Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA SOCIETA’

QUARTA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

         

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Le profezie per il 2022.

I festeggiamenti di capodanno.

Il palindromo.

Il Primo Maggio.

Il Ferragosto.

73 anni dalla tragedia di Superga.

65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.

60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.

52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

51 anni dalla morte di Louis Armstrong.

50 anni dalla morte di Dino Buzzati.

49 anni dalla morte di Bruce Lee.

49 anni dalla morte di Anna Magnani.

45 anni dalla morte di Elvis Presley.

43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.

42 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.

40 anni dalla morte di Marty Feldman.

40 anni dalla morte di John Belushi.

40 anni dalla morte di Beppe Viola.

37 anni dalla morte di Francesca Bertini.

34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.

33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.

33 anni dalla morte di Olga Villi.

32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

31 anni dalla morte di Miles Davis.

30 anni dalla morte di Marisa Mell.

29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

28 anni dalla morte di Moana Pozzi.

28 anni dalla morte di Kurt Cobain.

28 anni dalla morte di Massimo Troisi.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Gianni Versace.

25 anni dalla morte di Ivan Graziani.

24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.

24 anni dalla morte di Frank Sinatra.

23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

22 anni dalla morte di Antonio Russo.

22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

20 anni dalla morte di Layne Staley.

20 anni dalla morte di Alex Baroni.

20 anni dalla morte di Umberto Bindi.

20 anni dalla morte di Carmelo Bene.

19 anni dalla morte di Alberto Sordi.

19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

18 anni dalla morte di Ray Charles.

16 anni dalla morte di Alida Valli.

15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

14 anni dalla morte di Paul Newman.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor. 

10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.

10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

10 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lucio Dalla.

10 anni dalla morte di Piermario Morosini.

10 anni dalla morte di Renato Nicolini.

10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.

10 anni dalla morte di Gore Vidal.

9 anni dalla morte di Pietro Mennea.

9 anni dalla morte di Virna Lisi.

9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

8 anni dalla morte di Robin Williams.

7 anni dalla morte di Pino Daniele.

7 anni dalla morte di Francesco Rosi.

6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.

6 anni dalla morte di Lou Reed.

6 anni dalla morte di George Michael.

6 anni dalla morte di Prince.

6 anni dalla morte di David Bowie.

6 anni dalla morte di Bud Spencer.

6 anni dalla morte di Marta Marzotto.

5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.

4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

4 anni dalla morte di Luigi Necco.

3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

3 anni dalla morte di Nadia Toffa.

3 anni dalla morte di Antonello Falqui.

2 anni dalla morte di Ennio Morricone.

2 anni dalla morte di Diego Maradona.

2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.

2 anni dalla morte di Gigi Proietti.

2 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.

2 anni dalla morte di Kobe Bryant.

1 anno dalla morte di Lina Wertmüller. 

1 anno dalla morte di Max Mosley.

1 anno dalla morte di Gino Strada.

1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.

1 anno dalla morte di Ennio Doris.

1 anno dalla morte di Paolo Isotta.

1 anno dalla morte di Franco Battiato.

I Beatles.

Duran Duran.

I Nirvana.

Gli ABBA.

I Queen.

Emerson Lake & Palmer.

I Simpson.

Il Maggiolino.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Avvocato…

Quelli che se ne vanno…

John Elkann.

Lapo Elkann.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

Vivi per sempre.

Le morti del Cazzo…

L’Eutanasia. 

Il Necrologio.

L’Eredità.

E’ morto il giornalista Alessio Viola.

È morto il cantante Terry Hall.

E’ morto il regista Mike Hodges.

È morto lo storico Asor Rosa.

E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.

E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.

E’ morta la cantante Terry Hall.

E’ morto il produttore Alex Ponti.

Addio all’attore Lando Buzzanca.

E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.

È morto il fotografo Carlo Riccardi.

È morto il compositore Angelo Badalamenti.

È morto il cantante Ichiro Mizuki.  

È morto Romero Salgari.

E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.

Morto l’attore Gary Friedkin.

E’ morta l’attrice Kirstie Alley.

Morto lo scrittore Dominique Lapierre.

E’ morto il pilota Patrick Tambay.

E’ morto il sarto Cesare Attolini.

E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.

E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.

E’ morto l’attore Brad William Henke.

E’ morto l’attore Frank Vallelonga.

È morto il politico Gerardo Bianco.

È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.

È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.

E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.

E’ morta la cantante e attrice Irene Cara. 

Addio allo stilista Renato Balestra.

Addio al sarto Cesare Attolini.

Morto l’attore Mickey Kuhn.

È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.

E’ morto il cantautore Pablo Milanés.

E’ morta l’attrice Nicki Aycox.

Morto il filosofo Fulvio Papi.

E’ morto il regista Jean-Marie Straub.

E' morto il giornalista Gianni Bisiach.

E’ morto il cantante anni Nico Fidenco. 

E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.

E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.

E’ morta la scienziata Alma Dal Co.

Addio all’industriale Vallarino Gancia.

È morto il musicista Keith Leven.

Morto il manager Luca Panerai.

E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.

E’ morta la musicista Mimi Parker.

È morto il musicista Carmelo La Bionda.

È morto il musicista Aaron Carter.

E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.

E’ morto il batterista Marino Rebeschini.

Morto il manager Franco Tatò.

Morto il manager Mauro Forghieri.

È morta la scrittrice Julie Powell.

È morto lo stuntman Holer Togni.

È morto il senatore Domenico Contestabile.

E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.

E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.

E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.

Morto il critico Marco Vallora.

Addio al critico Franco Fayenz.

E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.

E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.

Addio all’attore Ron Masak.

E’ morto il cantante Franco Gatti.

E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.

È morta la cantante Christina Moser.

E' morto l'attore Robbie Coltrane.

E’ morta Jessica Fletcher.

E’ morto il filosofo Bruno Latour.

E’ morta la cantante Jody Miller.

E’ morta la stilista Franca Fendi.

E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.

E’ morto l’industriale Armando Cimolai

E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz. 

Morto lo storico Paul Veyne. 

E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.

Morto il regista Franco Dragone.

E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.

Morto lo scrittore Jim Nisbet.

È morto il rapper Coolio.

Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.

Morto il comico Bruno Arena.

E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.

E’ morta l’attrice Anna Gael.

E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.

E’ morta l’attrice Kitten Natividad.

È morta la scrittrice Hilary Mantel.

È morta l’attrice Louise Fletcher.

E’ morto il tronista Manuel Vallicella.

E’ morto l’attore Henry Silva.

È morto il playboy Beppe Piroddi.

Morto l’attore Jack Ging.

È morta l’attrice Irene Papas.

E’ morto l’industriale Andrea Riello.

E’ morto il regista Jean-Luc Godard.

Morto il regista Alain Tanner. 

Addio al giornalista Piero Pirovano.

E' morto il fotografo William Klein.

È morto lo scrittore Javier Marias.

E’ morto il giornalista Roberto Renga.

Morto il latinista Franco Serpa.

E’ morto l’attore Claudio Gaetani.

È morto il regista Just Jaeckin.

Morta la poetessa Mariella Mehr.

Morto lo scrittore Oddone Camerana. 

E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.

Addio al radioastronomo Frank Drake. 

E’ morto il cantante Drummie Zeb.

E’ morto il pittore Gennaro Picinni.

È morta l’attrice Charlbi Dean.

È morto Camilo Guevara.

E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.

Morto il giornalista Giulio Giustiniani.

L’addio al politico Mauro Petriccione. 

E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.

Morta l’attrice Paola Cerimele.

E' morto il fotografo Tim Page.

Morta la scienziata Laura Perini.

È morto l’attore Enzo Garinei.

Addio al magistrato Domenico Carcano.

E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey. 

E’ morto il comico Gino Cogliandro.

È morto il comico Vito Guerra.

È morta la comica Anna Rita Luceri.

È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.

E’ morta la stilista Hanae Mori.

È morto il regista Wolfgang Petersen.

E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.

È morto lo scrittore Nicholas Evans.

E’ morta l’attrice Robyn Griggs.

E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro. 

Addio all’attrice Denise Dowse.

E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.

E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.

E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.

E’ morta l’attrice Anne Heche.

E’ morto il calciatore Claudio Garella.

È morto lo stilista Issey Miyake.

È morto l’attore Roger E. Mosley. 

E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.

E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.

Morto l’attore Alessandro De Santis.

E’ morto l’attore John Steiner.

È morta l’attrice Nichelle Nichols.

E’ morto il giornalista Omar Monestier.

E’ morto l’attore Antonio Casagrande.

E’ morto il cestista Bill Russell.

Morto l’attore Roberto Nobile.

Morto il pittore Enrico Della Torre. 

E’ morta la sciatrice Celina Seghi.

E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.

E’ morto lo scienziato James Lovelock.

E’ morto lo scrittore Pietro Citati.

E’ morto l’attore David Warner.

È morto l’attore Paul Sorvino.

Morto il regista Bob Rafelson.

E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.

E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.

È morto il linguista Luca Serianni.

È morta la cantante Shonka Dukureh.

È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.

E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morta Ivana Trump.

È morto il giornalista Eugenio Scalfari.

E’ morto il mago Tony Binarelli.

Addio il giornalista Amedeo Ricucci.

E’ morto il compositore Monty Norman.

E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.

E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.

E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.

E’ morto l’attore Tony Sirico.  

E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.

È morto l’attore James Caan.

E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.

E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.

E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.

È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.

E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.

E’ morto il regista Peter Brook.

E' morta la cantante Irene Fargo.

E’ morto l’attore Joe Turkel. 

E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.

E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.

E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.

E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.

E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.

E’ morto il musicista James Rado.

E' morto l'architetto Jordi Bonet.

E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.

È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.

E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.

E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.

È morto l’attore Philip Baker Hall.

È morto il produttore musicale Piero Sugar.

E’ morta la cantante Julee Cruise.

E’ morta la pittrice Paula Rego.

E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.

E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.

Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.

E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.

È morto il bassista Alec John Such.

È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund

E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata. 

E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.

Morto lo scrittore Joseph Zoderer. 

Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.

Addio all’attore Franco Ravera.

Morto il partigiano Carlo Smuraglia.

Morto il conte Manfredi della Gherardesca.

E’ morto il fantino Lester Piggott.

E’ morto l’attore Marino Masé.

E’ morto lo scrittore Boris Pahor.

E’ morto il musicista Alan White. 

È morto l'attore John Zderko.

E’ morto il musicista Andrew Fletcher.

E’ morto l’attore Ray Liotta.

E’ morto il cardinale Angelo Sodano.

E’ morto l’attore Bo Hopkins.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morto Ciriaco De Mita.

E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.

E’ morto il taverniere Guido Lembo.  

Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.

E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.

E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.

È morto l’attore Fred Ward.

E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.

E’ morto il musicista Richard Benson.

E’ morto l’attore Mike Hagerty.

E’ morto l’attore Enzo Robutti.

È morto l’attore Lino Capolicchio.

È morto il fotografo Ron Galella.

Addio alla cantante Naomi Judd. 

Addio all’attrice Jossara Jinaro.

È morto il procuratore Mino Raiola.

E' morto il politologo Percy Allum.

Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.

E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.

E’ morto l’industriale Antonio Molinari.

È morto il cantante Marco Occhetti.

Morto Paolo Mauri.

È morto l’attore Jacques Perrin.

È morta l'attrice Ludovica Bargellini.

È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.

È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.

E’ morta l’attrice Catherine Spaak. 

E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.

E’ morta la giornalista Giusi Ferré.

È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi. 

E’ morto il calciatore Freddy Rincon.

E’ morto l’attore Michel Bouquet.

E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.

È morto l’attore Gilbert Gottfried.

E’ la storica Morta Chiara Frugoni.

E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.

E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.

E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.

E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.

E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.

E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.

È morto Tom Parker.

Addio al giornalista Franco Venturini.

È morto l’attore Lars Bloch.

E’ morto l’attore Gianni Cavina.

E’ morto il batterista Taylor Hawkins.

Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.

E' morto il giornalista Sergio Canciani.

E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.

Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.

Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.

E' morto l’attore William Hurt.

E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.

Addio al giornalista Stefano Vespa. 

E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.

E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.

E’ morto Antonio Martino.

Morto l’attore John Stahl.

E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.

E’ morto il cantante Gary Brooker. 

Addio al cantante Mark Lanegan.

E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.

E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli. 

E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.

E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.

E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.

Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.

Morto il pugile Bepi Ros.

Addio al cantante Fausto Cigliano.

Morto il cantante Amedeo Grisi. 

E’ morto il doppiatore Tony Fuochi. 

E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman. 

E’ morto l’artista John Wesley.  

E’ morto il musicista Ian McDonald.

Addio a Betty Davis, la regina del Funk.

E’ morta Donatella Raffai.

E’ morto l’attore Bob Saget.

E’ morto Luc Montagnier.

E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.

Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.

Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema. 

Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".

E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.

E’ morta Monica Vitti.

È morto l’attore Paolo Graziosi.

E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini. 

E' morto Tito Stagno.

E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.

E' morto l’attore Renato Cecchetto.

Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.

È morto il faccendiere Flavio Carboni.

E’ morto lo stilista Thierry Mugler. 

E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.

Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.

Addio al giornalista Sergio Lepri.

E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri. 

E’ morto il cantante Meat Loaf.

E’ morto l’attore Hardy Kruger.

E’ morto l’attore Camillo Milli.

E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.

E’ morta  l’attrice Yvette Mimieux.

E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.

E’ morto lo stilista Nino Cerruti.

E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.

E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.

È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.

E’ morta Silvia Tortora.

E’ morta Margherita di Savoia.

Addio all’attore comico Bob Saget.

E’ morto Michael Lang.

E’ morto l’attore Mark Forest.

E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.

E’ morto il regista Mariano Laurenti.

E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.

E’ morto l’attore Sidney Poitier.

E’ morto il regista Peter Bogdanovich.

E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.

È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.

È morto il giornalista Fulvio Damiani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le stirpi reali.

Gli scandali dei Windsor.

Vittoria.

Elisabetta.

La morte della Regina.

Filippo.

Carlo.

Camilla.

Andrea.

Anna.

Diana.

William e Kate.

Harry e Meghan.

 

 

LA SOCIETA’

QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

·        È morto Ciriaco De Mita.

Morto l'ex premier Ciriaco De Mita. (ANSA il 26 maggio 2022) - L'ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto questa mattina alle 7 nella sua abitazione di Nusco, in provincia di Avellino, città di cui era sindaco. 

Lo ha reso noto il vice sindaco, Walter Vigilante. De Mita era stato sottoposto a febbraio scorso a un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. 

Secondo quanto si è appreso successivamente, De Mita è morto nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino e non nella sua abitazione di Nusco. De Mita stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore per la caduta dello scorso febbraio.  

Si è spento all’età di 94 anni l’ex premier Ciriaco De Mita. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 26 Maggio 2022.  

L'ex presidente del Consiglio e segretario della Democrazia Cristiana era ricoverato in una casa di cura, dove stava seguendo un percorso di riabilitazione in seguito ad una frattura

Il vice sindaco di Nusco Walter Vigilante ha reso noto che Ciriaco De Mita è morto nella prima mattina di oggi giovedì 26 maggio. L’ex premier si trovava nella casa di cura “Villa dei Pini” clinica di riabilitazione di Avellino, dove si è spento all’età di 94 anni. Il politico campano si era sottoposto lo scorso febbraio ad un intervento chirurgico per la frattura del femore, in seguito ad una caduta avvenuta nella sua abitazione.  De Mita, rieletto di recente per la seconda volta sindaco di Nusco, era stato ricoverato in seguito a un attacco ischemico il 10 aprile scorso al “Moscati” di Avellino; in precedenza era stato operato al femore, e per questo si trovata nella struttura di riabilitazione. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Aveva compiuto 94 anni lo scorso febbraio.

I funerali si svolgeranno domani, venerdì, alle 18,30, alla presenza del Capo dello Stato, Sergio Mattarella, che sabato è impegnato in una visita ufficiale a Napoli. La famiglia dell’ex premier aveva inizialmente deciso proprio sabato mattina per il rito funebre. Il feretro di De Mita ha lasciato la casa di cura Villa dei Pini, dove l’ex leader DC era ricoverato dal 13 aprile scorso, questa mattina alle 11, salutato da un applauso dei degenti e da un coro “addio Presidente”. Scortato dalla Polizia e dai Carabinieri, seguito dalle auto con a bordo la moglie Annamaria Scarinzi e dai figli Antonia, Giuseppe, Simona e Floriana, è arrivato dopo mezz’ora a Nusco, per la camera ardente nella villa di famiglia. In mattinata i familiari hanno ricevuto in clinica la visita del presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e il prefetto di Avellino Paola Spena.

Chi era Ciriaco De Mita

Classe 1928 era nato a Nusco ed era stato uno dei principali esponenti della Prima Repubblica. Dal 1988 al 1989 ha ricoperto la carica di presidente del Consiglio. Dopo essere stato ministro per quattro legislature, è diventato sindaco della sua città natale nel 2014. Il politico è stato anche segretario e presidente della Dc, ed è stato un parlamentare dal 1963 al 1994 ed ancora dal 1996 al 2008. Dopo la scomparsa della Dc ha fatto parte del Partito Popolare italiano, della Margherita quindi dell’Unione di Centro.

Il ricordo di Mattarella

“La notizia della scomparsa di Ciriaco De Mita è motivo di grande tristezza. De Mita ha vissuto da protagonista una lunga stagione politica. Lo ha fatto con coerenza, passione e intelligenza, camminando nel solco di quel cattolicesimo politico che trovava nel popolarismo sturziano le sue matrici più originali e che vedeva riproposto nel pensiero di Aldo Moro” ha detto il presidente della Repubblica, “Il suo impegno politico ha sempre avuto al centro l’idea della democrazia possibile. Quella da costruire e vivere nel progressivo farsi della storia delle nostre comunità, della vita concreta delle persone, delle loro speranze e dei loro interessi. Nasceva da questa visione della democrazia come processo inesauribile l’attenzione per il rinnovamento e l’adeguamento delle nostre istituzioni, che non a caso fu bersaglio della strategia brigatista che, uccidendo Roberto Ruffilli, suo stretto consigliere, alla vigilia dell’insediamento del suo governo, intese colpire proprio il disegno riformatore di De Mita“, aggiunge il Capo dello Stato. 

“Dobbiamo ricordarne l’impegno incessante per un meridionalismo intelligente e modernizzatore. Così come la vivacità intellettuale, la curiosità per le cose nuove, la capacità di dialogare con tutti, forte di una ispirazione cristiana autenticamente laica“, prosegue Mattarella.

“L’attenzione alle nuove generazioni per un rinnovamento della politica fatto di scelte coraggiose e concrete, anche favorendo, da segretario del suo partito, un profondo ricambio di classe dirigente. Non meno importante fu, soprattutto nella sua azione di governo, la sua visione internazionale e, in modo particolare, l’attenzione che ebbe per cio’ che la leadership di Gorbaciov stava producendo in Unione sovietica alla fine degli anni Ottanta” conclude il presidente della Repubblica.

Il cordoglio del premier Draghi

Il presidente del consiglio Mario Draghi ha espresso “il più sentito cordoglio” per la scomparsa di De Mita, “protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana”. “Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, esprime il più sentito cordoglio per la scomparsa di Luigi Ciriaco De Mita. Presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, più volte Ministro, protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana, fino all’ultimo è stato impegnato nelle istituzioni locali, come Sindaco del comune di Nusco. Alla famiglia, le condoglianze di tutto il Governo” si legge in una nota di Palazzo Chigi.

BIOGRAFIA DI CIRIACO DE MITA

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Ciriaco De Mita (Luigi Ciriaco D.M.), nato a Nusco (Avellino) il 2 febbraio 1928 (91 anni). Politico. Sindaco di Nusco (dal 26 maggio 2014). Già presidente del Consiglio (1988-1989), ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno (1976-1979), ministro del Commercio con l’estero (1974-1976), ministro dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato (1973-1974); già deputato (Dc, Ppi, Dl, Pd) (1963-1994; 1996-2008); già europarlamentare (Ppe) (1984-1988; 1999-2004; 2009-2014). Ex segretario nazionale (1982-1989) ed ex presidente (1989-1992) della Democrazia cristiana. «Io ero Dc prima che nascesse la Dc»

Figlio di un sarto e di una casalinga, si accostò alla politica in tenera età. «Avevo 8 o 9 anni. A Nusco il regime mandò dei confinati. Venivano nella bottega di mio padre, che era sarto, chiudevano le porte e chiacchieravano. Ma il mio primo maestro di politica fu il preside della scuola media, un sacerdote. […] Capii le colpe del re e del regime, e che non bastava volere la caduta del fascismo e la fine della monarchia. Il punto era che dovevamo perdere la guerra» (a Stefano Cappellini).

«“Chiocchiò”, […] amico d’infanzia di “Ciriachino”, […] ricorda: “Lui era sempre il capo: giocavamo ai soldati ed era il comandante, ai preti ed era il vescovo, ai suonatori ed era il direttore d’orchestra”» (Virginia Piccolillo). 

«Io non sono nato semplice. Sono stato sempre molto problematico, e in fondo mi sono convinto della validità di quella verità che mi consegnava mio nonno: “Bada a chi vuole far apparire semplice una cosa complessa: significa che non l’ha capita”. Nella vita ho applicato questa massima costantemente ai miei comportamenti, sin dagli inizi della mia attività politica, quando a 16 anni tenni il mio primo comizio a Montella e l’avversario di allora, un comunista che chiamavano Nerone, mi avvertì che tanto dopo mi avrebbero bruciato. Giusto per comprendere il clima di quei tempi» (a Generoso Picone).

«“A metà degli anni Quaranta ero presidente dei giovani di Azione cattolica. Quando, durante una riunione dei comitati antifascisti, sentii alcune espressioni forti contro la Chiesa, pensai: ‘Non ci siamo!’”. Nel 1946, malgrado non possa votare per motivi d’età, De Mita è attivo nella campagna elettorale che sforna l’Assemblea costituente e che decide la forma repubblicana del Paese. La Democrazia cristiana non dà un’indicazione di voto.

“La stragrande maggioranza dei diccì campani era a favore della Monarchia – racconta De Mita –. Io, che ho sempre avuto la tentazione della guida, costrinsi un gruppo di ragazzi a giurare che avrebbero sostenuto la Repubblica anche se nessuno di noi poteva votare. Mio padre, sarto, che a Nusco era vice segretario cittadino dello Scudo crociato e che votava Monarchia, si lamentava con mia madre: ‘Che figura! Che figura!’. La sera delle elezioni cercai di discuterne, ma lui chiuse la conversazione dicendo che a tavola non si parla di politica”» (Vittorio Zincone).

Grazie a una borsa di studio, s’iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano. «Quand’ero ragazzo io, […] ebbi una discussione con un compagno della Cattolica, un marxista. Gli esposi – il discorso durò ore – la mia idea della politica, e lui mi disse: “Ciriaco, tu sei crociano”. Io non avevo mai studiato Croce, ma compresi che alcune cose si respirano nell’aria, si sedimentano, ritornano anche senza evocazioni solenni o spiegazioni teoretiche». 

«Ero stato una sorta di contestatore alla Cattolica, nei primi anni Cinquanta. Insieme con Gerardo Bianco facemmo sì che i professori concordassero con gli studenti il piano di studi. E introducemmo la lettura di tutti i quotidiani, compresa l’Unità». Una volta laureatosi, trovò impiego come consulente presso l’ufficio legale dell’Eni, senza mai però abbandonare l’impegno politico.

«“Io nel ’48 feci molti comizi”. […] Tra il 1953 e il 1954 la Dc cambia pelle: fuori la vecchia generazione che aveva frequentato il Partito popolare, e dentro i nuovi che si raggruppano intorno alla corrente di “Iniziativa democratica” e al leader Amintore Fanfani. De Mita: “Fanfani era professore alla Cattolica. Andai a sentire una sua lezione e non mi ci trovai. A me piace il pensiero delicato, lui aveva un pragmatismo veloce”. […] Si chiude un’era, De Gasperi muore proprio in quel 1954. “Nella mia vita ho pianto due o tre volte – racconta De Mita –. Una di queste è stata quando è morto Alcide”. Nel frattempo nasce la Base, corrente di sinistra di cui fanno parte Giovanni Marcora, Ezio Vanoni e lo stesso De Mita. Tra i fondatori-finanziatori c’è anche il mega-boiardo del petrolio italiano Enrico Mattei, parlamentare Dc della prima legislatura ed ex partigiano bianco.

“La Base è un’esperienza culturale complessa – racconta il leader irpino –. È l’individuazione su varie parti del territorio di elementi di vivacità culturale, giovani, militanti delusi, persone di capacità straordinaria. A me in questo movimento è sempre piaciuto pensare, elaborare piani”. […] A metà anni Cinquanta, e soprattutto dopo la rottura del Psi con il Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, l’idea che comincia a balenare nella testa di De Mita è la possibilità di un’alleanza con i socialisti.

L’ex premier racconta: “Iniziai a riflettere sul come e sul perché. E iniziai a teorizzare non tanto l’alleanza tra i partiti, ma la convergenza delle culture che collaborano per la realizzazione di un disegno comune. Questo disegno era l’organizzazione dello Stato moderno, la risposta ai nuovi bisogni, alle nuove libertà e alle nuove relazioni”.

La gerarchia ecclesiastica non è molto d’accordo. Quando De Mita si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1958, i vescovi del suo territorio gli remano contro e appoggiano i suoi concorrenti all’interno delle liste democristiane. “A uno di questi vescovi che cercava di convincermi a non candidarmi proposi un patto: ‘Lei spiega ai contadini che l’idea del centrosinistra non costituisce eresia e io non faccio la campagna elettorale insistendo su quella posizione’. Il monsignore domandò: ‘Mi vuole insegnare a fare il vescovo?’. E io replicai: “Lei vuole dire a me come fare politica?’”.

Alla fine della campagna elettorale, De Mita nella piazza di Avellino arrivò ad accusare i vescovi di simonia perché si vendevano le preferenze. […] Il congresso di Napoli del 1962 è quello che traghetta definitivamente la Dc nella prospettiva del centrosinistra. Moro, segretario in carica, riconfermato, parla per sette ore.

De Mita: “Più che relazioni, le nostre erano spesso delle lezioni. Moro è stato il gestore della Dc più raffinato, aveva una spiccata intelligenza operativa”. Nascono i governi con l’appoggio dei socialisti. Ma comincia anche un quindicennio durissimo in cui si alternano riforme, piani eversivi, governi balneari, colpi di Stato abortiti, stragi, contestazioni giovanili, lotte operaie e di nuovo scontri durissimi all’interno della Dc. All’epoca De Mita ha ricoperto anche l’incarico di sottosegretario agli Interni. […] La mattina del 16 marzo 1978, quando Moro viene rapito e la sua scorta massacrata dai terroristi, si deve votare la fiducia del secondo governo Andreotti. Il Pci ha alcune perplessità sui nomi dei ministri. “Stavo andando in Consiglio dei ministri”, racconta De Mita, che allora era titolare del dicastero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno.

“Mi chiamò Mastella per darmi la notizia. Corsi alla Camera. Poi a Palazzo Chigi. C’era grande smarrimento. […] La tesi prevalente era che non si doveva trattare con le Br, perché la trattativa non era praticabile”. È la linea della fermezza, su cui Dc e Pci si saldano durante tutti i 55 giorni della prigionia di Moro. Inamovibili. […] “Col senno di poi, bisognava trattare, certo, ma non sembrava proprio che ci fosse alcuna agibilità”. 

Con la morte di Moro crolla la solidarietà nazionale. I partiti sbandano. […] Esplode anche lo scandalo P2. Nelle liste della loggia massonica di Licio Gelli compaiono molti democristiani. Il governo Forlani si dimette. “Alla fine del 1981”, spiega De Mita, “organizzammo un’Assemblea con militanti, professori universitari, economisti”. L’Assemblea degli esterni. “Un modo per recuperare il rapporto con il retroterra del mondo cattolico, perché negli anni precedenti ci eravamo un po’ sputtanati. Fu un successo. Io preparai una bozza di intervento conclusivo. Spiegai a Piccoli che se l’avesse pronunciato il segretario sarebbe stato molto più efficace.

Lui lo lesse e si prese molti applausi. Nei giorni successivi Piccoli si presentò nel mio ufficio. Era molto soddisfatto. Mi disse che aveva parlato con la moglie e che dovevo essere io il segretario. Lui parlava sempre con la moglie prima di prendere una decisione. Appena cominciammo le riunioni di periferia per organizzare il congresso, però, Piccoli, galvanizzato dal nuovo clima che si era creato intorno al partito, cambiò idea. Io non sono uno stratega, non mi piace ottenere le cose per forza, però ormai ero in gioco, e allora mossi le mie relazioni all’interno della Dc per giocare”. Siamo alla vigilia del congresso Dc del 1982. […] 

Il partito cerca il rinnovamento ed elegge un segretario che sarà il più longevo della storia scudocrociata: Ciriaco De Mita. […] Nel giugno 1983 si va a elezioni. La Dc ha un tracollo: passa dal 38% al 33%. Il Psi sale. “A quel punto ipotizzai un governo Craxi – racconta De Mita –. C’incontrammo in un convento sull’Appia Antica. Craxi mi disse che lui avrebbe voluto fare metà legislatura a testa. Replicai che ero d’accordo, perché sarebbe stato strano se la Dc, partito di maggioranza, non fosse andata alla guida del governo per l’intera legislatura.

A Craxi ho sempre spiegato che lui aveva due strade percorribili: mettersi a capo del rinnovamento della sinistra o allearsi con me, a condizione, però, di rinnovare insieme le istituzioni”. La vulgata vuole che sia stato Craxi in quegli anni il motore di una possibile riforma istituzionale. “Non è vero – continua De Mita –. I socialisti durante i loro congressi parlavano dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma poi politicamente non aprivano mai un dialogo sulle riforme”. […]

Con Craxi e il Pentapartito si raggiunge una solida stabilità di governo. La Dc, però, fibrilla. Al congresso del 1984, durante il quale De Mita si esibisce in una relazione fiume di più di quattro ore, i delegati vengono alle mani. Da una parte i demitiani e le cosiddette truppe mastellate, dall’altra i cislini di Franco Marini. […] Il 1985 è l’anno […] della proclamazione al Quirinale di Francesco Cossiga. “Andreotti voleva diventare presidente – racconta De Mita –. Alessandro Natta, segretario del Pci post-berlingueriano, però, mi fece sapere che loro non lo avrebbero sostenuto.

Allora, con una liturgia ben preparata, feci in modo che il nome di Francesco Cossiga entrasse nelle terne dei papabili di tutti i partiti”» (Zincone). «“Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: ‘Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui’. 

Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo, d’accordo con Cossiga, che dal Colle avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta”. Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita. “Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle.

Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlagli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: ‘Dì a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui’. Lui morì, io rimasi senza sapere”» (Tommaso Labate). «Alla fine degli anni Ottanta, l’irpino De Mita oltre che segretario della Dc diventa anche presidente del Consiglio. 

In Transatlantico comincia a circolare la battuta secondo cui “Napoli è stata ribattezzata Avellino Marittima”. Il “clan degli avellinesi”, i collaboratori più stretti dello stesso De Mita, diventa perno centrale prima della Regione Campania e poi del governo nazionale. […] Craxi e De Mita, i due pesi massimi della politica italiana degli anni Ottanta, pur facendo parte della stessa maggioranza, si combattono politicamente per un decennio. Sulla stampa si arriva addirittura alla diatriba becera su chi dei due abbia più “palle”.

De Mita: “Credo che fossimo d’accordo sul fatto che le avevamo entrambi. La prima volta che ho incontrato Craxi non mi fece una buona impressione. Stavo camminando per strada con Giovanni Marcora, e lui, che lo conosceva, vedendolo venirci incontro, gli chiese: ‘Dove vai?’. Craxi replicò: ‘A chiavare!’. Nel 1989, poi, Craxi si comportò in modo mediocre per come fece cadere il mio governo. Ma dopo di allora ci fu un rapporto d’incredibile solidarietà umana. Veniva a casa mia, discutevamo”. 

Sono gli anni del Caf, l’asse politico Dc-Psi, tra Craxi, Andreotti e Forlani che governa il Paese, mentre crolla il Muro di Berlino e finisce la storia del Pci. Politiche del 1992. Le indagini di Tangentopoli sono già in corso, ma i partiti non sono ancora consapevoli di che cosa gli si sta per rovesciare addosso. “Allora ero presidente della Dc – ricorda De Mita –. Dopo le elezioni proposi un governo di larga solidarietà, anche con il Pds. Ne andai a parlare con Craxi. Non era disponibile. Spostò il discorso proponendomi di fare il presidente della Camera, ma gli spiegai che avrei preferito guidare la Bicamerale per le riforme”. […]

Dopo la morte di Falcone, i partiti lavorano per la nascita del nuovo governo. “Craxi era convinto di ricevere l’incarico – racconta De Mita –. Voleva assegnare l’Economia a Bruno Visentini. A me disse: ‘Ma quale Bicamerale? Vieni a fare il ministro degli Esteri e giriamo il mondo’. Non aveva capito nulla di quello che sarebbe successo ai partiti con Tangentopoli”» (Zincone). 

Attraversata indenne Tangentopoli, allo scioglimento della Dc De Mita aderì dapprima al Partito popolare, quindi alla Margherita e, nel 2006, al Pd, dal quale uscì però polemicamente solo due anni dopo, quando il segretario Veltroni decise di non ricandidarlo alla Camera, in ossequio all’appena introdotto limite dei tre mandati parlamentari (disatteso, però, per tutti i principali maggiorenti del partito).

De Mita aderì allora all’Udc: fallita nel 2008 l’elezione al Senato, l’anno successivo riuscì però a entrare al Parlamento europeo, mentre nel 2014, tra la sorpresa di molti osservatori e l’entusiasmo dei concittadini, si fece eleggere sindaco della natia Nusco (con il 77,35% dei voti), proponendosi di «ricostruire la comunità». Distintosi nell’ottobre 2016 come pugnace esponente del fronte del «no» per il referendum costituzionale anche in un teso dibattito televisivo con Matteo Renzi, nel novembre 2017 abbandonò l’Udc, in polemica con il riavvicinamento del partito al centrodestra. 

Fondò allora insieme al nipote Giuseppe De Mita, eletto alla Camera nel 2013 nelle file dell’Udc, il movimento «L’Italia è popolare», che in vista delle elezioni politiche del 2018 aderì alla lista «Civica popolare» guidata da Beatrice Lorenzin e alleata al Pd, senza però ottenere alcun seggio. Nell’agosto 2018 De Mita ha annunciato la sua intenzione di non ricandidarsi alle elezioni comunali del 2019. «La volta scorsa mi sono impegnato come candidato a Nusco ponendomi come obiettivo quello di ricostruire il tessuto valoriale della comunità locale. […] 

Ho subìto una opposizione meschina e insopportabile: mi hanno persino denunciato alla Procura della Repubblica. Ce l’ho messa tutta, ho tentato di promuovere discorsi costruttivi, di coinvolgere quante più persone nelle decisioni. Ma alla fine non c’è stato nulla da fare. E dire che c’ero già passato. […] Nel 1956 provai a candidarmi qui a Nusco. Proposi di portare l’acqua e l’energia elettrica in campagna. Ma fui osteggiato da un movimento locale che invece tutelava interessi, diciamo, diversi. E persi le elezioni. La situazione, dopo oltre sessant’anni, non è cambiata». «Io ragiono in giorni. E spero che i giorni durino più a lungo possibile. Se legassi il mio impegno politico all’essere sindaco a Nusco, qualcuno potrebbe pensare che mi sono rincoglionito»

Ha partecipato alla realizzazione de L’animale politico di Carmine Caracciolo e Roberto Flammia (2018), film-documentario incentrato sulla sua vita

Sposato con Anna Maria Scarinzi (classe 1939), quattro figli: Antonia (1967), Giuseppe (1969), Floriana (1973) e Simona (1974)

«Fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più. A novant’anni ha detto addio al pediatra. “No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato”» (Labate)

«Si sfotte la mia fonetica. Ma lo sa, che in un saggio il linguista Tullio De Mauro scrisse che la mia pronuncia era giusta?» (a Vittorio Zincone)

«“Una volta un professore della Cattolica mi disse: ‘Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero’. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che, se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste ‘nemmeno le briciole’.

Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime, le faccio. Le seconde, no”. 

Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare. “Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare. […]

Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti, ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro: io lo feci cadere nel vuoto”. Si è pentito, poi? “Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi”» (Labate)

«“E di De Mita cosa pensa?”, domanda Giovanni Minoli. La risposta di Gianni Agnelli è di quelle che si condensano subito in una definizione proverbiale, destinata ad appiccicarsi al bersaglio per tutta la vita: “Lo considero un tipico intellettuale del Mezzogiorno, di quella formazione filosofica, di quella tradizione di pensiero tipica della Magna Grecia”. 

Era il 1984. Da allora in poi, non c’è stato articolo di giornale che nominasse Ciriaco De Mita senza prestare omaggio all’insuperabile arguzia dell’avvocato Agnelli e alla sua sottilissima, brillantissima, spiritosissima definizione di “intellettuale della Magna Grecia”. Indro Montanelli, che lo detestava, ne ricavò anche una battuta che faceva ridere: “Dicono che De Mita sia un intellettuale della Magna Grecia. Io però non capisco cosa c’entri la Grecia”.

Tra tutti i grandi attori della Prima Repubblica, De Mita non è stato né il più potente né il più popolare, ma è stato certamente il più versatile: protagonista della battaglia per il ricambio generazionale nella Dc sin dai tempi di Fanfani, simbolo di un sistema clientelare e corrotto ai tempi del terremoto in Irpinia, campione del fronte del rinnovamento e della moralizzazione ai tempi dello scontro con Bettino Craxi. Modernizzatore e tradizionalista, riformista e conservatore, rottamatore e rottamato: De Mita, come la Dc, è stato tutto. […] 

Per un certo periodo ha goduto anche di buona stampa. “When De Mita presides, everybody sits up”, scriveva l’Economist nel momento del suo splendore. Eugenio Scalfari puntò tutto su di lui» (Francesco Cundari). 

«Quando lungo il Transatlantico di Montecitorio si spostava, […] non era la sua semplice transumanza, ma quasi trionfale ingresso di un galeone in porto – il braccio ficcato con decisione dentro l’incavo di quello dell’interlocutore, concettosi arabeschi nell’aria, avanti e indietro, la bella convinzione di un suggestivo ragionamento e la triste consapevolezza della scarsità intellettuale dell’altro. 

Dai giornalisti, mica a torto, poco si aspettava: “Dimiche’, io provo a formulare un ragionamento politico. Non so se tu sei in grado di comprenderlo…”. Pausa, occhiata prima dubbiosa e poi rassegnata al cronista che gli offriva il sostegno del proprio avambraccio: “Mah, non credo… Ne dubito molto…”» (Stefano Di Michele).

«Nel giugno 1988, quando era da due mesi il presidente del Consiglio, andò a Toronto per un vertice dei capi di governo. Ad un certo punto, gli statisti che lo ascoltavano, per prima la signora Margaret Thatcher, pensarono di aver dei problemi con l’auricolare. Invece era l’interprete di Ciriaco che aveva gettato la spugna, stroncato dalla suprema difficoltà di tradurre in inglese i ragionamenti demitiani» (Giampaolo Pansa) 

«Non bisogna mai confondere la condizione reale con il desiderio personale». «Sono il solo politico che ha allevato classe dirigente. Quando mi elessero, in provincia di Avellino c’era un solo deputato. Non è colpa mia se a ogni elezione ne eleggevo uno nuovo. Ma era tutta classe dirigente». «Gli uomini hanno un pezzo di immoralità, tutti. Poi la affrontano, la risolvono, a volte prevalgono, a volte soccombono. Ma nessuno è una vergine»

«Pure Gorbaciov guardava al modello di partito democristiano italiano come a un riferimento. […] Nella mia visita in Urss da presidente del Consiglio nell’ottobre del 1988, stabilii con lui un rapporto per niente protocollare ma molto amichevole, e mi confessò che guardava con interesse alla nostra forma di partito. Gorbaciov amava l’Italia e la democrazia, puntava a inserire straordinari elementi di novità nel sistema sovietico, e soprattutto era convinto che senza spiritualità non c’è l’uomo, la spiritualità ne è la vera sostanza.

Poi l’Urss scelse Eltsin al posto suo, e abbiamo visto come è andata». «Il merito della Dc non è nelle cose fatte; è stato creare la democrazia in Italia, portare su posizioni democratiche un popolo istintivamente reazionario». «La Dc in realtà non è finita per colpe. La Dc è finita perché il Padre Eterno l’ha punita: vedendo che avevamo esaurito la grande motivazione ideale, negli ultimi anni mandò a dirigere il partito persone poco competenti»

«Io sono uno di quelli che ha lottato per assegnare alla sinistra un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra democrazia. Finita questa storia democristiana che molti vogliono solo negativa, mi sapete dire che cosa è successo dopo? Chi è arrivato?». «È finita la cultura della sinistra: in Italia ha esaurito il suo ruolo, lasciando un Pd che è una superstizione»

«A me non sembra che vi sia un governo. Certo, noto che vi sono persone al comando differenti per intelligenza ed educazione, ma le quali pensano che la soluzione del problema sia l’individuazione del problema stesso. Le sembra possibile?» (ad Angelo Agrippa, nell’agosto 2018). «Soltanto col pensiero si esce da questo periodo. 

“Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”, disse una volta Moro. Vale ancora più oggi che la volta in cui Moro lo disse»

«Anziano? Ricordo che senza memoria storica non si può costruire il futuro». «Mi sento più giovane di tutti, anche di Matteo Renzi e Silvio Berlusconi». «L’età si misura dalla testa: se funziona, l’età non c’è; quando non funziona, l’età c’è. La testa è garantita per me dal Padreterno, per gli altri dalle leggi biologiche» (a Enrico Fierro). «Solo chi si arrende è vecchio in politica»

«Quando iniziò il declino della Dc, e a un convegno si discuteva su quello che bisognava o non bisognava fare, chiusi il mio intervento citando un poeta spagnolo: “Quando morirò, seppellitemi con la mia chitarra”. Da allora sono passati quasi trent’anni. E, visto che sono ancora in tempo per cambiare idea, cambio il messaggio. Quando morirò, seppellitemi con un biglietto in cui c’è scritto “Sono stato democristiano”. Aspetti. Non “sono stato”. Nel biglietto ci dev’essere scritto “Sono democristiano”. Al tempo presente» (a Tommaso Labate).

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Redazione Online del Corriere della Sera il 26 maggio 2022.   

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile scorso a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore a seguito di una caduta in casa, lo scorso febbraio. Nato a Nusco (Avellino) nel 1928, nella sua lunga carriera politica è stato presidente del Consiglio dal 1988 al 1989, segretario e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1982 al 1989, quattro volte ministro e parlamentare per un’intera generazione. Il suo ingresso nella Dc risale al 1953: eletto deputato per la prima volta nel 1963, nel 1968 era entrato a far parte per la prima volta in un governo come sottosegretario all’Interno. Diverse le cariche ministeriali tra il 1973 e il 1982. Era sindaco di Nusco dal 2014. «Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili. E che ha investito come pochi altri sull’apertura della politica ai giovani in un tempo in cui avveniva esattamente l’opposto. Tanti, intensi ricordi», lo ricorda su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene», ha aggiunto il ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Non eravamo pronti, non siamo pronti. Oggi mi sento disorientato, da domani parleremo dello statista, del leader, e avremo da parlarne per tutto il resto della nostra vita. Ora è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla signora Annamaria e ai suoi figlioli», afferma il vice presidente del gruppo di Fi alla Camera, Gianfranco Rotondi.

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto oggi nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. 

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile scorso a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni. Stava seguendo un percorso di riabilitazione dopo la frattura del femore a seguito di una caduta in casa, a febbraio. 

Nato a Nusco (Avellino) nel 1928, figlio di un sarto, si laureò in Giurisprudenza all’università del Sacro cuore di Milano e lavorò all’Eni di Enrico Mattei. Nella sua lunga carriera politica è stato presidente del Consiglio dal 1988 al 1989, segretario e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1982 al 1989, quattro volte ministro e parlamentare per un’intera generazione. Il suo ingresso nella Dc risale al 1953: eletto deputato per la prima volta nel 1963 (vi rimase per 30 anni, diventando un protagonista della Prima Repubblica), nel 1968 era entrato a far parte per la prima volta in un governo come sottosegretario all’Interno. Diverse le cariche ministeriali ricoperte tra il 1973 e il 1982. Per sette anni rimase leader del partito, fino al 1989, e per un anno fu anche capo del governo. Era sindaco di Nusco, la sua città natale, dal 2014. Del resto, come aveva modo di ripetere spesso, «senza memoria non ci può essere futuro». 

«Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili», lo ricorda su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno», aggiunge il ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Una preghiera per Ciriaco De Mita: al di là delle diverse opinioni, la sua passione per la politica e l’attenzione per la comunità meritano rispetto. Condoglianze alla sua famiglia», ha detto il leader della Lega, Matteo Salvini. Con De Mita «scompare un grande protagonista della politica italiana. Spesso non ho condiviso le sue scelte e le sue idee, ma ho condiviso con lui anni al Parlamento europeo nel gruppo del Ppe, dove avevamo costruito un bel rapporto umano. Una preghiera», ha aggiunto su Twitter il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. «Ha rappresentato una parte di storia personale e di storia italiana e l’orgoglio, la cultura della civiltà contadina, di arrivare alla gestione del potere nel nostro Paese non con una forma di arroganza, ma nel tentativo di cambiare le cose secondo quel tratto di umanità tipico della nostra gente. In parte fu incompreso», le parole di Clemente Mastella. E anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso «il più sentito cordoglio per la scomparsa di De Mita, protagonista politica italiana, fino all’ultimo impegnato in istituzioni».

È morto Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio aveva 94 anni. Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, è morto nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Dal 2014 era sindaco di Nusco, il suo paese natale. 

L’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto a 94 anni questa mattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino.

Qualche giorno fa, mentre era già in ospedale, lo era andato a trovare un amico che lavora alla Rai. E ne era uscito quasi confortato. «Ciriaco ha momenti di confusione per via delle medicine. Ma quando mi ha visto ha detto: "Quanto sei brutto! Ma prima eri peggio…". Insomma, era lui». Già, quelle parole sarcastiche, che in realtà nascondevano una sorta di affettuosità tagliente, erano lo specchio di questo democristiano arcigno come la sua Irpinia . E così appassionato della politica da averla abbracciata e tenuta stretta per decenni: dal cursus honorum dentro la Dc, a qualche ministero «di spesa», fino a farne nel 1982 al 1989 il contrastato segretario del rinnovamento, compresa una breve parentesi a Palazzo Chigi nel 1988. Ma quel doppio incarico, di leader di partito e di governo, aveva segnato anche l’inizio del suo declino, perché in un partito-femmina come la Democrazia cristiana l’idea che chiunque potesse assumere troppo potere faceva rabbrividire. E soprattutto provocava la nascita di anticorpi spietati. E gli anticorpi, allora, avevano le dita lunghe, le unghie curate e la voce narcotica di Giulio Andreotti e di Arnaldo Forlani, che nel 1989 normalizzarono il partito dopo gli anni demitiani. Non che De Mita fosse un oratore brillante. Le sue chilometriche relazioni congressuali ricordavano un po’ quelle di Aldo Moro, suo mito politico e referente ideale e strategico. E spesso le sue interviste erano una croce e una delizia per lo sforzo necessario per renderle meno «ragionate». Eppure è stato un politico di razza: talmente «totus politicus» da avere scelto negli ultimi anni di fare il sindaco di Nusco, il paesino irpino dove era nato e abitava.

