazie a qualche licenza.

«La pennellata a sfondo sessuale colorava il repertorio, come le allusioni canore: "E se Carlo Rossella stanotte vulesse c...". Se la risposta di Guido era: "Nun ce la fa" mi sentivo uno straccio, ma se cantava "Ce la fa, ce la fa!", ero un eletto!» . 

Lo stesso Guido Lembo si vantava di aver intonato la goliardica canzonetta anche al Principe Alberto di Monaco e probabilmente a una lista infinita di clienti, da Diego Armando Maradona a Katy Perry, da Jennifer Lopez a Luca Cordero di Montezemolo, che scelse la taverna nel 2001 per festeggiare la vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. «Eravamo tutti all'Anema e Core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa», ricorda Montezemolo.

Anche i social si sono popolati di ricordi, foto, aneddoti. «Caro Guido sei riuscito a far ballare sui tavoli intere generazioni» ha twittato il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis. Guido Lembo tirava il sasso, ma non nascondeva la mano. Come quando invitò Tyson a sfilarsi la camicia e mostrare i muscoli sul palco: il pugile rispose che se voleva vederlo a torso nudo doveva andare a un combattimento. 

E poi Tom Cruise, Aznavour, Renzo Arbore, Beyoncé e Jay-Z, Lucio Dalla e Naomi. In taverna gli scicchissimi sandali capresi venivano abbandonati in favore di tacchi 12, bisognava conquistare il palco e fare la «mossa» alla Sophia, accompagnati da un rullo di batteria. Ma nessuno avrebbe parlato di catcalling: «Le donne erano le regine e noi uomini succubi - annota Rossella -. Per essere all'altezza indossavamo i mocassini e il pullover sulle spalle».

Un luogo in cui l'atmosfera da bar incrociava quella da saloon. «Quando i miei amici americani Leonardo DiCaprio e Lanny Kravitz passavano per Capri, dopo cena, mi chiedevano di andare all'Anema e Core», dice Diego Della Valle, presidente e Ad di Tod's, amico di lunga data di Lembo. 

«A volte a fine serata andavamo a pescare: la cosa che lo rendeva più orgoglioso era vedere il figlio Gianluigi cantare al suo posto e avere un enorme successo, con la taverna sempre più piena. La nostra era un'amicizia cementata dall'ironia: noi amici ci siamo ripromessi di ritrovarci in taverna e ricordarlo cantando "e se stasera Guido vulesse..."».

·        Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.

Morto Vangelis, firmò la colonna sonora di 'Blade runner'. Andrea Silenzi su La Repubblica il 19 Maggio 2022.

Il grande compositore greco aveva 79 anni. Aveva vinto l'Oscar per le musiche di 'Momenti di gloria'.

Detestava apparire in pubblico: ai tempi degli Aphrodite’s Child, quando il trio greco era all’apice del successo internazionale, si rifiutò di partire in tour per restare a casa ed elaborare le sue mille idee. Vangelis Papathanassiou, conosciuto semplicemente come Vangelis, è morto a Parigi a 79 anni. Premio Oscar per le musiche di Momenti di gloria, aveva composto la colonna sonora di Blade runner, divenendo in pochi anni un autentico innovatore del concetto di musica da film.

Claudio Fabretti per leggo.it il 19 maggio 2022.

Dopo Klaus Schulze, la musica elettronica perde un altro dei suoi maestri storici. È morto infatti Evangelos Odyssey Papathanassiou, alias Vangelis. Il compositore greco, autore di "Blade Runner" e "Momenti di gloria", aveva 79 anni. Ad annunciarlo è stato il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis. Vangelis era uno dei più celebrati compositori di musica elettronica della sua epoca. 

Il suo caratteristico stile, basato su frasi melodiche brevi e su arrangiamenti sinfonici e magniloquenti, ha segnato il punto di congiunzione tra la musica cosmica degli anni Settanta e la new age di due decenni dopo, influenzando profondamente la scena elettronica mondiale. 

Come il suo omologo francese Jean-Michel Jarre, ha avuto il merito di sapere divulgare la musica elettronica al grande pubblico, smussando certe spigolosità della tradizione tedesca.

È morto Vangelis, firmò la colonna sonora di «Blade Runner». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022. 

È stato il pioniere dei sintetizzatori, conosciuto in tutto il mondo per la colonna sonora premio Oscar di Momenti di gloria (1982) e di altre dozzine di film, tra cui Blade Runner (1982) e Il Bounty (1984), oltre alle musiche di documentari e serie tv. Evángelos Odysséas Papathanassíou, conosciuto semplicemente come Vangelis, è morto martedì scorso in un ospedale francese per le conseguenze del Covid. Aveva 79 anni. A dare l’annuncio della scomparsa del compositore è stato il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis: «Vangelis Papathanassiou non è più con noi — ha twittato —. La Grecia perde un artista di caratura internazionale».

Nato il 29 marzo 1943 vicino alla città di Volos, nella Grecia centrale, Vangelis comincia a frequentare la scuola di musica di Atene all’età di 4 anni, benché affermerà di non aver mai imparato a leggere le note. La sua carriera inizia nel 1963: suona musica pop e cover dei Beatles con la sua prima band, i Forminx, prima di incrociare un altro musicista greco, Demis Roussos, con il quale fonda gli Aphrodite’s Child. Quando il gruppo si scioglie nel 1972, Vangelis prosegue come solista. I colori e le trame dei suoi album lo impongono all’attenzione di produttori cinematografici e televisivi. L’uso di un brano dal suo «Heaven and Hell» (1975) come tema per la serie di Carl Sagan «Cosmos», in onda su Pbs, porta il suo nome e la sua musica alla ribalta in America. 

Video: Addio al compositore Vangelis: realizzò le colonne sonore di «Momenti di gloria» e «Blade Runner» (Corriere Tv)

Nel 1980, il compositore accetta di registrare la colonna sonora di Momenti di gloria; due anni dopo, nel marzo 1982, vince l’Oscar per la migliore colonna sonora originale: «L’ispirazione principale è stata la storia stessa — racconterà —. Il resto l’ho fatto istintivamente, senza pensare ad altro, se non esprimere le mie emozioni coi mezzi tecnologici di cui disponevo». Dalla collaborazione con il regista Ridley Scott nascono le musiche di Blade Runner (1982), nelle cui note Vangelis riesce a catturare l’isolamento e la malinconia di Rick Deckard, il personaggio interpretato da Harrison Ford, e di 1492 - La conquista del paradiso (1992). Sue anche le colonne sonore de Il Bounty (1984) di Roger Donaldson; di Luna di fiele di Roman Polanski, e La peste di Luis Puenzo (1992). Negli anni Novanta, Vangelis realizza le musiche di numerosi documentari sottomarini per il regista francese Jacques Cousteau.

Fabrizio Zampa per il Messaggero il 20 maggio 2022.

Avrebbe compiuto 80 anni nel 2023, ma Vangelis, all'anagrafe Evangelos Odysseas Papathanassiou, nato nel 1943 a Agria, una località della Tessaglia, se n'è andato ieri in un ospedale francese, Paese nel quale viveva da qualche tempo, dov' era ricoverato da alcuni giorni per una serie di controlli legati al Covid. 

Vangelis (il pubblico lo chiamava semplicemente con il nome di battesimo) è stato il musicista greco che per primo, nei primi Anni Settanta, quando Internet ancora non esisteva e il computer più avanzato era il Commodore 64, ha affrontato con enorme successo la musica elettronica, che produceva affiancando i suoni digitali a quella grande melodia della quale è sempre stato innamorato.

A dare l'annuncio della sua scomparsa è stato il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis: «Vangelis non è più tra noi - ha twittato il premier - il mondo ha perduto un artista internazionale». Al di là della leggenda Vangelis aveva alle spalle una vita a dir poco avventurosa. Nei primi Anni Sessanta ha fondato la band Forminx, popolarissima nel suo Paese, durante la rivolta studentesca del 1968 si è trasferito a Parigi e ha messo su il gruppo degli Aphrodite' s Child con Demis Roussos e Loukas Sideras, e da allora non si è mai fermato.

Ha composto due colonne sonore per i film del francese Frédéric Rossif, si è spostato a Londra, ha firmato un contratto con la Rca, nel 1973 ha inciso Earth, il suo primo album solista, poi sono arrivati album diventati subito famosi come Heaven and Hell (1975), Spiral (1977) e China (1979).

Ma era solo l'inizio: negli Anni Ottanta e Novanta ha realizzato insieme a Jon Anderson, il vocalist degli Yes, alcuni dischi con il nome di Jon & Vangelis. Ha collaborato con artisti italiani come arrangiatore, da Riccardo Cocciante a Claudio Baglioni, Milva, Patty Pravo, Krisma.

Gli album italiani dove è preponderante il suo influsso sono E tu... di Baglioni, con le tastiere che richiamano gli Aphrodite' s Child, e Concerto per Margherita di Cocciante. Nel 1982 Vangelis vince l'Oscar per la colonna sonora del film Momenti di gloria di Hugh Hudson, comincia subito a lavorare con Ridley Scott, per il quale compone la colonna sonora di Blade Runner, e qualche anno dopo quella di 1492 - La conquista del paradiso. 

È stato con le colonne sonore che è diventato popolarissimo, grazie alla sua abilità di compositore e straordinario assemblatore di diversi ingredienti che usava, dalle melodie a suoni di ogni genere, dalla voce umana a strumenti classici ed elettronica, con l'efficacia dell'alchimista.

Oltre a 55 album alle spalle (45 incisi in studio e dieci antologie) ha anche un brano, Hymne, composto per i Mondiali di calcio Giappone-Corea del Sud 2002 e poi usato per le pubblicità della Barilla. Ha anche firmato la colonna sonora di eventi importanti, tra cui i Giochi Olimpici del 2000 a Sydney e i Giochi Olimpici del 2004 ad Atene. Ha scritto spartiti per balletti e musica per produzioni teatrali. Le sue ultime incisioni sono Rosetta del 2016, Nocturne: The Piano Album del 2019 e Juno to Jupiter del 2021.

Con Vangelis se ne va quello che si potrebbe definire un musicista completo, capace di affrontare qualsiasi situazione, come poi è sempre successo nella sua lunga carriera. Basta riascoltare qualcuna delle sue composizioni per capire che era un geniale. Indimenticabile. Cercatele online, se avete perduto la cassetta dei vecchi dischi, avrete belle sorprese e ve ne renderete conto.

Vangelis, il pioniere dell'elettronica che reinventò la musica per il cinema. Carlo Antini, Testo e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 20 maggio 2022.

Atmosfere così rarefatte e sintetiche da sembrare provenienti da mondi lontanissimi. Suggestioni e visioni di futuri fantascientifici che viaggiavano a braccetto con la consapevolezza di una stratificazione storica figlia dello studio approfondito di arrangiamenti e melodie. Vangelis riusciva a sintetizzare alla perfezione la tradizione greca e mediterranea con le sperimentazioni elettroniche dell’avanguardia a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Il compositore si è spento a 79 anni nell’ospedale francese dov’era ricoverato da tempo. La notizia della morte è arrivata dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis che ha espresso su Facebook il cordoglio dell’intero Paese: «Vangelis Papathanassiou - ha scritto Mitsotakis - non è più tra noi. Il mondo intero ha perso un artista internazionale. Il pioniere del suono elettronico, degli Oscar, di Mythodea e dei grandi successi».

In gioventù Evangelos Odysseas Papathanassiou (questo era il suo nome completo) aveva fatto parte, con Demis Roussos e Loukas Sideras, del gruppo rock progressive Aphrodite’s Child ma generazioni di appassionati di cinema hanno sognato sulle sue musiche per film passati alla storia come «Momenti di Gloria» di Hugh Hudson con cui nel 1982 vinse un Oscar per la miglior colonna sonora originale. Il passaggio più suggestivo è quello sulle note della celebre «Chariots of fire»: il tema che accompagna gli atleti olimpici della squadra britannica mentre corrono sul bagnasciuga preparandosi alle Olimpiadi di Londra del 1924 e che consacreranno eroi immortali Eric Liddell e Harold Abrahams. È la sua opera più luminosa, diventata negli anni un vero e proprio inno allo sport e allo spirito olimpico. Vangelis nasce ad Agria, attualmente compresa nel Comune di Volos, in Tessaglia, il 29 marzo del 1943, e dagli anni ’60 diventa uno dei compositori più apprezzati a livello mondiale. Oltre a quelle per il già citato «Momenti di Gloria», sono sue anche le musiche di «Blade Runner», «Blade Runner 2049», «Antarctica», «Missing - Scomparso», «1492 - La conquista del paradiso» e «Alexander». La sua predilezione per il pathos emotivo legato allo sport lo porta a essere scelto anche per l’inno dei Mondiali di calcio in Giappone e Corea del 2002.

Nel corso della sua lunga carriera, collabora come arrangiatore anche con diversi artisti italiani. Tra loro Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni, Milva e Patty Pravo. E la sua musica arriva nello spazio: nel 2001 registra «Mythodea», una composizione scritta originariamente nel 1993 e utilizzata dalla Nasa come tema per la missione 2001 Mars Odyssey. Personaggio schivo, non ha mai cercato le luci della ribalta. Di lui si ricordano pochissime esibizioni dal vivo. Di queste, la più famosa è quella al tempio di Zeus Olimpio di Atene, nel 2001, accompagnato da orchestra e coro. «Noi greci - aggiunge sui social il premier ellenico Mitsotakis - sappiamo che il suo secondo nome era Odisseo. Questo significa che ora ha iniziato il suo grande viaggio nel cielo e da lì ci manderà sempre le sue note». E adesso lo sappiamo anche noi.

L'ultima corsa dell'artista che ha fatto della musica la sua Odissea (da Oscar). Matteo Sacchi il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Morto a 79 anni Vangelis, compositore delle colonne sonore di "Blade Runner" e "Momenti di gloria".

È stato un vero gigante della psichedelia, capace di mischiare sonorità tradizionali a quelle più moderne e soprattutto di unire musica e immagine in un equilibrio perfetto, dove le sue note diventavano un'aggiunta di colore alla fotografia, una linea di continuità o di frattura capace di potenziare trama e montaggio.

Vangelis Papathanassiou, ma per tutti solo Vangelis, è morto ieri a 79 anni, dopo averne trascorsi più di sessanta nel mondo della musica. Vangelis incontra la musica sin da bambino con un talento precocissimo ma ribelle. La leggenda vuole che abbia iniziato a comporre a quattro anni da autodidatta. Di certo ha rifiutato ogni formazione accademica, tanto da non sviluppare mai una completa dimestichezza con note e spartiti. Talento naturale, orecchio assoluto. Ha iniziato la sua carriera negli anni '60 con diversi gruppi pop come The Forminx (il nome di uno strumento a corde dell'antica Grecia) e gli Aphrodite's Child, di cui faceva parte anche il cantante Demis Roussos. Crearono un mix incredibile di sonorità antiche e moderne in cui spiccava l'organo Hammond di Vangelis, con sonorità quasi da chiesa. Il loro album 666 (1972) che ha per tema centrale l'Apocalisse di Giovanni è stato riconosciuto come un classico del rock psichedelico progressivo. Al suo interno c'erano anche performance canore di Irene Papas. Basterebbe questo a far entrare Vangelis nella storia della musica. Ma negli anni Settanta Vangelis si avvicina alla cultura New Age, come si nota nel suo album da solista Earth e inizia a comporre le colonne sonore per diversi documentari sugli animali, tra cui L'Apocalypse des Animaux, La Fête sauvage e Opéra sauvage; il successo di queste colonne sonore lo spingerà verso i film e verso Hollywood. Intanto Vangelis forma una partnership musicale con Jon Anderson (che era rimasto affascinato da L'Apocalypse des Animaux), il cantante degli Yes: insieme hanno pubblicato ben quattro album firmati Jon&Vangelis (tra cui il semi ufficiale Page of Life del 1991).

Ma intanto arriva anche il trionfo hollywoodiano. Nel 1981 lavora alla meravigliosa colonna sonora per il film premio Oscar Momenti di gloria di High Hudson, per il quale ha vinto la statuetta per la migliore colonna sonora originale poi raccolta nel disco Chariots of Fire. La musica, interamente elettronica, diede inizio ad uno stile nuovo nella composizione delle colonne sonore e venne subito copiata. Il singolo Titles, tratto dall'album, è stato anche in cima alla Billboard Hot 100 degli Stati Uniti ed è stato utilizzato come musica di sottofondo per la cerimonia di premiazione delle Olimpiadi di Londra 2012.

Nel 1982 ha invece realizzato la colonna sonora di Blade Runner, il film di Ridley Scott divenuto una delle pellicole più iconiche dell'intera storia del cinema grazie anche alle musica del compositore greco. Nel corso degli anni ha poi composto le musiche per altri importanti film tra cui 1492 - La conquista del paradiso, El Greco e Blade runner 2049.

Nel 2001 il momento del suo massimo riconoscimento in Grecia e in un certo senso interplanetario. Registra Mythodea, una composizione scritta originariamente nel 1993 e utilizzata dalla Nasa come il tema per la missione 2001 Mars Odyssey. In uno dei pochissimi concerti della sua carriera, Vangelis si esibisce al tempio di Zeus Olimpio di Atene ed esegue l'intero disco accompagnato da orchestra sinfonica e coro. Del resto lo spazio, infinito come la sua musica, è stata una delle sue grandi fascinazioni. Nel 2016, dopo ben 18 anni dall'ultimo lavoro in studio, Vangelis annuncia l'uscita di un nuovo album, Rosetta, ispirato all'omonima missione spaziale dell'Esa del 2014.

·        E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.

Rovigo, schianto in moto: morto a 26 anni Riccardo Passarotto. Era stato campione mondiale di pattinaggio. L’atleta ha perso il controllo della moto, finendo contro una centralina dell’Enel: il suo cuore ha smesso di battere in ospedale. Gli amici: «Ciao Bocia». Andrea Pistore e Natascia Celeghin su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.

Era stato campione mondiale di pattinaggio in linea Riccardo Passarotto, il ventiseienne di Rovigo morto mercoledì sera in ospedale dopo un violentissimo schianto con la sua moto. L’incidente si è verificato alle 21.30 in via Nievo, lungo l’arteria che conduce a Buso. La motocicletta era una delle passioni dell’atleta che negli ultimi anni si era dedicato al body building e che lavorava come istruttore di sala pesi in palestra.

Violentissimo l’impatto

Passarotto subito dopo lo schianto era stato preso in cura dai sanitari del Suem 118 che l’avevano rianimato sul posto ed erano riusciti a trasferirlo in codice rosso (massima gravità) in pronto soccorso. Nonostante i tentativi disperati dei medici di salvargli la vita, il cuore del ventiseienne si è fermato poco dopo il suo ricovero. L’esatta dinamica di quanto avvenuto è al vaglio della polizia stradale, intervenuta per i rilievi insieme ai colleghi delle volanti. L’ipotesi più probabile è che il ventiseienne abbia perso il controllo del suo mezzo a due ruote mentre stava tornando verso casa. L’atleta ha attraversato tutta la carreggiata, finendo la sua corsa contro una centralina dell’Enel. L’impatto è stato violentissimo con Passarotto volato sull’asfalto e la centralina distrutta, tanto che la zona è stata colpita da un lungo black out elettrico. Non è escluso che la Procura polesana disponga l’autopsia per far luce su tutta la dinamica.

Il lavoro come istruttore

Il ventiseienne era molto conosciuto in tutta la zona, soprattutto per il passato da agonista nello Skating Club Rovigo dove si allenava e gareggiava nel pattinaggio in linea: nel 2015 era diventato campione mondiale nei 100 metri a Taiwan, conquistando in carriera anche medaglie ai campionati italiani ed europei nella stessa specialità. Sulla pagina Facebook della società è apparso un post in cui viene ricordato con una serie di foto e con la frase «Ciao Bocia». Dopo il pattinaggio si era dedicato al body building, raggiungendo anche in questa specialità risultati di livello e trovando lavoro nella palestra First Fit in zona Interporto dove era apprezzato per la simpatia e la professionalità.

«Cercheremo di onorarlo»

All’indomani della tragedia il pattinodromo delle rose, quartier generale dello Skating club dove Riccardo si è allenato, è in lutto. I vertici del club hanno deciso di sospendere tutti gli allenamenti di martedì 19 maggio e la stessa cosa avverrà il giorno dei funerali quando gli atleti parteciperanno alle esequie vestiti con la divisa ufficiale in onore di «Ricky». «L’ho visto quando ha messo i pattini per la prima volta, - racconta Federico Saccardin presidente dello Skating Club- poi crescere e formarsi come atleta sino diventare campione del mondo. Riccardo è stato di più di un semplice atleta: ho visto il suo percorso, quello di un bambino che cresce e che diventa uomo. È come aver perso un nipote. Un abbraccio alla famiglia, in particolare alla mamma, e a Giulia, la fidanzata. Cercheremo di onorarlo presenziando ai funerali e con qualche iniziativa che testimoni il suo valore». 

·        E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.

Morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale. Cartabia: "Il maestro che mi ha aperto la strada". La Repubblica il 14 maggio 2022.

Aveva 86 anni. Il giudice è stato a lungo docente di diritto all'Università di Milano. Tra i suoi tanti allievi anche l'attuale ministra della Giustizia. Mattarella: "Da lui prezioso impegno per le istituzioni". Draghi: "Difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli". Amato: "Ho perso un fratello".

È morto stamattina Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale. Nato a Milano nel 1936, aveva compiuto 86 anni lo scorso 30 marzo. Onida ha guidato la Consulta da settembre del 2004 alla fine di gennaio del 2005. È stato a lungo docente di diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Milano e venne eletto giudice della Consulta dal Parlamento nel 1996. Con lui si è laureata, nel 1987, anche l'attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia. "'Per me, è stato innanzitutto il maestro che mi ha aperto la strada. Un gigante del diritto costituzionale, sempre pronto a misurarsi con le sfide della storia e ad intrecciare lavoro accademico con ardente impegno civico", commenta la Guardasigilli ricordandolo con ''affetto e sentimenti di profonda gratitudine, incontrato da studentessa nelle aule universitarie di Milano e rimasto sempre un punto di riferimento".

A dare la notizia è stato Francesco, uno dei suoi cinque figli, con un post su Facebook: "Ciao papà, grazie di tutto". Già centinaia i messaggi di cordoglio arrivati in poche ore. Il capo dello Stato Sergio Mattarella ha scritto ai familiari di Onida, ricordandone la figura di maestro di diritto pubblico, di autorevole giudice e presidente della Corte Costituzionale, di presidente della Scuola superiore della Magistratura, "costantemente animato da forte spirito civico e da prezioso impegno per le istituzioni della Repubblica". Anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso cordoglio per la scomparsa del professor Valerio Onida: "Presidente della Corte Costituzionale, è stato garante di libertà e difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli. Alla sua attività di giudice e accademico, ha affiancato per anni quella di volontario nelle carceri, segno della sua umanità e delle sue convinzioni. Ai suoi cari, le condoglianze di tutto il governo". E ancora Cartabia: "Per tutta la vita, Valerio ha messo la sua passione contagiosa, la sua disarmante semplicità, la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi, come i detenuti - sottolinea la ministra - Una guida illuminata per generazioni di giuristi, si è adoperato costantemente per la formazione dei più giovani, tanto da battersi per l'istituzione della Scuola superiore della magistratura, di cui è stato primo presidente, e a cui non ha mai smesso di dedicarsi. Al Paese, e a me personalmente, mancherà la sua indomita passione per la giustizia''.

Tra i primi messaggi quello del segretario del Pd Enrico Letta che su Twitter ha scritto: "Grandissima perdita per il nostro Paese con la scomparsa di Valerio Onida. Un punto di riferimento insostituibile, una persona dalle rare qualità umane. Un enorme dispiacere". Onida, nel 2010 si era candidato alle primarie del Pd per correre come sindaco di Milano. Era arrivato terzo dietro Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. E proprio Pisapia lo ricorda così sui social: "Ci ha lasciato Valerio Onida, autentico maestro del diritto. Straordinario costituzionalista è stato un importante docente universitario a Milano e un Presidente della Consulta capace di incidere con equilibrio. Un uomo dotato di una grande passione civile. Perdo un vero amico". Lo ricorda anche Ettore Rosato, presidente di Italia Viva: "Con la scomparsa di Valerio Onida se ne va una delle menti giuridiche più attente e apprezzate. Accademico, giudice costituzionale, presidente della Consulta, ha contribuito con i suoi studi al dibattito per un riformismo moderno. Vicini alla famiglia in questo momento di dolore". Nel 2016 Onida aveva sostenuto le ragioni del No al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi.

Tra i messaggi anche quello dell'attuale presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato: "Ho perso un fratello. Era un uomo buono e un vero maestro". E per il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, Onida "per tutti è un esempio di profonda passione civile. Non lo dimenticheremo". 

Valeria Di Corrado per “Il Messaggero” il 15 maggio 2022.

Era riconosciuto da tutti come un maestro di generazioni di giuristi, a cominciare dall'attuale Guardasigilli Marta Cartabia, che con lui si laureò nel 1987. Ieri è scomparso Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, animato da profonda passione civile e a lungo docente di diritto, molto amato dai suoi studenti. 

Si è spento nella sua Milano, con la quale - lui, nato da padre sardo e madre siciliana - aveva costruito un forte legame, ricambiato e fatto di cose concrete. Come il suo impegno volontario da consulente per i detenuti delle carceri milanesi e l'associazione Avvocati per niente.

Forte il cordoglio di cittadini e istituzioni, a partire da quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: ha inviato un messaggio ai familiari di Onida - che lascia 5 figli e 6 nipoti - ricordandone la figura di maestro di diritto pubblico, di autorevole giudice e presidente della Corte costituzionale, di presidente della Scuola superiore della magistratura, «costantemente animato da forte spirito civico e da prezioso impegno per le istituzioni della Repubblica».

Per il Presidente e il premier Mario Draghi, Onida «è stato garante di libertà e difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli. Alla sua attività di giudice e accademico, ha affiancato per anni quella di volontario nelle carceri, segno della sua umanità e delle sue convinzioni». Da Giuliano Amato, attuale presidente della Corte, parole toccanti: «Ho perso un fratello. Era un uomo buono e un vero maestro».

«Milano saluta commossa Valerio Onida - ha detto il sindaco Beppe Sala - Per tutti un esempio di profonda passione civile. Non lo dimenticheremo». «Per me è stato il maestro che mi ha aperto la strada, un gigante del diritto costituzionale, che ha messo la sua passione, la sua disarmante semplicità e la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi», ha commentato la Cartabia.

Onida aveva compiuto 86 anni lo scorso 30 marzo. Alla guida della Consulta dal settembre del 2004 al gennaio del 2005, era stato anche presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti e dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione, succedendo a Oscar Luigi Scalfaro.

Come docente di diritto costituzionale aveva insegnato alla Statale di Milano, dove era diventato ordinario nel 1983 e poi era tornato - salve le pause per i suoi incarichi - fino al 2009, come emerito. Aveva insegnato anche a Sassari, Pavia, Padova nella sede di Verona, e Bologna.

Nel 1986 fondò a Milano uno studio legale che poi chiuse per incompatibilità con i suoi incarichi, ma nel 2012, libero da vincoli, era tornato alla professione dando vita allo studio associato Oralex, molto orientato alla tutela dei diritti. 

Il Parlamento lo elesse giudice della Consulta nel 1996. Nel 2010 si era candidato alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano, arrivando terzo dopo Giuliano Pisapia (poi eletto) e Stefano Boeri.

Nel 2016, il costituzionalista aveva sostenuto le ragioni del No al referendum sulla riforma Renzi-Boschi. Nel 2013 era stato chiamato dall'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a far parte dei dieci saggi che dovevano progettare riforme per una nuova prospettiva politica e sociale. È stato il figlio Francesco, su Facebook, a comunicare la notizia della morte: «Ciao papà, grazie di tutto».

Addio a Onida, ex presidente della Consulta. Fu l'ideologo dell'antiberlusconismo militante. Domenico Di Sanzo il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il costituzionalista innamorato della politica vicino all'Ulivo e poi al Pd. Contro il Cavaliere da sempre. L'ultima uscita: il no alla candidatura al Colle.

Studio e impegno politico. Accademia e attivismo. Valerio Onida, morto ieri a Milano all'età di 86 anni, è stato uno dei più importanti costituzionalisti italiani. Professore ordinario all'Università di Milano, giudice costituzionale dal 1996 al 2005, presidente della Consulta per quattro mesi tra il 2004 e il 2005. Onida, studioso di grande prestigio, non si è mai risparmiato negli interventi sull'attualità politica. Così il suo nome è diventato anche sinonimo di ideologo dell'anti berlusconismo muscolare degli anni '90 e dei primi anni Duemila, vicino all'Ulivo di Romano Prodi e poi al Partito democratico, quel Pd da cui si allontana durante l'epopea di Matteo Renzi, quando il costituzionalista si schiera con decisione per il no al referendum renziano del 2016. Onida ha osservato da vicino la politica fino alla fine. Dopo aver detto sì al taglio dei parlamentari voluto dal M5s nel 2020, l'ultima presa di posizione pubblica, come sempre senza peli sulla lingua e cerchiobottismi, risale a gennaio scorso. Si fa un gran parlare della possibilità che Silvio Berlusconi possa candidarsi al Quirinale. Ipotesi stroncata nettamente dal professore. L'ex presidente della Corte costituzionale, nemmeno in quel caso, si tira indietro. Porta anche la sua firma, insieme a quella di altri due ex presidenti della Consulta come Gustavo Zagrebelsky e Gaetano Silvestri, l'appello in cui si definisce la corsa di Berlusconi per il Colle più alto come «un'offesa alla dignità della Repubblica e di milioni di cittadini italiani». Nessun cedimento alla linea dura dell'antiberlusconismo girotondino da Seconda Repubblica.

D'altronde Onida non ha mai nascosto le sue opinioni politiche. Anzi. Negli anni '90, prima di approdare alla Corte costituzionale, è il referente a Milano dell'Ulivo di Romano Prodi. Nel 2010 un'altra esperienza in prima linea. Onida decide di scendere in campo direttamente e si candida alle primarie del centrosinistra milanese per la scelta del candidato sindaco. L'ex presidente della Consulta si piazza terzo dietro il vincitore Giuliano Pisapia e l'archistar Stefano Boeri. Il nome di Onida torna alla ribalta nel 2013, quando l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo inserisce nel gruppo dei dieci «saggi» incaricati di stilare un programma per la formazione di un nuovo governo con un Parlamento in stallo. Risale a quei giorni un altro affondo contro Berlusconi. Lo studioso, vittima di uno scherzo telefonico del programma La Zanzara di Radio 24, dice a una finta Margherita Hack che il Cavaliere avrebbe fatto meglio «a godersi la vecchiaia e a lasciare in pace gli italiani» e che il ruolo dei «saggi» era inutile. Sempre nel 2013, in un'intervista all'Unità, inorridisce di fronte all'ipotesi della grazia per l'ex premier, appena condannato in via definitiva: «La grazia sul piano giuridico non è impossibile ma impensabile».

Nel 2016, oltre a schierarsi per il No al referendum promosso da Renzi, impugna addirittura il quesito di fronte al Tar del Lazio invocandone lo spacchettamento. Il Tar respinge il ricorso, ma alla fine il No prevale. Non manca qualche deviazione eterodossa, come quando due anni fa, in un'intervista al Riformista, Onida attacca l'Associazione nazionale magistrati «trasformata in un gruppo di potere». Ma su Berlusconi il costituzionalista è stato sempre coerente, fino alla candidatura al Quirinale, definita «un'offesa alla dignità della Repubblica».

«Onida, il maestro che mi ha aperto la strada». Il ricordo di Marta Cartabia. Il Dubbio il 15 maggio 2022.

L'addio all'ex presidente della Consulta morto ieri a 86 anni. «Un fuoriclasse in una generazione di costituzionalisti di straordinaria statura. Un fuoriclasse che portava la sua grandezza con una semplicità disarmante»

«Per me, è stato innanzitutto il maestro che mi ha aperto la strada. Un gigante del diritto costituzionale, sempre pronto a misurarsi con le sfide della storia e ad intrecciare lavoro accademico con ardente impegno civico». La ministra della Giustizia Marta Cartabia ricorda con «affetto e sentimenti di profonda gratitudine» il professore Valerio Onida, scomparso ieri a 86 anni, «incontrato da studentessa nelle aule universitarie di Milano e rimasto sempre un punto di riferimento».

Professore universitario per 26 anni, avvocato, giudice e presidente della Corte costituzionale, Onida era «un fuoriclasse in una generazione di costituzionalisti di straordinaria statura – ricorda la guardasigilli -. Un fuoriclasse che portava la sua grandezza con una semplicità disarmante». «Per tutta la vita, Valerio ha messo la sua passione contagiosa, la sua disarmante semplicità, la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi, come i detenuti – sottolinea la ministra – Una guida illuminata per generazioni di giuristi, si è adoperato costantemente per la formazione dei più giovani, tanto da battersi per l’istituzione della Scuola superiore della magistratura, di cui è stato primo presidente, e a cui non ha mai smesso di dedicarsi».

Il ricordo commosso della ministra corre a quelle aule universitarie milanesi di metà anni ’80, quando Onida, «maestro non convenzionale», insegnava un corso sperimentale di «giustizia costituzionale». «Mi ha conquistato di schianto per l’originalità del suo insegnamento e per la sua inusuale disponibilità – racconta Cartabia -. Ci radunava intorno a un tavolo, in una saletta dell’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono. Leggevamo e discutevamo per ore le sentenze della Corte costituzionale, sfocando sempre la finestra di tempo che ci era concessa dall’orario ufficiale. Discutevamo – se si può dir così – da pari a pari. Prendeva sul serio ogni nostra osservazione. La valorizzava, la confutava, la correggeva, la corroborava. Eravamo una dozzina di studenti, in anni in cui le aule di giurisprudenza erano gremite di centinaia di studenti e i professori erano lontani, distanti in tutti sensi. Non lui, però. Non Valerio Onida».

Un maestro, e anche di più, «un padre» per la ministra Cartabia. «Mi mancherai, ci mancherai – conclude -. E nulla ci priverà – come diceva Dante al suo maestro Brunetto Latini, de “La cara e buona immagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/mi insegnavate come l’uom s’etterna”».

La scomparsa dell'ex presidente della Consulta. Chi era Valerio Onida, giurista e uomo fuori del comune. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 18 Maggio 2022. 

1. Valerio Onida ci ha lasciato. Non è una perdita qualsiasi per il diritto costituzionale: infatti, se sul piano della pietas umana tutte le morti sono eguali, su piani differenti alcune pesano più di altre. E la scomparsa di Onida pesa come un macigno, pensando – con ammirazione e riconoscenza – ai risultati della sua ricerca scientifica, alle modalità del suo insegnamento universitario, agli incarichi istituzionali rettamente onorati, al suo modo di esercitare la professione legale.

Sono e saranno in tante e in tanti a ricordarlo. Le istituzioni e la dottrina sapranno farlo nelle forme e nelle sedi più appropriate, e sarà un ricordo corale giustificato come non mai. Ma non è di questo che, qui, intendo scrivere. Di Valerio Onida vorrei dire due o tre cose che non tutti sanno di lui, e che è giusto diventino invece patrimonio collettivo, anche tra i non addetti ai lavori. Un modo breve e laterale ma egualmente autentico di ricordare – insieme, perché inscindibili – il giurista e l’uomo, entrambi fuori del comune.

2. Quattro anni fa, con grande sorpresa di tutti – e con il borbottio di tanti – la Corte costituzionale è uscita da Palazzo della Consulta per intraprendere un viaggio nelle carceri italiane. A spingerla, una convinzione scolpita nei fondamentali del costituzionalismo liberale: come disse il suo Presidente di allora, Giorgio Lattanzi, «la Costituzione per la persona, per qualunque persona, anche per chi è detenuto, è una protezione, uno scudo». Far capire a tutti che la Costituzione è a garanzia di tutti: con questo intento, le giudici e i giudici costituzionali sono così entrati a Rebibbia, San Vittore, nel carcere minorile di Nisida ed in quello femminile di Lecce, negli istituti penitenziari di Terni, Genova-Marassi, Padova, Bologna, Firenze-Sollicciano, Napoli-Secondigliano, Potenza. Di quel «viaggio in Italia» esiste anche una riuscita narrazione cinematografica, per la regia di Fabio Cavalli, di cui raccomando la visione (la si può recuperare su RaiPlay).

Un’iniziativa senza precedenti, è stato detto. È certamente vero, specialmente nel suo tratto istituzionale ed ufficiale. Ma non è del tutto vero. L’ordinamento penitenziario, dal 1975, prevede un elenco di soggetti ammessi a visitare gli istituti di pena «senza autorizzazione» e, tra questi, annovera sia il Presidente che i giudici della Corte costituzionale. Eppure, per decenni, tale disposizione è rimasta lettera morta. Con un’unica scintillante eccezione: Valerio Onida. Lo ricorda opportunamente Marco Ruotolo negli scritti in suo onore (Alle frontiere del diritto costituzionale, Giuffrè, 2011, p. 1781): in occasione dell’istruzione di una quaestio avente ad oggetto il regime penitenziario dell’art. 41-bis, il giudice Onida visitò la sezione del carcere milanese di San Vittore che “ospita” detenuti sottoposti al regime speciale del c.d. “carcere duro”. Con la sua scelta più unica che rara, memore dell’insegnamento di Piero Calamandrei sulle condizioni delle prigioni italiane («Bisogna aver visto»), Onida testimoniava al meglio quella prossimità che è il tratto costitutivo della magistratura di sorveglianza e che – da giudice delle leggi chiamato a garantire la Costituzione dietro le sbarre – sentiva l’esigenza di incarnare.

Dentro gli istituti di pena, negli anni a venire, Onida continuerà a prestare volontariamente attività di consulenza legale per i detenuti del carcere di Milano-Bollate, con una dedizione e un’empatia non comuni, figurarsi tra gli accademici. E da Presidente della neo-nata Scuola Superiore della Magistratura, volle con determinazione promuovere e realizzare corsi di aggiornamento interdisciplinari mirati al disegno costituzionale delle pene e della loro esecuzione. Non si era limitato a guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhio. Aveva visto e non aveva dimenticato.

3. Palazzo della Consulta ha fatto da quinta teatrale alle capacità interpretative dell’avvocato Onida. In nome e per conto delle Regioni, a difesa del disegno autonomistico costituzionale. Spesso a sostegno delle ragioni di comitati promotori, per l’ammissibilità di referendum. Ma anche avvocato di cause perse in partenza che riusciva, invece, a portare a successo: come quella per la pari durata tra leva militare e servizio civile (sent. n. 470/1989) che gli regalò la gratitudine di tutti gli obiettori di coscienza,

Eletto poi nel 1996 dal Parlamento in seduta comune giudice della Corte costituzionale, nel 2004 ne assunse la carica di Presidente: così, per nove intensi anni, è stato la persona giusta al posto giusto. Da giudice relatore, ha firmato molte decisioni di grande spessore costituzionale ma è di una, apparentemente minore, che voglio parlare: la n. 526/2000. Perché riguarda, ancora una volta, la Costituzione dietro le sbarre. E perché, a suo modo, esemplare di come Onida sapeva interpretarla per assicurarne principi e regole.

Come spesso accade quando si tratta di ordinamento penitenziario, la quaestio nasceva da una vicenda degradante: la sanzione disciplinare irrogata a un detenuto a causa del suo rifiuto, opposto all’ordine della direzione del carcere, di effettuare, completamente nudo, le flessioni sulle gambe davanti agli agenti penitenziari per consentire un’accurata perquisizione personale. Il carattere lesivo per la dignità del detenuto di tale operazione faceva emergere, a monte, l’assenza di un giudice che potesse accertarne la legittimità dei presupposti e delle modalità, abbandonati dal silenzio legislativo ad una circolare ministeriale. L’obbligo di documentare il perché, il come e il chi della perquisizione viene, invece, ricavato in sentenza direttamente dalla Costituzione, attraverso una sua interpretazione guidata da una bussola: «quanto più la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l’attenzione per evitare che questi si verifichino». È un ago che, da giudice relatore, Onida orienta in modo da assicurare fin da subito – in attesa di un legislatore latitante che a lungo resterà tale – una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Che sono in galera perché puniti, non per essere puniti ulteriormente.