La carriera politica

È stato l’ultimo leader scudocrociato a tentare l’estrema operazione di salvataggio di un partito-Stato schiacciato da quarant’anni al potere e da un’Italia e un mondo che cambiavano. Un esperimento ardito e controverso: il «rinnovamento» della Dc dopo il tragico 1978 e l’assassinio di Moro da parte delle Brigate rosse. Fu sua nel 1982 l’idea di inserire degli «esterni» come consiglieri chiamati a rianimare una forza sfiancata dalle logiche di potere. Si chiamavano Giuseppe De Rita, fondatore del Censis. Romano Prodi, futuro presidente dell’Iri, poi premier, poi presidente della Commissione europea. Fabiano Fabiani, manager e prima direttore del telegiornale della rai. E un costituzionalista mite come Roberto Ruffilli: un galantuomo assassinato alla fine degli Anni Ottanta dal terrorismo rosso. Dovevano essere le avanguardie intellettuali e gli emblemi di un’operazione che, nell’ottica di De Mita, recuperava il contatto con il «retroterra naturale» della Dc: il mondo cattolico. Alcuni provenivano dall’Università cattolica di Milano, dove da studenti squattrinati del Mezzogiorno si erano affacciati su una realtà meno provinciale e creato le basi di un ruolo importante nella politica, nell’economia, nel mondo bancario. Amicizie destinate a durare tutta la vita con personaggi come Gerardo Bianco, l’economista Pellegrino Capaldo, il direttore della Rai Biagio Agnes.

«L'operazione demitiana»

De Mita si trasferì con alcuni di loro in un piccolo appartamento i via Confalonieri 5, a Roma, quartiere Prati. E il suo compagno di stanza, il giornalista Pier Antonio Graziani, ricordava sempre che per scherzo, ogni mattina un gruppetto andava nella sua stanza. E, dopo avergli regalato un galero, il cappello di panno rosso dei cardinali, lo invocava scherzosamente: «Cirì, dacci la benedizione!». E lui, assonnato e pigro, gliela dava. Nel 1982, quel gruppo allargato si ritrovò al potere. L’esito dell’operazione degli «esterni» fu osteggiato e contraddittorio, perché nel 1983 il «decidi Dc» demitiano fece perdere tre milioni di voti al partito: il verbo «decidere» era troppo forte per un partito intriso di cultura della mediazione e del compromesso. Ma la domanda era se quei consensi il partito non li avesse persi già da prima; e se quell’operazione non rappresentasse in realtà una consapevolezza del declino imminente, destinata a prendere corpo traumaticamente con la fine della Guerra fredda; e un tentativo di risposta ambiziosa, di qualità. Il 1983, però, fu usato dagli avversari interni per frenare l’operazione demitiana. E finì per accentuare le logiche di potere anche nella cerchia del segretario. Furono gli anni in cui si parlò di «clan degli avellinesi»; in cui il cinismo del padrone della Fiat Gianni Agnelli bollò De Mita come «un intellettuale della Magna Grecia».

Lo scontro antropologico con Craxi

Eppure, con tutti i limiti e le contraddizioni di un uomo del Sud che voleva modernizzare la Dc, De Mita vide e capì l’inadeguatezza di un modello di sistema politico e di società. In fondo, nel suo scontro quasi antropologico con Bettino Craxi, il leader socialista degli anni Ottanta, si intuiva anche la percezione di trovarsi di fronte qualcuno che aveva capito come e più di lui un’Italia in subbuglio; ma offriva soluzioni «decisioniste», da potere verticale e presidenzialista, indigeste alla cultura democristiana. Era un tentativo quasi disperato di stabilizzare il sistema, scegliendo il Partito comunista come interlocutore, sempre con lo sguardo rivolto alle strategie di Moro. Entrambi, Dc e Pci, dovevano arginare l’ascesa culturale, prima che elettorale, del craxismo. E De Mita, dal suo studio a Piazza del Gesù, più ancora che nella breve parentesi a Palazzo Chigi, fu la prima linea di questa resistenza. In realtà, quando diventò presidente del Consiglio il suo potere aveva già cominciato a erodersi. Stava smottando silenziosamente verso Forlani, Andreotti e proprio Craxi, il nemico. Il compito di provare l’ultima manovra di congelamento di un sistema vacillante toccò a loro, nel 1989. De Mita perse la segreteria, ma rimase a Palazzo Chigi per qualche mese ancora, assediato. E quando gli fu chiesto che cosa ne sarebbe stato di lui senza la segreteria della Dc, rispose d’istinto che bisognava chiedersi cosa sarebbe stata la Dc senza lui segretario. Perfido, Andreotti chiosò la sconfitta demitiana al congresso del partito sostenendo che era così convinto di essere vittima di un complotto da essersi suicidato politicamente per avere ragione. Forse. Ma l’uscita di scena di De Mita confermava una presunzione di eternità del potere democristiano che anticipava il suicidio politico collettivo del partito-Stato. La fine della Guerra fredda lo avrebbe certificato in modo drammatico.

De Mita: «Nel 1985 potevo fare il capo dello Stato, ma amo chiacchierare, e un presidente non può». Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 26 Maggio 2022.

Con Cossiga ho rotto nel 1990. Lo portai io al Quirinale disegnando un metodo che faceva scegliere lui. Poi mi voltò le spalle. Chiesi di parlargli prima che morisse, ma non riuscii. 

Riproponiamo questa intervista dell'1 febbraio 2018 nel giorno della morte di Ciriaco De Mita, l’ex presidente del Consiglio e segretario della Dc aveva 94 anni. 

«Una volta un professore della Cattolica mi disse: “Ciriaco, tu hai l’intelligenza di Lucifero”. Giovanni Marcora, fondatore della corrente di Base della Dc, sosteneva invece che se tutti quelli che avevo mortificato col mio pensiero si fossero alleati, di me non sarebbero rimaste “nemmeno le briciole”. Ma sa qual è la verità? Intelligenza o non intelligenza, pensiero o non pensiero, la verità è che io sono un autodidatta. E, come tutti gli autodidatti, so perfettamente le cose che so fare e quelle che non so fare. Le prime le faccio. Le seconde no».

Ci dica una cosa che non avrebbe saputo fare.

«Il presidente della Repubblica. Ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un presidente della Repubblica non può chiacchierare».

Magari dice così perché non ha mai avuto la possibilità di farlo.

«Non è così. Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale. Non volevano Giulio Andreotti ma sul sottoscritto erano disposti a ragionare. Il segretario del Pci me lo fece intendere con l’intelligenza che gli era propria. Era un segnale chiaro, io lo feci cadere nel vuoto».

Si è pentito, poi?

«Mai. Nemmeno se ci ripenso oggi».

Tentare di riavvolgere il nastro dell’esistenza di Ciriaco De Mita con Ciriaco De Mita, che oggi compie novant’anni, è come attraversare un fiume con una barca a remi lasciandosi trasportare dalla corrente. Al mare non ci arriverai mai. Ma la corrente ti porterà in angoli di quel percorso che non pensavi esistessero. Per esempio, fino all’età di ottantasette anni, De Mita è stato seguito da un medico che era un pediatra. Ora non più.

A novant’anni ha detto addio al pediatra.

«No. Ho semplicemente scoperto che quel medico, che era l’amico di una vita, non era un amico. E quindi l’ho cambiato».

Che cos’è per lei l’amicizia?

«L’amicizia è quella conoscenza approfondita in cui non c’è convenienza. Avviene quando la traiettoria della vita di due o più persone si allontana dalla loro naturale propensione alla solitudine. Per questo è un valore, più che un legame».

Impossibile, quindi, che lei abbia avuto amici veri all’interno della Dc.

«Gli amici li avevo nell’Azione cattolica e all’università».

E nella Dc?

«Le racconto una cosa. Per una vita sono stato in conflitto con Carlo Donat Cattin. Si figuri se, in un rapporto del genere, erano previsti scambi di regali o cose del genere. Invece, poco prima che morisse, a gennaio del ’91 mi arrivarono tre libri sulla storia di Roma con un biglietto firmato da lui. Non diceva nulla di che, tipo “ti chiedo scusa se ti sono arrivati in ritardo rispetto alle feste di Natale…”. Eppure in quelle righe vidi un’intensità umana che andava molto oltre il loro contenuto. Avevo ragione e ne ebbi la riprova nel consiglio nazionale che precedeva di poco il varo di un governo Andreotti. Donat Cattin si alzò e disse: “L’ultimo presidente del consiglio democristiano è stato De Mita”».

Con Cossiga, invece, aveva smesso di parlarsi nel 1990.

«L’avevo fatto io presidente della Repubblica».

Di nuovo l’elezione del 1985, quella che poteva essere sua.

«Disegnai un metodo che portava a lui. Toccava alla Dc? Bene, il segretario della Dc, che ero io, decise di incontrare tutti i partiti che si riconoscevano nella Costituzione. Quindi tutti, tranne l’Msi. Andreotti, che era un candidato naturale, mi disse: “Se votano Cossiga, andiamo avanti su di lui”. Convinsi Spadolini garantendo che Cossiga avrebbe tenuto Maccanico alla segreteria generale del Quirinale. E i liberali promettendo d’accordo con Cossiga che, dal Colle, avrebbe fatto Malagodi senatore a vita. Da ultimo, l’incontro con Natta a casa di Biagio Agnes. Era fatta».

Ma nessuna delle promesse venne mantenuta da Cossiga. Né Maccanico al Colle né Malagodi senatore a vita.

«Fosse solo questo. L’avevo mandato io al Quirinale. Eppure, da lì, mi voltò le spalle. Mai mi aiutò nel confronto con Craxi. Vent’anni dopo, quando stette male, alla fine, chiesi di parlagli. Telefonavo e non me lo passavano. Chiamai il figlio: “Di’ a tuo padre che deve rimanere vivo perché ho ancora bisogno di capire delle cose da lui”. Lui morì, io rimasi senza sapere».

I suoi detrattori dicono di lei che ha sempre avuto a cuore una cosa: se stesso.

«È falso. La politica di oggi si fa coi programmi. Ma i programmi non contengono la soluzione per la crescita di un Paese. La nascita o la rinascita di un Paese sta nelle parole. Perché le parole contengono le regole. E non esiste programma se prima non ci sono le regole».

Lei le ha sempre rispettate, le regole?

«Ho sempre pensato alle regole e mai a chi dovesse applicarle. Ho sempre pensato alle soluzioni e mai a chi dovesse metterle in pratica. Io ho il pensiero. Una volta che passa quel pensiero, quasi mi disinteresso a chi tocca fare il segretario, il presidente del Consiglio o della Repubblica. Mi è sempre interessato il come, poco il chi».

Se come Scalfari si fosse trovato a scegliere tra Di Maio e Berlusconi, come avrebbe risposto?

«Avrei risposto “nessuno dei due”. Le domande capestro sono proprie dei tiranni. Il saggio se ne chiama fuori».

Lei si sente saggio?

«Saggio o no, io ho sempre fatto delle battaglie di principio. Cosa che, per esempio, non ho mai visto fare ad Andreotti, che ragionava sempre sulla base della sua opportunità. Oggi, a novant’anni, guardo al futuro partendo dal passato. Ed è una cosa che non vedo fare a quelli giovani, che si occupano esclusivamente del presente».

Quanto vorrebbe vivere ancora?

«Le do una risposta. Ma non le permetterò di scriverla».

Ciriaco De Mita è morto, ex premier e segretario della Dc, fu un simbolo della Prima Repubblica. Concetto Vecchio su La Repubblica il 26 Maggio 2022.  

Aveva 94 anni. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, è stato uno dei grandi leader del Dopoguerra.

L'ex presidente del Consiglio e segretario della Dc, Ciriaco De Mita, è morto stamattina alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino. Lo ha reso noto il vice sindaco di Nusco, Walter Vigilante. A febbraio era stato sottoposto ad un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. Aveva 94 anni e attualmente era sindaco di Nusco, il suo paese.

Ciriaco De Mita, simbolo della Prima Repubblica

C'è stato un tempo, sul finire degli anni Ottanta, in cui Ciriaco De Mita è stato contemporaneamente segretario della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio: praticamente l'uomo più potente d'Italia.

Esponente della corrente di sinistra, veniva dalla provincia profonda. Nusco era la sua Macondo. Figlio di un sarto, dopo il liceo si trasferì a Milano, alla Cattolica (1949-1953), in una stagione in cui l'ascensore sociale funzionava meglio di adesso. Eletto per la prima volta alla Camera nel 1963 vi rimase per trent'anni di fila. Avellino aveva già un leader, Florentino Sullo - un democristiano di raro coraggio che aveva sfidato i palazzinari - De Mita alla fine degli anni Sessanta lo sconfisse e ne prese il posto. Nel 1969 divenne vicesegretario della Dc, quattro anni dopo per la prima volta ministro, all'Industria.

La politica allora era una pazzesca. Si dividevano i buoni e i cattivi in base all'ideologia. C'erano i partiti di massa divisi al loro interno in un groviglio di infinite correnti. Si tenevano congressi con migliaia di delegati che duravano giorni. Milioni di italiani avevano la tessera in tasca. La Dc dominava tutto: dal parastato alla Rai. Il Popolo, il suo quotidiano, nel 1982 costava 4 miliardi e 800 milioni di lire, e ne incassava 702 milioni.

Ciriaco De Mita e la Dc

Per quarant'anni la Dc resse le sorti del Paese. Sembrava immutabile, un monolite invincibile. De Mita la sintetizzò così durante una visita in Guatemala: "Un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c'è l'intervento equilibratore del governo". La definizione è riportata in Piazza del Gesù, il diario compilato dal suo portavoce, Giuseppe Sangiorgi.

Che anni! Che Paese! L'Avellino di Juary giocava in serie A, nel campionato più bello del mondo: dieci campionati di fila, dal 1978 al 1988, che coincideranno, forse non a caso, quasi per intero con il potere demitiano. De Mita fu la rivincita della provincia meridionale. Quando divenne segretario, il 6 maggio 1982, metà città si riversò a Roma per festeggiarlo, ci si faceva raccomandare persino per poter giocare a tressette con lui. Nacque la corrente detta degli avellinesi: Nicola Mancino (poi presidente del Senato), Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, a cui si aggiungerà da Benevento, Clemente Mastella, il giovane responsabile dell'informazione. La campagna celebrava la sua storica rivalsa contro la capitale, Napoli.

Rimase leader del partito per sette anni, fino al 1989, e per un anno pure capo del governo, mentre scorreva una stagione selvaggia, opulenta e crudele. Il Paese rinasceva dopo il buio del terrorismo e scalò le posizioni al punto da diventare la sesta potenza del mondo.

Ciriaco De Mita e il rinnovamento

La parola chiave del suo settennato fu rinnovamento. La Dc del dopo Moro non ritrovava il suo centro, perdeva peso, fiaccata dal malaffare, pesava lo scandalo della P2. Nel 1981 il segretario del Pci Enrico Berlinguer aveva rilasciato a Eugenio Scalfari la sua famosa denuncia sulla questione morale. De Mita reagì. Allevò una nuova classe dirigente, da Sergio Mattarella a Mino Martinazzoli, da Pierluigi Castagnetti a Giovanni Goria (che sarà premier). Grazie a questo sostegno Leoluca Orlando diventò sindaco di Palermo, nell'85, l'alfiere della primavera siciliana. De Mita fu quindi lo scopritore del futuro Presidente della Repubblica, a cui diede le chiavi del partito in Sicilia per emendarlo dai suoi vizi e dalle contiguità con la mafia.

Riuscirà il rinnovamento di De Mita? Fino a un certo punto.

A un certo punto la politica perse slancio, esplose il debito pubblico, fu tutto un duellare con Bettino Craxi, il leader del Partito socialista, a palazzo Chigi dal 1983 al 1987. Craxi e De Mita determinarono la grande narrazione, si tifava o per l'uno o per l'altro. Antonio Ghirelli, il portavoce di Pertini, li descrisse così: "Non potrebbero essere più diversi: cittadino, post-moderno, mondano Craxi; provinciale, tradizionale, familiare De Mita". De Mita dialogava col Pci sulle riforme istituzionali, da cui la Commissione Bozzi (1983), e insieme ai comunisti scelse Francesco Cossiga presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio il 24 giugno 1985. In questo senso De Mita fu l'ultimo erede di Moro.

Ciriaco De Mita, gli aneddoti

Come tanti politici dell'epoca parlava una lingua spesso incomprensibile ai profani. Era il trionfo del ragionamendo. Gianni Agnelli lo bollò perciò come "un intellettuale della Magna Grecia". De Mita si prese una rivincita una domenica pomeriggio al Comunale di Torino, quando, seduto in tribuna accanto all'Avvocato, assistette alla clamorosa rimonta dell'Avellino contro la Juve: da 0-3 a 3-3. Era permalosissimo. Indro Montanelli lo criticò ferocemente più volte, fu pure querelato: quando si ritrovarono faccia a faccia per un'intervista il grande giornalista venne accolto con un "Piacere, Cutolo!".

Ha scritto di lui Marco Follini: "De Mita fu il più concreto e insieme il più astratto tra gli ultimi leader democristiani. Parlava a braccio, a volte senza un riga di appunti, volando alto e seguendo il filo di ragionamenti che potevano apparire fin troppi concettosi e immaginifici. E poi planava sulla realtà prosaica della quotidianità di quel sottosuolo locale e amicale da cui ogni leader politica trae la sua forza". Follini negli anni Settanta fece il suo primo discorso al consiglio nazionale dc, "di rara pochezza", ammetterà poi nel suo libro Democrazia cristiana. Sulle scale s'imbatté poi in De Mita: "Prima di sentirti parlare non ti conoscevo. Ma devo dire che anche dopo averti sentito parlare continuo a non conoscerti".

Con Ciriaco De Mita muore insomma l'ultimo grande protagonista della Prima Repubblica, il simbolo degli anni Ottanta, un'epoca vitale e selvaggia a cui oggi si è tentati di guardare con crescente indulgenza.

Draghi: "De Mita fu protagonista della politica italiana". Letta: "Aprì la Dc alla società e ai giovani". Laura Mari su La Repubblica il 26 Maggio 2022.

Il cordoglio dei partiti e delle istituzioni per la scomparsa dell'ex presidente del Consiglio. Franceschini: "Un grande della Repubblica". Salvini: "Al di là delle diverse opinioni, la sua passione politica merita rispetto".

"Presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, più volte ministro, protagonista della vita parlamentare e politica italiana nella sinistra democristiana, fino all'ultimo è stato impegnato nelle istituzioni locali, come sindaco del comune di Nusco. Alla famiglia, le condoglianze di tutto il governo". E' il messaggio di cordoglio per la morte di Ciriaco De Mita inviato da Palazzo Chigi a nome dell'esecutivo del premier Draghi. E tra i primi a commentare la scomparsa è stata anche il segretario del Pd, Enrico Letta. "Un grande leader, davvero appassionato di politica, che ha fatto la storia della politica italiana, protagonista degli anni '80 e ha cambiato la politica italiana - ha sottolineato il dem - Ha reso possibile una Dc che ha tentato di aprirsi alla società e ai giovani, lui esponente della sinistra democristiana, in contrasto con le linee politiche che non condivideva". A ricordare la figura di De Mita anche il ministro della Cultura, Dario Franceschini: "Ci ha lasciato un grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all'ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene''.

Matteo Salvini sottolinea: "Al di là delle diverse opinioni, la sua passione per la politica e l'attenzione per la comunità meritano rispetto" e Ettore Rosato, presidente di Italia viva, ricorda che De Mita è stato "un uomo per cui la politica è stata passione ed impegno. Ha servito il Paese con grandi responsabilità, fiero sostenitore del pensiero popolare come argine alle derive demagogiche". Dello stesso avviso il coordinatore di Forza Italia Antonio Tajani, che su Twitter ammette: "Spesso non ho condiviso le sue scelte e le sue idee, ma ho condiviso con lui anni al Parlamento europeo nel gruppo del Ppe, dove avevamo costruito un bel rapporto umano".

Paolo Gentiloni, commissario europeo, ricorda dell'ex Dc "le qualità di un leader politico autentico. L'orgoglio delle radici nel suo territorio. La statura intellettuale. E una straordinaria curiosità per le opinioni e le storie diverse dalle proprie".

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 27 maggio 2022.

Dagli anfratti dei cassetti e dai fondali della memoria riemerge una maschera, di cartoncino lucido e con tanto di elastico, che raffigura Ciriaco De Mita. La disegnò nella seconda metà degli anni 80 Giorgio Forattini e venne acclusa in dono da Panorama per le centinaia di migliaia di lettori, a riprova dell'eccezionale popolarità del leader democristiano. Eppure De Mita non fu mai una maschera, se non nell'accezione, per molti versi drammatica e a suo modo preveggente, che ne aveva dato dieci anni prima Pasolini osservando al telegiornale i potenti democristiani. Per un settennato al potere nella Dc - se il potere ha un valore, cosa di cui si è autorizzati a dubitare - egli fu l'uomo più potente d'Italia.

Di questo ebbe certo consapevolezza, ma strenuamente e contraddittoriamente si opponeva a questo destino, nel suo intimo assegnando il primato, più che al comando, al pensiero, anzi al Pensiero, alle cui virtù tributò di continuo dedizione, ma di cui fece anche sfoggio e forse abuso, sconfinando a tratti nella superbia e indulgendo talvolta al disprezzo. Detta in modo meno aulico: De Mita dava i voti a tutti, forse anche a se stesso, ma in modo più sommesso, anche se intimamente doloroso, vedi la foto stravaccato su un divano con la mano sulla testa dopo la sconfitta elettorale del 1983. 

In qualche modo si poteva permettere una certa quota di boria perché fu l'ultimo grande leader intellettuale all'altezza di un tempo in cui la politica e la cultura non si erano ancora separate. Sul piano politico, di quel suo settennato, si potranno dire le cose più varie, ma è innegabile che De Mita ridiede cuore, senso, grinta e smalto a una Dc che senza Moro aveva perso l'anima. Detta anche qui in termini più brutali: regalò allo scudo crociato altri dieci anni di vita.

Poi, prima di mollare il doppio osso della segreteria e di Palazzo Chigi, illuso poi fatto secco da quegli stessi alleati che da giovane aveva anche duramente contrastato (Gava e Andreotti, un po' meno Forlani con cui sentiva un'affinità generazionale), ecco, nessuno più lucidamente di lui teorizzò cosa avrebbe significato la fine della Dc per l'Italia, il venir meno di quel biblico e mitologico contenimento, fra katechon e vaso di Pandora, un blocco sociale senza cui sarebbero dilagati la mafia, il giustizialismo, la reazione, il berlusconismo, il populismo e così via. 

Ma non fu mai compreso quanto lui avrebbe voluto (cioè tantissimissimo). Peggio: più lui si impegnava nei "ragionamendi" sui massimi sistemi, a volte davvero alti e preziosi, irti com' erano di salti e ribaltamenti; più si esaltava sulla limpidezza della politica, più si sforzava a delineare una "nuova statualità" immaginata fin dagli anni della Cattolica e dalle lotte sotterranee con i vescovi nella sua terra (gli impedirono di candidarsi) e della lunga azione per il centrosinistra, più un potente campo magnetico lo incatenava all'immagine del figlio del sarto di Nusco fattosi boss di provincia e circondato da fedelissimi adoranti. Compiuto manager della miseria, progressista a Roma e clientelare nella sua Irpinia. Fortunata la definizione di Pannella: "Il clan degli avellinesi".

Fu il suo cruccio, ma non il suo camposanto. Ebbe cause giudiziarie con Montanelli e con i comunisti ("De Mita si è arricchito col terremoto"). Fu sbeffeggiato, più che accusato, per la pronuncia impropria e cantilenante, per l'attenzione spasmodica alla propria terra (Napoli condannata a essere "Avellino marittima"), per certi scivoloni da parvenu, la casa faraonica dell'ente pubblico e una famiglia un pochino ingombrante. 

Nulla, s' intende, rispetto a quello che si sarebbe visto poi. Ma lui, tignoso come pochi, seguitò a dare i voti, ad alzare gli occhi al cielo, a declamare autori conosciuti e reconditi e a far la guerra a Craxi lasciando che il Pci rimanesse nel limbo della sua crisi imminente, piccolo grande capolavoro tattico e magari autolesionista, ma così va il mondo per queste faccende.

Arrivato a presiedere il governo dopo averne creati, tollerati e sabotati diversi, si contornò del fior fiore della cultura di governo laico-lamalfiana (Maccanico & Manzella) e forte del suo rapporto privilegiato con Eugenio Scalfari rispose da par suo, e quindi dall'alto, a chi lo combatteva sfottendolo per l'ossessiva mania anti-stress del tressette spizzichino: erano session talvolta superiori alle 10 ore di seguito, sparring partner un signore promosso presidente dell'Iacp di Avellino, Tonino Pagliuca, detto "Sputazzella". 

Il punto è che i leader di solito non se ne rendono conto, ma il sole comincia a tramontare a mezzogiorno, e a Palazzo Chigi Ciriaco era già cotto a puntino. Eppure aveva dato al suo partito, al suo paese e in fondo a se stesso tutto quel che poteva e doveva per avere la coscienza a posto. Ebbe fastidi da Tangentopoli, ma oltre a riuscirne indenne, con qualche immaginazione si può pensare che negli ultimi trent' anni, lui così innamorato di una politica che nel frattempo si era immiserita e poi desolatamente degradata, s' impegnò a diventare saggio. A parlarci, in lunghe telefonate di allegra pignoleria, risultava curioso e spiritoso (lo era più di quanto sembrasse), però mai distaccato, con che la via della sapienza gli restava preclusa, a differenza dal nonno che pure Ciriaco nipote ricordava nei congressi (ed è una delle poche cose che restano impresse in discorsi che duravano anche quattro cinque ore).

La maschera di Forattini dice fino a che punto De Mita incrociò la mediatizzazione della politica. Eccolo: la coccia pelata, le basette, il naso a patata, la bocca sottile. La fisiognomica dell'intelligenza trasmette un messaggio agrodolce. I ricordi, anche personali, lasciano una tenerezza che vale più del potere. La povertà del presente ci ricorda che uomini così si possono salutare addirittura con riconoscenza.

È morto Ciriaco De Mita, ex segretario Dc e presidente del Consiglio. Il Domani il 26 maggio 2022

È morto questa mattina alle 7 Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario della Democrazia cristiana. Aveva 94 anni. Lo ha reso noto il vicesindaco di Nusco, in provincia di Avellino, città dove De Mita era nato e dove era sindaco al secondo mandato. Lo scorso febbraio De Mita era stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura di un femore, dopo una caduta in casa. Ad aprile era stato poi ricoverato a causa di attacco ischemico.

Esponente della corrente di sinistra della Dc, uno dei grandi notabili intramontabili della prima repubblica, era soprannominato “l’uomo dal doppio incarico” perché per un periodo era stato in contemporanea presidente del Consiglio (fra il 1988 e il 1989) e segretario Dc (1982-1989). 

Dopo lo scioglimento del suo partito, De Mita è rimasto in politica seguendo gli eredi della corrente di sinistra del partito nel percorso che li avrebbe portati a fondare il Partito Popolare, la Margherita e infine a confluire nel Pd.

Ciriaco De Mita ad un evento della Dc negli anni 80.

Nel Partito Democratico però rimane poco, in polemica con la regola che all’epoca imponeva un tetto di tre legislature e che gli avrebbe impedito di partecipare alle elezioni del 2008.

Si sposta così nel centrodestra entrando nell’Udc, il partito dove sono confluiti i suoi antichi rivali democristiani di destra, con i quali viene eletto al Parlamento europeo. Nel 2014, quando in piena epoca della “rottamazione” renziana si candida sindaco del suo paese natale a 86 anni, per De Mita arriva una seconda ondata di notorietà. Schieratosi per il “no” al referendum costituzionale del 2016, affronta l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi in un dibattito televisivo.

«È stato protagonista della vita parlamentare e politica italiana», ha detto il premier Mario Draghi. Ciriaco De Mita era nato il 2 febbraio 1928 a Nusco.

Mastella: «De Mita maestro di molti, ma alla fine anche i suoi popolari non lo vollero». DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 26 Maggio 2022.

Il sindaco di Benevento: «Mi fece deputato a 28 anni, il nostro fu un grande innamoramento. Finì con la fine della Dc. Lui scelse i popolari. Lo avvertii che quegli amici avevano idee un po’ moralistiche, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono»

È lungo l’elenco dei nomi della classe dirigente che Ciriaco De Mità formò, nei decenni. La parte più consistente è certamente quella regionale, a cui il leader della Dc scomparso stamattina all’età di 94 anni - che fu segretario per sette anni, dal 1983 al 1989, il più longevo segretario, più di De Gasperi e di Fanfani, e sindaco della sua Nusco dal 2014 fino a oggi - si dedicò per tutta una vita. Sono nomi meno conosciuti di quelli nazionali, che a loro volta sono moltissimi.

Uno dei più noti è Clemente Mastella. Che ricorda come iniziò quel sodalizione che durò fino alla fine della Dc: «Avevo 28 anni quando divenni deputato, nel '76, grazie a lui. Gli avevo scritto una lettera, animavo un gruppo di amici legati al Concilio, eravamo cattolici democratici. Ma non eravamo iscritti alla Dc, che per noi era troppo conservatrice. Lui venne a trovarci e dialogammo. Poi ci fu una forma di innamoramento fra lui e me. Divenni vicesegretario della Dc regionale. Riconobbe in me un po’ di talento. Molti non lo ricordano ma grazie a lui Romano Prodi divenne presidente dell’Iri, e qualche anno dopo Giovanni Goria divenne presidente del Consiglio. Devono a lui Pier Luigi Castagnetti, Bruno Tabacci. E Sergio Mattarella, che da lui fu spinto ad impegnarsi in politica e che nel 1984 lo mandò a fare il commissario della Dc in Sicilia»

E Nicola Mancino, e Gerardo Bianco.

Sì ma loro sono la classe dirigenti di qui, nostra. La verità è che abbiamo esportato un modello di comportamento politico da qui, dalla Campania, all'Italia. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi. Fummo contrastati dai poteri forti.

I poteri forti contro di voi che eravate potentissimi?

Lo fummo. Perché il fatto che arrivavamo dalla provincia non piaceva. Figuriamoci: a me hanno contestato il fatto di essere sindaco di Benevento perché vengo da Ceppaloni. E così se venivi dall'Irpinia o dal Sannio, guai ad arrivare ai vertici del potere. A De Mita veniva contestato persino il modo di parlare.

Non è che fosse chiarissimo. Era una scelta?

Nessuno può dire che avesse problemi di grammatica, era un uomo coltissimo. Gli veniva contestata la pronuncia. Ma chi voleva capire, capiva. Poi certo, lui faceva ragionamenti politici e c'è chi la politica non la capisce. Per lui la politica era con la maiuscola, era la filosofia della politica. De Mita era un leader, un maestro, un riferimento. Altrimenti non sarebbe arrivato a prendere 200mila voti. E noi demitiani eravamo l'elemento trasmissivo dei suoi orizzonti politici. La sua fu una scuola. Avevamo l'orgoglio della nostra intellettualità. Aveva studiato Sturzo e De Gasperi, ma anche Gramsci. Fu un grande innovatore, ebbe grandi intuizioni.

Il doppio incarico, per esempio: fu segretario e presidente del consiglio, l'unico precedente di Matteo Renzi.

Fu una scelta contestata. E gli imposero di scegliere. Ma oggi tutti i leader europei hanno il doppio incarico.

La sinistra di base della Dc, di cui lui era leader, vide prima degli altri anche la nascita del potere di Silvio Berlusconi. 

Con Berlusconi ebbe sempre un rapporto controverso. Io invece avevo un atteggiamento più tranquillizzante. Cercavo di spiegargli che come la Fiat trattava con i repubblicani e i socialisti, noi avremmo dovuto trattare con Berlusconi, ma senza sottomissioni.

Direi peggio che controverso: nel ‘90 i ministri della sinistra Dc si dimisero contro l'approvazione della legge Mammì.

Sì, io non lo convinsi e con Berlusconi non si intesero mai. Poi anche noi ci dividemmo, quando la Dc finì. Io feci il Ccd con Pier Ferdinando Casini e invece lui si scelse con il partito popolare. Lo avvertii che quegli amici avevano un'idea un po’ moralistica, insomma che non l'avrebbero candidato. E infatti non lo candidarono. Fu un’amarezza per lui. Ci sentimmo ancora per molto tempo, anche quando fui ministro di Berlusconi. Poi ci perdemmo. Ma quando nel 2016 mi candidai a sindaco di Benevento venne a trovarmi.

De Mita lascia tanti allievi tuttora attivi in politica?

Lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all'epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l'attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto. Al fondo l’accusa che gli è sempre stata rivolta è quella di interessarsi ai problemi delle nostre realtà. Ed è un errore, perché la vocazione del parlamentare è proprio quella di rispondere ai bisogni di una comunità. Era la sua scelta, e l'ha portata fino in fondo, fino alla fine. Aveva una clientela, ma era una sana clientela.

Come è fatta una clientela "sana".

È fatta da chi non ha riparo nelle istituzioni e cercava il politico per avanzare nella società, magari attraverso un figlio che aveva studiato ma non trovava nessuna altra possibilità. De Mita aprì un varco anche per le zone interne, penso alla Fiat di Grottaminarda. Grazie a lui per la prima volta si parlò delle zone interne della Campania.

Fabio Martini per “la Stampa” il 27 maggio 2022.

Pochi, come Clemente Mastella, hanno conosciuto politicamente Ciriaco De Mita e in questa intervista a La Stampa, l'ex pupillo racconta una storia italiana, di quelle che resero grande il Paese tra gli anni Cinquanta e gli anni Ottanta, la storia di un ragazzo dell'Irpinia che, passo dopo passo, diventò presidente del Consiglio. Dice Mastella: «Con De Mita si chiude un ciclo a suo modo "glocal": un leader che era riuscito a trasferire la cultura del villaggio dell'entroterra campano al governo dei processi politici nazionali. Per quegli anni fu un unicum».

Irpinia anni Cinquanta: ce la possiamo immaginare?

«No. De Mita viveva in una zona dove c'erano una Dc clericale e una Chiesa pre-conciliare. Questo lo portava ad essere spesso in dissenso. Lo chiamavano "comunistello di sacrestia", una definizione che ricordo perché 20 anni dopo la usavano anche per me. La prima volta non fu neppure eletto. Ci rimase male ma non si disamorò».

Un giovane aspirante deputato come si faceva strada?

«Quando partecipai al mio primo congresso della Dc di Benevento, dissi a mio padre: "non venire, dirò cose ardite". E invece venne De Mita a sentirmi, io ero emozionato e gli dissi: "Non riesco a parlare! "».

Lei come lo chiamava? Onorevole?

«Si figuri che gli davo del voi! Ma poi si sviluppò un rapporto di paternità politica ed umana. Potevi capire, non capire, ma si pensava. Il voi lo superai, dicendogli: "onore', tutti le danno del tu e la gente non capisce perché l'allievo prediletto continua col voi!». 

Nel 1976 lei entra nella mitica cordata di De Mita e ad appena 28 anni è eletto deputato; come riuscì a battere la concorrenza?

«Di me gli piaceva questo dato di giovinezza, accoppiata a una dose di intelligenza che riteneva io avessi. Io venivo da un paesino che portava poche preferenze eppure fui scelto tra tanti. Lui, Bianco, Gargani ed io, alle elezioni del 1976, ci presentammo con questa quaterna 1-9-7-6. Alle Europee 1988 prese un milione di preferenze. Mi chiamò col suo solito intercalare: "Dove sei? ". E io: "Ma dove vuoi che stia? A far follie? Sono distrutto!"». 

Quando De Mita era il potente segretario della Dc, gli interessavano più la Rai o i giornali? Il suo rapporto con Eugenio Scalfari?

«I giornali gli interessavano più della tv. Ottimo il rapporto con Scalfari. Una volta lo accompagnai io a Nusco. Condividevano l'ostilità per Craxi». 

Con Craxi De Mita perse il duello: quali erano i veri rapporti?

«Con Craxi in pubblico si combattevano, ma ogni tanto si appartavano senza che nessuno sapesse dove fossero. Andavano in un convento di suore sull'Appia Antica. Tra di loro c'era un riconoscimento reciproco di intelligenza».

Berlinguer?

«Ottimo rapporto, attraverso Tonino Tatò. Quando Berlinguer ebbe l'ictus fatale, chiamai De Mita alle 3 del mattino e lui mi rispose: "Una tragedia. Per tutti"». 

Congresso Dc 1989, in campo le truppe mastellate: la vera storia?

«Martinazzoli aveva avuto spontaneamente 17 minuti di applausi e per De Mita volevamo arrivare a 18! Ne mancavano due, io ero esausto, stavo per cadere ma poi ce la facemmo».

A lui quanto davano fastidio gli sfottò sul suo accento irpino?

«Era coltissimo. Gli veniva contestata la pronuncia. Forse gli dava fastidio, ma non lo ha mai ammesso. Diceva: se io parlo così qual è il problema?». 

Il ritorno a Nusco come sindaco?

«Non era come il ritorno dei salmoni alle origini, ma c'era la politica come dovere di pensare alla propria comunità. Lui pensava che meritava di essere aiutato il figlio di un contadino che aveva fatto sacrifici e non trovava lavoro. Clientelismo? Era giusto così».

Mastella: «Con De Mita volevo creare la Dc del Mezzogiorno». «Ha rappresentato la speranza politica per le aree interne. Il sequestro Moro e la morte di Berlinguer furono le notizie più dure che gli ho dovuto comunicare». MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

«Con Ciriaco De Mita volevo creare la Democrazia cristiana del Sud, ma il progetto, per un motivo o per un altro, non riuscì mai a concretizzarsi». Clemente Mastella, oggi sindaco di Benevento, parlamentare e ministro democristiano di lungo corso, parla con commozione del suo mentore politico. Con De Mita ha intrapreso buona parte dei sui percorsi politici.

«De Mita – sottolinea – ha fatto scuola». Lo ha fatto nel suo partito con Nicola Mancino, poi presidente del Senato, Gerardo Bianco, Giuseppe Gargani, e poi anche proprio con Mastella, che arrivava da Benevento.

Mastella, lei fu anche capo ufficio stampa della Dc. Ci racconta qualche episodio particolare del suo legame con De Mita?

«Avevo 18 anni e con dei ragazzi cattolici ci dedicavamo alle letture di testi conciliari. Allora eravamo fuori dalla Democrazia cristiana che ci sembrava conservatrice. A De Mita scrissi una lettera, in cui gli spiegai queste cose, per invitarlo a parlare da noi. E lui venne. Ebbi poi con lui un dialogo fitto. E mi ricordo che venne a sentire al congresso provinciale della Dc in cui fui sconfitto. Io gli davo del “Voi”. E in quella occasione De Mita mi disse “siccome tutti ritengono che fra lei e me ci sia un rapporto eccezionale, facciamo perlomeno finta di darci del tu”».

Cosa ha rappresentato De Mita per il Sud e la Campania?

«È stato una speranza politica per le aree interne. De Mita ha rappresentato una parte di storia personale e di storia italiana e l’orgoglio identitario, la cultura della civiltà contadina, di arrivare alla gestione del potere nel nostro Paese non con una forma di arroganza, ma nel tentativo di cambiare le cose secondo quel tratto di umanità tipico della nostra gente. In parte fu anche incompreso. I suoi discorsi erano avvolgenti e esprimevano una naturalezza della politica di cui si è persa traccia. È stato un vero statista e un grande leader. Ha rappresentato davvero tanto per la Campania e il Mezzogiorno. Da allora non si è più ripetuta una storia analoga per incisività istituzionale e levatura politica».

Ritiene che De Mita sia stato un rinnovatore della politica?

«Non solo è stato un grande rinnovatore, ma anche un maestro che ha lanciato tanti noi giovani di allora, tra cui Giovanni Goria. Io, per esempio, sono diventato parlamentare a 28 anni e mezzo. Ha dato spazio ai giovani, ha attuato gesti di straordinaria novità come la nomina di Sergio Mattarella a commissario della Dc in Sicilia in anni veramente difficili, di Romano Prodi alla presidenza dell’Iri. Devono molto a lui anche Pier Luigi Castagnetti e Bruno Tabacci».

De Mita lascia oggi tanti suoi allievi ancora in attività in politica?

«Direi che lascia soprattutto una cosa che oggi va un po’ di moda ma all’epoca non piaceva affatto, ed è una delle sue tante intuizioni: l’attenzione alla realtà territoriale, per la quale ha avuto contrasti, penso a tutta la contestazione sul terremoto».

E proprio per questa particolare predilezione per i territori siete stati destinatari anche di dure critiche…

«Sì, lui ed io siamo stati ingiustamente accusati di attenzione eccessiva ai localismi ma l’intuizione era proprio quella di portare il territorio, le zone interne, al centro dell’attenzione del governo. De Mita riteneva, sulla scia del pensiero sturziano, che la politica avesse il dovere di rispondere ai bisogni delle comunità, soprattutto dove questo bisogno è più scoperto».

Secondo lei, De Mita è stato un politico lungimirante?

«Sicuramente sì. È stato lungimirante perché aveva concepito un partito che rispondesse alle esigenze di una società in continua evoluzione. La sua umanità diretta rispetto alle persone portava qualcosa di diverso alla politica. La verità? Credo che abbiamo esportato un modello di comportamento politico dalla Campania all’Italia intera. Una classe politica che partiva dalla provincia, la sana provincia italiana, e arrivava al potere, con sacrifici che riguardavano la storia personale di ognuno di noi».

Quali sono state le notizie per cui ha dovuto trovare più forza e coraggio da comunicarle a lui?

«Due eventi, uno drammatico e l’altro molto triste. Il sequestro di Aldo Moro: ricordo che restò di sasso quel giovedì di sangue. E poi fu profondamente addolorato quando gli comunicai il decesso di Enrico Berlinguer a Padova. Lo chiamai alle 3 del mattino: gli dissi che era appena morto il segretario del Pci. Lui mi rispose: “Questa è una tragedia per tutti”».

Che rapporti aveva con lui?

«Abbiamo percorso un lunghissimo tratto di strada assieme. Il nostro rapporto è stato sempre eccezionale e cordiale. Poi purtroppo si è incrinato. Io organizzai il Ccd, lui si arrabbiò. E si spostò più verso sinistra…Io gli dissi: guarda che non ti candideranno. E così fu. Alle Politiche del 2008 non fu candidato per via dello statuto del Partito democratico, che puntava ad un rinnovo della classe politica».

E con i rapporti con gli altri big della politica nazionale?

«Ricordo che con Bettino Craxi, a distanza, mal si sopportavano. Ma a tu per tu si rispettavano reciprocamente. Invece aveva un eccellente rapporto con Enrico Berlinguer».

De Mita, conoscere la politica per saperla dominare con intelligenza. Creare "nuova statualità", in grado di canalizzare la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole condivise. GERARDO BIANCO su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

«La politica è conoscere le vicende e dominarle con l’intelligenza», così De Mita apriva il suo discorso al XV Congresso della Democrazia Cristiana che lo elesse Segretario del Partito. È stata questa la sua costante convinzione: la politica intesa, appunto, come ragionamento, “freddo e lucido” continuava a dire, per capire gli eventi e trovare le appropriate soluzioni.

Ciò significa creare “nuova statualità”, in grado di canalizzare armonicamente la tumultuosa contesa sociale attraverso un sistema di regole da tutti condivise. La politica per De Mita, la grande passione della sua vita, è, quindi, soprattutto, cultura delle istituzioni.

Se dovessi indicare una data per l’origine, o comunque la “messa a punto” di questa visione della politica come progressiva costruzione e cura dello Stato democratico, risalirei agli anni della sua formazione universitaria nella Cattolica di Milano. Siamo nell’aureo quinquennio degasperiano, tra il 1949 e il 1953. De Mita approdava a Milano avendo già esperienza associativa e politica; conosceva Fiorentino Sullo, l’indiscusso e innovatore leader democristiano dell’Irpinia, era convinto per le sue letture, che bisognava superare lo Stato liberale, ma è nella vivace e raffinata facoltà giuridica della Cattolica, nell’insegnamento del suo maestro Domenico Barbero e dei dialoghi inesausti, anche notturni, con noi puntigliosi colleghi dell’Augustinianum, che egli andò precisando il suo pensiero politico come costruzione costante di regole ampiamente condivise, ma con grande attenzione alle trasformazioni in atto di una società “ribollente” come quella post-bellica, che andavano ben interpretate.

Siamo agli albori dei primi anni ’50 del secolo scorso e dei primi slanci vitali di una rinascita, appunto, dopo la distruzione fascista, che si manifestava a Milano in modo particolarmente vigorosa. Continue erano le scoperte e le innovazioni, dalle mostre pittoriche, ai grandi incontri culturali, ai concerti di leggendari pianisti, alla rinascita del teatro e del cinema che aveva in Mario Apollonio, l’italianista della Cattolica, uno dei più ascoltati ispiratori, mentre si avviava la grande ricostruzione edilizia, e robusta riprendeva la produzione industriale. La città si animava di nuovi negozi, cinema e mostre, a partire da Viale Manzoni, dove eleganti si aprivano al pubblico le vetrine di Motta e di Alemagna.

Dinanzi a tanto dinamismo era inevitabile che la politica cercasse di mantenere il passo, e numerosi erano i circoli e i dibattiti, anche pubblici, in Galleria e in Piazza Duomo. La tradizione del popolarismo e il rilancio della Democrazia Cristiana erano a Milano molto robusti. Ciò non poteva non avere un forte impatto nella “Cattolica” dove consistente era, con Giuseppe Lazzati, la presenza del dossettismo, ma anche di tendenze legate ai Comitati Civici di Gabrio Lombardi. E fu in occasione di una sua conferenza all’Università che De Mita organizzò una manifestazione di netto dissenso che metteva ben in luce la sua concezione anti-integralista della politica, l’ascendenza ideale alla lezione degasperiana, rivisitata da una coscienza più attenta verso le trasformazioni sociali necessarie, a partire dal Mezzogiorno d’Italia che fu un punto fermo della sua vita politica.

Nella logica di questo orientamento “naturale” fu l’incontro di De Mita con la corrente di Base, che proprio a Milano aveva origine, con Marcora e Granelli, e che si apriva a nuovi orizzonti di allargamento dell’area democratica, con un colloquio avviato con il socialismo meneghino nella città fortemente radicato. Nella Base De Mita divenne, per molti aspetti, il teorico della piattaforma politica e istituzionale.

Sulla sua lunga vicenda politica, che ha le radici nell’Irpinia dell’immediato dopoguerra, e nel fervido laboratorio intellettuale dell’Università Cattolica di Milano degli anni ’50, e sul concreto operato politico nelle diverse esperienze di governo e di partito, può addentrarsi solo un’avveduta ricerca storica, scevra da pregiudizi che valuti successi, sconfitte e anche contraddizioni. Ma ciò che si può già affermare è che egli ha sentito la politica come alta vocazione, che indubbia è la coerenza del suo pensiero che si condensò in una dottrina democratica nella quale le “istituzioni pensano e agiscono”, lanciando fortunate formule politiche come il “patto costituzionale” e “l’arco costituzionale”.

A testimoniare l’autentica passione politica v’è la sua biografia. Egli, infatti, non ha mai considerato gerarchie nei ruoli da svolgere, passando, appunto, dai vertici della Repubblica alla guida come Sindaco di un piccolo comune, Nusco, sia pure paese natio.

In un momento storico nel quale sempre più si manifesta la crisi della democrazia rappresentativa e, quindi, del Parlamento, e riemergono tentazioni decisioniste con le proposte presidenzialiste, la lezione politico-istituzionale di Ciriaco De Mita, risulta di grande attualità e ci ammonisce di quanto sia illusoria e pericolosa la soluzione del Governo affidata al leader di turno, favorendo, così, le spinte populiste, invece di costruire lo spirito pubblico e il consolidamento sociale di un popolo.

Questo ragionamento ascoltavo nei lontani anni della Cattolica, l’ho ritrovato, limpidamente esposto, nei suoi libri e l’ho sentito ribadito ancora di recente, nell’estate scorsa. È un insegnamento che resiste nel tempo, perché solido e meditato e che rende De Mita un indiscusso protagonista della tormentata democrazia italiana. Non sempre le decisioni, le scelte, la gestione del potere sono state da me condivise.

Agli anni della profonda intesa, nata negli ambulacri della Cattolica, proseguita nelle battaglie politiche avellinesi e nel cammino del primo, comune decennio parlamentare, sono seguiti periodi di dissenso, ma poi anche di robusto accordo per difendere la storia dei cattolici democratici, al momento della grande frattura buttiglioniana. Diversa ancora è stata la valutazione dello sbocco politico del popolarismo nell’afono movimento pidiessino, ma comune resta la difesa intransigente di una storia politica come quella democristiana che ha costruito la Repubblica democratica dell’Italia, in un quadro rigorosamente europeo.

In questo lungo tempo di alterni rapporti, non si è, comunque, mai spezzato il filo sottile dell’amicizia che ha continuato ad accomunarci, anche nella condivisa profonda amarezza per il tramonto della forza politica, la Democrazia cristiana, alla quale abbiamo dedicato la vita, ma che resta un prezioso serbatoio di dottrine e di metodo politico che può ancora indicare la strada di una nuova, seconda rinascita dell’Italia.

Aloise ricorda il vecchio leader: «Quando vinsi De Mita a carte». Il rapporto con Misasi, la nascita della sinistra di base. Negli anni '80 mandò Mattarella a mettere ordine nella Dc di Reggio. MASSIMO CLAUSI su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022. 

La Calabria aveva Riccardo Misasi e le bastava. Gli ex appartenenti locali della corrente della sinistra di base della vecchia Dc su questo punto sono tutti concordi. In Calabria il leader era Riccardo che con De Mita viveva quasi una simbiosi politica. Merito del vecchio rapporto d’amicizia fra i due, nato addirittura fra i banchi del Collegio Augustinianum ai tempi della Cattolica di Milano. Una fucina della futura classe dirigente democristiana.

Dopo l’esperienza di studi, la leggenda narra che Misasi tornò a Cosenza, con l’idea di svolgere la professione di avvocato, ma fu proprio De Mita a convincerlo a intraprendere una carriera politica che lo vide sempre al fianco del futuro segretario nazionale della Dc. Un rapporto simbiotico fra i due, accomunati dall’idea che la politica doveva sempre e comunque partire da un pensiero forte, da un’analisi. Non era il classico rapporto fra il leader nazionale e il plenipotenziario locale. No, i due erano praticamente sullo stesso piano. Insieme tracciavano le strategie, insieme si posero il problema del rapporto con le altre forze politiche che li portarono a fondare appunto la corrente della sinistra di base, contrapposta alla sinistra sociale di Donat Cattin. Per questo De Mita si interessava poco e con apparente distacco delle vicende politiche calabresi. A quelle ci pensava Riccardo.

Ma guai a pensare che De Mita non seguisse da vicino una delle roccaforti della vecchia Dc. Fu proprio lui, da segretario di partito, ad inviare nell’83 e nel 1987 Sergio Mattarella a Reggio Calabria, prima nelle vesti di osservatore, poi di commissario della sezione reggina della Dc. Erano anni complicati in cui le voci su possibili interferenze della criminalità organizzata nel partito si facevano sempre più insistenti. De Mita e Misasi decisero che quel ragazzo promettente, che molto bene aveva fatto già a Palermo. poteva essere l’uomo giusto per rimettere le cose in riga senza fare troppo rumore.

«Ricordo la gente che affollò il comizio di De Mita a Reggio Calabria nel 1987 – ricorda oggi Peppino Aloise – Anche io ero candidato alle Politiche e con noi c’era pure Ludovico Ligato. Ricordo che De Mita fece un discorso dei suoi: lungo, articolato, complesso. Ma la piazza restò sempre piena ad ascoltare le sue analisi. Certo erano tempi diversi, oggi che imperano i social quel tipo di discorsi non è più nemmeno immaginabile».

Ma Aloise ricorda ancora una grande passione del politico di Nusco: le carte. «Era un amante del gioco delle carte, un campione di scopa e tressette. Era il suo modo di rilassarsi. Un giorno andammo a Nusco a trovarlo e mi sfidò a scopa. Vinsi la prima mano, lui si arrabbiò molto e volle una rivincita. Vinse le altre due partite e poi con un sorriso sornione mi chiese: non è che mi fai vincere apposta?».

Sono tanti i ricordi legati a De Mita di Aloise. Il più esaltante la nascita del primo governo di centrosinistra grazie anche al contributo di Guarasci. «Tutti e tre sostenevano con forza la necessità della cultura come essenziale alla costruzione di una nuova classe dirigente e al riscatto del Meridione. Ricordo con grande emozione i discorsi serrati per la nascita dell’università ad Arcavacata. All’epoca la Dc giocò un ruolo che non sempre gli viene riconosciuto e lo fece proprio grazie a Misasi, De Mita e Guarasci».

De Mita, l'ultimo leader di una politica scomparsa: intuì prima di tutti l’esigenza del cambiamento. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

Ciriaco De Mita è l’ultimo tentativo nobile di valorizzare il cattolicesimo politico come cemento laico della riforma dello Stato e della modernizzazione del Paese, ma che non riuscì perché la Democrazia cristiana e i suoi eredi non potevano più rappresentare il veicolo della nuova sintesi nazionale. Con il senno di poi si è, forse, capito l’errore della contrapposizione frontale a Craxi che impedì il dialogo con un’area di riferimento riformista più congeniale al cambiamento, da tutelare e preservare durante la stagione di decadenza dei grandi partiti che sono stati l’ultima espressione di radicamento della politica nella società. Si dovette piuttosto constatare che non c’era più lo spazio per fare quello che si aveva in mente di fare perché si era esaurita la stagione dei valori di mediazione politica e di cultura diffusa che avevano positivamente segnato i tempi di De Gasperi e di Moro.

Provò De Mita, a ben pensarci, a mettere la sfida del rinnovamento della Dc in un rinnovamento più generale delle istituzioni politiche e economiche del Paese. Per le prime e il disegno di una nuova architettura dello Stato scelse il professore Roberto Ruffilli, tragicamente ucciso da un commando di undici brigatisti rossi, per le seconde partendo dall’economia pubblica che bisognava aprire al mercato il professore Romano Prodi. Che andò alla guida dell’Iri in coppia con Reviglio alla guida dell’Eni, che era di Craxi come Prodi era di De Mita. Per dire che pezzi di dialogo costruttivo iniziale tra i due grandi capi della Dc e del Psi in effetti ci furono.

La verità è che il Paese era già cambiato per capire e fare proprio il messaggio rinnovatore.   Era troppo tardi perché era cambiato il mondo. Nessuno, però, potrà mai togliere a De Mita il merito di avere capito, seppure in ritardo, prima di tutti gli altri la deriva di lacerazione della coesione sociale e di impoverimento competitivo verso la quale il Paese, le sue istituzioni, la sua stessa tenuta sociale e economica, si erano improvvidamente avviati. Neppure Pietro Scoppola, ancora anni dopo,  lo capì fino in fondo perché erano ancora in troppi ad essere convinti non che il cattolicesimo politico avrebbe potuto ritornare ad avere un ruolo positivo di stimolatore del cambiamento sui tempi lunghi, ma addirittura in quelli a loro contemporanei.

Dovettero toccare tutti con mano che il “dominio ecclesiastico” delle parrocchie e delle idee era giunto alla fine dei suoi giorni. Si puntava su una rete di connessione che si pretendeva che esistesse ma non c’era più e ci si illudeva di realizzare il cambiamento allargando l’area di influenza laica dentro quei valori cattolici di modernizzazione mitigandoli, a volte cambiandoli, quasi mai snaturandoli, ma senza mai riuscire ad arrivare a una sintesi effettiva che facesse prevalere le ragioni nobili comuni del futuro dello Stato e dell’economia così lucidamente intuite come ineludibili.

Si dovette fare i conti con il grande dibattito politico-mediatico degli anni 80 mandando all’aria il cuore rinnovatore dello sforzo politico finendo per buttarsi a volte nelle mani della parte più burocratica e conservatrice della Dc. Le grandi intuizioni di Ruffilli e Prodi del riformismo cattolico si scontrarono con un muro invalicabile,   ma pagarono anche il conto – bisogna dirlo – di quell’anima di riformismo cattolico intorno a loro violentemente anti-socialista, che con venature diverse risale perfino a Dossetti,   che ammetteva e perdonava gli errori nel proprio campo ma era affetta da sfiducia costitutiva nei confronti del campo avverso.

Tutto questo non può togliere al segretario della Democrazia cristiana di più lungo corso, al presidente del Consiglio, al giovane studente della Cattolica di Milano con il fratello Enrico prima e al sindaco di Nusco morto “attivo” sul suo campo di battaglia a 94 anni dopo, i tratti assoluti del politico di razza che appartengono ai grandi della Repubblica italiana e quelli di uno dei pochi capi della politica italiana che inseguiva il cambiamento e parlava ai giovani. Il leader riconosciuto di una classe dirigente che ha espresso da Maccanico a Tabacci grandi servitori dello Stato, che ha cercato e scommesso sui professori inseguendone il contributo intellettuale, ma ha lottato fino all’ultimo respiro perché la sua Dc e i suoi eredi più o meno sparpagliati non perdessero il primato della politica e del dibattito pubblico e tenessero alta la bandiera più laica e liberale dei valori cattolici.

Sul Mezzogiorno fu oggetto di molti attacchi ingiusti perché se è vero che la politica, tutta la politica, vive di compromessi, la forza politica spesa da De Mita per lo sviluppo delle zone interne e affinché il  Paese non si dimenticasse in modo miope le ragioni di venti milioni di persone, hanno nel confronto tra queste e le aree metropolitane meridionali e proprio nella ricostruzione post terremoto dell’Irpinia i segni tangibili di un’azione concreta fatta di cose che si toccano e si vedono.

Con il passare degli anni ho maturato una certa allergia per chi privilegia i propri ricordi personali nel raccontare un protagonista della politica e dell’economia. Dirò solo che nel settembre del 2020 guidai un dibattito con De Mita a Sant’Angelo dei Lombardi che accompagnava la nascita a Nusco della Newco SAI, un’eccellenza dell’automotive europea, perché mi aiuta a spiegare qual è l’idea di futuro che ha sempre avuto in testa per la sua terra e per il Mezzogiorno e di quanto fosse forte in questa direzione il suo impegno di sindaco. E ricorderò anche una telefonata che gli feci il giorno della prima nomina di Sergio Mattarella a Capo dello Stato perché mi dicesse qualcosa di lui. Mi colpì la  prima cosa che buttò lì: «È una persona seria. Non è vero che è un uomo cupo, quante volte abbiamo riso e scherzato, quante volte ci siamo presi in giro». Poi, aggiunse: «Viviamo tempi in cui la politica è fatta di parole e di speranze non motivate, si sono perse le radici, ebbene Mattarella è un uomo concreto e lo vedrete all’opera, con i suoi criteri oggettivi saprà mettere in difficoltà chi fa le cose sbagliate, chi cerca le scorciatoie».

Mattarella non ha solo messo in difficoltà chi fa le cose sbagliate o cerca le scorciatoie, ma ha salvato il Paese nel momento più buio della grande crisi pandemica e economica con mano ferma, giocando al momento giusto la carta estrema Draghi. Il metodo seguito, però, è quello indicato da Ciriaco e, se gli italiani amano Mattarella così tanto, è anche perché hanno capito che non è un uomo cupo e sa dare alle cose e alle   persone il giusto peso. Ha saputo farlo anche su di sé da Capo dello Stato con la giusta leggerezza quando era necessario.

È morto l'ex premier De Mita, il diccì che non si fece rottamare. Francesco Curridori il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Si è spento all'età di 94 anni Ciriaco De Mita, 66 anni passati dentro la Democrazia Cristiana da militante e da segretario, poi l'ingresso nel Pd e una carriera politica finita da sindaco di Nusco, sua città natale, tra le fila dell'Udc.

Con Ciriaco De Mita se ne va un altro pezzo di storia della Democrazia Cristiana. Un uomo che ha fatto della sua città natale, Nusco, il suo feudo elettorale e dove ricopriva la carica di sindaco dal 2014.

Il 'basista' De Mita entra in Parlamento

L’attività politica di De Mita inizia però nel 1963 quando all’età di 35 anni entra in Parlamento tra le file della sinistra “di Base”, corrente della Dc fondata da Enrico Mattei e da Giovanni Marcora. Un anno dopo, dentro la ‘balena bianca’ si consuma una lotta intestina per l’elezione del nuovo capo dello Stato. Da una parte ‘la destra’ del partito sostiene Giovanni Leone quale candidato ufficiale, da ‘sinistra’, invece, spunta la candidatura di Amintore Fanfani e ‘i franchi tiratori’ prendono il sopravvento. Alla fine venne eletto il socialdemocratico Giuseppe Saragat e Leone ricorderà sempre che, all’epoca, due capicorrente ribelli come Donat Cattin e De Mita “si facevano pubblico vanto di non avermi votato” e perciò furono temporaneamente sospesi dalla Dc per “atti di rilevante indisciplina politica”.

La 'rottamazione' di San Genesio

Ma è nel 1969 che l’attivismo di De Mita si fa sempre più fervente. Assume l’incarico di sottosegretario del ministero dell’Interno nel primo governo di Mariano Rumor e lancia la proposta di un patto costituzionale col Pc, antesignano del compromesso storico. A fine settembre promuove il convegno di San Genesio, a pochi chilometri da Macerata, dove stipula, insieme ad Arnaldo Forlani, il “patto dei quarantenni” per ‘rottamare’ Aldo Moro e Amintore Fanfani e contendersi loro la leadership del partito, come, poi, avverrà negli anni successivi. Moro, riguardo a tale progetto, disse: “L’onorevole De Mita sembra avere l’idea fissa di emarginare Fanfani e me. Potrei ringraziarlo a nome della mia famiglia. Ma le persone valgono non per quello che hanno ma per quello che sono”. Il ‘patto di San Genesio”, malgrado le parole di Moro, dà i suoi frutti e, sempre nel 1969, Forlani assume la carica di segretario del partito e De Mita quella di vicesegretario fino al 1973.

Negli anni ’70 assume la guida di più dicasteri: prima ministro dell’Industria, poi del commercio con l’estero e, infine, quello per il Mezzogiorno. È in questi anni che De Mita fa dell’Irpinia il suo feudo elettorale, scalzando dal ruolo di ‘ras locale’ della Dc, il ministro Fiorentino Sullo, cui sua moglie faceva da segretaria. La rottura tra i due esponenti della sinistra democristiana porta Sullo alle dimissioni da ministro e all’abbandono del partito. Una decisione che consente a De Mita di ottenere più di 100mila preferenze alle Politiche del 1976 e prendersi la rivincita nei confronti di quel Sullo che nel 1958 gli fece mancare i voti per entrare in Parlamento.

De Mita segretario Dc e presidente del Consiglio

Gli anni ’80 decretano la consacrazione definitiva di De Mita che nel 1982 viene eletto segretario della Dc con il 57% dei voti contro il 43% ottenuto da Forlani, sostenuto dalla ‘destra’ del partito. Una vittoria che dà la possibilità agli ‘irpiniani’ Nicola Mancino e Gerardo Bianco di calcare la politica nazionale e ai giornalisti come Gigi Marzullo e Francesco Pionati di entrare in Rai. Un giovanissimo Clemente Mastella diventa portaborse del segretario De Mita il quale ‘lancia’ anche Romano Prodi nominandolo presidente dell’Iri.

Appena eletto, De Mita, nel suo primo intervento, spiega la sua strategia politica. È arrivato il momento di accettare il fatto che l’epoca del compromesso storico è finita e si deve cercare una sponda verso il Psi di Bettino Craxi. È la nascita del ‘pentapartito’ che, però, inizialmente viene maldigerito dall’elettorato democristiano tanto che le Politiche del 1983 segnano un calo di 5 punti per la Dc che si ferma al 32,9%. De Mita stipula il ‘patto della staffetta’ con Craxi che prevede che il secondo, a metà legislatura, lasci Palazzo Chigi in favore del primo. Il segretario socialista, arrivati al dunque, si rifiuta di cedere la poltrona di primo ministro e si apre una crisi che porta il Paese alle elezioni anticipate del 1987 e l’anno successivo De Mita diventa il primo politico diccì a coprire sia la carica di segretario Dc sia quella di capo del governo. Nel 1988 scoppia il caso ‘Irpiniagate’ dopo che il Giornale pubblica un’inchiesta sulla gestione dei fondi destinati alle popolazioni del terremoto del 1980 e De Mita querela il direttore Indro Montanelli per un editoriale in cui veniva definito “il padrino”. La risposta viene affidata a un ‘Controcorrente’ in cui Montanelli scrive: "Di rischi gravi, questa querela ne comporta uno solo: che De Mita la ritiri”.

La svolta anti-berlusconiana e l'ultima battaglia contro la riforma costituzionale

Nel 1989 De Mita, nel corso del 18esimo Congresso del partito, lascia la segreteria della Dc che viene affidata ad Arnaldo Forlani e, grazie all’amnistia del 1990, non verrà sfiorato dall’inchiesta Tangentopoli. Nella sua relazione finale di quel Congresso, De Mita tratta temi ancora attualissimi: dalla riforma costituzionale del bicameralismo perfetto alla modifica del sistema elettorale, con la Dc divisa tra ‘proporzionalisti e uninominalisti’. Nel 1990, De Mita si schiera contro il voto di fiducia sulla legge Mammì e costringe i ministri della sinistra Dc (tra cui c’era anche Sergio Mattarella) a dimettersi. In quei giorni dichiarò al giornale di partito ‘Il Popolo’ di non essere “né a favore né contro Berlusconi. Per la democrazia però è rischioso che gli strumenti di comunicazione siano in mano a una sola persona”.

Era chiaro quale percorso politico avrebbe seguito il leader dei ‘basisti’ nella Seconda Repubblica. Prima Ppi, poi la Margherita e, infine, il Pd dove resterà fino al 2008 quando l’allora segretario Walter Veltroni decide di non ricandidarlo e lui passa con l’Udc. Una scelta che Matteo Renzi gli rinfaccerà nel corso del dibattito sul referendum costituzionale del 2016 avvenuto durante uno speciale di Enrico Mentana su La7. Renzi, che in gioventù fu proprio immortalato in una celebre foto in compagnia di De Mita, gli dirà:“La tua idea di politica è che cambi partito quando non ti danno un seggio”, dimenticandosi che, in occasione delle Regionali 2015, proprio il voltafaccia dell'ex segretario della Dc aveva permesso a Vincenzo De Luca di battere il presidente uscente Raffaele Caldoro, sostenuto da De Mita fino al giorno prima della chiusura delle liste. Battere "il maestro" sul terreno della coerenza non è un'impresa facile nemmeno per un allievo come Renzi che, nemmeno in quel dibattito televisivo, riuscirà a prevalere sullo scaltro ex democristiano. De Mita replicherà con fermezza:“Questa è una volgarità che non mi aspettavo soprattutto se detta da chi in politica le ha inventate tutte. Tu non hai diritto di parlare di moralità della politica. È un mestiere che vuoi gestire in maniera autoritaria”. Negli ultimi anni aveva tenuto un profilo defilato e, anche per il sopravanzare dell'età, aveva smesso di occuparsi della politica nazionale. Il 10 aprile scorso era stato ricoverato al Moscati di Avellino per un attacco ischemico e, una volta ripresosi, era tornato a Villa dei Pini, la clinica di riabilitazione del capoluogo irpino dove De Mita si è spento stanotte e dove si trovava da quando, qualche mese fa, era stato operato al femore.

Omaggio a De Mita dal "colonnello" Mattarella. L'eterno potere della sinistra democristiana. Stefano Zurlo il 28 Maggio 2022 su Il Giornale.

La Dc non c'è più, ma lo zoccolo duro della sua classe dirigente resta ai vertici.

Il partito, di cui fu leader negli anni Ottanta, non gli è sopravvissuto ma quel pezzo di classe dirigente a lui legata, la sinistra Dc della Base, è ancora oggi il sale di parte dello schieramento politico. Contraddizioni e intuizioni di Ciriaco De Mita, potente e ingombrante nella Dc che lentamente si spegneva. Un uomo che respirava la modernità, forse l'ultimo a tentare con la stagione degli «esterni» il rinnovamento impossibile di un mondo che si andava dissolvendo, sotto i colpi di una cultura sempre più spregiudicata e lontana dalla tradizione e in vista dell'imminente crollo del Muro di Berlino.

Lui abita un partito vecchio ma non si arrende: ha studiato alla Cattolica, fucina della nomenklatura del Paese, ha respirato il personalismo di Maritain, poi interpretato da un'ala del mondo cattolico come apertura alle ideologie del ventesimo secolo, ha iniziato la sua carriera all'ufficio legale dell'Eni, con Enrico Mattei, lo stesso mitico presidente del cane a sei zampe che finanzia la Base di Giovanni Marcora.

Gli anni Ottanta sono il decennio in cui questo crogiolo diventa una linea di potere e un tentativo di pilotare la modernizzazione dell'Italia. Sette anni alla segreteria della Dc, dall'82 all'89, l'alleanza che in realtà è una rivalità accesissima, antropologica, con Bettino Craxi, la rottura del cosiddetto patto della staffetta con i socialisti, le elezioni anticipate nell'87, l'amicizia, almeno per un certo periodo, di Eugenio Scalfari, timoniere della corazzata Repubblica e bandiera dei progressisti, la conquista di Palazzo Chigi. Prima con la breve ascesa di Giovanni Goria, poi fra l'88 e l'89 De Mita è in simultanea capo del partito e presidente del consiglio.

Tanto. Troppo. È così nell'89 il Caf, insomma Craxi, Andreotti e Forlani riconquistano le chiavi del Palazzo; i due big dello scudo crociato normalizzano il partito e tutti e tre offrono poi il collo al boia di Mani pulite che taglierà le teste della Prima repubblica.

Sette anni al vertice, dunque. Nell'85 Il Mondo colloca De Mita sul podio fra gli uomini più potenti d'Italia, e in quel periodo Gianni Agnelli spiega in tv, a Mixer, che De Mita gli pare un tipico intellettuale della Magna Grecia. Una definizione che lo farà imbestialire e gli rimarrà appiccicata tutta la vita.

Nell'82 è lui a inventare, pescandolo nel retroterra degli «esterni», Romano Prodi che catapulta alla guida dell'Iri, e con lui chiama un manager del calibro di Fabiano Fabiani, Giuseppe De Rita, il fondatore del Censis, Roberto Ruffilli, il costituzionalista che verrà assassinato dalle Br.

Contemporaneamente, il clan degli «avellinesi», insomma più o meno i suoi compaesani e presunti amici, entra in massa nella stanza dei bottoni: Antonio Maccanico, l'onnipotente dominus della Rai Biagio Agnes, Gerardo Bianco, Nicola Mancino.

Poi nella geografia demitiana ci sono i colonnelli, gli evergreen ancora strategici nella Seconda repubblica: Bruno Tabacci, presidente della Regione Lombardia in quello scorcio e protagonista di infinite operazioni politiche fino ai giorni nostri e poi, come reazione al sacco di Palermo e alla stagione cupa di Vito Ciancimino, Sergio Mattarella, nominato nell'84 commissario di una Dc palermitana azzerata proprio da De Mita.

Insomma, se la Dc finisce, ì democristiani forgiati nell' officina di Nusco passano miracolosamente indenni per le forche caudine di Tangentopoli, come ripete nei suoi libri Paolo Cirino Pomicino.

Quando la scelta si fa manichea, o di qua con Berlusconi o di là con la sinistra, saltano tutti semplificando, dall'altra parte. Tutti, con l'eccezione forse di Clemente Mastella, il portavoce dell'ormai ex premier che sceglie il lato destro dello schieramento e rompe con il maestro che è entrato nel Partito popolare di Mino Martinazzoli, altro intellettuale ma proveniente dal profondo Nord bresciano.

Astri vecchi e nuovi. Dario Franceschini a Ferrara ed Enrico Letta a Pisa, mentre Romano Prodi diventa il presidente della Commissione europea e poi il premier dell'Ulivo, nell'eterna competizione con il Cavaliere.

La partecipazione del «colonnello» Mattarella alle esequie più che un omaggio istituzionale è il riconoscimento di una figliolanza che prosegue trent'anni dopo la fine della Dc. L'eterno ritorno della sinistra democristiana.

Morto Ciriaco De Mita, l'ex premier aveva 94 anni: a febbraio era stato operato dopo una caduta. Libero Quotidiano il 26 maggio 2022

E' morto Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio, storico segretario della Dc e attuale sindaco di Nusco, in provincia di Avellino. Il decesso, come riporta Repubblica, sarebbe avvenuto questa mattina intorno alle 7 nella casa di cura Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dopo che a febbraio scorso era stato sottoposto a un intervento chirurgico per la frattura di un femore a seguito di una caduta in casa. A diffondere la notizia è stato il vice sindaco Walter Vigilante. 

De Mita, 94 anni, era un esponente della corrente di sinistra. Nato a Nusco, dopo il liceo si trasferì a Milano per frequentare la Cattolica. Poi venne eletto alla Camera per la prima volta nel 1963 e vi rimase per trent'anni di fila. Nel 1969 iniziò la scalata nella Democrazia Cristiana, dove divenne vicesegretario. Quattro anni dopo, invece, fu ministro per la prima volta: venne messo a capo del dicastero dell'industria, del commercio e dell'artigianato. 

Divenne il segretario della  Dc il 6 maggio 1982. E una volta, parlando del suo partito durante una visita in Guatemala, l'ex premier disse: "Un partito di centro con una grande rappresentanza popolare. Sul piano economico siamo per il libero mercato e la libera iniziativa. Ma quando questo tocca gli interessi popolari c'è l'intervento equilibratore del governo". Rimase leader del partito per sette anni, fino al 1989, e per un anno pure capo del governo. Oggi con lui muore uno dei protagonisti più importanti della Prima Repubblica.

Lutto nella politica italiana, è morto l’ex segretario della Dc Ciriaco De Mita. Il decesso è avvenuto la scorsa notte nella clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Il Dubbio il 26 maggio 2022.

È morto Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio, ex segretario della Dc e sindaco di Nusco (Avellino) in carica. De Mita aveva 94 anni. Il decesso è avvenuto la scorsa notte nella clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era ricoverato dal 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni.

«Un appassionato di politica. Un grande leader che non si è mai tirato indietro nel compiere scelte difficili. E che ha investito come pochi altri sull’apertura della politica ai giovani in un tempo in cui avveniva esattamente l’opposto. Tanti, intensi ricordi». Lo scrive su Twitter il segretario del Pd, Enrico Letta, nel ricordare l’ex presidente del Consiglio, Ciriaco De Mita.

«Ricordo Ciriaco De Mita. Le qualità di un leader politico autentico. L’orgoglio delle radici nel suo territorio. La statura intellettuale. E una straordinaria curiosità per le opinioni e le storie diverse dalle proprie». Lo scrive su twitter il Commissario Ue per l’Economia Paolo Gentiloni.

«Non eravamo pronti, non siamo pronti. Non muore un patriarca defilato ma un protagonista attivo con un pensiero moderno. La mia vita è scorsa fino a oggi nel ragionare con lui, spesso in disaccordo. Oggi mi sento disorientato, da domani parleremo dello statista, del leader, e avremo da parlarne per tutto il resto della nostra vita. Ora è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla signora Annamaria e ai suoi figlioli». Lo afferma in una dichiarazione all’Adnkronos, il vice presidente del gruppo di Fi alla Camera, Gianfranco Rotondi, ricordando Ciriaco De Mita.

«Sono sinceramente addolorato per la scomparsa del Presidente Ciriaco De Mita. E sono vicino alla mia amica Antonia De Mita». Così Bobo Craxi su twitter, sulla morte di Ciriaco De Mita. «Ci ha lasciato un Grande della Repubblica. Una intelligenza unica, un leader carismatico, un maestro di politica per intere generazioni, giovane fino all’ultimo giorno. Oggi un enorme dolore per tutti noi che gli abbiamo voluto bene«. Così il ministro della Cultura, Dario Franceschini, commenta la notizia della morte di Ciriaco De Mita.

Morto Ciriaco De Mita, ex premier, padre della Dc e sindaco a 94 anni: “Non avevo lo stile per il Quirinale”. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2022.  

Se ne è andato a 94 anni, compiuti lo scorso 2 febbraio. Ciriaco De Mita, ex presidente del Consiglio e segretario storico della Democrazia Cristiana, è morto poco dopo l’alba di questa mattina, 26 maggio, in una casa di cura dove era arrivato il 5 aprile a seguito di un attacco ischemico che l’aveva costretto in un primo momento al ricovero nell’ospedale Moscati. Le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi giorni

Le condizioni di De Mita, sindaco di Nusco dal 2014, cittadina in provincia di Avellino dove viveva, si sono aggravate negli ultimi giorni. Il 20 febbraio scorso venne operato all’ospedale Moscati di Avellino dopo la frattura del femore in seguito a una caduta avvenuta in casa mentre scendeva le scale. Quel giorno, 19 febbraio, dopo una mattinata cominciata come di consueto con la lettura dei quotidiani e le telefonate con assessori e uffici del comune di Nusco, dopo pranzo si è concesso un breve riposo prima di scendere al piano terra della sua abitazione per la consueta partita a carte con gli amici di sempre e per organizzare il lavoro della giornata successiva. È stata una caduta dolorosa che lo ha fatto rotolare per alcuni metri in seguito alla quale l’ex presidente del Consiglio e leader della DC non ha mai perso conoscenza.

Una vita in politica tra premier, ministro, segretario e parlamentare per oltre 40 anni

De Mita raggiunse l’apice del potere politico negli anni Ottanta, quando fu Presidente del Consiglio dei ministri in un governo formato dalla coalizione del Pentapartito (DC-PSI-PRI-PSDI-PLI) che cadde nel maggio del 1989, a causa di una crisi di governo cagionata dal leader socialista Bettino Craxi (suo principale alleato-rivale). È stato inoltre segretario nazionale dal 1982 al 1989 e poi presidente della Democrazia Cristiana dal 1989 al 1992, nonché quattro volte ministro. Deputato dal 1963 al 1994 e dal 1996 al 2008 ed europarlamentare dal 1999 al 2004 (è contemporaneamente deputato ed eurodeputato, analogamente a Franco Marini) e dal 2009 al 2014, dopo la Dc ha fatto parte del Partito Popolare Italiano e della Margherita e dal 2008 al 2017 dell’Unione di Centro.

“Non avevo lo stile per il Quirinale”

“Nel 1985, quando si trattava di scegliere il successore di Sandro Pertini, Alessandro Natta mi fece capire che i comunisti avrebbero potuto sostenere una mia candidatura al Quirinale”. Ma “ci vuole uno stile che io, diciamoci la verità, non avevo. A me piace l’analisi, il pensiero, mi piace chiacchierare. Un Presidente della Repubblica non può chiacchierare“. Ciriaco De Mita lo raccontava al ‘Corriere della Sera‘ in occasione del suo 90esimo compleanno, evocando inevitabilmente quei ragionamenti, ‘ragionamendi’ per dirla con cadenza irpina, elogiati da alcuni, criticati da altri, e che portarono l’avvocato a Agnelli a definirlo in modo pungente “un intellettuale della Magna Grecia“.

L’espressione intellettuale “è stata usata nei riguardi di Moro e paragonare un politico a Moro, dentro e fuori la Democrazia cristiana, è un complimento”, fu la replica dell’allora segretario della Dc, che non esitò a definire Agnelli “un mercante moderno, con poche idee e tanti interessi particolari“.

L'addio all'ex segretario della Dc. De Mita, la vita a Nusco di ‘Ciriachì’: briscola, tressette e il cugino all’opposizione. “Quando sarò morto continuerò a parlare”. Viviana Lanza su Il Riformista il 27 Maggio 2022.

Dai grandi esponenti della politica nazionale al compagno di briscola e tressette nella tranquilla Nusco. Tutti hanno parole, ricordi, aneddoti per raccontare Ciriaco De Mita, ex premier e segretario della Democrazia cristiana e dal 2014, nonostante i suoi 94 anni, sindaco della cittadina dell’Irpinia, Nusco appunto, dove era nato e da dove negli anni ’50 era partito alla volta di Roma, passando per Milano.

«Quando sarò morto continuerò a parlare», disse in una delle sue tante interviste. Non aveva un ufficio stampa, bastava comporre il numero di casa De Mita per parlare con lui. Del resto il suo rapporto con la stampa, con gran parte di essa, è sempre stato molto stretto, soprattutto negli anni Ottanta quando il potere della Dc era condizionante dappertutto. De Mita è stato un politico di potere, un leader, espressione di una politica colta, la politica di un tempo. Con lui se ne vanno gli Ottanta, qualche interrogativo sulla ricostruzione post-terremoto, la storia della Prima Repubblica. Agnelli lo definì «un intellettuale della Magna Grecia». «De Mita era un uomo che vedeva il potere figlio della politica, non la politica figlia del potere», racconta Cirino Pomicino. Lui e De Mita sono stati amici pur nella distanza politica, avversari nei congressi, alleati nel governo. Un anno fa avevano anche pensato a una lista comune per le elezioni amministrative a Napoli ma il progetto poi sfumò. «De Mita il potere lo usava secondo i riti democristiani, un potere discreto», aggiunge Pomicino.

Il potere aveva portato De Mita a confrontarsi sulla scena politica nazionale, le carte e qualche amico di lunga data gli tenevano invece compagnia nella casa di provincia sulle montagne avellinesi. Le carte rigorosamente napoletane. Briscola, tressette, scopa. Il tavolo da gioco in un bar a pochi metri dalla sua villa di Nusco, in via Piano. Smazzava e raccontava dei suoi incontri con personaggi della storia come Gorbaciov, Mitterand, il Papa e tanti altri. «Aveva una memoria di ferro, oltre alla cultura», racconta Agostino Majurano, ex sindaco di Nusco. Usa la metafora della briscola per spiegare la storia politica di De Mita: «È lo stesso gioco – dice – perché Ciriaco nasce come politico nel dopoguerra, quando i comizi si facevano da due balconi contrapposti. E lui giovanissimo, appena diciottenne, il primo scontro lo ebbe con Carlo Muscetta». Il famoso latinista contro un giovane che avrebbe scelto di frequentare l’università a Milano e poi arrivare a Roma, capitale delle istituzioni. «È proprio questo che non si potrà cancellare della sua storia», sottolinea Majurano.

La scalata di De Mita, da figlio di un sarto di un piccolo paese di provincia a uomo potente della politica nazionale. Sicuramente a quei tempi l’ascensore sociale funzionava meglio di adesso, ma De Mita ci mise del suo. «Scompare con Ciriaco De Mita un’eccezionale figura di politico che ha attraversato fin da giovane la vita del Parlamento repubblicano impegnandosi a diffondere i temi della democrazia rappresentativa», afferma l’avvocato Vincenzo Siniscalchi, già parlamentare del gruppo Ds – Ulivo e componente del Csm. «Il patrimonio di cultura politica e ricerca del dialogo, originale ricchezza del suo impegno culturale e dialettico, non verrà disperso e dovrà formare tema di ricerca e di studio per la nostra democrazia e per le necessarie riforme», conclude Siniscalchi.

Da destra a sinistra non c’è parte politica che non abbia espresso un proprio ricordo di De Mita. «Lo tsunami di Mani pulite, “del giustizialismo a tutti i costi” che travolse la politica dopo il 1992, ci separò: io qui a Napoli, definitivamente uscito di scena, lui arroccato nella sua Nusco, anche se da lì ha continuato a influenzare in maniera rilevante la politica nazionale e regionale. Al di là del dato politico che ci vedeva contrapposti, con lui c’erano rapporti personali e di rispetto reciproco», ricorda Giulio Di Donato, deputato per tre legislature del partito socialista e fedelissimo di Bettino Craxi. Il governatore Vincenzo De Luca, che nel 2007 lo aveva definito «il problema della politica in Campania» ricorda De Mita con queste parole: «Scompare con Ciriaco De Mita uno dei massimi esponenti del cattolicesimo democratico del nostro Paese, che ha rappresentato con maggiore coerenza e tenacia le esigenze del Mezzogiorno d’Italia e della sua terra. Scompare uno dei rari esponenti politici che ha sempre tentato di legare l’azione politica a un percorso di lungo periodo». «È stato un protagonista di primo piano nella vita del Paese – commenta Antonio Bassolino – , un leader animato da forte passione politica, un uomo legatissimo alla sua terra tanto da essere fino alle sue ultime ore di vita sindaco di Nusco. Ci siamo sempre confrontati con grande rispetto e reciproca stima e simpatia».

Oggi Nusco, che si prepara ai funerali di De Mita alla presenza delle più alte cariche politiche a partire dal Capo dello Stato Sergio Mattarella, è un paese a lutto. Ieri all’alba si è svegliato senza più il suo sindaco, morto in una clinica di Avellino dove stava cercando di riprendersi da una brutta caduta e un intervento per sanare le fratture. Improvvisamente catapultato all’attenzione nazionale. «Il sindaco De Mita era sempre il primo ad arrivare in Comune, la puntualità era una sua fissazione. Non gli ho mai dato del tu, l’ho chiamato sempre Presidente, anche se ci conoscevamo da una vita», dice Walter Vigilante, vicesindaco di Nusco. Giovanni Marino, invece, è il cugino di De Mita, anche lui impegnato in politica, prima sulla sponda della sinistra più estrema poi con il Pd.

Al Comune di Nusco De Mita guidava la maggioranza, Marino è all’opposizione: «Una volta mi disse che ero la pecora rossa della famiglia, io gli dicevo “Ciriachì (come lo chiamavamo in famiglia) tu in fondo sei leninista, nel Pci avresti fatto carriera – racconta – . Una volta gli rimproverai di aver abbandonato il suo pensiero politico per la cultura di governo e che aveva dato il meglio di sé tra gli anni ’50 e ’60. Lui non mi rispose, attese che glielo dicessi un’altra volta in privato e sbottò: “Non hai capito niente, il meglio di me l’ho dato nel 1988 con Gorbaciov e ancora prima quando da ministro del Commercio con l’Estero incontrai Fidel Castro favorendo disgelo nei rapporti”. La lezione politica che ci lascia – conclude Marino – è il valore della politica. Non si può cambiare la società senza la politica. E su questo, nonostante le differenze, posso dire che la pensavamo allo stesso modo».

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

L’ultimo dei grandi protagonisti delle Prima Repubblica. La morte di Ciriaco De Mita, il ricordo di un avversario. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

È morto probabilmente l’ultimo dei grandi protagonisti delle Prima Repubblica. Incarnava più di altri una contraddizione, la stessa che gli rimproveravo quaranta anni fa: quella di tentare di perseguire a Roma, una politica riformatrice della società e dello stato, sistematicamente contraddetta dalle scelte concrete che la sua Dc compiva in Campania e nella sua Avellino, fondando il suo potere sul peggiore clientelismo meridionale e partitocratico.

Negli anni 70 e nella prima metà degli anni 80 fu nostro deciso avversario, nonostante che la sua corrente – la Base, che aveva ereditato da Vanoni e Fiorentino Sullo e che poi divenne sinistra politica della Dc in alternativa alla “sinistra sociale” di Donat Cattin – fosse la meno lontana dalle posizioni radicali soprattutto in materia di diritti civili: basta pensare agli oltre due milioni di voti dei “cattolici per il NO”, nel voto al referendum sul divorzio, e al fatto che il democristiano Marcora fu con noi uno dei protagonisti della legge sull’obiezione di coscienza.

Lo stesso Ciriaco De Mita divenne nostro interlocutore quando con ogni evidenza insieme avvertimmo che stavano per verificarsi due fatti strettamente collegati tra loro. L’implosione del mondo comunista e la fine degli equilibri di Yalta che avevano consentito il difficile governo democratico della Prima Repubblica.

Con noi dialogò sulla necessità di un cambiamento e una riforma dell’ordinamento politico repubblicano, che ne rendese possibile, con la possibilità di alternative, una governabilità e stabilità democratica. Purtroppo le abitudini e la prassi partitocratiche che nel Mezzogiorno si sposavano al peggiore clientelismo elettorale (abitudini e prassi di cui era protagonista) gli impedirono di portare alle loro naturali conseguenze quei propositi riformatori. E insieme ad altri esponenti della prima Repubblica (dalla Dc al Pci), divenne uno dei corresponsabili della mancata autoriforma dei partiti e della mancata riforma del sistema politico, aprendo la strada al populismo che ha portato alle loro estreme conseguenze i vizi e i difetti della Prima repubblica.

Ho il ricordo nitido di un comizio a Cuneo, con lui e il comunista Petruccioli, nel quale chiedevamo le firme per il referendum che avrebbe consentito il superamento del proporzionale. La Lega aveva già avuto alle regionali del Nord il 20% dei voti. Se la cosa si fosse ripetuta e aggravata alle successive politiche gli equilibri non sarebbero mai stati gli stessi e l’alternativa alla Prima repubblica si sarebbe realizzata con altri protagonisti. Le riforme non ci davano tempo. Occorreva agire in fretta. Ricordo ancora oggi il suo stupore per questo mio drammatico richiamo alla realtà. Di quelle esitazioni, di quello stupore, di quella incapacità di decidere, che condivise con gli altri protagonisti della Prima repubblica (democristiani, laici e socialisti e comunisti), paghiamo ancora le conseguenze. Gianfranco Spadaccia

Il ritratto dell'ex segretario Dc. Ciriaco De Mita, dal clan degli avellinesi alla vendetta contro Craxi. David Romoli su Il Riformista il 27 Maggio 2022. 

Non se lo ricorda quasi nessuno ma quando diventò segretario della Dc, nel 1982, Ciriaco De Mita, allora cinquntaquattrenne, non si presentò al grande pubblico vantando le raffinate doti intellettuali che pochi anni dopo Gianni Agnelli avrebbe insieme esaltato e irriso con quella celebre definizione: “un tipico intellettuale della Magna Grecia”. Non sfoderò i “ragionamendi” tortuosi ma brillanti che avrebbero fatto a lungo la gioia del cronista di turno, beatificato dal favore del grand’uomo, preso sottobraccio e trascinato su e giù per il Transatlantico ad ascoltare le sue elaborazioni barocche.

In quell’esordio pubblico Ciriaco De Mita da Nusco, capo riconosciuto di quel che sarebbe giustamente passato alla storia come “il clan degli avellinesi”, accentuò soprattutto “la grinta”, termine oggi desueto, allora popolarissimo. La grinta era la carta vincente di Bettino il Rampante, la dote ruvida che permetteva al socialista di fare il bello e il cattivo tempo alla faccia dei voti scarsi, almeno a confronto con le due portaerei della politica italiana, la Dc e il Pci. La regola d’ingaggio per il segretario che sostituiva il doroteo Piccoli dopo aver sconfitto il candidato sostenuto dai dorotei, Forlani, era semplice: doveva controbilanciare, contenere, ridimensionare il vorace Bettino, per gli amici e soprattutto per i nemici “Bokassa”.

Figlio di un sarto, laureato con onore in Giurisprudenza alla Cattolica di Milano, eletto per la prima volta alla Camera nel 1963, debutto al governo cinque anni più tardi, come sottosegretario agli Interni, De Mita era stato prima il protetto e poi il rivale di Fiorentino Sullo, storico leader della sinistra Dc, anche lui avellinese, di cui aveva sposato la segretaria Anna Maria Scarinzi. Scontro duro, senza esclusione di colpi: quando si trattava di colpire il sofisticato Ciriaco picchiava duro. Nel 1969 Sullo, allora ministro della Pubblica istruzione, provò a rinviare il congresso provinciale avellinese per evitare che l’astro nascente gli facesse le scarpe. Il segretario Flaminio Piccoli si mise in mezzo, obbligò il ministro a dimettersi dalla Pi e a celebrare le assise. La carica dei demitiani, destinati a figurare poi tutti in qualche vertice politico o statale, fece il resto, seppellì la carriera di quello che era forse il più brillante erede di Dossetti.

Negli anni 70 De Mita rimase in pista come puledro di razza ma senza emergere troppo: fu vicesegretario del partito con Forlani leader dal 1969 al ‘73 ma si dimise quando il Patto Fanfani-Moro di palazzo Giustiniani rimise al loro posto i giovani emergenti. Fu ministro dell’Industria, del Commercio con l’Estero e, nei governi di solidarietà nazionale, del Mezzogiorno: postazione strategica. Il terremoto in Irpinia del 1980 e la gestione dei fondi per la ricostruzione ne moltiplicarono potere e peso nella Balena bianca. Il suo momento arrivò quando la Dc, dopo aver liquidato il Pci, si trovò alle prese con il nuovo alleato-rivale, Craxi/Ghino di Tacco.

L’esordio della nuova segreteria fu sconsolante: una catastrofe elettorale nel 1983, cinque punti percentuali persi dalla Dc alla Camera, oltre sei punti al Senato. Ma De Mita, tra un ragionamento e l’altro, era uomo d’azione, capace di tradurre le labirintiche dissertazioni in decisioni drastiche: chiese a Craxi un colloquio segreto, che per una volta rimase davvero tale. I due si incontrarono in un convento sulla via Appia, come da miglior tradizione scudocrociata, e il democristiano andò giù piatto: “Devi guidare il governo: non c’è altro compromesso possibile”. Craxi accettò e rilanciò: “Così non reggerebbe: io farò il premier nella prima metà della legislatura, tu nella seconda”. Nacque così “la staffetta”, pubblicamente annunciata con tripudio di mortaretti e fuochi artificiali, croce e delizia della politica italiana nei ruggenti anni 80. Lo scontro, in quella strana coppia che segnò per intero gli anni 80, fu continuo: politico, culturale, antropologico. Il cozzo si evitò fino al momento di passare il testimone, poi, quando Craxi fece capire e alla fine dichiarò apertamente di non avere alcuna intenzione di sloggiare da palazzo Chigi, diventò inevitabile.