Come, infatti, si legge nella sent. n. 349/1993 – che la penna di Onida non dimentica di citare – la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona, ma non la sua soppressione: chi si trova in prigione ne conserva sempre un residuo, tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Valerio Onida, in questo, ha sempre mostrato una sensibilità affilatissima. Ed ha agito e tentato di rendere giustizia costituzionale di conseguenza.

4. Il giudice Onida faceva parte del collegio che si trovò a dover misurare con il metro della Costituzione la pena fino alla morte, all’indomani della sua introduzione: l’ergastolo nella sua variante ostativa. In assenza dell’istituto del dissent (oggi, se posso dire, necessario più che mai), le decisioni della Consulta sono collegiali. Non so, dunque, come Valerio Onida votò in occasione della sent. n. 135/2003 che respinse i relativi dubbi di costituzionalità perché l’ostatività al beneficio della liberazione condizionale deriverebbe non da un automatismo legislativo illegittimo ma «dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo». Una tesi che la stessa Consulta, oggi, riconosce zeppa di malintesi.

So, però, che cosa Valerio Onida ha fatto dopo, contro quella teologia della maledizione perenne («fine pena mai», «devi marcire in galera», «gettare via la chiave») che è l’opposto del senso costituzionale della pena. Da avvocato, davanti alla Corte EDU, ha autorevolmente patrocinato le ragioni dell’ergastolano ostativo Marcello Viola, contribuendo ad ottenere la sentenza del 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per una «pena perpetua non riducibile» che vìola la clausola convenzionale, inderogabile, del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Un «problema strutturale» del nostro ordinamento penitenziario che la CEDU ci impone di risolvere, riconoscendo la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per tutti gli ergastolani, previo accertamento giurisdizionale, caso per caso, delle condizioni previste dalla legge, note al reo già al momento della condanna.

Da opinionista influente, si è speso alla vigilia delle decisioni con le quali è toccato (e toccherà ancora) alla Corte costituzionale giudicare della legittimità del regime ostativo applicato agli ergastolani (sent. n. 253/2019, ord. n. 97/2021). E lo ha fatto contro un “doppio binario” penitenziario che considerava espressione di un illegittimo diritto penale del nemico: «ma la durata delle pene e il loro termine, in esito a un percorso di risocializzazione, non possono, in base ai principi costituzionali e di umanità, conformarsi» a una logica «di tipo “militare”» perché «reati, pene e percorsi di recupero riguardano persone, non pedine di un esercito». Così scriveva – con tanto di corsivo testuale – nella sua prefazione al volume Contro gli ergastoli (Ediesse/Futura, 2021), che ho curato insieme a Stefano Anastasia e Franco Corleone.

Piantata come un chiodo sul muro, inviterei a rileggerla nell’attesa che la Consulta riassuma nuovamente la quaestio sull’ergastolo ostativo, diciotto mesi dopo averlo già accertato «incompatibile con la Costituzione» ed a quasi tre anni dalla sentenza della Corte europea. La giostra della vita, che decide di fermarsi quando e come vuole, ha voluto che quella prefazione sia l’ultimo testo pubblicato da Onida. Ne andiamo fieri e ne sentiamo tutta la responsabilità. Già prossimo al capolinea, volle caparbiamente partecipare – da remoto – alla presentazione del volume a Montecitorio nel dicembre scorso: nella voce e nei lineamenti del volto i segni sofferenti di una malattia impietosa, sconfitta però – in quell’occasione – dalla sua consueta lucidità di pensiero e da un’indomita determinazione nel difendere le ragioni della Costituzione. Valerio Onida ci ha lasciato da pochi giorni. Ma già ci manca. Andrea Pugiotto

·        È morto l’attore Fred Ward.

È morto Fred Ward, indimenticabile partner di Kevin Bacon nel film Tremors. Da fanpage.it il 13 maggio 2022.

È morto l’attore protagonista con Kevin Bacon di uno dei film horror simbolo degli anni ’90.

Hollywood piange la scomparsa di Fred Ward. L'attore aveva 79 anni. Resterà scolpita nella memoria di tanti appassionati di horror e fantascienza il film "Tremors" in cui Fred Ward fu protagonista insieme a Kevin Bacon. La storia era semplice: creature sotterranee gigantesche, molto simili ai vermi, mietono vittime a ripetizione strisciando per il deserto. Fred Ward era Earl Bassett, tuttofare e socio in affari di Val McKee, interpretato proprio da Kevin Bacon.

La carriera

Fred Ward era nato a San Diego, in California, il 30 dicembre 1942 da famiglia di origini irlandesi, scozzesi e cherokee. Fred Ward ha recitato in tantissimi ruoli e con tanti registi di primo piano: Robert Altman e Roberto Rossellini, tra tutti. Era molto atletico, merito del fatto di essere stato un ex pugile e di aver fatto parte per tre anni nell'esercito. Ha lavorato anche come boscaiolo in Alaska. Fred Ward è stato anche nel cast di "Fuga da Alcatraz" (1979), "I guerrieri della palude silenziosa" (1981) e "Il mio nome è Remo Williams" (1985). Nel 1990 arriva "Tremors" e il ruolo di Earl Bassett ripreso anche nel sequel del 1996, Tremors 2: Aftershock. Fred Ward ha partecipato anche in alcune serie tv, tra tutte "Grey's Anatomy".

Marco Giusti per Dagospia il 14 maggio 2022.

Quando lo vedemmo come Henry Miller a Venezia accanto a Uma Thurman e a Maria De Medeiros nel sofisticato “Henry and June” di Philip Kaufman, fummo tutti pazzo di Fred Ward, grande attore americano, scomparso a 80 anni, che portava sul volto le tracce delle tante vite che aveva vissuto. Naso rotto più volte da pugile perché era stato pugile. E ne aveva prese e date parecchio. Fisico da marinaio perché era stato davvero imbarcato in un cargo mercantile svedese, dove lo avevano preso senza documenti.

Ma anche cuoco in chissà quale bettola, operai in una segheria, il lavoro peggiore e più pericoloso che aveva fatto era come abbattitore di alberi giganteschi su al Nord. Ma aveva anche viaggiato in lungo e in largo in America e in Europa. Aveva vissuto con gli indiani in Alaska, aveva vissuto in Yugoslavia, a Tangeri, a Parigi, prima di arrivare a neanche trent’anni a Roma e capire che avrebbe fatto l’attore. Sia come doppiatore, in inglese, di tanti spaghetti western (accidenti, che intervista avrei fatto con lui…), sia come attore, pronto a esordire con un maestro come Roberto Rossellini in ben due film, “L’età di Cosimo”, dove era il Niccolò de’ Conti, e “Cartesius”. 

Con l’Europa nel cuore e gli spaghetti western come passionaccia, torna in America e lo troviamo in piccoli ruoli in film anche divertenti degli anni’70, come “Pazzo, pazzo west” di Howard Zieff con Jim Bridges. Sarà lo sguardo attento di Don Siegel a farcelo scoprire nel suo primo ruolo significativo americano accanto a Clint Eastwood in “Fuga da Alcatraz” nel 1979. Lo troveremo poi in “Carny” di Robert Kaylor con Jodie Foster, Gary Busey e Robbie Robertson, il leader di The Band, anche soggettista. 

Ma con quella faccia da uomo vissuto e quel corpo da pugile darà il suo meglio nel cinema violento di Walter Hill, “I guerrieri della palude silenziosa” con Keith Carradine e Powers Boothe, o di Ted Kotcheff, “Fratelli nella notte” con Gene Hackman. Molto dovrà a Philip Kaufman che lo vorrà accanto a Sam Shepard, Scott Glenn e Ed Harris, la crema di Hollywood e di un certo cinema, come Gus Grissom nel fenomenale “Uomini veri” nel 1983, e lo richiamerà, tagliandoli i capelli, come protagonista di “Henry and June” nel 1990. Non sarà facile farne un protagonista del cinema hollywoodiano, troppo vero, troppo strano.

Purtroppo non è un successo “Il mio nome è remo Williams” di Guy Hamilton, che avrebbe potuto dargli un bel lancio nel ruolo di The Destroyer, l’eroe dei romanzi di Warren Murphy e Richard Sapir. Già meglio sarà “Tremors”, dove divide la scena con il giovane Kevin Bacon. Anche se il suo film di culto, purtroppo molto piccolo, sarà “Miami Blues” di George Armitage, dove ha un ruolo di duro appena uscito dal carcere che cerca di reinserirsi nella società. Dopo “Henry and June”, film considerato da Hollywood troppo spinto e troppo artistico, tornerà in America a girare buoni film, anche ottimi film, come “Cuore di tuono” di Michael Apted, “I protagonisti” e “Short Cuts” di Robert Altman, “Bob Roberts” di Tim Robbins, ma in ruoli di secondo piano.

Negli ultimi vent’anni farà qualche raro film, un po’ di televisione, chiuderà i giochi con una ospitata eccellente nella seconda stagione di “True Detectives”, ma non troverà, ahimé, un Tarantino che ne potesse esaltare le doti migliori. Ma ricercatevi “Uomini veri”, “Henry and June” e, soprattutto, il rarissimo “Miami Blues” e rendetevi conto di che tipo di attore era Fred Ward e di come Hollywood non lo abbia saputo valorizzare.

·        E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.

Morto Paul Ginsborg, lo storico inglese che partecipò ai Girotondi. Marcello Flores su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

Nato a Londra, era divenuto italiano a tutti gli effetti. Critico di Berlusconi e della sua politica, aveva studiato il nostro Paese con una particolare attenzione alla società civile.

È difficile ricordare uno storico importante e originale come Paul Ginsborg, scomparso all’età di 76 anni, che è anche stato un carissimo amico per cinquant’anni. Quando abitavamo a Roma nei primi anni Settanta raccontava compiaciuto l’inizio della sua avventura in Italia. Aveva ottenuto una borsa di studio pagata dalla Unilever e prima di partire il presidente della multinazionale aveva chiesto a tutti cosa andassero a fare con i soldi offerti dall’azienda: alla sua risposta «vado a studiare Daniele Manin e la rivoluzione di Venezia del 1848» aveva commentato: «Siamo così pazzi da sovvenzionare queste ricerche?».

Il suo studio su Manin (pubblicato nel 1979 e tradotto prima in italiano nel 1978) rivelò alla storiografia un giovane grande talento che si andava ad aggiungere agli storici inglesi che si erano occupati dell’Italia. Scrivendo con «raffinatezza ed eleganza», come ebbe a dire il «Times Literary Supplement», Ginsborg aveva raccontato, con ricchezza di documentazione archivistica ma anche con empatia per i patrioti italiani, l’ultima vicenda rivoluzionaria nella penisola che si era dovuta arrendere alla vittoria della reazione.

La sua grande opera di storico, tuttavia, è stata senza dubbio la Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi,che avrebbe dovuto terminare negli anni Settanta e venne invece pubblicata nel 1989, riuscendo così a includere nel racconto gli interi anni Ottanta. Il libro divenne subito un classico, quello su cui si è formata la maggior parte degli studenti dagli anni Novanta in poi.

La grande capacità di Ginsborg fu quella di intrecciare i la storia sociale, poco frequentata in Italia, con quella politica; e di rendere effettivamente il popolo protagonista. Il racconto del decennio successivo alla Liberazione, con le battaglie del lavoro nelle campagne e nelle fabbriche, degli anni Sessanta con i giovani operai meridionali trapiantati al Nord e il protagonismo degli studenti, con i movimenti per la democrazia negli anni Settanta, tra cui enfatizzava con forza quello delle donne, faceva da controcanto alle vicende dei partiti, alla debolezza e al fallimento dello Stato nel compiere riforme radicali e risolutive.

Influenzato dal pensiero di Gramsci, utilizzato senza il riduzionismo ideologico dei comunisti italiani — verso cui mostrò sempre rispetto per le loro battaglie, ma anche un forte atteggiamento critico — vedeva nell’incapacità delle classi dirigenti di conquistare un duraturo e convinto appoggio di massa il motivo prevalente della debolezza dell’Italia e del suo sviluppo, sociale e politico, anche all’indomani di avere raggiunto, nel 1987, il posto di quinta potenza industriale del mondo.

Una decina di anni dopo Ginsborg scrisse L’Italia del tempo presente, dove i protagonisti degli anni Ottanta e Novanta erano insieme la famiglia, la società civile e lo Stato, identificando proprio nella famiglia — vista come istituto di intermediazione tra l’individuo e lo stato — una caratteristica originale della realtà italiana, troppo a lungo ignorata dagli storici anche se presente negli studi di sociologi e antropologi. La crisi della Repubblica dei partiti, gli anni della fine del terrorismo e dell’emergere del craxismo, della slavina antipolitica che seguì all’inchiesta di Mani pulite e alla vittoria elettorale di Berlusconi, sono filtrati cercando di cogliere le continuità e le trasformazioni della società italiana, con una rara capacità di analisi e una scrittura sempre brillante, chiara e avvincente.

Sulla famiglia Ginsborg decise di continuare a studiare, ampliando lo sguardo all’Europa e oltre e facendone il perno per una rilettura estremamente originale e affascinante della prima metà del secolo. Il risultato fu un altro grande libro che rimarrà nella storiografia: Famiglia Novecento, in cui la storia della famiglia e le idee su di essa della prima metà del secolo vengono analizzate nella Russia zarista e sovietica e nella Germania di Weimar e del nazismo, nell’Impero ottomano e nella Turchia kemalista e nel fascismo e nella Repubblica italiana.

Mentre si manifestava come uno degli storici più attenti, preparati e innovativi, Ginsborg, che aveva abbandonato l’insegnamento a Cambridge per venire in Italia (dove dal 1992 fino alla pensione insegnò all’Università di Firenze), partecipò attivamente alla vita politica italiana, diventando protagonista di quei movimenti di sinistra alternativa, a cominciare dai Girotondi, che sperava avrebbero potuto rivitalizzare la democrazia.

Mirella Serri per “la Stampa” il 12 maggio 2022.

Signorile, elegante nelle giacche di tweed, spesso sorridente, comunque sempre gentile e raffinato, lo storico Paul Ginsborg, nato a Londra e naturalizzato italiano, si è spento ieri dopo una lunga malattia a 76 anni nella sua amatissima Firenze. 

Grande lavoratore e metodico ricercatore, ha rivoluzionato la storiografia italiana lasciando un segno profondo con i suoi studi dedicati alla Penisola, tra cui il fondamentale Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi (edito da Einaudi nel 1989). 

Con questa opera in due volumi ha innovato il modo di raccontare le vicende storiche italiane: oltre che alle dinamiche politiche, la sua visione ha avuto la peculiarità dell'attenzione alle mentalità, al costume, ai rapporti familiari, alle trasformazioni della società civile. 

Ginsborg si sentiva italianissimo, anche se continuava a mantenere un'inconfondibile inflessione anglosassone. Il suo interesse per le traversie storiche dello Stivale lo condusse a scavare nel retroterra storico a partire da uno dei maggiori protagonisti del Risorgimento: lo fece con lo studio dedicato a Daniele Manin e alla rivoluzione veneziana del 1848-49. In questa sua prima avventura «italiana» si cimentò con uno dei temi a lui più congeniale, quello del conflitto tra le ragioni dell'individuo, della libertà, e quelle del potere rappresentato dall'impero austro-ungarico contro cui combattè l'eroe lagunare. 

Ginsborg aveva studiato all'università di Cambridge. 

Dopo la laurea era stato chiamato dall'ateneo britannico a tenere corsi presso la facoltà di Scienze Sociali e Politiche. Negli Anni 80 fece il grande cambiamento. Si trasferì in Italia.

Proprio per la sua grande disponibilità e per il rigore fu molto seguito dagli studenti delle facoltà nelle quali tenne cattedra: prima a Torino, poi a Siena e, dal 1992, a Firenze come docente di Storia dell'Europa contemporanea a Lettere. 

In Italia (dove sono nati i suoi tre figli, Ben, Lisa e David), il professore trovò molti dei suoi punti di riferimento intellettuali. Illustri e insostituibili «maestri» furono per lui l'economista Paolo Sylos Labini con le sue analisi dedicate ai ceti medi urbani italiani, Vittorio Foa (che Paul andava a visitare in reverente e amichevole pellegrinaggio nella casa vicino a Formia, dove il leader politico si era trasferito) e Norberto Bobbio (con cui si ritrovava a Torino). 

Queste furono le sue principali figure di riferimento sia dal punto di vista della riflessione etica, sociologica e filosofica che della sua battaglia politica (che s' intrecciò, fin dall'inizio, con le iniziative dell'associazione Libertà e Giustizia, di cui divenne presidente nel 2019). 

Le sue opere sono numerosissime, da Storia d'Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato (Einaudi, 1998) a Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950 (Einaudi, 2013). 

A queste si aggiunge la cura del volume Stato dell'Italia (Il Saggiatore, 1994) e Storia d'Italia. Annali, XXII, Il Risorgimento (con Alberto Mario Banti, Einaudi, 2007). Per Ginsborg ricerca storica e prassi politica andavano a braccetto e s' integravano l'una con l'altra. Al centro della sua produzione lo studioso pose due concetti che gli stavano a cuore. Innanzitutto quello di «ceto medio riflessivo», con il quale indicava quel variegato complesso di intellettuali, esponenti dell'associazionismo e dei sindacati che si mostravano come i più interessati al destino collettivo della società. 

Tutte persone capaci di «bridging», di costruire «ponti verso gli altri». Si trattava, come spiegava lo stesso Ginsborg, «di quel ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, formato anche da insegnanti, studenti, impiegati donne sempre più istruite». Proprio la convinzione che questo «ceto medio» fosse dotato di un forte potenziale civico portò lo storico a divenire una delle voci più ascoltate delle manifestazioni del 2002 contro le leggi ad personam del premier Silvio Berlusconi. 

Le dimostrazioni presero avvio il 24 gennaio a Firenze con la «marcia dei professori», di cui Ginsborg fu uno dei principali animatori assieme al professore Francesco Pardi, detto Pancho. Un corteo di circa 15mila persone sfilò per difendere la «democrazia in pericolo» e poi, a Milano, fu creata una catena umana che costituì il primo girotondo italiano.

Successivamente Ginsborg aderì alle dimostrazioni organizzate dall'antiberlusconiano popolo Viola, nel 2009 e nel 2010. Un altro concetto che Ginsborg usò di frequente per decodificare la realtà italiana fu quello «familismo amorale» o «immorale», come preferiva definirlo. Bollò così i governi italiani, da Berlusconi a Renzi, a suo avviso dominati, secondo la prassi propria della società italiana, da una smisurata attenzione, spesso esclusiva, «all'istituto familiare». 

Il malgoverno e i tanti scandali erano dovuti, secondo il docente, non solo alla mancanza di un ethos comunitario ma pure alla priorità spesso data all'obiettivo di «garantire» e arricchire figli e consanguinei. E in questa disamina aveva come guida proprio il pensiero di Bobbio, il quale spiegava che «l'Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole...

Per cui per le famiglie si sprecano impegno ed energie ma ne rimane poco per la società e per lo Stato». E Ginsborg a sua volta osservava che: «Il familismo, assai contiguo al clientelismo, cioè l'uso delle risorse dello Stato per interessi privati, guida le relazioni con i potenti... Cosa che non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Gli obiettivi per cui per tutta la vita lo storico si è battuto.

Morto Paul Ginsborg, lo storico mite e radicale, teorico dei girotondi. DANIELA PREZIOSI su Il Domani l'11 maggio 2022.

Era uno dei padri del movimento che nel 2002 portò in piazza milioni di persone in nome dell’antiberlusconismo. Lo ricordano gli amici Sandra Bonsanti, Flores D’Arcais. «Ma noi con i Cinque stelle non c’entriamo nulla. Eravamo un movimento basato su valori rigorosamente di sinistra. Un fenomeno di azionismo di massa»

«Paul era una persona mite. Era quello da cui andavi quando avevi un momento di crisi, sapendo che si sarebbe messo a ragionare insieme a te. Incantava i giovani, li formava, e poi li seguiva nel loro percorso». La scrittrice Sandra Bonsanti, già direttrice del Tirreno, era tra le amiche più care di Paul Ginsborg, lo storico britannico innamorato dell’Italia morto ieri notte a Firenze dopo una lunga malattia.

Bonsanti abita a due passi da casa sua, lo ha conosciuto, racconta, tramite il marito, Giovanni Ferrara, storico a sua volta. È stato Ginsborg a chiamarla nell’associazione Libertà e giustizia, di cui era fondatore e di cui poi entrambi sono stati presidenti. «Leg», oggi presieduta da Sergio Labate che con Ginsborg ha scritto il libro “Passioni e politica”, in queste ore lo ricorda con le stesse parole, «un mite radicale».

Mite per indole, ma molto molto radicale. Infatti è stato tra i protagonisti della stagione dei girotondi, all’inizio degli anni Duemila. Fu un momento di rottura fra partiti e movimenti civici – il famoso «ceto medio riflessivo» – a tutt’oggi mai davvero ricomposta, considerata dai “partitisti” la madre di tutta l’antipolitica, come scrisse Michele Prospero nel suo «Libro nero della società civile».

Di quei girotondi Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega,  e il professore Pancho Pardi, filososo urbanista ex Potere operaio, erano la prima fila, con i loro toni urlati e le loro critiche inflessibili verso il ceto politico della sinistra di quegli anni. 

Ginsborg era fra loro, certo meno capopolo e più sorridente, ma come loro per niente accomodante. Colto, autore di una Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi (Einaudi) e fra i primi studiosi del fenomeno del berlusconismo, aveva insegnato negli anni 80 a Siena e Torino, poi storia dell’Europa contemporanea a Firenze.

Non aveva incrociato per caso il movimento che portò alla oceanica manifestazione del 14 settembre 2002 Roma; e che oggi viene per lo più considerato se non la madre almeno la vecchia zia dei Cinque stelle. Ginsborg quel movimento lo aveva costruito letteralmente passo dopo passo, con le “camminate” dei professori fiorentini. 

«Tutti  ricordano il “grido” di Nanni Moretti a piazza Navona del febbraio 2002», racconta Flores d’Arcais, «ma quella stagione nacque da una serie di episodi  inizialmente indipendenti e paralleli. C’era un gruppo di ragazze che tutti i sabato andavano al ministero della giustizia con cartelli che accusavano i politici e Berlusconi, e inneggiavano a Manipulite. Poi organizzammo la presentazione del numero speciale di Micromega, a dieci anni da Manipulite, a fine febbraio. Crescevano le adesioni, chiedemmo il Palavobis di Milano, conteneva 15mila persone, ne rimasero fuori il doppio. Quando a piazza Navona i leader dell’Ulivo chiesero a Moretti di salire sul palco, lui urlò “con questi dirigenti non vinceremo mai, ci vorrebbe un leader come Pancho Pardi”».

Parlava a Piero Fassino e Francesco Rutelli, le loro facce di quel giorno sono indimenticabili. «Ebbene in quel momento Pardi nessuno lo conosceva», assicura Flores d’Arcais, «ma era stato quello che insieme a Ginsborg aveva organizzato una marcia dei professori a Firenze pochi giorni prima. Doveva essere una cosa simbolica e invece si trovarono con migliaia di persone in piazza. Episodi spontanei, che avevano però alle spalle il discorso di Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario, e quel suo “Resistere resistere resistere”». 

La stagione dell’insorgenza civica andò dritta a sbattere contro i partiti. E perse. Poi ci fu il movimento viola, nacque Italia dei Valori, Pardi fu eletto senatore. Poi il dipietrismo cedette il passo al grillismo. 

Oggi Pardi ricorda l’amico: «L'antiberlusconismo è stata la molla del nostro comune impegno. Insieme ci siamo ritrovati da studiosi in una situazione un po’ speciale e abbiamo svolto un ruolo diverso da quello per cui eravamo preparati». È un filo di autocritica e piacerà ai detrattori, a chi vede in quella stagione dell’antiberlusconismo la madre del giustizialismo di marca pentastellata.

«Eh no, calma», se la tesi è che quella stagione sia la matrice del grillismo, Bonsanti la respinge: «Fra girotondi e grillini c’è un abisso. Con Paul se ne va un pezzo importante di quella stagione proprio perché è rimasto fedele alla sua cultura politica». La pensa allo stesso modo Flores: «I girotondi erano assolutamente all’opposto, un movimento basato su valori rigorosamente di sinistra. Potremmo dire che era un fenomeno di azionismo di massa».

Se una connessione c'è con i Cinque stelle «è solo nel senso che purtroppo non abbiamo dato ai girotondi una continuità organizzativa. Per questo la rabbia sacrosanta e la protesta è stata utilizzata da Beppe Grillo, che però ha valori che con i girotondi non c’entravano nulla».

Fu, secondo i protagonisti, l’azionismo di massa di una sinistra non comunista, se non proprio anticomunista, come testimoniano gli scontri, rispettosi ma duri, con Rossana Rossanda.

«Né di destra né di sinistra» è una frase che in nessun modo piaceva a Ginsborg. Spenti i girotondi, ha continuato ad animare la sinistra fiorentina, l’associazione Alba, l’assemblea al Mandela Forum, l’associazione Cambiare si può che si ritirò dalla nascente lista di Antonio Ingroia (nascente e morente nel giro di pochi mesi). 

È suo il decalogo dell’Associazione toscana per una Sinistra unita e plurale, anno 2007, che di nuovo fece saltare i nervi ai partiti. «Siamo individui, associazioni, comitati, partiti e movimenti», scriveva, «che non accettano né la deriva moderata del Pd, né la frammentazione, la dispersione e le rivalità che caratterizzano l’attuale sinistra italiana. Abbiamo una grande occasione per ricostruire una politica di cambiamento, continuando a lottare per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione. Il momento storico chiede il coraggio di sperimentare e un’assunzione collettiva di responsabilità».

Parole che per quella sinistra valgono ancora oggi. Anche se non è andata così, e non è andata bene: i partiti della sinistra non sono morti, e per fortuna di tutti, e invece i movimenti civici non si sono più sentiti troppo bene. L’ultimo saluto a Paul Ginsborg sarà sabato 14 maggio a Firenze, alle 15, nella Sala delle Leopoldine, in piazza Tasso. 

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

·        E’ morto il musicista Richard Benson.

Addio Richard Benson, morto il chitarrista idolo dell'underground. Il Tempo il 10 maggio 2022.

Musicista underground, critico musicale senza filtri e volto della tv ha tracciato con il suo stile, professionale e meticoloso e al tempo stesso folle e stravagante, un modo tutto personale di divulgare e far conoscere il rock. Il mondo della musica piange la scomparsa, all’età di 67 anni, di Richard Benson, chitarrista romano di origine britannica, che si è fatto largo nel panorama delle televisioni private capitoline degli anni Settanta costruendosi un personaggio unico nel suo genere e dalle mille sfaccettature.

Il suo approccio nel raccontare i grandi del rock stregò anche un appassionato di musica rock come Carlo Verdone, che trent’anni fa, nel 1992, lo scritturò per il suo film "Maledetto il giorno che ti ho incontrato". L’interpretazione di se stesso come conduttore adrenalinico nella fittizia trasmissione "Juke-box all’idrogeno" (celebre la disquisizione con lo stesso Verdone su Jimi Hendrix) lo lanciò al grande pubblico, lui che si era costruito una carriera musicale agli inizi degli anni Settanta in qualità di membro del gruppo progressivo "Buon vecchio Charlie", con all’attivo un solo album nel 1971.

Sciolta la band, continuò la carriera da solista per poi iniziare la sua avventura in radio prendendo parte al programma radiofonico "Per noi giovani" ideato da Renzo Arbore nel corso del quale gestiva la rubrica "Novità 33 giri". Sempre con Arbore partecipò nel 1985 al celebre programma-cult della Rai "Quelli della notte" interpretando la figura del metallaro in quella che veniva chiamata la look parade di Roberto D’Agostino. Ma è sull’emittente locale romana "Tva 40" che si era messo in luce per poi brillare attraverso i suoi spettacoli estrosi e le sue performance fuori dagli schemi.

Durante la seconda metà degli anni novanta, si esibì spesso dal vivo in alcuni locali prestigiosi di Roma con show incentrati esclusivamente sulle canzoni, con la presenza di alcuni momenti di recitazione trasgressiva. Verdone, intercettato da LaPresse, ne ha tracciato un ricordo affettuoso. «Mi dispiace molto, il primo che lo ha lanciato al cinema sono stato io. Rimasi molto colpito da questo programmino televisivo sulla musica su certi gruppi rock a noi sconosciuti. Parlava soprattutto dei grandi chitarristi che erano dei virtuosi. Metteva un lp e la telecamera stava 4 minuti su quel disco che girava. Poi lui faceva la recensione e la critica a quel pezzo». Personaggio, come ricorda ancora Verdone, «da una parte molto spiritoso e dall’altra un po' inquietante per come approcciava», ha contributo a "sdoganare" il rock duro. «A quell’epoca non eravamo a conoscenza dei chitarristi molto veloci e virtuosi e lui ha contribuito a farceli conoscere». Il decesso è stato annunciato sulla pagina Facebook del cantante con queste parole: «Ci ha lasciato. L’ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice".

È morto Richard Benson, il «metallaro» di culto in Rete che piaceva anche ad Arbore e Verdone. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.

L’artista nato in Inghilterra, ma di fatto romanissimo, è morto dopo una lunga malattia. 

C’è stato un momento ben preciso, quando è partita l’esplosione della rete, prima però dell’avvento dei social, in cui su Youtube partivano dei videotormentoni che diventano velocemente viralissimi (termine anch’esso oramai superato) di personaggi anche involontariamente assurti a mitologici. 

Se uno di questi era sicuramente Germano Mosconi , onesto giornalista di provincia a Verona, a cui dei dispettosi avevano montato degli improperi mandati fuorionda, un altro è stato sicuramente Richard Benson, urlatore metallaro che si divertiva a litigare con gli ascoltatori con memorabili lavate di capo, condite anch’esse da un linguaggio piuttosto colorito. 

Che, a differenza di Mosconi, ha fatto di tutto per diventarlo, un personaggio, dopo una vita piuttosto articolata, riuscendovi proprio nella stagione di cui sopra.

E se ne è andato ieri, dopo una lunga malattia a 67 anni, nella sua casa nella Capitale: personaggio innanzitutto perché si era sempre divertito a giocare con le sue origini (c’era chi sosteneva che Richard Benson fosse un’invenzione letteraria, ma lui, per quanto romanissimo, aveva mostrato il suo passaporto britannico che recava il suo luogo di nascita, Woking, sobborgo di Londra). 

E personaggio perché fu tra i primi negli anni’70 e 80 a praticare il metal nell’Italia allora dominata dai cantautori, con qualche concessione al rock tradizionale. Non era riuscito a imbroccare la via dello stardom sui palcoscenici, ma si era fatto una solida fama nelle nascenti tv private romane, con trasmissioni dove era la musica teoricamente a farla da padrone, ma in pratica spiccavano il suo fare debordante e il look volutamente estroso.

Lo prese sul serio Arbore, prima in «Per Voi Giovani» sulla radio e poi a «Quelli della notte» e lo prese sul serio Carlo Verdone che lo volle nei panni di sè stesso in una fantomatica trasmissione tv che ricalcava perfettamente le sue , «Juke Box all’Idrogeno» in «Maledetto il giorno che ti ho incontrato». Altre incursioni da Chiambretti e Gene Gnocchi ne aumentarono la fama, ma furono soprattutto le sue serate nell’underground romano (che finivano puntualmente con lanci di ortaggi e di polli sul palco) e gli estratti delle sue liti sui programmi nelle emittenti locali, finiti puntualmente, appunto, su Youtube, a far valicare la sua notorietà oltre il Grande Raccordo Anulare. 

Una fama però che Richard non fu del tutto in grado di capitalizzare: mentre i videotormentoni lasciavano il passo ad altre mode più effimere, nel 2016 fu costretto a fare un appello perché in difficili condizioni economiche e già affetto da problemi di salute. Da allora non ne sentimmo praticamente più parlare, anche se l’eco di quelle memorabili litigate non si sarebbe mai smorzato.

Enrico Sisti per “la Repubblica - ed. Roma” l'11 maggio 2022.

Quando parlava in tv a notte fonda, quarant' anni fa, camera fissa, occhiali da sole sfumati, capelli acquistati chissà dove, si esprimeva come se stesse leggendo su un "gobbo" esoterico. Straparlava. 

Ma a modo suo aveva qualcosa di affascinante. Era oltre, il povero Richard Benson, morto ieri a 67 anni nella sua casa romana dopo una lunga malattia che lo aveva spolpato dentro e fuori (" sono rimasto solo, senza un soldo").

Eroe vagamente pacchiano dei palchi rock della città, nato ( si presume) a Woking, stessa cittadina inglese che ha dato i natali a un grande come Paul Weller, da un genitore italiano e uno inglese, Richard era un puro. Aveva una vita svitata ma rimase fedele a se stesso, fedele alla linea sghemba dei suoi amori in vinile contrabbandati per capolavori assoluti e quasi mai lo erano, sempre pronto ad accettare che il mito lo raccontasse per ciò che era e, parallelamente, per ciò che non era.

Nel corto circuito di autenticità e menzogna, accettò persino che circolasse la voce che in realtà si chiamasse Riccardo Benzoni e che il suo migliore amico fosse un buio interiore in perenne stato di allarme (nel settembre del 2000 cadde da Ponte Sisto e non s' è mai saputo perché). 

Tormentato dalle sue stesse passioni, a cominciare da quella per la chitarra elettrica "sodomizzata", ad un certo punto mescolò l'attività di giornalista e quella di musicista. Entrambe lo portavano nella direzione del rock più estremo, luogo in cui le copertine dei dischi sembrano tutte uguali.

Ammesso che ve ne sia una, forse la verità è che pur non essendo né un grande musicista né un fine divulgatore, Richard Benson ci sapeva fare. Non capì mai, tuttavia, come e quando rendersi credibile. Suonava disperatamente. 

Si presentava in video, nelle tv locali, a cominciare dalla leggendaria Tva 40, come un personaggio della commedia dell'arte, uno da baraccone, che intonava lodi a figure spesso note soltanto a lui, le quali producevano dischi di puro confine, estetico e mentale, di cui il nostro caro angelo dark poteva fare ascoltare soltanto pochi secondi per ovvi motivi di Siae. E fu così che capitò sotto gli occhi di Carlo Verdone. Il quale pensò: " Che tipo, perfetto per un film!". Detto fatto.

Richard Benson divenne il presentatore della trasmissione "Jukebox all'idrogeno" in "Maledetto il giorno che t' ho incontrato" del ' 92. Affiancato dal Verdone " biografo di Rita Pavone" ( così l'avrebbe definito nel film Giancarlo Dettori), Richard non dovette fare altro che interpretare se stesso davanti alla telecamera di un'immaginaria emittente locale milanese, mettere in mostra il suo labbro leporino ed esaltare il culto di Yngwie Malmsteen, virtuoso chitarrista svedese. Niente di più facile. 

Ora, a ripensare il suo modo di esibirsi dal vivo e di raccontare la musica, passando per l'apparizione in "Quelli della notte", vien quasi da sorridere. Erano tempi diversi, festival diversi e televisioni diverse davanti alle quali si mettevano ragazzi diversi. Perso nei suoi misteri, ma anche testimone di questi misteri, Richard Benson appartiene all'epoca in cui per conoscere il volto di un musicista amato bisognava aspettare mesi. E non sempre bastava. Il suo mondo, rigorosamente analogico, era fatto di nomi impronunciabili e di parole in libertà. Un futurista " metal" che amava Joe Satriani. E che è morto felice. 

Dagospia il 10 maggio 2022. IL RICORDO DI CARLO VERDONE. Mi hanno comunicato in questo momento che Richard Benson, chitarrista, conduttore televisivo e radiofonico, e con me attore (Maledetto il Giorno che ti ho Incontrato) ci ha lasciato oggi. 

Rimasi folgorato quando lo vidi parlare di grandi chitarristi e gruppi a me sconosciuti in una emittente televisiva romana, "TVA 40".

Era stravagante, un po' folle ma decisamente un personaggio da tenere presente per un film. E così gli offrii il ruolo di un conduttore adrenalinico in un programma dal titolo "Jukebox all'Idrogeno" in Maledetto il Giorno... 

Fu fantastico. Professionale e meticoloso. La bellezza di quegli anni in televisioni minori era trovare personaggi eccessivi, strani, folli. Veniva fuori una Roma a noi sconosciuta dove si inventavano modi di dire, si creavano incredibili look, si sdoganava il proibito. Era sempre la periferia ad inventare. Perché la borghesia non ha mai inventato nulla. Massimo Marino, Alberto Marozzi, I Falchi della Notte erano il simbolo di una Roma moderna, futurista e trasgressiva.

Metti il distorsore in cielo, Richard! Carlo Verdone

Da huffingtonpost.it il 10 maggio 2022.  

Carissimi amici ed amiche, dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l'ha fatta. Ci ha lasciato. L'ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice". Sul profilo Facebook di Richard Benson arriva l'annuncio.

Musicista attivo nell'underground romano dei primi anni settanta, nella sua carriera ha anche condotto diverse trasmissioni televisive e radiofoniche a sfondo musicale ed è saltuariamente ospite in varietà sulle reti nazionali. Figura storica delle emittenti private romane, ha costruito la sua fama (dapprima limitata al solo ambiente popolare romano e poi allargatasi al web e alla televisione) soprattutto grazie ai suoi spettacoli, nei quali è vittima di insulti e lanci di oggetti sul palco. Molti lo ricordano quando nel 1992 è comparso nel film di Carlo Verdone Maledetto il giorno che t'ho incontrato, facendo un cameo in cui interpreta se stesso nella fittizia trasmissione Juke-box all'idrogeno, disquisendo con lo stesso Verdone su Jimi Hendrix.

Da music.fanpage.it il 10 maggio 2022.

Si è spento nella giornata di martedì 10 maggio, il musicista di origine britannica naturalizzato italiano, Richard Benson. Ne danno l'annuncio sui suoi account social ufficiali: "Ha lottato come un leone, ma purtroppo non ce l'ha fatta". Il chitarrista, volto noto di alcune trasmissioni televisive ed esponente della musica underground romana degli Anni Settanta, aveva compiuto lo scorso marzo 67 anni. 

L'annuncio della scomparsa sui social

Ed è sulla pagina Facebook ufficiale dell'artista che compare il triste annuncio, commentato in poco tempo da migliaia di fan che hanno vissuto e amato la sua musica. Nel post si legge: "Carissimi amici ed amiche, dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l'ha fatta. Ci ha lasciato. L'ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice".  

Il mistero sulle origini anglossassoni

Inizialmente la sua carriera si restringe al solo ambiente popolare romano, tanto da essere protagonista di alcuni show in onda su emittenti locali, ma poi acquisì una certa fama grazie ai suoi spettacoli, dove puntualmente finiva vittima di insulti e lanci di oggetti direttamente sul palco. Attorno alla sua figura è sempre aleggiato un certo mistero, dal momento che non erano certe le sue origini anglosassoni, l'unica fonte certa sarebbe il suo passaporto in cui compare la data di nascita del 10 marzo 1955, a Woking, una cittadina nei pressi di Londra.

Il documento sarebbe comparso su un sito non ufficiale dedicato all'artista che, secondo alcuni, invece, si chiamerebbe Riccardo Benzoni, ma non c'è nulla che provi questa congettura. Negli anni, però, le origini di Benson sono sempre state oggetto di chiacchiericcio, tanto che in due occasioni prima la moglie e poi il suo agente, hanno mostrato in un'intervista prima il passaporto in questione e poi il certificato di nascita ritirato all'ambasciata inglese a Roma, dove appare con il nome di Richard Philip Henry John Benson.

Il rocker conduttore radiofonico e televisivo. È morto Richard Benson, il “profeta del metal” che aveva recitato per Carlo Verdone. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Era istrionico, appassionato, eccessivo ed eccentrico Richard Benson. Per anni ha infuocato le emittenti radiofoniche romane, a colpi di rock, di schitarrate e di assoli. E si era così conquistato una notorietà non mainstream ma piuttosto accanita nell’underground musicale. È morto, a 67 anni. “Ha lottato come un leone”, hanno scritto i familiari dando la notizia.

Benson era nato a Woking, in Inghilterra, il 10 marzo 1955 da madre romana e padre inglese. Si era trasferito in Italia in gioventù. Naturalizzato italiano era diventato molto popolare nell’underground romano a partire dai primi anni Settanta. Ha condotto numerose trasmissioni televisive e radiofoniche a sfondo musicale – condite spesso e volentieri da espressioni volgari – diventate anche di culto nel giro e inciso diversi dischi. Sempre rock: dall’hard al progressive all’heavy metal. Era diventato il “Profeta del metal”, uno dei suoi tanti soprannomi.

La prima apparizione televisiva a Quelli della notte negli anni Ottanta fino a quelle su Rai2 e Italia1 in programmi come Stile Libero Max e Chiambretti Night. Le sue esibizioni live erano sempre caratterizzate da trovate ed estetica molto eccentrica, con tutto il look tipico delle rockstar. Il primo disco solista era arrivato soltanto nel 1999, Madre tortura, dopo essersi fratturato una gamba per una caduta dal Ponte Sisto a Roma. “Tentato omicidio”, diceva lui. Dopo il “Natale del Male”, come venne battezzato, nel 2005 al Coetus Pub di Roma, per i suoi live sarebbe diventata necessaria una rete per proteggerlo dal lancio di polli, verdure e altri oggetti degli spettatori che lui incentivava.

Anche attore Benson, per il grandissimo Carlo Verdone nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrato in cui l’attore e regista romano interpretava un giornalista musicale alla ricerca della verità scomoda sulla morte di Jimi Hendrix. Il protagonista appariva come ospite della trasmissione “Juke-box all’idrogeno” – da una raccolta di poesie di Allen Ginsberg – condotta proprio da Benson nei panni di sé stesso. Scena che Verdone ricorda con grande affetto in un lungo post che ha pubblicato sui social dopo la notizia della morte di Benson.

“Mi hanno comunicato in questo momento che Richard Benson, chitarrista, conduttore televisivo e radiofonico, e con me attore (Maledetto il Giorno che ti ho Incontrato) ci ha lasciato oggi. Rimasi folgorato quando lo vidi parlare di grandi chitarristi e gruppi a me sconosciuti in una emittente televisiva romana, TVA 40. Era stravagante, un po’ folle ma decisamente un personaggio da tenere presente per un film. E così gli offrii il ruolo di un conduttore adrenalinico in un programma dal titolo “Jukebox all’Idrogeno” in Maledetto il Giorno … Fu fantastico. Professionale e meticoloso. La bellezza di quegli anni in televisioni minori era trovare personaggi eccessivi, strani, folli. Veniva fuori una Roma a noi sconosciuta dove si inventavano modi di dire, si creavano incredibili look, si sdoganava il proibito. Era sempre la periferia ad inventare. Perché la borghesia non ha mai inventato nulla. Massimo Marino, Alberto Marozzi, I Falchi della Notte erano il simbolo di una Roma moderna, futurista e trasgressiva. Metti il distorsore in cielo, Richard!”.

Benson era finito in seri problemi economici qualche anno fa. Aveva lanciato degli appelli anche dalla trasmissione radio La Zanzara, delle richieste di aiuto. Si era ripreso non senza fatica con la moglie Ester. Era da tempo ricoverato in una clinica. Pochi mesi fa aveva registrato un nuovo singolo, dal titolo Processione, al momento ancora inedito. “Carissimi amici ed amiche – il post che ha annunciato la morte sulla sua pagina Facebook – dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l’ha fatta. Ci ha lasciato. L’ultima volta però ci ha detto: ‘Se muoio, muoio felice’“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        E’ morto l’attore Mike Hagerty.

Cinema, si è spento a 67 anni Mike Hagerty: recitò in Friends e Desperate Housewives. Valentina Mericio il 07/05/2022 su Notizie.it.

Prese parte a serie tv come "E.R.", "Friends" e Desperate Housewives. La morte di Mike Hagerty ha sconvolto il mondo del cinema e del piccolo schermo. 

Il mondo del cinema e della tv piange la scomparsa di uno degli attori più prolifici e amati. Mike Hagerty è morto a 67 anni nella giornata di giovedì 5 maggio. Lo ha fatto sapere Bridget Everett con un post su Instagram: “Ci mancherà molto”, sono state le parole dell’attrice.

Hagerty fu noto per aver recitato in serie tv di successo come Friends dove ha interpretato il ruolo indimenticabile del signor Treeger o ancora Desperate Housewives e “Star Trek – The next generation”. Lascia la moglie Mary Kathryn e la sorella Mary Ann.

Cinema, morto Mike Hagerty a 67 anni: da “Friends” a “Somewhere Somewhere”

Uno degli ultimi lavori ai quali ha preso parte è stata la serie tv “Somewhere Somewhere”, progetto rilasciato nel 2022 da HBO e nel quale ha recitato proprio con Bridget Everett: “Ho amato Mike nell’istante in cui l’ho incontrato. Era così speciale. Affettuoso, divertente, mai incontrato uno sconosciuto. Siamo devastati che sia scomparso. Mike era adorato da tutto il cast e dalla troupe di ‘Somebody Somewhere'”, ha detto di lui l’attrice.

Particolarmente iconico invece il ruolo del signor Treeger, la cui presenza è stata amatissima nell’episodio “Lezioni di ballo”. Il suo è stato inoltre anche l’ultimo nome menzionato alla fine della serie nell’episodio conclusivo “Arrivi e partenze” del 2004. Ad ogni modo in qualunque ruolo ha vestito nella sua lunghissima carriera iniziata a metà degli anni ’70, Hagerty ha sempre saputo dare un’impronta tutta sua.

L’omaggio di Sarah Jessica Parker

Tra le personalità che hanno voluto dargli un ultimo saluto si segnala anche Sarah Jessica Parker, attrice nota soprattutto per aver interpretato Carrie Bradshaw in Sex and the City: “No, no, no, no. Che terribile perdita. Mi mancherai nel tuo show. Straziante. L’ho ammirato per anni”.

·        E’ morto l’attore Enzo Robutti.

Marco Giusti per Dagospia il 5 maggio 2022.

Se ne va a 92 anni, Enzo Robutti, “pazzo geniale”, come si autodefiniva lui stesso, “talento un po’ folle” come lo definiva il suo maestro Gassman, grande caratterista del nostro cinema, barba alla Cavour, occhiali, occhi sgranati, voce e modi da nevrotico perso, in ruoli comici in tanti film di Pasquale Festa Campanile, Salvatore Samperi, Marco Vicario, Giuliano Carnimeo, ma anche drammatici, basterebbe ricordare il suo ruolo incredibile di Licio Lucchesi nel “Padrino – Parte 3” di Francis Coppola, che viene strangolato alludendo a un celebre delitto di stato italiano. 

Una follia che si vantava nella sua (chiamiamola) autobiografia di aver coltivato con “13 LSD che mi sono ciucciato in 30 anni, roba di prima, me la vendettero quelli del Living Theather che la usavano come il Parmigiano Reggiano a Sant’Ilario d’Enza”.

Inizia con un provino di Mercuzio per Vittorio Gassman nel 1958. Lo prenderà a teatro per “Irma la Dolce”, per Robutti “la prima vera commedia musicale andata in scena in Italia. 

Altre la eguagliarono, nessuno la supererà: Gassman inferse un ritmo strawinskiano ad un primo tempo memorabile ed ombrature cecoviane al secondo”. Il tutto modulato dall’urlo del maestro, “Strette le chiappe!”. Quattro anni dopo recita un testo di Giorgio Celli, “Darwin alle scimmie”.

Attore di cabaret, vinse il Bullone d’Oro al Derby assegnato dal pubblico nel 1971 e rimane per sempre attaccato a quel tipo di comicità. Al cinema, con quella faccia buffa e spiritata da nevrotico appare già coi Taviani nel 1963 in “I fuorilegge del matrimonio”, nel 1967 in “Sequestro di persona” di Gianfranco Mingozzi. 

Ma è più a suo agio a fianco del suo maestro Gassman in “Il profeta” di Dino Risi e con Giancarlone Cobelli, suo amico, regista del folle “Fermate il mondo… voglio scendere”. Fa di tutto, da “Pianeta Venere” di Elda Tattoli, terribile film femminista, a “Beati i ricchi” di Salvatore Samperi, pronto a ritrovare Gassman in “Senza famiglia nullatententi cercano affetto” che dirige lo stesso attore. 

Nel 1973 lo incontra Pasquale Festa Campanile per “Rugantino” con Celentano protagonista, ma anche Vittorio Sindoni per La signora è stata violentata”. 

Lo richiameranno sempre tutti. Bravissimo, divertente, disponibile a qualsiasi follia, sullo schermo è una risata sicura. Giuliano Carnimeo lo trascina nella commedia sexy con “La signora gioca bene a scopa?” dove incontra la divina Edwige Fenech. Gira cinque-sei film all’anno. Da “Sturmtruppen” di Samper a “Cuore di cane” di Lattuada col suo amico del cuore, Cochi, conosciuto al derby assieme a Renato.

Pasquale Festa Campanile, Sindoni, Vicario lo chiamano per quasi tutti i loro film, fino a farne una maschera tipica della nuova commedia all’italiana. 

Lo troviamo in decine di film di quegli anni, “Il ladrone”, “Il cappotto di Astrakan”, “I carabbinieri”, “ierino contro tutti” e “Pierino colpisce ancora”, “Gian Burrasca”, “Il petomane”. 

 Ogni tanto si permette un film drammatico, “Mamma Ebe” di Carlo Lizzani, “Bosco d’amore” di Alberto Bevilacqua, ma l’effetto non è tanto diverso da quando gira le commedie.

Lo intervistai a casa sua, fuori Roma, in mezzo alla campagna, già un po’ fuori dal giro. Rimase durante tutta l’intervista in canotta, mutande e infradito. Assolutamente favoloso. Mi sembrò l’ultimo di una specie. 

Uno dei problemi della sua vita fu Fellini.Che adorava. Seguitava a promettergli parti che poi non gli dava. Ma è sua l’unica frase che pronuncia lo zio matto di Ciccio Ingrassia, “Voglio una donna!”. Solo un emiliano erotomane pazzo come Robutti avrebbe saputo dirla così. Fellini aveva capito la follia da erotomane di Robutti. Magari ne sapeva qualcosa anche lui. “Strette le chiappe” Robutti”!

·        È morto l’attore Lino Capolicchio.

È morto Lino Capolicchio, attore protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini»: aveva 78 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.

Protagonista del cinema militante negli anni 70, ha recitato tra gli altri con De Sica, Risi e Pupi Avati. 

È morto a 78 anni l’attore Lino Capolicchio, protagonista del cinema italiano militante negli anni 70, conosciuto soprattutto per aver dato il volto al protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini», film premio Oscar di Vittorio De Sica tratto dal romanzo di Giorgio Bassani che gli valse un David di Donatello. Nato a Merano e cresciuto a Torino, Capolicchio si era trasferito a Roma e aveva frequentato l’Accademia nazionale di arte drammatica «Silvio D’Amico».

Aveva esordito in teatro, nella compagnia di Giorgio Strehler al Piccolo, e poi era stato uno dei protagonisti dello sperimentalismo e del cinema militante italiano negli anni 70. Tra i film più importanti in cui ha recitato, oltre a «Il giardino dei Finzi Contini», ci sono «Metti, una sera cena» di Giuseppe Patroni Griffi, «Il giovane normale» di Dino Risi, «La casa delle finestre che ridono» di Pupi Avati, regista con cui ha lavorato numerose volte, fino a «Il signor Diavolo» nel 2019. Anche sceneggiatore e regista, Capolicchio ha preso parte a decine di pellicole e ha collezionato tanti ruoli anche in tv e a teatro.

È morto Lino Capolicchio, un David di Donatello per 'Il giardino dei Finzi Contini' e protagonista ne 'La casa dalle finestre che ridono'. L'attore, sceneggiatore e regista aveva 78 anni. La Repubblica il 4 Maggio 2022.

È morto a Roma l'attore, sceneggiatore e regista Lino Capolicchio. Aveva 78 anni. 

Nato a Merano e cresciuto a Torino si era trasferito poi a Roma, dove ha frequentato l'Accademia nazionale d'Arte drammatica 'Silvio D'Amico'. È stato uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza del cinema italiano degli anni Settanta. Gli esordi professionali si compiono presso il Piccolo Teatro di Milano nella compagnia di Giorgio Strehler. 

Tra i suoi film più importanti Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Il giovane normale di Dino Risi e il film premio Oscar di Vittorio De Sica Il giardino dei Finzi Contini, con il quale vince il David di Donatello. Con Pupi Avati lavora poi come protagonista in La casa delle finestre che ridono.

È morto Lino Capolicchio, attore protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini»: aveva 78 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.

Protagonista del cinema militante negli anni 70, ha recitato tra gli altri con De Sica, Risi e Pupi Avati. 

Con la morte, a 78 anni, di Lino Capolicchio, scomparso a Roma la sera del 2 maggio per una lunga malattia che la famiglia ha voluto tenere riservata, se ne va un attore rimasto sempre negli anni giovane e in cui si riconosce molto del miglior cinema italiano degli anni 70, evitando ogni facile classificazione: non fu un sex symbol, né un proletario, né un borghese, né un radical chic, ma tutte queste cose insieme, erede sia di Salvatori sia di Ferzetti, passando infatti dal Premio Valentino per «Amore e ginnastica» al premio De Sica nel 2012.

Così, pronto per giocare a tennis, disperatamente elegante in epoca fascista, lo si ricorda perfetto nei panni di Giorgio amico della famiglia Finzi Contini nel premiato (anche con Oscar al miglior film straniero) film di De Sica, tratto dalla più nota storia ferrarese di Giorgio Bassani che fu, all’Accademia, uno dei primi insegnanti dell’attore che, nato a Merano il 21 agosto 43 e cresciuto a Torino, presto si trasferì a Roma. Dove studia e si applica per completare il suo istinto dichiarato di attore con una naturale ma frenata voglia di esibirsi: frequenta l’Accademia, viene a contatto con la classe dirigente dei registi di allora, da Patroni Griffi ad Avati, con cui farà cinque film variamente diabolici, a Franco Zeffirelli che gli regala una comparsata d’onore nella «Bisbetica domata» a tu per tu con Burton. Ma prima ancora del cinema, Capolicchio fece l’Università in teatro con Strehler, nelle «Baruffe» goldoniane e nel «Gioco dei potenti» scespiriano, e poi due Miller, con Raf Vallone nello «Sguardo dal ponte» e «L’orologio americano» diretto da Petri.

Uomo di spettacolo a 360 gradi, attivo in tv in prosa e sceneggiati come «Il conte di Montecristo», anche regista d’opera pucciniano, apprezzato docente al Centro Sperimentale dove allevò una generazione di attori, dalla Ferilli alla Forte a Boni, ed ebbe come spettatore niente meno che Coppola.

Queste ed altre avventure, umane e professionali, dentro e fuori dal set e dai camerini, le racconta nella sua autobiografia «D’amore non si muore», parafrasando un suo film tratto da una commedia best seller di Patroni Griffi, in un momento felice per lo spettacolo in Italia in cui Capolicchio divenne, con calcolate sfumature di ambiguità, attore di sfacciata giovinezza, padrone di diversi ambienti e geografie, dallo snobismo borghese romano di «Metti, una sera a cena» di Patroni Griffi (sceneggiato da Dario Argento, ritmato dal refrain di Morricone, grande cast) all’autostoppista milanese che finisce in spyder nel «Giovane normale» di Risi tratto dal libro di Umberto Simonetta. Capolicchio è richiesto, lavora con tutti, dal ribelle Faenza allo storico Lizzani a De Santis, cinema off e cinema di tradizione, è a proprio agio in varie epoche storiche, ma certo Pupi Avati, che ha sempre amato avere una sua compagnia stabile di attori, scopre un suo lato gotico, misterioso e nascosto, iniziando alla grande con «La casa dalla finestre che ridono» una collaborazione che arriva a “Il signor Diavolo”, passando per un 700 in cui Lino fu papà di Mozart e due serie tv «Jazz band» e «Cinema!».

Una lunga serie di titoli, un giro d’Italia dei vari tipi umani e modelli registici, la capacità di osservare da vicino il passato, ed anche esperienze all’estero. Sul piccolo schermo lavora coi migliori come Sandro Bolchi e Fenoglio, affrontando, allora si poteva fare!, il miglior teatro contemporaneo, da Pinter a Wesker, senza negarsi il tocco nazional popolare del «Verdi» di Castellani e della «Casa Ricordi» di Bolognini. E rimane un suo legame con il melò americano di Tennessee Williams che lo vede oggetto di desiderio prima in «Zoo di vetro» e poi in teatro con la Falk in «La dolce ala della giovinezza». Capolicchio ha la fortuna di non identificarsi in una tipologia e di lavorare con i maestri di opposte tendenze, anche l’innovativo Ronconi televisivo nella «Commedia della seduzione» di Schnitzler: è un attore colto in un sistema di spettacolo che, al di là dei premi e della sua popolarità, rispondeva alle sue curiosità anche di regista, docente e sceneggiatore, di un attor rimasto per il pubblico sempre giovane.

Lino Capolicchio e quel gelato vicino al Quirinale. Francesco Guerrera su La Repubblica il 4 maggio 2022.

L'incontro con l'attore, scomparso a Roma a 78 anni, è un ricordo lontano nel tempo. Di chi, ragazzino, lo vide sul palco in un dramma di Tennessee Williams e poi trasformarsi in un normale papà.  

Quando le passioni durano una vita è spesso difficile identificarne l’origine. Non ricordo con precisione, per esempio, quando cominciai ad interessarmi ai giornali o quale partita mi condannò a decenni di sofferenza al seguito dell’Inter.

Ma non ho dubbi sull’evento che mi fece innamorare dell’arte di Tennessee Williams. Accadde quando vidi Lino Capolicchio sul palco dell’Eliseo nella parte di Chance Wayne in La dolce ala della giovinezza, il dramma in cui Williams esplora tre temi per lui fondamentali: la meschinità umana, la violenza della vendetta e l’inesorabile passaggio del tempo.

Morto Lino Capolicchio, protagonista del "Giardino dei Finzi Contini". Roberta Damiata il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Se n'è andato a soli 78 anni l'amato attore e sceneggiatore Lino Capolicchio. Era stato uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza, del cinema italiano degli anni settanta.

È morto a 78 anni l'attore, sceneggiatore e regista Lino Capolicchio. Una grande perdita per il cinema italiano. Nato a Merano e cresciuto a Torino si era trasferito poi a Roma, dove ha frequentato l'Accademia nazionale d'Arte drammatica Silvio D'Amico. Gli esordi professionali presso il Piccolo Teatro di Milano nella compagnia di Giorgio Strehler ne Le baruffe chiozzotte (1964) di Carlo Goldoni, dove ottenne il plauso di critica e pubblico. Nel 1965 continua la sua proficua collaborazione con Strehler ne Il gioco dei potenti, tratto dall’Enrico VIII di Shakespeare.

Seguono altri successi sul palcoscenico, poi la Rai lo sceglie come interprete di Andrea Cavalcanti nello sceneggiato Il conte di Montecristo (1966) di Edmo Fenoglio. L’anno successivo prende parte al cast internazionale de La bisbetica domata (1967) di Franco Zeffirelli. Il primo ruolo da protagonista arriva nel 1968 con Escalation di Roberto Faenza. Capolicchio è stato anche uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza, del cinema italiano degli anni settanta.

Tanti i suoi film più noti: Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Il giovane normale di Dino Risi e il film di Vittorio De Sica, tratto dal capolavoro di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, con il quale vinse il David di Donatello. Con Pupi Avati ha una lunga e proficua collaborazione lavorando come protagonista in La casa delle finestre che ridono, ma anche in Le stelle nel fosso (1978), Ultimo minuto (1987), Una sconfinata giovinezza (2010), Il signor diavolo (2019). Ma è anche nel cast e delle miniserie TV Jazz Band (1978) e Cinema!!! (1979).

Amatissimo anche da molti altri registi, indimenticabile la sua forte interpretazioni in Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani, quindi il ritorno in tv nello sceneggiato La paga del sabato (1975) di Sandro Bolchi. Nel 2006 Capolicchio interpreta, come attore protagonista con il regista belga Mohammed Hambra, il film Aller-retour, la storia di un italiano che ritorna in Belgio dopo aver lavorato a lungo nelle miniere di Marcinelle. Dopo il 2010 scelse di dedicarsi principalmente al teatro e all’insegnamento. Nel 2019 ha pubblicato la sua autobiografia, intitolata D’amore non si muore.

Marco Giusti per Dagospia il 4 maggio 2022.

Voi non sapete come ci sarebbe piaciuto a noi quindicenni vedere in sala nel 1968 “Escalation” di Roberto Faenza, vietato a minori di 18 anni, con Lino Capolicchio giovane contestatore figlio di papà ricco industriale, Gabriele Ferzetti ovviamente, che riesce a rubargli tutto, perfino la fidanzata, la bellissima Claudine Auger, che vedevamo nuda giganteggiare negli incredibili manifesti del tempo. Con le mani che coprivano i seni.

A quel tempo Lino Capolicchio era la risposta italiana a tutti i nostri desideri di rivolta, di rivalsa, di crescita. Se negli spaghetti western iniziava a trionfare Tomas Milian, come peone messicano e straccione che diventa protagonista rivoluzionario, nel cinema borghese degli adulti, Lino Capolicchio era il nostro eroe. Solo che non eravamo ancora abbastanza grandi per potere vedere i suoi film.

Ma con “Escalation” di Faenza, col quale vinse premi (il Nastro d’argengto, il Globo d’oro italiano), mentre uscivano i primi film che avrebbero cambiato la nostra vita, si affermò come un protagonista assoluto della nuova scena innovativa italiana.

Un percorso che lo porterà a una serie di film sessantottini, “Vergogna schifosi” di Mauro Severino con Marilia Branco, la bellissima prima moglie carioca di Adolfo Celi, “Metti una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi con un cast da paura, Tony Musante, Florinda Bolkan, Jean-Louis Trintignant, Annie Girardot, “Il giovane normale” di Dino Risi con Janet Agren, tutti vietati e tutti costruiti sulla sua figura di giovane già molto fluido, un po’ biondo, un po’ gay, un po’ tutto, che non riesce a star fermo in un solo ruolo di giovane borghese annoiato, ma che deve comunque infrangere, trasgredire, spezzare. E sempre, dico sempre, scoparsi tutte e tutti.

Qualcosa che al cinema, allora, non avevamo ancora visto e che alla fine degli anni ’60 decretò un successo di Lino Capolicchio che adesso c’è difficile pure ricostruire, ma che lui, scomparso ieri a 78 anni dopo una lunga malattia, ben conosceva per averlo vissuto in una maniera anche eccessiva.

E che ci sembra ancor più difficile ricordare rispetto alla seconda e alla terza vita di Capolicchio attore civile e perbene dei film nostalgici e piccolo borghesi di Pupi Avati o protagonista di film di genere, che iniziò con l’horror di culto ancora di Avati “La casa delle finestre che ridono”, dove incontrava nuovamente in un ruolo quanto mai grottesco il curioso giornalista-attore americano Eugene Walter, che già aveva girato con lui “Il giovane normale”.

A fare da spartiacque tra le due vite di Capolicchio, quella del giovane biondo e trasgressivo iniziata con “Escalation” e quella diciamo avatiana, troviamo il film da Oscar di Vittorio De Sica “Il giardino dei Finzi Contini”, dove interpreta il protagonista e narratore Giorgio, come Bassani, travolto dal fascino e dalla sessualità dirompente dei Finzi Contini, cioè Dominique Sanda e Helmut Berger.

Nel 1970 è il suo primo ruolo letterario e civile e penso che lo abbia cambiato completamente nell’immaginario dello spettatore del tempo. Io, che non ero riuscito a vedere i suoi film super-vietati da scopatore seriale, vidi invece il più tranquillo “Il giovane normale” e, soprattutto “Il giardino dei Finzi Contini” che per me che avevo abitato due anni a Ferrara, nel 1966 e nel 1967, avevo davvero un certo fascino.

Ma nel personaggio di Giorgio non c’era già più nulla del Capolicchio trasgressivo precedente. Magari qualcosa di quel personaggio ancora circolava nell’erotico di Brunello Rondi “Le tue mani sul mio corpo” con Erna Schurer e Colette Descombes, nel fondamentale “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire” di Giuseppe De Santis, film con scene di sesso con Femi Benussi che, ricordo, mi colpirono molto, e nel già tardo “D’amore si muore”, scritto e supervisionato da Giuseppe Patroni Griffi, ma diretto dal suo fidanzato-assistente Carlo Carunchio, con uno dei cast più hot che si potesse pensare, Silvana Mangano, Milva, Luc Merenda, Duilio Del Prete. 

Ma il film non ebbe lo stesso successo di “Metti una sera a cena”, fu una follia produttiva non farlo girare da Patroni Griffi e chiuse definitivamente la carriera da attor giovane trasgressivo di Capolicchio, anche perché già su quel set aveva un giovane bellissimo, Luc Merenda, che gli rubò la scena. In qualche modo, Capolicchio, nei primi anni ’70, dopo aver lavorato con autori come De Sica, De Santis e Patroni Griffi, si ritrova a inventarsi un altro ruolo da quello che lo aveva visto esordire.

Girerà film storici-civili, “L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale” di Gian Vittorio Baldi, “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani, dove è il capo partigiano “Pedro”, un personaggio storico importante, il più curioso “Calamo” di Massimo Pirri, dove interpreta un seminarista senza vocazione in quel di Puglia che viene sedotto prima dalla sorellastra Valeria Moriconi, poi da una giovane hippy dal pube depilato, Paola Montenero, che lo conduce in un vortice di droga e sesso.

Altro film cultissimo oggi impossibile da vedere. A questo punto della sua carriera arriva Pupi Avati, che ne fa una sorta di alter ego e di tuttofare in molti dei suoi film, “La casa delle finestre nel buio”, “Jazz Band”, “Le stelle nel fosso”, “Cinema!”, Fratelli e sorelle”,  “Ultimo minuto”, giù giù fino al suo ultimo film, il recente “Il signor diavolo” del 2019. 

In mezzo ai film di Pupi Avati, che lo assorbiranno quasi completamente, lo troviamo in qualche film di genere, il thriller “Solamente nero” di Antonio Bido, in qualche film d’autore, come “Fiorile” dei Taviani assieme a Chiara Caselli e a Galatea Ranzi, in una rara versione de “Il giardino dei ciliegi” di Antonello Aglioti con Susan Strasberg, Marisa Berenson, Dado Ruspoli e Barbara De Rossi che mi piacerebbe molto vedere.

Diresse anche due film di un certo interesse, “Pugili” nel 1995 con un giovane PierFrancesco Favino, Antonella Attilli e due vecchie star della boxe come Duilio Loi e Tiberio Mitri, e “Il diario di Matilde Manzoni” con Ludovica Andò, Urbano Barberini, Laura Betti, Alessio Boni, Corinne Cléry.

Persona estremamente gentile e generosa, come tanti attori, Capolicchio non è sempre riuscito a conservare nel tempo il fascino che aveva nei suoi primi film giovanile, ma è stato sempre attento e misurato in ogni tipo di operazione che avesse intrapreso. Oggi mi spiace non riuscire a rivederlo in buone copie, integrali, di “Escalation”, “Calamo”, “Un apprezzato professionista…”, “D’amore si muore”, tutti film che allora sembravano importanti e ora appaiono così opachi nel ricordo.    

·        È morto il fotografo Ron Galella.

È morto Ron Galella, re dei paparazzi di origini lucane. Il Quotidiano del Sud su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 maggio 2022.

Il fotografo statunitense Ron Galella di origini lucane, soprannominato “the king of paparazzi”, è morto sabato 30 aprile all’età di 91 anni nella sua casa di Montville, nel New Jersey. La notizia della scomparsa è stata pubblicata oggi dal “New York Times”.

Galella era un ineguagliabile quanto controverso fotoreporter che per oltre mezzo secolo ha inseguito e immortalato attori, registi, cantanti e politici, per narrare, rigorosamente in bianco e nero, il mondo delle celebrities.

“Newsweek” lo ha definito “Paparazzo Extraordinaire”, mentre “Time” e “Vanity Fair” gli hanno dato l’appellativo di “Godfather of U.S. paparazzi culture”.

Durante la sua carriera ha scattato più di 3.000.000 di ritratti di personaggi dello star system, meticolosamente custodite nella sua immensa villa a poco più di un’ora da New York, in un angolo di campagna del New Jersey: ha fotografato, tra i tanti, John Travolta, Sylvester Stallone, Elvis Presley, Louis Amstrong, Frank Sinatra, Marlon Brando, Maria Callas, Sophia Loren, Frank Zappa, Richard Burton, Elton John, Yves Saint Lauren, Mick Jagger, Jackie Kennedy, Truman Capote, Andy Warhol, Anna Magnani, John Lennon, Liz Taylor, Robert Redford, Arnold Schwarzenegger, Cher, Michael Jackson, Robert De Niro, Mick Jagger, Marcello Mastroianni, Roberto Benigni.

Il valore delle sue fotografie e la loro diffusione

Le sue fotografie, con prezzi che vanno da 4.000 a 15.000 dollari, sono state acquistate da giornali e riviste come “Time”, “Harper’s Bazaar”, “Vogue, Vanity”, “Fair”, “People”, “Rolling Stone”, “The New Yorker”, “The New York Times”, “Life” ed esibite nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo, come il Museum of Modern Art di New York, il Museum of Modern Art di San Francisco, l’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, la galleria Tate Modern di Londra, l’Helmut Newton Museum di Berlino e la Galerie Wouter van Leeuwen di Amsterdam.

I suoi ritratti sono mostrati permanentemente negli 11 piani del Hollywood Roosevelt Hotel, prestigioso albergo di Los Angeles.

Chi era Ron Galella

Nato a New York il 10 gennaio 1931, figlio di un falegname immigrato di Muro Lucano, in Basilicata, borgo di cui era cittadino onorario, Ron Galella ha iniziato a fotografare sotto le armi, durante la guerra di Corea, per poi laurearsi in fotogiornalismo nel 1958 all’Art Center College of Design di Los Angeles.

Dagli anni Cinquanta in poi non c’è stata celebrità che non sia stata ‘paparazzata’ dalla raffinata sfrontatezza di Ron Galella, capace di farsi trovare sempre al posto giusto nel momento giusto. Fotografie rubate sì ma apprezzate per la loro immediatezza, scattate spesso a raffica senza neppure guardare nell’obiettivo, che più volte gli hanno creato numerosi guai, ma che alla fine sono state pubblicate sui principali magazine di tutto il mondo e oggi sono presenti nei musei più prestigiosi.

Il pugno di Marlo Brando a Ron Galella

Lo stesso Ron Galella ricorda alcuni episodi “estremi” della propria esperienza professionale. La prima volta quando Marlon Brando, prima di entrare in un ristorante di Chinatown a New York, si girò verso di lui e lo colpì violentemente con un pugno facendogli saltare cinque denti e rompendogli la mascella. Dopo quell’episodio, per il quale venne anche risarcito, quando Galella incrociava Marlon Brando indossava sempre un casco da football, e quando un collega lo fotografò mentre seguiva l’attore con in testa il casco e in mano la macchina fotografica, quell’immagine venne pubblicata a doppia pagina dal magazine “People” e divenne famosa in tutto il mondo.

L’arresto per stalking per il caso di Jackie Kennedy

La seconda volta quando la sua ossessione per Jackie Kennedy, all’epoca moglie di Aristotele Onassis, si concluse nel 1972 con l’arresto per ‘stalking fotografico’ e un ordine di restringimento emesso dal giudice che gli impediva da quel giorno in avanti di avvicinarsi a lei a meno di quindici metri. Ron Galella non si scoraggiò e decise che, ogni volta che avrebbe potuto incontrare la vedova del presidente Kennedy, si sarebbe portato con sé un gigantesco metro per controllare la giusta distanza.

L’aggressione di Sean Penn e delle guardie del corpo di Richard Burton

Un altro bersaglio è stato l’attore Sean Penn, che infastidito dal foto reporter, gli ha sputato in faccia. Galella subì un’altra aggressione da parte delle guardie del corpo di Richard Burton, perdendo un dente, e intentò una causa contro l’attore che però si rivelò senza successo.

Nonostante le innumerevoli critiche e denunce, Andy Warhol ha detto di lui: “Una buona foto deve ritrarre una persona famosa, mentre fa qualcosa di non famoso. Il suo essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella”.

Le opere editoriali di Ron Galella

Oltre all’attività di paparazzo, Ron Galella è anche autore di diversi libri: “Jacqueline” (1974, Sheed and Ward Inc.), “Offguard: A Paparazzi Look at the Beautiful People” (1976, McGraw-Hill Book Company), “The Photographs of Ron Galella: 1965-1989” (2001, Greybull Press); “Ron Galella Exclusive Diary” (2004, Photology); “Disco Years” (2006, PowerHouse Books); “Warhol by Galella: That’s Great!” (2008, Verlhac Editions – Montacelli Press – Seeman Henschel Verlag); “No Pictures” ( 2008, PowerHouse Books); “Viva l’Italia!” (2009, PowerHouse Books), “Man In The Mirror: Michael Jackson” (2009, PowerHouse Books).

 Addio a Ron Galella, il re dei paparazzi preso a pugni da Marlon Brando. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2022.

Di foto ne aveva scattate più di tre milioni, ben catalogate nell’archivio della sua Villa Palladio a Montville, in New Jersey. Avevano tutte una cosa in comune: non erano posate. Robert Redford che esce dal taxi con gli occhiali a specchio (1974), Elvis Presley nel backstage di un suo concerto (1974), Sophia Loren che sgrana gli occhi dopo aver visto Omar Sharif alla prima del Dottor Zivago (1965), Jack Nicholson che fa la linguaccia (1972), Steve McQueen che beve un caffè in piedi sul set di Papillon (1973), Bruce Willis e Demi Moore in auto con la primogenita Rumer appena nata (1989). Si potrebbe andare avanti all’infinito, e ogni omissione sarebbe comunque clamorosa. Perché Ron Galella — «The King of Paparazzi», il «Paparazzo Extraordinaire» (), «Godfather of U.S. Paparazzi Culture» (padrino della cultura americana dei paparazzi; secondo e ) — scomparso nel sonno il 30 aprile a 91 anni, nella sua lunghissima vita ha pedinato, tormentato, assediato, sfinito personaggi di ogni tipo: da Richard Burton a Liz Taylor, da Gregory Peck ad Ava Gardner, da David Bowie a Bruce Springsteen, da Truman Capote a Louis Armstrong, da Andy Warhol ad Anna Magnani, da Marcello Mastroianni a Cassius Clay.

Papà Vincenzo, mamma Michelina

Papà Vincenzo di Muro Lucano, nel Potentino, costruiva bare. Mamma Michelina, oriunda del Beneventano, si occupava dei cinque figli e della casa sognando le vite delle star sulle riviste patinate. Ronald Edward Galella nasce e cresce nel Bronx finché non si arruola e parte per la guerra di Corea, dove impara a fare il fotografo. Con la buona uscita da soldato si iscrive all’ArtCenter College of Design di Pasadena, in California, dove si laurea in fotogiornalismo. Senza più soldi per aprirsi uno studio tutto suo a Manhattan, decide che sarà la strada il suo studio, fuori dai ristoranti, dai teatri, dai cinema, dai locali dove ciondolano le star del momento. «Una volta era facile fotografate la gente famosa, non esistevamo guardie del corpo. Potevo andare ovunque, ci andavo e basta. Così è nata la mia foto di David Bowie, John Lennon, Yoko Ono, Simon & Garfunkel nel backstage dei Grammy Awards», raccontò a Elle. Tenacia e determinazione non gli mancavano. Per fotografare Richard Burton e Liz Taylor sul loro yacht sul Tamigi si appostò per giorni in un magazzino pieno di topi. Brigitte Bardot la tampinò mentre faceva il bagno a Saint-Tropez, e quando lei si accorse dell’agguato tentò di affogarlo.

Jackie Kennedy: la magnifica ossessione

Ma due foto lo raccontano più di tutte, e non le ha scattate lui. In una è qualche passo indietro rispetto a Jackie Kennedy Onassis, l’inseparabile Nikon al collo (anzi, due) con cui aveva appena ritratto l’ex First Lady americana nella celeberrima «Windblown Jackie», l’istantanea in Madison Avenue con i capelli scompigliati dal vento e il sorriso enigmatico da Monna Lisa (aveva chiesto al taxista che lo aveva accompagnato di farla). Anche nell’altra è due passi indietro, questa volta rispetto a Marlon Brando, e indossa un casco da football per prevenire eventuali colpi dall’attore che gli aveva già spaccato la mascella e cinque denti dopo un tallonamento fuori da un ristorante cinese di New York (lo scatto è del collega Paul Schumbach). Ron Galella era riuscito a esasperare entrambi. Jackie O dopo il famoso scatto, ovviamente rubato, lo portò in tribunale per le continue intrusioni nella sua vita privata (sono tremila, in tutto, le foto dedicate alla vedova di John Fitzgerald Kennedy) e per la «sofferenza mentale subita». Finì con un divieto di avvicinamento a meno di 15 metri. Invece fu lui a denunciare Marlon Brando, dal quale ottenne un risarcimento di quarantamila dollari.

Il riconoscimento di Andy Warhol

Si può concludere che la sua cifra sia stata fotografare la persona e non il personaggio. Ma questa cosa la disse molto meglio Andy Warhol: «Una buona foto deve ritrarre una persona famosa mentre fa qualcosa di non famoso, essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella».

È morto Ron Galella, il re dei paparazzi (che amava Jackie Kennedy). Alessandra Mammì su L'Espresso il 4 maggio 2022.

Gli appostamenti per Liz Taylor, le risse con Marlon Brando e la sua passione ossessiva per la moglie del presidente degli States: la rocambolesca vita professionale del fotografo delle superstar scomparso a 91 anni.

La privacy? Per Ron Gallella era come l'aglio per Dracula. Lui, storico paparazzo nato nel 1931 e diventato il persecutore di ogni pubblico personaggio (meglio se donna) proprio non la capiva. Fare un buco nella siepe di Katharine Hepburn per spiarla in giardino; corrompere un portiere o un guardiano per appostarsi nel portone: sedurre una segretaria per carpire informazioni; passare giorni in un magazzino pieno di topi accucciato in finestra come un cecchino, solo perché Liz e Burton stanno per fare una festa nello yacht attraccato lì sotto, per Ron era solo lavoro. 

«Come faccio a guadagnarmi il pane per vivere se rispetto la privacy?» si diceva. E lo diceva pure ai giudici quando veniva trascinato in tribunale. Jacqueline Kennedy ce lo portò più volte perché per Ron lei era un ossessione. «Jackie ti amo!!! le urlava quando la inseguiva per Central Park, o si nascondeva dietro agli stand di un negozio, o veniva a sapere a quale concerto lei sarebbe andata e comprava un biglietto anche lui.

"Jackie ti amo!” e di sicuro era vero. Lei è il volto della sua foto talismano "Jackie e il soffio di vento", un vortice di capelli che lascia libera le labbra appena piegate in un sorriso. La sua Monna Lisa, l'ha battezzata Ron per l'espressione enigmatica. "Forse ha sorriso perché non mi ha visto" dice triste, il paparazzo innamorato. Di sicuro è così. La signora Kennedy Onassis non solo lo amava molto meno, ma per liberarsi di lui pagava avvocati e stratosferiche parcelle. Così Ron perdeva i processi ma non la determinazione. E ricominciava a cercarla e perseguitarla, perché diciamolo un po', Jackie aveva ragione. Se non proprio stalking, Ron era una bella rottura di scatole. 