De Mita riuscì a far cadere il governo Craxi anche a costo di elezioni anticipate e nella nuova legislatura si installò per un anno a palazzo Chigi, primo segretario della Dc a occupare anche la poltrona di capo del governo dai tempi di Fanfani. Ma di nemici De Mita se ne era fatti parecchi anche in casa propria. I capicorrente non vedevano l’ora di liberarsi da un leader che da un lato aveva tentato di sgominare correnti e signori delle tessere, dall’altro aveva proceduto a un’occupazione capillare del potere affidata ai fedelissimi, agli “avellinesi”: Nicola Mancino, Gerardo Bianco e Giuseppe Gargani in Parlamento, Clemente Mastella da Ceppaloni fatto assumere con ordine tassativo dalla Rai e poi proconsole demitiano per l’Informazione, Biagione Agnes da Serino alla Rai.

De Mita contava anche sulle teste d’uovo “esterne” alla struttura del partito, dislocate nei gangli vitali del potere per regalare linfa vitale a una Dc gigantesca ma esangue. De Rita al Censis, Prodi all’Iri, l’economista Pellegrino Capaldo. Dalla ricostruzione dell’Irpinia, che gli costò la carica di presidente della Bicamerale quando il fratello fu inquisito salvo poi essere assolto con formula piena, a Tangentopoli, dal crack Parmalat all’acquisto a prezzi stracciati di un appartamento nel centro di Roma De Mita è stato coinvolto in diversi scandali ma l’unica certezza assoluta è che tra i suoi metodi il clientelismo ha sempre figurato in testa all’agenda, senza alcuna dissimulazione.

Furono i capicorrente a detronizzarlo nel 1989 togliendogli la segreteria del partito, carica che aveva mantenuto più a lungo di qualsiasi altro segretario della Dc: «Era così convinto di essere vittima di un complotto che si è suicidato politicamente per dimostrare di avere ragione», ironizzò Andreotti che in realtà, con Forlani e giocando di sponda con Craxi, era stato il vero artefice della caduta di De Mita. Pochi mesi, e l’ormai ex segretario fu estromesso anche da palazzo Chigi. Tra i grandi leader della prima Repubblica, il leader avellinese è tra i pochi rimasti in campo anche dopo il fatidico 1993: nel Ppi, nella Margherita, nel Pd, nell’UdC, nel movimento da lui fondato “L’Italia è popolare”. Ma soprattutto come sindaco, dal 2014 al momento della morte, di Nusco: una terra dalla quale, nonostante la vertiginosa ascesa e l’enorme potere esercitato negli anni 80, non si era mai davvero allontanato.

L’ “intellettuale della Magna Grecia” era, sapeva di essere e voleva restare tanto paesano quanto l’antico nemico Bettino era intimamente uomo della metropoli. La “grinta” non la aveva persa. Lo dimostrò nel confronto televisivo contro Renzi, nella campagna referendaria del 2016. La decisione di contrapporre al giovane e aggressivo premier un uomo della prima Repubblica con 88 primavere sulle spalle sembrò un suicidio. Non lo fu. De Mita, con i suoi “ragionamendi” non vinse ai punti. Mise KO l’avversario. David Romoli

Politici & antipolitici. Il ricordo di Berlinguer e De Mita nell’Italia dei populisti al potere. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.  

L’interminabile faida grillina evidenzia la differenza tra i leader di ieri e i demagoghi di oggi: che quelli erano in grado di suscitare ammirazione anche tra gli avversari, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti. 

La coincidenza tra il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e la morte di Ciriaco De Mita ci ricorda come un tempo leader politici diversissimi, schierati su fronti opposti, fossero tuttavia capaci di suscitare stima e apprezzamento molto oltre i confini dei propri partiti e del proprio tempo.

Quanto fossero diversi Berlinguer e De Mita, anche per quello che hanno rappresentato e ancora rappresentano nella coscienza collettiva, non dovrebbe esserci bisogno di dirlo. Basta comunque a ricordarcelo il fatto che la rottura con la Democrazia cristiana e con la stagione della solidarietà nazionale, sulla linea che culminerà un anno dopo nella famosa intervista a Repubblica sulla «questione morale», Berlinguer la inaugura nel 1980 proprio dai luoghi di quel terremoto in Irpinia che segnerà, in modo ben diverso, l’immagine di De Mita.

Fa però un certo effetto, oggi, assistere a tanti segnali di nostalgia e a tante rivalutazioni delle grandi figure della cosiddetta Prima Repubblica, a lungo così disprezzata. Un effetto tanto maggiore nel momento in cui il movimento che più di ogni altro ha lucrato sulla demonizzazione di quella storia e di quell’idea della politica, fondata sul ruolo dei partiti, va letteralmente in pezzi, nella stessa legislatura inaugurata dalla sua trionfale vittoria elettorale, al primissimo contatto con la prova del governo.

Mentre da un lato gli antichi avversari, nel ricordo dei militanti e dei dirigenti che li hanno seguiti o che li hanno combattuti, si tributano reciproci attestati di stima e persino di affetto, dall’altro parlamentari, ministri e dirigenti del Movimento 5 stelle non fanno altro che offendersi e scomunicarsi a vicenda, a un ritmo tale da rendere arduo ogni conteggio.

Non si fa in tempo ad appassionarsi alla vicenda dell’ex presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli, schierato con Putin, che accusa gli altri di avere tradito gli ideali del movimento (non del tutto a torto, peraltro), che si presenta il caso del candidato a sostituirlo, fortunatamente senza successo, Gianluca Ferrara, autore di un libro in cui si parla degli Stati Uniti come dell’«Impero del male». Ma non c’è il tempo di chiarire nemmeno questo episodio (ammesso ci sia ancora qualcosa da chiarire), che spunta il deputato (e tesoriere) Claudio Cominardi, il quale pubblica su Instagram un bel graffito raffigurante Mario Draghi al guinzaglio di Joe Biden, suscitando la comprensibile indignazione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e la meno comprensibile replica del leader, Giuseppe Conte: «Adesso non mi fate parlare di una foto postata. Mi hanno detto che si tratta di graffiti, non diamo importanza».

Ma non c’è tempo di soffermarsi neanche su questa interessante vicenda, perché esplode, in tutta la sua potenza cinematografico-letteraria, il caso Giarrusso, inteso come Dino. L’europarlamentare grillino se la prende infatti sia con Conte (il quale a sua volta lo accusa di volere solo poltrone e incarichi), sia con l’ex oppositore interno (ora forse sostenitore esterno, vai a sapere) Alessandro Di Battista, dopo avere coperto di contumelie quelli che prima di lui (lui Giarrusso, s’intende) avevano lasciato il movimento ma non avevano lasciato il seggio parlamentare. Cioè esattamente quello ha annunciato di voler fare.

È probabile che mentre questo articolo sarà in stampa (si fa per dire) il numero dei casi nel frattempo scoppiati e il numero degli scoppiati nel frattempo fuoriusciti (o rincasati, o rincasati e rifuoriusciti), sarà ulteriormente aumentato, com’è naturale e forse anche giusto che sia, in un partito nato da una cerimonia chiamata Vaffa Day. In fondo, è un ritorno alle origini.

La coincidenza temporale tra queste surreali vicende e il nostalgico ricordo di Berlinguer e De Mita ci segnala così anche la principale differenza tra politica e antipolitica, o per meglio dire tra i politici di ieri e i populisti di oggi: che quelli erano in grado di suscitare rispetto e ammirazione anche tra gli avversari più lontani, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti.

I ragionamenti. Con Ciriaco De Mita se ne va per sempre anche la prima Repubblica. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 26 maggio 2022.  

Il leader della Democrazia Cristiana, fautore di un’alleanza con il Partito Comunista e avversario di Bettino Craxi, è stato il protagonista degli anni Ottanta. Ma non ha mai smesso di fare politica. Una conversazione inedita che risale all’inizio del Conte bis. 

È morto Ciriaco De Mita. Io l’ho conosciuto bene. Prima di raccontarvi il nostro ultimo incontro, tre anni fa, devo dirvi qualcosa di me e di lui.

Facevo il cronista politico per il manifesto durante il periodo della sua ascesa politica e del lungo duello con Bettino Craxi, alleato-rivale negli anni ’80. Ciriaco aveva da sempre dialogato con la sinistra comunista di Pietro Ingrao, alla cui scuola, prima di lasciare il Pci si erano formati i fondatori del giornale dove lavoravo. Da qui una consuetudine e una simpatia verso un leader che però, ai nostri e ai miei occhi era pur sempre un avversario politico, essendo il manifesto sostenitore dell’alternativa alla Dc (“Non moriremo democristiani” fu il celebre titolo scelto da Luigi Pintor dopo la sconfitta dc alle elezioni del 1983).

Figuratevi la mia sorpresa quando anni dopo scoprì, leggendo il diario di uno dei suoi più stretti collaboratori (Giuseppe Sangiorgi, “Piazza del Gesù”, Mondadori) che a un certo punto aveva pensato di propormi come direttore del Popolo, il quotidiano della Dc. L’Ulivo era ancora lontano e la sua era una folle idea, che neppure mi fu mai proposta, la ricordo solo per raccontare quanto gli piacesse la seduzione intellettuale che su di me esercitava, come con tanti altri, nelle lunghissime e sfibranti passeggiate sottobraccio in Transatlantico. Quando cercavo di interromperlo, facendo domande precise che lo facessero scendere dai cieli della strategia e mi procurassero qualche notizia da mettere in pagina, la sua risposta era: «Foti’, ma che fai il pubblico ministero?».

Un altro episodio divertente fu quando in mezzo a decine di cronisti e di telecamere, avendo cercato io di rompere il suo mutismo all’uscita di una riunione importante, mi ero avvicinato per fargli i complimenti per la cravatta e lui se la sfilò e me la mise attorno al collo, lasciandomi come un babbeo a subire la perfida ironia dei colleghi. Era una Hermès, non l’ho mai indossata, ma la conservo ancora come ricordo.

Nato a Nusco, in provincia di Avellino, nel 1928, padre sarto e segretario della Dc, mamma casalinga, nonno contadino, Ciriaco De Mita vince una borsa di studio, si iscrive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, dove conosce Beniamino Andreatta; poi ministro, segretario, presidente del Consiglio, presidente della Commissione per le riforme istituzionali, De Mita è stato negli anni ’80 contrastatissimo leader della Dc, sugli altari del doppio incarico di Segretario e presidente del Consiglio, com’era successo prima di lui solo ad Amintore Fanfani e bruscamente deposto, esattamente come l’aretino, da entrambi i ruoli perché la Dc, si sa, non tollerava gli uomini forti.

Ma chi è stato davvero De Mita? Il leader rinnovatore della Dc? Il filocomunista e dunque nemico giurato di Bettino Craxi e del Psi arrembante, il modernizzatore della Dc, l’interlocutore della borghesia laica, oppure il dominus di un sistema di potere clientelare, l’intellettuale della Magna Grecia, definizione non proprio benevola di Gianni Agnelli? «Mi chiamava così perché cercavo di spiegargli cos’è la democrazia mentre lui pensava che è il comando dei ricchi», mi disse nel nostro ultimo incontro, tre anni fa. Ecco la conversazione finora inedita.

Ogni vecchio cronista sa che l’intervista con Ciriaco De Mita è un combattimento. Lo era quando era leader e uomo potente, lo è ancor di più oggi, quando i suoi 91 anni gli consentono maggior libertà. I suoi “ragionamendi” – ecco il difetto di pronuncia che l’ha reso celebre e che neppure la scuola di dizione è riuscita a correggere – si concludono solo dopo aver attraversato il labirinto di riflessioni entro cui “Cirì” li costringe nella penombra dell’ampio studio, un tavolino con sopra le carte napoletane dell’amato tresette, in lontananza l’abbaiare di un cane, al piano terra della grande casa di Nusco, la cittadina arrampicata nel cuore dell’Irpinia, tirata a lucido come una cittadina svizzera, della quale De Mita, un uomo che ha frequentato i potenti del mondo, si ostina a fare il sindaco amato-odiato, quasi non possa vivere senza i piedi piantati nella propria tradizione, con tutto il portato di beghe personali, piccole lotte, pettegolezzi; una sorta di “schizofrenia” che, ha scritto Filippo Ceccarelli nella sua monumentale e formidabile enciclopedia del potere italiano (“Invano. Il potere in Italia da De Gasperi a questi qua”, Feltrinelli) ne fa una figura «ispida e padronale in Irpinia, da aspirante statista a Roma».

«Io ricordo uomini politici che non parlavano a caso: pensavano, capivano, spiegavano. La storia della democrazia in Italia – spiega De Mita – è una storia particolare: malgrado avessimo il partito comunista più forte dell’Occidente non ci chiudemmo mai: ho dialogato con tutti i comunisti, a parte Togliatti. I dirigenti comunisti li ho conosciuti tutti, in particolare Giancarlo Pajetta che, all’indomani dello scioglimento del Pci mi confessò: “voglio solo morire”. Il primo col quale dialogai fu Pietro Ingrao, mi pare nel 1963. Ci incontravamo a casa di Lino Jannuzzi, allora giornalista dell’Espresso, e io cercavo di convincere Ingrao della necessità di riforme istituzionali. Lentamente Ingrao si convinse. Poi, al congresso comunista di Bologna, nel 1969, a proposito dello stato, Umberto Terracini (uno dei fondatori del Pci ndr) citò Lenin, Enrico Berlinguer Machiavelli. Fui molto colpito e allora il mio amico Aniello Coppola, ingraiano, direttore di Rinascita, mi portò a pranzo con Berlinguer in una bettola romana, ed io gli spiegai cosa pensassi sulle istituzioni della democrazia».

Tuttavia, finita l’esperienza della solidarietà nazionale, la Dc demitiana non va al governo con i comunisti ma con Craxi: «Se avessi avuto la possibilità io avrei fatto il governo con Berlinguer – risponde De Mita – non certamente quello con Craxi. Ma Berlinguer non ha mai voluto farlo. In realtà lui, dopo il fallimento del compromesso storico, pensava all’alternativa. Decise di fare il governo con me solo poco prima di morire, anche se negli anni del pentapartito mi aveva dimostrato grande solidarietà: ogni volta che era minacciata una crisi di governo lui mi diceva di stare tranquillo, che i voti dei comunisti ci sarebbero stati per una maggioranza. Però questa scelta in verità non la fece mai fino in fondo, perché riteneva davvero che la sua concezione democratica potesse salvare il comunismo, che lui non avrebbe mai rinnegato. Io gli spiegai, ma non so se lui capì», racconta oggi De Mita. Invece, aveva capito benissimo, ma il patto «gli era parso, direi giustamente, una trappola da cui il Pci avrebbe fatto bene a tenersi lontano», racconta Paolo Franchi nel suo bel libro “Il Tramonto dell’avvenire” edito per Marsilio, riportando la versione che gliene diede il suo amico e allora direttore a Rinascita, Aniello Coppola.

L’antagonista principale di De Mita, dunque, non fu il Pci, ma il Psi di Bettino Craxi, conosciuto in modo abbastanza irrituale: «Ero a Roma con Alberto Marcora che lo conosceva, in un ristorante vicino il Senato– racconta De Mita – Vediamo quest’omone che si avvicina, con la giacca sulla spalla e Marcora gli chiede: dove vai? E lui risponde: vado a chiavare. Non è che io sia un moralista, ma confesso che rimasi di sasso. Ecco questo fu il mio primo approccio con lui. Poi non ho mai condiviso il suo pensiero, anche se la sua aspirazione a ritrovare uno spazio autonomo socialista tra la Dc e il Pci, non era infondata». Ma era proprio questa autonomia socialista che dava fastidio a democristiani e comunisti che tuttavia, malgrado dialoghi e incontri non riuscirono ad allearsi.

La fusion ulivista, immaginata da Beniamino Andreatta scomparso nel 2007 dopo un lunghissimo coma durato sette anni, protagonista del rinnovamento democristiano – «Era di una distrazione proverbiale, tanto che una volta dimenticò la moglie in un autogrill, ma era un genio che aveva l’umiltà del pensiero», dice di lui De Mita – non era ancora neppure un sogno.

Dopo le elezioni politiche perse dalla Dc, nel 1983 nasce dunque il famoso o famigerato “patto della staffetta”. Ecco come lo ricorda l’ex-leader democristiano: «Craxi mi disse che la prima fase l’avrebbe fatta lui e la seconda io. Io gli risposi: lascia stare me, perché io non voglio andarci, ma dopo due anni e mezzo è giusto che sia un democristiano ad andare a Palazzo Chigi. Poi Bettino disattese quel patto. Nella prima fase non ci furono molti problemi, anche perché vincemmo il referendum sulla scala mobile ed io mi preparavo all’elezione del capo dello stato con la maggioranza che sosteneva il governo».

Perso il referendum, il segretario del Pci, Alessandro Natta, cerca De Mita: «Mi chiama e mi dice che loro sono pienamente disponibili a concorrere all’elezione del capo dello stato – ricorda l’ex-leader democristiano. I sogni di Arnaldo Forlani, che era il principale alleato di Craxi, e voleva andare al Quirinale vanno in fumo. Nel Pci a quel punto prevale la lezione pragmatica togliattiana che distingueva il capo del governo che rappresenta la maggioranza politica e il capo dello stato che rappresenta l’unità della nazione. E fu così che diventai togliattiano sia pure in ritardo, ma io questo metodo l’avevo già proposto nel 1970».

È qui che nasce il metodo De Mita che porta all’elezione plebiscitaria di Francesco Cossiga. Allora fu un’indubbia vittoria, anche perché Cossiga proveniva dalla sinistra dc, come De Mita. Si rivelò in realtà un gigantesco boomerang, il declino dei partiti tradizionali non si fermò, anche grazie alle picconate di Cossiga, e di lì a poco tangentopoli e le stragi mafiose avrebbero seppellito la prima repubblica…«Noonnnn…non mi hai capito, corri troppo – si scalda De Mita. In quegli anni la Dc è rispettata, recupera consensi, ma risalire la china subito non era immaginabile. In un convegno di giovani in Umbria, dissi che, andando avanti così, la Dc stava tirando le corde e Andreotti mi rispose: con la famosa frase: “Meglio tirare le corde che tirare le cuoia”. Dopo le elezioni del 1987 mentre io pensavo che i vecchi equilibri ormai fossero insufficienti, Martinazzoli, che puntava alla segreteria, aveva fatto l’accordo con Andreotti che infatti diventò presidente del Consiglio dopo di me. Quando gliene chiesi conto rispose: “Anche per entrare a Parigi dovettero passare dalle fogne”.

Il governo De Mita dura circa un anno, segnato dalla tragedia dell’assassinio da parte delle Brigate Rosse, di Roberto Ruffilli, uno degli intellettuali più miti che io abbia mai conosciuto, consigliere del governo per le riforme istituzionali, per poi lasciare spazio al Caf, il patto tra Craxi, Andreotti e Forlani.

In questo continuo riferimento alla comprensione dei cambiamenti il faro di De Mita si chiama Aldo Moro. Un leader al quale fu legato da un rapporto complesso: De Mita anticipatore dell’apertura al Psi negli anni ’50 e al Pci negli anni ’60 («Lo proposi nel 1963»), e Moro che vuole cambiare ma portandosi dietro tutta la Dc: «Da lui ho imparato che non basta il pensiero per risolvere i problemi: il pensiero anticipa gli eventi, la politica deve creare le condizioni perché possano realizzarsi. Era una persona di una rara finezza intellettuale. Moro riteneva che troppi ragionamenti fossero inutili: quando riteneva che un processo fosse maturo lavorava per realizzarlo».

È inevitabile planare sull’attualità. Ecco allora l’anatema verso leghisti e grillini: «Li guardo in tv: parlano ma non esprimono mai un pensiero. Noi rincorriamo le conseguenze, manca la percezione dell’origine dei nostri problemi, dei problemi dell’Europa. A loro non interessa cercare le origini dei problemi e indicare soluzioni, che sarebbe poi l’essenza della politica. A loro basta usare le parole: troppi immigrati. Punto. La denuncia della realtà è forte, la promessa di soluzione del problema non c’è o è debole».

Ma il pericolo principale è Matteo Salvini: «Ho visto con simpatia la formazione del nuovo governo (quando incontrai De Mita era appena nato il Conte-2 con Salvini fuori dal governo, ndr) perché bisognava fermare quell’analfabeta politico, accumulatore di desideri proiettati all’infinito. Tutte le volte che parla non sento alcun ragionamento ma solo affermazioni che vanno incontro all’emotività popolare. Ogni tanto, quando parla mi viene da chiedergli cosa voglia dire. E quanto all’esibizione del crocefisso: la fede non può essere spiegazione della politica, bensì arricchimento della coscienza umana, la confusione tra questi due piani è un pasticcio».

Proseguendo questa carrellata sui protagonisti di oggi, i giudizi sono talvolta sorprendenti, per esempio su Grillo: «L’ho difeso quando i socialisti volevano cacciarlo dalla Rai. Al Poeta che ha fondato il M5S occorre riconoscere il merito di aver indicato la malattia, il disagio del paese. Il problema è che non ha la diagnosi e la cura».

Matteo Renzi, l’ha detto lui più volte, è cresciuto, con il mito De Mita, ma poi nel corso del Referendum ci fu uno scontro furibondo. «All’intellettuale fiorentino – dice oggi De Mita – direi che forse ha consentito la nascita del governo anche per correggere i propri errori mettendo al primo punto la difesa democratica. Gli suggerirei di non usare il governo per incrementare la propria rappresentanza. È vero che alla Leopolda c’era tanta gente, ma le mie antenne in quel mondo mi dicono che era in larga parte da aspiranti candidati alle elezioni regionali e dalle loro claque».

Andrea Muratore per tag43.it il 26 maggio 2022.

Ciriaco De Mita è morto oggi a 94 anni. Lo storico esponente campano della Democrazia Cristiana, ex presidente del Consiglio tra il 1988 e il 1989, sindaco di Nusco, suo paese natale, dal 2014 alla morte è stato spesso coinvolto in scontri politici accesi. In cui ha messo in campo, più volte, la tagliente retorica per cui è diventato celebre. 

De Mita contro l’Avvocato Agnelli: «Mercante senza idee»

«De Mita? Un intellettuale del Mezzogiorno, di quel pensiero tipico della Magna Grecia». Gianni Agnelli durante la trasmissione della Rai Mixer, nel marzo del 1984, definì così l’allora segretario della Democrazia Cristiana.

L’Avvocato intendeva sottolineare, con una punta di malizia, la propensione di De Mita ai ragionamenti complessi, lontani a suo dire da pragmatismo e concretezza. La replica di De Mita non si fece attendere.

«L’espressione intellettuale è stata usata nei riguardi di Moro e paragonare un politico a Moro, dentro e fuori la Democrazia Cristiana, è un complimento», disse, non esitando poi a definire Agnelli «un mercante moderno, con poche idee e tanti interessi particolari».

Il dualismo De Mita-Craxi

Nel 1987 Bettino Craxi ruppe il Patto della Staffetta, stretto tra i leader del Psi e della Dc quattro anni prima, che prevedeva l’alternanza con De Mita al governo a metà legislatura. «Mi sembra che questo affare della staffetta sia stato collocato su un sentiero che si è fatto sempre più stretto e sempre più tortuoso e, quindi, sempre più improbabile», ammise Craxi il 17 febbraio di quell’anno a Mixer, ammettendo pubblicamente il tradimento dell’accordo.

De Mita, che sarebbe arrivato a Palazzo Chigi un anno dopo, entrò così in rotta di collisione col segretario socialista. «Mi ha fregato una volta, la seconda si è fregato da solo. Io i socialisti non li conoscevo, erano un po’ saccenti e superbi… se dovessi dire che lavoravo per l’alleanza con loro direi una bugia», confidò De Mita nel 2021 in una delle ultime interviste concessa a IlGiornale.it.

«Io ho avuto buoni rapporti con i vecchi socialisti appena eletto parlamentare, personaggi di grande saggezza poi fatti fuori da Craxi», fu il suo secco commento ex post sull’era craxiana.

De Mita-De Luca, odi et amo

In anni più recenti, uno scontro a distanza si è consumato tra De Mita e l’attuale presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca. Nel 2008 De Luca, allora sindaco di Salerno, definì senza giri di parole l’ex presidente del Consiglio «il problema della Campania da 40 anni».

Successivamente però, De Luca ha cercato spesso l’appoggio di De Mita, che lo ha sostenuto alle Regionali 2015 e ha speso per lui parole al miele dopo l’emergenza Covid. Una riappacificazione segnata dal messaggio di cordoglio del governatore della Campania: «Scompare con Ciriaco De Mita uno dei massimi esponenti del cattolicesimo democratico del nostro Paese. È stato il politico che ha rappresentato con maggiore coerenza e tenacia le esigenze del Mezzogiorno d’Italia e della sua terra. Scompare uno dei rari esponenti politici che ha sempre tentato di legare l’azione politica a un percorso di lungo periodo». 

I giudizi severi sui due Matteo

Diverso, e ben più duro, l’atteggiamento di De Mita contro i due Matteo della politica italiana, Renzi e Salvini. Con il primo De Mita ebbe modo di scontrarsi nel 2016 duellando nello speciale di La7 sul referendum costituzionale promosso dall’allora premier. 

«Quando la politica è mestiere deve essere breve, quando è pensiero può essere a vita», spiegava ospite di Mentana su La7. «L’idea che sia pensiero la politica tua, che cambi partito ogni vola che ti tolgono il seggio…», rispondeva Renzi riferendosi lo strappo di De Mita con il Partito Democratico che per statuto gli aveva negato la candidatura nel 2008. «La sua è una volgarità che non mi aspettavo», fu la risposta del leader Dc che bocciò la riforma perché «frettolosa poco motivata, scritta male».

«Se io fossi giurista», aggiunse, «avrei grossa difficoltà a leggerla così come è, con periodo lunghissimi. E le norme costituzionali devono essere brevi. Fare un periodo lungo tre colonne è una cosa che non si è mai vista».

E, ancora: «Io avrei tolto il Senato o lo avrei fatto con i notabili, persone che rappresentano la società cresciuta, insomma il patrimonio culturale che si esprime in una comunità e dà consigli».

De Mita poi in un successivo confronto con Andrea Orlando liquidò il renzismo come una somma di «parole senza pensiero». Tre anni dopo, sempre su La7, Renzi e Salvini furono presi entrambi d’infilata dal vecchio leone democristiano: «Il primo ha opinioni insopportabili e un eloquio senza senso. Il secondo? Emette suoni, non parla». Una delle sue ultime, grandi frecciate. 

Federico Geremicca per “la Stampa” il 28 maggio 2022.

A chi è venuto a rendere omaggio Sergio Mattarella, che se ne sta lì impietrito in prima fila, gli occhi fissi su quel feretro chiaro e disadorno? Sono le sei del pomeriggio e siamo nella piccola chiesa di Sant' Amato, giusto in cima al cucuzzolo sul quale è appollaiata Nusco. La cattedrale è colma per le esequie di Ciriaco De Mita: ma chi era, appunto, De Mita? 

Si dice che gli uomini possano esser giudicati anche per le battaglie che hanno combattuto, per gli amici con i quali hanno camminato e per gli avversari che hanno contrastato. Ciriaco De Mita ha avuto tre grandi nemici, se possiamo dir così: Bettino Craxi negli '80, Silvio Berlusconi in quelli '90, Giulio Andreotti per tutta la vita. È un elenco che lo metterebbe, secondo molti, dalla parte giusta della storia. Ma gli amici? 

Il primo è appunto lì, in prima fila con la figlia Laura, a pochi passi dalla moglie e dalla grande famiglia del presidente scomparso. Definire De Mita e Mattarella amici è forse troppo: o forse troppo poco. Quel giovane professore universitario palermitano, infatti, fu il primo e più riuscito azzardo che il leader irpino osò appena arrivato alla guida della Dc: commissario del partito in Sicilia per cercare di arginare lo strapotere della corrente andreottiana, da sempre in comprovati rapporti con la mafia. A Mattarella le cosche avevano ammazzato il fratello Piersanti pochissimi anni prima: ma per Sergio quello fu solo un motivo in più per rispondere subito sì. Era il 1984. 

Gli altri amici sono confusi tra la folla stipata in chiesa, in mezzo a canti e fumo d'incenso: invecchiati, affaticati, a volte irriconoscibili a causa della mascherina. Nicola Mancino, Clemente Mastella, Giuseppe Gargani, Gerardo Bianco, Gianfranco Rotondi... Li guardi e potresti confonderli con dei tranquilli pensionati: ma avevano un amico - un capo - che aveva fatto di loro un invincibile gruppo di potere. Dopo Sassari - con i suoi Cossiga, Segni, Pisanu e Berlinguer - nessuna altra zona d'Italia ha mai avuto una simile concentrazione di leader e di potere: il funerale di De Mita rende orfani anche loro, oltre che l'intera Nusco, paesino ora assai meno significante su qualunque mappa del Paese.

Ma il funerale di Ciriaco De Mita è forse il funerale di tante altre cose. Della "balena bianca", di cui l'ex premier era l'ultimo grande leader in vita. Della Prima Repubblica, anche: che in questa piccola chiesa di provincia si prende una plateale rivincita sulla Seconda, con Luigi Di Maio che applaude commosso il feretro, come se non ci fosse un passato, una memoria capace di custodire disprezzo, insulti e odio.

Qui è lì, confusi tra i banchi e tra la gente, alcuni volti noti: un quasi presidente come Pier Ferdinando Casini, un sempre presidente come Vincenzo De Luca, molti ex giovani dc e poi la sorpresa di Bobo Craxi. Per il PD nessun dirigente nazionale, per i Cinquestelle la delegazione più folta (Gubitosa e Sibilia, oltre Di Maio). Imbarazzante la rappresentanza di Camera e Senato, con un vicepresidente (Rosato) e un segretario di presidenza (Puglia): magari un po' poco per un leader che ha letteralmente trascorso la vita tra Montecitorio e i palazzi del governo.

In chiesa, dopo l'omelia, parlano nipoti e amici dell'ex presidente. Quindi il suo storico portavoce, Giuseppe Sangiorgi. Riporta una frase che De Mita, mutando don Sturzo, ripeteva spesso: la nostra idea non sarà vincente se non diventerà il sentire del popolo. Guardi indietro, alla storia del Paese, e pensi che vincente lo è stata per decenni. Poi guardi intorno, osservi le lacrime e la folla, e c'è poco da fare: su quell'idea, un po' sturziana e un po' demitiana, qui il sole non è calato mai.

La messa finisce, il feretro è portato a spalla fuori della chiesa. Sergio Mattarella lo fissa e lo segue. Il presidente è arrivato in elicottero ed in elicottero lascia questo paesone circondato da nubi e da montagne. Nusco era De Mita, e si chiede cosa diventerà ora. Certo, non è l'interrogativo più importante, ma forse per Ciriaco lo sarebbe stato: è a Nusco che aveva dedicato le sue ultime energie ed è qui che ha voluto funerali e sepoltura. È non può essere un caso, ripetono le signore del paese, che abbia deciso di morire nel giorno dell'ottavo anniversario della sua elezione a sindaco. Credenze popolari. O forse no.

La vergogna, le calunnie e i (pochi) silenzi. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.  Da quando la spudoratezza è diventata consuetudine? Da quando ha sfondato quelle pareti che ci permettono di distinguere l’indegnità dalla dignità? In occasione della morte di Ciriaco De Mita, il sottosegretario all’Interno Carlo Sibilia (quello che pensa che l’allunaggio sia stato una messinscena) ha inviato un messaggio di condoglianze alla famiglia da condividere con «tutti quelli che in lui hanno sempre visto un riferimento politico». Gesto istituzionale? Cordoglio di maniera? Può darsi. Ma forse il silenzio sarebbe stato più appropriato perché in passato Sibilia ha più volte calunniato De Mita, tra l’altro accusandolo di avere «la schiena imbottita di tangenti». Ormai si può dire di tutto, senza vergogna. I social hanno di colpo affrancato le individualità e con esse le presunzioni (psicopatologie?) dei singoli: più che alla personalità si punta al personaggio. Ciò che più preoccupa è il Sibilia che è in noi, la sfacciataggine con cui molti uomini pubblici portano le loro facce. È da ingenui pensare che la politica non conosca l’infingardaggine, lo so; tuttavia, sono convinto che si è spudorati più per indole che per scelta. La faccia tosta del Sibilia che è in noi è specchio del temperamento, non solo delle convinzioni politiche, delle credulonerie, dell’opportunismo. Si cambiano le idee, il carattere resta immutato.

LA MORALITÀ DELLA POLITICA È L'EFFICIENZA. PNRR & SUD / LE INTUIZIONI MERIDIONALISTE DI DE MITA E IL FARE CHE SERVE OGGI. ROBERTO NAPOLETANO su Il Quotidiano del Sud il 27 Maggio 2022.

“Fu un errore rimuoverlo, dopo di lui tutto andò male”. Con l’onestà intellettuale che lo ha sempre contraddistinto Ciriaco De Mita fece autocritica pubblica per la scelta del governo di solidarietà nazionale, presieduto da Giulio Andreotti, di rimuovere Gabriele Pescatore dalla presidenza della prima Cassa del Mezzogiorno. La Cassa delle grandi opere che aveva un organico di poco più di 300 ingegneri e consentì all’Italia di raddoppiare il prestito Marshall. Fece dell’Italia la lepre europea nell’utilizzo dei fondi europei. Gabriele Pescatore era Irpino come De Mita. Il primo era di Serino, il secondo di Nusco.

Nel giorno dei funerali dell’ultimo grande leader democristiano, alla presenza del capo dello Stato Sergio Mattarella, e del suo “popolo”, mi è venuta in mente questa dichiarazione pubblica che fotografa come meglio non si potrebbe lo spartiacque tra una lunga stagione di efficienza dell’intervento pubblico nel Mezzogiorno e quella inefficiente e smaccatamente clientelare che ad essa subentrò. De Mita rappresenta più di ogni altro l’ambizione di costruire un Mezzogiorno industrialista che realizzasse la profezia di Morandi, capo dei partigiani milanesi e primo presidente della Svimez. La profezia era: l’Italia sarà il Mezzogiorno industrialista che sarà.

Molto dell’industria pubblica di mercato che ancora oggi opera con successo nel Mezzogiorno e una parte altrettanto rilevante di investimenti privati, piccoli, medi e nazionali avvenuti nel Mezzogiorno d’Italia dopo la stagione d’oro del primo intervento straordinario, sono dovuti all’azione testarda e mai divisiva di promozione dello sviluppo industriale che De Mita svolse in tutti i suoi ruoli politici. Come amministratore, come ministro, come segretario della Democrazia cristiana e come presidente del consiglio. Sulla ricostruzione abitativa e industriale dell’Irpinia fu oggetto di una campagna di diffamazione tanto violenta quanto ingiusta. Perché se c’è un pezzo di quel Mezzogiorno di dentro che, al netto delle inevitabili piccole ruberie, ha fatto quello che doveva fare, questo è l’Irpinia.

In questa sede non si vuole ricordare il politico di razza della prima Repubblica che intuì prima di tutti l’esigenza del cambiamento, ma non poté realizzare la nuova sintesi perché era arrivato primo ma troppo tardi. Perché il mondo era già cambiato e il cattolicesimo democratico, ancorché aperto alle istanze laiche e liberali, non poteva più essere la risposta ai problemi di quella stagione. In questa sede si vuole solo ricordare che le due grandi intuizioni meridionaliste di De Mita sono oggi di straordinaria attualità.

La prima era quella di restituire efficienza alla macchina amministrativa con un ruolo centrale di guida e di indirizzo e strutture operative territoriali profondamente rinnovate nella capacità di fare le cose.

Potremmo chiamarla rigenerazione amministrativa. La seconda intuizione che è sempre stata quella di stimolare la crescita dell’economia privata dei territori e la capacità di attrazione di investitori produttivi nazionali e internazionali, è assolutamente oggi la più straordinaria opportunità per l’Italia e l’Europa prima ancora che per il Mezzogiorno.

La storia oggi combatte a favore dei territori meridionali. Perché la pandemia globale ha cambiato i canoni fondamentali della globalizzazione e questo spinge i capitali globali usciti dai Paesi emergenti a indirizzarsi in aree sicuramente più attrezzate come sono quelle del Mezzogiorno e, allo stesso tempo, le filiere produttive europee non hanno alternativa se vogliono mantenere un minimo di efficienza e di sicurezza competitive sullo scacchiere mondiale. Perché la guerra di Putin in Ucraina, nel cuore dell’Europa, qualunque siano esito e durata, ridisegna l’ordine mondiale e “condanna” il Mezzogiorno d’Italia a diventare l’hub energetico dell’intera Europa diventandone la porta sul Mediterraneo e l’anello di collegamento con i Paesi del nord Africa e del Medio Oriente. Per tutte queste ragioni riteniamo che lo sforzo di accelerazione nell’attuazione delle riforme di strutture e di investimenti sollecitato con successo dal presidente Draghi al suo Governo e ai partiti sia decisivo per il futuro di questo Paese. Riteniamo, però, che la riforma più importante di tutte sia quella che riguarda il capitale umano del Mezzogiorno. Il racconto reale che il governo fa di un Mezzogiorno non più peso del Paese ma grande opportunità di crescita per l’intero Paese ha bisogno di camminare attraverso le teste e le gambe di una nuova classe dirigente meridionale della politica e della Pubblica amministrazione. Scommessa che vale per l’oggi e, ancora di più, per il domani.

Per questo non è ammissibile che i comuni del Mezzogiorno rinuncino agli stanziamenti in asili nido, palestre, mense scolastiche, così come non è ammissibile che l’intero sforzo messo in essere sulla filiera – scuola di base, scuole tecniche, industria e ricerca – abbia un solo anche minimo ritardo o tentennamento. Per la prima volta, grazie ai fondi europei e a un quadro internazionale in movimento c’è la concreta possibilità di attuare le due intuizioni meridionaliste di De Mita che custodivano dentro di sé il senso storico di un Paese nuovo che metteva insieme la Cattolica di Milano, i professori di Bologna, la ricerca e l’industria emiliano-romagnola con quelle di un Mezzogiorno industriale altrettanto competitivo e innovatore. Ancora una volta il Paese si gioca tutto sul futuro del suo Mezzogiorno e devono essere gli amministratori pubblici e le imprese meridionali a guidare questo processo di cambiamento che è culturale prima ancora che economico. È un problema di teste e di organizzazione prima ancora che di fondi europei. Serve uno spirito collettivo nuovo che bandisce la lamentazione e si nutre di atti che infondono e moltiplicano la fiducia. Questo è il nuovo meridionalismo che serve al Mezzogiorno e all’Europa. Serve, come è stato ricordato ieri, quello che De Mita non ha mai smesso di ripetere: la moralità della politica è l’efficienza. Perché dopo le belle parole, servono i fatti.

Il pregiudizio antimeridionale dietro il silenzio su De Mita. Risponde Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.

Caro Aldo,

bastava il trafiletto in prima pagina per ricordare la morte di De Mita. Le due pagine interne sono state semplicemente l’apologia di un reato ovvero il reato di danneggiamento e malversazione della cosa pubblica. Vergognatevi.

Marco R., Brescia

Caro Marco,

Non solo era doveroso per i giornali dare spazio a una figura importante come quella di Ciriaco De Mita; al contrario di lei, trovo che nel Paese la sua scomparsa sia passata quasi sotto silenzio. Si è parlato molto di più del centenario della nascita di Berlinguer. Si continua a parlare molto di più di Craxi. Nel primo caso, è il mito del comunismo italiano, questo incantesimo per cui un’idea rivelatasi fallimentare e criminale ovunque sia andata al potere diventava in Italia giusta, o almeno nobile (questo senza sminuire l’indubbia statura internazionale di Enrico Berlinguer, tale da fare impallidire le figure politiche di oggi). Nel secondo caso, la vita avventurosa e la fine tragica continuano a dividere e a ispirare film e documentari. Nessuno farà un film su Ciriaco De Mita. Poco male. Resta da capire perché tanta smemoratezza e tanta freddezza per l’uomo che negli anni ’80 era il più potente d’Italia. Certo, la Dc non era un partito personale; era un sistema. Ma su De Mita, inutile negarlo, pendeva un pregiudizio anti-meridionale. Oltretutto non era un raffinato napoletano, ma un orgoglioso provinciale irpino. «Intellettuale della Magna Grecia» disse Agnelli. «C’è una parola di troppo: la Grecia» chiosò Montanelli. Che aggiunse: «Non mi piacciono né lui, né Craxi. Ma Craxi si sveglia a Milano, e ha una visione del mondo. De Mita si sveglia a Nusco, e ha la visione dei caciocavalli appesi» (va ricordato che Montanelli stimava invece altri politici del Sud, ad esempio Emilio Colombo). «L’avellinese ci farà perdere tre milioni di voti» commentò Donat-Cattin quando nel 1982 De Mita fu eletto segretario (si sbagliava, ma non di molto: l’anno dopo di voti la Dc ne perse due milioni). Il vero De Mita era un uomo colto e anche avveduto. Un solo episodio: quando era presidente del Consiglio — nella Prima Repubblica poteva accadere che per far fuori uno lo si mandasse a Palazzo Chigi — gli americani obbligarono gli europei a scortare con navi militari le petroliere nel Golfo Persico, per mettere pressione sull’Iran. Lui fece notare: «Mi pare una cosa inopportuna e foriera di pericoli. Se poi ci fosse un conflitto a fuoco?». Mancavano 25 anni alla storia dei marò. Il punto è che quell’intuizione fu espressa durante un bagno in piscina, con i cronisti in giacca e cravatta che lo seguivano a bordo vasca. De Mita non era insomma neppure sfiorato dal dubbio che fosse eccessivo il potere — fino al capriccio — dei partiti e dei loro capi. Tuttavia non fu sconfitto dal nuovo che avanzava, bensì dal vecchio che tornava. La ebbero vinta i dorotei e Andreotti. Che però sarebbero durati poco. Lo intervistai due volte, nell’attico che affittava a prezzo politico e nella sua Nusco. Era un battutista formidabile; ma alle battute preferiva i ragionamenti. Con la t.

"Sfido chiunque a ricordarmi una sua grande idea politica". Ciriaco De Mita ha portato alla morte la democrazia in Italia. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2022.  

È morto De Mita, Ciriaco De Mita, grande capo della Democrazia Cristiana (soprattutto nei primi anni ’80), grande personaggio della Prima Repubblica, ex ministro, capocorrente della sinistra democristiana. Si parlerà molto bene di lui. Io invece voglio parlarvene male.

Penso che De Mita sia l’uomo che ha trascinato alla morte la Prima Repubblica e quindi la democrazia italiana. La grande democrazia italiana, anche quella che c’è adesso, è ciò che ci è rimasto di quella costruzione gigantesca che fu la democrazia della Prima Repubblica; la democrazia e il conflitto, la democrazia e il conflitto sociale, la democrazia e la lotta politica, la democrazia e i suoi insuccessi, anche la democrazia e le stragi e la violenza. Lo Stato di Diritto e la democrazia sono stati trascinati in un fallimento alla fine degli anni ’80.

Io penso che uno, o forse il principale responsabile di quel fallimento fu Ciriaco De Mita. Perché? Perché De Mita non è mai stato uno statista. De Mita è stato un uomo politico di manovra, capace molto nella manovra politica e nella tattica e capace moltissimo nella gestione del potere. Però De Mita aveva un’idea molto semplice: che la politica fosse il potere, punto. Non che il potere fosse un aspetto della politica. In un’epoca in cui la politica, forse oggi è difficile spiegarlo, erano grandi idee. Era l’epoca di Fanfani, di Moro, di Craxi e di Berlinguer.

Fanfani è stato un grande riformista. Ha fatto le riforme del ’62: ha riformato la scuola media, ha fatto un grande piano casa dandola agli italiani, ha riformato il welfare. Passa per uomo di destra ma Fanfani lo è stato solo su alcune questioni di costume come il divorzio, non certo sul piano sociale dove è stato un riformista, ed era uno che aveva un’idea precisissima di società, un’idea di società molto cristiana e capace di essere più giusta. Era un uomo di sinistra Fanfani. Moro no.

Moro era un conservatore, ma un grande conservatore. Aveva l’idea che bisognava conservare la struttura della democrazia italiana, così com’era, senza modificarla, bisognava permettere a questa struttura di essere la chiave dello sviluppo economico e per fare ciò bisognava tenere a bada il conflitto sociale. Moro era bravissimo in questo. Questa tattica, questa tecnica politica, era la tecnica che gli serviva per arrivare al suo obiettivo che era quello di mantenere le cose. I conservatori non devono riformare. Moro non era un riformista, una balla. Era un conservatore dalle grandissime idee, dalle grandissime capacità politiche. L’hanno dovuto abbattere perché se non lo avessero fatto avrebbe vinto lui. Se non lo abbattevano vinceva Moro.

Craxi e Berlinguer erano due uomini di sinistra, due grandi riformisti con idee completamente diverse. Craxi pensava che la questione fondamentale fosse sviluppare moltissimo la libertà e quindi liberalizzare l’Italia sul piano dell’economia e quindi aprire le porte al liberismo, sul piano della cultura, sul piano della politica con il decisionismo, semplificazione, Repubblica Presidenziale. Berlinguer no. Non è che fosse anti liberale, ammetteva la libertà ma come lusso. La questione di Berlinguer era l’equità e la giustizia economica, e quindi livellare gli stipendi, aumentare il potere d’acquisto dei poveri e ridurre le grandi ricchezze. Fece delle grandi riforme: fra il ’78 e il ’79 fu il Pc a fare le grandi riforme della Casa, della Sanità, anche la riforma della Psichiatria, l’Equo canone, la Scala mobile.

Non è vero che Craxi e Berlinguer erano incompatibili perché si odiavano, erano incompatibili perché avevano due idee completamente diverse di sinistra su due giganteschi pilastri ideali: la libertà e l’uguaglianza. Non potevano mettersi d’accordo non perché ci fossero questioni tattiche perché c’erano due questioni di idealità. Erano due sinistre diverse. Berlinguer liquidò Lenin ma non liquidò Marx, Craxi liquidò Marx e scelse Proudhon.

Adesso noi siamo un po’ più impicciati perché la questione fondamentale che ci riguarda è quella di Giarrusso e Petrocelli, ma allora non si discuteva di Giarrusso e Petrocelli, può sembrare strano ma si discuteva di queste cose. Erano queste le questioni aperte. In questa politica fatta di strategie, di ipotesi e realizzazione di riforme per costruire un’Italia diversa, De Mita non c’entrava nulla.