Ma almeno lei non gli ha mai rotto cinque denti e incrinato la mascella come fece invece Marlon Brando. Fu così: Ron scattava foto e Brando impassibile dietro gli occhiali scuri, camminava come un bonzo, apparentemente neanche tanto infastidito. Si avvicinava calmo e implacabile. Brando si avvicinava, Ron scattava. Ma all'improvviso sferrò un pugno. Uno solo, quel che bastò per mandare il nostro dritto in ospedale. Ci fu denuncia e processo. E poi patteggiamento. Brando pagò 40mila dollari. Ron dovette darne la metà agli avvocati. l'altra metà neanche bastò per rifare tutti i denti. Questa è la vita del paparazzo Galella, che come si evince da solo pochi episodi, davvero è degno di un documentario da Sundance. 

Si chiama "Smash is Camera" è diretto dal premio oscar Leon Gast. Amarcord di un'epoca che sapeva ancora costruire icone, che non rispettava i red carpet e i photo call, che viveva di rotocalchi. pagine colorate e patinate e poi di principesse, first lady, superstar. E dove un processo come quello fra Jackie-Ron divenne materia di studi sull'insolubile tema: ha più diritto lei alla privacy anche se passeggia per Central Park, o lui a guadagnarsi il pane fotografando il suo sorriso?

Cristiano Vitali per iodonna.it il 3 maggio 2022.

È morto pacificamente nel sonno sabato mattina, nella sua casa di New York. Aveva 91 anni, Ron Galella. E se non fosse stato per questo imprevisto, ieri sarebbe andato al Met Gala 2022 a fotografare le star. Dietro le transenne di siepe come sempre. Non in piedi, poiché ormai non camminava più, ma seduto in posizione favorevole.

Nato a New York nel 1931 da padre originario di Muro Lucano (Basilicata) – il Centro studi internazionali lucani nel mondo ha diffuso subito una nota di cordoglio –, Galella era uno dei fotografi più celebri al mondo. Anche se la sua specializzazione era la più molesta in assoluto, come se fotografare già non lo fosse: quella di inseguire i personaggi famosi per rubare loro uno scatto, insomma paparazzarli.

Un’attività in genere considerata volgare che Ron nobilita grazie a una sensibilità da fotogiornalismo, area in cui si era laureato all’Art Center College of Design di Los Angeles.

Il termine potrà anche essere nato con la Dolce vita felliniana, ma è con la costanza di mastino-Ron che supera il mero scandalo per diventare molto di più: un documento, la più mirabile delle radiografie.

Come fa? Pazienta, aspetta, aspetta ancora, e poi fa andare la macchina fotografica. Nemmeno guarda nell’obiettivo, dice la leggenda che nei decenni si è accumulata su di lui. Gli importa solo di catturare qualcosa che non si vede, che le star di ogni campo – attori, cantanti, sportivi, politici – non vorrebbero si vedesse.

O anche che si vedesse, perché poi a lungo andare lo riconoscono, e un po’ giocano alle pose, o forse non ci badano nemmeno più. Perché le foto dello strano paparazzo saranno anche scattate a tradimento, ma sono anche quotate. E forse conviene farlo lavorare a beneficio di tutt’e due. 

Ron Galella: mitragliate di flash

Non tutti però sono propensi all’invasione di campo di Ron. E volano botte, dove non va a pezzi solo la macchina fotografica ma anche qualche osso. Nel 1973 Marlon Brando gli frantuma la mascella. Imparata la lezione, quando sa che l’attore è in circolazione si mette a indossare un casco da rugby. Negli anni Ottanta è Sean Penn – in coppia con Madonna che si nasconde per la vergogna – a giocare al punching ball con la sua faccia.

Bette Davis, Cher, Diane Keaton, Woody Allen (una frazione dei nomi che Ron Galella ha inseguito e atteso che uscissero o entrassero di casa, da un locale, da un’auto), frappongono mani e borsette tra sé e l’obiettivo, ma non c’è niente da fare.

Anche perché Ron scatta a raffica. Spesso da lontano, poco importa di chi si frappone davanti e dietro la celebrity. Anzi, queste sagome e dettagli, questi errori, mettono ancora più in risalto l’unicità dei personaggi. Sicché le foto migliori sono sempre quelle che si insinuano dietro i vetri delle macchine e tra le persone. 

Dove c’è poco luce, o dove la rapidità dello scatto – mista alla velocità della fuga di chi vuole sfuggire a Ron – rende la grana del fermo-immagine e la centratura errata del soggetto un processo fantasmatico. Il caso della serie di foto su Jackie Kennedy, l’ossessione di Galella, soprattutto negli anni newyorchesi di entrambi. Un inseguimento quotidiano che nel 1972 gli costa l’ingiunzione di mantenere una distanza di 15 metri dall’ex first lady.

Nonostante ciò la fotografa sempre e ripetutamente, lasciando di lei – la donna con lo Chanel rosa macchiato di sangue del marito assassinato – l’impressione di una donna esile e dinamica, solitaria, introversa, per cui è vitale muoversi. E più sviluppa rullini e più il suo mistero si fa insondabile, con l’illusione che più angoli di lei se ne hanno, più facile diventi capirla. Ma non è mai così. 

Anche se è un gioco che paga, poiché mostra i famosi in pose altrimenti invisibili. Di insofferenza e riflessione, disagio e superiorità. E poi perché di molti agguati Ron ottiene la foto più fresca, la più rappresentativa del glamour delle star.

A memoria: Robert Redford con gli aviator a specchio e cravatta in un mezzobusto nel traffico di New York (1974), poi messo in copertina del volume The Photographs of Ron Galella (2002). Cher al Met Gala del 1974. Ali MacGraw che sorseggia un drink agli Oscar 1975. La linguaccia di Jack Nicholson alla première di Calore di Paul Morrissey e ogni scatto rubato a Jack e Anjelica Huston durante la loro relazione.

Simona Siri per “Vanity Fair” l'1 giugno 2022.

Lo incontrassi oggi, la prima domanda che gli farei sarebbe sulla polemica Kim Kardashian che indossa l’abito con cui Marilyn Monroe cantò Buon compleanno al presidente Kennedy. Avendolo conosciuto anche solo per poco, sono convinta che non sarebbe contrario: avrebbe colto la similitudine tra i due personaggi – la diva per eccellenza di ieri con quella di oggi. 

Purtroppo non posso chiederglielo: Ron Galella è morto lo scorso 30 aprile, a 91 anni, lasciandosi alle spalle una carriera ineguagliabile e un archivio che racchiude alcune tra le immagini più famose della storia del costume americano. Jackie Kennedy, Elvis, Frank Sinatra, Marlon Brando, Sean Penn, Madonna, Robert Redford, Mick Jagger, Brooke Shields, Liz Taylor. 

La lista è infinita. Così come sono le mostre che gli sono state dedicate: nonostante il suo lavoro fosse quello di inseguire le star per ottenere scatti rubati, le sue foto sono state riconosciute come arte, esposte in gallerie importanti, acquistate da collezionisti e musei. L’ho incontrato prima della pandemia: vidi un documentario e decisi di contattarlo.

Trascorsi un pomeriggio nella sua casa-museo in New Jersey in un salotto con i soffitti altissimi e con un enorme divano rosso a forma di S. Intorno a noi, sopra, sotto, alle pareti, per terra, sui mobili, praticamente in ogni stanza scatole bianche con etichette nere con dentro il suo tesoro, le migliaia di foto scattate durante la vita, tutte perfettamente catalogate. Un archivio senza eguali che preso nel suo insieme è la migliore storia dello star system americano, sicuramente dei suoi tempi più gloriosi. 

Che cosa doveva avere una celebrity per essere fotografata da lei?

«La bellezza, ma non solo. La naturalezza e l’azione. Non mi sono mai piaciute le star che si mettono troppo in posa, cercavo immagini realistiche».

Quale è stato il periodo migliore della sua carriera?

«Quello dello Studio 54. Ci passavano tutti, prima o poi. Andavi lì sul tardi e li beccavi tutti». 

Le star di quei tempi erano diverse da quelle di oggi?

«Avevano meno filtri, erano più spontanee e libere. Ora prendono lezioni su come comportarsi con i media, come andare in televisione. Ridono troppo, mostrano i denti. E sono sempre circondate da guardie del corpo». 

Una delle sue fotografie più famose è Jackie Kennedy che attraversa la strada a New York con i capelli scompigliati dal vento. Oggi sarebbe impossibile.

«È la mia foto migliore, la Monna Lisa, e non solo perché la più famosa, ma anche per la sua espressione, quel sorriso solo degli occhi. Una bellezza naturale, senza tempo, senza trucco. È una foto figlia del caso: ero a Central Park a scattare con una modella, avevo preso quel lavoro solo perché era sulla 88esima, vicino a casa di Jackie, speravo di riuscire a vederla. E infatti successe. La inseguii per qualche isolato su un taxi, per non farmi riconoscere. Quando scesi me la trovai quasi davanti e scattai. Dopo quella prima foto lei si mise gli occhiali da sole che teneva in mano, ma ormai io l’avevo fatta, avevo la foto perfetta».

Ce n’è un’altra in cui corre. Scappava da lei?

«Aveva portato la figlia a giocare a tennis. Mi vide e per evitare che io fotografassi Caroline si mise a correre, convinta che la avrei inseguita, come in effetti ho fatto». 

Sbaglio o era un po’ ossessionato da Jackie? Gira voce che lei per un po’ sia uscito con la sua assistente.

«Una ragazza norvegese di nome Gretta, sì. Mi dava dritte tipo il nome di dove Jackie si faceva la manicure… poi una volta ci vide insieme e la licenziò». 

Quindi ho ragione, era ossessionato.

«La chiamavo la mia “golden girl”. Non la definirei ossessione, però. Mi piaceva perché stava al gioco, non le importava di essere fotografata, era naturale, non si metteva in posa. Era piena di vita, stava sempre facendo qualcosa, faceva jogging, comprava libri, vedeva le amiche. Era interessante fotografarla. E poi apprezzava il mio lavoro: quando le regalai il mio primo libro su di lei, seppi da conoscenti comuni che lo aveva messo in bella vista in salotto, dove rimase fino alla sua morte».

Eppure tra voi qualche problema c’è stato.

«Era molto protettiva verso i figli. L’unica volta che si è lamentata è stata quando la fotografai in bicicletta a Central Park con John Jr. Mandò la sua guardia del corpo a chiedermi il rullino, voleva che distruggessi le foto. Io non lo consegnai e mi fecero arrestare per molestie. Su consiglio del mio avvocato controdenunciai (nel 1972 un giudice ordinò a Galella di tenersi a 7 metri di distanza dalla signora Kennedy e a 10 dai suoi figli. Un decennio dopo, rischiando il carcere per aver violato l’ordine, Galella accettò di non fotografarli mai più, ndr). 

A parte l’assistente, aveva altri informatori?

«Avevo una rete, sì, gente che lavorava negli alberghi, per esempio. Una volta fui l’unico a fotografare Liz Taylor e Richard Burton perché sapevo che erano in un hotel diverso dal Plaza, nel quale stavano di solito». 

C’è qualcuno che non è riuscito a fotografare e che avrebbe voluto?

«Marilyn Monroe. Persi l’occasione. Una volta ero nello studio affianco a quello in cui stavano girando Fermata d’autobus e siccome stavo facendo un altro lavoro decisi di non aspettare che uscisse. Me ne pentii il giorno dopo, anche perché con lei non ebbi più alcuna possibilità». 

Elvis invece ce l’ha.

«Nel 1974 all’hotel Hilton di Philadelphia. Aveva appena finito un concerto e invece di uscire dal retro passando dalle cucine come faceva di solito uscì dall’entrata principale, con fuori la limousine che lo aspettava. È una foto quasi sfocata, Elvis è dietro, davanti c’è il suo bodyguard che forse non a caso gli assomiglia molto, ma nonostante questo mi piace, anzi forse proprio per questo».

Marlon Brando le fece saltare cinque denti con un pugno.

«Successe nel giugno del 1973. Sapevo che Brando era a New York per registrare un programma televisivo con Dick Cavett. Lo fotografai quando arrivò con l’elicottero, lo seguii tutto il giorno e alla sera, mentre stava andando a cena a Chinatown, lo inseguii di nuovo per strada. A un certo punto mi disse: “Cosa vuoi che ancora non hai?”. Io risposi che volevo una foto senza occhiali da sole perché erano pagate meglio e lui allora mi sferrò un pugno. Andammo per avvocati e alla fine io ottenni 40 mila dollari per la liquidazione di una causa per danni».

Qual è il segreto per ottenere la foto migliore?

«Essere nel posto giusto al momento giusto. E poi l’audacia. Pensi che io ero un timido: andai a scuola di recitazione, a Pasadena, proprio per combattere la mia timidezza». 

La sua tecnica?

«Giravo sempre con due macchine, una in bianco e nero e una a colori. La prima foto la scattavo di sorpresa, senza mettere a fuoco, senza neanche guardare. Magari era sfocata, ma era naturale. Se la celebrity acconsentiva a farsi riprendere ne scattavo altre a colori, più posate, da ritratto. Se si rifiutava, io comunque una foto a casa l’avevo portata. E nel 90% dei casi quella rubata e naturale era anche quella che poi vendevo di più e meglio».

Che cosa ha capito delle celebrity in tutti questi anni che ha passato a fotografarle?

«Che fanno un lavoro che ha a che fare con l’illusione. Le vedi sullo schermo e sembrano gigantesche, sembrano super umane, perché le dimensioni dello schermo le fa sembrare così. Ma nella vita reale non lo sono, anzi a volte sono persino piccolette». 

Essere ricordato come paparazzo le darebbe fastidio?

«Non ho mai inseguito le celebrity per il gusto di vederle cadere o riprenderle in situazioni imbarazzanti. Purtroppo oggi la parola paparazzo è abbinata a personaggi di poco gusto. Se io lo sono stato, lo sono stato con classe». 

·        Addio alla cantante Naomi Judd. 

Musica: addio a Naomi Judd, popolare diva country. (ANSA il 30 aprile 2022) Lutto nel mondo della musica: Naomi Judd, una popolare cantante e con la figlia Wynonna parte del duo The Judds e' morta a 76 anni. Ne hanno dato l'annuncio su Instagram le figlie, oltre Wynonna, anche Ashley, l'attrice e attivista del movimento #MeToo.

Naomi soffriva di depressione e le figlie hanno accennato alla "malattia mentale" della madre dando la notizia della morte: "Oggi noi sorelle abbiamo vissuto una tragedia. Abbiamo perso la nostra bellissima madre per una malattia mentale e siamo distrutte. Navighiamo in acque inesplorate".

La dichiarazione non indica una causa della morte. IL marito di Naomi, Larry Strickland, ha chiesto al pubblico di rispettare la privacy della famiglia. Naomi aveva parlato della sua lotta col 'male oscuro' in un memoir del 2016 dal titolo "Fiume del tempo: la mia discesa nella depressione e come sono emersa con speranza".

The Judds avevano accumulato negli anni 14 canzoni "number one" tra cui "Mama He's Crazy", "Why Not Me", "Girls Night Out" e "Rockin' With the Rhythm of the Rain". Avevano smesso di cantare in coppia quando Naomi nel 1991 si era ammalata di epatite, ma qualche giorno fa erano tornate sul palco a Nashville per i CMT Music Awards per una versione del loro hit del 1990 "Love Will Build a Bridge" accompagnate da un coro di cantanti gospel. (ANSA).

·        Addio all’attrice Jossara Jinaro.

Addio a Jossara Jinaro, l'attrice è morta a 48 anni: aveva recitato in "E.r. - medici in prima linea" e “Giudice Amy’. La Repubblica il 30 aprile 2022.   

Tra i film a cui aveva partecipato anche "World Trade Center" di  Oliver Stone. A dare la notizia su Facebbok è stato il marito, Matt Bogado.

Aveva recitato nella sua carriera di attrice in molte serie di successo come "Giudice Amy", "American Family", "E.R. - Medici in prima linea" e "Passions":  Jossara Jinaro è morta a causa un tumore all'età di 48 anni. L'annuncio della sua scomparsa avvenuta in Californa è stato dato dal marito Matt Bogado su Facebook. L'attrice lascia due figli Liam e Emrys..

Nel 1999 Jinaro aveva fatto il suo debutto in televisione vestendo i panni della figlia di Cheech Marin in "Giudice Amy", telefilm in cui è apparsa fino al 2005. Mentre nel 2004 aveva  recitato in "American Family" e dal 2005 al 2009 ed era stata Andrea Clemente in "E.R. - Medici in prima linea". Interprete della serie "East Los High", nel 2012 Jinaro aveva poi a iniziato a produrre i suoi cortometraggi, tra cui "Desert Road Kill".

Il suo curriculum cinematografico comprende "La casa del diavolo", un film di Rob Zombie, "Havoc", con Anne Hathaway, "Ten Tricks" con Leah Thompson, "Fly Boys", con Stephen Baldwin, "World Trade Center" di Oliver Stone, con Maggie Gyllenhaal e Michael Pena.

Nata a Rio de Janeiro, in Brasile, il 25 marzo 1973, Jossara Jinaro era cresciuta in Colombia come figlia adottiva di un diplomatico. Quando il suo patrigno fu tenuto in ostaggio dai guerriglieri, la famiglia si trasferì negli Stati Uniti.

 

·        È morto il procuratore Mino Raiola.

Mino Raiola. Mino Raiola gravissimo in rianimazione: l’affetto di Balotelli, la visita di Ibrahimovic. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Il re del calciomercato, procuratore di calciatori come Balotelli, Ibrahimovic, Donnarumma, al San Raffaele. Un post smentisce il decesso. Zangrillo: sta combattendo. Malato da tempo, 54 anni, a gennaio era stato operato.

Mino Raiola, il re del calciomercato, è ricoverato in gravissime condizioni e lotta per la vita. Il noto agente di calcio, 54 anni, manager fra gli altri di Mario Balotelli e Haaland, di Donnarumma e Pogba, è malato da tempo. Lo scorso gennaio ha subito un delicato intervento e nelle ultime settimane le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate. A tal punto che nella giornata di ieri s’era diffusa la notizia della sua morte, inizialmente confermata da fonti a lui vicine, ma poi smentita dal dottor Alberto Zangrillo, primario dell’unità operativa di Anestesia e rianimazione dell’ospedale San Raffaele, dove l’agente è ricoverato. «Si specula sulla vita di un uomo che sta combattendo» il duro attacco di Zangrillo, storico medico personale di Silvio Berlusconi e dal novembre scorso anche presidente del Genoa. Sui seguitissimi profili social del superagente italo-olandese è comparso invece questo messaggio: «Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazz... È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembrano anche in grado di risuscitarmi...». Ha parlato anche José Fortes Rodriguez, braccio destro del procuratore: «Sta molto male, è in una brutta situazione, ma non è morto». Nel pomeriggio a far visita a Raiola al San Raffaele è arrivato Zlatan Ibrahimovic, che all’agente è legatissimo da vent’anni. «Per me è come un padre» ha ammesso più volte il centravanti svedese del Milan, che conobbe Mino da ragazzino, quando all’Ajax non riusciva ancora a sbocciare.

Amato e odiato

Spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Amato dai suoi assistiti, come Ibra, appunto. O Donnarumma, che nel 2021, quando lascia il Milan, s’affida completamente al suo manager, con la fiducia che si dà solo a un padre, a un fratello: «Per me decide lui». E poi Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti, tutti convinti: «Mino è il migliore». Dal punto di vista del calciatore, verissimo: i soldi che ti fa guadagnare lui, con gli altri te li scordi. Un po’ meno bene gli vogliono i club, che spesso si vedono portare via i giocatori a zero euro. Mai visto però un dirigente che gli abbia chiuso la porta. «Dice sempre in faccia quello che pensa, anche le sue pretese economiche, esose ma chiare, per me è il migliore in circolazione — ha detto Beppe Marotta, a.d. dell’Inter —. Spero che possa ancora stare bene. A lui mi lega un rapporto di amicizia, basata su diversi scontri avuti. È preparato, furbo, scaltro, però molto corretto». Basta dire che parla sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce».

Campano cresciuto in Olanda

Nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem in Olanda, a 15 anni scopre fra i tavoli della pizzeria di famiglia di avere un particolare talento: sa come trattare i clienti, li fa sentire bene, sa dare consigli. Poi, a 18, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così parte la sua scalata. Una lunga carriera che l’ha portato a diventare un fuoriclasse del mestiere di procuratore, che reinterpreta: non più semplice rappresentante, ma intermediario. Il suo stratagemma è tanto semplice quanto geniale: i soldi del cartellino che fa risparmiare al club li fa incassare ai calciatori. Affarista nato, non sbaglia un colpo: come quando nel 2016 compra a Miami la villa che fu di Al Capone, spendendo 8 milioni: oggi ne vale il doppio. Nella classifica di Forbes è il quarto agente più pagato al mondo, con 84,7 milioni di dollari, circa 70 milioni in euro, guadagnati in commissioni. «Ma non guardo il mio conto corrente. Odio le banche. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare». Ieri anche Mario Balotelli, che gioca in Turchia, gli ha dedicato un messaggio: «Tieni duro, Mino. Ti voglio bene».

Mino Raiola, da Al Capone a 007, dalla nonna a McDonald’s: 10 cose che non sapete sul procuratore più famoso (e discusso) al mondo. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Parla sette lingue (olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano), è nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem (Olanda) e oggi vive a Montecarlo: ma questo non è tutto.

Poliglotta

Spregiudicato, scorbutico, ma anche scaltro e geniale: Mino Raiola parla sette lingue (olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano), è nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem (Olanda) e oggi vive a Montecarlo. Di mestiere cura gli interessi dei calciatori: da Ibrahimovic a Donnarumma, a Balotelli e Pogba, la sua è una flotta in continua espansione. Per loro negozia, litiga con i club, risponde a telefonate in piena notte. Dà loro consigli, li tratta come fossero di famiglia. Deve fargli ottenere il contratto migliore, spesso ci riesce. Come con Donnarumma, che nel Paris Saint Germain grazie a lui ha appena trovato un tesoro da 12 milioni a stagione per 5 anni. Tutti felici, ennesima vittoria (almeno economica) di un uomo di 53 anni partito dalla pizzeria di famiglia (dove serviva ai tavoli, non era in cucina come leggenda racconta) e arrivato ad essere uno degli agenti sportivi più potenti e discussi (vedi il recente caso Romagnoli) al mondo. Con qualche segreto.

Il rapporto con la nonna e la religione

Raiola crede in Dio, o comunque «in una potenza più forte di noi. Anche perché ho visto in mia nonna la personificazione del bene. Per me era una santa». Ecco, la nonna, una delle persone più importanti nella vita di Mino. «Avevamo un rapporto straordinario — ha raccontato in un’intervista a Sport Tribune —. Era analfabeta, ma mi ha cresciuto: è la donna più intelligente che ho mai conosciuto». Da lei Raiola ha imparato tutto: «Il suo ego non contava, si metteva sempre a disposizione di tutti: cucinava per chi tornava di notte, quando non aveva niente da fare lavava per terra nel ristorante, puliva le salviette e tovaglie cosi risparmiavamo soldi, e la mattina quando ti svegliavi alle sette trovavi già la salsa pronta».

Il primo affare: McDonald’s

Tra i tavoli della pizzeria di Haarlem Raiola scopre di avere un particolare talento: sa come trattare i clienti, li fa sentire bene. Gli chiedono consigli, cercano in lui delle risposte. Mino ha 15 anni, ma già si occupa dei conti della famiglia e parla con avvocati e fiscalisti. Entra, neanche maggiorenne, nel consiglio degli imprenditori della città. Poi, a 18 anni, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così parte la sua scalata.

La moglie Roberta, conosciuta a Foggia

Direttore sportivo dell’Fc Haarlem, a 24 anni porta Bryan Roy dall’Ajax al Foggia dei miracoli di Zeman per 2,2 miliardi di lire. Un accordo particolare, che prevede una riverniciata nella nuova casa del giocatore e un servizio taxi per almeno sette mesi. Mino, insomma, resta in Puglia. Qui conosce Roberta, la sua futura moglie: «Ci vediamo poco, e il grande segreto del mio successo». Stanno insieme da quasi trenta anni.

Papà Mario, la persona più importante

Perfezionista come papà Mario, ambizioso come mamma Annunziata: «Migliora te stesso, me lo ripeteva sempre». Sul padre: «Non è mai stato interessato ai soldi. Per comprargli un paio di pantaloni devi puntargli una pistola alla testa. Forse non lo sa neanche, ma è stato la persona più importante della mia vita. Non mi ha mai ostacolato, non mi ha mai detto che ero pazzo».

La vita a Montecarlo

Raiola vive a Montecarlo dal 1995, ufficio in Boulevard d’Italie. Una scelta di vita, ha spiegato, non legata ad interessi fiscali: «La gente pensa che sono andato via per le tasse ma non è vero. Qui la qualità della vita è altissima. A volte mi arrabbio con l’Italia. A Monaco vedo che le cose funzionano e mi chiedo: perché noi non lo possiamo fare? Perché non lo vogliamo. In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire».

Discendente di Al Capone?

Mino è uno dei discendenti di Al Capone? Possibile. La famiglia del gangster italo-americano è infatti originaria di Angri, proprio come quella di Raiola. E la madre di Alphonse, figlia di un contadino del posto, si chiamava Teresina Raiola. L’agente non ha mai confermato la presunta parentela ma, nel 2016, ha comprato a Miami per 8 milioni la villa che fu di Al Capone: otto camere, sei bagni, 3mila metri quadri di giardino. Solo una casualità?

Forbes: quarto agente più pagato al mondo

Si definisce «supercapitalista». Vuole che tutti siano più ricchi «anche nel calcio, per ottenere mega contratti per i migliori calciatori». Lui ci è riuscito: secondo Forbes è da anni uno degli agenti sportivi più potenti al mondo. Nella classifica del 2020 è quarto, con 84,7 milioni di dollari (circa 70 milioni in euro) guadagnati in commissioni. Eppure dice di non aver mai guardato il proprio conto corrente: «Odio le banche. Ho un fiscalista di fiducia che si occupa di tutto. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare».

Balotelli

Con i calciatori che rappresenta ha un rapporto molto stretto. Un esempio? Nell’ottobre del 2011 Balotelli gioca con i fuochi d’artificio nella sua casa di Manchester, scoppia un incendio: la prima persona che cerca, in piena notte, è proprio Raiola. Secondo cui «Mario capita che mi chiami tre volte in dieci minuti, Ibra anche cinque volte al giorno».

Il mito 007

Il suo mito è James Bond, l’agente segreto al servizio Sua Maestà Britannica. Nell’ufficio di Montecarlo le pareti sono tappezzate di locandine dei film di 007. Unica concessione le maglie di alcuni calciatori della sua scuderia.

Il rapporto con il sesso

Mino Raiola e il sesso: «Da giovane credevo di essere bravo a letto – ha detto sempre a “Sport Tribune “- Adesso non devo essere io a giudicarlo». Non ha mai dovuto pagare per farlo: «Ho sempre frequentato donne più grandi, mi hanno cresciuto loro, a 16 anni ne frequentavo una di 28. Non ho mai avuto la necessitàdi imparare dalle prostitute. In Olanda molte erano clienti del mio ristorante. Per loro ho un grande rispetto dato che fanno un lavoro difficile e molto apprezzabile».

Da gazzetta.it il 30 aprile 2022.

È morto all'età di 54 anni Mino Raiola. Il super agente di calciatori era malato da tempo e lo scorso gennaio era stato ricoverato all'ospedale San Raffaele di Milano. Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha lavorato nella pizzeria di famiglia prima di intraprendere la carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera fino a diventare uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale. 

Da Ibrahimovic a Robinho, da Pogba a Balotelli, da Lukaku a De Ligt, solo per citare alcuni dei trasferimenti principali con l'intermediazione di Raiola, che nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari secondo Forbes. Negli ultimi anni Raiola, assieme a Mendes, Barnett e Manasseh, ha creato un'associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

Da cinquantamila.it/ - La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Mino Raiola (Carmine R.), nato a Nocera Inferiore (Salerno) il 6 novembre 1967 (51 anni). Procuratore sportivo. Secondo l’ultima classifica della rivista Forbes (aggiornata al 25 settembre 2018), quinto agente sportivo più potente del mondo, con introiti da commissioni pari a 62,89 milioni di dollari 

Figlio di un meccanico, a neppure un anno di età emigrò al seguito dei genitori in Olanda, ad Haarlem, «in cerca di fortuna. Annunziata Cannavacciuolo, mia madre, era l’ambizione e l’orgoglio. Mio padre Mario l’idealismo. Vivevamo con uno zio panettiere e, se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set de Il padrino. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita» (a Malcom Pagani). Lì i suoi genitori si reinventarono ristoratori: «Volevano rieducare gli olandesi: “Il cibo fa schifo, insegniamogli a mangiare”». 

«“Prima paninoteca, poi pizzeria, quindi ristorante di classe. Abbiamo vinto dei premi. Il segreto era usare prodotti italiani. Siamo di Angri, la terra dei pomodori San Marzano: 35 mila persone e 800 aziende che fanno pelati, è l’85% del mercato mondiale. […] Davo una mano a mio padre, che lavorava sette giorni su sette. Da lui ho imparato a non mollare. Intanto studiavo Giurisprudenza – mia madre ci teneva tantissimo –, e giocavo pure a pallone: nell’Haarlem, la squadra più vecchia d’Olanda. […] 

Ho cominciato a lavorare come intermediatore perché al ristorante venivano clienti olandesi che non capivano il modo di fare degli italiani. Commercianti che avevano ordinato merce che non arrivava mai, per esempio. Mi dicevano: Mino, pensaci tu. Io telefonavo. Risolvevo problemi. Ho fondato una società”. Nome? “Intermezzo, naturalmente… Comunque: a mangiare da noi veniva, ogni venerdì, anche il presidente dell’Haarlem con la moglie. La terza moglie. Gli dicevo sempre che di calcio non capiva niente. Un giorno mi prende e mi fa: senti, provaci tu. Mi ha nominato direttore sportivo. Lì mi sono scontrato con il problema dei problemi: per fare una squadra ci vogliono soldi. Noi non li avevamo”» (Paolo Crecchi). 

«Per il primo salto importante ci vuole la prima plusvalenza, che però è a base di hamburger. Sì, perché Raiola a 19 anni acquista un McDonald’s, che dopo due mesi rivende a prezzo maggiorato: con l’incasso mette su la prima azienda, che chiama “Maguire Tax & Legal” ispirandosi al film Jerry Maguire con Tom Cruise (ora gestisce anche la “Sportman” con sede a Montecarlo). La vera intuizione, però, è diventare il rappresentante unico dei giocatori olandesi in Europa grazie ad un accordo con il sindacato: è così che Raiola si presenta in Italia nel 1992, portando Bryan Roy al Foggia, poi Vink al Genoa e infine facendo da mediatore nella trattativa che trasferisce Bergkamp e Jonk all’Inter. 

Da lì sempre più contatti, più affari, e il boom con Nedved (dalla Lazio alla Juve), colpo che segna la svolta e un nuovo modo di fare il procuratore: più grano ai giocatori grazie ai diritti di immagine e più grane ai club» (Alessandro Dell’Orto). «Il talento di Raiola si mostra in tutta la sua perversa grandezza nel passaggio del centrocampista alla Juve, per 70 miliardi di lire (era arrivato dallo Sparta Praga per 9, per dire). […] D’accordo con Moggi e Cragnotti, che ha bisogno di un buon affare per dar fiato alle casse biancocelesti, porta, quasi di peso e a tradimento, Nedved a Torino. Il ceco non vuole lasciare la capitale, lui lo convince almeno a visionare le strutture bianconere. […] Appena scende dall’aereo privato, si trova davanti uno stuolo di cronisti e fotografi, convocati con uno scaltro passaparola da Moggi. Messo alle strette e ormai lontano, almeno metaforicamente, dalla Lazio, il centrocampista firma, per la felicità di tutti. Di lì a poco diventa uno degli imprescindibili di Lippi, nonostante l’iniziale ritrosia. […] Il resto delle prodezze e delle glorie del biondo sono storia recente, sotto gli occhi di tutti, Pallone d’Oro e Serie B compresi. Dietro, nell’ombra, pronto ad aiutarlo, parlare e intercedere per lui, c’è sempre l’uomo più furbo del mondo, Raiola. Lo difende nei primi tempi, quando stenta in campo, ancora afflitto “dal mal di Roma”, si ritira di buon grado quando esplode, tratta il suo passaggio (mancato) all’Inter, nell’anno del triplete» (Jacopo Rossi). 

«Particolare fu […] il suo primo incontro con Zlatan Ibrahimovic, ricordato così dallo svedese nella sua autobiografia Io, Ibra: “Misi la mia bella giacca di pelle di Gucci, il mio orologio d’oro, e parcheggiai la Porsche proprio davanti all’albergo: non avevo affatto intenzione di fare la figura del buzzurro. Entrai sicuro di me al ristorante dell’albergo, dove c’era un tavolo prenotato, immaginando un tizio in completo gessato con un orologio d’oro ancora più grosso del mio, invece… Ma che razza di individuo era quello che entrò dopo di me? In jeans e t-shirt Nike, e con quella pancia enorme… sembrava uno dei Soprano.

Chi diavolo è questo qui? Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E, quando ordinammo, cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque persone, e lui divorò tutto come un dannato! […] Sapete cosa fece quel bastardo sfacciato? Tirò fuori quattro fogli A4 su cui c’erano nomi e cifre, tipo ‘Christian Vieri: 24 gol in 27 partite’, ‘Filippo Inzaghi: 20 gol in 25 partite’, “David Trezeguet: 20 gol in 24 partite’, ‘Zlatan Ibrahimovic: 5 gol in 25 partite’. Poi Raiola chiese: ‘Credi che possa venderti con una statistica del genere? Tu ti credi tanto figo, eh?

Credi di potermi impressionare con il tuo orologio e la tua Porsche, ma non è così. Io trovo che siano tutte cazzate. Vuoi diventare il migliore del mondo, oppure quello che guadagna di più?’. Risposi: ‘Sì, il migliore del mondo’. ‘Allora bene, perché se diventi il migliore del mondo poi arriverà tutto il resto, ma se insegui solo il denaro allora non otterrai mai niente, capisci? Allora pensaci su e poi mi fai sapere, ma se vuoi lavorare con me devi fare come dico io. Dovrai vendere tutte le tue macchine, tutti i tuoi orologi e cominciare ad allenarti tre volte più duramente, perché adesso la tua statistica fa schifo’”» (Daniele Roselli). 

«Dopo i saluti i due si separano. Ibra rimane impressionato dalla grinta del suo interlocutore. Una volta seduto in macchina Ibra non ha più remore: “È la persona che fa per me”. Era il 2003. Da quel giorno inizia l’escalation tecnica ed economica di Zlatan» (Tiziano Crudeli). «Attorno a Ibra ruota molta della fortuna e della mitologia di Raiola. Ogni cambio di squadra è stato un colpo per il calciatore e per l’agente. E Zlatan ne ha cambiate sette» (Beppe Di Corrado).

«Un capolavoro, finché il ragazzo ha collaborato, è stata anche la gestione di Balotelli, che a Liverpool firmò un contratto da 6 milioni di euro a stagione. In Inghilterra Raiola voleva portare anche Hamšik, che però aveva altri progetti di vita. Rimase a Napoli, e i due ruppero: fu una delle poche volte in cui le cose non andarono come Mino esigeva» (Dario Falcini). Particolarmente fortunata l’estate del 2016, quando «"Re Mino" ha rotto anche l’ultimo argine, quel Manchester United nel quale non era mai riuscito ad entrare durante il regno di Alex Ferguson ("Non mi è mai piaciuto, di lui subito diffidai", raccontò).

A Manchester ha portato Pogba, Ibrahimovic a costo zero e Mkhitaryan, e in cambio è stato ricoperto d’oro. Dall’operazione Pogba, Mino ha incassato 25 milioni dalla Juve (da sottrarre ai 105 incassati dai bianconeri) e altri 10 dal Manchester United (in questa cifra ci sarebbe anche un bonus per Ibra a zero). Ancora 8 sono arrivati sempre dallo United per l’affare Mkhitaryan con il Borussia Dortmund. Altri 6-7 (e la stima è al ribasso) Mino li fattura grazie alle commissioni sugli ingaggi dei suoi assistiti, che per lui oscillano tra il 5% e il 7% sul lordo: Zlatan, Mkhitaryan, Paul hanno firmato contratti stellari. Senza dimenticare anche Van der Wiel, passato a parametro zero al Fenerbahçe» (Mario Pagliara). 

Durante l’estate del 2017 Raiola finì al centro delle polemiche insieme al suo assistito Donnarumma per le lunghe esitazioni che precedettero il rinnovo del contratto del giovane portiere con il Milan. «Rinnova? Non rinnova? Raiola lo tiene al sicuro, mentre le voci sul suo rinnovo si sprecano. Sul giovane Gigio ci sono Real Madrid e big di pari blasone: il Milan, all’improvviso, dopo baci e promesse, sembra lontanissimo. […] Quasi tutta l’Italia tifosa si scaglia contro il traditore guantato e, soprattutto, contro la sua eminenza grigia. Mino […] se ne frega egregiamente. […]

Dopo alcune settimane deliranti, costellate da tweet di odio e amore, Donnarumma firma il rinnovo tanto atteso: guadagnerà sei milioni annui. La vicenda riserva anche una parentesi commovente: […] suo fratello maggiore Antonio, qualitativamente ben più modesto, che difende i pali dell’Asteras Tripolis, passa ai rossoneri per un milione all’anno» (Rossi). Piuttosto deludente, invece, l’estate del 2018. «Non è il declino di un impero: 

Mino Raiola resta Mino Raiola, uno dei più potenti agenti del circo pallonaro, ma, nell’estate di Cristiano Ronaldo alla Juve, il procuratore nato in Italia e cresciuto in Olanda non è riuscito a piazzare alcun pezzo grosso della sua scuderia: Pogba, Donnarumma e Verratti sono rimasti dov’erano a giugno. Balotelli non si è schiodato da Nizza. Persino il giovane Kean è congelato alla Juve. Zlatan Ibrahimovic ai Los Angeles Galaxy, il viale del tramonto perfetto: nell’anno solare 2018 è stato l’unico affare raiolesco di discreto rilievo mediatico. 

Per il resto, trasferimenti di nicchia o di prospettiva, per esempio la bella promessa Justin Kluivert dall’Ajax alla Roma. Investimenti sul futuro, medio cabotaggio, mentre a Oporto la GestiFute di Jorge Mendes orchestrava il colpo del decennio, l’operazione CR7 a Torino. […] Oggi il principale problema di Raiola sembra essere la "Portuguese Connection". Il portoghese Mendes gli ha rubato la scena del mercato e lo ha sorpassato nelle relazioni con la Juve, un tempo riserva di caccia di Mino grazie al rapporto ruspante con Luciano Moggi. Il portoghese José Mourinho gli ha dichiarato guerra al Manchester United, con Paul Pogba come soggetto del contendere: lo Special One e il francese si sono beccati e di botto è franata l’apparente intesa tra Mou e Raiola. […] La Juve, per Raiola, può essere una buona sponda per uscire dall’angolo. Un anno fa Mino ha portato Matuidi a Torino, a gennaio potrebbe restituire Pogba alla Signora. Si formerebbe una coppia di francesi campioni del mondo e ritornerebbero in mente i tempi d’oro, quando Raiola, giovane e rampante, faceva affari con Moggi e gli lasciava in dote gente del livello di Nedved e Ibrahimovic. Mino in declino? Si prega di attendere» (Sebastiano Vernazza) 

«Già che c’è, diventa ricco anche lui, abbastanza da comprarsi la villa di Al Capone. Continuano a dargli del “pizzaiolo”, come se arrivare a fatturare 500 milioni in commissioni partendo da un ristorantino della provincia olandese fosse una colpa da espiare e non una medaglia al valore; lui non si scompone e li corregge: “Veramente, facevo il cameriere”. Il metodo Raiola si basa su due assunti elementari. Il primo: meno soldi si spendono per i cartellini, più ne restano per salarî e provvigioni. (Corollario: se non è possibile limitare l’entità del trasferimento, tanto vale garantirsi una fetta anche di quello: vedi l’affare Pogba). Il secondo: ogni volta che un calciatore fa le valigie, si può creare valore. L’accusano di spostare i suoi assistiti come pedine: eppure sono loro a firmare i contratti: quelli con le società, s’intende, perché i rapporti con Mino, invece, si reggono sulla fiducia reciproca. Ma chi lo sposa difficilmente l’abbandona.