Sfido chiunque a ricordarmi una grande idea politica di De Mita. Volete sapere di Craxi? Tagliò la Scala mobile per favorire le imprese (ero contrario e lo sono ancora adesso), però quella era la sua politica, la Repubblica presidenziale, la politica estera autonoma dagli Stati Uniti. Volete sapere cosa fece Berlinguer? Ve l’ho detto: la riforma sanitaria, la riforma della casa. Se si chiede anche a una persona che ha studiato quell’epoca: “De Mita che idea aveva?”. Nessuno sa rispondere. De Mita non aveva nessuna idea, aveva l’idea di governare, di prendere il potere e non gli riuscì perché Craxi lo spazzò via. Lo scontro fra Craxi e De Mita che avvenne negli anni ’80 è lo scontro fra un uomo fortissimo sul piano della gestione del potere e un uomo che invece nella gestione del potere non era tanto forte ma che aveva idee e carisma fortissimi.

De Mita ebbe la capacità di prendere in mano la stampa italiana, tutto il sistema dell’informazione, e di guidare il sistema delle correnti. L’uomo che gli realizzò tantissimi dei suoi progetti tattici, che gli fece vincere i congressi era Clemente Mastella. Uomo intelligentissimo, modernissimo, che sapeva governare le correnti. Fu inventata credo da Giampaolo Pansa la frase ‘per vincere un congresso ci vogliono le truppe mastellate’, e in effetti De Mita vinse parecchi congressi con le truppe mastellate non con le idee. Non usciva nessuna idea da quei congressi, uscivano maggioranze.

E poi controllava la stampa italiana. Ce l’aveva tutta. La Rai era tutta roba sua, allora aveva il monopolio. Poi il Corriere della Sera, La Stampa, Il Giorno, L’Unità, Paese Sera. Controllava tutti. Anche molti dei giornalisti di oggi, posso citare Mauro, Franco, Caprarica, Padellaro erano tutti in questa grande corte dei giornalisti ‘demitiani’. Lui controllava tutto per questo restò a galla tanto tempo eppure perse alla fine anche le battaglie di potere perché le vinse Craxi.

Quando nel 1984 morì Berlinguer per un ictus mentre era in corso una battaglia feroce sulla Scala mobile quindi sulla politica economica fra le due sinistre, fra Berlinguer e Craxi (la Dc non contava niente), poi qualche anno dopo nel ’92 la magistratura spazzò via Craxi e non rimase più nulla della grande politica, rimase il ‘demitismo’. Craxi non è l’uomo che ha portato la corruzione in Italia, io li ricordo bene, Craxi non si è mai venduto, io non so come funzionava il sistema delle tangenti, le prendevano tutti, però poi c’è un altro aspetto: cioè chi manteneva fermi i principi della sua politica e chi no.

Craxi ha sempre tenuto fermi i suoi principi, io li ho conosciuti quando ero ancora un giornalista politico molto giovane e sono sempre stato ferocemente anti-craxiano (perché ero comunista), ma Craxi lo riconoscevi. Il resto era robetta, manovretta, cose che non avevano nulla a che fare con la grande politica. Quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il ‘demitismo’ e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica e quindi, dico io, è stata spazzata via la democrazia italiana. E questo non è un merito. Piero Sansonetti

Il contro- necrologio. De Mita rovinò l’Italia, ecco perché. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Maggio 2022.  

Ciriaco De Mita, secondo me, è stato l’uomo che ha portato al disastro la prima repubblica. Cioè la democrazia italiana. Ho letto ieri moltissimi articoli sui giornali italiani, compreso il nostro, anche molto belli, acuti. Secondo me, però, eccessivamente generosi verso l’ex segretario democristiano e sbagliati nel giudizio di fondo. Capisco che il mio è un giudizio molto minoritario e forse persino un po’ maleducato. Ma sono molto convinto di quel che scrivo.

Io credo che De Mita avesse alcune delle doti del grande politico: una notevole abilità tattica, una buona strategia delle alleanze, la capacità di conquistare, e dominare, e sottomettere i giornalisti e i mass- media. Però gli mancava la visione. De Mita spesso incantava con la sua retorica un po’ fumosa, ma non era capace di produrre idee politiche. Era il suo punto debole. Stiamo parlando di un’epoca nella quale le idee erano fondamentali in politica. L’epoca di Moro e Fanfani, e poi di Craxi e Berlinguer. Moro era un conservatore, un uomo di centro. Anzi, era il gigante del centro politico. Voleva consolidare la struttura della democrazia italiana e fare in modo che questa potesse accompagnare lo sviluppo economico, riducendo al minimo le tensioni sociali. Tutte le sue scelte politiche erano ispirate a questo disegno. Conciliare e conservare.

Fanfani invece era un riformista, e tendenzialmente, sul piano sociale, uno statista di sinistra. Diede impulso al welfare, realizzò il piano casa, riformò la scuola media. Craxi e Berlinguer erano due politici con una impronta fortissima e simile: mettevano la strategia al di sopra della tattiche. Il fine davanti a tutto. Cioè i programmi, la visione, erano per loro la sostanza della politica, e la manovra era solo il mezzo. Craxi fu anche un ottimo manovratore, e anche Berlinguer. Ma il loro carisma non era fondato sulle tattiche: si reggeva sulle idee e su un progetto di società. Craxi e Berlinguer avevano due progetti di società molto diversi. Quasi opposti. Craxi voleva liberalizzare il paese, sul piano dell’economia, ma anche della cultura, del senso comune, e poi sul piano politico, semplificando la macchina decisionale, introducendo il presidenzialismo, deburocratizzando il parlamento. Ve lo ricordate? Dicevano che fosse un decisionista. Il suo decisionismo era una subordinata del liberalismo sociale.

Berlinguer non era un illiberale. Però non considerava la libertà il principio essenziale attorno al quale costruire una strategia. Da vecchio comunista togliattiano, e anche un po’ da para-cattolico, metteva l’equità e l’uguaglianza al centro di tutto. Non la libertà. Sanità uguale per tutti, diritto alla casa, livellamento salariale, riduzione delle grandi ricchezze. La stagione ‘78-79 (la seconda grande stagione riformista del dopoguerra, dopo quella di Fanfani ) è opera sua. Se Berlinguer e Craxi non trovarono mai una intesa, se la sinistra restò divisa, la cosa non dipese da “incompatibilità caratteriale”, o eccesso di competitività. No. Dipese dalla lontananza delle idee delle due sinistre. Berlinguer liquidò Lenin, ma non Marx. Craxi liquidò Marx e scelse Proudhon. Allora la politica era questo, le questioni relative a Giuarrusso e Petrucelli non si erano ancora affacciate.

De Mita si è sempre tenuto lontano da queste “beghe intellettuali”. A lui interessava quella politica che Rino Formica chiamava “sangue e merda”. La battaglia di campo, la ricerca del consenso, il governo delle correnti, che erano l’anima della Dc. Anche Moro era abile nel governo delle correnti, ma era diverso l’approccio. Moro si misurava con le parti “alte” delle correnti. Perché nella Dc le correnti erano due cose: truppe (assistenzialismo, clientelismo) e grandi idee. Basso e alto. Ricordo alcuni convegni a Saint Vincent della corrente di Donat Cattin che valevano dieci lezioni universitarie di dottrine politiche. Soprattutto la sinistra Dc, erede di Dossetti, di La Pira, di Marcora, era fortissima sul piano intellettuale. Lo era anche la sinistra di Base (Marcora, appunto) che aveva intellettuali raffinatissimi al suo interno, come Galloni e se non ricordo male anche Martinazzoli, Granelli e Belci.

De Mita era più interessato alla parte un po’ grezza del correntismo. L’organizzazione. Quella che permetteva poi di vincere i congressi, regolando l’afflusso dei voti e degli appalusi. Aveva un colonnello fantastico, che ancora è alla ribalta, ed era bravissimo. Clemente Mastella. Credo che fu Gianpaolo Pansa, ad un congresso Dc, a scrivere che il congresso lo avevano vinto le “truppe mastellate”... Mastella era anche l’uomo che organizzò la “testuggine“ dei giornali intorno a De Mita. Prima conquistò la Rai (quando Mediaset ancora non esisteva e la Rai aveva il monopolio) poi i grandi giornali. De Mita, direttamente o attraverso Mastella – uomo intelligentissimo e modernissimo – controllava il Corriere, Repubblica, l’Unità, la Stampa, Paese Sera, il Giorno, il Messaggero. C’era una corte di giornalisti che pendeva dalle sue labbra. Anche penne celebri allora e celebri ancora adesso. Ne cito qualcuno, alla rinfusa, per non essere vago.

C’erano Ezio Mauro, Massimo Franco, Antonio Caprarica, Candiano Falaschi, Giorgio Rossi, Antonio Padellaro e tantissimi altri. Quelli fuori dal coro erano pochissimi, e generalmente finivano per appoggiarsi a Craxi. Penso a Paolo Franchi, a Walter Tobagi e un paio d’altri. Però Craxi non distribuiva potere, De Mita sì. In quel periodo ero un giovane giornalista politico dell’Unità. Abbastanza emarginato. Non sopportavo la corte di De Mita (forse l’avete capito anche leggendo queste righe…) e avevo notato lo squilibrio, sul piano dello scambio di potere, tra craxismo e demitismo. Nel craxismo era bassissimo. Poi mi dissero che Craxi era corrotto. Per come lo conoscevo tendo a escluderlo, Penso che in quel mondo politico, nel quale la corruzione non era un difetto – faceva parte del sistema – Craxi fosse uno dei pochi incorruttibili. Non dico sul piano dei soldi, quello non lo so.

Il sistema delle tangenti funzionava per tutti con regole ferree. Era considerato più che tollerabile da tutti. Dico sul piano della politica. Per me Craxi non si è mai venduto: nel senso che le sue scelte politiche erano assolutamente autonome, non erano condizionate da scambi di favori o di potere, o da manovre, o da compromessi. Craxi, dopo la morte di Berlinguer e di Moro, era restato l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Nella Dc non era così: lo scambio tra scelte politiche e vantaggi vari era piuttosto frequente. Lo scontro fra Craxi e De Mita fu tutto qui. La possenza del sistema di potere democristiano contro il carisma e le idee e le doti di statista di Craxi. Lo sapete, negli anni ottanta vinse Craxi, spostò l’Italia, in parte controriformando le riforme berlingueriane di fine anni 70, in parte innovando, “europeizzando” e forzando la mano sull’indipendenza del paese.

La Dc fu per la prima volta messa in secondo piano. Grande potere, grande sottogoverno, ma fuori dalle scelte importanti. Politica estera, politica economica, politica sociale: decideva il Psi, la Dc o approvava o faceva un po’ di fronda strizzando l’occhiolino al Pci. Quando dalla politica italiana sono scomparsi prima Berlinguer e poi Craxi è scomparsa anche la grande politica. Non si sono sentite più le idee. Nessuno capace di immaginare il futuro, di pensare. Restò il potere, la ricerca del consenso, i sondaggi, le tattiche, i congressi di manovra. Era il demitismo che si allargava, si prendeva la vendetta, ma non dopo aver vinto una battaglia ,semplicemente per la legge dei “vuoti”. Lo dico in modo un po’ brusco, ma io credo che il demitismo sia stata la malattia che ha portato la prima repubblica a implodere, a consumarsi, e a finire preda di un pugno di magistrati milanesi. Quattro o cinque, svegli e con un po’ di manette a disposizione.

L’Italia, alla vigilia del ‘92, era diventata la quarta potenza mondiale. Era un paese molto più giusto e molto più democratico del paese che è oggi. Aveva sconfitto il terrorismo e dato le legnate di Falcone alla mafia. Non restò nulla. Iniziò il declino. Colpa di De Mita? Ma no, per carità, non dico questo. Certo De Mita non portò neppure un granello di sabbia a difesa della grandiosa stagione della democrazia politica. La sua eredità politica, siamo sinceri, non è vastissima.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Prima repubblica e crisi della politica. La morte della democrazia non fu colpa solo di De Mita. Enzo Carra su Il Riformista il 5 Giugno 2022. 

Caro direttore, nel tuo epicedio per Ciriaco De Mita, così diverso dagli altri da sembrare stonato, ma la politica non obbedisce a un canone melodico, tu concludi, perdona la citazione demitiana, con un ragionamento. Dici che da “quando non c’è stata più la grande politica è rimasto solo il demitismo e a quel punto è stato spazzato via tutto e quindi è stata spazzata via la Prima Repubblica.”

Così, tu attribuisci a De Mita un ruolo imponente nell’ultima fase di quella che con leggerezza chiamiamo Prima Repubblica (è forse stata cambiata la Costituzione?). Certo, dal caso Moro in poi quella parte della nostra storia ha proseguito il suo corso come sospesa, malamente, senza idee e senza progetti. La cosiddetta lotta politica s’era trasformata dalla fine degli Anni settanta in uno scontro tra i detentori del potere e quelli che volevano impossessarsene. Per dire: Andreotti spogliato del governo dopo il caso Moro punta sull’elezione di De Mita alla segreteria della Democrazia Cristiana per poi mollarlo appena ottenuto il ministero degli esteri da Bettino Craxi. Per dire.

Negli Anni ottanta la “grande politica” è assente. Molta tattica, un governo a guida socialista appoggiato da una parte della Democrazia Cristiana e il partito di Scalfari-Repubblica che appoggia De Mita: c’è questo e poco altro in quel fine secolo ed è complicato limitare a uno solo dei protagonisti dell’epoca la responsabilità del crollo. È sicuro invece che questo crollo, tu lo definisci icasticamente la “morte della democrazia”, avviene nel maggio del 1982 quando si vota per il presidente della repubblica. Sarà il successore di Francesco Cossiga, il “picconatore” tanto per restare in tema di crolli. In quei giorni si consuma l’ultimo atto della repubblica dei partiti. Si inizia con un saggio di filodrammatici, li chiamano franchi tiratori, che seminano trappole e si finisce avvolti dalle fiamme in una tragedia che brucia uomini e istituzioni.

Cominciamo dalla fine, una fine vera. Lunedì 25 maggio a metà giornata i grandi elettori applaudono Oscar Luigi Scalfaro nuovo capo dello stato: hanno votato a stragrande maggioranza una persona che prima di quell’infernale week end avevano escluso dalla lista degli eleggibili. Sono le fiamme e la tragedia di Capaci a obbligare quell’esercito allo sbando a votare per Scalfaro, il candidato al di sopra di ogni sospetto. E alla domanda perché Riina e gli altri assassini abbiano scelto quel giorno per la strage la risposta è: Andreotti. Dopo Salvo Lima, Cosa Nostra completa la sua vendetta contro chi l’ha scaricata con quell’orrore inimmaginabile che impedirà a Andreotti di chiudere al Quirinale la sua carriera politica.

Per ottenere questo risultato però non c’era bisogno di quintali di tritolo perché già dall’estate del 1990, al rientro a Roma della commissione parlamentare antimafia presieduta da Gerardo Chiaromonte da una importante e rivelatrice missione a Palermo, i comunisti fanno sapere ad alcuni dirigenti democristiani che il partito non sosterrà più Andreotti. La Democrazia Cristiana tiene conto di questa decisione del partito con il quale ha sempre condiviso la scelta al Colle più alto. Una prassi che ha tollerato un’unica eccezione, il voto per Giovanni Leone che mandò il giurista al Quirinale e su tutte le furie il partito comunista, neutralizzato in quell’occasione, che poi seppe come dilaniare il presidente che non doveva ringraziarlo. Il 1992 è un anno speciale. Mani Pulite è partita da poco ma promette grandi cose e i partiti, tutti i partiti comunisti compresi, non hanno lo smalto di una volta, anzi boccheggiano.

Un’ultima volata, un disperato sforzo di restare in piedi per non mandare all’aria il sistema -la Prima Repubblica– che non ha alternative se non quella dell’avventura come sistema, è questo il tentativo del quadripartito (democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali). Un’operazione che nello scrutinio decisivo potrà raccogliere i cosiddetti voti in libertà da sinistra e forse anche da destra. Una scelta conservativa, sì ma per evitare il peggio. È vero, all’occorrenza ci sarebbe anche Oscar Luigi Scalfaro, il “candidato di Marco Pannella” come scrivono i giornali. Non è per questo che sul quel nome ci sia il “no” della Democrazia Cristiana. Ciriaco De Mita, presidente del partito con Forlani segretario, non dimentica la severità curiale, l’enfasi moraleggiante, la demagogia con cui Scalfaro ha condotto, da presidente della commissione parlamentare d’inchiesta, i fatti della ricostruzione in Irpinia.

Prima Montanelli sul Giornale, con una grande inchiesta giornalistica di Paolo Liguori, ha sommerso di accuse il “clan degli avellinesi”, poi la commissione parlamentare ha messo in bella copia e dettagliato quelle denunce. Raro esempio di un’azione giudiziaria ispirata e sorretta da un’inchiesta giornalistica, da allora in poi infatti avverrà il contrario e i giornali aspetteranno il via, soprattutto le carte dalle procure. De Mita controlla un buon quaranta per cento dei grandi elettori della Democrazia Cristiana e i suoi orientamenti influenzano l’intero arco costituzionale che del resto è una sua invenzione. Arnaldo Forlani è capo della parte moderata che adesso si chiama Azione popolare e comprende la vecchia cara corrente del Golfo che fa capo a Antonio Gava.

Insomma, il candidato Forlani parte bene anche se Mario Segni, ex capo dei superanticomunisti democristiani, i “101” di Massimo De Carolis e Luigi Rossi di Montelera, sta molto simpatico al capo dei democratici di sinistra Achille Occhetto. Segni chiede un completo rinnovamento del suo partito, a cominciare dal candidato alla presidenza, ma i suoi amici di partito non raccolgono l’appello. Non tanto per il rinnovamento in sé quanto per gli uomini che lo reclamano. Superato questo problema resta solo la prova dell’aula. De Mita e Forlani sentono odore di bruciato, è soprattutto De Mita a intuire che qualcuno sta armando una piccola ma efficace forza speciale di franchi tiratori. All’operazione lavora probabilmente Cirino Pomicino e quei pochi che credono nel rientro di Andreotti.

Tra i congiurati non figura Vittorio Sbardella, lo Squalo, come è sobriamente definito il capo andreottiano di Roma e dintorni, odia talmente Pomicino da fare qualunque cosa pur di far fallire i piani del rivale. Il cui piano è però talmente striminzito da sfuggire ai controlli. “Mi dissero che si trattava di bloccare Forlani perché poi sarebbe entrato Andreotti e con lui noi parlavamo meglio” mi racconta anni dopo un ex sottosegretario socialista di Ariano Irpino che un tempo si chiamava Ariano di Puglia ed è distante da Nusco. I franchi tiratori che sfuggono a De Mita e atterrano Forlani sono 39 al quinto scrutinio e 29 al sesto. Voti di andreottiani che sperano, socialisti che odiano Bettino Craxi, qualche socialdemocratico e un paio di liberali del genere hai visto mai.

Ecco fatto, Forlani getta la spugna, sconfitto dai franchi tiratori, dopo aver respinto con sdegno una possibile trattativa con Bossi proposta da Pierferdinando Casini. Chi si sente sconfitto più di lui è De Mita che vede con chiarezza pararsi davanti la fine della democrazia nel senso della Prima Repubblica, come la definisci tu, caro direttore. Stavolta, davvero, non è colpa sua ma dei sogni irrealizzabili di certi avventurieri. Enzo Carra

·        E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.

(ANSA il 24 maggio 2022) - E' morto improvvisamente questa mattina a Roma l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo. A darne notizia all'ANSA, la moglie Christine. Sessant'anni appena compiuti, originario di Pozzuoli (NA), Cannavacciuolo era cresciuto alla scuola di Eduardo De Filippo. Elegantissimo ed eclettico mattatore ha calcato tutti i teatri d'Italia, dal San Carlo di Napoli al Teatro Verdi di Trieste, dal Sistina di Roma, all'Augusteo di Napoli e il Manzoni di Milano, interpretando i ruoli più disparati, sia di prosa che di canto fino ai recital e one man show.

Tra i suoi ultimi impegni, l'omaggio in palcoscenico a "Yves Montand. Un italien à Paris" e la tournée di quest'inverno di "Milva. Donna di teatro", in cui aveva cucito insieme note di alcuni dei più grandi successi della cantante e momenti delle sue interpretazioni teatrali, da Brecht a Patroni Griffi. 

Attivo anche nel cinema e nella televisione, Cannavacciuolo era anche nella serie internazionale Clash of Future, per il quale era stato premiato nel ruolo di Silvio Crespi. Da anni viveva a Roma dove lascia la moglie e il figlio di nove anni. Le esequie si terranno sabato 28 maggio alle 14 nella chiesa di San Bellarmino.

Aveva compiuto da poco 60 anni. È morto Gennaro Cannavacciuolo, attore e cantante allievo di Eduardo De Filippo. Redazione su Il Riformista il 24 Maggio 2022. 

Gennaro Cannavacciuolo era stato attore e cantante, eclettico mattatore da palcoscenico, era cresciuto alla scuola di Eduardo De Filippo. È morto all’improvviso questa mattina a Roma. Aveva appena compiuto sessant’anni. A dare la notizia la moglie Christine.

Cannavacciuolo era originario di Pozzuoli. Era stato attore eclettico ed elegante. Aveva calcato i palchi di tutti i teatri d’Italia. Dal San Carlo di Napoli al Teatro Verdi di Trieste, dal Sistina di Roma all’Augusteo di Napoli fino al Manzoni di Milano.

Si era esibito in canto come nei recital come in one man show. Tra i suoi ultimi impegni l’omaggio in palcoscenico a Yves Montand – Un italien à Paris e la tournée dello scorso inverno di Milva – Donna di teatro. In quest’ultimo spettacolo aveva messo insieme grandi successi della cantante e sue interpretazioni teatrali.

Era stato attivo anche nella televisione e per la sua interpretazione di Silvio Crespi nella serie internazionale Clash of Future era stato premiato. Viveva a Roma da anni. Lascia la moglie e un figlio di nove anni. I funerali si terranno sabato 28 maggio alle 14:00 nella chiesa di San Bellarmino.

·        E’ morto il taverniere Guido Lembo.  

Lembo e il mondo in una taverna. «Con lui i vip ballavano sui tavoli». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.

Capri, i racconti di Carlo Rossella sull’amico scomparso. Diego Della Valle: ci ritroveremo lì per ricordarlo. 

«La grandezza di Guido Lembo era quella di regalare a ognuno i famosi 15 minuti di celebrità: chi saliva a cantare sul suo palco veniva in un certo modo incoronato». Carlo Rossella, giornalista e scrittore bon vivant, ricorda le notti in taverna — come gli habitué chiamano Anema e Core — insieme all’amico Guido, scomparso giovedì sera dopo una lunga malattia, e i cui funerali saranno celebrati oggi nell’isola di Capri. «Credo che il modo migliore per ricordarlo ora sia quello di parlare delle cose belle. Come quando noi amici gli telefonavamo e gli chiedevamo: «E a Capri come va»? e lui rispondeva: «Che ti dico... Devi venì!»

L’intuizione di aprire un locale diverso dagli altri era nata a New York, come lo stesso Lembo ha raccontato nel libro edito da Rizzoli Anema e Core. «Andai al Baraoonda, erano tutti sui tavoli a ballare. Decisi: “Il mio locale lo faccio così”». L’incontro con una taverna sfitta, il timore iniziale («e chi la riempie?»), il successo immediato. Entrare nel mondo di Guido Lembo significava immedesimarsi in una parte, perché «lui stesso era un attore», racconta Rossella. A fare da collante era la musica napoletana: di questa scenografia facevano parte i tavoli in legno dove venivano serviti gin tonic e champagne e quegli sgabelli sui quali bisognava per forza saltarci su, tra «tedeschi che cantavano Luna Rossa e Scapricciatiello nella lingua di Goethe», ricorda Rossella. L’intuizione era stata quella di rendere la strofa napoletana meno melodrammatica, grazie a qualche licenza. «La pennellata a sfondo sessuale colorava il repertorio, come le allusioni canore: “E se Carlo Rossella stanotte vulesse c...”.

Se la risposta di Guido era: “Nun ce la fa“ mi sentivo uno straccio, ma se cantava ”Ce la fa, ce la fa!”, ero un eletto!» . Lo stesso Guido Lembo si vantava di aver intonato la goliardica canzonetta anche al Principe Alberto di Monaco e probabilmente a una lista infinita di clienti, da Diego Armando Maradona a Katy Perry, da Jennifer Lopez a Luca Cordero di Montezemolo, che scelse la taverna nel 2001 per festeggiare la vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. «Eravamo tutti all’Anema e Core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa», ricorda Montezemolo.

Anche i social si sono popolati di ricordi, foto, aneddoti. «Caro Guido sei riuscito a far ballare sui tavoli intere generazioni» ha twittato il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis. Guido Lembo tirava il sasso, ma non nascondeva la mano. Come quando invitò Tyson a sfilarsi la camicia e mostrare i muscoli sul palco: il pugile rispose che se voleva vederlo a torso nudo doveva andare a un combattimento. E poi Tom Cruise, Aznavour, Renzo Arbore, Beyoncé e Jay-Z, Lucio Dalla e Naomi.

In taverna gli scicchissimi sandali capresi venivano abbandonati in favore di tacchi 12, bisognava conquistare il palco e fare la «mossa» alla Sophia, accompagnati da un rullo di batteria. Ma nessuno avrebbe parlato di catcalling: «Le donne erano le regine e noi uomini succubi — annota Rossella —. Per essere all’altezza indossavamo i mocassini e il pullover sulle spalle». Un luogo in cui l’atmosfera da bar incrociava quella da saloon. «Quando i miei amici americani Leonardo DiCaprio e Lanny Kravitz passavano per Capri, dopo cena, mi chiedevano di andare all’Anema e Core», dice Diego Della Valle, presidente e Ad di Tod’s, amico di lunga data di Lembo. «A volte a fine serata andavamo a pescare: la cosa che lo rendeva più orgoglioso era vedere il figlio Gianluigi cantare al suo posto e avere un enorme successo, con la taverna sempre più piena. La nostra era un’amicizia cementata dall’ironia: noi amici ci siamo ripromessi di ritrovarci in taverna e ricordarlo cantando “e se stasera Guido vulesse...”». 

Claudia Catuogno per corrieredelmezzogiorno.corriere.it il 20 Maggio 2022.

Capri piange Guido Lembo. Lo chansonnier caprese, patron dell’Anema e Core, la taverna dei vip di Capri, si è spento qualche ora fa dopo una lunga malattia. La notizia ha fatto immediatamente il giro della sua amata piazzetta, dove ogni mattina d’estate era solito bere il caffè e leggere i giornali, seduto al solito tavolino. Qui Guido non mancava mai di scambiare quattro chiacchiere con ammiratori e turisti, ai quali dedicava pezzi di canzoni napoletana e dava appuntamento per la serata. Nella sua taverna aveva duettato con tutti i più grandi: politici, imprenditori, rockstar, calciatori e star. Recente, dopo il primo anno della pandemia, il siparietto sul palco con il governatore della Campania Vincenzo De Luca. 

Da Jennifer Lopez a Di Caprio: tutti pazzi per Guido e la sua chitarra

Dagli habitué Diego Della Valle, Luca Cordero di Montezemolo, a Tronchetti Provera e Carlo Rossella, da Fiona Swarovski, Caterina Balivo, Alessandro Preziosi ai calciatori del Napoli Mertens e Insigne su tutti. E poi Jennifer Lopez, Mariah Carey, Katy Perry e Orlando Bloom, Laura Pausini, Lenny Kravitz, Domenico Dolce e Stefano Gabbana, Giorgio Armani , Lucio Dalla, Flavio Briatore, Chiara Ferragni e Fedez, Francesco Totti con Ilary Blasi. E ancora LeBron James, Leonardo di Caprio, Matthew Mcconaughey, Renzo Arbore, Valeria Marini, Gigi D’Alessio, Jon Bon Jovi, Belen Rodriguez e tanti altri. Lucio Dalla e Giorgio Armani tra i primi ad esibirsi con lui in taverna.

La svolta al by night

Guido, istituzione caprese per eccellenza, ha dato una svolta al by night caprese, inventando un genere nuovo, rivisitando le canzoni storiche del panorama musicale partenopeo in chiave moderna e facendole conoscere così al grande pubblico. La sua carriera, però, parte da lontano e racconta storie di musica e parole: era solo un ragazzino quando insieme al fratello Bruno iniziò a esibirsi nelle ville dei signori dell’epoca, alla “corte” della principessa Sirignano, dalla duchessa Serra di Cassano e in quel di Cesina a casa del Principe Parente. Lascia Capri per trascorrere un periodo a Londra ma rientra poco dopo e decide che la musica sarà la sua strada. 

Dagli inizi al successo

Dal Guarracino, il locale di famiglia di via Castello alla centralissima taverna Anema e Core, nel cuore della “Rodeo Drive” isolana, il passo è breve ma il successo è enorme e dura da quasi trent’anni, tanto quanto l’amore che il musicista caprese nutriva per la sua isola e per la sua amata moglie Anna, compagna di vita e di lavoro. Una vita lunga e costellata di successi che Guido ha voluto raccontare nella sua autobiografia “Tutto cominciò così”, scritta a quattro mani dallo chansonnier caprese con la blogger Serena Papini. Per non dimenticare nulla di quegli anni speciali in cui l’Anema e Core è diventata il simbolo della vita notturna isolana e Guido incoronato re della movida, un testimone passato al figlio Gianluigi che oggi guida il locale e porta in giro il nome di Capri nel mondo tra concerti e tournée.

A 75 anni si è spento Guido Lembo, lo chansonnier di Capri. Francesca Galici il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Guido Lembo era da tempo malato. La sua taverna Anima e core, nella celebre Piazzetta, ha cambiato per sempre il volto notturno dell'isola di Capri.

Si è spento a 75 anni lo chansonnier Guido Lembo, icona e cuore della movida di Capri. Nel 1994 decise di fondare un piccolo locale a ridosso dell'iconica Piazzetta di Capri e da quel momento l'Anima e core ha cambiato il volto dell'isola. Da lì sono passati vip, attori, cantanti, imprenditori, da Jennifer Lopez, a Naomi Campbell. Non sono mancati i calciatori e chiunque sia stato a Capri almeno una volta ha cenato nella taverna di Guido Lembo. Aveva una passione straripante per la musica e a fine serata invitava i suoi ospiti a salire sul tavolo e a cantare le melodie classiche napoletane, che lui stesso eseguiva con la chitarra davanti alle celebrità e ai clienti comuni.

In pochi anni l'Anima e core è diventato un simbolo delle notti capresi e dalla primavera in poi è difficile trovare un tavolo per una cena, se non è si è preventivamente prenotato. Nonostante le difficoltà, Guido Lembo decise di scommettere tutto sull'apertura di questo locale nella sua Capri, lui che era caprese doc, figlio di un pescatore, e che aveva imparato dai fratelli a suonare la chitarra, con la quale si accompagnava nell'esecuzione delle melodie classiche napoletane. Nonostante l'amore per la sua isola, dopo il diploma decise di trasferirsi a Londra per imparare l'inglese. Qui, aveva trovato lavoro in una trattoria italiana e alla sera suonava la sua chitarra.

Ha viaggiato in tutta Europa accompagnato dalla sua chitarra e tentò anche un'esperienza in Florida prima di far ritorno a Capri, nel 1972. Qui aprì insieme ai fratelli, che lo avevano spinto a tornare, il suo primo locale. Si chiamava 'O Guarracino, come il titolo di una celebre canzone. Era una tavernetta, dove si eseguiva musica napoletana antica. Un locale che trovò subito l'apprezzamento dai vacanzieri, così come l'Anima e core, aperto nel 1994.

Dopo la mezzanotte, la taverna si animava e i commensali diventavano pubblico e al tempo stesso protagonisti delle performance. I tavoli del locale diventavano un palcoscenico per cantare e ballare in un' atmosfera di grande allegria, che proseguiva quasi fino alle prime luci dell'alba. In una delle ultime apparizioni in pubblico, Guido Lembo era nella Piazzetta di Capri per celebrare la "liberazione" dal Covid dell'isola azzurra, dopo la campagna di vaccinazione. Chitarra in mano, aveva intonato, di fronte al presidente della giunta regionale della Campania, Vincenzo De Luca, una strofa di "Malafemmena".

Si è spento in una clinica di Castellammare di Stabia e negli ultimi tempi la malattia lo aveva purtroppo tenuto lontano dalla sua Capri, che non dimenticherà mai uno dei suoi figli prediletti.

Guido Lembo, chi era lo chansonnier di Capri che conquistò star e divi di Hollywood. Pasquale Raicaldo su La Repubblica il 20 Maggio 2022.  

Con la sua celebre "Taverna Anema e Core" conquistò i divi di Hollywood: "Era un inguaribile sognatore, l'ambasciatore dell'isola nel mondo".

Era nato il 13 novembre del 1947, naturalmente a Capri. Su una barchetta a remi, o quanto meno così amava raccontare. Figlio di pescatore, fratello di musicisti. "Così a un certo punto passai dalle reti alla chitarra, abbandonando il sogno di solcare gli oceani per riempirmi l'anima con le note".

È stata una vita leggendaria quella di Guido Lembo, chansonnier - con la sua celebre taverna "Anema e Core" - di una Capri d'antan che con lui ha saputo resistere alla globalizzazione, difendendo con trasporto la "Dolce Vita" dell'isola. Se n'è andato a 74 anni, dopo una lunga malattia, in una clinica di Castellammaredi Stabia. Per quel piccolo cenacolo del divertimento a due passi dalla piazzetta sono passati - dall'apertura nel 1994 - attori e cantanti, imprenditori e divi di Hollywood. Gli davano tutti del tu e si lasciavano trascinare dal sorriso contagioso di quell'ospite affabile: dagli amici Luigi Abete e Diego Della Valle a Jennifer Lopez, da Naomi Campbell a Francesco Totti. A fine serata Guido li invitava a salire sul palco e cantare, insieme a lui, le melodie classiche napoletane. 

Pur non nascondendo una vena nostalgica per le atmosfere di un tempo ("Ricordo il patron di Chantecler, il principe Pignatelli, il panfilodi Onassis, il conte Agusta: negli anni '60, a Capri, c'erano solo persone ricche") e denunciando i rischi del turismo mordi- e- fuggi, Lembo non aveva mai smesso di credere nelle potenzialità dell'isola, lasciando negli ultimi anni il palcoscenico al figlio Gianluigi. 

A Capri era tornato dopo un vivace pellegrinaggio giovanile in giro per il mondo, da Londra ( dove approdò con il fratello Bruno dopo il diploma da ragioniere, iniziando a lavorare in un ristorante italiano per pagarsi le lezioni di lingua) a Palm Beach, negli Stati Uniti, dove arrivò appena ventenne. "L'America mi è rimasta nel cuore", avrebbe poi confessato, non disdegnando di tornarci quando poteva. Con i figli Gianluigi e Marianna, psicologa, lo piangono l'adorata moglie Anna, che lo aveva sempre sostenuto nelle scelte imprenditoriali e con la quale si sono tenuti per mano sin dall'adolescenza, e l'intera comunità caprese. "Un inguaribile sognatore, ambasciatore di Capri nel mondo", lo ricorda lo scrittore Luciano Garofano. Esprime cordoglio anche Vincenzo De Luca, parlando di un " artista poliedrico e coinvolgente, chansonnier effervescente, che ha donato allegria ai visitatori di tutto il mondo " e sottolineandone " la generosa disponibilità per tante iniziative solidali". 

Tra le ultime apparizioni pubbliche la presentazione, la scorsa estate, del suo libro "Anema e Core", edito da Rizzoli, la stessa casa editrice che gli aveva pubblicato, nel 2014, " Tutto cominciò così", con la prefazione dell'amico Della Valle: ai Giardini della Flora Caprense, a fine agosto, lo applaudirono in tanti e lui non esitò a improvvisare, come sempre, una canzone dietro l'altra, dedicando " Tu sì na cosa grande" alla moglie Anna e chiudendo con le note di "Meraviglioso". E sembrò guardarsi intorno, pensando al mare, al sole, alla vita e all'amore. E a Capri, naturalmente.

Capri, è morto Guido Lembo: addio allo chansonnier dell'Anema e core. Più famosa del Mediterraneo, nella sua autobiografia “Tutto cominciò così“, ripercorreva  le tappe della sua carriera, lunga 50 anni, icona di un’ammuina canterina fatta di tormentoni, tammurriate e tarantelle, fece perdere l’aplomb ai potenti di mezzo mondo, fece cantare al principe Alberto di Monaco Io vulesse chiavà…di Januaria Piromallo su Il Fatto Quotidiano il 20 Maggio 2022.

Fino all’ultimo, come il maestrale che soffia, dolce e furioso, non si è abbattuto. Fino all’ultimo respiro. Il primo tumore comparve 7 anni fa. Abitava a Marina Grande per una vita ha respirato i veleni che sputavano le ciminiere della centrale elettrica che alimentava la funicolare. Prima di lui l’amara sorte era toccata ad altri isolani, prima che la macchina pompa/veleni, l’Ilva dell’isola azzurra fosse messa sotto sequestro e poi chiusa definitivamente. Paradossale che nella Mecca del turismo vip l’elettricità fosse fornita da un impianto a gasolio datato 1903, gestito dalla società privata Sippic.

Ha combattuto Guido come un leone prima per denunciare il “bollettino di guerra” delle vittime della cattiva gestione Sippic, poi contro la malattia che aggrediva ogni cellula del corpo e dello spirito. Diego Della Valle a Milano lo affidò alle migliori cure. Sembrava guarito, ma era solo una proroga che il destino gli concedeva. La bestiaccia ricomparve dua anni dopo all’occhio. Il calvario ricominciava. Ma ha cantato fino all’ultimo soffio. Il palco lo divideva con il figlio Gianluigi, laureato in legge, voleva fare l’avvocato, invece ha deposto toga e manuali di diritto per raccogliere l’eredità di un padre troppo speciale. Chi se non io, ripeteva a mamma Anna, amorevole vestale di Guido, a lei le dedicava qualche mese fa, nei Giardini della Flora Caprense, tra lacrime e sorrisi: Tu si na’ cosa grande… Nelle vene gli scorreva il mare azzurro e l’ugola più famosa del Mediterraneo, nella sua autobiografia “Tutto cominciò così“, ripercorreva le tappe della sua carriera, lunga 50 anni, icona di un’ammuina canterina fatta di tormentoni, tammurriate e tarantelle, fece perdere l’aplomb ai potenti di mezzo mondo, fece cantare al principe Alberto di Monaco Io vulesse chiavà…

Guido, inesauribile, in taverna fino alle 3 di notte, alle 6 del mattino, già in gozzo a pescare alici e pezzogne. Lui non dimenticava di essere figlio di pescatore, rimane la sua essenza più verace. “Non ha mai perso lo spirito dell’uomo di paese, dai valori solidi. Basta uno sguardo per capirci tra di noi che le tradizioni ce le portiamo dentro…”, ha scritto Della Valle nella prefazione.

Intanto ‘Anema ‘e core’ diventava un appuntamento imperdibile per le star internazionali, Guido invitava sul palco Luciano Pavarotti, Mariah Carey, Beyoncé, Jennifer Lopez e Chiara Ferragni . Lustrini e ‘bling bling’ non lo hanno mai tentato e d’inverno preferiva rimanersene a Capri, regina di rocce, nel suo vestito color giglio e amaranto sono vissuto… come scriveva Pablo Neruda. E le note di quel Meraviglioso di Domenico Modugno con il quale ha diviso il palco, rimarranno per sempre il suo Inno alla Vita. Un mio ricordo: ha cantato alla mia zuppa di nozze. “ Sei sicura? – mi disse -Non mi piace cantare ai matrimoni. Se poi vi lasciate, non te la pigliare con me….”. Ovviamente scherzava ma ci aveva visto giusto. Il mio matrimonio naufragò poco dopo.

Morto Guido Lembo, Montezemolo: «La sera che mi aiutò con Edwige Fenech e la festa con Schumacher». L’ex presidente della Ferrari legato al patron della taverna caprese «Anema e core» da un’amicizia lunga mezzo secolo: «Suonò con Bennato a Paoli per i miei 60 anni». Gimmo Cuomo su Il Corriere della Sera il 20 Maggio 2022.  

Amico è un termine impegnativo. Spesso usato a sproposito. Ma per Luca Cordero di Montezemolo Guido Lembo, morto ieri dopo una lunga malattia, era davvero un «amico». Il manager apprende dal cronista la notizia della scomparsa dell’animatore della movida caprese. E resta un attimo in silenzio. Poi: «Sapevo che purtroppo stava male, ma non per questo si è mai preparati. Sono sinceramente dispiaciuto. Guido è stato una bellissima persona». Un rapporto personale che durava da mezzo secolo. «La nostra conoscenza — ricorda l’ex presidente della Ferrari — risale agli anni Settanta. Ripeto: sono molto addolorato». 

Lei lo ha frequentato dall’inizio dell’avventura dell’Anema e core?

«Certo, potrei dire che sono stato un cofondatore del locale». 

Un duro colpo?

«Molto duro. Guido è stata una persona che sprizzava gioia di vivere da tutti i pori. Riusciva a comunicarla. Ed era sempre disponibile con tutti». 

È stato presente in momenti importanti della sua vita?

«Assolutamente sì. Ricordo che è stato, insieme con Edoardo Bennato e Gino Paoli, alla festa dei miei sessant’anni. Una persona di grandissima disponibilità». 

Ne ricorda, naturalmente, anche gli esordi?

«Sì, lo conoscevo dall’inizio del suo percorso. In questo momento il mio pensiero va anche alla sua famiglia, alla moglie, persona straordinaria, così come il figlio. Con la scomparsa di Guido, Capri perde molto. Ha sempre amato incondizionatamente la sua isola. E, partendo da zero, è riuscito a portare il mondo nel suo locale. Una parabola certamente non scontata». 

Tra i suoi ricordi, sicuramente, ce n’è qualcuno indimenticabile.

«Due momenti in particolare». 

Il primo?

«Come sa, ho avuto un lungo rapporto con Edwige Fenech. Una sera eravamo all’Anema e core e Guido incitò i presenti a dedicarle un applauso. Edwige, molto timida, scappò fuori e io dovetti correre a “recuperarla”». 

L’altro?

«Indimenticabile la sera della vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. Eravamo tutti all’Anema e core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa, fantastica. C’era anche Diego Della Valle, un altro grande e sincero amico di Guido. Certo, ne è passato di tempo. Ma le immagini di quei momenti non saranno mai cancellati dalla memoria. E tutto questo soprattutto grazie alla sua grandissima umanità». 

Lembo era un artista istrionico e coinvolgente. Come le piace ricordarlo?

«Innanzitutto come una bellissima persona. Aveva scelto il suo percorso e lo seguiva con grande entusiasmo. Ha rappresentato un vero esempio. Ha sempre messo tutto se stesso in quello che faceva, riuscendo a trasmettere gioia ed energia agli ospiti del suo locale. Come le ho detto, la notizia della sua scomparsa mi rende triste. Però non mi fa dimenticare quanta spensieratezza è riuscito a dispensare a quelli che lo hanno amato. Sono sicuro che rimarrà nella memoria di tutti quelli che lo hanno conosciuto. Capri gli deve moltissimo: un grande artista. Rischio di ripetermi: una persona straordinaria, bellissima, come la sua famiglia alla quale, in questo momento, va tutto il mio affetto e la mia vicinanza».

Dagospia il 21 maggio 2022. Lettera di Roberto Russo in ricordo di Guido Lembo

Guido è stato un vero provocatore di felicità ed allegria. La sua taverna Anema & Core, l'ombelico del mondo. Guido definiva la taverna: "la sua creatura" Una scommessa partita nel lontano 1994, quando furono in pochi a credere nel nuovo progetto di Guido, aprire una taverna nel centro di Capri e proprio di fronte al Grand Hotel Quisisana. Fu un successo clamoroso e senza precedenti nel panorama della movida caprese. Un visionario che aveva sbaragliato tutti...

Entrare in taverna significava spogliarsi della propria identità ed entrare in un mondo surreale, dove non contava chi eri, ma chi eri diventato cantando con lui e con tutto il "popolo" come amava definire i suoi clienti, lo stesso Guido. "La vera felicità", diceva Guido, "costa poco. Se è cara non è di buona qualità".

La taverna Anema & Core è stato il primo vero laboratorio di felicità. Un aneddoto su tutti: Era il 29 giugno del 2002. Location: Grand Hotel Quisisana, Ristorante La Colombaia. Eravamo a cena per festeggiare l'uscita del libro di Leonardo Mondadori: Conversione. Riuniti intorno ad un tavolo: Il sottoscritto accompagnato da mia moglie Daniela, Leonardo Mondadori, Francesco Durante, Giorgio Napolitano accompagnato da sua moglie Clio Napolitano.

Era il compleanno di Giorgio Napolitano. Guido mi chiama: "Roberto, facciamo una sorpresa a Giorgio Napolitano" "Arriviamo all'improvviso al Quisisana e gli cantiamo la canzone di buon compleanno, ed infine Anema & Core a lui ed alla Signora Clio". 

"Ottima idea" risposi a Guido. "Procedi" E così fu  Guido con la sua allegria sorprese tutti i commensali ed alla fine delle canzoni, Guido disse a Giorgio Napolitano: " Onorevole, voi sarete il prossimo Presidente della Repubblica Italiana" Ovviamente tutti risero di quella battuta, ma quella battuta, dopo pochi anni, divenne una vera e propria profezia, perché Giorgio Napolitano nel 2005, divenne realmente Presidente della Repubblica Italiana.

Claudia Catuogno per corriere.it il 21 maggio 2022.  

Accolto dalla sua gente, questa mattina Guido Lembo è tornato nella sua amata Capri per restare immortale. 

Lo chansonnier isolano, patron di Anema e Core, scomparso giovedì sera, dopo una lunga malattia, ha compiuto il suo ultimo viaggio verso la sua amata Capri a bordo dello yacht Altair, il panfilo dell’amico Diego Della Valle. 

A salutare il suo ingresso in porto le sirene delle navi, dei motoscafi e dei gozzi presenti in porto mentre una piccola folla di parenti e amici attendeva in silenzio sulle banchine del porto turistico di Capri.

L’inchino all’ingresso di Anema e core

Il corteo funebre ha poi sfilato lungo Marina Grande per raggiungere il salotto del mondo. Piccoli gruppi di isolani si sono radunati lungo la strada per porgere l’ultimo straziante saluto allo chansonnier caprese, animatore delle notti di vip e star.

Mentre in piazzetta si è radunata fin dalle 11 una moltitudine commossa di amici e habitué, mescolati ai tanti turisti di un classico sabato d’estate, pronta a rendere omaggio all’arrivo in piazzetta del corteo che non si è fermato e ha proseguito lungo via Vittorio Emanuele per arrivare fino all’ingresso della taverna Anema e Core. Un «inchino», l’ultimo del re delle notti capresi prima di raggiungere l’ex Cattedrale di Santo Stefano dove alle 12 sono stati celebrati i funerali.

Michela Proietti per il “Corriere della Sera” il 21 maggio 2022.

«La grandezza di Guido Lembo era quella di regalare a ognuno i famosi 15 minuti di celebrità: chi saliva a cantare sul suo palco veniva in un certo modo incoronato». Carlo Rossella, giornalista e scrittore bon vivant, ricorda le notti in taverna - come gli habitué chiamano Anema e Core - insieme all'amico Guido, scomparso giovedì sera dopo una lunga malattia, e i cui funerali saranno celebrati oggi nell'isola di Capri. 

«Credo che il modo migliore per ricordarlo ora sia quello di parlare delle cose belle. Come quando noi amici gli telefonavamo e gli chiedevamo: «E a Capri come va»? e lui rispondeva: «Che ti dico... Devi venì!» L'intuizione di aprire un locale diverso dagli altri era nata a New York, come lo stesso Lembo ha raccontato nel libro edito da Rizzoli Anema e Core .

«Andai al Baraoonda, erano tutti sui tavoli a ballare. Decisi: "Il mio locale lo faccio così"». L'incontro con una taverna sfitta, il timore iniziale («e chi la riempie?»), il successo immediato. Entrare nel mondo di Guido Lembo significava immedesimarsi in una parte, perché «lui stesso era un attore», racconta Rossella.

A fare da collante era la musica napoletana: di questa scenografia facevano parte i tavoli in legno dove venivano serviti gin tonic e champagne e quegli sgabelli sui quali bisognava per forza saltarci su, tra «tedeschi che cantavano Luna Rossa e Scapricciatiello nella lingua di Goethe», ricorda Rossella. L'intuizione era stata quella di rendere la strofa napoletana meno melodrammatica, grazie a qualche licenza.

«La pennellata a sfondo sessuale colorava il repertorio, come le allusioni canore: "E se Carlo Rossella stanotte vulesse c...". Se la risposta di Guido era: "Nun ce la fa" mi sentivo uno straccio, ma se cantava "Ce la fa, ce la fa!", ero un eletto!» . 

Lo stesso Guido Lembo si vantava di aver intonato la goliardica canzonetta anche al Principe Alberto di Monaco e probabilmente a una lista infinita di clienti, da Diego Armando Maradona a Katy Perry, da Jennifer Lopez a Luca Cordero di Montezemolo, che scelse la taverna nel 2001 per festeggiare la vittoria del mondiale di Formula 1 del 2001 con la Ferrari. «Eravamo tutti all'Anema e Core: Michael Schumacher, Jean Todt. Fu una serata meravigliosa», ricorda Montezemolo.

Anche i social si sono popolati di ricordi, foto, aneddoti. «Caro Guido sei riuscito a far ballare sui tavoli intere generazioni» ha twittato il produttore cinematografico Aurelio de Laurentiis. Guido Lembo tirava il sasso, ma non nascondeva la mano. Come quando invitò Tyson a sfilarsi la camicia e mostrare i muscoli sul palco: il pugile rispose che se voleva vederlo a torso nudo doveva andare a un combattimento. 

E poi Tom Cruise, Aznavour, Renzo Arbore, Beyoncé e Jay-Z, Lucio Dalla e Naomi. In taverna gli scicchissimi sandali capresi venivano abbandonati in favore di tacchi 12, bisognava conquistare il palco e fare la «mossa» alla Sophia, accompagnati da un rullo di batteria. Ma nessuno avrebbe parlato di catcalling: «Le donne erano le regine e noi uomini succubi - annota Rossella -. Per essere all'altezza indossavamo i mocassini e il pullover sulle spalle».

Un luogo in cui l'atmosfera da bar incrociava quella da saloon. «Quando i miei amici americani Leonardo DiCaprio e Lanny Kravitz passavano per Capri, dopo cena, mi chiedevano di andare all'Anema e Core», dice Diego Della Valle, presidente e Ad di Tod's, amico di lunga data di Lembo. 

«A volte a fine serata andavamo a pescare: la cosa che lo rendeva più orgoglioso era vedere il figlio Gianluigi cantare al suo posto e avere un enorme successo, con la taverna sempre più piena. La nostra era un'amicizia cementata dall'ironia: noi amici ci siamo ripromessi di ritrovarci in taverna e ricordarlo cantando "e se stasera Guido vulesse..."».

·        Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.

Morto Vangelis, firmò la colonna sonora di 'Blade runner'. Andrea Silenzi su La Repubblica il 19 Maggio 2022.

Il grande compositore greco aveva 79 anni. Aveva vinto l'Oscar per le musiche di 'Momenti di gloria'.

Detestava apparire in pubblico: ai tempi degli Aphrodite’s Child, quando il trio greco era all’apice del successo internazionale, si rifiutò di partire in tour per restare a casa ed elaborare le sue mille idee. Vangelis Papathanassiou, conosciuto semplicemente come Vangelis, è morto a Parigi a 79 anni. Premio Oscar per le musiche di Momenti di gloria, aveva composto la colonna sonora di Blade runner, divenendo in pochi anni un autentico innovatore del concetto di musica da film.

Claudio Fabretti per leggo.it il 19 maggio 2022.

Dopo Klaus Schulze, la musica elettronica perde un altro dei suoi maestri storici. È morto infatti Evangelos Odyssey Papathanassiou, alias Vangelis. Il compositore greco, autore di "Blade Runner" e "Momenti di gloria", aveva 79 anni. Ad annunciarlo è stato il primo ministro greco, Kyriakos Mitsotakis. Vangelis era uno dei più celebrati compositori di musica elettronica della sua epoca. 

Il suo caratteristico stile, basato su frasi melodiche brevi e su arrangiamenti sinfonici e magniloquenti, ha segnato il punto di congiunzione tra la musica cosmica degli anni Settanta e la new age di due decenni dopo, influenzando profondamente la scena elettronica mondiale. 

Come il suo omologo francese Jean-Michel Jarre, ha avuto il merito di sapere divulgare la musica elettronica al grande pubblico, smussando certe spigolosità della tradizione tedesca.

È morto Vangelis, firmò la colonna sonora di «Blade Runner». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 19 maggio 2022. 

È stato il pioniere dei sintetizzatori, conosciuto in tutto il mondo per la colonna sonora premio Oscar di Momenti di gloria (1982) e di altre dozzine di film, tra cui Blade Runner (1982) e Il Bounty (1984), oltre alle musiche di documentari e serie tv. Evángelos Odysséas Papathanassíou, conosciuto semplicemente come Vangelis, è morto martedì scorso in un ospedale francese per le conseguenze del Covid. Aveva 79 anni. A dare l’annuncio della scomparsa del compositore è stato il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis: «Vangelis Papathanassiou non è più con noi — ha twittato —. La Grecia perde un artista di caratura internazionale».

Nato il 29 marzo 1943 vicino alla città di Volos, nella Grecia centrale, Vangelis comincia a frequentare la scuola di musica di Atene all’età di 4 anni, benché affermerà di non aver mai imparato a leggere le note. La sua carriera inizia nel 1963: suona musica pop e cover dei Beatles con la sua prima band, i Forminx, prima di incrociare un altro musicista greco, Demis Roussos, con il quale fonda gli Aphrodite’s Child. Quando il gruppo si scioglie nel 1972, Vangelis prosegue come solista. I colori e le trame dei suoi album lo impongono all’attenzione di produttori cinematografici e televisivi. L’uso di un brano dal suo «Heaven and Hell» (1975) come tema per la serie di Carl Sagan «Cosmos», in onda su Pbs, porta il suo nome e la sua musica alla ribalta in America. 

Video: Addio al compositore Vangelis: realizzò le colonne sonore di «Momenti di gloria» e «Blade Runner» (Corriere Tv)

Nel 1980, il compositore accetta di registrare la colonna sonora di Momenti di gloria; due anni dopo, nel marzo 1982, vince l’Oscar per la migliore colonna sonora originale: «L’ispirazione principale è stata la storia stessa — racconterà —. Il resto l’ho fatto istintivamente, senza pensare ad altro, se non esprimere le mie emozioni coi mezzi tecnologici di cui disponevo». Dalla collaborazione con il regista Ridley Scott nascono le musiche di Blade Runner (1982), nelle cui note Vangelis riesce a catturare l’isolamento e la malinconia di Rick Deckard, il personaggio interpretato da Harrison Ford, e di 1492 - La conquista del paradiso (1992). Sue anche le colonne sonore de Il Bounty (1984) di Roger Donaldson; di Luna di fiele di Roman Polanski, e La peste di Luis Puenzo (1992). Negli anni Novanta, Vangelis realizza le musiche di numerosi documentari sottomarini per il regista francese Jacques Cousteau.

Fabrizio Zampa per il Messaggero il 20 maggio 2022.

Avrebbe compiuto 80 anni nel 2023, ma Vangelis, all'anagrafe Evangelos Odysseas Papathanassiou, nato nel 1943 a Agria, una località della Tessaglia, se n'è andato ieri in un ospedale francese, Paese nel quale viveva da qualche tempo, dov' era ricoverato da alcuni giorni per una serie di controlli legati al Covid. 

Vangelis (il pubblico lo chiamava semplicemente con il nome di battesimo) è stato il musicista greco che per primo, nei primi Anni Settanta, quando Internet ancora non esisteva e il computer più avanzato era il Commodore 64, ha affrontato con enorme successo la musica elettronica, che produceva affiancando i suoni digitali a quella grande melodia della quale è sempre stato innamorato.

A dare l'annuncio della sua scomparsa è stato il primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis: «Vangelis non è più tra noi - ha twittato il premier - il mondo ha perduto un artista internazionale». Al di là della leggenda Vangelis aveva alle spalle una vita a dir poco avventurosa. Nei primi Anni Sessanta ha fondato la band Forminx, popolarissima nel suo Paese, durante la rivolta studentesca del 1968 si è trasferito a Parigi e ha messo su il gruppo degli Aphrodite' s Child con Demis Roussos e Loukas Sideras, e da allora non si è mai fermato.

Ha composto due colonne sonore per i film del francese Frédéric Rossif, si è spostato a Londra, ha firmato un contratto con la Rca, nel 1973 ha inciso Earth, il suo primo album solista, poi sono arrivati album diventati subito famosi come Heaven and Hell (1975), Spiral (1977) e China (1979).

Ma era solo l'inizio: negli Anni Ottanta e Novanta ha realizzato insieme a Jon Anderson, il vocalist degli Yes, alcuni dischi con il nome di Jon & Vangelis. Ha collaborato con artisti italiani come arrangiatore, da Riccardo Cocciante a Claudio Baglioni, Milva, Patty Pravo, Krisma.

Gli album italiani dove è preponderante il suo influsso sono E tu... di Baglioni, con le tastiere che richiamano gli Aphrodite' s Child, e Concerto per Margherita di Cocciante. Nel 1982 Vangelis vince l'Oscar per la colonna sonora del film Momenti di gloria di Hugh Hudson, comincia subito a lavorare con Ridley Scott, per il quale compone la colonna sonora di Blade Runner, e qualche anno dopo quella di 1492 - La conquista del paradiso. 

È stato con le colonne sonore che è diventato popolarissimo, grazie alla sua abilità di compositore e straordinario assemblatore di diversi ingredienti che usava, dalle melodie a suoni di ogni genere, dalla voce umana a strumenti classici ed elettronica, con l'efficacia dell'alchimista.

Oltre a 55 album alle spalle (45 incisi in studio e dieci antologie) ha anche un brano, Hymne, composto per i Mondiali di calcio Giappone-Corea del Sud 2002 e poi usato per le pubblicità della Barilla. Ha anche firmato la colonna sonora di eventi importanti, tra cui i Giochi Olimpici del 2000 a Sydney e i Giochi Olimpici del 2004 ad Atene. Ha scritto spartiti per balletti e musica per produzioni teatrali. Le sue ultime incisioni sono Rosetta del 2016, Nocturne: The Piano Album del 2019 e Juno to Jupiter del 2021.

Con Vangelis se ne va quello che si potrebbe definire un musicista completo, capace di affrontare qualsiasi situazione, come poi è sempre successo nella sua lunga carriera. Basta riascoltare qualcuna delle sue composizioni per capire che era un geniale. Indimenticabile. Cercatele online, se avete perduto la cassetta dei vecchi dischi, avrete belle sorprese e ve ne renderete conto.

Vangelis, il pioniere dell'elettronica che reinventò la musica per il cinema. Carlo Antini, Testo e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo il 20 maggio 2022.

Atmosfere così rarefatte e sintetiche da sembrare provenienti da mondi lontanissimi. Suggestioni e visioni di futuri fantascientifici che viaggiavano a braccetto con la consapevolezza di una stratificazione storica figlia dello studio approfondito di arrangiamenti e melodie. Vangelis riusciva a sintetizzare alla perfezione la tradizione greca e mediterranea con le sperimentazioni elettroniche dell’avanguardia a cavallo tra gli anni ’60 e ’70 del secolo scorso. Il compositore si è spento a 79 anni nell’ospedale francese dov’era ricoverato da tempo. La notizia della morte è arrivata dal primo ministro greco Kyriakos Mitsotakis che ha espresso su Facebook il cordoglio dell’intero Paese: «Vangelis Papathanassiou - ha scritto Mitsotakis - non è più tra noi. Il mondo intero ha perso un artista internazionale. Il pioniere del suono elettronico, degli Oscar, di Mythodea e dei grandi successi».

In gioventù Evangelos Odysseas Papathanassiou (questo era il suo nome completo) aveva fatto parte, con Demis Roussos e Loukas Sideras, del gruppo rock progressive Aphrodite’s Child ma generazioni di appassionati di cinema hanno sognato sulle sue musiche per film passati alla storia come «Momenti di Gloria» di Hugh Hudson con cui nel 1982 vinse un Oscar per la miglior colonna sonora originale. Il passaggio più suggestivo è quello sulle note della celebre «Chariots of fire»: il tema che accompagna gli atleti olimpici della squadra britannica mentre corrono sul bagnasciuga preparandosi alle Olimpiadi di Londra del 1924 e che consacreranno eroi immortali Eric Liddell e Harold Abrahams. È la sua opera più luminosa, diventata negli anni un vero e proprio inno allo sport e allo spirito olimpico. Vangelis nasce ad Agria, attualmente compresa nel Comune di Volos, in Tessaglia, il 29 marzo del 1943, e dagli anni ’60 diventa uno dei compositori più apprezzati a livello mondiale. Oltre a quelle per il già citato «Momenti di Gloria», sono sue anche le musiche di «Blade Runner», «Blade Runner 2049», «Antarctica», «Missing - Scomparso», «1492 - La conquista del paradiso» e «Alexander». La sua predilezione per il pathos emotivo legato allo sport lo porta a essere scelto anche per l’inno dei Mondiali di calcio in Giappone e Corea del 2002.

Nel corso della sua lunga carriera, collabora come arrangiatore anche con diversi artisti italiani. Tra loro Riccardo Cocciante, Claudio Baglioni, Milva e Patty Pravo. E la sua musica arriva nello spazio: nel 2001 registra «Mythodea», una composizione scritta originariamente nel 1993 e utilizzata dalla Nasa come tema per la missione 2001 Mars Odyssey. Personaggio schivo, non ha mai cercato le luci della ribalta. Di lui si ricordano pochissime esibizioni dal vivo. Di queste, la più famosa è quella al tempio di Zeus Olimpio di Atene, nel 2001, accompagnato da orchestra e coro. «Noi greci - aggiunge sui social il premier ellenico Mitsotakis - sappiamo che il suo secondo nome era Odisseo. Questo significa che ora ha iniziato il suo grande viaggio nel cielo e da lì ci manderà sempre le sue note». E adesso lo sappiamo anche noi.

L'ultima corsa dell'artista che ha fatto della musica la sua Odissea (da Oscar). Matteo Sacchi il 20 Maggio 2022 su Il Giornale.

Morto a 79 anni Vangelis, compositore delle colonne sonore di "Blade Runner" e "Momenti di gloria".

È stato un vero gigante della psichedelia, capace di mischiare sonorità tradizionali a quelle più moderne e soprattutto di unire musica e immagine in un equilibrio perfetto, dove le sue note diventavano un'aggiunta di colore alla fotografia, una linea di continuità o di frattura capace di potenziare trama e montaggio.

Vangelis Papathanassiou, ma per tutti solo Vangelis, è morto ieri a 79 anni, dopo averne trascorsi più di sessanta nel mondo della musica. Vangelis incontra la musica sin da bambino con un talento precocissimo ma ribelle. La leggenda vuole che abbia iniziato a comporre a quattro anni da autodidatta. Di certo ha rifiutato ogni formazione accademica, tanto da non sviluppare mai una completa dimestichezza con note e spartiti. Talento naturale, orecchio assoluto. Ha iniziato la sua carriera negli anni '60 con diversi gruppi pop come The Forminx (il nome di uno strumento a corde dell'antica Grecia) e gli Aphrodite's Child, di cui faceva parte anche il cantante Demis Roussos. Crearono un mix incredibile di sonorità antiche e moderne in cui spiccava l'organo Hammond di Vangelis, con sonorità quasi da chiesa. Il loro album 666 (1972) che ha per tema centrale l'Apocalisse di Giovanni è stato riconosciuto come un classico del rock psichedelico progressivo. Al suo interno c'erano anche performance canore di Irene Papas. Basterebbe questo a far entrare Vangelis nella storia della musica. Ma negli anni Settanta Vangelis si avvicina alla cultura New Age, come si nota nel suo album da solista Earth e inizia a comporre le colonne sonore per diversi documentari sugli animali, tra cui L'Apocalypse des Animaux, La Fête sauvage e Opéra sauvage; il successo di queste colonne sonore lo spingerà verso i film e verso Hollywood. Intanto Vangelis forma una partnership musicale con Jon Anderson (che era rimasto affascinato da L'Apocalypse des Animaux), il cantante degli Yes: insieme hanno pubblicato ben quattro album firmati Jon&Vangelis (tra cui il semi ufficiale Page of Life del 1991).

Ma intanto arriva anche il trionfo hollywoodiano. Nel 1981 lavora alla meravigliosa colonna sonora per il film premio Oscar Momenti di gloria di High Hudson, per il quale ha vinto la statuetta per la migliore colonna sonora originale poi raccolta nel disco Chariots of Fire. La musica, interamente elettronica, diede inizio ad uno stile nuovo nella composizione delle colonne sonore e venne subito copiata. Il singolo Titles, tratto dall'album, è stato anche in cima alla Billboard Hot 100 degli Stati Uniti ed è stato utilizzato come musica di sottofondo per la cerimonia di premiazione delle Olimpiadi di Londra 2012.

Nel 1982 ha invece realizzato la colonna sonora di Blade Runner, il film di Ridley Scott divenuto una delle pellicole più iconiche dell'intera storia del cinema grazie anche alle musica del compositore greco. Nel corso degli anni ha poi composto le musiche per altri importanti film tra cui 1492 - La conquista del paradiso, El Greco e Blade runner 2049.

Nel 2001 il momento del suo massimo riconoscimento in Grecia e in un certo senso interplanetario. Registra Mythodea, una composizione scritta originariamente nel 1993 e utilizzata dalla Nasa come il tema per la missione 2001 Mars Odyssey. In uno dei pochissimi concerti della sua carriera, Vangelis si esibisce al tempio di Zeus Olimpio di Atene ed esegue l'intero disco accompagnato da orchestra sinfonica e coro. Del resto lo spazio, infinito come la sua musica, è stata una delle sue grandi fascinazioni. Nel 2016, dopo ben 18 anni dall'ultimo lavoro in studio, Vangelis annuncia l'uscita di un nuovo album, Rosetta, ispirato all'omonima missione spaziale dell'Esa del 2014.

·        E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.

Rovigo, schianto in moto: morto a 26 anni Riccardo Passarotto. Era stato campione mondiale di pattinaggio. L’atleta ha perso il controllo della moto, finendo contro una centralina dell’Enel: il suo cuore ha smesso di battere in ospedale. Gli amici: «Ciao Bocia». Andrea Pistore e Natascia Celeghin su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2022.

Era stato campione mondiale di pattinaggio in linea Riccardo Passarotto, il ventiseienne di Rovigo morto mercoledì sera in ospedale dopo un violentissimo schianto con la sua moto. L’incidente si è verificato alle 21.30 in via Nievo, lungo l’arteria che conduce a Buso. La motocicletta era una delle passioni dell’atleta che negli ultimi anni si era dedicato al body building e che lavorava come istruttore di sala pesi in palestra.

Violentissimo l’impatto

Passarotto subito dopo lo schianto era stato preso in cura dai sanitari del Suem 118 che l’avevano rianimato sul posto ed erano riusciti a trasferirlo in codice rosso (massima gravità) in pronto soccorso. Nonostante i tentativi disperati dei medici di salvargli la vita, il cuore del ventiseienne si è fermato poco dopo il suo ricovero. L’esatta dinamica di quanto avvenuto è al vaglio della polizia stradale, intervenuta per i rilievi insieme ai colleghi delle volanti. L’ipotesi più probabile è che il ventiseienne abbia perso il controllo del suo mezzo a due ruote mentre stava tornando verso casa. L’atleta ha attraversato tutta la carreggiata, finendo la sua corsa contro una centralina dell’Enel. L’impatto è stato violentissimo con Passarotto volato sull’asfalto e la centralina distrutta, tanto che la zona è stata colpita da un lungo black out elettrico. Non è escluso che la Procura polesana disponga l’autopsia per far luce su tutta la dinamica.

Il lavoro come istruttore

Il ventiseienne era molto conosciuto in tutta la zona, soprattutto per il passato da agonista nello Skating Club Rovigo dove si allenava e gareggiava nel pattinaggio in linea: nel 2015 era diventato campione mondiale nei 100 metri a Taiwan, conquistando in carriera anche medaglie ai campionati italiani ed europei nella stessa specialità. Sulla pagina Facebook della società è apparso un post in cui viene ricordato con una serie di foto e con la frase «Ciao Bocia». Dopo il pattinaggio si era dedicato al body building, raggiungendo anche in questa specialità risultati di livello e trovando lavoro nella palestra First Fit in zona Interporto dove era apprezzato per la simpatia e la professionalità.

«Cercheremo di onorarlo»

All’indomani della tragedia il pattinodromo delle rose, quartier generale dello Skating club dove Riccardo si è allenato, è in lutto. I vertici del club hanno deciso di sospendere tutti gli allenamenti di martedì 19 maggio e la stessa cosa avverrà il giorno dei funerali quando gli atleti parteciperanno alle esequie vestiti con la divisa ufficiale in onore di «Ricky». «L’ho visto quando ha messo i pattini per la prima volta, - racconta Federico Saccardin presidente dello Skating Club- poi crescere e formarsi come atleta sino diventare campione del mondo. Riccardo è stato di più di un semplice atleta: ho visto il suo percorso, quello di un bambino che cresce e che diventa uomo. È come aver perso un nipote. Un abbraccio alla famiglia, in particolare alla mamma, e a Giulia, la fidanzata. Cercheremo di onorarlo presenziando ai funerali e con qualche iniziativa che testimoni il suo valore». 

·        E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.

Morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale. Cartabia: "Il maestro che mi ha aperto la strada". La Repubblica il 14 maggio 2022.

Aveva 86 anni. Il giudice è stato a lungo docente di diritto all'Università di Milano. Tra i suoi tanti allievi anche l'attuale ministra della Giustizia. Mattarella: "Da lui prezioso impegno per le istituzioni". Draghi: "Difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli". Amato: "Ho perso un fratello".

È morto stamattina Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale. Nato a Milano nel 1936, aveva compiuto 86 anni lo scorso 30 marzo. Onida ha guidato la Consulta da settembre del 2004 alla fine di gennaio del 2005. È stato a lungo docente di diritto Costituzionale all'Università degli Studi di Milano e venne eletto giudice della Consulta dal Parlamento nel 1996. Con lui si è laureata, nel 1987, anche l'attuale ministra della Giustizia, Marta Cartabia. "'Per me, è stato innanzitutto il maestro che mi ha aperto la strada. Un gigante del diritto costituzionale, sempre pronto a misurarsi con le sfide della storia e ad intrecciare lavoro accademico con ardente impegno civico", commenta la Guardasigilli ricordandolo con ''affetto e sentimenti di profonda gratitudine, incontrato da studentessa nelle aule universitarie di Milano e rimasto sempre un punto di riferimento".

A dare la notizia è stato Francesco, uno dei suoi cinque figli, con un post su Facebook: "Ciao papà, grazie di tutto". Già centinaia i messaggi di cordoglio arrivati in poche ore. Il capo dello Stato Sergio Mattarella ha scritto ai familiari di Onida, ricordandone la figura di maestro di diritto pubblico, di autorevole giudice e presidente della Corte Costituzionale, di presidente della Scuola superiore della Magistratura, "costantemente animato da forte spirito civico e da prezioso impegno per le istituzioni della Repubblica". Anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso cordoglio per la scomparsa del professor Valerio Onida: "Presidente della Corte Costituzionale, è stato garante di libertà e difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli. Alla sua attività di giudice e accademico, ha affiancato per anni quella di volontario nelle carceri, segno della sua umanità e delle sue convinzioni. Ai suoi cari, le condoglianze di tutto il governo". E ancora Cartabia: "Per tutta la vita, Valerio ha messo la sua passione contagiosa, la sua disarmante semplicità, la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi, come i detenuti - sottolinea la ministra - Una guida illuminata per generazioni di giuristi, si è adoperato costantemente per la formazione dei più giovani, tanto da battersi per l'istituzione della Scuola superiore della magistratura, di cui è stato primo presidente, e a cui non ha mai smesso di dedicarsi. Al Paese, e a me personalmente, mancherà la sua indomita passione per la giustizia''.

Tra i primi messaggi quello del segretario del Pd Enrico Letta che su Twitter ha scritto: "Grandissima perdita per il nostro Paese con la scomparsa di Valerio Onida. Un punto di riferimento insostituibile, una persona dalle rare qualità umane. Un enorme dispiacere". Onida, nel 2010 si era candidato alle primarie del Pd per correre come sindaco di Milano. Era arrivato terzo dietro Giuliano Pisapia e Stefano Boeri. E proprio Pisapia lo ricorda così sui social: "Ci ha lasciato Valerio Onida, autentico maestro del diritto. Straordinario costituzionalista è stato un importante docente universitario a Milano e un Presidente della Consulta capace di incidere con equilibrio. Un uomo dotato di una grande passione civile. Perdo un vero amico". Lo ricorda anche Ettore Rosato, presidente di Italia Viva: "Con la scomparsa di Valerio Onida se ne va una delle menti giuridiche più attente e apprezzate. Accademico, giudice costituzionale, presidente della Consulta, ha contribuito con i suoi studi al dibattito per un riformismo moderno. Vicini alla famiglia in questo momento di dolore". Nel 2016 Onida aveva sostenuto le ragioni del No al referendum sulla riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi.

Tra i messaggi anche quello dell'attuale presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato: "Ho perso un fratello. Era un uomo buono e un vero maestro". E per il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, Onida "per tutti è un esempio di profonda passione civile. Non lo dimenticheremo". 

Valeria Di Corrado per “Il Messaggero” il 15 maggio 2022.

Era riconosciuto da tutti come un maestro di generazioni di giuristi, a cominciare dall'attuale Guardasigilli Marta Cartabia, che con lui si laureò nel 1987. Ieri è scomparso Valerio Onida, ex presidente della Corte costituzionale, animato da profonda passione civile e a lungo docente di diritto, molto amato dai suoi studenti. 

Si è spento nella sua Milano, con la quale - lui, nato da padre sardo e madre siciliana - aveva costruito un forte legame, ricambiato e fatto di cose concrete. Come il suo impegno volontario da consulente per i detenuti delle carceri milanesi e l'associazione Avvocati per niente.

Forte il cordoglio di cittadini e istituzioni, a partire da quello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: ha inviato un messaggio ai familiari di Onida - che lascia 5 figli e 6 nipoti - ricordandone la figura di maestro di diritto pubblico, di autorevole giudice e presidente della Corte costituzionale, di presidente della Scuola superiore della magistratura, «costantemente animato da forte spirito civico e da prezioso impegno per le istituzioni della Repubblica».

Per il Presidente e il premier Mario Draghi, Onida «è stato garante di libertà e difensore dei diritti, soprattutto dei più deboli. Alla sua attività di giudice e accademico, ha affiancato per anni quella di volontario nelle carceri, segno della sua umanità e delle sue convinzioni». Da Giuliano Amato, attuale presidente della Corte, parole toccanti: «Ho perso un fratello. Era un uomo buono e un vero maestro».

«Milano saluta commossa Valerio Onida - ha detto il sindaco Beppe Sala - Per tutti un esempio di profonda passione civile. Non lo dimenticheremo». «Per me è stato il maestro che mi ha aperto la strada, un gigante del diritto costituzionale, che ha messo la sua passione, la sua disarmante semplicità e la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi», ha commentato la Cartabia.

Onida aveva compiuto 86 anni lo scorso 30 marzo. Alla guida della Consulta dal settembre del 2004 al gennaio del 2005, era stato anche presidente dell'Associazione italiana dei costituzionalisti e dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione, succedendo a Oscar Luigi Scalfaro.

Come docente di diritto costituzionale aveva insegnato alla Statale di Milano, dove era diventato ordinario nel 1983 e poi era tornato - salve le pause per i suoi incarichi - fino al 2009, come emerito. Aveva insegnato anche a Sassari, Pavia, Padova nella sede di Verona, e Bologna.

Nel 1986 fondò a Milano uno studio legale che poi chiuse per incompatibilità con i suoi incarichi, ma nel 2012, libero da vincoli, era tornato alla professione dando vita allo studio associato Oralex, molto orientato alla tutela dei diritti. 

Il Parlamento lo elesse giudice della Consulta nel 1996. Nel 2010 si era candidato alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Milano, arrivando terzo dopo Giuliano Pisapia (poi eletto) e Stefano Boeri.

Nel 2016, il costituzionalista aveva sostenuto le ragioni del No al referendum sulla riforma Renzi-Boschi. Nel 2013 era stato chiamato dall'allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a far parte dei dieci saggi che dovevano progettare riforme per una nuova prospettiva politica e sociale. È stato il figlio Francesco, su Facebook, a comunicare la notizia della morte: «Ciao papà, grazie di tutto».

Addio a Onida, ex presidente della Consulta. Fu l'ideologo dell'antiberlusconismo militante. Domenico Di Sanzo il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il costituzionalista innamorato della politica vicino all'Ulivo e poi al Pd. Contro il Cavaliere da sempre. L'ultima uscita: il no alla candidatura al Colle.

Studio e impegno politico. Accademia e attivismo. Valerio Onida, morto ieri a Milano all'età di 86 anni, è stato uno dei più importanti costituzionalisti italiani. Professore ordinario all'Università di Milano, giudice costituzionale dal 1996 al 2005, presidente della Consulta per quattro mesi tra il 2004 e il 2005. Onida, studioso di grande prestigio, non si è mai risparmiato negli interventi sull'attualità politica. Così il suo nome è diventato anche sinonimo di ideologo dell'anti berlusconismo muscolare degli anni '90 e dei primi anni Duemila, vicino all'Ulivo di Romano Prodi e poi al Partito democratico, quel Pd da cui si allontana durante l'epopea di Matteo Renzi, quando il costituzionalista si schiera con decisione per il no al referendum renziano del 2016. Onida ha osservato da vicino la politica fino alla fine. Dopo aver detto sì al taglio dei parlamentari voluto dal M5s nel 2020, l'ultima presa di posizione pubblica, come sempre senza peli sulla lingua e cerchiobottismi, risale a gennaio scorso. Si fa un gran parlare della possibilità che Silvio Berlusconi possa candidarsi al Quirinale. Ipotesi stroncata nettamente dal professore. L'ex presidente della Corte costituzionale, nemmeno in quel caso, si tira indietro. Porta anche la sua firma, insieme a quella di altri due ex presidenti della Consulta come Gustavo Zagrebelsky e Gaetano Silvestri, l'appello in cui si definisce la corsa di Berlusconi per il Colle più alto come «un'offesa alla dignità della Repubblica e di milioni di cittadini italiani». Nessun cedimento alla linea dura dell'antiberlusconismo girotondino da Seconda Repubblica.

D'altronde Onida non ha mai nascosto le sue opinioni politiche. Anzi. Negli anni '90, prima di approdare alla Corte costituzionale, è il referente a Milano dell'Ulivo di Romano Prodi. Nel 2010 un'altra esperienza in prima linea. Onida decide di scendere in campo direttamente e si candida alle primarie del centrosinistra milanese per la scelta del candidato sindaco. L'ex presidente della Consulta si piazza terzo dietro il vincitore Giuliano Pisapia e l'archistar Stefano Boeri. Il nome di Onida torna alla ribalta nel 2013, quando l'allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano lo inserisce nel gruppo dei dieci «saggi» incaricati di stilare un programma per la formazione di un nuovo governo con un Parlamento in stallo. Risale a quei giorni un altro affondo contro Berlusconi. Lo studioso, vittima di uno scherzo telefonico del programma La Zanzara di Radio 24, dice a una finta Margherita Hack che il Cavaliere avrebbe fatto meglio «a godersi la vecchiaia e a lasciare in pace gli italiani» e che il ruolo dei «saggi» era inutile. Sempre nel 2013, in un'intervista all'Unità, inorridisce di fronte all'ipotesi della grazia per l'ex premier, appena condannato in via definitiva: «La grazia sul piano giuridico non è impossibile ma impensabile».

Nel 2016, oltre a schierarsi per il No al referendum promosso da Renzi, impugna addirittura il quesito di fronte al Tar del Lazio invocandone lo spacchettamento. Il Tar respinge il ricorso, ma alla fine il No prevale. Non manca qualche deviazione eterodossa, come quando due anni fa, in un'intervista al Riformista, Onida attacca l'Associazione nazionale magistrati «trasformata in un gruppo di potere». Ma su Berlusconi il costituzionalista è stato sempre coerente, fino alla candidatura al Quirinale, definita «un'offesa alla dignità della Repubblica».

«Onida, il maestro che mi ha aperto la strada». Il ricordo di Marta Cartabia. Il Dubbio il 15 maggio 2022.

L'addio all'ex presidente della Consulta morto ieri a 86 anni. «Un fuoriclasse in una generazione di costituzionalisti di straordinaria statura. Un fuoriclasse che portava la sua grandezza con una semplicità disarmante»

«Per me, è stato innanzitutto il maestro che mi ha aperto la strada. Un gigante del diritto costituzionale, sempre pronto a misurarsi con le sfide della storia e ad intrecciare lavoro accademico con ardente impegno civico». La ministra della Giustizia Marta Cartabia ricorda con «affetto e sentimenti di profonda gratitudine» il professore Valerio Onida, scomparso ieri a 86 anni, «incontrato da studentessa nelle aule universitarie di Milano e rimasto sempre un punto di riferimento».

Professore universitario per 26 anni, avvocato, giudice e presidente della Corte costituzionale, Onida era «un fuoriclasse in una generazione di costituzionalisti di straordinaria statura – ricorda la guardasigilli -. Un fuoriclasse che portava la sua grandezza con una semplicità disarmante». «Per tutta la vita, Valerio ha messo la sua passione contagiosa, la sua disarmante semplicità, la sua limpida intelligenza al servizio delle istituzioni e dei diritti degli ultimi, come i detenuti – sottolinea la ministra – Una guida illuminata per generazioni di giuristi, si è adoperato costantemente per la formazione dei più giovani, tanto da battersi per l’istituzione della Scuola superiore della magistratura, di cui è stato primo presidente, e a cui non ha mai smesso di dedicarsi».

Il ricordo commosso della ministra corre a quelle aule universitarie milanesi di metà anni ’80, quando Onida, «maestro non convenzionale», insegnava un corso sperimentale di «giustizia costituzionale». «Mi ha conquistato di schianto per l’originalità del suo insegnamento e per la sua inusuale disponibilità – racconta Cartabia -. Ci radunava intorno a un tavolo, in una saletta dell’Università Statale di Milano, in via Festa del Perdono. Leggevamo e discutevamo per ore le sentenze della Corte costituzionale, sfocando sempre la finestra di tempo che ci era concessa dall’orario ufficiale. Discutevamo – se si può dir così – da pari a pari. Prendeva sul serio ogni nostra osservazione. La valorizzava, la confutava, la correggeva, la corroborava. Eravamo una dozzina di studenti, in anni in cui le aule di giurisprudenza erano gremite di centinaia di studenti e i professori erano lontani, distanti in tutti sensi. Non lui, però. Non Valerio Onida».

Un maestro, e anche di più, «un padre» per la ministra Cartabia. «Mi mancherai, ci mancherai – conclude -. E nulla ci priverà – come diceva Dante al suo maestro Brunetto Latini, de “La cara e buona immagine paterna/di voi quando nel mondo ad ora ad ora/mi insegnavate come l’uom s’etterna”».

La scomparsa dell'ex presidente della Consulta. Chi era Valerio Onida, giurista e uomo fuori del comune. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 18 Maggio 2022. 

1. Valerio Onida ci ha lasciato. Non è una perdita qualsiasi per il diritto costituzionale: infatti, se sul piano della pietas umana tutte le morti sono eguali, su piani differenti alcune pesano più di altre. E la scomparsa di Onida pesa come un macigno, pensando – con ammirazione e riconoscenza – ai risultati della sua ricerca scientifica, alle modalità del suo insegnamento universitario, agli incarichi istituzionali rettamente onorati, al suo modo di esercitare la professione legale.

Sono e saranno in tante e in tanti a ricordarlo. Le istituzioni e la dottrina sapranno farlo nelle forme e nelle sedi più appropriate, e sarà un ricordo corale giustificato come non mai. Ma non è di questo che, qui, intendo scrivere. Di Valerio Onida vorrei dire due o tre cose che non tutti sanno di lui, e che è giusto diventino invece patrimonio collettivo, anche tra i non addetti ai lavori. Un modo breve e laterale ma egualmente autentico di ricordare – insieme, perché inscindibili – il giurista e l’uomo, entrambi fuori del comune.

2. Quattro anni fa, con grande sorpresa di tutti – e con il borbottio di tanti – la Corte costituzionale è uscita da Palazzo della Consulta per intraprendere un viaggio nelle carceri italiane. A spingerla, una convinzione scolpita nei fondamentali del costituzionalismo liberale: come disse il suo Presidente di allora, Giorgio Lattanzi, «la Costituzione per la persona, per qualunque persona, anche per chi è detenuto, è una protezione, uno scudo». Far capire a tutti che la Costituzione è a garanzia di tutti: con questo intento, le giudici e i giudici costituzionali sono così entrati a Rebibbia, San Vittore, nel carcere minorile di Nisida ed in quello femminile di Lecce, negli istituti penitenziari di Terni, Genova-Marassi, Padova, Bologna, Firenze-Sollicciano, Napoli-Secondigliano, Potenza. Di quel «viaggio in Italia» esiste anche una riuscita narrazione cinematografica, per la regia di Fabio Cavalli, di cui raccomando la visione (la si può recuperare su RaiPlay).

Un’iniziativa senza precedenti, è stato detto. È certamente vero, specialmente nel suo tratto istituzionale ed ufficiale. Ma non è del tutto vero. L’ordinamento penitenziario, dal 1975, prevede un elenco di soggetti ammessi a visitare gli istituti di pena «senza autorizzazione» e, tra questi, annovera sia il Presidente che i giudici della Corte costituzionale. Eppure, per decenni, tale disposizione è rimasta lettera morta. Con un’unica scintillante eccezione: Valerio Onida. Lo ricorda opportunamente Marco Ruotolo negli scritti in suo onore (Alle frontiere del diritto costituzionale, Giuffrè, 2011, p. 1781): in occasione dell’istruzione di una quaestio avente ad oggetto il regime penitenziario dell’art. 41-bis, il giudice Onida visitò la sezione del carcere milanese di San Vittore che “ospita” detenuti sottoposti al regime speciale del c.d. “carcere duro”. Con la sua scelta più unica che rara, memore dell’insegnamento di Piero Calamandrei sulle condizioni delle prigioni italiane («Bisogna aver visto»), Onida testimoniava al meglio quella prossimità che è il tratto costitutivo della magistratura di sorveglianza e che – da giudice delle leggi chiamato a garantire la Costituzione dietro le sbarre – sentiva l’esigenza di incarnare.

Dentro gli istituti di pena, negli anni a venire, Onida continuerà a prestare volontariamente attività di consulenza legale per i detenuti del carcere di Milano-Bollate, con una dedizione e un’empatia non comuni, figurarsi tra gli accademici. E da Presidente della neo-nata Scuola Superiore della Magistratura, volle con determinazione promuovere e realizzare corsi di aggiornamento interdisciplinari mirati al disegno costituzionale delle pene e della loro esecuzione. Non si era limitato a guardare dall’alto, ma ad altezza d’occhio. Aveva visto e non aveva dimenticato.

3. Palazzo della Consulta ha fatto da quinta teatrale alle capacità interpretative dell’avvocato Onida. In nome e per conto delle Regioni, a difesa del disegno autonomistico costituzionale. Spesso a sostegno delle ragioni di comitati promotori, per l’ammissibilità di referendum. Ma anche avvocato di cause perse in partenza che riusciva, invece, a portare a successo: come quella per la pari durata tra leva militare e servizio civile (sent. n. 470/1989) che gli regalò la gratitudine di tutti gli obiettori di coscienza,

Eletto poi nel 1996 dal Parlamento in seduta comune giudice della Corte costituzionale, nel 2004 ne assunse la carica di Presidente: così, per nove intensi anni, è stato la persona giusta al posto giusto. Da giudice relatore, ha firmato molte decisioni di grande spessore costituzionale ma è di una, apparentemente minore, che voglio parlare: la n. 526/2000. Perché riguarda, ancora una volta, la Costituzione dietro le sbarre. E perché, a suo modo, esemplare di come Onida sapeva interpretarla per assicurarne principi e regole.

Come spesso accade quando si tratta di ordinamento penitenziario, la quaestio nasceva da una vicenda degradante: la sanzione disciplinare irrogata a un detenuto a causa del suo rifiuto, opposto all’ordine della direzione del carcere, di effettuare, completamente nudo, le flessioni sulle gambe davanti agli agenti penitenziari per consentire un’accurata perquisizione personale. Il carattere lesivo per la dignità del detenuto di tale operazione faceva emergere, a monte, l’assenza di un giudice che potesse accertarne la legittimità dei presupposti e delle modalità, abbandonati dal silenzio legislativo ad una circolare ministeriale. L’obbligo di documentare il perché, il come e il chi della perquisizione viene, invece, ricavato in sentenza direttamente dalla Costituzione, attraverso una sua interpretazione guidata da una bussola: «quanto più la persona, trovandosi in stato di soggezione, è esposta al possibile pericolo di abusi, tanto più rigorosa deve essere l’attenzione per evitare che questi si verifichino». È un ago che, da giudice relatore, Onida orienta in modo da assicurare fin da subito – in attesa di un legislatore latitante che a lungo resterà tale – una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Che sono in galera perché puniti, non per essere puniti ulteriormente.

Come, infatti, si legge nella sent. n. 349/1993 – che la penna di Onida non dimentica di citare – la detenzione costituisce certo una grave limitazione della libertà della persona, ma non la sua soppressione: chi si trova in prigione ne conserva sempre un residuo, tanto più prezioso in quanto costituisce l’ultimo ambito nel quale può espandersi la sua personalità individuale. Valerio Onida, in questo, ha sempre mostrato una sensibilità affilatissima. Ed ha agito e tentato di rendere giustizia costituzionale di conseguenza.

4. Il giudice Onida faceva parte del collegio che si trovò a dover misurare con il metro della Costituzione la pena fino alla morte, all’indomani della sua introduzione: l’ergastolo nella sua variante ostativa. In assenza dell’istituto del dissent (oggi, se posso dire, necessario più che mai), le decisioni della Consulta sono collegiali. Non so, dunque, come Valerio Onida votò in occasione della sent. n. 135/2003 che respinse i relativi dubbi di costituzionalità perché l’ostatività al beneficio della liberazione condizionale deriverebbe non da un automatismo legislativo illegittimo ma «dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo». Una tesi che la stessa Consulta, oggi, riconosce zeppa di malintesi.

So, però, che cosa Valerio Onida ha fatto dopo, contro quella teologia della maledizione perenne («fine pena mai», «devi marcire in galera», «gettare via la chiave») che è l’opposto del senso costituzionale della pena. Da avvocato, davanti alla Corte EDU, ha autorevolmente patrocinato le ragioni dell’ergastolano ostativo Marcello Viola, contribuendo ad ottenere la sentenza del 2019 con la quale i giudici di Strasburgo hanno condannato l’Italia per una «pena perpetua non riducibile» che vìola la clausola convenzionale, inderogabile, del divieto di trattamenti inumani e degradanti. Un «problema strutturale» del nostro ordinamento penitenziario che la CEDU ci impone di risolvere, riconoscendo la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per tutti gli ergastolani, previo accertamento giurisdizionale, caso per caso, delle condizioni previste dalla legge, note al reo già al momento della condanna.

Da opinionista influente, si è speso alla vigilia delle decisioni con le quali è toccato (e toccherà ancora) alla Corte costituzionale giudicare della legittimità del regime ostativo applicato agli ergastolani (sent. n. 253/2019, ord. n. 97/2021). E lo ha fatto contro un “doppio binario” penitenziario che considerava espressione di un illegittimo diritto penale del nemico: «ma la durata delle pene e il loro termine, in esito a un percorso di risocializzazione, non possono, in base ai principi costituzionali e di umanità, conformarsi» a una logica «di tipo “militare”» perché «reati, pene e percorsi di recupero riguardano persone, non pedine di un esercito». Così scriveva – con tanto di corsivo testuale – nella sua prefazione al volume Contro gli ergastoli (Ediesse/Futura, 2021), che ho curato insieme a Stefano Anastasia e Franco Corleone.

Piantata come un chiodo sul muro, inviterei a rileggerla nell’attesa che la Consulta riassuma nuovamente la quaestio sull’ergastolo ostativo, diciotto mesi dopo averlo già accertato «incompatibile con la Costituzione» ed a quasi tre anni dalla sentenza della Corte europea. La giostra della vita, che decide di fermarsi quando e come vuole, ha voluto che quella prefazione sia l’ultimo testo pubblicato da Onida. Ne andiamo fieri e ne sentiamo tutta la responsabilità. Già prossimo al capolinea, volle caparbiamente partecipare – da remoto – alla presentazione del volume a Montecitorio nel dicembre scorso: nella voce e nei lineamenti del volto i segni sofferenti di una malattia impietosa, sconfitta però – in quell’occasione – dalla sua consueta lucidità di pensiero e da un’indomita determinazione nel difendere le ragioni della Costituzione. Valerio Onida ci ha lasciato da pochi giorni. Ma già ci manca. Andrea Pugiotto

·        È morto l’attore Fred Ward.

È morto Fred Ward, indimenticabile partner di Kevin Bacon nel film Tremors. Da fanpage.it il 13 maggio 2022.

È morto l’attore protagonista con Kevin Bacon di uno dei film horror simbolo degli anni ’90.

Hollywood piange la scomparsa di Fred Ward. L'attore aveva 79 anni. Resterà scolpita nella memoria di tanti appassionati di horror e fantascienza il film "Tremors" in cui Fred Ward fu protagonista insieme a Kevin Bacon. La storia era semplice: creature sotterranee gigantesche, molto simili ai vermi, mietono vittime a ripetizione strisciando per il deserto. Fred Ward era Earl Bassett, tuttofare e socio in affari di Val McKee, interpretato proprio da Kevin Bacon.