Anche perché Raiola, con il suo stile rusticano, è il perfetto parafulmine. Ti riempie le tasche e ti salva la faccia» (Massimiliano Trovato). «Io penso che quando un giocatore decide di andare via da una squadra debba andare via. Non ho mai fatto compromessi, lavoro esclusivamente nell’interesse del mio assistito, i giocatori sono la mia fortuna e ho una grande responsabilità verso di loro. Comunque non ho mai compiuto azioni scorrette o azioni che io, personalmente, non reputo corrette. […] I vecchi procuratori facevano gli interessi delle società. Per me, prima viene il calciatore»

Risiede da molti anni nel Principato di Monaco, insieme alla moglie e ai due figli («belli, perché hanno preso dalla mamma»)

«Io ho praticato thai boxe, fantastica. Il calcio in certe partite è un gioco noioso, diluito in 90 minuti. Nella boxe invece ti giochi tutto in 3 minuti, non puoi mai distrarti: c’è un’adrenalina pazzesca, non senti il dolore. O, meglio, sì, ma dopo. Tyson diceva che i suoi avversari avevano sempre un piano, che però saltava appena lui li menava. Ecco: io sul ring non sono mai salito. Ero troppo buono: ero preoccupato di fare male…» (a Marco Lombardo)

«Parla otto lingue: italiano, francese, inglese, olandese, tedesco, spagnolo, portoghese “e naturalmente napoletano”. Raiola, […] come ha fatto? “Non è intelligenza, è preparazione: guardavo Disney in originale a tre anni. A quattro, in Olanda, cominciano a insegnarti la seconda lingua. Poi metti che chi parla olandese impara molto facilmente il tedesco, che spagnolo e italiano sono simili… Il portoghese l’ho studiato per trattare i calciatori brasiliani”» (Crecchi)

«Brutto, sporco e ciccione, Carmine “Mino” Raiola non è mai venuto meno al suo cliché di procuratore plebeo: quello che vestendo i panni del topo di campagna si è sempre fatto gioco dei topi di città, tutti tessera e distintivo, incontrati sul suo cammino» (Paolo Ziliani). «La verità è che Raiola, per il calcio è il personaggio del decennio. È stato lui a trasformare definitivamente il procuratore in protagonista. Ha preso il suo ruolo e l’ha fatto uscire dall’ombra delle stanze in cui si fanno gli affari, e l’ha messo di fronte alla telecamera.

Un Don King senza i capelli dritti e gli occhiali, ma con la stessa capacità di fare show a ogni dichiarazione. È il re del tavolo: si siede e alza il prezzo. Con la squadra di provenienza e con quella che è interessata al suo giocatore. Il mestiere è questo, in fondo: fare in modo che il suo assistito venga pagato di più, cosicché anche l’agente aumenti i suoi compensi. La semplicità dell’ovvio, che per paradosso complica l’estate e anche l’inverno di tifosi, allenatori, compagni, avversari. Perché i procuratori alimentano passioni e tensioni, fanno entusiasmare e deprimere. “Ogni soluzione è possibile”, dice Raiola dei suoi ragazzi» (Di Corrado).

«Non sono un tassista. Gestisco gente, di cui sono orgogliosissimo, che non è mai uscita dalla provincia. Il mio mestiere è aiutare le persone a trovare la loro dimensione, a credere nell’incredibile. Con i ragazzi non ci sono contratti. Basta una stretta di mano: o tutto o niente. Ci troviamo e ci capiamo, però se non ci capiamo più, poi, liberi tutti»

«Ai calciatori domando: “Vuoi diventare il più pagato o il migliore?”. Se rispondono “il più pagato”, gli indico la porta. Il pittore che dipinge un quadro per denaro e non per passione non lo vende. I soldi sono molto importanti, ma se li insegui non arriveranno mai e con il tempo finisci per capire che c’è sempre qualcuno più ricco di te»

«Mi piacerebbe comprare una società e fare di testa mia. Anzi, penso proprio che un giorno lo farò!». «Fui più vicino di Pallotta a comprare la Roma con alcuni soci. Avrei voluto rifondarla iniziando dall’allontanamento di Totti. Lui è un pezzo di storia, ma volevo partire con volti nuovi e senza pesanti eredità. All’epoca, UniCredit, piena di sportelli in città, non era proprio entusiasta»

«Ferguson dice di non aver mai odiato nessuno tranne me. È un grande complimento. Se non hai nemici, non hai lavorato bene. Le cose normali, le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno». 

Mino Raiola è morto: l’annuncio della famiglia su Twitter. Il procuratore aveva 54 anni. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è morto: a dare la notizia la famiglia. Era stato operato lo scorso gennaio. Era uno dei procuratori di calciatori più potenti, ricchi e controversi del mondo: tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Donnarumma, Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti.

Mino Raiola è morto. L’annuncio è stato dato dalla famiglia del procuratore — uno dei più potenti e famosi del calcio mondiale. Nato il 4 novembre 1967 a Nocera Inferiore, era malato da tempo e lo scorso gennaio era stato operato all’ospedale San Raffaele di Milano. In quei giorni il suo entourage parlò di controlli medici programmati e smentì la voce di un «intervento d’urgenza».

«Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre», si legge nel tweet della famiglia. «Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore». 

IL RITRATTO

«Mi danno del pizzaiolo, ma che offesa è?», chi era Raiola

Nella giornata di giovedì la notizia della sua morte aveva iniziato a circolare ed era stata ripresa da diversi media, tra cui il Corriere, cui era stata confermata da fonti vicine al procuratore. L'ospedale San Raffaele aveva però smentito la morte di Raiola, confermando che le sue condizioni fossero gravissime: «Sta combattendo», aveva detto Alberto Zangrillo , primario dell'Unità operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele.

Dal profilo Twitter di Raiola era stato inviato un messaggio che recitava: «Il mio stato di salute, per chi se lo stesse chiedendo: furioso perché per la seconda volta in 4 mesi mi hanno ucciso. Mi sembra di essere in grado di risuscitare». Oggi, proprio da quel profilo — oltre che dall'Ospedale San Raffaele — è arrivata la notizia della morte del procuratore. 

Originario della Campania, cresciuto ad Haarlem in Olanda, Raiola a 15 anni aveva scoperto fra i tavoli della pizzeria di famiglia di avere un particolare talento: sapeva come trattare i clienti, sapeva dare consigli. 

Poi, a 18, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così era partita la sua scalata. Una lunga carriera che l’aveva portato a diventare un fuoriclasse del mestiere di procuratore, che reinterpreta. Cambia le regole d’ingaggio: non più semplice rappresentante, ma intermediario. Il suo stratagemma è tanto semplice quanto geniale: i soldi del cartellino che fa risparmiare al club li fa prendere ai calciatori.

Affarista nato, non sbaglia un colpo: come quando nel 2016 compra a Miami la villa che fu di Al Capone, spendendo 8 milioni: oggi ne vale il doppio. Nella classifica di Forbes era il quarto agente più pagato al mondo, con 84,7 milioni di dollari, circa 70 milioni in euro, guadagnati in commissioni. «Ma non guardo il mio conto corrente. Odio le banche. Ho un fiscalista di fiducia che si occupa di tutto. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare», aveva detto.

«Mino è la mia famiglia», aveva detto di lui, nella sua autobiografia, Zlatan Ibrahimovic, uno dei suoi assistiti, che giovedì era andato a trovarlo in ospedale. 

«Mino è il migliore», dicevano di lui Donnarumma, Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti. 

Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce», diceva.

Numerose le reazioni del mondo del calcio: il presidente della Juventus Andrea Agnelli ha scelto un tweet affettuoso scritto in inglese per ricordare Raiola: «Non prendere in giro in Paradiso, sanno la verità. Ti voglio bene Mino». Gli fa seguito l’ad dell’Inter, ed ex bianconero, Beppe Marotta. «Sono affranto e dispiaciuto per la scomparsa di Mino — le parole di Raiola —. È stato un amico e un interlocutore nell’attività lavorativa, una persona di qualità ed elevata competenza. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto, ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità». Marotta ricorda quando Raiola fu artefice della «doppia operazione su Pogba, con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juventus al Manchester United». «Un grande capolavoro» dice il dirigente del club nerazzurro. Adriano Galliani, storico ad del Milan, oggi al Monza, lo ha invece ricordato così sempre sui social: «Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace».

«Mi danno del pizzaiolo, ma che offesa è?»: chi era Mino Raiola «il procuratore più straordinario». Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Mino Raiola ripeteva: «Chissà perché mi danno del pizzaiolo. Io facevo il cameriere. Ma poi, che offesa è?». La famiglia: «Il procuratore più straordinario di sempre». 

È morto all'Ospedale San Raffaele di Milano il procuratore dei campioni Mino Raiola: aveva 54 anni. L'annuncio della famiglia in un tweet: «Il procuratore più straordinario di sempre»

Suite privata all’ultimo piano del Monte-Carlo Bay Hotel, duemila euro a notte, luglio 2017. Il caldo è tremendo, ma il clima della Costa d’Azzurra c’entra fino a un certo punto. È l’estate bollente di Gigio Donnarumma, 17 anni, corteggiato da mezza Europa: il braccio di ferro fra Mino Raiola e il Milan dei cinesi va avanti da mesi, senza sosta, a colpi di taglienti dichiarazioni a mezzo stampa fra il d.s rossonero Mirabelli e l’agente del portiere, che a sorpresa convoca una conferenza per la domenica più calda dell’anno.

Da Milano partono i giornalisti, tutti in giacca e camicia, che a Montecarlo è meglio, si sa mai. Arriva lui. In costume, una specie di bermuda da bagno, come quello che indossava al primo famoso incontro con Ibrahimovic, nel 1999. Scende dalla Mercedes, guarda tutti, sghignazza: «Come cazzo vi siete vestiti?». Si sale alla suite. Un inserviente entra con le bevande fresche. Mino lo ferma sull’uscio: «Tranquillo, ci penso io». Lo fa davvero. Prende i bicchieri e serve uno a uno. «Chissà perché mi danno del pizzaiolo. Io facevo il cameriere. Che poi, mi sono sempre chiesto, che offesa è dare a uno del pizzaiolo?».

Già, che offesa è? Mino era questo: spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Amato dai suoi assistiti, come Ibra, che nell’autobiografia racconta: «Mino è la mia famiglia». O Donnarumma, che nel 2021, quando poi lascia davvero il Milan, s’affida completamente al suo manager, con la fiducia che si dà solo a un padre, un fratello, forse: «Per me decide lui». E poi Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti, tutti convinti: «Mino è il migliore». Dal punto di vista del calciatore, verissimo: i soldi che ti faceva prendere lui, con gli altri te li scordavi. Un po’ meno bene gli volevano le società, che spesso si sono viste portare via i giocatori a zero euro. Mai visto però un dirigente che gli abbia chiuso la porta. Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce».

Mino Raiola, è morto il noto procuratore di calciatori. Emanuele Gamba su La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Il famoso agente di giocatori aveva 54 anni ed era malato da tempo. Le condoglianze e i ricordi dei protagonisti del mondo del pallone.

Mino Raiola è morto a 54 anni. A dare la notizia è stata la famiglia del più famoso procuratore del mondo del calcio, con un comunicato pubblicato sul profilo Twitter dell'agente: "Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto". Per poi aggiungere: "Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione". 

"Ringrazieremo di cuore - si legge ancora - coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore". Raiola era stato operato a gennaio, le sue condizioni erano già gravi. Era malato da tempo.

Raiola era nato a Nocera Inferiore, cresciuto in Olanda, aveva iniziato a lavorare da ragazzino nella pizzeria dei genitori. Era tra gli agenti più ricchi. Curava gli interessi di giocatori del calibro di Ibrahimovic, Pogba, Verratti e Donnarumma: le trattative con le società erano estenuanti. Non si alzava e non si concludevano fino a quando non era riuscito a strappare il miglior contratto a vari zeri per i suoi assistiti. Giovedì si era sparsa la notizia della sua morte, ma era stata smentita da ospedale e famiglia.

Agnelli: "Non prendere in giro in Paradiso, ti voglio bene"

"Non prendere in giro in Paradiso, loro conoscono la verità...tvb Mino". Con questo affettuoso messaggio, scritto in inglese ("Don't take the piss in paradise, they know the truth..."), il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, ha salutato su Twitter l'amico Mino Raiola.

Marotta: "Perdiamo un amico e un grande professionista"

Anche l'ad dell'Inter, Beppe Marotta, ha voluto ricordare Raiola: "Sono affranto per la scomparsa di Mino, un amico e una persona di elevata competenza. Il mondo del calcio perde un grande professionista. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità. I ricordi - ha raccontato Marotta - sono tanti, uno su tutti la doppia operazione su Pogba con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juve allo United. Un grande capolavoro in cui Raiola ha avuto un ruolo importante. Il mondo del calcio perde un grande professionista, spesso critico con il sistema ma la sua critica era molto costruttiva per un calcio sempre migliore".

Il Milan: "Ci stringiamo intorno alla famiglia Raiola"

Lo stemma del Milan e il simbolo del lutto per ricordare Mino Raiola. Così la società rossonera ricorda il re dei procuratori, stringendosi intorno alla sua famiglia. "AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa".

De Laurentiis: "La scomparsa di Raiola ci addolora"

"La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia". È il cordoglio del presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, su Twitter per la scomparsa dell'agente italo-olandese.

Galliani: "Innovatore e amico leale"

"Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace". Questo il messaggio comparso sul profilo Twitter del Monza.

Capello: "Per me Raiola significa Ibrahimovic"

"Per me Mino Raiola è legato a Ibrahimovic, la prima volta che l'ho conosciuto era il suo procuratore". È questo il primo ricordo di Fabio Capello del procuratore scomparso il 30 aprile dopo una lunga malattia. "Era una persona a posto. Ha costruito una fortuna e nel senso buono, con grande capacità: ha dimostrato di saper fare quello che deve saper fare un procuratore".

Moggi: "Lo consideravo quando tutti lo chiamavano pizzaiolo"

"Mino Raiola era un amico, è nato con me quando ero direttore generale della Juventus - ha detto Luciano Moggi a Tuttomercatoweb -. "Quando tutti lo chiamavano pizzaiolo, io gli davo massima considerazione perché avevo capito chi era. Mi dispiace che tanti abbiano giocato sulla sua morte quando non era vera".

L'Udinese: "Riferimento del calcio mondiale"

"Gino Pozzo e tutta l'Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale. Alla famiglia Raiola vanno le più sentite condoglianze".

Quando Ibra scelse Raiola: tra insulti, sushi per sette e una camicia hawaiana. La Repubblica il 30 aprile 2022. Il primo incontro tra il campione svedese e il procuratore di origine italiana non fu dei più canonici: nel 2003 al ristorante tra offese e confronti con i migliori attaccanti del momento scattò subito la scintilla di un legame rimasto sempre saldo. Zlatan: "Me lo avevano detto, tra tutti sceglierai lui, perché è identico a te".

È morto a 54 anni Mino Raiola, il re dei procuratori. Ma fino al 30 aprile 2022, giorno della sua scomparsa, ha sempre curato gli interessi di grandi campioni. Uno su tutti, Zlatan Ibrahimovic. In un ambiente come il calcio, in cui i cambiamenti sono all'ordine del giorno, il rapporto tra Ibrahimovic e Raiola è stato tra quelli più duraturi tra agente e calciatore. Molto probabilmente perché andato ben al di là dell'ambito professionale, tra due personaggi troppo simili come carattere e modo di essere per non amarsi completamente, di certo tra i più carismatici e caratteristici del mondo del pallone internazionale.

Lo dimostra proprio il modo in cui è nato quel legame, quasi per caso, di sicuro non banale: nel 2003, quando un giovane fuoriclasse, alla seconda stagione all'Ajax, cosciente della propria forza e delle proprie capacità atletiche, ma la cui personalità spigolosa aveva già fatto parlare di sé dentro e fuori il campo, scelse un ambizioso procuratore, che stava facendosi largo in Olanda e prendendo il proprio spazio all'interno di un universo di agenti senza quasi regole scritte.

Quel primo incontro fra offese e sushi per sette

Il giovane Zlatan aveva solo 22 anni, ma sapeva mettere in riga già chiunque, tanto da ritrovarsi senza un procuratore valido proprio nel momento in cui la sua carriera era in rampa di lancio. In Olanda aveva già vinto il campionato, ma non era ancora esploso: "le cose non andavano come volevo, cercavo qualcuno che mi valorizzasse e credesse in me", confesserà poi, anche fosse un pacioccone emigrato italiano, vestito male e con poca cura dell'apparenza.

Non a caso, il primo incontro tra i due avvenne al ristorante, in modo quasi informale. Iniziò con un paio di insulti e cattivi pensieri, finì con un sodalizio che non si è più interrotto, a distanza di quasi venti anni. A rivelarlo gli stessi interessati in vari aneddoti, retroscena e racconti. "Zlatan decise di firmare con me perché fui il primo - e forse l'unico - a dirgli che era uno stronzo. Tutti gli altri gli dicevano solo delle belle cose, io invece gli avevo detto la verità, per renderlo migliore. L'ho guardato e gli ho detto: pensa a lavorare di più", la versione di Raiola.

Dal canto suo, Ibrahimovic non fu da meno. A vedersi di fronte quella persona di origini italiane, vestita con "dei pantaloncini colorati, una maglietta della Nike e una camicia hawaiana sbottonata", era convinto di aver preso una classica topica. "Uno si aspetta che un procuratore si vesta bene, lui non era così. Andiamo in un ristorante a mangiare sushi e ordina per sette. 'Ma siamo solo 3, chi mangerà tutta questa roba?', gli chiesi. 'Non ti preoccupare', la sua risposta".

Da lì a qualche istante, scattò la classica scintilla. Galeotti furono gli attaccanti che a quel tempo andavano per la maggiore in Italia e in Europa, come spiega ancora Zlatan: "Mi presentò un foglio con le statistiche dei gol di Shevchenko, Inzaghi, Vieri e di molti altri centravanti. Poi, guardò la mia cartella e mi disse che, dal momento che avevo segnato solo 4 gol in 21 partite, vendermi sarebbe stato impossibile. Mi fece pesanti critiche. Ricordo che lo guardai sorridendo e gli dissi che, se avessi avuto i numeri di Shevchenko, anche mia madre mi avrebbe potuto vendere ed era per quello che mi serviva lui. Scoppiò a ridere". 

Raiola quasi un secondo padre per Ibra

Una delle classiche bugie 'alla Raiola', capace comunque di far scattare fra i due la classica scintilla. Da lì in poi l'attaccante svedese varrà qualcosa oltre i 200 milioni di euro, in trattative continue con i migliori club del mondo (Juve, Inter e Milan in serie A e poi Barcellona, Manchester United, Psg, LA Galaxy), e capace di fare notizia anche oltre la soglia dei 40 anni. Sempre consigliato per il meglio (di tutti e due ovviamente) dal fido Mino, come con l'ultima 'drittà di riportarlo - dopo la parentesi a stelle e strisce - in Italia, al Milan, al momento giusto con le opzioni giuste. "Me l'avevano detto: ti piacerà il procuratore italiano. Perché? Perché è uguale a te", ha ricordato Zlatan tornando a quel suo primo incontro con Raiola, definito in più occasioni quasi come un secondo padre.

Raiola, la prima missione impossibile: Nedved dalla Lazio alla Juventus e quella commissione da sei miliardi di lire. Giulio Cardone La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Morte Mino Raiola: i suoi giocatori e i colpi di mercato. Il procuratore ha scoperto molti campioni e curato i loro interessi. Da Nedved a Ibrahimovic, fino a Donnarumma.

Se n'è andato a 54 anni il 30 aprile 2022, Mino Raiola. Il re dei procuratori, una vita vissuta tra trattative e trasferimenti. Quando la sua famiglia si trasferisce dalla Campania all'Olanda, comincia a lavorare come cameriere, studia giurisprudenza e impara cinque lingue oltre all'italiano. Da giovane, fonda una società di intermediazione commerciale. Ma ben presto si dedica al mondo del calcio, diventando il direttore sportivo dell'Haarlem, sempre nei Paesi Bassi. Si assicura poi la rappresentanza dei calciatori olandesi all'estero. Si accorda col sindacato dei giocatori e, in questo ruolo, nel 1993, cura il trasferimento di Dennis Bergkamp dall'Ajax all'Inter. Inizia poi la carriera di agente Fifa, fonda la sua società con sede a Montecarlo, la Sportman, e inizia a trattare diversi giocatori nel campionato italiano.

Pavel Nedved

Pavel Nedved è stato scoperto proprio dall'agente italo-olandese, che ha curato il passaggio del ceco dallo Sparta Praga alla Lazio di Cragnotti nel 1996 per 3 milioni di euro. E successivamente è stato il mediatore per il trasferimento alla Juventus nel 2001, costato la bellezza di 35 milioni di euro.

Zlatan Ibrahimovic

La prima squadra a cui Raiola bussa alla porta per Zlatan Ibrahimovic è la Juventus, che non si fa scappare l'occasione e nell'estate del 2004 paga 14 milioni di euro per assicurarsi il bomber svedese dell'Ajax. Dopo la sentenza di Calciopoli che condanna i bianconeri alla retrocessione in Serie B, Raiola tratta il passaggio di Ibra all'Inter. Il costo dell'operazione è di 21 milioni di euro.

Nel 2009, l'agente è l'artefice dell'operazione di calciomercato più clamorosa di quella estate. Ovvero il trasferimento di Zlatan Ibrahimovic dall'Inter al Barcellona per 46 milioni di euro più Samuel Eto'o. Dopo un anno in Spagna, lo svedese torna in Italia, ma al Milan che lo paga 20 milioni. Nell'estate 2012, lo svedese va al Psg, pagato 18 milioni di euro. A Parigi ci resta quattro anni per poi passare a parametro zero nel 2016 al Manchester United, dietro un compenso di quasi 12 milioni di euro. Quindi la breve parentesi ai LA Galaxy fino al ritorno al Milan nel 2020.

Mario Balotelli

È proprio Ibrahimovic, durante la sua permanenza all'Inter, a consigliare Mario Balotelli a Mino Raiola. Il primo botto arriva nel 2010, quando l'attaccante bresciano lascia l'Inter post-triplete per andare in Premier League con il Manchester City. 25 milioni di euro il prezzo del cartellino, con un ingaggio da top player. Nel 2013 passa al Milan, che spende 17 milioni per riportarlo in Italia. Ma dopo appena 18 mesi torna in Inghilterra, stavolta al Liverpool che sborsa 17 milioni per il suo cartellino. Dopo il ritorno in rossonero nel 2015, la carriera di Mario declina con passaggi al Nizza, Marsiglia, Brescia, Monza, fino ai turchi dell'Adana Demirspor.

Paul Pogba

Paul Pogba è il capolavoro di calciomercato di Mino Raiola. Lo porta alla Juventus a parametro zero nell'estate 2012, a soli 19 anni, dopo aver convinto il francese a non rinnovare con il Manchester United. L'agente poi riesce a rivendere Pogba proprio ai Red Devils (che lo avevano formato nel loro vivaio) nel 2016 alla cifra record di 110 milioni di euro, di cui 27 spettano al procuratore. Con un ingaggio più che triplicato per il centrocampista.

Gianluigi Donnarumma

Per Gianluigi Donnarumma, nel 2017 Raiola riesce a strappare al Milan un contratto di cinque anni a sei milioni di euro a stagione. L'agente inoltre fa approdare in rossonero anche il fratello Antonio, pagato un milione di euro, come terzo portiere. Nell'estate del 2021 Gigio decide di non rinnovare col club meneghino e si trasferisce a parametro zero al Psg. L'ingaggio iniziale ammonta a 7 milioni più bonus.

Il calciomercato di Mino Raiola: le citazioni del procuratore morto. Se n'è andato il re delle trattative. Sempre diretto, ecco le frasi che hanno contribuito a renderlo celebre nel mondo del calcio. La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Mino Raiola, vero nome Carmine Raiola, è nato a Nocera Inferiore il 6 novembre 1967. Morto il 30 aprile 2022, è stato uno dei procuratori sportivi più influenti nel mondo del calcio. Tanti i giocatori famosi che sono finiti sotto la sua ala protettrice. Ricordiamo, tra gli ultimi, Zlatan Ibrahimovic, Gianluigi Donnarumma, Paul Pogba ed Erling Haaland. C'è chi lo considerava un vero e proprio mago delle trattative, e chi lo additava come un 'mercenario' troppo concentrato sui soldi e sul guadagno. Restano celebri alcune sue frasi pronunciate durante la sua carriera. Vediamone alcune. Cominciamo dalla sua filosofia di vita e lavoro, partendo proprio dal messaggio scritto su Twitter quando quasi tutti i media lo avevano dato già per deceduto:

"Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato! E? la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembrano anche in grado di rianimare".

Le migliori frasi di Raiola

"Più mi metti i bastoni tra le ruote e più mi diverto".

"In Italia dove c'è la voglia di qualcuno, c'è sempre l'ostruzione di qualcun altro".

"In Italia dovrei fare il procuratore dei politici, con quelli che passano da destra a sinistra ci farei i miliardi".

"In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire".

"Non mi è mai interessato quello che pensano di me, al di fuori della mia famiglia e dei miei amici, che sono pochi".

"Io sono un super capitalista. Il super capitalista vuole tutti più ricchi. E io sono così. Io voglio che diventano tutti ricchi nel calcio, così posso offrire grandi contratti a grandi giocatori, il sistema diventa più ricco, diritti tv più ricchi, tutti più ricchi".

"Io mi arrabbio molto coi miei figli quando mi dicono 'questo non si può fare'. Che cosa? Tutto si può fare. Se hanno inventato i telefoni che si toccano, se possiamo mandarci le fotografie, se possiamo guardare fra uno e l'altro... tutto si può fare".

"Il mio conto corrente? Mai guardato in vita mia. Odio le banche. La mia azienda non è mai stata finanziata dalle banche, è sempre stata finanziata dal mio lavoro, dai miei investimenti; ho un fiscalista di mia fiducia che si deve occupare di tutte le cose di banca e il direttore di banca che sa che io lì non ci voglio nemmeno entrare"

Raiola, frasi celebri sui calciatori

"Pensate ai quadri di maggior valore al mondo, come la Gioconda o l'Urlo. La gente sta lì, a guardarli a distanza e sembra stupida. Il Psg e il Manchester City possono permettersi di sognare questi quadri. Con l'acquisto di Zlatan Ibrahimovic, il Paris Saint-Germain può coronare un sogno".

"Il rapporto con i miei giocatori? Dipende... Pavel Nedved ti chiamava una volta ogni tre mesi, Zlatan può chiamarmi anche cinque volte al giorno, Mario Balotelli mi può chiamare tre volte in 10 minuti, poi se le cose vanno come dice lui non ti chiama per tre settimane e poi quando lo chiami tu, ti fa: 'Che e? successo?'. È cresciuto molto ultimamente".

"Cosa può essere Pogba? Senza dubbio un Salvador Dalì per quanto sia prezioso e importante".

"Zlatan Ibrahimovic somiglia a Brad Pitt quando interpreta Benjamin Button, l'uomo che ringiovanisce giorno dopo giorno. Ha un'energia incredibile, migliora col tempo. E quando può va a fare pure caccia estrema. È disumano, nel senso che fa cose che gli umani neanche s'immaginano".

Raiola, la prima missione impossibile: Nedved dalla Lazio alla Juventus e quella commissione da sei miliardi di lire

di Giulio Cardone30 Aprile 2022

"Gianluigi Donnarumma lo paragono a un Modigliani. Vale 170 milioni. Ha un grande avvenire, è un ragazzo straordinario e si fa ben volere da tutti. È già un piccolo campione, ma potrà diventare un grande campione".

"Il prezzo di Pogba lo ha fatto Florentino Pérez, acquistando Gareth Bale per cento milioni. A questo punto, Pogba vale almeno il doppio. Non sono io, sia chiaro, che faccio la valutazione: è stato il Real Madrid e la legge del mercato a dire che Pogba oggi vale duecento milioni".

"È facile fare il contratto a Donnarumma, è più difficile consigliarlo bene per il futuro... Se oggi faccio il contratto a Donnarumma per una società in declino totale, che faccio, mi sparo? Io a Gigi devo dargli l'assoluta certezza che lui sta in un club di un certo spessore o che se non è di un certo spessore, sappiamo che non è di un certo spessore e scegliamo di esserci o no".

"Un giorno mi chiama Zlatan e mi dice: qui all'Inter c'è un fenomeno, è un ragazzo di colore, con la palla fa quello che vuole, devi venire a vederlo. Andai e conobbi Balotelli. Gli parlai. Dopo due anni mi telefonò e mi disse che mi voleva come procuratore. Mi chiedete se oggi è contento? Così e così. Ma su di lui c'è un piano: gli ho promesso che diventerà tre volte Pallone d'oro e lui si fida di me".

Le parole di Raiola su club, dirigenti e allenatori

"Non sono juventino però devo dire che la Juve è una società gioiello. È molto più organizzata la Juve del Real o del Barcellona. Il management della Juventus è di più alto livello di tante società che io vedo fuori Italia. Io dico: non si vince per caso".

"Come vedo questi cinesi del Milan? Non mi fido. Uno che va dal notaio e dà la caparra per la casa e fa il rogito, e alla fine il rogito è finito e non si va a prendere la casa, è una cosa molto strana, perché uno quando fa il rogito vuol prendere possesso della casa. Mi sa molto di speculazione. Con Thohir lo avevo detto: 'Non è niente, è lì per rivendere l'Inter o portarla in borsa'".

"Normalmente il mio lavoro è di andare a trovare le società e di conseguenza i giocatori, dove non ho i giocatori vado a trovare solo le società per vedere come sono messi, le idee, i loro progetti. Molti procuratori non sanno in che ambiente vanno a finire. Devi avere sempre una visione completa, se no non fai la differenza".

"Cruijff? Può andare al diavolo. Sta diventando vecchio e non ha avuto la forza di continuare la sua carriera da allenatore. Credo che lui e Guardiola possano andare in un ospedale psichiatrico, seduti a giocare a carte, farebbero un favore al Barcellona. Cruijff ha detto che Ibra è più adatto al calcio italiano, perché non ha detto che non era adatto a quello spagnolo prima di comprarlo".

"Galliani fa gli interessi della Fininvest, quindi io non posso chiedere a lui certe cose. E comunque con lui c'è un rispetto reciproco. La gente non sa che su ogni trattativa litighiamo di brutto. Tant'è che alla prima o seconda presentazione di Balotelli al Milan, io non c'ero. Perché lui è fatto come me: il suo vero amore è il Milan. Per me il vero amore sono i miei figli, però i miei giocatori li tratto come tali. Perciò ci andiamo giù duro uno contro uno, ma sappiamo che non è una cosa personale: è una cosa di due pugili che vanno sul ring e dopo si rispettano".

Dopo lo scudetto biancoceleste del 2000 il futuro Pallone d'Oro passò in bianconero per 75 miliardi grazie a una mossa segreta di Moggi e al grande lavoro del re dei procuratori. Che in quell'occasione piazzò il primo grande colpo della sua prestigiosa carriera.

La grande dote di Mino Raiola era l'empatia che riusciva a creare con i suoi assistiti, la sua capacità di convincerli della scelta migliore per la propria carriera. Loro si fidavano ciecamente di lui. Un esempio, uno dei più eclatanti, risale all'estate di ventuno anni fa e riguarda uno dei giocatori cui era più legato, Pavel Nedved.

È morto Mino Raiola. L'annuncio della famiglia: "Infinito dolore". Marco Gentile il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.

Mino Raiola lascia una moglie e due figli. Il mondo del calcio perde un personaggio influente e irriverente.  

Mino Raiola, questa volta, non ce l'ha fatta sul serio ed è morto oggi all'età di 54 anni. Ad annunciarlo su Twitter è stata la famiglia: "Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre", si legge nel post.

"Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori", scrivono nel lungo ricordo in inglese e in italiano, "E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. È stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringrazieremo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore".

Il noto e potente procuratore sportivo nei mesi passati era stato dato per morto per ben due volte suscitando una corretta indignazione da parte della sua famiglia e del suo entourage. Il 12 gennaio del 2022 l'agente di Zlatan Ibrahimovic, Mario Balotelli e Paul Pogba, solo per citarne alcuni, era stato ricoverato inaspettatamente presso la clinica San Raffaele di Milano per sottoporsi ad un intervento chirurgico destando un forte sospetto anche se il suo entourage aveva parlato di "una cosa programmata". L'operazione fu effettuata per risolvere una patologia polmonare non legata all'infezione da Covid-19. Nei giorni successivi al ricovero si rincorsero voci sulla sua possibile morte da lì a poche ore, cosa che naturalmente non avvenne.

Quando fu dato per morto

Due giorni fa, lo scorso 28 aprile, invece, la notizia della sua morte, data per certa, aveva nuovamente creato sgomento all'interno del mondo del calcio e non solo. A distanza di poche ore, però, arrivò prontamente la smentita da parte del suo braccio destro, José Fortes Rodriguez: "Sta combattendo tra la vita e la morte", le sue parole. Il 28 aprile del 2022, dunque, sarà ricordato come il giorno della morte e della risurrezione di Raiola che purtroppo ci ha lasciati il 30 aprile del 2022.

La notizia della sua scomparsa aveva fatto velocemente il giro del web: una fake news prontamente smentita dal suo entourage, e dal professor Alberto Zangrillo in persona, direttore del dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva dell’ospedale San Raffaele dove Raiola si trovava in cura. "Sono indignato dalle telefonate di pseudo giornalisti che speculano sulla vita di un uomo che sta combattendo", le parole di un indignato Alberto Zangrillo.

Non solo, perché alle parole di Zangrillo fecero seguito quelle dello stesso Raiola, o chi per lui, direttamente dal suo proflilo Twitter:

"Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato. E' la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembro anche in grado di resuscitare".

Chi era Mino Raiola

Mino Carmine Raiola nasce il 4 novembre del 1967 a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, anche se la sua famiglia era originaria di Angri. I genitori decino presto di emigrare in Olanda e più precisamente ad Haarlem dove il padre, all'epoca dei fatti meccanico di professione, apre un'attività di ristorazione, dove il giovane Mino è impiegato come cameriere. Raiola nel frattempo studia e frequenta per due anni la facoltà di Giurisprudenza senza però completare il suo percorso di studi. Parla fluentemente sette lingue: italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese a testimonianza di una grande dialettica e di una grande elasticità mentale.

Mino inizia anche a giocare a calcio fin da piccolo ma raggiunta la maggiore età decide di appendere gli scarpini al chiodo e si mette dietro la scrivania iniziando così una nuova carriera. Nel 1987, a soli 20 anni, diventa responsabile del settore giovanile dell'Haarlem e intraprende la carriera imprenditoriale entrando anche nel consiglio degli imprenditori della città olandese in cui si è trasferito. Sempre all'età di 20 anni fonda la società di intermediazione finanziaria chiamata "Intermezzo".

La sua carriera sportiva però continua in maniera inesorabile e diventa così direttore sportivo dell'Haarlem e grazie ad un accordo con il sindacato dei calciatori diventa anche rappresentante all'estero dei giocatori olandesi. Nel 1993 fa da mediatore nella trattativa che porterà in Italia, tra le fila dell'Inter, Dennis Bergkamp e Wim Jonk direttamente dall'Ajax. La vera vocazione di Mino però è la procura sportiva e diventando agente FIFA abbandona tutte le altre attività. Fonda la società Sportman con sede a Montecarlo, ma con uffici di rappresentanza anche in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca. Pian piano Raiola inizia ad acquisire credibilità e potere e grazie a questo status inizia ad acquisire maggiore notorietà e dunque anche calciatori famosi.

Raiola è stato spesso criticato, in Italia ma non solo, per il suo atteggiamento molto aggressivo in sede di discussione dei contratti dei suoi assistiti. Celebre fu la cessione di Zlatan Ibrahimovic dall'Inter al Barcellona, per 50 milioni di euro più il cartellino di Samuel Eto'o in favore dei nerazzurri con lui che percepì 1,2 milioni di euro annui, pagati dal Barcellona per cinque anni dal 2009 al 2014.

Il procuratore ha avuto nella sua grandissima scuderia tantissimi calciatori di diverso livello. I più celebri sono stati: Pavel Nedved, Zlatan Ibrahimovic, Earling Braut Haaland, Paul Pogba, Mario Balotelli, Robinho, Marco Verratti, Gigio Donnarumma, Henrik Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Matthijs de Ligt solo per citarne alcuni. Nel 2020 Forbes lo ha inserito al quarto posto al mondo tra i procuratori con un fatturato da capogiro da 84,7 milioni di dollari avendo chiuso affari per 847,7 milioni di dollari.

La battaglia con i club

Raiola è sempre stato un personaggio che ha spesso seminato il panico e messo paura ai grandi club italiani ed europei e ne sanno qualcosa Inter, Juventus ma soprattutto il Milan. Il caso più emblematico e recente è stato quello di Gianluigi Donnarumma arrivato a scadenza di contratto con il club rossonero per poi passare a parametro zero al Psg scatenando l'ira dei tifosi del Diavolo ma l'indiffirenza della dirigenza di via Aldo Rossi. Con l'Inter ebbe quache problema di troppo con Mario Balotelli e Zlatan Ibrahimovic ma dopo un piccolo embargo durato per qualche stagione tra le fila dei nerazzurri ha assistito Denzel Dumfries, Stefan de Vrij e Andrea Pinamonti.

Gli insulti ricevuti

In tanti, tra i tifosi, l'hanno sempre descritto con termini forti da "mafioso" a "pizzaiolo" anche se lui stesso ha sempre tenuto a precisare di non aver mai fatto il pizzaiolo. Il suo assistito e grande amico Zlatan Ibrahimovic nella sua autobiografia l'ha definito in maniera scherzoso: "meraviglioso ciccione idiota". Lo svedese è stato di certo l'assistito più longevo e forse più importante avuto nella sua scuderia. I due si conobbero nel 2003, quando Zlatan aveva 22 anni, e in questi quasi 20 anni i due ne hanno completati di trasferimenti milionari.

E pensare che all'inizio Zlatan Ibrahimovic non si fidava di quello che poi sarebbe stato il suo futuro agente dato che non gli piaceva. Raiola, che all'epoca curava gli interessi del brasiliano Maxwell, ex Psg, Inter e Barcellona, si presentò con jeans, maglietta bianca a maniche corte e una forma fisica non impeccabile. Ibrahimovic ne rimase impressionato, in negativo ovviamente ma all'abile procuratore bastarono poche parole per conquistare il cuore e la procura dello svedese.

Le grandi massime

Raiola ha sempre avuto una grande dialettica e nel corso degli anni ha sempre regalato alcune massime, sempre pungenti: "In Italia, dove c’è la voglia di qualcuno c’è sempre l’ostruzione di qualcun altro", "In Italia dovrei fare il procuratore dei politici, con quelli che passano da destra a sinistra ci farei i miliardi", "Più mi metti i bastoni tra le ruote e più mi diverto", "In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire", "Io sono un supercapitalista. Il supercapitalista vuole tutti più ricchi. E io sono così. Io voglio che diventano tutti ricchi nel calcio, così posso offrire grandi contratti a grandi giocatori, il sistema diventa più ricco, diritti tv più ricchi, tutti più ricchi" solo per citarne alcune.