La carriera

Fred Ward era nato a San Diego, in California, il 30 dicembre 1942 da famiglia di origini irlandesi, scozzesi e cherokee. Fred Ward ha recitato in tantissimi ruoli e con tanti registi di primo piano: Robert Altman e Roberto Rossellini, tra tutti. Era molto atletico, merito del fatto di essere stato un ex pugile e di aver fatto parte per tre anni nell'esercito. Ha lavorato anche come boscaiolo in Alaska. Fred Ward è stato anche nel cast di "Fuga da Alcatraz" (1979), "I guerrieri della palude silenziosa" (1981) e "Il mio nome è Remo Williams" (1985). Nel 1990 arriva "Tremors" e il ruolo di Earl Bassett ripreso anche nel sequel del 1996, Tremors 2: Aftershock. Fred Ward ha partecipato anche in alcune serie tv, tra tutte "Grey's Anatomy".

Marco Giusti per Dagospia il 14 maggio 2022.

Quando lo vedemmo come Henry Miller a Venezia accanto a Uma Thurman e a Maria De Medeiros nel sofisticato “Henry and June” di Philip Kaufman, fummo tutti pazzo di Fred Ward, grande attore americano, scomparso a 80 anni, che portava sul volto le tracce delle tante vite che aveva vissuto. Naso rotto più volte da pugile perché era stato pugile. E ne aveva prese e date parecchio. Fisico da marinaio perché era stato davvero imbarcato in un cargo mercantile svedese, dove lo avevano preso senza documenti.

Ma anche cuoco in chissà quale bettola, operai in una segheria, il lavoro peggiore e più pericoloso che aveva fatto era come abbattitore di alberi giganteschi su al Nord. Ma aveva anche viaggiato in lungo e in largo in America e in Europa. Aveva vissuto con gli indiani in Alaska, aveva vissuto in Yugoslavia, a Tangeri, a Parigi, prima di arrivare a neanche trent’anni a Roma e capire che avrebbe fatto l’attore. Sia come doppiatore, in inglese, di tanti spaghetti western (accidenti, che intervista avrei fatto con lui…), sia come attore, pronto a esordire con un maestro come Roberto Rossellini in ben due film, “L’età di Cosimo”, dove era il Niccolò de’ Conti, e “Cartesius”. 

Con l’Europa nel cuore e gli spaghetti western come passionaccia, torna in America e lo troviamo in piccoli ruoli in film anche divertenti degli anni’70, come “Pazzo, pazzo west” di Howard Zieff con Jim Bridges. Sarà lo sguardo attento di Don Siegel a farcelo scoprire nel suo primo ruolo significativo americano accanto a Clint Eastwood in “Fuga da Alcatraz” nel 1979. Lo troveremo poi in “Carny” di Robert Kaylor con Jodie Foster, Gary Busey e Robbie Robertson, il leader di The Band, anche soggettista. 

Ma con quella faccia da uomo vissuto e quel corpo da pugile darà il suo meglio nel cinema violento di Walter Hill, “I guerrieri della palude silenziosa” con Keith Carradine e Powers Boothe, o di Ted Kotcheff, “Fratelli nella notte” con Gene Hackman. Molto dovrà a Philip Kaufman che lo vorrà accanto a Sam Shepard, Scott Glenn e Ed Harris, la crema di Hollywood e di un certo cinema, come Gus Grissom nel fenomenale “Uomini veri” nel 1983, e lo richiamerà, tagliandoli i capelli, come protagonista di “Henry and June” nel 1990. Non sarà facile farne un protagonista del cinema hollywoodiano, troppo vero, troppo strano.

Purtroppo non è un successo “Il mio nome è remo Williams” di Guy Hamilton, che avrebbe potuto dargli un bel lancio nel ruolo di The Destroyer, l’eroe dei romanzi di Warren Murphy e Richard Sapir. Già meglio sarà “Tremors”, dove divide la scena con il giovane Kevin Bacon. Anche se il suo film di culto, purtroppo molto piccolo, sarà “Miami Blues” di George Armitage, dove ha un ruolo di duro appena uscito dal carcere che cerca di reinserirsi nella società. Dopo “Henry and June”, film considerato da Hollywood troppo spinto e troppo artistico, tornerà in America a girare buoni film, anche ottimi film, come “Cuore di tuono” di Michael Apted, “I protagonisti” e “Short Cuts” di Robert Altman, “Bob Roberts” di Tim Robbins, ma in ruoli di secondo piano.

Negli ultimi vent’anni farà qualche raro film, un po’ di televisione, chiuderà i giochi con una ospitata eccellente nella seconda stagione di “True Detectives”, ma non troverà, ahimé, un Tarantino che ne potesse esaltare le doti migliori. Ma ricercatevi “Uomini veri”, “Henry and June” e, soprattutto, il rarissimo “Miami Blues” e rendetevi conto di che tipo di attore era Fred Ward e di come Hollywood non lo abbia saputo valorizzare.

·        E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.

Morto Paul Ginsborg, lo storico inglese che partecipò ai Girotondi. Marcello Flores su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

Nato a Londra, era divenuto italiano a tutti gli effetti. Critico di Berlusconi e della sua politica, aveva studiato il nostro Paese con una particolare attenzione alla società civile.

È difficile ricordare uno storico importante e originale come Paul Ginsborg, scomparso all’età di 76 anni, che è anche stato un carissimo amico per cinquant’anni. Quando abitavamo a Roma nei primi anni Settanta raccontava compiaciuto l’inizio della sua avventura in Italia. Aveva ottenuto una borsa di studio pagata dalla Unilever e prima di partire il presidente della multinazionale aveva chiesto a tutti cosa andassero a fare con i soldi offerti dall’azienda: alla sua risposta «vado a studiare Daniele Manin e la rivoluzione di Venezia del 1848» aveva commentato: «Siamo così pazzi da sovvenzionare queste ricerche?».

Il suo studio su Manin (pubblicato nel 1979 e tradotto prima in italiano nel 1978) rivelò alla storiografia un giovane grande talento che si andava ad aggiungere agli storici inglesi che si erano occupati dell’Italia. Scrivendo con «raffinatezza ed eleganza», come ebbe a dire il «Times Literary Supplement», Ginsborg aveva raccontato, con ricchezza di documentazione archivistica ma anche con empatia per i patrioti italiani, l’ultima vicenda rivoluzionaria nella penisola che si era dovuta arrendere alla vittoria della reazione.

La sua grande opera di storico, tuttavia, è stata senza dubbio la Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi,che avrebbe dovuto terminare negli anni Settanta e venne invece pubblicata nel 1989, riuscendo così a includere nel racconto gli interi anni Ottanta. Il libro divenne subito un classico, quello su cui si è formata la maggior parte degli studenti dagli anni Novanta in poi.

La grande capacità di Ginsborg fu quella di intrecciare i la storia sociale, poco frequentata in Italia, con quella politica; e di rendere effettivamente il popolo protagonista. Il racconto del decennio successivo alla Liberazione, con le battaglie del lavoro nelle campagne e nelle fabbriche, degli anni Sessanta con i giovani operai meridionali trapiantati al Nord e il protagonismo degli studenti, con i movimenti per la democrazia negli anni Settanta, tra cui enfatizzava con forza quello delle donne, faceva da controcanto alle vicende dei partiti, alla debolezza e al fallimento dello Stato nel compiere riforme radicali e risolutive.

Influenzato dal pensiero di Gramsci, utilizzato senza il riduzionismo ideologico dei comunisti italiani — verso cui mostrò sempre rispetto per le loro battaglie, ma anche un forte atteggiamento critico — vedeva nell’incapacità delle classi dirigenti di conquistare un duraturo e convinto appoggio di massa il motivo prevalente della debolezza dell’Italia e del suo sviluppo, sociale e politico, anche all’indomani di avere raggiunto, nel 1987, il posto di quinta potenza industriale del mondo.

Una decina di anni dopo Ginsborg scrisse L’Italia del tempo presente, dove i protagonisti degli anni Ottanta e Novanta erano insieme la famiglia, la società civile e lo Stato, identificando proprio nella famiglia — vista come istituto di intermediazione tra l’individuo e lo stato — una caratteristica originale della realtà italiana, troppo a lungo ignorata dagli storici anche se presente negli studi di sociologi e antropologi. La crisi della Repubblica dei partiti, gli anni della fine del terrorismo e dell’emergere del craxismo, della slavina antipolitica che seguì all’inchiesta di Mani pulite e alla vittoria elettorale di Berlusconi, sono filtrati cercando di cogliere le continuità e le trasformazioni della società italiana, con una rara capacità di analisi e una scrittura sempre brillante, chiara e avvincente.

Sulla famiglia Ginsborg decise di continuare a studiare, ampliando lo sguardo all’Europa e oltre e facendone il perno per una rilettura estremamente originale e affascinante della prima metà del secolo. Il risultato fu un altro grande libro che rimarrà nella storiografia: Famiglia Novecento, in cui la storia della famiglia e le idee su di essa della prima metà del secolo vengono analizzate nella Russia zarista e sovietica e nella Germania di Weimar e del nazismo, nell’Impero ottomano e nella Turchia kemalista e nel fascismo e nella Repubblica italiana.

Mentre si manifestava come uno degli storici più attenti, preparati e innovativi, Ginsborg, che aveva abbandonato l’insegnamento a Cambridge per venire in Italia (dove dal 1992 fino alla pensione insegnò all’Università di Firenze), partecipò attivamente alla vita politica italiana, diventando protagonista di quei movimenti di sinistra alternativa, a cominciare dai Girotondi, che sperava avrebbero potuto rivitalizzare la democrazia.

Mirella Serri per “la Stampa” il 12 maggio 2022.

Signorile, elegante nelle giacche di tweed, spesso sorridente, comunque sempre gentile e raffinato, lo storico Paul Ginsborg, nato a Londra e naturalizzato italiano, si è spento ieri dopo una lunga malattia a 76 anni nella sua amatissima Firenze. 

Grande lavoratore e metodico ricercatore, ha rivoluzionato la storiografia italiana lasciando un segno profondo con i suoi studi dedicati alla Penisola, tra cui il fondamentale Storia dell'Italia dal dopoguerra ad oggi (edito da Einaudi nel 1989). 

Con questa opera in due volumi ha innovato il modo di raccontare le vicende storiche italiane: oltre che alle dinamiche politiche, la sua visione ha avuto la peculiarità dell'attenzione alle mentalità, al costume, ai rapporti familiari, alle trasformazioni della società civile. 

Ginsborg si sentiva italianissimo, anche se continuava a mantenere un'inconfondibile inflessione anglosassone. Il suo interesse per le traversie storiche dello Stivale lo condusse a scavare nel retroterra storico a partire da uno dei maggiori protagonisti del Risorgimento: lo fece con lo studio dedicato a Daniele Manin e alla rivoluzione veneziana del 1848-49. In questa sua prima avventura «italiana» si cimentò con uno dei temi a lui più congeniale, quello del conflitto tra le ragioni dell'individuo, della libertà, e quelle del potere rappresentato dall'impero austro-ungarico contro cui combattè l'eroe lagunare. 

Ginsborg aveva studiato all'università di Cambridge. 

Dopo la laurea era stato chiamato dall'ateneo britannico a tenere corsi presso la facoltà di Scienze Sociali e Politiche. Negli Anni 80 fece il grande cambiamento. Si trasferì in Italia.

Proprio per la sua grande disponibilità e per il rigore fu molto seguito dagli studenti delle facoltà nelle quali tenne cattedra: prima a Torino, poi a Siena e, dal 1992, a Firenze come docente di Storia dell'Europa contemporanea a Lettere. 

In Italia (dove sono nati i suoi tre figli, Ben, Lisa e David), il professore trovò molti dei suoi punti di riferimento intellettuali. Illustri e insostituibili «maestri» furono per lui l'economista Paolo Sylos Labini con le sue analisi dedicate ai ceti medi urbani italiani, Vittorio Foa (che Paul andava a visitare in reverente e amichevole pellegrinaggio nella casa vicino a Formia, dove il leader politico si era trasferito) e Norberto Bobbio (con cui si ritrovava a Torino). 

Queste furono le sue principali figure di riferimento sia dal punto di vista della riflessione etica, sociologica e filosofica che della sua battaglia politica (che s' intrecciò, fin dall'inizio, con le iniziative dell'associazione Libertà e Giustizia, di cui divenne presidente nel 2019). 

Le sue opere sono numerosissime, da Storia d'Italia 1943-1996. Famiglia, società, Stato (Einaudi, 1998) a Famiglia Novecento. Vita familiare, rivoluzione e dittature 1900-1950 (Einaudi, 2013). 

A queste si aggiunge la cura del volume Stato dell'Italia (Il Saggiatore, 1994) e Storia d'Italia. Annali, XXII, Il Risorgimento (con Alberto Mario Banti, Einaudi, 2007). Per Ginsborg ricerca storica e prassi politica andavano a braccetto e s' integravano l'una con l'altra. Al centro della sua produzione lo studioso pose due concetti che gli stavano a cuore. Innanzitutto quello di «ceto medio riflessivo», con il quale indicava quel variegato complesso di intellettuali, esponenti dell'associazionismo e dei sindacati che si mostravano come i più interessati al destino collettivo della società. 

Tutte persone capaci di «bridging», di costruire «ponti verso gli altri». Si trattava, come spiegava lo stesso Ginsborg, «di quel ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, formato anche da insegnanti, studenti, impiegati donne sempre più istruite». Proprio la convinzione che questo «ceto medio» fosse dotato di un forte potenziale civico portò lo storico a divenire una delle voci più ascoltate delle manifestazioni del 2002 contro le leggi ad personam del premier Silvio Berlusconi. 

Le dimostrazioni presero avvio il 24 gennaio a Firenze con la «marcia dei professori», di cui Ginsborg fu uno dei principali animatori assieme al professore Francesco Pardi, detto Pancho. Un corteo di circa 15mila persone sfilò per difendere la «democrazia in pericolo» e poi, a Milano, fu creata una catena umana che costituì il primo girotondo italiano.

Successivamente Ginsborg aderì alle dimostrazioni organizzate dall'antiberlusconiano popolo Viola, nel 2009 e nel 2010. Un altro concetto che Ginsborg usò di frequente per decodificare la realtà italiana fu quello «familismo amorale» o «immorale», come preferiva definirlo. Bollò così i governi italiani, da Berlusconi a Renzi, a suo avviso dominati, secondo la prassi propria della società italiana, da una smisurata attenzione, spesso esclusiva, «all'istituto familiare». 

Il malgoverno e i tanti scandali erano dovuti, secondo il docente, non solo alla mancanza di un ethos comunitario ma pure alla priorità spesso data all'obiettivo di «garantire» e arricchire figli e consanguinei. E in questa disamina aveva come guida proprio il pensiero di Bobbio, il quale spiegava che «l'Italia è stata caratterizzata storicamente da un accentuato individualismo, da una società civile debole...

Per cui per le famiglie si sprecano impegno ed energie ma ne rimane poco per la società e per lo Stato». E Ginsborg a sua volta osservava che: «Il familismo, assai contiguo al clientelismo, cioè l'uso delle risorse dello Stato per interessi privati, guida le relazioni con i potenti... Cosa che non ha niente a che vedere con cittadinanza, diritti e democrazia». Gli obiettivi per cui per tutta la vita lo storico si è battuto.

Morto Paul Ginsborg, lo storico mite e radicale, teorico dei girotondi. DANIELA PREZIOSI su Il Domani l'11 maggio 2022.

Era uno dei padri del movimento che nel 2002 portò in piazza milioni di persone in nome dell’antiberlusconismo. Lo ricordano gli amici Sandra Bonsanti, Flores D’Arcais. «Ma noi con i Cinque stelle non c’entriamo nulla. Eravamo un movimento basato su valori rigorosamente di sinistra. Un fenomeno di azionismo di massa»

«Paul era una persona mite. Era quello da cui andavi quando avevi un momento di crisi, sapendo che si sarebbe messo a ragionare insieme a te. Incantava i giovani, li formava, e poi li seguiva nel loro percorso». La scrittrice Sandra Bonsanti, già direttrice del Tirreno, era tra le amiche più care di Paul Ginsborg, lo storico britannico innamorato dell’Italia morto ieri notte a Firenze dopo una lunga malattia.

Bonsanti abita a due passi da casa sua, lo ha conosciuto, racconta, tramite il marito, Giovanni Ferrara, storico a sua volta. È stato Ginsborg a chiamarla nell’associazione Libertà e giustizia, di cui era fondatore e di cui poi entrambi sono stati presidenti. «Leg», oggi presieduta da Sergio Labate che con Ginsborg ha scritto il libro “Passioni e politica”, in queste ore lo ricorda con le stesse parole, «un mite radicale».

Mite per indole, ma molto molto radicale. Infatti è stato tra i protagonisti della stagione dei girotondi, all’inizio degli anni Duemila. Fu un momento di rottura fra partiti e movimenti civici – il famoso «ceto medio riflessivo» – a tutt’oggi mai davvero ricomposta, considerata dai “partitisti” la madre di tutta l’antipolitica, come scrisse Michele Prospero nel suo «Libro nero della società civile».

Di quei girotondi Paolo Flores d’Arcais, direttore di Micromega,  e il professore Pancho Pardi, filososo urbanista ex Potere operaio, erano la prima fila, con i loro toni urlati e le loro critiche inflessibili verso il ceto politico della sinistra di quegli anni. 

Ginsborg era fra loro, certo meno capopolo e più sorridente, ma come loro per niente accomodante. Colto, autore di una Storia dell’Italia dal dopoguerra ad oggi (Einaudi) e fra i primi studiosi del fenomeno del berlusconismo, aveva insegnato negli anni 80 a Siena e Torino, poi storia dell’Europa contemporanea a Firenze.

Non aveva incrociato per caso il movimento che portò alla oceanica manifestazione del 14 settembre 2002 Roma; e che oggi viene per lo più considerato se non la madre almeno la vecchia zia dei Cinque stelle. Ginsborg quel movimento lo aveva costruito letteralmente passo dopo passo, con le “camminate” dei professori fiorentini. 

«Tutti  ricordano il “grido” di Nanni Moretti a piazza Navona del febbraio 2002», racconta Flores d’Arcais, «ma quella stagione nacque da una serie di episodi  inizialmente indipendenti e paralleli. C’era un gruppo di ragazze che tutti i sabato andavano al ministero della giustizia con cartelli che accusavano i politici e Berlusconi, e inneggiavano a Manipulite. Poi organizzammo la presentazione del numero speciale di Micromega, a dieci anni da Manipulite, a fine febbraio. Crescevano le adesioni, chiedemmo il Palavobis di Milano, conteneva 15mila persone, ne rimasero fuori il doppio. Quando a piazza Navona i leader dell’Ulivo chiesero a Moretti di salire sul palco, lui urlò “con questi dirigenti non vinceremo mai, ci vorrebbe un leader come Pancho Pardi”».

Parlava a Piero Fassino e Francesco Rutelli, le loro facce di quel giorno sono indimenticabili. «Ebbene in quel momento Pardi nessuno lo conosceva», assicura Flores d’Arcais, «ma era stato quello che insieme a Ginsborg aveva organizzato una marcia dei professori a Firenze pochi giorni prima. Doveva essere una cosa simbolica e invece si trovarono con migliaia di persone in piazza. Episodi spontanei, che avevano però alle spalle il discorso di Francesco Saverio Borrelli all’inaugurazione dell’anno giudiziario, e quel suo “Resistere resistere resistere”». 

La stagione dell’insorgenza civica andò dritta a sbattere contro i partiti. E perse. Poi ci fu il movimento viola, nacque Italia dei Valori, Pardi fu eletto senatore. Poi il dipietrismo cedette il passo al grillismo. 

Oggi Pardi ricorda l’amico: «L'antiberlusconismo è stata la molla del nostro comune impegno. Insieme ci siamo ritrovati da studiosi in una situazione un po’ speciale e abbiamo svolto un ruolo diverso da quello per cui eravamo preparati». È un filo di autocritica e piacerà ai detrattori, a chi vede in quella stagione dell’antiberlusconismo la madre del giustizialismo di marca pentastellata.

«Eh no, calma», se la tesi è che quella stagione sia la matrice del grillismo, Bonsanti la respinge: «Fra girotondi e grillini c’è un abisso. Con Paul se ne va un pezzo importante di quella stagione proprio perché è rimasto fedele alla sua cultura politica». La pensa allo stesso modo Flores: «I girotondi erano assolutamente all’opposto, un movimento basato su valori rigorosamente di sinistra. Potremmo dire che era un fenomeno di azionismo di massa».

Se una connessione c'è con i Cinque stelle «è solo nel senso che purtroppo non abbiamo dato ai girotondi una continuità organizzativa. Per questo la rabbia sacrosanta e la protesta è stata utilizzata da Beppe Grillo, che però ha valori che con i girotondi non c’entravano nulla».

Fu, secondo i protagonisti, l’azionismo di massa di una sinistra non comunista, se non proprio anticomunista, come testimoniano gli scontri, rispettosi ma duri, con Rossana Rossanda.

«Né di destra né di sinistra» è una frase che in nessun modo piaceva a Ginsborg. Spenti i girotondi, ha continuato ad animare la sinistra fiorentina, l’associazione Alba, l’assemblea al Mandela Forum, l’associazione Cambiare si può che si ritirò dalla nascente lista di Antonio Ingroia (nascente e morente nel giro di pochi mesi). 

È suo il decalogo dell’Associazione toscana per una Sinistra unita e plurale, anno 2007, che di nuovo fece saltare i nervi ai partiti. «Siamo individui, associazioni, comitati, partiti e movimenti», scriveva, «che non accettano né la deriva moderata del Pd, né la frammentazione, la dispersione e le rivalità che caratterizzano l’attuale sinistra italiana. Abbiamo una grande occasione per ricostruire una politica di cambiamento, continuando a lottare per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione. Il momento storico chiede il coraggio di sperimentare e un’assunzione collettiva di responsabilità».

Parole che per quella sinistra valgono ancora oggi. Anche se non è andata così, e non è andata bene: i partiti della sinistra non sono morti, e per fortuna di tutti, e invece i movimenti civici non si sono più sentiti troppo bene. L’ultimo saluto a Paul Ginsborg sarà sabato 14 maggio a Firenze, alle 15, nella Sala delle Leopoldine, in piazza Tasso. 

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

·        E’ morto il musicista Richard Benson.

Addio Richard Benson, morto il chitarrista idolo dell'underground. Il Tempo il 10 maggio 2022.

Musicista underground, critico musicale senza filtri e volto della tv ha tracciato con il suo stile, professionale e meticoloso e al tempo stesso folle e stravagante, un modo tutto personale di divulgare e far conoscere il rock. Il mondo della musica piange la scomparsa, all’età di 67 anni, di Richard Benson, chitarrista romano di origine britannica, che si è fatto largo nel panorama delle televisioni private capitoline degli anni Settanta costruendosi un personaggio unico nel suo genere e dalle mille sfaccettature.

Il suo approccio nel raccontare i grandi del rock stregò anche un appassionato di musica rock come Carlo Verdone, che trent’anni fa, nel 1992, lo scritturò per il suo film "Maledetto il giorno che ti ho incontrato". L’interpretazione di se stesso come conduttore adrenalinico nella fittizia trasmissione "Juke-box all’idrogeno" (celebre la disquisizione con lo stesso Verdone su Jimi Hendrix) lo lanciò al grande pubblico, lui che si era costruito una carriera musicale agli inizi degli anni Settanta in qualità di membro del gruppo progressivo "Buon vecchio Charlie", con all’attivo un solo album nel 1971.

Sciolta la band, continuò la carriera da solista per poi iniziare la sua avventura in radio prendendo parte al programma radiofonico "Per noi giovani" ideato da Renzo Arbore nel corso del quale gestiva la rubrica "Novità 33 giri". Sempre con Arbore partecipò nel 1985 al celebre programma-cult della Rai "Quelli della notte" interpretando la figura del metallaro in quella che veniva chiamata la look parade di Roberto D’Agostino. Ma è sull’emittente locale romana "Tva 40" che si era messo in luce per poi brillare attraverso i suoi spettacoli estrosi e le sue performance fuori dagli schemi.

Durante la seconda metà degli anni novanta, si esibì spesso dal vivo in alcuni locali prestigiosi di Roma con show incentrati esclusivamente sulle canzoni, con la presenza di alcuni momenti di recitazione trasgressiva. Verdone, intercettato da LaPresse, ne ha tracciato un ricordo affettuoso. «Mi dispiace molto, il primo che lo ha lanciato al cinema sono stato io. Rimasi molto colpito da questo programmino televisivo sulla musica su certi gruppi rock a noi sconosciuti. Parlava soprattutto dei grandi chitarristi che erano dei virtuosi. Metteva un lp e la telecamera stava 4 minuti su quel disco che girava. Poi lui faceva la recensione e la critica a quel pezzo». Personaggio, come ricorda ancora Verdone, «da una parte molto spiritoso e dall’altra un po' inquietante per come approcciava», ha contributo a "sdoganare" il rock duro. «A quell’epoca non eravamo a conoscenza dei chitarristi molto veloci e virtuosi e lui ha contribuito a farceli conoscere». Il decesso è stato annunciato sulla pagina Facebook del cantante con queste parole: «Ci ha lasciato. L’ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice".

È morto Richard Benson, il «metallaro» di culto in Rete che piaceva anche ad Arbore e Verdone. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.

L’artista nato in Inghilterra, ma di fatto romanissimo, è morto dopo una lunga malattia. 

C’è stato un momento ben preciso, quando è partita l’esplosione della rete, prima però dell’avvento dei social, in cui su Youtube partivano dei videotormentoni che diventano velocemente viralissimi (termine anch’esso oramai superato) di personaggi anche involontariamente assurti a mitologici. 

Se uno di questi era sicuramente Germano Mosconi , onesto giornalista di provincia a Verona, a cui dei dispettosi avevano montato degli improperi mandati fuorionda, un altro è stato sicuramente Richard Benson, urlatore metallaro che si divertiva a litigare con gli ascoltatori con memorabili lavate di capo, condite anch’esse da un linguaggio piuttosto colorito. 

Che, a differenza di Mosconi, ha fatto di tutto per diventarlo, un personaggio, dopo una vita piuttosto articolata, riuscendovi proprio nella stagione di cui sopra.

E se ne è andato ieri, dopo una lunga malattia a 67 anni, nella sua casa nella Capitale: personaggio innanzitutto perché si era sempre divertito a giocare con le sue origini (c’era chi sosteneva che Richard Benson fosse un’invenzione letteraria, ma lui, per quanto romanissimo, aveva mostrato il suo passaporto britannico che recava il suo luogo di nascita, Woking, sobborgo di Londra). 

E personaggio perché fu tra i primi negli anni’70 e 80 a praticare il metal nell’Italia allora dominata dai cantautori, con qualche concessione al rock tradizionale. Non era riuscito a imbroccare la via dello stardom sui palcoscenici, ma si era fatto una solida fama nelle nascenti tv private romane, con trasmissioni dove era la musica teoricamente a farla da padrone, ma in pratica spiccavano il suo fare debordante e il look volutamente estroso.

Lo prese sul serio Arbore, prima in «Per Voi Giovani» sulla radio e poi a «Quelli della notte» e lo prese sul serio Carlo Verdone che lo volle nei panni di sè stesso in una fantomatica trasmissione tv che ricalcava perfettamente le sue , «Juke Box all’Idrogeno» in «Maledetto il giorno che ti ho incontrato». Altre incursioni da Chiambretti e Gene Gnocchi ne aumentarono la fama, ma furono soprattutto le sue serate nell’underground romano (che finivano puntualmente con lanci di ortaggi e di polli sul palco) e gli estratti delle sue liti sui programmi nelle emittenti locali, finiti puntualmente, appunto, su Youtube, a far valicare la sua notorietà oltre il Grande Raccordo Anulare. 

Una fama però che Richard non fu del tutto in grado di capitalizzare: mentre i videotormentoni lasciavano il passo ad altre mode più effimere, nel 2016 fu costretto a fare un appello perché in difficili condizioni economiche e già affetto da problemi di salute. Da allora non ne sentimmo praticamente più parlare, anche se l’eco di quelle memorabili litigate non si sarebbe mai smorzato.

Enrico Sisti per “la Repubblica - ed. Roma” l'11 maggio 2022.

Quando parlava in tv a notte fonda, quarant' anni fa, camera fissa, occhiali da sole sfumati, capelli acquistati chissà dove, si esprimeva come se stesse leggendo su un "gobbo" esoterico. Straparlava. 

Ma a modo suo aveva qualcosa di affascinante. Era oltre, il povero Richard Benson, morto ieri a 67 anni nella sua casa romana dopo una lunga malattia che lo aveva spolpato dentro e fuori (" sono rimasto solo, senza un soldo").

Eroe vagamente pacchiano dei palchi rock della città, nato ( si presume) a Woking, stessa cittadina inglese che ha dato i natali a un grande come Paul Weller, da un genitore italiano e uno inglese, Richard era un puro. Aveva una vita svitata ma rimase fedele a se stesso, fedele alla linea sghemba dei suoi amori in vinile contrabbandati per capolavori assoluti e quasi mai lo erano, sempre pronto ad accettare che il mito lo raccontasse per ciò che era e, parallelamente, per ciò che non era.

Nel corto circuito di autenticità e menzogna, accettò persino che circolasse la voce che in realtà si chiamasse Riccardo Benzoni e che il suo migliore amico fosse un buio interiore in perenne stato di allarme (nel settembre del 2000 cadde da Ponte Sisto e non s' è mai saputo perché). 

Tormentato dalle sue stesse passioni, a cominciare da quella per la chitarra elettrica "sodomizzata", ad un certo punto mescolò l'attività di giornalista e quella di musicista. Entrambe lo portavano nella direzione del rock più estremo, luogo in cui le copertine dei dischi sembrano tutte uguali.

Ammesso che ve ne sia una, forse la verità è che pur non essendo né un grande musicista né un fine divulgatore, Richard Benson ci sapeva fare. Non capì mai, tuttavia, come e quando rendersi credibile. Suonava disperatamente. 

Si presentava in video, nelle tv locali, a cominciare dalla leggendaria Tva 40, come un personaggio della commedia dell'arte, uno da baraccone, che intonava lodi a figure spesso note soltanto a lui, le quali producevano dischi di puro confine, estetico e mentale, di cui il nostro caro angelo dark poteva fare ascoltare soltanto pochi secondi per ovvi motivi di Siae. E fu così che capitò sotto gli occhi di Carlo Verdone. Il quale pensò: " Che tipo, perfetto per un film!". Detto fatto.

Richard Benson divenne il presentatore della trasmissione "Jukebox all'idrogeno" in "Maledetto il giorno che t' ho incontrato" del ' 92. Affiancato dal Verdone " biografo di Rita Pavone" ( così l'avrebbe definito nel film Giancarlo Dettori), Richard non dovette fare altro che interpretare se stesso davanti alla telecamera di un'immaginaria emittente locale milanese, mettere in mostra il suo labbro leporino ed esaltare il culto di Yngwie Malmsteen, virtuoso chitarrista svedese. Niente di più facile. 

Ora, a ripensare il suo modo di esibirsi dal vivo e di raccontare la musica, passando per l'apparizione in "Quelli della notte", vien quasi da sorridere. Erano tempi diversi, festival diversi e televisioni diverse davanti alle quali si mettevano ragazzi diversi. Perso nei suoi misteri, ma anche testimone di questi misteri, Richard Benson appartiene all'epoca in cui per conoscere il volto di un musicista amato bisognava aspettare mesi. E non sempre bastava. Il suo mondo, rigorosamente analogico, era fatto di nomi impronunciabili e di parole in libertà. Un futurista " metal" che amava Joe Satriani. E che è morto felice. 

Dagospia il 10 maggio 2022. IL RICORDO DI CARLO VERDONE. Mi hanno comunicato in questo momento che Richard Benson, chitarrista, conduttore televisivo e radiofonico, e con me attore (Maledetto il Giorno che ti ho Incontrato) ci ha lasciato oggi. 

Rimasi folgorato quando lo vidi parlare di grandi chitarristi e gruppi a me sconosciuti in una emittente televisiva romana, "TVA 40".

Era stravagante, un po' folle ma decisamente un personaggio da tenere presente per un film. E così gli offrii il ruolo di un conduttore adrenalinico in un programma dal titolo "Jukebox all'Idrogeno" in Maledetto il Giorno... 

Fu fantastico. Professionale e meticoloso. La bellezza di quegli anni in televisioni minori era trovare personaggi eccessivi, strani, folli. Veniva fuori una Roma a noi sconosciuta dove si inventavano modi di dire, si creavano incredibili look, si sdoganava il proibito. Era sempre la periferia ad inventare. Perché la borghesia non ha mai inventato nulla. Massimo Marino, Alberto Marozzi, I Falchi della Notte erano il simbolo di una Roma moderna, futurista e trasgressiva.

Metti il distorsore in cielo, Richard! Carlo Verdone

Da huffingtonpost.it il 10 maggio 2022.  

Carissimi amici ed amiche, dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l'ha fatta. Ci ha lasciato. L'ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice". Sul profilo Facebook di Richard Benson arriva l'annuncio.

Musicista attivo nell'underground romano dei primi anni settanta, nella sua carriera ha anche condotto diverse trasmissioni televisive e radiofoniche a sfondo musicale ed è saltuariamente ospite in varietà sulle reti nazionali. Figura storica delle emittenti private romane, ha costruito la sua fama (dapprima limitata al solo ambiente popolare romano e poi allargatasi al web e alla televisione) soprattutto grazie ai suoi spettacoli, nei quali è vittima di insulti e lanci di oggetti sul palco. Molti lo ricordano quando nel 1992 è comparso nel film di Carlo Verdone Maledetto il giorno che t'ho incontrato, facendo un cameo in cui interpreta se stesso nella fittizia trasmissione Juke-box all'idrogeno, disquisendo con lo stesso Verdone su Jimi Hendrix.

Da music.fanpage.it il 10 maggio 2022.

Si è spento nella giornata di martedì 10 maggio, il musicista di origine britannica naturalizzato italiano, Richard Benson. Ne danno l'annuncio sui suoi account social ufficiali: "Ha lottato come un leone, ma purtroppo non ce l'ha fatta". Il chitarrista, volto noto di alcune trasmissioni televisive ed esponente della musica underground romana degli Anni Settanta, aveva compiuto lo scorso marzo 67 anni. 

L'annuncio della scomparsa sui social

Ed è sulla pagina Facebook ufficiale dell'artista che compare il triste annuncio, commentato in poco tempo da migliaia di fan che hanno vissuto e amato la sua musica. Nel post si legge: "Carissimi amici ed amiche, dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l'ha fatta. Ci ha lasciato. L'ultima volta però ci ha detto: "Se muoio, muoio felice".  

Il mistero sulle origini anglossassoni

Inizialmente la sua carriera si restringe al solo ambiente popolare romano, tanto da essere protagonista di alcuni show in onda su emittenti locali, ma poi acquisì una certa fama grazie ai suoi spettacoli, dove puntualmente finiva vittima di insulti e lanci di oggetti direttamente sul palco. Attorno alla sua figura è sempre aleggiato un certo mistero, dal momento che non erano certe le sue origini anglosassoni, l'unica fonte certa sarebbe il suo passaporto in cui compare la data di nascita del 10 marzo 1955, a Woking, una cittadina nei pressi di Londra.

Il documento sarebbe comparso su un sito non ufficiale dedicato all'artista che, secondo alcuni, invece, si chiamerebbe Riccardo Benzoni, ma non c'è nulla che provi questa congettura. Negli anni, però, le origini di Benson sono sempre state oggetto di chiacchiericcio, tanto che in due occasioni prima la moglie e poi il suo agente, hanno mostrato in un'intervista prima il passaporto in questione e poi il certificato di nascita ritirato all'ambasciata inglese a Roma, dove appare con il nome di Richard Philip Henry John Benson.

Il rocker conduttore radiofonico e televisivo. È morto Richard Benson, il “profeta del metal” che aveva recitato per Carlo Verdone. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Maggio 2022. 

Era istrionico, appassionato, eccessivo ed eccentrico Richard Benson. Per anni ha infuocato le emittenti radiofoniche romane, a colpi di rock, di schitarrate e di assoli. E si era così conquistato una notorietà non mainstream ma piuttosto accanita nell’underground musicale. È morto, a 67 anni. “Ha lottato come un leone”, hanno scritto i familiari dando la notizia.

Benson era nato a Woking, in Inghilterra, il 10 marzo 1955 da madre romana e padre inglese. Si era trasferito in Italia in gioventù. Naturalizzato italiano era diventato molto popolare nell’underground romano a partire dai primi anni Settanta. Ha condotto numerose trasmissioni televisive e radiofoniche a sfondo musicale – condite spesso e volentieri da espressioni volgari – diventate anche di culto nel giro e inciso diversi dischi. Sempre rock: dall’hard al progressive all’heavy metal. Era diventato il “Profeta del metal”, uno dei suoi tanti soprannomi.

La prima apparizione televisiva a Quelli della notte negli anni Ottanta fino a quelle su Rai2 e Italia1 in programmi come Stile Libero Max e Chiambretti Night. Le sue esibizioni live erano sempre caratterizzate da trovate ed estetica molto eccentrica, con tutto il look tipico delle rockstar. Il primo disco solista era arrivato soltanto nel 1999, Madre tortura, dopo essersi fratturato una gamba per una caduta dal Ponte Sisto a Roma. “Tentato omicidio”, diceva lui. Dopo il “Natale del Male”, come venne battezzato, nel 2005 al Coetus Pub di Roma, per i suoi live sarebbe diventata necessaria una rete per proteggerlo dal lancio di polli, verdure e altri oggetti degli spettatori che lui incentivava.

Anche attore Benson, per il grandissimo Carlo Verdone nel film Maledetto il giorno che t’ho incontrato in cui l’attore e regista romano interpretava un giornalista musicale alla ricerca della verità scomoda sulla morte di Jimi Hendrix. Il protagonista appariva come ospite della trasmissione “Juke-box all’idrogeno” – da una raccolta di poesie di Allen Ginsberg – condotta proprio da Benson nei panni di sé stesso. Scena che Verdone ricorda con grande affetto in un lungo post che ha pubblicato sui social dopo la notizia della morte di Benson.

“Mi hanno comunicato in questo momento che Richard Benson, chitarrista, conduttore televisivo e radiofonico, e con me attore (Maledetto il Giorno che ti ho Incontrato) ci ha lasciato oggi. Rimasi folgorato quando lo vidi parlare di grandi chitarristi e gruppi a me sconosciuti in una emittente televisiva romana, TVA 40. Era stravagante, un po’ folle ma decisamente un personaggio da tenere presente per un film. E così gli offrii il ruolo di un conduttore adrenalinico in un programma dal titolo “Jukebox all’Idrogeno” in Maledetto il Giorno … Fu fantastico. Professionale e meticoloso. La bellezza di quegli anni in televisioni minori era trovare personaggi eccessivi, strani, folli. Veniva fuori una Roma a noi sconosciuta dove si inventavano modi di dire, si creavano incredibili look, si sdoganava il proibito. Era sempre la periferia ad inventare. Perché la borghesia non ha mai inventato nulla. Massimo Marino, Alberto Marozzi, I Falchi della Notte erano il simbolo di una Roma moderna, futurista e trasgressiva. Metti il distorsore in cielo, Richard!”.

Benson era finito in seri problemi economici qualche anno fa. Aveva lanciato degli appelli anche dalla trasmissione radio La Zanzara, delle richieste di aiuto. Si era ripreso non senza fatica con la moglie Ester. Era da tempo ricoverato in una clinica. Pochi mesi fa aveva registrato un nuovo singolo, dal titolo Processione, al momento ancora inedito. “Carissimi amici ed amiche – il post che ha annunciato la morte sulla sua pagina Facebook – dobbiamo purtroppo darvi la notizia più brutta possibile. Richard ha lottato come un leone anche questa volta contro la morte e purtroppo non ce l’ha fatta. Ci ha lasciato. L’ultima volta però ci ha detto: ‘Se muoio, muoio felice’“.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        E’ morto l’attore Mike Hagerty.

Cinema, si è spento a 67 anni Mike Hagerty: recitò in Friends e Desperate Housewives. Valentina Mericio il 07/05/2022 su Notizie.it.

Prese parte a serie tv come "E.R.", "Friends" e Desperate Housewives. La morte di Mike Hagerty ha sconvolto il mondo del cinema e del piccolo schermo. 

Il mondo del cinema e della tv piange la scomparsa di uno degli attori più prolifici e amati. Mike Hagerty è morto a 67 anni nella giornata di giovedì 5 maggio. Lo ha fatto sapere Bridget Everett con un post su Instagram: “Ci mancherà molto”, sono state le parole dell’attrice.

Hagerty fu noto per aver recitato in serie tv di successo come Friends dove ha interpretato il ruolo indimenticabile del signor Treeger o ancora Desperate Housewives e “Star Trek – The next generation”. Lascia la moglie Mary Kathryn e la sorella Mary Ann.

Cinema, morto Mike Hagerty a 67 anni: da “Friends” a “Somewhere Somewhere”

Uno degli ultimi lavori ai quali ha preso parte è stata la serie tv “Somewhere Somewhere”, progetto rilasciato nel 2022 da HBO e nel quale ha recitato proprio con Bridget Everett: “Ho amato Mike nell’istante in cui l’ho incontrato. Era così speciale. Affettuoso, divertente, mai incontrato uno sconosciuto. Siamo devastati che sia scomparso. Mike era adorato da tutto il cast e dalla troupe di ‘Somebody Somewhere'”, ha detto di lui l’attrice.

Particolarmente iconico invece il ruolo del signor Treeger, la cui presenza è stata amatissima nell’episodio “Lezioni di ballo”. Il suo è stato inoltre anche l’ultimo nome menzionato alla fine della serie nell’episodio conclusivo “Arrivi e partenze” del 2004. Ad ogni modo in qualunque ruolo ha vestito nella sua lunghissima carriera iniziata a metà degli anni ’70, Hagerty ha sempre saputo dare un’impronta tutta sua.

L’omaggio di Sarah Jessica Parker

Tra le personalità che hanno voluto dargli un ultimo saluto si segnala anche Sarah Jessica Parker, attrice nota soprattutto per aver interpretato Carrie Bradshaw in Sex and the City: “No, no, no, no. Che terribile perdita. Mi mancherai nel tuo show. Straziante. L’ho ammirato per anni”.

·        E’ morto l’attore Enzo Robutti.

Marco Giusti per Dagospia il 5 maggio 2022.

Se ne va a 92 anni, Enzo Robutti, “pazzo geniale”, come si autodefiniva lui stesso, “talento un po’ folle” come lo definiva il suo maestro Gassman, grande caratterista del nostro cinema, barba alla Cavour, occhiali, occhi sgranati, voce e modi da nevrotico perso, in ruoli comici in tanti film di Pasquale Festa Campanile, Salvatore Samperi, Marco Vicario, Giuliano Carnimeo, ma anche drammatici, basterebbe ricordare il suo ruolo incredibile di Licio Lucchesi nel “Padrino – Parte 3” di Francis Coppola, che viene strangolato alludendo a un celebre delitto di stato italiano. 

Una follia che si vantava nella sua (chiamiamola) autobiografia di aver coltivato con “13 LSD che mi sono ciucciato in 30 anni, roba di prima, me la vendettero quelli del Living Theather che la usavano come il Parmigiano Reggiano a Sant’Ilario d’Enza”.

Inizia con un provino di Mercuzio per Vittorio Gassman nel 1958. Lo prenderà a teatro per “Irma la Dolce”, per Robutti “la prima vera commedia musicale andata in scena in Italia. 

Altre la eguagliarono, nessuno la supererà: Gassman inferse un ritmo strawinskiano ad un primo tempo memorabile ed ombrature cecoviane al secondo”. Il tutto modulato dall’urlo del maestro, “Strette le chiappe!”. Quattro anni dopo recita un testo di Giorgio Celli, “Darwin alle scimmie”.

Attore di cabaret, vinse il Bullone d’Oro al Derby assegnato dal pubblico nel 1971 e rimane per sempre attaccato a quel tipo di comicità. Al cinema, con quella faccia buffa e spiritata da nevrotico appare già coi Taviani nel 1963 in “I fuorilegge del matrimonio”, nel 1967 in “Sequestro di persona” di Gianfranco Mingozzi. 

Ma è più a suo agio a fianco del suo maestro Gassman in “Il profeta” di Dino Risi e con Giancarlone Cobelli, suo amico, regista del folle “Fermate il mondo… voglio scendere”. Fa di tutto, da “Pianeta Venere” di Elda Tattoli, terribile film femminista, a “Beati i ricchi” di Salvatore Samperi, pronto a ritrovare Gassman in “Senza famiglia nullatententi cercano affetto” che dirige lo stesso attore. 

Nel 1973 lo incontra Pasquale Festa Campanile per “Rugantino” con Celentano protagonista, ma anche Vittorio Sindoni per La signora è stata violentata”. 

Lo richiameranno sempre tutti. Bravissimo, divertente, disponibile a qualsiasi follia, sullo schermo è una risata sicura. Giuliano Carnimeo lo trascina nella commedia sexy con “La signora gioca bene a scopa?” dove incontra la divina Edwige Fenech. Gira cinque-sei film all’anno. Da “Sturmtruppen” di Samper a “Cuore di cane” di Lattuada col suo amico del cuore, Cochi, conosciuto al derby assieme a Renato.

Pasquale Festa Campanile, Sindoni, Vicario lo chiamano per quasi tutti i loro film, fino a farne una maschera tipica della nuova commedia all’italiana. 

Lo troviamo in decine di film di quegli anni, “Il ladrone”, “Il cappotto di Astrakan”, “I carabbinieri”, “ierino contro tutti” e “Pierino colpisce ancora”, “Gian Burrasca”, “Il petomane”. 

 Ogni tanto si permette un film drammatico, “Mamma Ebe” di Carlo Lizzani, “Bosco d’amore” di Alberto Bevilacqua, ma l’effetto non è tanto diverso da quando gira le commedie.

Lo intervistai a casa sua, fuori Roma, in mezzo alla campagna, già un po’ fuori dal giro. Rimase durante tutta l’intervista in canotta, mutande e infradito. Assolutamente favoloso. Mi sembrò l’ultimo di una specie. 

Uno dei problemi della sua vita fu Fellini.Che adorava. Seguitava a promettergli parti che poi non gli dava. Ma è sua l’unica frase che pronuncia lo zio matto di Ciccio Ingrassia, “Voglio una donna!”. Solo un emiliano erotomane pazzo come Robutti avrebbe saputo dirla così. Fellini aveva capito la follia da erotomane di Robutti. Magari ne sapeva qualcosa anche lui. “Strette le chiappe” Robutti”!

·        È morto l’attore Lino Capolicchio.

È morto Lino Capolicchio, attore protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini»: aveva 78 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 4 Maggio 2022.

Protagonista del cinema militante negli anni 70, ha recitato tra gli altri con De Sica, Risi e Pupi Avati. 