E ancora: "Alla fine io sto parlando del mio sport, del mio lavoro, della mia industria, se tu migliori il Paese, migliori tutto. Perché il calcio è uno specchio del Paese, lo è sempre stato". Parlando invece di Zlatan Ibrahimovic: "Zlatan somiglia a Brad Pitt quando interpreta Benjamin Button, l’uomo che ringiovanisce giorno dopo giorno. Ha un’energia incredibile, migliora col tempo. E quando può va a fare pure caccia estrema. È disumano, nel senso che fa cose che gli umani neanche s’immaginano".

Parlando di Gigio Donnarumma, invece, prima del suo addio al Milan disse: "Gianluigi Donnarumma lo paragono a un Modigliani. Vale 170 milioni. Ha un grande avvenire, è un ragazzo straordinario e si fa ben volere da tutti. È già un piccolo campione, ma potrà diventare un grande campione. È facile fare il contratto a Donnarumma, è più difficile consigliarlo bene per il futuro… Se oggi faccio il contratto a Donnarumma per una società in declino totale, che faccio, mi sparo? Io a Gigi devo dargli l’assoluta certezza che lui sta in un club di un certo spessore o che se non è di un certo spessore, sappiamo che non è di un certo spessore e scegliamo di esserci o no di un altro suo assistito, invece, Paul Pogba disse. "Il prezzo di Pogba lo ha fatto Florentino Pérez, acquistando Gareth Bale per cento milioni. A questo punto, Pogba vale almeno il doppio. Non sono io, sia chiaro, che faccio la valutazione: è stato il Real Madrid e la legge del mercato a dire che Pogba oggi vale duecento milioni".

Su Inter e Milan quando ancora appartenevano rispettivamente a Eric Thohir e Yonghong Li disse: "Come vedo questi cinesi del Milan? Non mi fido. Uno che va dal notaio e dà la caparra per la casa e fa il rogito, e alla fine il rogito è finito e non si va a prendere la casa, è una cosa molto strana, perché uno quando fa il rogito vuol prendere possesso della casa. Mi sa molto di speculazione. Con Thohir lo avevo detto: “Non è niente, è lì per rivendere l’Inter o portarla in borsa". Su Balotelli, invece, raccontò come fu Ibrahimovic a segnalarglielo: "Un giorno mi chiama Zlatan e mi dice: qui all’Inter c’è un fenomeno, è un ragazzo di colore, con la palla fa quello che vuole, devi venire a vederlo. Andai e conobbi Mario. Gli parlai. Dopo due anni mi telefonò e mi disse che mi voleva come procuratore. Mi chiedete se oggi è contento? Così e così. Ma su di lui c’è un piano: gli ho promesso che diventerà tre volte Pallone d’oro e lui si fida di me".

Mino Raiola è morto, "ha lottato fino all'ultimo". La famiglia conferma: "Perché ci ha reso ancora orgogliosi". Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Stavolta purtroppo Mino Raiola è morto davvero. A comunicarlo è stata la famiglia con un tweet pubblicato sul profilo del procuratore, che si è spento a 54 anni all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato da diverso tempo. “Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre - si legge - Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori”.

“E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui - prosegue la famiglia - senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini - la chiosa - e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore”.

Soltanto un paio di giorni fa c'erano state grosse polemiche per la fuga di notizie dall'ospedale: Raiola era stato dato per morto, ma non era vero, sebbene le sue condizioni fossero gravissime. Il procuratore, o qualcuno per lui, aveva scritto un tweet molto arrabbiato: "È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembra che sia in grado di resuscitare". A stretto giro di posta era arrivata anche la smentita di Alberto Zangrillo, che aveva in cura Raiola: "Sono indignato dalle telefonate di pseudo giornalisti che speculano sulla vita di un uomo che sta combattendo". 

Nato a Nocera Inferiore il 4 novembre 1967, Raiola all'età di un anno si trasferì ad Haarlem, in Olanda, con tutta la sua famiglia. Il padre era un ristoratore, lui iniziò aiutando la famiglia in veste di cameriere. Nel giro di qualche anno impara la bellezza di sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. E per questo suo lavoro, per tutta la vita Raiola sarà accompagnato dal soprannome "il pizzaiolo".

A vent'anni, la passione per il calcio lo porta a ricoprire il ruolo di responsabile del settore giovanile dell'Haarlem, dunque direttore sportivo del club olandese. Successivamente ha fondato la sua società di intermediazione, diventando agente calcistico. Anzi, l'agente per antonomasia: uno dei più potenti, ricchi e tosti del calcio mondiale. Tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Donnarumma, Balotelli e Pogba, passando per Verratti, de Ligt, de Vrij e Haaland e tanti ancora. Insomma, il meglio del calcio. 

Mino Raiola, "la malattia che lo ha ucciso": il mistero e le indiscrezioni dal San Raffaele. Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è morto a 64 anni. A dare l’annuncio ufficiale è stata la famiglia tramite il profilo Twitter del super agente calcistico: “Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori”. Non è chiaro cosa abbia causato la morte di Raiola, dato che quest’ultimo e il suo entourage non ne hanno mai voluto parlare.

Lo scorso 12 gennaio il procuratore era stato operato all’ospedale San Raffaele di Milano per una malattia polmonare, non legata al Covid. Raiola aveva però smentito, parlando soltanto di controlli di routine: adesso è evidente che non era così e che Mino è stato male per mesi. Non a caso pochi giorni dopo l’operazione del 12 gennaio erano emerse ulteriori indiscrezioni: secondo la Bild il procuratore era stato ricoverato in terapia intensiva con un quadro clinico molto complicato.

Evidentemente la situazione di Raiola si è poi aggravata, fino ad arrivare al decesso, confermato ufficialmente nel pomeriggio di sabato 30 aprile. Un paio di giorni fa c’era invece stato un falso annuncio: Mino era stato dato per morto, ma non era vero, sebbene le sue condizioni fossero gravissime. Il procuratore, o qualcuno al suo posto, aveva scritto un tweet molto arrabbiato: “È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembra che sia in grado di resuscitare”. Stavolta però è arrivata la conferma della famiglia: “Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore”. 

Mino Raiola, "forse un giorno...": quel clamoroso video al figlio di Gianluigi Nuzzi. Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è venuto a mancare a 54 anni mentre si trovava all’ospedale San Raffaele di Milano, dove versava in condizioni gravi da tempo. A comunicare la triste notizia è stata la famiglia, che ha condiviso un messaggio sui profili social ufficiali del super procuratore calcistico. Dagospia ha tirato fuori un video che Raiola aveva inviato al figlio di Gianluigi Nuzzi in occasione del suo compleanno.

“Mi hanno spiegato che sei un grande tifoso del Milan - le parole di Mino - ma se vuoi fare il mestiere di procuratore devi essere tifoso dei giocatori e non delle squadre. Però per il momento tifa quello che vuoi e divertiti. Spero che vai bene a scuola, che ti concentri sulla scuola e che poi un giorno farai qualcosa di più importante del procuratore”. Di certo c’è che Raiola è stato il più grande in epoca recente nel suo campo e quindi la sua morte lascia un vuoto professionale, oltre che umano.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino - si legge nel comunicato della famiglia - il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione”.

Chi era Mino Raiola, il re dei procuratori morto a 54 anni. Il Quotidiano del Sud il 30 aprile 2022.

Si è spento a soli 54 anni Mino Raiola, il più potente, il più bravo, il più discusso, il più temuto dai club e il più amato dai suoi assistiti, tra i procuratori di calcio. Tra i suoi assistiti fuoriclasse del calibro di Pavel Nedved, Zlatan Ibrahimovi, Paul Pogba, Matthijs De Ligt e Gigio Donnarumma.

Raiola nasce a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, da una famiglia di Angri, il 4 novembre 1967. La sua famiglia emigra meno di un anno dopo ad Haarlem, nei Paesi Bassi. Il padre, allora meccanico, apre con successo un’attività di ristorazione, in cui il giovane Mino è impiegato come cameriere. Allo stesso tempo consegue la maturità classica e frequenta per due anni l’università, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza.

Inizia a giocare a calcio nelle giovanili dell’Haarlem, ma smette all’età di diciotto anni. Nel 1987 diventa responsabile del settore giovanile della squadra. Da quell’anno, intraprende la carriera imprenditoriale, acquistando (e poi rivendendo) un ristorante della compagnia McDonald’s ed entrando nel consiglio degli imprenditori di Haarlem.

All’età di vent’anni fonda una propria prima società di intermediazione, la Intermezzo. Intanto diventa direttore sportivo dell’Haarlem. Grazie alla conoscenza di ben sette lingue – italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese – riesce ad allacciare contatti e stringere legami a tutte le latitudini.

In seguito ad un accordo con il sindacato dei calciatori diventa poi rappresentante all’estero dei giocatori olandesi. Nel 1992 porta Bryan Roy al Foggia, mentre nel 1993 intercorre come mediatore nella trattativa che porta Dennis Bergkamp e Wim Jonk dall’Ajax all’Inter.

Diviene poi agente Fifa e abbandona le altre attività. Fonda la società Sportman con sede a Montecarlo, ma con uffici di rappresentanza anche in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca. Negli anni successivi tratta alcuni giocatori per il mercato italiano, come Michel Kreek, Marciano Vink e Pavel Nedved.

Mino Raiola acquisisce notorietà grazie ai calciatori molto famosi da lui seguiti e alle trattative milionarie in cui è coinvolto curando gli interessi dei giocatori stessi: molto dibattuto mediaticamente è, nel 2009, il passaggio di Zlatan Ibrahimovic dall’Inter al Barcellona, circostanza nella quale Raiola firma una clausola in virtù della quale avrebbe guadagnato 1,2 milioni di euro annui, pagati dal Barcellona fino al 2014.

Nell’estate del 2010 e nel corso del calciomercato invernale del 2011 agisce da mediatore nelle trattative che conducono Ibrahimovi, Robinho, Mark van Bommel, Urby Emanuelson e Dídac Vilà al Milan e Mario Balotelli al Manchester City. Nell’estate del 2012 è protagonista del passaggio di Ibrahimovic dal Milan al Paris Saint-Germain e di Paul Pogba dal Manchester Utd alla Juventus.

Nel gennaio del 2013 si occupa del trasferimento di Mario Balotelli dal Manchester City al Milan. Nel 2014 cura il trasferimento di Mario Balotelli dal Milan al Liverpool e porta a termine la trattativa per il rinnovo del contratto di Pogba, legato alla Juventus fino al 2019.

Nell’estate del 2015 Mino Raiola cura il ritorno dell’attaccante Mario Balotelli dal Liverpool al Milan. L’estate del 2016 lo vede concludere molti ingaggi dei suoi assistiti con il Manchester United: si trasferiscono nelle file dei Red Devils lo svincolato Ibrahimovic, Henrik Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Pogba dalla Juventus; grazie a quest’ultimo trasferimento (all’epoca il più costoso della storia del calcio) si assicura 25 milioni di euro di commissione.

L’estate del 2019 lo vede concludere svariate operazioni, la più importante delle quali è il trasferimento dell’olandese Matthijs de Ligt dall’Ajax alla Juventus per 75 milioni di euro complessivi e di Kostas Manolas dalla Roma al Napoli per 36 milioni. Nel 2020 Forbes lo inserisce al quarto posto al mondo tra i procuratori con un fatturato da 84,7 milioni di dollari avendo chiuso affari per 847,7 milioni di dollari.

Mino Raiola non ce l’ha fatta: l’annuncio della sua famiglia via Twitter. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 aprile 2022.

L'agente italo-olandese aveva 54 anni ed era il n° 1 al mondo nel suo lavoro. Raiola Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha intrapreso la sua carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera, tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Pogba, Haaland, Balotelli, De Ligt, Donnarumma e Verratti diventando uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale che secondo il magazine americano Forbes nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari . Negli ultimi anni Raiola, insieme a Mendes, Barnett e Manasseh, aveva creato un'associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

Mino Raiola non ce l’ha fatta e si è spento oggi sabato 30 aprile all’ospedale San Raffaele di Milano, dove lottava in gravi condizioni : a darne l’annuncio ufficiale è stata la famiglia con un post su Twitter. Dopo le polemiche dei giorni scorsi la triste notizia è purtroppo arrivata e il mondo del calcio ora piange il 54enne procuratore italo-olandese, tra i più ricchi e famosi di tutto il mondo, che poteva vantare nella sua ‘scuderia‘ campioni del calibro di Ibrahimovic, Pogba, Haaland, Balotelli, De Ligt, Donnarumma e Verratti (e in passato anche Hamsik ed Insigne).

Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha lavorato nella pizzeria di famiglia prima di intraprendere la carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera fino a diventare uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale che secondo il magazine americano Forbes nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari . Negli ultimi anni Raiola, insieme a Mendes, Barnett e Manasseh, aveva creato un’associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha reso orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore. The Raiola Family“, questo l’annuncio comparso sulla pagina ufficiale Twitter dello storico agente italo-olandese.

Precursore di un cambio di mentalità che ha cambiato le leggi del calciomercato. «I vecchi procuratori facevano gli interessi delle società, per me viene prima il calciatore», il suo personale Vangelo accolto da tantissimi assistiti che poi si sono riscoperti milionari. I suoi capolavori sono stati Nedved, Ibrahimovic, Pogba e Donnarumma, plasmati, allevati e mai abbandonati. Balotelli, un altro dei suoi fedelissimi clienti, la sua pedina più spostata. «Per me tutti i miei giocatori sono importanti», l’urlo in diretta televisiva per lamentarsi della connessione internet lenta nell’hotel milanese del mercato che aveva fatto saltare il trasferimento di Kasami al Pescara. Croce e delizia delle società, della stampa e dei colleghi procuratori: amico e nemico a seconda delle situazioni. Mancherà a tutti: come era impossibile immaginare due Mondiali senza l’Italia, sembrerà irreale concepire un calciomercato senza Mino Raiola.

L’affetto di Ibrahimovic e lo sfogo social

Proprio il milanista Ibrahimovic giovedì aveva fatto visita a Raiola, nel giorno in cui si era già erroneamente diffusa la notizia della sua morte poi smentita dal professor Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele. “Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato – le parole apparse in quelle ore sugli account Twitter e Instagram ufficiali del procuratore –. È la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembro anche in grado di resuscitare“.

Capello: “Per me Raiola significa Ibrahimovic“

“Per me Mino Raiola è legato a Ibrahimovic, la prima volta che l’ho conosciuto era il suo procuratore”. È questo il primo ricordo di Fabio Capello del procuratore scomparso il 30 aprile dopo una lunga malattia. “Era una persona a posto. Ha costruito una fortuna e nel senso buono, con grande capacità: ha dimostrato di saper fare quello che deve saper fare un procuratore“.

Moggi: “Lo consideravo quando tutti lo chiamavano pizzaiolo”

“Mino Raiola era un amico, è nato con me quando ero direttore generale della Juventus – ha detto Luciano Moggi a Tuttomercatoweb -. ‘Quando tutti lo chiamavano pizzaiolo, io gli davo massima considerazione perché avevo capito chi era. Mi dispiace che tanti abbiano giocato sulla sua morte quando non era vera“.

Galliani: “Innovatore e amico leale“

“Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace“. Questo il messaggio comparso sul profilo Twitter del Monza

Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace. 

Agnelli: “Non prendere in giro in Paradiso, ti voglio bene”

“Non prendere in giro in Paradiso, loro conoscono la verità…tvb Mino”. Con questo affettuoso messaggio, scritto in inglese (“Don’t take the piss in paradise, they know the truth...”), il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, ha salutato su Twitter l’amico Mino Raiola.

Marotta: “Perdiamo un amico e un grande professionista“

Anche l’ad dell’Inter, Beppe Marotta, ha voluto ricordare Raiola: “Sono affranto per la scomparsa di Mino, un amico e una persona di elevata competenza. Il mondo del calcio perde un grande professionista. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità. I ricordi – ha commentato Marotta – sono tanti, uno su tutti la doppia operazione su Pogba con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juve allo United. Un grande capolavoro in cui Raiola ha avuto un ruolo importante. Il mondo del calcio perde un grande professionista, spesso critico con il sistema ma la sua critica era molto costruttiva per un calcio sempre migliore“.

FC Internazionale Milano esprime il proprio cordoglio per la scomparsa di Mino Raiola: a lui e a tutti i suoi cari va il pensiero del Club in questo momento di dolore. 

Il Milan: “Ci stringiamo intorno alla famiglia Raiola”

Lo stemma del Milan e il simbolo del lutto per ricordare Mino Raiola. Così la società rossonera ricorda il re dei procuratori, stringendosi intorno alla sua famiglia. “AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa“.

Our deepest condolences to the Raiola family and all the friends of Mino for their tragic loss.

AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa. 

De Laurentiis: “La scomparsa di Raiola ci addolora“

“La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia“. È il cordoglio del presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, su Twitter per la scomparsa dell’agente italo-olandese.

La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia #ADL

L’Udinese: “Riferimento del calcio mondiale”

“Gino Pozzo e tutta l’Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale. Alla famiglia Raiola vanno le più sentite condoglianze”.

Gino Pozzo e tutta l’Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale.

Alla famiglia #Raiola vanno le più sentite condoglianze.

Redazione CdG 1947

La scomparsa per la malattia a 54 anni. Mino Raiola è morto, addio al re dei procuratori: “Ha scritto capitolo indelebile della storia del calcio”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

Mino Raiola è morto. Il re dei procuratori sportivi è scomparso all’età di 54 anni: ad annunciarlo via Twitter è stata la famiglia dell’agente.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre“. Con queste parole la famiglia Raiola annuncia la morte dell’agente sul suo profilo twitter con un lungo post accompagnato da una foto di Raiola giovane. 

“Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze – prosegue il post -, proprio come faceva per difendere i calciatori e ancora una volta di ha resi orgogliosi di lui senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile nella storia del calcio moderno“. “Ci mancherà per sempre – aggiunge la famiglia -, il suo progetto di rendere il mondo del calcio un mondo migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che ci sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore“.

Da giorni il mondo del calcio era in apprensione per le condizioni di salute dell’agente. Giovedì era infatti filtrata dall’ospedale San Raffaele di Milano la notizia della sua scomparsa, smentita poco dopo dal primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Alberto Zangrillo.

Raiola era stato ricoverato d’urgenza anche nel gennaio scorso, ma successivamente le notizie sulle sue condizioni di salute sono rimaste sempre riservate.

Raiola, nato a Nocera Inferiore (Salerno), era cresciuto in Olanda, dove si era trasferito con la famiglia negli anni ’60. Ad Haarlem il padre aveva aperto una pizzeria e lui lavorava da cameriere. Aveva sempre voluto, fin da bambino, lavorare nel mondo del calcio. Ha cominciato con le giovanili dell’Haarlem, con i calciatori olandesi. Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. “Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce”. Aveva avuto due figli con la moglie.

Forbes aveva inserito Raiola nel 2020 al quarto posto al mondo tra gli agenti di tutto il mondo con un fatturato da 84,7 milioni di dollari e con un giro di affari chiusi per un valore di 847,7 milioni. Raiola ha assistito giocatori del calibro di Ibrahimovic, Haaland, Donnarumma, Pogba, Verratti, Balotelli, Mikhitaryan e De Ligt.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Antonio Barillà per “la Stampa” il 2 maggio 2022.

Cinquantaquattro anni soltanto. L'incredulità che si somma al dolore. La percezione violenta della fragilità di fronte al destino. Quando s' abbatte niente ha più senso, né il potere né il denaro. Mino Raiola li possedeva entrambi e non era grazia ricevuta, aveva costruito un impero partendo dal nulla, dal ristorante aperto ad Haarlem, due passi da Amsterdam, da papà e mamma emigrati da Angri, provincia di Salerno, quando lui aveva appena otto mesi.  

Lo chiamavano "Il pizzaiolo" e il tono tradiva il senso: ammirazione per un self made man o richiamo sprezzante alle origini umili. Giurava di non aver mai sfornato una Margherita, ma d'averle sì portate ai tavoli: ne andava fiero perché quella era stata la sua scuola, più del liceo e dell'università interrotta.

Aiutando i genitori, contabile e non solo cameriere, scoprì la vocazione imprenditoriale e l'inclinazione per le lingue, passepartout del successo: ne parlava sette, l'italiano delle radici e l'olandese della seconda patria, l'inglese imparato da bambino guardano Disney in originale, il tedesco, il francese, lo spagnolo e il portoghese. 

Amava il pallone, aveva fatto qualche gol nelle giovanili dell'Haarlem, me le prime mediazioni non c'entravano: i commercianti olandesi e italiani avevano modi e metodi opposti negli affari e Mino, all'anagrafe Carmine, smussava, avvicinava, trovava il punto d'intesa. Il calcio arrivò poco dopo, chiacchierando con il presidente dell'Haarlem che tutti i venerdì andava a cena nel suo locale: fu così convincente, o sfacciato, da essere nominato, ventenne, responsabile del settore giovanile e poi direttore sportivo.

Imparò in fretta i trucchi del mercato, ottenne dal sindacato calciatori l'incarico di rappresentante degli olandesi all'estero, portò Bryan Roy al Foggia, Dennis Bergkamp e Wim Jonk all'Inter, poi superò l'esame di agente Fifa e diede inizio alla scalata. 

Tra i primi assistiti Pavel Nedved, trasferito dallo Sparta Praga alla Lazio per 9 miliardi di vecchie lire e, cinque stagioni dopo, alla Juventus per 75. Bianconero diventò anche Zlatan Ibrahimovic, amico fraterno prima che punta di diamante della scuderia, conosciuto da piccolo narciso all'Ajax e trasformato in gladiatore: raccontava d'averne conquistato la fiducia dandogli al primo incontro dello str..., spiegandogli bruscamente che per diventare il migliore non doveva più fare il fighetto ma lavorare duro. 

Zlatan capì e la pessima impressione iniziale finì in frantumi: quello «gnomo ciccione» in t-shirt che aveva «divorato cibo per cinque» sarebbe diventato il suo guru. Il look a Mino interessava, a chi gli rimproverava d'apparire trasandato replicava che lui discuteva di soldi e non di moda e che anzi l'apparenza era un'arma così lo sottovalutavano e strappava di più, difatti per anni ha spostato top player e milioni in bermuda e camicia hawaiana: Paul Pogba, Erling Haaland, Mario Balotelli, Matthijs de Ligt, Gigio Donnarumma, Stefan De Vrij, Marco Verratti, Ryan Gravenberch, Moise Kean. Tutti legatissimi. 

Mino ha cambiato il ruolo del manager, ha difeso i loro interessi contro tutto e tutti, fregandosene di inimicarsi dirigenti, colleghi e politici. Dissacrante, d'altronde. Provocatorio, spregiudicato, sfrontato. E di chi poteva avere soggezione uno capace di tacciare pubblicamente di mafia le maggiori istituzioni sportive e dare dell'incompetente a uno dei suoi più alti rappresentanti? Era tra gli agenti più discussi, ma anche tra i più bravi e ricchi: quarto al mondo per Forbes nel 2020 con un fatturato di 84,7 milioni di dollari e un giro di affari di 847,7, il patrimonio non è stimato con precisione ma si dice sfiori i 500 milioni di euro. 

Tutto è impallidito di fronte alla malattia, affrontata con coraggio ma purtroppo più forte: «Mino ha lottato con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i suoi calciatori - recita l'annuncio social della famiglia -. È stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione».

Dagonews l'1 maggio 2022.  

Da Donnarumma a Haaland, da Ibra a Balotelli: cosa faranno i campioni della scuderia di Raiola dopo la scomparsa del loro agente? Non ci sarà nessuna smobilitazione. L’attività dell’agenzia prosegue. A prendere il posto del re del calciomercato sarà l'avvocato brasiliano Rafaela Pimenta, braccio destro dello stesso Raiola, che ha seguito da vicino le trattative più importanti e può vantare un rapporto diretto con i calciatori dell’agenzia…

Da blitzquotidiano.it il 9 maggio 2022.

L’impero di Mino Raiola è rimasto senza il grande capo.  L’eredità passerà certamente nelle mani della avvocatessa  brasiliana Rafaela Pimenta, sua socia da 18 anni. 

Ma Rafaela resterà sola a gestire gli affari della “One”, la società di Montecarlo che procura e gestisce le fortune di molti calciatori? Che ha in portafoglio un patrimonio tecnico stimato 800 milioni? Società  che Raiola ha fondato negli Anni Novanta dopo essere diventato agente Fifa? 

L’avvocatessa non sarà affiancata, per ora almeno, dai due figli ventenni di  Raiola che vivono con la madre a Montecarlo e non ne vogliono sapere di fare la vita del padre.

Sono decine i campioni della scuderia di Mino Raiola. Il primo colpo grosso è stato Ibrahimovic nel 2009, trasferito dall’Inter al Barcellona. Il colpo che gli ha dato notorietà internazionale e prestigio, specie tra le star alle quali procurava ingaggi faraonici. 

Ne aveva fatti altri con la sua prima società (“Intermezzo”) ma quello messo a segno per l’amico e concittadino Ibra resta iconico. Oggi nella sua scuderia ci sono campioni di ogni parte del globo. Sudamericani, europei, africani.

Gente che grazie alla sua abilità guadagna cifre esagerate. I nomi più importanti? Anzitutto gli olandesi  come De Vriij (Inter) e De Light (Juventus). Gli italiani come Donnarumma e Verratti (PSG). E Balotelli (AdanaDemirspor, Turchia). Persino l’armeno della Roma, l’attaccante Mkhitaryan (ex Arsenal).

Mino Raiola era un procuratore di gran fiuto. Ha visto il gigante  norvegese una prima volta nel Molde (Norvegia ), lo ha portato al Salisburgo  appena ventenne e l’anno dopo, estate 2020, gli ha spalancato le porte del Borussia Dortmund.

E il ragazzone di quasi due metri lo ha ripagato con 65 gol in 61 partite. Mino lo ha messo all’asta, i grandi club europei se lo contendono. In lizza sono rimasti in tre: Manchester City, Real Madrid e Bayern Monaco.  Facile che vinca il City che da poche ore ha rinnovato il contratto all’allenatore Guardiola, il coach espressamente richiesto da Haaland. 

E le cifre? Mino lo aveva proposto in un primo momento  al Chelsea di Abramovich (che stava per accettare) ma la guerra in Ucraina ha rovinato i piani all’oligarca russo e a Raiola. È saltato tutto.

Le cifre? 50 milioni di ingaggio per il vikingo, 40 milioni di commissioni per il re dei procuratori. Ora che al timone c’è l’avvocatessa la parcella sarà più robusta.  E per il gigante? Chiesti 86 mila euro. Al giorno. Prendere o lasciare. Le follie nel calcio non finiscono mai.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it l'1 maggio 2022.

Lo conoscevo dal ’92, dal suo primo affare italiano, Bryan Roy al Foggia. Eravamo diventati quasi amici. Tre anni fa, marzo 2019, mi mandò affanculo per colpa di un titolo sbagliato: avevamo preso per buono un intervento su un suo profilo fake, maledetto facebook. Conservo ancora l’sms: «Ciao Ivan, solo per informarti che denuncerò il tuo giornale e il giornalista… basso livello, non è da te, abbraccio Mino». Non lo fece. Al telefono fu sgradevolissimo: sapeva essere di un’aggressività ineguagliabile, ce ne dicemmo di tutti i colori.

Tempo dopo si era già dimenticato tutto e pochi mesi fa, premettendo che si fidava solo di me, regalò al Corriere dello Sport l’intervista esclusiva a Donnarumma sul trasferimento al Psg. Queste le sue parole: «Gigio non ha lasciato il Milan per altro motivo che per crescere».

Raiola sapeva essere angelo e diavolo, più spesso diabolico che angelico. Lo chiamavo Houdini: così come spariva e per mesi non si faceva trovare, all’improvviso ricompariva. «Come va?».

È stato lui a rendere internazionalmente (im)popolare la figura del procuratore, a farle del bene ma anche del male. Era diventato il parametro, il simbolo, il manifesto di una professione di base antipatica, quella dell’intermediario; il cognome aveva sostituito il ruolo: procuratore uguale Raiola. E non viceversa.

Mino non aveva paura di nessuno, era un mix di determinazione e arroganza, andava spesso allo scontro, in particolare con i giornalisti, ed era diventato lo specialista dei trasferimenti più scomodi. Fra tutti, quelli di Ibra dal Barcellona di Messi al Milan dopo una sola stagione (litigò con Guardiola) e di Donnarumma al Psg a parametro zero. Da oltre un anno stava lavorando alla cessione di Haaland per il quale chiedeva - si dice - 50 milioni di commissioni da dividere col padre dell’attaccante.

Aveva stretto alleanze-amicizie importanti e strategiche: Zeman, Nedved, Moggi, Ibra, Galliani. Aveva soprattutto capito che Fifa e Uefa se ne fregavano e quindi, in barba ai regolamenti, era di fatto socio delle famiglie dei campioni. Intelligente e scaltro, prima e più di ogni altro, si era reso conto che i governing bodies pensavano ai loro interessi e a nient’altro. 

Diciotto anni fa, a Udine per il premio Eurochampion organizzato a settembre dalla famiglia Pozzo (presente anche il giovanissimo Messi accompagnato dal padre), cenammo insieme a Ibrahimovic, che era stato appena acquistato dalla Juve, e all’avvocato che curava la parte legale di Raiola, una signora brasiliana. A un certo punto Mino provocò Zlatan - per lui era “Slatan” - dicendogli che se avesse segnato di più sarebbe diventato il più grande centravanti al mondo, la risposta di Ibra fu questa: «Se avessi fatto più gol non avrei avuto bisogno di te». In realtà con Mino arrivarono per Ibra i gol, i milioni e l’eterna libertà di pensare e dire.

Raiola ha sempre fatto più del massimo per i suoi assistiti e per se stesso. Anche per questo i giocatori lo amavano e non l’avrebbero mai lasciato: aveva una sensibilità non comune nell’individuare l’affare e le fragilità di presidenti e dirigenti. Parlava molte lingue, «la peggiore l’italiano», confessò. Lo chiamavano “il pizzaiolo” perché la sua famiglia aveva dei locali ad Haarlem. La cosa lo faceva incazzare e più di una volta aveva chiarito, inascoltato, di non aver mai steso una pizza in vita sua. 

Nel 2010, per GQ Italia, il direttore Michele Lupi mi chiese di intervistarlo: andai a Montecarlo, pranzammo, conobbi Vincenzo, cugino e primo collaboratore, e mi fece incontrare la moglie, conosciuta a Foggia, e i figli appena rientrati da scuola. Abitavano in un bell’appartamento in avenue d’Angleterre. Ricordo che prima di salutarmi disse: «Memorizza bene questa casa perché l’anno prossimo sarà diversa, mia moglie fa ridipingere in continuazione le pareti. Mi costa un sacco di soldi». Con quello che Mino portava a casa ogni estate avrebbe potuto farle rifare ogni giorno. 

Non voglio neppure immaginare come siano stati i suoi ultimi sei mesi, la sofferenza, il dolore fisico. So che ha lottato come un leone contro un avversario che fatica a scendere a patti. 

Nelle ultime drammatiche ore, sempre grazie a una fake news, Mino è riuscito a imitare 007 in versione personale, “Si muore solo due volte”. Avrebbe sofferto anche di più se avesse immaginato di essere rimpianto. Non dico da suoi calciatori, ma dai tanti avversari, anche i più odiosi. D’altra parte, un nemico così dove lo trovi? 

Andrea Sorrentino per “il Messaggero” l'1 maggio 2022.

«Mino!». Rispondeva al telefono così, né «Pronto» né «Hello», solo il suo nome, un annuncio secco più che un saluto, come a dire: io sono io, adesso fatti avanti tu, che ho da fare. Si dice sia stato il re del mercato, ma più che altro è stato l'uomo che ha cambiato il calcio moderno, non soltanto il mercato. Per questo non solo i suoi celebri assistiti, ma tutti i calciatori dovrebbero dedicargli un pensiero affettuoso, una lacrima, un monumento equestre. Gli devono moltissimo.  

Se c'è stato un uomo che partendo dal nulla ha avuto la spregiudicatezza, la forza, l'intuito e il cinismo di spingere il calcio più in là, verso la centralità dei calciatori rispetto ai club in nome di guadagni sempre più elevati, anzi talmente esagerati al punto da arrivare quasi a scassare l'intero sistema, ebbene quell'uomo è stato Mino Ràiola, all'anagrafe Carmine, scomparso ieri a 54 anni all'ospedale San Raffaele di Milano, dopo una lunga battaglia contro la malattia.

Nato a Nocera Inferiore nel 1967, a un anno di età emigrato con la famiglia ad Haarlem, vicino Amsterdam, infine spirato a Milano, nella sua Italia, anche se lui risiedeva a Montecarlo e le sue società a Malta e a Dublino. Controverso, simpaticissimo, inquietante, furbo come il demonio, un poliglotta da sette lingue imparate sul campo. Ineffabile, compiaciuto e panciuto, quindi per quel vecchio adagio uomo di grande sostanza; sbrigativo, sbrindellato, la camicia sempre sopra i pantaloni a troneggiare sul girovita fuori misura.

Con Mino si diventava ricchi per forza, bastava seguirlo, e anche per questo era diventato il numero uno dei manager, anche se in perenne lotta con Jorge Mendes, alleato solo nelle battaglie contro Fifa («Sembra un dittatore comunista») e Uefa, la vera controparte dei draghi del mercato. 

Si era fatto tutto da sé, Mino, partendo dalla pizzeria, poi ristorante, del padre ad Haarlem: nel locale passano imprenditori in affari con l'Italia, Mino ha intuito, guizzi e comunicativa. Sbarca nel calcio quasi subito, come rappresentante di giocatori olandesi all'estero, l'Italia sempre nel destino. 

A 20 anni è tra i mediatori nella trattativa che porta Rijkaard dallo Sporting Lisbona al Milan. A 25 anni conduce Brian Roy al Foggia: lì conosce la sua futura moglie e diventa amico di Zeman. Altri affari di quegli anni: Bergkamp e Jonk all'Inter, Vink al Genoa. Il primo grande colpo, Nedved dallo Sparta Praga alla Lazio di Zeman. 

E i giocatori li sceglie lui, non il contrario: se Mino intravede del talento, si getta sul giocatore promettendogli una carriera luminosa. Accade così con Ibrahimovic: «Dammi retta e ti porto sulla vetta del mondo, ma impara a comportarti», e Zlatan gli darà retta, a quello che definisce con affetto «un meraviglioso ciccione idiota». 

Intanto Mino ha affilato gli artigli. Basta essere uno e trino, giocare su tre tavoli. Basta che al giocatore inizino a venire mal di pancia e insoddisfazioni varie, per portarlo a scadenza e arrivare alla rottura col suo club; poi indirizza la cessione su un secondo club con cui Mino è già d'accordo, che a quel punto sarà grato al mediatore per il risparmio sul cartellino dell'atleta, a cui riconoscerà un ingaggio lauto, e non parliamo del premio al manager. Li ha traghettati tutti così, rendendo ricchissimi loro, e se stesso: nel 2020 la rivista Forbes lo ha accreditato di 85 milioni di commissioni.  

Amava i suoi giocatori, molti di loro avevano un vissuto complesso, li paragonava ai grandi artisti: Donnarumma un Modigliani, Pogba un Basquiat, De Ligt un Rembrandt. Ha costruito il fenomeno Mario Balotelli, ha intuito che il futuro sarebbe stato Haaland, ha conquistato dopo lunga corte Verratti.

 Molti non lo amavano, ovvio: «Ci sono alcuni agenti che non mi piacciono e uno è Mino Raiola. Non mi fido di lui, è un sacco di m...», sbottò un giorno sir Alex Ferguson. Il calcio e i calciatori erano cambiati, e Mino aveva avviato il mutamento. Logico che non piacesse a parecchi. Ma i calciatori, lo venerino in eterno. Alla sua famiglia, cugino, figlio e nipote, il compito di gestire la sua eredità, immensa e piena di campioni.

A.S. per “il Messaggero” l'1 maggio 2022.  

Beppe Marotta, ad dell'Inter, una lunga relazione di lavoro con Mino Raiola: da quanto lo conosceva?

«Da almeno trent' anni. Sono dispiaciutissimo, addolorato, affranto. Mino era un amico. Quante trattative insieme, quanti anni di vita. 

E anche diverbi, litigate, certamente: eravamo sempre su piani diversi, io rappresentavo i club e lui i calciatori, normale ci fosse qualche frizione, ma c'era grande stima. Aveva competenza, bravura, tenacia. Si era fatto da sé. 

Aveva iniziato molto giovane a occuparsi di calcio e di intermediazioni. Ho avuto i primi contatti con lui quando era diventato collaboratore di Gino Pozzo all'Udinese: Mino lavorava sui giocatori olandesi, ma poi estese ben presto il suo raggio d'azione. Io a quei tempi ero dirigente al Monza, al Como, al Venezia, e cominciai ad avere a che fare con lui. Un grosso professionista, che infatti ha avuto un successo mondiale».

E' vero che Raiola ha cambiato il calcio con i suoi metodi, modificando i rapporti di forza tra calciatori e club?

«Era abilissimo. Si faceva valere. Rappresentava i suoi assistiti nel modo migliore, si batteva per loro, strappava i contratti alle sue condizioni, spesso. Modi spicci, grande franchezza nell'esprimersi, una persona di valore. Era polemico e incisivo a livello mediatico, come lo era nel privato delle trattative, sempre uguale a se stesso. Poco convenzionale, anche nel modo di vestirsi, diretto. Poi è stato anche molto critico col sistema, e faceva bene la sua parte anche in quello. Poi in un sistema ci sono anche le altre controparti, come i club, le federazioni. Ma con lui i calciatori si sentivano tutelati, combatteva per loro». 

Insieme a lui avete messo a segno una delle plusvalenze più incredibili di sempre, per Paul Pogba.

«Lo prendemmo a costo zero dal Manchester United, dove non aveva trovato spazio con Alex Ferguson; Mino era il suo manager, credeva un sacco nel giocatore, ci garantì che era un campione ancora incompreso, e lo portò alla Juventus. Quattro anni dopo il Manchester United aveva una proprietà diversa e una mentalità diversa, e ce lo comprò per 115 milioni. Sono colpi che capitano, anche se non con quelle proporzioni. Ci sono spesso dei giovani che non trovano spazio e fanno fortuna in un'altra nazione da cui partono per una grande carriera: mi viene in mente il caso di Scamacca, che andò via dalla Roma per giocare in Olanda».  

C'è un erede di Raiola? 

«Non credo. Era unico».  

E' stato anche un personaggio controverso, no? 

«Spesso ha spinto al massimo, i suoi giocatori cambiavano tante squadre. E se da un lato, sul piano economico, gli spostamenti hanno sempre garantito guadagni maggiori ai suoi atleti, in alcuni casi non sono state operazioni felicissime sul piano tecnico, e qualcuno non si è trovato bene. Fa parte del gioco». 

Pensiamo a Donnarumma, ad esempio? 

«Può essere. Magari, a vedere le cose adesso, se Donnarumma fosse rimasto al Milan sarebbe stato meglio per lui. Ma giudicare alla fine è facile».  

Aldo Cazzullo nella rubrica della posta del "Corriere della Sera" il 3 maggio 2022. Caro Aldo, Raiola sarà stato pure bravo ma ha contribuito molto allo sfascio del calcio italiano e non... con continui trasferimenti di giocatori da una parte all’altra per prendersi altre provvigioni costosissime dalle società. Giovanni Piscopo 

Odiato da molti solo per essere stato il migliore nel suo campo… grande Mino. Antonio De Falco

Cari lettori, La morte di Mino Raiola ha colpito molti di voi, sia per la giovane età, sia per la peculiarità del personaggio. Tra le sue frasi, ormai diventate di culto, sceglierei questa: «Sono trasandato perché devo parlare di soldi e non di moda; e poi così mi sottovalutano, e riesco a strappare di più». 

Non c’è dubbio che nel calcio i procuratori abbiano preso troppo potere, contribuendo a far lievitare a dismisura i costi. Ma non dobbiamo sorprendercene. Un campione dello sport spesso è una creatura fragile. Brucia tutto nel giro di pochi anni, a parte qualche fenomeno, come ad esempio Zlatan Ibrahimovic, che può vincere uno scudetto a quarant’anni compiuti.

Ma anche un duro come Ibra può scoprirsi delicato; ad esempio in seguito a un infortunio. Il campione che si rompe un ginocchio è un animale ferito, un purosangue che guarda incredulo il proprio arto spezzato. 

È quello il momento — e non solo quando si tratta di concludere un nuovo contratto — in cui diventa decisivo il ruolo del procuratore. Nel bel libro scritto con Luigi Garlando, Adrenalina, Ibra definisce Raiola «amico, fratello, padre».

Quando gliene ho chiesto il motivo, ha risposto: «Le racconto un episodio. A Manchester mi rompo il ginocchio. Esco dal campo con le mie gambe, rifiuto gli antidolorifici, penso che non sia niente. Invece ho il crociato a pezzi, si sono staccati tendini, muscoli: un disastro. Mino comincia a ricevere le telefonate degli avvoltoi».

Chi? «Chirurghi, italiani e no, che mi vogliono operare. Studiamo la cosa e vediamo che il migliore al mondo è tale Freddie Fu, un dottore americano originario di Hong Kong, che lavora a Pittsburgh; ma per un appuntamento bisogna aspettare mesi. Pochi giorni dopo mi chiama Mino: “Ibra prepara le valigie, si parte per Pittsburgh”.

Atterriamo alle 4 del mattino e andiamo subito in ospedale. Il leggendario professor Freddie Fu ci aspettava sotto l’ingresso con il suo staff. Alle 4 del mattino». Anche per questo, nei giorni in cui Mino Raiola lottava per la vita, Zlatan Ibrahimovic era al suo capezzale.

Salvatore Riggio per corriere.it il 3 maggio 2022.

Nei giorni del dolore per la scomparsa di Mino Raiola, morto sabato 30 aprile a Milano all’età di 54 anni, c’è un impero da portare avanti. Il cugino Vincenzo, per tutti Enzo, amicissimo di Donnarumma, ha imparato tutto al fianco di uno dei migliori procuratori del mondo del calcio. 

Ma nell’entourage c’è una figura ora al vertice della piramide. Si tratta di Rafaela Pimenta, amica di Raiola da almeno 20 anni e sua socia da 18. È con lei, e solo con lei, che Mino ha voluto condividere le quote della società One, con sede a Montecarlo. Attraverso questa azienda, disegnata come se fosse una famiglia, l’agente ha sempre curato gli interessi dei suoi giocatori, sparsi nel mondo. Da Haaland, attaccante del Borussia Dortmund, a Ibrahimovic, passando per Pogba, Balotelli, De Ligt, De Vrij, Donnarumma, Romagnoli, Verratti, Lozano, Mkhitaryan, Kean, Dumfries e tanti altri ancora.

Mino e Rafaela si sono conosciuti in Brasile nei primi anni 2000. Lei si era laureata in giurisprudenza nel 1995 e aveva iniziato a lavorare, giovanissima, nella squadra dell’antitrust costruita dall’allora presidente del paese, Fernando Henrique Cardoso. Parla sei lingue e ha sempre avuto una passione nel cuore: il calcio. Tanto da aiutare due suoi famosi connazionali, Rivaldo e Cesar Sampaio, a fondare il Guaratinguetà, club dello Stato di San Paolo (dove è nata anche lei), poi sciolto nel 2017. Sta di fatto che Raiola e Pimenta si sono incontrati durante il lancio del progetto, sono rimasti in contatto e hanno iniziato a lavorare insieme. Lo step successivo è stato il trasferimento di Rafaela a Montecarlo, con l’ingresso nella One e diventando il braccio destro del potente procuratore.

Adesso tutto è in mano a lei. I figli 20enni di Mino, Mario e Gabriele, vivono con la madre (sempre a Montecarlo) e studiano. In attesa di capire se vorranno o meno seguire le orme del padre, sarà Pimenta a portare avanti gli affari. Il più importante sarà il trasferimento di Haaland dal Borussia Dortmund: una trattativa da 150 milioni di euro. Il botto del prossimo calciomercato, il primo dopo tre decenni senza Raiola.

L’attaccante norvegese piace al Real Madrid e a molti club della Premier. In primis, il Manchester City di Pep Guardiola. Rafaela è molto amica di Pogba, un altro pezzo forte della scuderia di Mino, pronto a dire addio – ancora una volta – al Manchester United e a infiammare il mercato. Si appoggerà alle poche persone che lavorano nella One: tra queste, c’è Enzo Raiola, il cugino, che cura gli interessi dei calciatori italiani. E ai tanti collaboratori sparsi per il Vecchio Continente. Si tratta di avvocati (in Italia c’è Vittorio Rigo), procuratori, social manager. Insomma, anche loro fanno parte del motore di un’azienda importantissima nel mondo del calcio. Che dovrà anche difendersi dalle possibili mire espansionistiche dei colleghi di Mino.

Salvatore Riggio per il corriere.it il 6 maggio 2022.

C’erano tutti, da Haaland a Ibrahimovic, passando per Donnarumma, Fabregas, Verratti e Kluivert junior, ex Roma. Tutti presenti nella chiesa di Saint-Charles, a due passi dal Casinò di Montecarlo, per l’ultimo saluto a Mino Raiola, il potente procuratore scomparso il 30 aprile, all’età di 54 anni, all’ospedale San Raffaele di Milano. 

Mino è stato «più padre che manager», come ha detto nella sua omelia padre Claudio, che ha officiato il rito funebre nella chiesa del Principato, giovedì 5 maggio. L’ultimo saluto a Mino è stato in forma privata, ma con tanta gente comune intorno, spinti dalla curiosità di quanto stesse accadendo. 

Presenti, oltre ai familiari e ai collaboratori più stretti, anche tanti amici arrivati dall’Italia per l’ultimo saluto. Adesso c’è un impero da portare avanti. Nell’entourage c’è una figura al vertice della piramide. Si tratta di Rafaela Pimenta, amica di Raiola da almeno 20 anni e sua socia da 18. È con lei, e solo con lei, che Mino ha voluto condividere le quote della società One, con sede a Montecarlo.

Attraverso questa azienda, disegnata come se fosse una famiglia, l’agente ha sempre curato gli interessi dei suoi giocatori, sparsi nel mondo. Laureata in giurisprudenza nel 1995 – parla sei lingue – ha conosciuto Mino nei primi anni del 2000. Sarà Rafaela Pimenta a portare avanti la missione di Raiola nel calcio, a partire dal possibile addio di Haaland al Borussia Dortmund. Un affare da 150 milioni di euro.

·        E' morto il politologo Percy Allum.

Scompare Percy Allum, politologo e studioso del Sud e delle infiltrazioni della camorra. Visse a lungo a Napoli. Fu uno storico collaboratore di Repubblica per l'edizione partenopea. La Repubblica il 28 Aprile 2022.  

E' morto Percy Allum, politologo inglese, molto legato a Napoli e profondo studioso della questione meridionale e delle infiltrazioni della camorra nel tessuto economico e politico. Aveva 89 anni. E' stato a lungo collaboratore di Repubblica nell'edizione napoletana. Per 12 anni ha ricoperto per dodici anni la cattedra di Scienze Politiche all'Università Orientale.

Nel 1975 è stato l'autore di un'opera precorritrice: "Potere e società a Napoli nel dopoguerra" (Einaudi). Raccontò l'ascesa di Gava, che definì boss, intendendo non una figura criminale ma un personaggio capace di usare ogni risorsa organizzativa e politica locale per affermarsi a livello nazionale.

"Il ruolo intellettuale di Percy Allum, storico e politologo molto legato alla città di Napoli e studioso delle dinamiche sociali del Mezzogiorno - gli rende omaggio il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi - è stato indiscutibilmente rilevante: ha rappresentato un'autorevole visione esterna di una lunga fase storica dei nostri territori".

·        Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.

Andrew Woolfolk, morto il celebre sassofonista degli Earth, Wind and Fire. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.

Il cantante Philip Bailey ha confermato la morte del musicista, ricordandolo sui social: «Grandi ricordi. Grande talento. Divertente. Competitivo. Sveglio. E sempre con stile». 

L’assolo di sassofono più coinvolgente della musica disco americana ha perso la sua voce: Andrew Woolfolk, storico componente degli Earth, Wind and Fire, autore di brani memorabili come «September», impossibile da non ballare, è morto domenica scorsa 24 aprile. Lo ha annunciato un altro membro del gruppo, il cantante Philip Bailey. Woolfok aveva 71 anni. Era malato da sei. «Lo conobbi al liceo — ha raccontato su Instagram, Bailey — e da quel momento diventammo rapidamente amici e compagni di band. Grandi ricordi. Grande talento. Divertente. Competitivo. Sveglio. E sempre con stile».

Woolfolk, nato l’11 ottobre 1950 a San Antonio, Texas, si era trasferito con la famiglia a Denver, Colorado, dove in seguito aveva incontrato Bailey. Fu Bailey che chiese a Woolfolk di unirsi agli EWF nel 1973. All'epoca, il gruppo aveva già avuto qualche piccolo successo. All'uscita dal gruppo del sassofonista/flautista Ronnie Laws, Bailey suggerì alla band di scegliere il suo vecchio compagno di liceo, Woolfolk, come suo sostituto.

All'epoca, Woolfolk viveva a New York City, studiando sassofono con il grande jazzista Joe Henderson. Stava considerando anche una carriera nel settore bancario quando arrivò l'offerta di Bailey: scelse la musica. Il primo disco di Woolfolk con gli EWF fu «Head to the Sky» del 1973, il primo della band a diventare di platino. L'ambum diede il via a un periodo di grande successo per la band, che è continuato con «Open Your Eyes» del 1974. In oltre quarant'anni di carriera gli EWF hanno venduto circa 90 milioni di dischi nel mondo e ricevuto 20 nomination ai Grammy Awards, vincendone sei.

La band è rimasta molto popolare per tutti gli anni Settanta: un successo destinato a declinare all'inizio degli Eighties. Dopo l'uscita di «Electric Universe del 1983» il gruppo si prese una in pausa, continuando a produrre in modalità spot album talvolta anche di discreto successo. Woolfolk ha continuato a suonare il sax fino al 1993. Celebri i momenti dei concerti in cui, nel mezzo di un brano, entrava in scena il suo sassofono, che cominciava a scatenare la voglia di ballare nel pubblico, e con gli altri membri che battevano le mani per scandire il ritmo.

·        E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.

(ANSA il 26 aprile 2022) -  E' morta Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta e considerata la memoria storica della destra italiana, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio.

Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti 

• (Stramandinoli) Catanzaro 1925. Vedova di Giorgio Almirante (1914-1988), mitico segretario del Msi degli anni Sessanta e Settanta (si conobbero nel 1951 a casa del conte Sabatini, un comune amico). «Non sono mai stata fascista e nemmeno missina». 

• «Vedova dello storico leader missino, è la prosecuzione immaginaria del suo verbo, idolatrata e ricercata, temuta da molti big della destra, a partire da Fini (“è un pigro”), e anche del Pd (“mi hanno chiamato alcuni uomini di Renzi per capire il motivo dei miei attacchi al loro leader”)» (Alessandro Ferrucci) [Fat 19/1/2015]. 

• «Non c’è diatriba, in casa An, che non veda i giornalisti precipitarsi in casa di donna Assunta per raccoglierne il verbo. Donna Assunta non si fa pregare. Per ognuno ha una bella dichiarazione, libera, controcorrente, coraggiosa. Una manna per i giornalisti. “Giorgio Almirante non l’avrebbe fatto”. Oppure: “Mio marito sarebbe stato d’accordo”» (Claudio Sabelli Fioretti). 

• «Spesso apro la porta di casa e trovo silenziosi omaggi di ammiratori di mio marito. Mi portano i fiori, anche la mozzarella fresca, la lasciano nei contenitori termici, senza nome, davanti all’uscio». 

• A coloro che le hanno offerto di candidarsi ha detto: «Ma non esiste proprio. Per nessuna ragione. Ma le pare che io mi sarei fatta dire: “È la moglie di, conosce tutti”. Avrei provato un senso di vergogna» (a Brunella Bolloli) [Lib 20/2/2013]. 

• La prima impressione su Almirante? «Vestiva malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori». Lei lo ha portato sulla rotta del “doppiopetto”. «Un lavorone, ci ho pensato sempre io, ma era necessario stargli dietro. E poi era distratto, a volte tornava a casa con scarpe non sue perché in treno se le toglieva e poi si rinfilava quelle del vicino».

Si divertiva di queste distrazioni? «Insomma, più che altro mi schifavo». Lei era la ricca dei due... «Non mi sono mai lasciata mantenere, ho sempre lavorato, a ognuno il suo conto. Quando l’ho conosciuto lui non aveva la macchina io già possedevo la 130» (intervistata da Alessandro Ferrucci, cit.).

Tommaso Labate per corriere.it il 26 aprile 2022.

Assunta Almirante è morta martedì 26 aprile. La vedova di Giorgio Almirante, leader storico del Movimento sociale, aveva compiuto 100 anni il 14 luglio scorso. Raffaela Stramandinoli (questo il nome da nubile), catanzarese di nascita, romana d’adozione, vedova dello storico segretario del Movimento Sociale italiano, è stata per la regina madre della destra italiana. 

«Quando non ci sarò più, si dimenticheranno di me. E si dimenticheranno anche di voi». Ascoltandole dalla voce sofferente dell’amato Giorgio Almirante, queste parole, Donna Assunta si era commossa. Era l’inverno del 1988, il marito aveva lasciato la guida del Movimento Sociale Italiano al «delfino» Gianfranco Fini, la destra italiana era attesa a cambiamenti fin lì neanche immaginabili e lei, Donna Assunta, osservava da vicino un mondo, il suo mondo, che non sarebbe mai stato più quello che aveva conosciuto.

Raccontano che dopo la morte del consorte, arrivata il 22 maggio dello stesso anno, in piena primavera, a chiunque le ricordasse l’amara profezia sulla sorte da «dimenticato» del cognome Almirante – che valeva per la memoria del marito Giorgio e anche per lei, che era rimasta viva – Donna Assunta avrebbe risposto sfoderando quel ghigno beffardo che negli anni a venire avrebbe trasformato in una specie di marchio di fabbrica, unito al gesto delle corna e all’immancabile urletto con cui teneva alla larga le iatture: «Tie’!». 

Si è spenta oggi dopo aver superato il secolo di vita e raggiunto quello che, in fondo, era diventato lo scopo della sua esistenza. Impedire che la polvere del nuovo – la nuova destra, i nuovi leader, il nuovo tutto – si depositasse su quello che era stato, cancellandolo per sempre; ma anche smentire la diceria antica secondo cui campa cent’anni solo chi si fa i fatti suoi.

Nata Raffaella Stramandinoli nel 1921 a Catanzaro, e diventata «Assunta» perché da bambina la chiamavano «Assuntina», Donna Assunta cent’anni li ha vissuti senza mai farseli, i fatti suoi. Sposata giovanissima al Marchese Federico de’ Medici, nel 1952 se ne separa per stare con Giorgio Almirante, il grande amore che nella vita – forse - bussa una sola volta. Le nozze arriveranno nel 1969, alla morte del marchese Federico, undici anni dopo la nascita della loro figlia Giuliana, che aveva preso il cognome de’ Medici. 

Nel 1974, quando si avvicina il referendum sul divorzio, la condizione familiare degli Almirante diventa uno strumento di delegittimazione interna del segretario dell’Msi. A Donna Assunta importa poco o nulla. «Io voto a favore del divorzio», ripete in ogni occasione. Al marito toccherà il peso di difendere la ragione del partito e di fare la campagna «contro» insieme alla Dc, rinviando i conti con la propria coscienza al segreto dell’urna. «Almirante», avrebbe ricostruito lei anni dopo, «era favorevole al divorzio. Ma siccome l’esecutivo del partito lo aveva messo in minoranza, ha dovuto accettarne le decisioni. Anche io ero favorevole. Perché, girando il mondo, ci eravamo accorti che molti, soprattutto i meridionali, si erano rifatti una famiglia».

Morto Almirante, non c’è ragione di partito che separa il pensare di Donna Assunta dal dire e quindi dal fare. Pur non essendo mai stata fascista - «Perché vengo da una famiglia antifascista» - diventa una specie di Cassazione della storia su quello che va fatto oppure no per difendere l’eredità politica del marito. Custode unica dell’ortodossia almirantiana, Donna Assunta sarà contraria alla svolta di Fiuggi impressa da Gianfranco Fini, suo antico «pupillo», e decisamente scettica sul berlusconismo. Alle Europee del ’99, quando Fini vara il progetto dell’Elefantino insieme a Mariotto Segni, arriva a minacciare un voto per la sinistra; poi però alla fine non ce la fa, si fa accompagnare al seggio, ritira la scheda e la annulla con una scritta a caratteri cubitali: «Viva Almirante!».

Da lì in poi, tolto Francesco Storace, avrebbe messo in riga chiunque: da Fini, ai colonnelli di Alleanza Nazionale, a Giorgia Meloni. Gli amici, a destra, si fanno sempre meno. Il telefono smette presto di squillare e, quando squilla, dall’altra parte ci sono più quelli «dell’altra parte», dai coniugi Bertinotti agli eredi di Bettino Craxi passando per la vedova dell’ex ministro socialista Italo Vignanesi, che per il compleanno dei cent’anni – nel luglio scorso – gli ha fatto recapitare cento rose rosse. 

Nel 2018, dopo le ultime elezioni politiche, sceglie insieme alla figlia Giuliana che è ora di lasciare le scene. Mai più interventi, mai più interviste, mai più parole pubbliche di quelle che un tempo erano capaci di provocare dei piccoli terremoti all’interno della destra. «Un ritiro alla Greta Garbo», si dicono mamma e figlia. Così sarà, da lì in poi, solo silenzio. Un silenzio però colorato, come il rosso acceso del suo rossetto, ostentato nella terrazza della sua casa ai Parioli anche nel giorno del suo ultimo compleanno, senza politici attorno.

Un deputato della Lega con un passato nel Fronte della Gioventù, Mauro Lucentini, era passato senza preavviso con un mazzo di fiori da far recapitare alla festeggiata. «Lascio solo questi, non vorrei disturbare». Donna Assunta l’ha fatto salire in casa, giusto in tempo perché ascoltasse la «Calabrisella mia» che le stavano dedicando dagli amici. Per i non più amici, invece, hanno continuato a valere il ghigno beffardo, il gesto delle corna e l’immancabile «tie’!». Magari non detto ma solo pensato, questo sì. Fino all’ultimo sospiro. 

Aldo Cazzullo per corriere.it il 26 aprile 2022.

«Ma perché signor Fini ha fatto viaggio a Israele? Perché?». Le prime vittime della storica visita a Gerusalemme dell’allora capo della destra italiana (quella del fascismo male assoluto, frase in realtà mai pronunciata) erano Lal e Tusita, i filippini di casa Almirante. Il loro compito era filtrare i militanti indignati che chiedevano lumi e aiuto a lei, la vedova di Giorgio. «Donna Assunta, qui sotto casa c’è un altro che vuole restituire la tessera di An». «Mettetela con le altre. Poi le portiamo in cantina». «Donna Assunta , ancora telefono». «Vi ho detto che ci sono soltanto per Alessandra». «Donna Assunta, è Alessandra Mussolini». «Alessa’!». «Donna Assu’!». 

Seguì telefonata quasi altrettanto storica: la nipote del Duce e la moglie di Almirante si dissero che An era finita, e bisognava rifondare la destra italiana, magari già con una lista alle Europee. Donna Assunta, che la candidatura l’aveva sempre rifiutata, quella volta ci stava pensando: «Ma secondo lei, un italiano di destra per chi dovrebbe votare? Per Mussolini, o per Gustavo Selva? Per Almirante, o per Publio Fiori?». Non si trattava di fondare un nuovo partito. Bastava riprendersi il vecchio.

«Guardi – spiegava donna Assunta – tutti parlano della svolta di Fiuggi . Ma che è successo a Fiuggi? La Destra Nazionale di mio marito è diventata Alleanza Nazionale. Sai la novità. Stessi dirigenti. Stessa sede. Stesso simbolo. Fini vuole andare oltre? Fare il partito unico del centrodestra? Benissimo! Vada! Però ceda la fiamma. A noi». Lei ne parlava come di un figlio perduto. «Io non so cosa gli sia successo, in Israele. L’ha visto? Sembrava drogato. Narcotizzato. Un bambino agli esami. Uno studente punito. Tutto tirato, in quel cappottino. Pareva un attore. Io a Gerusalemme ci sono stata, al Muro del Pianto mi sono commossa, però insomma anche ad Assisi, che ci sono pure Giotto e la cripta di San Francesco. Lui invece. Qualunque cosa gli avessero chiesto, purché portassero la kippah in testa, gli avrebbe detto di sì. Avrebbe rinnegato non solo i morti di Salò, non solo Mussolini, avrebbe rinnegato persino...persino...».

Giorgio Almirante era raffigurato nella sua vecchia casa ai Parioli 34 volte tra foto, busti, ritratti. Quasi un sacrario. Lettera di Brasillach dal carcere. Diploma di primo della classe, Torino, anno scolastico 1923. Il telefono intanto suonava senza tregua. Foto in doppiopetto al ricevimento di Juan Carlos. Servizio di piatti dono dello Scià di Persia. Citofono. «Chi chiama? Chiama l’Italia! Ma l’ha visto La Russa l’altra sera da Vespa? Quando ha spezzato la biro? Quanto soffriva, povero Ignazio. Suo padre non ha mai preso la tessera di An, è rimasto missino, e lui pure. Ma quale liberaldemocratico! Creda a me che lo conosco da quand’era ragazzo: Ignazio La Russa è un fervente mis-si-no! Di liberali in giro ce n’è fin troppi. Il nostro dev’essere il partito dei valori di Almirante: nazione e patto sociale». 

Duplice bracciale d’oro, triplice anello a ogni anulare, anello nobiliare al mignolo sinistro («sono stata sposata a un De Medici»), ottuplo giro di perle, Donna Assunta fremeva di indignazione ma non perdeva lucidità. «Ammettiamo pure che Salò sia una vergogna. Perché allora Fini è entrato nel Msi? L’avrà obbligato il dottore? Perché ha taciuto finora? Ha scoperto qualcosa che non sapeva?

Era il capo del Fronte della Gioventù, il leader dei giovani, che erano piuttosto accesi, e mio marito si occupava semmai di moderarli. I missini non sono antisemiti, già nel ‘67, guerra del Kippur, Almirante schierò il partito con Israele; avevamo amici ebrei, da Camponeschi due anni fa ho incontrato privatamente Shimon Peres, Barillari ci ha pure fotografati. Mi ha colpito però che Fini non abbia incontrato un solo palestinese. Ma come, quando Arafat veniva a Roma lo baciavano tutti, pure il Papa, e adesso neanche un saluto? Dicono che è malato. Che c’ha, la lebbra?».

Tusita portò il telefono: era di nuovo la Mussolini. «Alessandra! Oggi pomeriggio dovevo andare alla sezione della Balduina a distribuire le tessere, e non ci vado. Anzi, sai che c’è? Ci vado, non dò le nuove tessere, e dico agli iscritti: restituite le vecchie! Anzi, dev’essere Fini a restituirci la fiamma. Si vergogna? Benissimo. Vuole uscire dalla casa del padre? La lasci a noi. Alessa’ : la destra siamo noi». 

Dopo essersi sfogata, Donna Assunta abbassò la voce. «Sono sempre rimasta vicina ai Mussolini, in questi anni. Edda, una donna intelligentissima. Sempre silenziosi, sempre dignitosi. Adesso però sono indignati, e hanno ragione. Al povero Duce ne hanno fatte di tutte, l’hanno appeso a testa in giù, gli hanno sputato; che cosa c’era ancora bisogno di fare?

Sa perché Almirante tra cinque o sei candidati ha scelto Fini come erede? Perché era l’unico nato dopo la caduta del fascismo. Me lo ricordo Fini a Fiuggi. Piangevano tutti, lui fece il gesto di togliersi gli occhiali, ma forse fingeva, forse piangeva con la glicerina come gli attori. E’ un bravo ragazzo, voleva e vuole bene a mio marito, è capace, fa bella figura in tv. Ma non fa come faccio io, non va più in giro a stringere mani, firmare autografi, cenare con i militanti. 

E’ stimato, ma non credo sia davvero amato. Il nostro popolo amava Giorgio». Dicono che anche suo marito fosse un po’ un attore. “Veniva da una famiglia di artisti, ma soprattutto aveva il polso della folla. Arrivavano da tutta Italia ad ascoltarlo in piazza del Popolo, e lui li faceva ridere e piangere, sapeva provocarli e confortarli. Un giorno, lui lo sapeva, la destra sarebbe andata al governo”.

Altre foto. Viaggio in Spagna, dalla vedova e dalla figlia di Franco. Il matrimonio dei figli, Giuliana e Leopoldo, lo stesso giorno, 12 settembre 1987, Amalfi. «Vennero da tutti i paesi della costiera e pure da Napoli. Parevano le nozze della regina Elisabetta. Portavano limoni, ciambelle, ricotta fresca. Davano a Giorgio i bambini da baciare, si sporgevano per sfiorarlo: “Tuoccalo!”. Povera Giuliana, le hanno strappato il vestito. Lui stava già male. Sei mesi dopo è morto. Al terzo giorno di camera ardente pareva come levitato. Era disteso su un letto di tessere. 

Ho riempito tre sacchi con le tessere che i militanti gli avevano restituito in segno di omaggio, come a dire: con te muore il Msi». A chiederle di Berlusconi, rispondeva: «E’ un grosso impresario, ma mi pare troppo sicuro di sé”. Aveva molta simpatia per Francesco Storace. Ma il politico che stimava di più era Bettino Craxi. “Fu il primo a ricevere mio marito. Giorgio gli disse: “Guardi che io sono fuori dall’arco costituzionale…”. Lui rispose: “L’arco costituzionale è roba da De Mita”. Leader come Giorgio e Bettino non ne nascono più”.

Assunta Almirante, l'imperatrice madre del postfascismo. Stefano Cappellini su La Repubblica.it il 26 Aprile 2022.  

È morta a 100 anni la vedova di Giorgio Almirante. È stata per decenni la custode della "matrice", il galateo del neofascismo

La chiamavano l'Imperatrice madre. E l'impero, naturalmente, era quello postfascista di cui il marito di Donna Assunta, Giorgio Almirante, era stato leader assoluto per oltre 18 anni e guida carismatica per tutto il dopoguerra. Se non fosse che a lei, Assunta, la definizione di imperatrice piaceva eccome, quella di postfascista proprio no: "Giorgio non si è mai definito postfascista.

Un lungo secolo a destra: addio all'ultima testimone. Stenio Solinas il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

La morte a 100 anni della vedova del leader missino. Una vera "esule in patria", sconfitta ma mai rassegnata.

Per capire chi fosse donna Assunta Almirante, morta ieri a cento anni di età, o meglio, il carattere di donna Assunta, bisogna fare un salto all'indietro di mezzo secolo, il 1973 per la precisione. La scenario è rappresentato da un Motta-Grill, sull'autostrada del Sole, all'altezza del casello di Cantagallo. Insieme con il marito Giorgio, segretario del Movimento sociale italiano e il figlio di primo letto di lei, c'è come autista e amico il deputato missino Michele Marchio. Marchio è una buona forchetta, come il suo stesso fisico dimostra, ed è lui a proporre una sosta. Sono tutti in viaggio da Milano per Roma, dove l'allora presidente della Repubblica Leone sta procedendo con le consultazioni delle forze politiche. Donna Assunta ordina, come piatto unico, cotechino con lenticchie, dopotutto siamo in Emilia, il marito, che al cibo non ha mai fatto caso, una pastasciutta in bianco, di Marchio e del ragazzo la cronaca non ricorda le scelte, se non che oltre a un primo c'era un secondo. Sta di fatto che a un certo punto la scena si anima, la coda di chi deve ordinare si allunga, qualcuno protesta, si vedono gli inservienti dell'autogrill tutti a braccia conserte. «Siamo in sciopero» dicono a chi vorrebbe soltanto una lasagna... Non parla più nessuno.

Almirante, che intanto, incuriosito si è alzato, capisce e chiama il direttore: «Questo silenzio è in mio onore?» chiede. «Sono lavoratori della Cgil» risponde quello un po' impacciato. «Ah, capisco» replica Almirante e torna al tavolo: «Andiamo» dice al resto della compagnia. Donna Assunta però non ci sta: «Nemmeno per sogno. Voglio mangiare anche la frutta». Va al buffet, si serve da sola, torna a tavola, passano così altri venti minuti e intanto il silenzio si può tagliare con il coltello tanto l'atmosfera si è fatta pesante. «L'ho fatto per tigna, soltanto per tigna» ha raccontato anni dopo a Luca Telese in un libro che, non a caso, si intitolava Cuori neri...

Se quello era il clima, e quello era il clima, si capisce come e perché Assunta Almirante fosse insieme tignosa, da buona calabrese trapiantata a Roma, orgogliosa e gelosa, tutt'uno con il marito e con il partito da quest'ultimo guidato. Allora stavano già insieme da vent'anni, entrambi reduci da due matrimoni andati male, e insieme sarebbero rimasti sino alla morte di lui, nel 1988. Dopo, lei ne avrebbe custodito la memoria, rendendosi via via conto che il cavallo su cui aveva puntato in qualità di erede, con Almirante ancora vivo, ovverosia il quarantenne Gianfranco Fini, non era il purosangue, soprattutto da lei, immaginato.

Passare da protagonista a testimone non è mai un'impresa facile, ma donna Assunta ha saputo farlo con dignità e fermezza, senza tatticismi e mai nascondendosi dietro le parole, tenacemente difendendo una storia, di un marito, di un partito, di una comunità ideale, che era poi tutta la sua vita, e guadagnandosi in tal modo un consenso bipartisan, degli amici come dei nemici.

Sarebbe contrario alla verità dire che al tempo in cui era la moglie e insieme la «consigliera» di Almirante ci fosse all'interno del mondo missino un consenso indiscusso. Era un mondo misogino e in più, specie nella sua componente giovanile, numerosa, in proporzione, quanto quella del Pci, l'antagonista storico, e che si sentiva alternativa al sistema, se non rivoluzionaria, le intromissioni femminili dall'alto, non militanti, insomma, venivano viste come «borghesi», segno di indebolimento... Era stata sposata con un marchese molto più anziano di lei, donna Assunta, aveva gusti altolocati, aveva rivestito il nuovo marito, Almirante appunto, da capo a piedi, gli aveva imposto insomma abitudini, gusti e costumi «borghesi», la terribile parola d'ordine con cui quei poveri ragazzi fieri di aver scelto «la parte sbagliata» bollavano tutto ciò che odiavano. Lo dico per dare un'idea di che cosa fosse un mondo, non solo politico, ma ideale dove si militava senza alcuna idea di tornaconto, un ghetto chiuso per disperazione anche dall'interno e dove ogni sortita professionale fortunata e insieme fortuita veniva vissuta come un tradimento.

Con Assunta Almirante scompare un pezzo fondamentale di storia d'Italia, quella dei cosiddetti «esuli in patria», sconfitti e però mai rassegnati, custodi di un piccolo mondo antico a volte anacronistico, ma pulito, come sempre accade a chi non mette il suo dio nella carriera.

Italiani per bene, anche al tempo in cui chi si credeva democratico non avrebbe voluto, in nome della democrazia, nemmeno permettergli di bere un caffè... 

Quando smascherò Fini sulla casa di Montecarlo. Massimo Malpica il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Non perdonò mai a Gianfranco Fini quell'affare: "Almirante non aveva cognati..."

Ci sono leader e leader, cognati e cognati. Lei lo sapeva bene. Regina madre della destra italiana, Assunta Almirante già da moglie di Giorgio giocò un ruolo importante nel Msi. Fu proprio lei, ricordava, a «imporre» al marito nel 1987 la scelta di un 35enne Gianfranco Fini come segretario. Una decisione ponderata, spiegava Donna Assunta, che all'epoca apprezzava quel giovane politico ma che poi ne sarebbe diventata una spina nel fianco. «Sfiduciandolo» dopo la svolta di Fiuggi, per poi ripudiarlo quando, a fine luglio 2010, esplose lo scandalo della casa di Montecarlo. Quella lasciata in eredità per la «buona battaglia» al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni, e finita svenduta per 300mila euro a una serie di società offshore, che avevano scelto come inquilino Giancarlo Tulliani, il fratello della compagna del fondatore di An, Elisabetta.

La storia è nota, la reazione di Fini all'inchiesta del Giornale che la rivelò pure: Fini derubricò tutto a campagna di delegittimazione, sostenne che il giovane Tulliani aveva affittato quella casa a sua insaputa, sminuì l'evidenza solare del ridicolo prezzo di vendita, e promise di dimettersi se fosse stato provato che Tulliani era il vero proprietario dell'appartamento. Il caso spaccò la destra, molti ex missini gli voltarono le spalle dandogli del traditore, altri seguirono l'allora presidente della Camera nella sua ultima avventura politica, la nascita di Futuro e Libertà, appena due giorni dopo la pubblicazione del primo articolo sull'affaire monegasco del Giornale. Il seguito della storia sbugiardò l'ex leader di An. Prima un documento del governo di Saint Lucia, l'isola caraibica sede delle offshore (Printemps, Timara, Jaman Directors), attestò che proprio il cognato era il proprietario di fatto di quelle società, e quindi della casa. Poi, anni dopo, la vicenda riemerse come punta dell'iceberg di un'indagine per maxiriciclaggio connessa al «re delle slot» Francesco Corallo. Per gli inquirenti, proprio con i soldi di quest'ultimo Tulliani avrebbe «saldato» il prezzo d'occasione pagato ad An per l'appartamento, mentre metà dei soldi incassati rivendendolo (al vero prezzo di mercato, assicurandosi una plusvalenza da 1,2 milioni di euro) dopo lo scandalo erano finiti sui conti dei Tullianos, compresa Elisabetta. Fini si difese dandosi del «coglione». Ma per le Fiamme Gialle, l'affaire immobiliare era stato concordato da Corallo e dai Tulliani, «nella piena consapevolezza» di Fini. Che, nel 2018, fu rinviato a giudizio per riciclaggio con compagna, cognato e suocero per aver trasferito fondi del gruppo Corallo a società offshore.

Fini, oggi 70enne, si è eclissato. Il processo da quattro anni tarda a ingranare. Ma Donna Assunta ha fatto in tempo a emettere il suo verdetto, anche se solo morale e politico: una condanna senza appello. Disse che l'ex delfino, rinviato a giudizio, doveva restituire i soldi alla fondazione An. Ricordò che Giorgio Almirante, «non aveva cognati», tanto da trasferire subito al partito «altri appartamenti» donati dalla stessa contessa Colleoni. E, su Fini, tagliò corto: «Vorrei non averlo mai conosciuto».

MARIO AJELLO per il Messaggero il 27 aprile 2022.

Era la regina madre della destra italiana. «Fascista io? No, sono di destra ma quella vera e non voltagabbana». E in questo c'era, da parte di Donna Assunta Almirante, la sua critica alla svolta finiana di Fiuggi («Gianfranco fingeva di piangere mentre noi piangevamo sul serio»). 

Era un peperino («Sono come la nduja della mia Calabria»), spigliata e super-pop. Ora è morta Donna Assunta, a 100 anni, tutti vissuti al massimo e spesso fuori dagli schemi. Compresi quelli ideologici. Ha fatto simpatia a molti di sinistra (e alcuni di loro domani saranno ai funerali di massa nella chiesa di Piazza del Popolo) che ne hanno apprezzato una libertà di giudizio che sovente manca nel fronte progressista sia maschile sia femminile. 

In un secolo di vita, Donna Assunta di schemi ne ha rotti parecchi. Sposò Almirante, con cui stava dal 1952, soltanto nel 1969, dopo la morte del primo marito Federico de' Medici, da cui aveva già avuto tre figli. Ed è per questo che divenne una fervente sostenitrice del divorzio, difeso a spada tratta nel referendum abrogativo del 1974 anche se la linea del Msi era un'altra.

E' stata custode silenziosa di tutte le volte in cui Almirante incontrava di nascosto il segretario comunista del Berlinguer («Persona onesta e lineare»). E sarebbe rimasta in scena anche dopo la morte di Giorgio. «Io la adoro quasi fosse Mamma Rosa», le ha detto una volta Berlusconi. Il quale ora («Il Cavaliere? Più che altro un grosso imprenditore», e per lei questo non era un complimento) la piange come tutti. A cominciare dalla Meloni («E' stata un pilastro della memoria storica della destra italiana», scrive Giorgia) alla cui proposta di intitolare una strada di Roma ad Almirante, Donna Assunta rispose: «Non ce n'è bisogno».

Ruppe con Fini e alle Europee del '99 minacciò che avrebbe votato per la sinistra per contrastare «l'orrido elefantino» del progetto politico di Gianfranco e Mariotto (Segni). All'ultimo secondo, poi, non ce la fece. Scrisse sulla scheda un gigantesco «Evviva Almirante!». Avrebbe messo in riga, negli anni a venire, chiunque: anche i colonnelli di An ma è rimasta legatissima a Francesco Storace. Calabrese doc, Donna Assunta a luglio, per il suo centesimo compleanno, si è fatta suonare «Calabrisella mia».

Aveva tanti amici a sinistra e soprattutto un feeling anche mondano, con i coniugi Bertinotti. E pure con la famiglia Craxi. «Bettino fu il primo a ricevere mio marito. Giorgio gli disse: guardi che io sono fuori dall'arco costituzionale Lui rispose: l'arco costituzionale è roba da De Mita». Era nata Raffaela Assunta Stramandinoli, ma poi il secondo nome ha finito per imporsi sul primo. È stata un personaggio cult della vita romana, dispensatrice di stroncature feroci e carezze amorevoli. Di Mussolini diceva: «Ma proprio a testa in giù dovevano metterlo? E c'era proprio bisogno di sputargli addosso? Ma che gentaccia!». Ora Donna Assunta non c'è più e il presepe italiano perde un pezzo che lo ha animato assai.

Marcello Veneziani per “La Verità” il 27 aprile 2022.  

Assunta Almirante restò missina fiammante per tutta la vita. Anche se per lei il Movimento sociale italiano era il nome d'arte del suo grande amore, Giorgio Almirante, di cui lei era stata la grande fiamma e poi sua moglie. 

Donna Assunta era fiammeggiante nel temperamento, scoppiettante nel carattere e leggermente ustionante nel parlare, con lieve inflessione calabrese, nei colori vivaci a cui l'associo (me la ricordo come un quadro di Andy Warhol). Restò per la destra postfascista la Custode inflessibile del Fuoco di Vesta della Fiamma missina. 

Donna Assunta ha resistito al 25 aprile ed è morta alle prime ore di ieri; aveva già compiuto cento anni, ai nostalgici piacerà ricordare che è morta nel centenario della Marcia su Roma. Ma Donna Assunta era diventata dopo la morte di Almirante, un personaggio di prima fila nella vita pubblica italiana.

Dico prima fila non a caso perché avrò visto Donna Assunta in prima fila in eventi politici, spettacolari, teatrali, mondani e istituzionali almeno trecento volte. Non poteva mancare, a volte la sua presenza sanciva l'importanza dell'evento. E tra le tante sue prime file me ne ricordo una. Ero sul palco per un mio «comizio d'amore all'Italia» e in un video che lo accompagnava, con la colonna sonora Ritornerai di Bruno Lauzi, apparve il volto di Almirante in comizio. 

Lei sbarrò gli occhi, ebbe un sussulto e disse alzando le braccia «Madonna mia». La sua spontaneità espansiva, la sua mimica, la sua gestualità, raccontavano il personaggio.

Anche quando era in platea era sul palcoscenico. 

Donna Assunta diventò una celebrità dopo la scomparsa di Almirante. Fu vista di volta in volta come la Regina madre, la Vedova indomita, la Suocera della destra nazionale, la Maestra di catechismo almirantiano, la Madonna pellegrina della missineria impenitente; ma restò soprattutto la combattiva signora senza peli sulla lingua che non risparmiava nessuno.

Piaceva a destra ma non dispiaceva affatto a sinistra, e lei sapeva essere ammiccante anche con loro. Raccontò di molti incontri tra Almirante ed Enrico Berlinguer, forse più di quelli realmente accaduti e cavalcò l'onda del paragone tra i giganti gloriosi del passato e i nani infami del presente. Strapazzava i missini, poi aennini, poi fratellini, senza riguardi, ma loro devotamente pendevano dal suo rossetto. Trattava anche maturi ultrasessantenni come ragazzini. 

Picchiò duro su Gianfranco Fini dopo il suo «tradimento» e su tutti i colonnelli, a turno o insieme. Ricordo sue telefonate interminabili e appassionate su di loro, sulla Fondazione, magari in seguito a miei scritti. Negli ultimi tempi ricordo pure qualche piccola confusione: come quando disse che Almirante, sdegnato per come avevano trattato Bettino Craxi, andò a trovarlo nel suo esilio di Hammamet. Ma Almirante era morto cinque anni prima.

In realtà lei proiettava su Almirante, sentendosi la sua propaggine, la sua simpatia per Craxi. Ma, salvo qualche defaillance, la lucidità l'accompagnò nella lunga vecchiaia e nei 34 anni di onorata vedovanza.

Qualcuno le attribuì la colpa di aver suggerito lei ad Almirante di nominare Fini, e pure lei alla fine ci credette. Ma la scelta di Almirante fu dettata da due ragioni politiche comprensibili: Fini consentiva il salto generazionale postfascista ed era un leader adatto per un partito fondato sui comizi e l'oratoria. Gli altri notabili missini erano poco più giovani di Almirante se non più vecchi (come Pino Romualdi), non avevano capacità oratorie e televisive o esprimevano una linea di opposizione ad Almirante, per giunta con un'indole meno «politica» (come Pino Rauti o Beppe Niccolai). 

Lei magari aveva espresso un parere favorevole sul giovanotto Fini ma non è sensato pensare che Almirante, che considerava il Msi come la sua vita, decidesse di scegliere il suo successore su consiglio muliebre, seppure della sua sveglia consorte. 

Donna Assunta, al secolo Raffaela Stramandinoli, non volle mai scendere in politica e godere del voto riflesso, in memoria di Almirante; preferì esserne la custode e la vestale, arrivando perfino a parlare in suo nome («Giorgio non l'avrebbe mai fatto»).

Donna Assunta fu l'esempio di come una donna possa essere rispettata e perfino temuta, pur non essendo femminista né disponendo di alcun potere.

Gestì con salda e signorile noncuranza le voci sull'infedeltà di suo marito, ritenendole parentesi passeggere e irrilevanti, perché sapeva di essere lei saldamente al centro della sua vita affettiva e privata. La chiamavano tutti Donna Assunta, ma quel Donna stava anche nel significato classico di Domina. 

Con lei ho avuto un rapporto affettuoso e un po' omertoso: non ebbi mai il coraggio di dirle il mio dissenso da Almirante, né mai le raccontai uno scambio epistolare polemico con lui con sgradevoli conseguenze. Ma non volli mai rivangare con lei quei dissapori; il tempo è gran signore e i signori dimenticano, soprattutto per non dispiacere le signore.

Negli anni scorsi Donna Assunta restò imbottigliata nel traffico stradale: mi riferisco alle vie che si volevano intitolare ad Almirante in tutta Italia o che si voleva impedire di farlo, quelle che furono negate o cancellate appena cambiò la giunta dei Comuni. Donna Assunta fu tirata di qua e di là per esprimere pareri, giudizi, plausi e condanne, ma mantenne gelosamente la sua dignitosa indipendenza. Paradosso vuole che oggi sarebbe più facile dedicare una via a lei, Donna Assunta, che a suo marito. Sarebbe per lei una trionfale, postuma sconfitta. 

"Esempio di coerenza e attaccamento agli ideali". Francesca Galici il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Giuliana de Medici ha ricordato sua madre Donna Assunta Almirante, scomparsa a Roma all'età di 100 anni. Tante le dimostrazioni d'affetto.

A 100 anni è morta Donna Assunta Almirante, memoria della destra storica italiana. Si è spenta nella sua casa romana e fino a che ha potuto ha partecipato agli eventi politici insieme a sua figlia, Giuliana de Medici, con la quale si è spesa per lunghi anni per la fondazione Giorgio Almirante, custode di un patrimonio politico e culturale. "L'esempio che ci ha lasciato è la sua volontà incredibile, non si arrendeva di fronte a nulla", ha dichiarato Giuliana de Medici.

Donna Assunta Almirante ha saputo costruire attorno a sé una rete di grande influenza politica e il suo modo di essere e di pensare le hanno permesso di ricevere molti attestati di stima in vita, che ora si traducono in manifestazioni di vicinanza alla famiglia, così come rivelato da sua figlia: "Sto ricevendo tantissime dimostrazioni di affetto, le volevano tutti tanto bene". Fino alla fine, come sottolineato da Giuliana de Medici, Donna Assunta Almirante è stata "un esempio di coerenza e di attaccamento agli ideali e al suo uomo". Una dedizione stoica ed è "questo l'esempio più grande che ci ha lasciato".

Questo è il momento del dolore per la famiglia e per gli amici più intimi, che si sono stretti a Giuliana de Medici per supportarla e aiutarla ad affrontare la dipartita di sua madre, alla quale è sempre stata legatissima, soprattutto negli ultimi anni, quando Donna Assunta Almirante ha avuto più bisogno della vicinanza di sua figlia: "Una perdita enorme, perché tra noi c'era un rapporto speciale, soprattutto in questi ultimi anni eravamo sempre insieme e sempre vicine".

Donna Assunta Almirante nacque a Catania ma era ormai diventata romana d'adozione. Ha trascorso qui gran parte della sua vita e a Roma ha accentrato a sé la prosecuzione della destra italiana, della quale veniva considerata quasi la "regina madre". Ha dispensato consigli agli uomini della destra italiana fino alla fine ma non è stata mai tenera con gli stessi, ai quali non ha risparmiato nemmeno forti critiche. Per quanto fu una delle più grandi promotrici dell'ascesa di Gianfranco Fini alla guida del Msi, per esempio, criticò duramente la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l'Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza nazionale. Ha sempre avuto idee nette e determinate in tutte le vicende politiche che hanno interessato la destra italiana.

Addio a donna Assunta: a cento anni si spegne la moglie di Almirante. Il Quotidiano del Sud il 26 aprile 2022.

E’ morta Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta e considerata la memoria storica della destra italiana, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio.

Raffaela Stramandinoli, detta Assunta, era nata a Catanzaro ma era diventata romana d’adozione. Per decenni, anche dopo la morte di Almirante nel 1988, è stata la regina madre della destra italiana, dispensatrice di consigli ma anche di pesanti critiche, sponsorizzò Gianfranco Fini alla guida del Msi ma criticò la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l’Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza Nazionale.

“Donna Assunta Almirante ha segnato un’epoca della vita italiana. Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione”, dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri.

“Addio a donna Assunta Almirante,una delle donne più affascinanti e influenti di Roma,morta oggi a 101 anni. Voglio ricordarla con questa istantanea,accanto a Silvio Berlusconi, nel giorno del mio cinquantesimo compleanno”. Così il deputato Fi Gianfranco Rotondi postando su twitter una fota della vedova Almirante con il leader azzurro.

Assunta Almirante muore a 100 anni, la "Donna" dell'Msi: Giorgio, la destra e il "tradimento"di Fini. Libero Quotidiano il 26 aprile 2022.

È morta questa mattina 26 aprile Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio. Nata a Catanzaro aveva sposato in prime nozze il marchese Federico de' Medici, di 21 anni più anziano di lei, dal quale ebbe tre figli: Marco, Marianna e Leopoldo. Nel 1952 il colpo di fulmine per Giorgio Almirante che la portò a separarsi dal marito. Dalla loro unione nacque nel 1958 Giuliana, che porta il cognome de' Medici perché il marchese la riconobbe per evitare che venisse considerata una figlia illegittima.

Alla morte del marchese, Assunta sposò nel 1969 Giorgio Almirante in chiesa, con matrimonio tramite rito di coscienza, perché il divorzio non era ancora stato introdotto e anche lui era legato da un precedente matrimonio civile, con Gabriella Magnatti, da cui aveva divorziato in Brasile e dal quale era nata una figlia nel 1949, Rita Almirante.

Da sempre Donna Assunta è stata considerata la memoria storica della destra italiana. Fu lei a sponsorizzare l'elezione di un giovane Gianfranco Fini nel 1987 a segretario del Msi. Fu critica nei confronti della Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l'MSI-DN diventò in larga parte Alleanza Nazionale e nel 2007 partecipò all'assemblea costituente de La Destra di Francesco Storace, stigmatizzando la fusione di AN con Forza Italia nel Popolo della Libertà e la successiva scissione che portò Fini a fondare Futuro e Libertà per l'Italia.

"Donna Assunta Almirante ha segnato un'epoca della vita italiana", ha commentato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. "Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione", ha concluso. 

Vedova di Giorgio Almirante. È morta donna Assunta Almirante, aveva 100 anni: “Scompare la memoria storica della destra”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Aprile 2022.

La chiamavano Donna Assunta Almirante, vedova di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. Aveva compiuto 100 anni lo scorso luglio, si è spenta nella sua casa romana. Nata a Catanzaro come Raffaela Stramandinoli, era considerata la memoria storica della destra italiana e anche un punto di riferimento per tanti.

“Un esempio di coerenza e di attaccamento agli ideali e al suo uomo, questo l’esempio più grande che ci ha lasciato. Aveva una volontà incredibile, non si arrendeva di fronte a nulla – racconta all’Adnkronos la figlia, Giuliana de Medici – Una perdita enorme, perché tra noi c’era un rapporto speciale, soprattutto in questi ultimi anni eravamo sempre insieme e sempre vicine. Sto ricevendo tantissime dimostrazioni di affetto, le volevano tutti tanto bene”.

Donna Assunta, calabrese di nascita e romana di adozione, dopo il primo matrimonio con il marchese Federico dè Medici, si sposò con Almirante nel 1969. Per decenni, anche dopo la morte del marito nel 1988, è stata la “regina madre” della destra italiana, dispensatrice di consigli ma anche di pesanti critiche, sponsorizzò Gianfranco Fini alla guida del Msi ma criticò la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l’Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza Nazionale. Nel 2007 partecipò all’assemblea costituente de La Destra, il partito fondato da Francesco Storace e Teodoro Buontempo.

Con il marito Giorgio fu amore a prima vista. All’epoca, il 1952, lui era deputato. Lasciò il primo marito da cui aveva avuto tre figli. Dalla relazione con Almirante ne nacque un’altra nel 1958. Solo nel 1969, dopo la morte di Federico de’ Medici, Assunta e Giorgio poterono sposarsi. Ed è per questo che si schierò apertamente a favore del divorzio in occasione del referendum del 1974. La sua diventò una voce libera e dissonante all’interno della destra italiana, un ruolo che mantenne per tutta la vita.

Il primo a ricordare Donna Assunta Almirante è stato Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: “Ha segnato un’epoca della vita italiana. Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La scomparsa. Chi era Assunta Almirante, la sacerdotessa della Prima Repubblica morta a 100 anni. David Romoli su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Sono certamente intrisi di nostalgia gli omaggi praticamente unanimi, quasi più da parte dei nemici che degli amici, che hanno salutato ieri la scomparsa della centenaria Raffaela Stramandinoli, nata a Catanzaro il 14 luglio 1921, da sempre e per tutti Assunta, dal 1969 in Almirante. Nostalgia per la prima Repubblica però, non per il fascismo che lei, peraltro, trattava con sufficienza, quello vero e quello degli eredi guidati dal marito: “Non sono mai stata fascista e non ho mai abbracciato in toto la cultura del Msi”.

Di destra, questo sì e a viso aperto. Orgogliosamente conservatrice: “Dio patria e famiglia”. Almirantiana sempre e con trasporto ma non al punto di seguire ciecamente. Nel 1974, quando il marito, dicono di malavoglia, schierò il Msi a fianco della Dc nella crociata contro il divorzio, lei si schierò dalla parte opposta. Tra la coerenza alla sua biografia e la ragione di partito, anzi del segretario di partito, scelse la prima. Dal 1952 al 1969 aveva vissuto con il futuro leader del Msi, già coniugato e padre di una figlia. Sposata lo era anche lei, con il marchese De’ Medici e già madre di tre figli. La quarta, Giuliana, figlia di Giorgio, sarebbe nata nel 1959 e il marchese, generoso, avrebbe accettato di darle il nome per non renderla “illegittima”. Per sposarsi, nel 1969, la coppia aveva dovuto ripiegare sul “rito di coscienza”, che consentiva al sacerdote di unire in matrimonio senza tener conto dei vincoli civili. Di più, senza divorzio non si poteva fare.

Di politica Assunta Almirante si è sempre impicciata ma senza mai ammetterlo, almeno fino alla morte del marito nel 1988. Ancora un anno prima, mentre brigava a più non posso per insediare al posto del dimissionario e malato coniuge il protetto Gianfranco Fini, s’infuriava a sentirselo rinfacciare: “Non ho mai sponsorizzato nessuno e non lo farò certo adesso. Anche perché mio marito non si fa portare per mano da nessuno e io non mi sognerei di interferire nelle sue decisioni politiche”. Interferiva invece, ma dietro le quinte. Convincendo. Ricorrendo alla suasion che il ruolo sommato al carattere le consentivano. Anche in questo donna Assunta Almirante era decisamente “prima Repubblica”, un’epoca in cui le mogli incidevano molto più di quanto i leader non fossero disposti ad ammettere ma da casa, esercitando un potere non codificato ma inesorabile. Lei stessa lo ammetteva, ironica solo a metà, quando si definiva “imperatrice madre” del Msi.

Allo scoperto uscì solo dopo la morte del marito, legittimata più dal ruolo di vestale della sua memoria che dall’appartenenza politica propriamente detta. La casa dei Parioli, abitata sino all’ultimo giorno, era quasi un altare: di immagini del marito, fotografato, scolpito o dipinto se ne contavano 34. I cimeli sarebbero bastati a riempire una mostra nella quale avrebbe figurato buona parte della destra europea della seconda metà del secolo. Come sacerdotessa del culto di san Giorgio, quando Pino Rauti spodestò il delfino Gianfranco e lo rimpiazzò alla segreteria, passaggio del resto effimero e fulmineo, l’agguerrita calabrese, tanto determinata che il marito la chiamava scherzosamente “il mio Adolf”, chiamò alle armi il popolo missino, minacciò di invocare l’occupazione delle sezioni provocando le comprensibili ire dell’usurpatore.

Eppure nessuno meritò i suoi strali e fu da quelli più bersagliato dell’un tempo protetto numero uno, Gianfranco “il traditore”. Tradimento nei confronti del partito che nel 1994 sciolse per ribattezzarlo Alleanza nazionale, certo, ma soprattutto tradimento nei confronti di suo marito, rinnegato nel 1994 dall’erede e con lui da tutti “quei giovani che hanno oggi il potere grazie a Giorgio, che hanno avuto tutto dal partito e ci sputano sopra, vogliono liquidarlo . Pensare che Giorgio li ha allevati, li ha cresciuti, ha dato loro un patrimonio morale”.

Fu la sola la prima delle molte delusioni che il delfino le diede. Poi arrivarono la sfortunatissima alleanza con Segni, e quella volta non se la sentì di votare per l’Asinello a metà con Mariotto, anzì minacciò persino, massima bestemmia “di votare per la sinistra”. Poi lo storico viaggio in Israele che le andò più che mai di traverso: “Qualsiasi cosa gli avessero chiesto avrebbe detto sì. Avrebbe rinnegato Salò, Mussolini e persino…”. Persino Almirante intendeva dire anche se di fronte al cronista del Corriere che ne registrava lo sdegno il nome non riuscì a pronunciarlo. Per un attimo donna Assunta fu tentata di scendere in campo in prima persona, anche candidandosi in nome di un partito “fondato sui valori di Almirante”.

Ma il sempre più ostentato disprezzo per la generazione opportunista, disinvolta e cinica di cui vedeva in Fini il rappresentante più subdolo e deludente non derivava dal culto per il regime ma dal rispetto, certo ammantato di ricordi nostalgici, per la Repubblica della quale il marito era stato a modo suo uno dei protagonisti. Per Nilde Iotti, l’ “irripetibile”. Per il sempre rispettato (anche da Giorgio Almirante) Enrico Berlinguer, per Bettino Craxi, il preferito: “Uomini come loro non ne nascono più”. Raffaella Assunta Stramandinoli Almirante era una donna della prima Repubblica e attraverso il culto per suo marito Giorgio aveva finito per diventare a modo suo una sacerdotessa di quella Repubblica. Chi ieri la ha salutata commossa, salutava con lei anche quello che in fondo tutti considerano, da ogni punto di vista ma soprattutto in politica, un tempo migliore. David Romoli

Donna Assunta, quando la personalità ti fa diventare un personaggio. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 27 Aprile 2022.

Dopo Maria Sofia, lei. Dopo la Tedeschina – amata sovrana del Regno delle Due Sicilie – l’altra Regina del Sud è stata lei, Donna Assunta.

Nata cento anni fa a Catanzaro, vedova di Giorgio Almirante – il leader storico della Destra italiana – Assunta, all’anagrafe Raffaella Stramandinoli, non è solo la memoria di una stagione politica ma una protagonista attiva della politica nel meridione.

Pur nel ruolo di compagna e poi moglie del segretario nazionale del Msi, Donna Assunta affina la sua indiscussa capacità di comando nell’attività imprenditoriale prima, in Calabria – presso le sue proprietà ­– e, dopo, nella tessitura politica facendosi a volte portavoce ma, ancor più spesso, regista di tante raffinate strategie.

Quasi un’identità tutta al femminile quella della destra in Calabria.

In una terra dove, in particolar modo dopo la sconfitta dell’Italia, le donne non hanno un ruolo ancillare – basti pensare a Jole Giugni Lattari o alla spericolata marchesa De Seta Pignatelli – la signora Almirante, mai dimentica delle sue origini, neppure nella sua parlata tutta di aspirate, è una vera e propria comandiera.

Nella sua casa di Roma, nel quartiere Parioli, mai la porta è chiusa a chi, soprattutto dal Sud, si rivolge a lei in vista di un progetto politico o elettorale. È lei a decidere il successore del marito alla guida del Movimento Sociale; sceglie lei, infatti, Gianfranco Fini ma è in Sicilia – con Enzo Trantino – che individua il vero erede di Giorgio Almirante.

La storia del suo partito, il Msi, trova in lei il capitolo esistenziale di un impasto fatto di realismo, sentimento e coraggio.

La sua indiscussa generosità – anche nell’aiuto materiale a chi manca di pane – si svela poi, politicamente, in un vero e proprio apostolato presso i più remoti angoli d’Italia.

Va ovunque per aiutare nelle campagne elettorali gli amici, come il terronissimo Baldo Licata – illustre primario dell’ospedale Sant’Antonio, candidato a Padova – dove Donna Assunta è accolta dal sindaco della città, il pur comunista Flavio Zanonato, in una tre giorni di cavalleresco confronto di mondi lontanissimi, e non soltanto distanti politicamente, anche geograficamente!

Una personalità che sa farsi personaggio, quella di Donna Assunta.

Forte, di gran carattere, forgia la grezza e genuina natura del marito per farne un vero e proprio modello di stile: il Doppiopetto di Giorgio Almirante, grazie a lei, s’impone quale proposta di maturità politica di una destra moderna sull’arruffata giovinezza della generazione uscita sconfitta dalla guerra , e costretta ai margini al tempo del famigerato “Arco Costituzionale”, quell’intesa volta a escludere la destra dall’agone politica messa in cantina, infine, tra le paccottiglie dell’odio, dalla lungimiranza di Bettino Craxi.

A proposito di Craxi, ieri, le parole più belle nell’addio a Donna Assunta, sono state quelle della figlia del leader socialista, ovvero Stefania.

Quasi un intendersi tra perseguitati, l’affetto tra queste due donne.

«Ho fatto la sua conoscenza in anni non facili della mia vita e della vita del Paese. Erano gli anni a ridosso di Tangentopoli e mentre molte persone, anche presunti amici e compagni di una vita facevano finta di non conoscermi o si voltavano da un’altra parte. Donna Assunta mi fu vicina e si comportò da vera amica, pur venendo da storie e mondi diversi».

Storie e mondi diversi. Come la sincera amicizia con Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista che, nel salutarla, dice una cosa ormai inaudita nell’Italia “liberal-occidentale” di oggi: «Da frontiere opposte si poteva parlare».

Una Regina del Sud, Donna Assunta. Non c’era città – paese, contrada e perfino cortile del Mezzogiorno d’Italia – dove lei non abbia ripercorso i passi del marito per non farlo dimenticare ma, in fondo, per non dimenticarsi di se stessa e del suo preciso dovere.

Quello proprio della comandiera.

Che sempre fa, e che sa.

Col cuore e con la passione.

Nel coraggio di chi fa, e di chi sa.

Come toccare e vivere storie e mondi sempre diversi.

Roma, folla ai funerali di Donna Assunta Almirante. «Lei memoria storica della destra». I saluti romani. Diana Romersi su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.  

Il feretro accolto da molti esponenti politici. Gianni Alemanno: «Mai incline al compromesso». Storace silenzioso e con gli occhi lucidi.

«Camerata Assunta Almirante, presente!», il comando prima detto da pochi, quasi a bassa voce, poi con sempre più audacia. L’ultimo saluto a Raffaella Stramandinoli, moglie del leader del Movimento sociale italiano Giorgio Almirante, si conclude con il braccio teso. Davanti alla Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo, sono le mani che si sollevano, una dopo l’altra, per il saluto romano a dare man mano coraggio a chi non rinnega il proprio passato fascista e, anzi, preferisce ostentarlo. Davanti al feretro coperto dalla bandiera tricolore un militante in polo nera commenta: «La fiamma non si è spenta».

In una piazza assolata e nuovamente percorsa da turisti, i primi ad arrivare insieme al feretro di Assunta Almirante erano stati i figli Marco, Leopoldo e Marianna De’ Medici, accompagnati da nipoti, familiari, amici come la vedova del senatore Italo Viglianesi. Assente per malattia la figlia Giuliana De’ Medici. Pochi inizialmente i vecchi nostalgici con mascherine e bandiere tricolori ad aspettare l’inizio delle celebrazioni, molti di più i politici ad affacciarsi dentro la navata.

L’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ha infilato il portone della chiesa senza parlare e con gli occhi lucidi. E a dire addio alla centenaria Assunta Almirante sono arrivati anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, l’ex sindaco Gianni Alemanno, i vicepresidenti di Camera e Senato, Ignazio La Russa e Fabio Rampelli. Domenico Gramazio sotto il colonnato apre la bandiera italiana a favore di telecamere. Poi, ancora, i leghisti Mauro Lucentini e Francesco Lollobrigida, di Fratelli d’Italia, Isabella Rauti, i forzisti Maurizio Gasparri e Gianfranco Rotondi e il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci.

«Teneva ai valori veri della destra, ha sempre contrastato qualsiasi tendenza al compromesso, verso il mondo moderato», ha detto l’ex sindaco di Roma Alemanno. Durante le celebrazioni, è stata la lettera del nonno Giorgio Almirante, letta dal nipote Gabriele, a provocare commozione e applausi nella chiesa gremita. «Lotto disperatamente perché tu non mi lasci», scrisse Almirante alla sua Assunta, «donna libera e anticonformista».

Applausi per il feretro di Donna Assuna Almirante all'arrivo in chiesa. Francesca Galici il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Grande affluenza per i funerali di Donna Assunta Almirante nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma. Presente anche Giorgia Meloni.

Si sono svolti nella chiesa di Santa Maria in Montesanto di Roma, nota anche come chiesa degli Artisti, i funerali di Donna Assunta Almirante, memoria storica della destra italiana morta lo scorso 26 aprile all'età di 100 anni. L'ingresso del feretro in chiesa è stato accolto da un lunghissimo applauso da parte dei presenti, che si sono ritrovati in piazza del Popolo per offrire l'ultimo saluto alla vedova di Giorgio Almirante.

In chiesa, ad attendere la bara di Donna Assunta Almirante, c'erano i figli Marco, Leopoldo e Marianna De Medici. Non era, invece, presente Giuliana, che non ha potuto presenziare per malattia. Tanti i volti noti della politica italiana, soprattutto gli esponenti di destra, che hanno voluto salutare per l'ultima volta Donna Assunta Almirante, che per lunghi decenni è stata protagonista della politica italiana, sebbene non abbia mai partecipato attivamente alla vita dei Palazzi di Roma. Presenti, nella chiesa degli artisti di piazza del Popolo, l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, ma anche i forzisti Maurizio Gasparri e Gianfranco Rotondi.

Tra gli ultimi a entrare in chiesa anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, seguita dal vicepresidente del Senato Ignazio La Russa. Santa Maria in Montesanto era stracolma di gente, accorsa in piazza del Popolo per omaggiare la memoria di una delle donne che ha maggiormente influenzato la politica di destra tra la prima e la terza Repubblica. Al termine del funerale, Giorgia Meloni ha lasciato la chiesa tra le urla di incoraggiamento dei presenti. Dalla piazza si sono alzati diversi "dai Giorgia" e "forza Giorgia".

In un'intervista rilasciata al Corriere della sera, Francesco Storace ha ricordato che Donna Assunta Almirante "partecipò alla promozione della rinascita di An. Ricordo un pranzo nella sua casa ai Parioli. Voleva l'unità tra noi e Giorgia Meloni ma l'operazione non riuscì, più per volontà mia, lo ammetto". Per Storace, Donna Assunta "era umanissima e animata da un grande spirito di solidarietà, se veniva a conoscenza di persone in difficoltà un minuto dopo si attivava per portare il suo aiuto".

Mario Ajello per “il Messaggero” il 29 aprile 2022.

La Pax Assunta, ovvero in nome della vedova di Almirante scomparsa l'altro giorno a 100 anni, viene celebrata nella chiesa degli artisti a Piazza del Popolo. In un funerale che riesce a far dimenticare, per una mezza giornata, le divisioni e anche gli odi personali e politici che hanno diviso il mondo che fu missino, poi An e a seguire. 

Donna Assunta è riuscita nel miracolo di ricomporre la diaspora intorno alla fiamma della sua simpatia e ci sono tutti quelli che contano intorno alla bara avvolta in una bandiera tricolore portata in chiesa da Gramazio detto Er Pinguino, storica figura della destra romana. La Meloni uber alles. 

«Giorgia dai siediti nelle prime file», le dicono e lei che all'inizio sta tra la folla si avvicina ai posti che contano ma non vuole essere protagonista nonostante gli incitamenti: «Ormai ci resti solo tu, e Salvini te lo mangi in un boccone».

E Storace, Gasparri, La Russa, Alemanno, Nello Musumeci (il governatore siciliano che fu almirantiano super-doc e adorato dagli ex camerati romani), Isabella Rauti, l'editore Angelucci vestito come un giovincello (ma fa amarcord: «Con Ciarrapico e Donna Assunta eravamo un super trio»), lo storico portavoce almirantiano Massimo Magliaro. Ed ecco Fabio Rampelli, occhio a Lollobrigida e Lavinia Mennuni di FdI e al senatore Peppino Valentino, presidente della Fondazione An. 

Si sente dire alle sue spalle: «Non si poteva allestire nella Fondazione la camera ardente per Donna Assunta? Ci sarebbe stata una processione, e Assunta diventata la nuova Evita Peron!».

Chi non c'è, in tanto revival di An e di pre-Fiuggi e di post-Fiuggi, è Fini, pupillo poi ripudiato da Donna Assunta. «Se arriva je menamo», si lascia sfuggire un robusto signore con la t-shirt nera. Ma c'è, venerata, l'ex moglie Daniela Di Sotto. «È una di noi», dicono tutti, «mica come quel badogliano di Gianfranco...». E chissà se Daniela, che non ha mai rinnegato le origini e neppure la Lazio, ora diventerà la regina madre del post-fascismo alla romana visto che la titolare non c'è più. 

Daniela Di Sotto viene riverita dentro e fuori dalla chiesa («Finché era in carica lei, come moglie, Fini rigava dritto...») in questo mix nobiliare (principi o aristocratici di super destra qua e là nelle sacre navate, e uno si presenta così:

«Sono Antonio Foschini, segretario particolare del principe Ruspoli»), centrista (occhio a Gianfranco Rotondi che ora punta su Giorgia in chiave neo-leader di una sorta di neo-Pdl, l'ex uddiccino Pino Galati e la moglie ex deputa leghista Carolina Lussana più un altro parlamentare del Carroccio: Mauro Lucentini), pop (ex militanti del Msi dal fisico potente ma diventati bonari dopo gli indimenticabili anni 70 come Er Colonnello, questo il mitico soprannome, che era della sezione di Colle Oppio e racconta: «Mi ricordo qui davanti al comizio di Almirante contro il divorzio che c'era Donna Assunta sotto il palco e diceva: in questo referendum non sono d'accordo con Giorgio ma lo amo lo stesso e sempre di più»), salotto capitolino trasversale (Marisela Federici, Marisa Stirpe: peccato che manca Lellona Bertinotti ma c'è Antonio Razzi il baffuto responsabile che fa i siparietti tivvù) ), di berlusconismo da cene galanti (guarda chi si vede: Gianpy Tarantini), socialisti come Donato Robilotta (consigliere regionale Psi ma in pista anche successivamente e ottimo personaggio: «Domma Assunta ha difeso Craxi durante Tangentopoli, anche dagli attacchi che venivano da destra»), An con tutte le sue correnti riunite (dalla Destra Sociale a Destra Protagonista) e via così. 

Anche con l'immarcescibile mondo missino pariolino e spicca su tutti il magnifico Filippo Pepe, che gli ex camerati chiamano Lippo e lui dall'angolo visuale di Piazza Pitagora e Ungheria sa tutto di questa comunità di affetti (e liti) oltre che di ex ideologie: «Avrei voluto una maggiore partecipazione di tutta la destra, perché Donna Assunta oltre ai buoni consigli portava anche tanti voti». Conferma il democristiano Rotondi: «Era un panzer da tutti i punti di vista. È stata madrina, insieme a Maria Pia Fanfani, alla festa dei miei 50 anni. Berlusconi era seduto in mezzo a queste due super-donne e spariva». 

L'ALTARE E i familiari? Ovvio: sono al centro della scena. Mancava la figlia Giuliana, perché ha il Covid, ma ci sono gli altri tre e uno di loro, Poldo, aspetta i partecipanti all'ingresso della chiesa: «Ao, so' vent' anni che non ci vediamo...». 

Il nipote Lorenzo Pompei legge dall'altare una lettera a Donna Assunta e alla fine si scopre che era una vecchia missiva di Almirante alla moglie: «Tu sei ovunque vado io, ovunque sono io...». 

Non pochi si commuovono. Ed è molto scosso Storace, il prediletto di Donna Assunta. Racconta: «Stamattina ho chiamato Mancini, il deputato del Pd amicissimo di Gualtieri, e gli ho detto: a Cla', ma metti la fascia tricolore addosso a Gualtieri e fallo venire qui al funerale. Ma niente, la sinistra ha perso una grande occasione di civiltà». 

O forse ha voluto evitare imbarazzi. Questo è stato un funerale poco fascio, per dirla con linguaggio retrò, ma piuttosto variegato.

Se però fossero mancati alla fine i saluti romani, la scena sarebbe stata un po' ipocrita. E allora, eccoli: una trentina di braccia tese quando esce. Con il coro più scontato che ci sia, ripetuto tre volte: «Camerata donna Assunta...Presente!». Qualcuno aggiunge: «A noi!». I politici fuori dalla chiesa fanno finta di non sentire e tutti gli altri non si sorprendono e non s' indignano. Mentre la Meloni, quando partono le mani tese e i gridi di battaglia, è già andata via.

·        E’ morto l’industriale Antonio Molinari.

Addio mister sambuca, così Molinari portò la dolce vita nel mondo. Valentina Conte su La Repubblica il 25 Aprile 2022.  

Era il presidente della casa produttrice del celebre liquore all’anice. Membro di una famiglia che ha attraversato la storia d’Italia. "Non è Sambuca, è Molinari", recitavano i Carosello degli anni '60, quelli della Dolce Vita e dei bar felliniani di Via Veneto, tra Cafè de Paris e Caffè Strega, che servivano un liquore nuovo all'anice stellato, da gustare liscio, ghiacciato o "con la mosca", con due chicchi di caffè dentro. Quel liquore molto italiano, veniva da Civitavecchia, reinventato da Angelo Molinari, il capostipite classe 1893 di una famiglia industriale romana che sabato ha perso il suo presidente Antonio, Tonino, 81 anni, figlio di Angelo e padre di Mario, Inge e Angelo, la terza generazione proiettata a diffondere quel liquore, prodotto dai due stabilimenti di Civitavecchia e Colfelice, in provincia di Frosinone (60 mila bottiglie...

«Un caffè corretto Sambuca». E la sambuca per definizione è Molinari. D’ora in poi però il liquore all’anice stellato dal tipico sapore dolce avrà un retrogusto un po’ amaro. È morto sabato 23 aprile di mattina, all’età di 81 anni, Antonio Molinari, l’imprenditore presidente di Molinari Italia che, assieme al padre e ai suoi fratelli - tutti scomparsi prima di lui - ha reso celebre nel mondo la Sambuca made in Italy. Ad annunciare la scomparsa sono stati, con una nota, la moglie Daniela e i figli Angelo, Inge e Mario. «Uomo brillante e lungimirante imprenditore - scrivono i familiari nel messaggio - ha dedicato la sua vita all’azienda e alla famiglia, fin da giovane in azienda insieme al padre Angelo e ai fratelli Mafalda e Marcello, ne ha preso poi le redini portandola, con passione e dedizione, grazie al suo forte intuito imprenditoriale ed alla sua visione innovativa e fuori dagli schemi, al successo di oggi e lanciandola a livello internazionale. Tutti i dipendenti e collaboratori si stringono al dolore della famiglia Molinari e ne onorano il ricordo ispirandosi ai valori di responsabilità, onestà e rispetto di cui è sempre stato promotore».

Il cordoglio del sindaco di Civitavecchia

«Non è un bel giorno per Civitavecchia - ha scritto il sindaco della città Ernesto Tedesco - . Ci ha lasciati Antonio Molinari, capace di trasmettere una grande passione e la professionalità adatta per sostenerla ai massimi livelli mondiali, ai suoi splendidi figli, cui va il mio abbraccio. Ciao Tonino, persona limpida ed esemplare, insieme agli indimenticati Marcello e Mafalda, con i quali è di diritto nell’elenco dei grandi imprenditori della nostra città».

Sambuca «extra», la storia inizia nel 1945

L’azienda è fondata a Civitavecchia dal padre Angelo Molinari nel 1945 , in una città distrutta dalla Seconda guerra mondiale. La Sambuca prodotta si differenzia dalle altre in commercio perché si basa su una formula a base di «anice stellato», e in quanto «pregiata», vi aggiunge la denominazione «extra». Come per la Coca-Cola, la ricetta è tenuta segreta. Il liquore, venduto inizialmente nei bar della città portuale, si diffonde e arriva a Roma dove comincia a diventare popolare tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando esplode il fenomeno della «dolce vita» raccontata da Federico Fellini e i barman dei locali di via Veneto offrono la Sambuca con un chicco di caffè: nasce così la «Sambuca con la mosca». Nel 1959 sorge il primo stabilimento e l’azienda cominciare a farsi conoscere facendosi pubblicità in tv e sulla radio con testimonial quali Carlo Giuffré, la top model Veruska, Adriano Panatta, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Walter Chiari, Sidney Rome, il campione di Formula 1 Mario Andretti e, più di recente, José Mourinho. «Persino Frank Sinatra, grande estimatore della Sambuca Molinari - si legge sul sito aziendale - ne è così entusiasta da scrivere una lettera alla famiglia Molinari in cui ne tesse le lodi».

Il passaggio del testimone ai figli

Nel 1974 viene inaugurata a Colfelice (Frosinone) la Molinari Sud spa, un nuovo stabilimento ad alto livello di automazione «con una capacità produttiva - si legge sempre nella storia dell’azienda - che arriva a battere il record di 60.000 bottiglie al giorno». Dal 1975, in seguito alla scomparsa di Angelo Molinari, i figli raccolgono il testimone. Ora con la scomparsa di Antonio, che nel 2014 aveva lasciato la guida, l’azienda è definitivamente nelle mani dei figli Angelo, Mario e Inge, che presiede la Fondazione «Angelo e Mafalda Molinari Onlus», creata nel 2006 per onorare la memoria dei nonni. I funerali sono previsti nella Cattedrale di Civitavecchia alle 15.30 di martedì 26 aprile.

Ignazio Riccio per ilgiornale.it il 25 aprile 2022.

Acqua, zucchero, erbe naturali e oli essenziali, della varietà di anice stellato. Sono questi gli ingredienti base della Sambuca, il liquore italiano dal sapore dolciastro famoso in tutto il mondo grazie al lavoro certosino portato avanti da Antonio Molinari, presidente dell’omonima azienda produttrice della bevanda alcolica, insieme alla sua famiglia. 

L’imprenditore è morto all’età di 81 anni, dopo aver amministrato per decenni, con i fratelli Marcello e Mafalda, la storica impresa di Civitavecchia fondata dal padre Angelo. 

Ad annunciare la scomparsa del presidente della Molinari Spa sono stati la moglie Daniela e i figli Angelo, Inge e Mario. “Uomo brillante e lungimirante imprenditore – hanno scritto in una nota i familiari – ha dedicato la sua vita all'azienda e alla famiglia, fin da giovane in azienda insieme al padre Angelo e ai fratelli Mafalda e Marcello, ne ha preso poi le redini portandola, con passione e dedizione, grazie al suo forte intuito imprenditoriale e alla sua visione innovativa e fuori dagli schemi, al successo di oggi e lanciandola a livello internazionale. 

Tutti i dipendenti e collaboratori si stringono al dolore della famiglia Molinari e ne onorano il ricordo ispirandosi ai valori di responsabilità, onestà e rispetto di cui è sempre stato promotore”. 

La storia della Sambuca è legata indissolubilmente a quella dell'azienda fondata nel 1945. La Sambuca prodotta si differenzia dalle altre in commercio perché si basa su una formula a base di anice stellato, e in quanto pregiata, vi aggiunge la denominazione “extra”. Il prodotto è diventato popolare già tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando a Roma esplose il fenomeno della "dolce vita", raccontata da Federico Fellini. A quel tempo, i barman dei locali di via Veneto offrivano la Sambuca con un chicco di caffè; nacque così la "Sambuca con la mosca". 

Nel 1959 fu realizzato il primo stabilimento e l'azienda cominciò a fare anche pubblicità con alcuni spot televisivi e radiofonici diventati storici, con testimonial del calibro di Carlo Giuffré, della top model Veruska, di Adriano Panatta, di Paolo Stoppa, di Rina Morelli, di Walter Chiari, di Sidney Rome, del campione di Formula 1 Mario Andretti, e, in anni recenti, dell’allenatore di calcio José Mourinho. Tra le curiosità ricordate sul sito dell'azienda anche la lettera scritta da Frank Sinatra nella quale “The voice” tesseva le lodi della Sambuca della quale era grande estimatore. 

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