È morto a 78 anni l’attore Lino Capolicchio, protagonista del cinema italiano militante negli anni 70, conosciuto soprattutto per aver dato il volto al protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini», film premio Oscar di Vittorio De Sica tratto dal romanzo di Giorgio Bassani che gli valse un David di Donatello. Nato a Merano e cresciuto a Torino, Capolicchio si era trasferito a Roma e aveva frequentato l’Accademia nazionale di arte drammatica «Silvio D’Amico».

Aveva esordito in teatro, nella compagnia di Giorgio Strehler al Piccolo, e poi era stato uno dei protagonisti dello sperimentalismo e del cinema militante italiano negli anni 70. Tra i film più importanti in cui ha recitato, oltre a «Il giardino dei Finzi Contini», ci sono «Metti, una sera cena» di Giuseppe Patroni Griffi, «Il giovane normale» di Dino Risi, «La casa delle finestre che ridono» di Pupi Avati, regista con cui ha lavorato numerose volte, fino a «Il signor Diavolo» nel 2019. Anche sceneggiatore e regista, Capolicchio ha preso parte a decine di pellicole e ha collezionato tanti ruoli anche in tv e a teatro.

È morto Lino Capolicchio, un David di Donatello per 'Il giardino dei Finzi Contini' e protagonista ne 'La casa dalle finestre che ridono'. L'attore, sceneggiatore e regista aveva 78 anni. La Repubblica il 4 Maggio 2022.

È morto a Roma l'attore, sceneggiatore e regista Lino Capolicchio. Aveva 78 anni. 

Nato a Merano e cresciuto a Torino si era trasferito poi a Roma, dove ha frequentato l'Accademia nazionale d'Arte drammatica 'Silvio D'Amico'. È stato uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza del cinema italiano degli anni Settanta. Gli esordi professionali si compiono presso il Piccolo Teatro di Milano nella compagnia di Giorgio Strehler. 

Tra i suoi film più importanti Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Il giovane normale di Dino Risi e il film premio Oscar di Vittorio De Sica Il giardino dei Finzi Contini, con il quale vince il David di Donatello. Con Pupi Avati lavora poi come protagonista in La casa delle finestre che ridono.

È morto Lino Capolicchio, attore protagonista de «Il giardino dei Finzi Contini»: aveva 78 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.

Protagonista del cinema militante negli anni 70, ha recitato tra gli altri con De Sica, Risi e Pupi Avati. 

Con la morte, a 78 anni, di Lino Capolicchio, scomparso a Roma la sera del 2 maggio per una lunga malattia che la famiglia ha voluto tenere riservata, se ne va un attore rimasto sempre negli anni giovane e in cui si riconosce molto del miglior cinema italiano degli anni 70, evitando ogni facile classificazione: non fu un sex symbol, né un proletario, né un borghese, né un radical chic, ma tutte queste cose insieme, erede sia di Salvatori sia di Ferzetti, passando infatti dal Premio Valentino per «Amore e ginnastica» al premio De Sica nel 2012.

Così, pronto per giocare a tennis, disperatamente elegante in epoca fascista, lo si ricorda perfetto nei panni di Giorgio amico della famiglia Finzi Contini nel premiato (anche con Oscar al miglior film straniero) film di De Sica, tratto dalla più nota storia ferrarese di Giorgio Bassani che fu, all’Accademia, uno dei primi insegnanti dell’attore che, nato a Merano il 21 agosto 43 e cresciuto a Torino, presto si trasferì a Roma. Dove studia e si applica per completare il suo istinto dichiarato di attore con una naturale ma frenata voglia di esibirsi: frequenta l’Accademia, viene a contatto con la classe dirigente dei registi di allora, da Patroni Griffi ad Avati, con cui farà cinque film variamente diabolici, a Franco Zeffirelli che gli regala una comparsata d’onore nella «Bisbetica domata» a tu per tu con Burton. Ma prima ancora del cinema, Capolicchio fece l’Università in teatro con Strehler, nelle «Baruffe» goldoniane e nel «Gioco dei potenti» scespiriano, e poi due Miller, con Raf Vallone nello «Sguardo dal ponte» e «L’orologio americano» diretto da Petri.

Uomo di spettacolo a 360 gradi, attivo in tv in prosa e sceneggiati come «Il conte di Montecristo», anche regista d’opera pucciniano, apprezzato docente al Centro Sperimentale dove allevò una generazione di attori, dalla Ferilli alla Forte a Boni, ed ebbe come spettatore niente meno che Coppola.

Queste ed altre avventure, umane e professionali, dentro e fuori dal set e dai camerini, le racconta nella sua autobiografia «D’amore non si muore», parafrasando un suo film tratto da una commedia best seller di Patroni Griffi, in un momento felice per lo spettacolo in Italia in cui Capolicchio divenne, con calcolate sfumature di ambiguità, attore di sfacciata giovinezza, padrone di diversi ambienti e geografie, dallo snobismo borghese romano di «Metti, una sera a cena» di Patroni Griffi (sceneggiato da Dario Argento, ritmato dal refrain di Morricone, grande cast) all’autostoppista milanese che finisce in spyder nel «Giovane normale» di Risi tratto dal libro di Umberto Simonetta. Capolicchio è richiesto, lavora con tutti, dal ribelle Faenza allo storico Lizzani a De Santis, cinema off e cinema di tradizione, è a proprio agio in varie epoche storiche, ma certo Pupi Avati, che ha sempre amato avere una sua compagnia stabile di attori, scopre un suo lato gotico, misterioso e nascosto, iniziando alla grande con «La casa dalla finestre che ridono» una collaborazione che arriva a “Il signor Diavolo”, passando per un 700 in cui Lino fu papà di Mozart e due serie tv «Jazz band» e «Cinema!».

Una lunga serie di titoli, un giro d’Italia dei vari tipi umani e modelli registici, la capacità di osservare da vicino il passato, ed anche esperienze all’estero. Sul piccolo schermo lavora coi migliori come Sandro Bolchi e Fenoglio, affrontando, allora si poteva fare!, il miglior teatro contemporaneo, da Pinter a Wesker, senza negarsi il tocco nazional popolare del «Verdi» di Castellani e della «Casa Ricordi» di Bolognini. E rimane un suo legame con il melò americano di Tennessee Williams che lo vede oggetto di desiderio prima in «Zoo di vetro» e poi in teatro con la Falk in «La dolce ala della giovinezza». Capolicchio ha la fortuna di non identificarsi in una tipologia e di lavorare con i maestri di opposte tendenze, anche l’innovativo Ronconi televisivo nella «Commedia della seduzione» di Schnitzler: è un attore colto in un sistema di spettacolo che, al di là dei premi e della sua popolarità, rispondeva alle sue curiosità anche di regista, docente e sceneggiatore, di un attor rimasto per il pubblico sempre giovane.

Lino Capolicchio e quel gelato vicino al Quirinale. Francesco Guerrera su La Repubblica il 4 maggio 2022.

L'incontro con l'attore, scomparso a Roma a 78 anni, è un ricordo lontano nel tempo. Di chi, ragazzino, lo vide sul palco in un dramma di Tennessee Williams e poi trasformarsi in un normale papà.  

Quando le passioni durano una vita è spesso difficile identificarne l’origine. Non ricordo con precisione, per esempio, quando cominciai ad interessarmi ai giornali o quale partita mi condannò a decenni di sofferenza al seguito dell’Inter.

Ma non ho dubbi sull’evento che mi fece innamorare dell’arte di Tennessee Williams. Accadde quando vidi Lino Capolicchio sul palco dell’Eliseo nella parte di Chance Wayne in La dolce ala della giovinezza, il dramma in cui Williams esplora tre temi per lui fondamentali: la meschinità umana, la violenza della vendetta e l’inesorabile passaggio del tempo.

Morto Lino Capolicchio, protagonista del "Giardino dei Finzi Contini". Roberta Damiata il 4 Maggio 2022 su Il Giornale.

Se n'è andato a soli 78 anni l'amato attore e sceneggiatore Lino Capolicchio. Era stato uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza, del cinema italiano degli anni settanta.

È morto a 78 anni l'attore, sceneggiatore e regista Lino Capolicchio. Una grande perdita per il cinema italiano. Nato a Merano e cresciuto a Torino si era trasferito poi a Roma, dove ha frequentato l'Accademia nazionale d'Arte drammatica Silvio D'Amico. Gli esordi professionali presso il Piccolo Teatro di Milano nella compagnia di Giorgio Strehler ne Le baruffe chiozzotte (1964) di Carlo Goldoni, dove ottenne il plauso di critica e pubblico. Nel 1965 continua la sua proficua collaborazione con Strehler ne Il gioco dei potenti, tratto dall’Enrico VIII di Shakespeare.

Seguono altri successi sul palcoscenico, poi la Rai lo sceglie come interprete di Andrea Cavalcanti nello sceneggiato Il conte di Montecristo (1966) di Edmo Fenoglio. L’anno successivo prende parte al cast internazionale de La bisbetica domata (1967) di Franco Zeffirelli. Il primo ruolo da protagonista arriva nel 1968 con Escalation di Roberto Faenza. Capolicchio è stato anche uno dei protagonisti della stagione dello sperimentalismo e della militanza, del cinema italiano degli anni settanta.

Tanti i suoi film più noti: Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi, Il giovane normale di Dino Risi e il film di Vittorio De Sica, tratto dal capolavoro di Giorgio Bassani, Il giardino dei Finzi Contini, con il quale vinse il David di Donatello. Con Pupi Avati ha una lunga e proficua collaborazione lavorando come protagonista in La casa delle finestre che ridono, ma anche in Le stelle nel fosso (1978), Ultimo minuto (1987), Una sconfinata giovinezza (2010), Il signor diavolo (2019). Ma è anche nel cast e delle miniserie TV Jazz Band (1978) e Cinema!!! (1979).

Amatissimo anche da molti altri registi, indimenticabile la sua forte interpretazioni in Mussolini ultimo atto (1974) di Carlo Lizzani, quindi il ritorno in tv nello sceneggiato La paga del sabato (1975) di Sandro Bolchi. Nel 2006 Capolicchio interpreta, come attore protagonista con il regista belga Mohammed Hambra, il film Aller-retour, la storia di un italiano che ritorna in Belgio dopo aver lavorato a lungo nelle miniere di Marcinelle. Dopo il 2010 scelse di dedicarsi principalmente al teatro e all’insegnamento. Nel 2019 ha pubblicato la sua autobiografia, intitolata D’amore non si muore.

Marco Giusti per Dagospia il 4 maggio 2022.

Voi non sapete come ci sarebbe piaciuto a noi quindicenni vedere in sala nel 1968 “Escalation” di Roberto Faenza, vietato a minori di 18 anni, con Lino Capolicchio giovane contestatore figlio di papà ricco industriale, Gabriele Ferzetti ovviamente, che riesce a rubargli tutto, perfino la fidanzata, la bellissima Claudine Auger, che vedevamo nuda giganteggiare negli incredibili manifesti del tempo. Con le mani che coprivano i seni.

A quel tempo Lino Capolicchio era la risposta italiana a tutti i nostri desideri di rivolta, di rivalsa, di crescita. Se negli spaghetti western iniziava a trionfare Tomas Milian, come peone messicano e straccione che diventa protagonista rivoluzionario, nel cinema borghese degli adulti, Lino Capolicchio era il nostro eroe. Solo che non eravamo ancora abbastanza grandi per potere vedere i suoi film.

Ma con “Escalation” di Faenza, col quale vinse premi (il Nastro d’argengto, il Globo d’oro italiano), mentre uscivano i primi film che avrebbero cambiato la nostra vita, si affermò come un protagonista assoluto della nuova scena innovativa italiana.

Un percorso che lo porterà a una serie di film sessantottini, “Vergogna schifosi” di Mauro Severino con Marilia Branco, la bellissima prima moglie carioca di Adolfo Celi, “Metti una sera a cena” di Giuseppe Patroni Griffi con un cast da paura, Tony Musante, Florinda Bolkan, Jean-Louis Trintignant, Annie Girardot, “Il giovane normale” di Dino Risi con Janet Agren, tutti vietati e tutti costruiti sulla sua figura di giovane già molto fluido, un po’ biondo, un po’ gay, un po’ tutto, che non riesce a star fermo in un solo ruolo di giovane borghese annoiato, ma che deve comunque infrangere, trasgredire, spezzare. E sempre, dico sempre, scoparsi tutte e tutti.

Qualcosa che al cinema, allora, non avevamo ancora visto e che alla fine degli anni ’60 decretò un successo di Lino Capolicchio che adesso c’è difficile pure ricostruire, ma che lui, scomparso ieri a 78 anni dopo una lunga malattia, ben conosceva per averlo vissuto in una maniera anche eccessiva.

E che ci sembra ancor più difficile ricordare rispetto alla seconda e alla terza vita di Capolicchio attore civile e perbene dei film nostalgici e piccolo borghesi di Pupi Avati o protagonista di film di genere, che iniziò con l’horror di culto ancora di Avati “La casa delle finestre che ridono”, dove incontrava nuovamente in un ruolo quanto mai grottesco il curioso giornalista-attore americano Eugene Walter, che già aveva girato con lui “Il giovane normale”.

A fare da spartiacque tra le due vite di Capolicchio, quella del giovane biondo e trasgressivo iniziata con “Escalation” e quella diciamo avatiana, troviamo il film da Oscar di Vittorio De Sica “Il giardino dei Finzi Contini”, dove interpreta il protagonista e narratore Giorgio, come Bassani, travolto dal fascino e dalla sessualità dirompente dei Finzi Contini, cioè Dominique Sanda e Helmut Berger.

Nel 1970 è il suo primo ruolo letterario e civile e penso che lo abbia cambiato completamente nell’immaginario dello spettatore del tempo. Io, che non ero riuscito a vedere i suoi film super-vietati da scopatore seriale, vidi invece il più tranquillo “Il giovane normale” e, soprattutto “Il giardino dei Finzi Contini” che per me che avevo abitato due anni a Ferrara, nel 1966 e nel 1967, avevo davvero un certo fascino.

Ma nel personaggio di Giorgio non c’era già più nulla del Capolicchio trasgressivo precedente. Magari qualcosa di quel personaggio ancora circolava nell’erotico di Brunello Rondi “Le tue mani sul mio corpo” con Erna Schurer e Colette Descombes, nel fondamentale “Un apprezzato professionista di sicuro avvenire” di Giuseppe De Santis, film con scene di sesso con Femi Benussi che, ricordo, mi colpirono molto, e nel già tardo “D’amore si muore”, scritto e supervisionato da Giuseppe Patroni Griffi, ma diretto dal suo fidanzato-assistente Carlo Carunchio, con uno dei cast più hot che si potesse pensare, Silvana Mangano, Milva, Luc Merenda, Duilio Del Prete. 

Ma il film non ebbe lo stesso successo di “Metti una sera a cena”, fu una follia produttiva non farlo girare da Patroni Griffi e chiuse definitivamente la carriera da attor giovane trasgressivo di Capolicchio, anche perché già su quel set aveva un giovane bellissimo, Luc Merenda, che gli rubò la scena. In qualche modo, Capolicchio, nei primi anni ’70, dopo aver lavorato con autori come De Sica, De Santis e Patroni Griffi, si ritrova a inventarsi un altro ruolo da quello che lo aveva visto esordire.

Girerà film storici-civili, “L’ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di Natale” di Gian Vittorio Baldi, “Mussolini ultimo atto” di Carlo Lizzani, dove è il capo partigiano “Pedro”, un personaggio storico importante, il più curioso “Calamo” di Massimo Pirri, dove interpreta un seminarista senza vocazione in quel di Puglia che viene sedotto prima dalla sorellastra Valeria Moriconi, poi da una giovane hippy dal pube depilato, Paola Montenero, che lo conduce in un vortice di droga e sesso.

Altro film cultissimo oggi impossibile da vedere. A questo punto della sua carriera arriva Pupi Avati, che ne fa una sorta di alter ego e di tuttofare in molti dei suoi film, “La casa delle finestre nel buio”, “Jazz Band”, “Le stelle nel fosso”, “Cinema!”, Fratelli e sorelle”,  “Ultimo minuto”, giù giù fino al suo ultimo film, il recente “Il signor diavolo” del 2019. 

In mezzo ai film di Pupi Avati, che lo assorbiranno quasi completamente, lo troviamo in qualche film di genere, il thriller “Solamente nero” di Antonio Bido, in qualche film d’autore, come “Fiorile” dei Taviani assieme a Chiara Caselli e a Galatea Ranzi, in una rara versione de “Il giardino dei ciliegi” di Antonello Aglioti con Susan Strasberg, Marisa Berenson, Dado Ruspoli e Barbara De Rossi che mi piacerebbe molto vedere.

Diresse anche due film di un certo interesse, “Pugili” nel 1995 con un giovane PierFrancesco Favino, Antonella Attilli e due vecchie star della boxe come Duilio Loi e Tiberio Mitri, e “Il diario di Matilde Manzoni” con Ludovica Andò, Urbano Barberini, Laura Betti, Alessio Boni, Corinne Cléry.

Persona estremamente gentile e generosa, come tanti attori, Capolicchio non è sempre riuscito a conservare nel tempo il fascino che aveva nei suoi primi film giovanile, ma è stato sempre attento e misurato in ogni tipo di operazione che avesse intrapreso. Oggi mi spiace non riuscire a rivederlo in buone copie, integrali, di “Escalation”, “Calamo”, “Un apprezzato professionista…”, “D’amore si muore”, tutti film che allora sembravano importanti e ora appaiono così opachi nel ricordo.    

·        È morto il fotografo Ron Galella.

È morto Ron Galella, re dei paparazzi di origini lucane. Il Quotidiano del Sud su La Gazzetta del Mezzogiorno il 3 maggio 2022.

Il fotografo statunitense Ron Galella di origini lucane, soprannominato “the king of paparazzi”, è morto sabato 30 aprile all’età di 91 anni nella sua casa di Montville, nel New Jersey. La notizia della scomparsa è stata pubblicata oggi dal “New York Times”.

Galella era un ineguagliabile quanto controverso fotoreporter che per oltre mezzo secolo ha inseguito e immortalato attori, registi, cantanti e politici, per narrare, rigorosamente in bianco e nero, il mondo delle celebrities.

“Newsweek” lo ha definito “Paparazzo Extraordinaire”, mentre “Time” e “Vanity Fair” gli hanno dato l’appellativo di “Godfather of U.S. paparazzi culture”.

Durante la sua carriera ha scattato più di 3.000.000 di ritratti di personaggi dello star system, meticolosamente custodite nella sua immensa villa a poco più di un’ora da New York, in un angolo di campagna del New Jersey: ha fotografato, tra i tanti, John Travolta, Sylvester Stallone, Elvis Presley, Louis Amstrong, Frank Sinatra, Marlon Brando, Maria Callas, Sophia Loren, Frank Zappa, Richard Burton, Elton John, Yves Saint Lauren, Mick Jagger, Jackie Kennedy, Truman Capote, Andy Warhol, Anna Magnani, John Lennon, Liz Taylor, Robert Redford, Arnold Schwarzenegger, Cher, Michael Jackson, Robert De Niro, Mick Jagger, Marcello Mastroianni, Roberto Benigni.

Il valore delle sue fotografie e la loro diffusione

Le sue fotografie, con prezzi che vanno da 4.000 a 15.000 dollari, sono state acquistate da giornali e riviste come “Time”, “Harper’s Bazaar”, “Vogue, Vanity”, “Fair”, “People”, “Rolling Stone”, “The New Yorker”, “The New York Times”, “Life” ed esibite nei musei e nelle gallerie di tutto il mondo, come il Museum of Modern Art di New York, il Museum of Modern Art di San Francisco, l’Andy Warhol Museum di Pittsburgh, la galleria Tate Modern di Londra, l’Helmut Newton Museum di Berlino e la Galerie Wouter van Leeuwen di Amsterdam.

I suoi ritratti sono mostrati permanentemente negli 11 piani del Hollywood Roosevelt Hotel, prestigioso albergo di Los Angeles.

Chi era Ron Galella

Nato a New York il 10 gennaio 1931, figlio di un falegname immigrato di Muro Lucano, in Basilicata, borgo di cui era cittadino onorario, Ron Galella ha iniziato a fotografare sotto le armi, durante la guerra di Corea, per poi laurearsi in fotogiornalismo nel 1958 all’Art Center College of Design di Los Angeles.

Dagli anni Cinquanta in poi non c’è stata celebrità che non sia stata ‘paparazzata’ dalla raffinata sfrontatezza di Ron Galella, capace di farsi trovare sempre al posto giusto nel momento giusto. Fotografie rubate sì ma apprezzate per la loro immediatezza, scattate spesso a raffica senza neppure guardare nell’obiettivo, che più volte gli hanno creato numerosi guai, ma che alla fine sono state pubblicate sui principali magazine di tutto il mondo e oggi sono presenti nei musei più prestigiosi.

Il pugno di Marlo Brando a Ron Galella

Lo stesso Ron Galella ricorda alcuni episodi “estremi” della propria esperienza professionale. La prima volta quando Marlon Brando, prima di entrare in un ristorante di Chinatown a New York, si girò verso di lui e lo colpì violentemente con un pugno facendogli saltare cinque denti e rompendogli la mascella. Dopo quell’episodio, per il quale venne anche risarcito, quando Galella incrociava Marlon Brando indossava sempre un casco da football, e quando un collega lo fotografò mentre seguiva l’attore con in testa il casco e in mano la macchina fotografica, quell’immagine venne pubblicata a doppia pagina dal magazine “People” e divenne famosa in tutto il mondo.

L’arresto per stalking per il caso di Jackie Kennedy

La seconda volta quando la sua ossessione per Jackie Kennedy, all’epoca moglie di Aristotele Onassis, si concluse nel 1972 con l’arresto per ‘stalking fotografico’ e un ordine di restringimento emesso dal giudice che gli impediva da quel giorno in avanti di avvicinarsi a lei a meno di quindici metri. Ron Galella non si scoraggiò e decise che, ogni volta che avrebbe potuto incontrare la vedova del presidente Kennedy, si sarebbe portato con sé un gigantesco metro per controllare la giusta distanza.

L’aggressione di Sean Penn e delle guardie del corpo di Richard Burton

Un altro bersaglio è stato l’attore Sean Penn, che infastidito dal foto reporter, gli ha sputato in faccia. Galella subì un’altra aggressione da parte delle guardie del corpo di Richard Burton, perdendo un dente, e intentò una causa contro l’attore che però si rivelò senza successo.

Nonostante le innumerevoli critiche e denunce, Andy Warhol ha detto di lui: “Una buona foto deve ritrarre una persona famosa, mentre fa qualcosa di non famoso. Il suo essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella”.

Le opere editoriali di Ron Galella

Oltre all’attività di paparazzo, Ron Galella è anche autore di diversi libri: “Jacqueline” (1974, Sheed and Ward Inc.), “Offguard: A Paparazzi Look at the Beautiful People” (1976, McGraw-Hill Book Company), “The Photographs of Ron Galella: 1965-1989” (2001, Greybull Press); “Ron Galella Exclusive Diary” (2004, Photology); “Disco Years” (2006, PowerHouse Books); “Warhol by Galella: That’s Great!” (2008, Verlhac Editions – Montacelli Press – Seeman Henschel Verlag); “No Pictures” ( 2008, PowerHouse Books); “Viva l’Italia!” (2009, PowerHouse Books), “Man In The Mirror: Michael Jackson” (2009, PowerHouse Books).

 Addio a Ron Galella, il re dei paparazzi preso a pugni da Marlon Brando. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 3 maggio 2022.

Di foto ne aveva scattate più di tre milioni, ben catalogate nell’archivio della sua Villa Palladio a Montville, in New Jersey. Avevano tutte una cosa in comune: non erano posate. Robert Redford che esce dal taxi con gli occhiali a specchio (1974), Elvis Presley nel backstage di un suo concerto (1974), Sophia Loren che sgrana gli occhi dopo aver visto Omar Sharif alla prima del Dottor Zivago (1965), Jack Nicholson che fa la linguaccia (1972), Steve McQueen che beve un caffè in piedi sul set di Papillon (1973), Bruce Willis e Demi Moore in auto con la primogenita Rumer appena nata (1989). Si potrebbe andare avanti all’infinito, e ogni omissione sarebbe comunque clamorosa. Perché Ron Galella — «The King of Paparazzi», il «Paparazzo Extraordinaire» (), «Godfather of U.S. Paparazzi Culture» (padrino della cultura americana dei paparazzi; secondo e ) — scomparso nel sonno il 30 aprile a 91 anni, nella sua lunghissima vita ha pedinato, tormentato, assediato, sfinito personaggi di ogni tipo: da Richard Burton a Liz Taylor, da Gregory Peck ad Ava Gardner, da David Bowie a Bruce Springsteen, da Truman Capote a Louis Armstrong, da Andy Warhol ad Anna Magnani, da Marcello Mastroianni a Cassius Clay.

Papà Vincenzo, mamma Michelina

Papà Vincenzo di Muro Lucano, nel Potentino, costruiva bare. Mamma Michelina, oriunda del Beneventano, si occupava dei cinque figli e della casa sognando le vite delle star sulle riviste patinate. Ronald Edward Galella nasce e cresce nel Bronx finché non si arruola e parte per la guerra di Corea, dove impara a fare il fotografo. Con la buona uscita da soldato si iscrive all’ArtCenter College of Design di Pasadena, in California, dove si laurea in fotogiornalismo. Senza più soldi per aprirsi uno studio tutto suo a Manhattan, decide che sarà la strada il suo studio, fuori dai ristoranti, dai teatri, dai cinema, dai locali dove ciondolano le star del momento. «Una volta era facile fotografate la gente famosa, non esistevamo guardie del corpo. Potevo andare ovunque, ci andavo e basta. Così è nata la mia foto di David Bowie, John Lennon, Yoko Ono, Simon & Garfunkel nel backstage dei Grammy Awards», raccontò a Elle. Tenacia e determinazione non gli mancavano. Per fotografare Richard Burton e Liz Taylor sul loro yacht sul Tamigi si appostò per giorni in un magazzino pieno di topi. Brigitte Bardot la tampinò mentre faceva il bagno a Saint-Tropez, e quando lei si accorse dell’agguato tentò di affogarlo.

Jackie Kennedy: la magnifica ossessione

Ma due foto lo raccontano più di tutte, e non le ha scattate lui. In una è qualche passo indietro rispetto a Jackie Kennedy Onassis, l’inseparabile Nikon al collo (anzi, due) con cui aveva appena ritratto l’ex First Lady americana nella celeberrima «Windblown Jackie», l’istantanea in Madison Avenue con i capelli scompigliati dal vento e il sorriso enigmatico da Monna Lisa (aveva chiesto al taxista che lo aveva accompagnato di farla). Anche nell’altra è due passi indietro, questa volta rispetto a Marlon Brando, e indossa un casco da football per prevenire eventuali colpi dall’attore che gli aveva già spaccato la mascella e cinque denti dopo un tallonamento fuori da un ristorante cinese di New York (lo scatto è del collega Paul Schumbach). Ron Galella era riuscito a esasperare entrambi. Jackie O dopo il famoso scatto, ovviamente rubato, lo portò in tribunale per le continue intrusioni nella sua vita privata (sono tremila, in tutto, le foto dedicate alla vedova di John Fitzgerald Kennedy) e per la «sofferenza mentale subita». Finì con un divieto di avvicinamento a meno di 15 metri. Invece fu lui a denunciare Marlon Brando, dal quale ottenne un risarcimento di quarantamila dollari.

Il riconoscimento di Andy Warhol

Si può concludere che la sua cifra sia stata fotografare la persona e non il personaggio. Ma questa cosa la disse molto meglio Andy Warhol: «Una buona foto deve ritrarre una persona famosa mentre fa qualcosa di non famoso, essere nel posto giusto al momento sbagliato. Ecco perché il mio fotografo preferito è Ron Galella».

È morto Ron Galella, il re dei paparazzi (che amava Jackie Kennedy). Alessandra Mammì su L'Espresso il 4 maggio 2022.

Gli appostamenti per Liz Taylor, le risse con Marlon Brando e la sua passione ossessiva per la moglie del presidente degli States: la rocambolesca vita professionale del fotografo delle superstar scomparso a 91 anni.

La privacy? Per Ron Gallella era come l'aglio per Dracula. Lui, storico paparazzo nato nel 1931 e diventato il persecutore di ogni pubblico personaggio (meglio se donna) proprio non la capiva. Fare un buco nella siepe di Katharine Hepburn per spiarla in giardino; corrompere un portiere o un guardiano per appostarsi nel portone: sedurre una segretaria per carpire informazioni; passare giorni in un magazzino pieno di topi accucciato in finestra come un cecchino, solo perché Liz e Burton stanno per fare una festa nello yacht attraccato lì sotto, per Ron era solo lavoro. 

«Come faccio a guadagnarmi il pane per vivere se rispetto la privacy?» si diceva. E lo diceva pure ai giudici quando veniva trascinato in tribunale. Jacqueline Kennedy ce lo portò più volte perché per Ron lei era un ossessione. «Jackie ti amo!!! le urlava quando la inseguiva per Central Park, o si nascondeva dietro agli stand di un negozio, o veniva a sapere a quale concerto lei sarebbe andata e comprava un biglietto anche lui.

"Jackie ti amo!” e di sicuro era vero. Lei è il volto della sua foto talismano "Jackie e il soffio di vento", un vortice di capelli che lascia libera le labbra appena piegate in un sorriso. La sua Monna Lisa, l'ha battezzata Ron per l'espressione enigmatica. "Forse ha sorriso perché non mi ha visto" dice triste, il paparazzo innamorato. Di sicuro è così. La signora Kennedy Onassis non solo lo amava molto meno, ma per liberarsi di lui pagava avvocati e stratosferiche parcelle. Così Ron perdeva i processi ma non la determinazione. E ricominciava a cercarla e perseguitarla, perché diciamolo un po', Jackie aveva ragione. Se non proprio stalking, Ron era una bella rottura di scatole. 

Ma almeno lei non gli ha mai rotto cinque denti e incrinato la mascella come fece invece Marlon Brando. Fu così: Ron scattava foto e Brando impassibile dietro gli occhiali scuri, camminava come un bonzo, apparentemente neanche tanto infastidito. Si avvicinava calmo e implacabile. Brando si avvicinava, Ron scattava. Ma all'improvviso sferrò un pugno. Uno solo, quel che bastò per mandare il nostro dritto in ospedale. Ci fu denuncia e processo. E poi patteggiamento. Brando pagò 40mila dollari. Ron dovette darne la metà agli avvocati. l'altra metà neanche bastò per rifare tutti i denti. Questa è la vita del paparazzo Galella, che come si evince da solo pochi episodi, davvero è degno di un documentario da Sundance. 

Si chiama "Smash is Camera" è diretto dal premio oscar Leon Gast. Amarcord di un'epoca che sapeva ancora costruire icone, che non rispettava i red carpet e i photo call, che viveva di rotocalchi. pagine colorate e patinate e poi di principesse, first lady, superstar. E dove un processo come quello fra Jackie-Ron divenne materia di studi sull'insolubile tema: ha più diritto lei alla privacy anche se passeggia per Central Park, o lui a guadagnarsi il pane fotografando il suo sorriso?

Cristiano Vitali per iodonna.it il 3 maggio 2022.

È morto pacificamente nel sonno sabato mattina, nella sua casa di New York. Aveva 91 anni, Ron Galella. E se non fosse stato per questo imprevisto, ieri sarebbe andato al Met Gala 2022 a fotografare le star. Dietro le transenne di siepe come sempre. Non in piedi, poiché ormai non camminava più, ma seduto in posizione favorevole.

Nato a New York nel 1931 da padre originario di Muro Lucano (Basilicata) – il Centro studi internazionali lucani nel mondo ha diffuso subito una nota di cordoglio –, Galella era uno dei fotografi più celebri al mondo. Anche se la sua specializzazione era la più molesta in assoluto, come se fotografare già non lo fosse: quella di inseguire i personaggi famosi per rubare loro uno scatto, insomma paparazzarli.

Un’attività in genere considerata volgare che Ron nobilita grazie a una sensibilità da fotogiornalismo, area in cui si era laureato all’Art Center College of Design di Los Angeles.

Il termine potrà anche essere nato con la Dolce vita felliniana, ma è con la costanza di mastino-Ron che supera il mero scandalo per diventare molto di più: un documento, la più mirabile delle radiografie.

Come fa? Pazienta, aspetta, aspetta ancora, e poi fa andare la macchina fotografica. Nemmeno guarda nell’obiettivo, dice la leggenda che nei decenni si è accumulata su di lui. Gli importa solo di catturare qualcosa che non si vede, che le star di ogni campo – attori, cantanti, sportivi, politici – non vorrebbero si vedesse.

O anche che si vedesse, perché poi a lungo andare lo riconoscono, e un po’ giocano alle pose, o forse non ci badano nemmeno più. Perché le foto dello strano paparazzo saranno anche scattate a tradimento, ma sono anche quotate. E forse conviene farlo lavorare a beneficio di tutt’e due. 

Ron Galella: mitragliate di flash

Non tutti però sono propensi all’invasione di campo di Ron. E volano botte, dove non va a pezzi solo la macchina fotografica ma anche qualche osso. Nel 1973 Marlon Brando gli frantuma la mascella. Imparata la lezione, quando sa che l’attore è in circolazione si mette a indossare un casco da rugby. Negli anni Ottanta è Sean Penn – in coppia con Madonna che si nasconde per la vergogna – a giocare al punching ball con la sua faccia.

Bette Davis, Cher, Diane Keaton, Woody Allen (una frazione dei nomi che Ron Galella ha inseguito e atteso che uscissero o entrassero di casa, da un locale, da un’auto), frappongono mani e borsette tra sé e l’obiettivo, ma non c’è niente da fare.

Anche perché Ron scatta a raffica. Spesso da lontano, poco importa di chi si frappone davanti e dietro la celebrity. Anzi, queste sagome e dettagli, questi errori, mettono ancora più in risalto l’unicità dei personaggi. Sicché le foto migliori sono sempre quelle che si insinuano dietro i vetri delle macchine e tra le persone. 

Dove c’è poco luce, o dove la rapidità dello scatto – mista alla velocità della fuga di chi vuole sfuggire a Ron – rende la grana del fermo-immagine e la centratura errata del soggetto un processo fantasmatico. Il caso della serie di foto su Jackie Kennedy, l’ossessione di Galella, soprattutto negli anni newyorchesi di entrambi. Un inseguimento quotidiano che nel 1972 gli costa l’ingiunzione di mantenere una distanza di 15 metri dall’ex first lady.

Nonostante ciò la fotografa sempre e ripetutamente, lasciando di lei – la donna con lo Chanel rosa macchiato di sangue del marito assassinato – l’impressione di una donna esile e dinamica, solitaria, introversa, per cui è vitale muoversi. E più sviluppa rullini e più il suo mistero si fa insondabile, con l’illusione che più angoli di lei se ne hanno, più facile diventi capirla. Ma non è mai così. 

Anche se è un gioco che paga, poiché mostra i famosi in pose altrimenti invisibili. Di insofferenza e riflessione, disagio e superiorità. E poi perché di molti agguati Ron ottiene la foto più fresca, la più rappresentativa del glamour delle star.

A memoria: Robert Redford con gli aviator a specchio e cravatta in un mezzobusto nel traffico di New York (1974), poi messo in copertina del volume The Photographs of Ron Galella (2002). Cher al Met Gala del 1974. Ali MacGraw che sorseggia un drink agli Oscar 1975. La linguaccia di Jack Nicholson alla première di Calore di Paul Morrissey e ogni scatto rubato a Jack e Anjelica Huston durante la loro relazione.

Simona Siri per “Vanity Fair” l'1 giugno 2022.

Lo incontrassi oggi, la prima domanda che gli farei sarebbe sulla polemica Kim Kardashian che indossa l’abito con cui Marilyn Monroe cantò Buon compleanno al presidente Kennedy. Avendolo conosciuto anche solo per poco, sono convinta che non sarebbe contrario: avrebbe colto la similitudine tra i due personaggi – la diva per eccellenza di ieri con quella di oggi. 

Purtroppo non posso chiederglielo: Ron Galella è morto lo scorso 30 aprile, a 91 anni, lasciandosi alle spalle una carriera ineguagliabile e un archivio che racchiude alcune tra le immagini più famose della storia del costume americano. Jackie Kennedy, Elvis, Frank Sinatra, Marlon Brando, Sean Penn, Madonna, Robert Redford, Mick Jagger, Brooke Shields, Liz Taylor. 

La lista è infinita. Così come sono le mostre che gli sono state dedicate: nonostante il suo lavoro fosse quello di inseguire le star per ottenere scatti rubati, le sue foto sono state riconosciute come arte, esposte in gallerie importanti, acquistate da collezionisti e musei. L’ho incontrato prima della pandemia: vidi un documentario e decisi di contattarlo.

Trascorsi un pomeriggio nella sua casa-museo in New Jersey in un salotto con i soffitti altissimi e con un enorme divano rosso a forma di S. Intorno a noi, sopra, sotto, alle pareti, per terra, sui mobili, praticamente in ogni stanza scatole bianche con etichette nere con dentro il suo tesoro, le migliaia di foto scattate durante la vita, tutte perfettamente catalogate. Un archivio senza eguali che preso nel suo insieme è la migliore storia dello star system americano, sicuramente dei suoi tempi più gloriosi. 

Che cosa doveva avere una celebrity per essere fotografata da lei?

«La bellezza, ma non solo. La naturalezza e l’azione. Non mi sono mai piaciute le star che si mettono troppo in posa, cercavo immagini realistiche».

Quale è stato il periodo migliore della sua carriera?

«Quello dello Studio 54. Ci passavano tutti, prima o poi. Andavi lì sul tardi e li beccavi tutti». 

Le star di quei tempi erano diverse da quelle di oggi?

«Avevano meno filtri, erano più spontanee e libere. Ora prendono lezioni su come comportarsi con i media, come andare in televisione. Ridono troppo, mostrano i denti. E sono sempre circondate da guardie del corpo». 

Una delle sue fotografie più famose è Jackie Kennedy che attraversa la strada a New York con i capelli scompigliati dal vento. Oggi sarebbe impossibile.

«È la mia foto migliore, la Monna Lisa, e non solo perché la più famosa, ma anche per la sua espressione, quel sorriso solo degli occhi. Una bellezza naturale, senza tempo, senza trucco. È una foto figlia del caso: ero a Central Park a scattare con una modella, avevo preso quel lavoro solo perché era sulla 88esima, vicino a casa di Jackie, speravo di riuscire a vederla. E infatti successe. La inseguii per qualche isolato su un taxi, per non farmi riconoscere. Quando scesi me la trovai quasi davanti e scattai. Dopo quella prima foto lei si mise gli occhiali da sole che teneva in mano, ma ormai io l’avevo fatta, avevo la foto perfetta».

Ce n’è un’altra in cui corre. Scappava da lei?

«Aveva portato la figlia a giocare a tennis. Mi vide e per evitare che io fotografassi Caroline si mise a correre, convinta che la avrei inseguita, come in effetti ho fatto». 

Sbaglio o era un po’ ossessionato da Jackie? Gira voce che lei per un po’ sia uscito con la sua assistente.

«Una ragazza norvegese di nome Gretta, sì. Mi dava dritte tipo il nome di dove Jackie si faceva la manicure… poi una volta ci vide insieme e la licenziò». 

Quindi ho ragione, era ossessionato.

«La chiamavo la mia “golden girl”. Non la definirei ossessione, però. Mi piaceva perché stava al gioco, non le importava di essere fotografata, era naturale, non si metteva in posa. Era piena di vita, stava sempre facendo qualcosa, faceva jogging, comprava libri, vedeva le amiche. Era interessante fotografarla. E poi apprezzava il mio lavoro: quando le regalai il mio primo libro su di lei, seppi da conoscenti comuni che lo aveva messo in bella vista in salotto, dove rimase fino alla sua morte».

Eppure tra voi qualche problema c’è stato.

«Era molto protettiva verso i figli. L’unica volta che si è lamentata è stata quando la fotografai in bicicletta a Central Park con John Jr. Mandò la sua guardia del corpo a chiedermi il rullino, voleva che distruggessi le foto. Io non lo consegnai e mi fecero arrestare per molestie. Su consiglio del mio avvocato controdenunciai (nel 1972 un giudice ordinò a Galella di tenersi a 7 metri di distanza dalla signora Kennedy e a 10 dai suoi figli. Un decennio dopo, rischiando il carcere per aver violato l’ordine, Galella accettò di non fotografarli mai più, ndr). 

A parte l’assistente, aveva altri informatori?

«Avevo una rete, sì, gente che lavorava negli alberghi, per esempio. Una volta fui l’unico a fotografare Liz Taylor e Richard Burton perché sapevo che erano in un hotel diverso dal Plaza, nel quale stavano di solito». 

C’è qualcuno che non è riuscito a fotografare e che avrebbe voluto?

«Marilyn Monroe. Persi l’occasione. Una volta ero nello studio affianco a quello in cui stavano girando Fermata d’autobus e siccome stavo facendo un altro lavoro decisi di non aspettare che uscisse. Me ne pentii il giorno dopo, anche perché con lei non ebbi più alcuna possibilità». 

Elvis invece ce l’ha.

«Nel 1974 all’hotel Hilton di Philadelphia. Aveva appena finito un concerto e invece di uscire dal retro passando dalle cucine come faceva di solito uscì dall’entrata principale, con fuori la limousine che lo aspettava. È una foto quasi sfocata, Elvis è dietro, davanti c’è il suo bodyguard che forse non a caso gli assomiglia molto, ma nonostante questo mi piace, anzi forse proprio per questo».

Marlon Brando le fece saltare cinque denti con un pugno.

«Successe nel giugno del 1973. Sapevo che Brando era a New York per registrare un programma televisivo con Dick Cavett. Lo fotografai quando arrivò con l’elicottero, lo seguii tutto il giorno e alla sera, mentre stava andando a cena a Chinatown, lo inseguii di nuovo per strada. A un certo punto mi disse: “Cosa vuoi che ancora non hai?”. Io risposi che volevo una foto senza occhiali da sole perché erano pagate meglio e lui allora mi sferrò un pugno. Andammo per avvocati e alla fine io ottenni 40 mila dollari per la liquidazione di una causa per danni».

Qual è il segreto per ottenere la foto migliore?

«Essere nel posto giusto al momento giusto. E poi l’audacia. Pensi che io ero un timido: andai a scuola di recitazione, a Pasadena, proprio per combattere la mia timidezza». 

La sua tecnica?

«Giravo sempre con due macchine, una in bianco e nero e una a colori. La prima foto la scattavo di sorpresa, senza mettere a fuoco, senza neanche guardare. Magari era sfocata, ma era naturale. Se la celebrity acconsentiva a farsi riprendere ne scattavo altre a colori, più posate, da ritratto. Se si rifiutava, io comunque una foto a casa l’avevo portata. E nel 90% dei casi quella rubata e naturale era anche quella che poi vendevo di più e meglio».

Che cosa ha capito delle celebrity in tutti questi anni che ha passato a fotografarle?

«Che fanno un lavoro che ha a che fare con l’illusione. Le vedi sullo schermo e sembrano gigantesche, sembrano super umane, perché le dimensioni dello schermo le fa sembrare così. Ma nella vita reale non lo sono, anzi a volte sono persino piccolette». 

Essere ricordato come paparazzo le darebbe fastidio?

«Non ho mai inseguito le celebrity per il gusto di vederle cadere o riprenderle in situazioni imbarazzanti. Purtroppo oggi la parola paparazzo è abbinata a personaggi di poco gusto. Se io lo sono stato, lo sono stato con classe». 

·        Addio alla cantante Naomi Judd. 

Musica: addio a Naomi Judd, popolare diva country. (ANSA il 30 aprile 2022) Lutto nel mondo della musica: Naomi Judd, una popolare cantante e con la figlia Wynonna parte del duo The Judds e' morta a 76 anni. Ne hanno dato l'annuncio su Instagram le figlie, oltre Wynonna, anche Ashley, l'attrice e attivista del movimento #MeToo.

Naomi soffriva di depressione e le figlie hanno accennato alla "malattia mentale" della madre dando la notizia della morte: "Oggi noi sorelle abbiamo vissuto una tragedia. Abbiamo perso la nostra bellissima madre per una malattia mentale e siamo distrutte. Navighiamo in acque inesplorate".

La dichiarazione non indica una causa della morte. IL marito di Naomi, Larry Strickland, ha chiesto al pubblico di rispettare la privacy della famiglia. Naomi aveva parlato della sua lotta col 'male oscuro' in un memoir del 2016 dal titolo "Fiume del tempo: la mia discesa nella depressione e come sono emersa con speranza".

The Judds avevano accumulato negli anni 14 canzoni "number one" tra cui "Mama He's Crazy", "Why Not Me", "Girls Night Out" e "Rockin' With the Rhythm of the Rain". Avevano smesso di cantare in coppia quando Naomi nel 1991 si era ammalata di epatite, ma qualche giorno fa erano tornate sul palco a Nashville per i CMT Music Awards per una versione del loro hit del 1990 "Love Will Build a Bridge" accompagnate da un coro di cantanti gospel. (ANSA).

·        Addio all’attrice Jossara Jinaro.

Addio a Jossara Jinaro, l'attrice è morta a 48 anni: aveva recitato in "E.r. - medici in prima linea" e “Giudice Amy’. La Repubblica il 30 aprile 2022.   

Tra i film a cui aveva partecipato anche "World Trade Center" di  Oliver Stone. A dare la notizia su Facebbok è stato il marito, Matt Bogado.

Aveva recitato nella sua carriera di attrice in molte serie di successo come "Giudice Amy", "American Family", "E.R. - Medici in prima linea" e "Passions":  Jossara Jinaro è morta a causa un tumore all'età di 48 anni. L'annuncio della sua scomparsa avvenuta in Californa è stato dato dal marito Matt Bogado su Facebook. L'attrice lascia due figli Liam e Emrys..

Nel 1999 Jinaro aveva fatto il suo debutto in televisione vestendo i panni della figlia di Cheech Marin in "Giudice Amy", telefilm in cui è apparsa fino al 2005. Mentre nel 2004 aveva  recitato in "American Family" e dal 2005 al 2009 ed era stata Andrea Clemente in "E.R. - Medici in prima linea". Interprete della serie "East Los High", nel 2012 Jinaro aveva poi a iniziato a produrre i suoi cortometraggi, tra cui "Desert Road Kill".

Il suo curriculum cinematografico comprende "La casa del diavolo", un film di Rob Zombie, "Havoc", con Anne Hathaway, "Ten Tricks" con Leah Thompson, "Fly Boys", con Stephen Baldwin, "World Trade Center" di Oliver Stone, con Maggie Gyllenhaal e Michael Pena.

Nata a Rio de Janeiro, in Brasile, il 25 marzo 1973, Jossara Jinaro era cresciuta in Colombia come figlia adottiva di un diplomatico. Quando il suo patrigno fu tenuto in ostaggio dai guerriglieri, la famiglia si trasferì negli Stati Uniti.

 

·        È morto il procuratore Mino Raiola.

Mino Raiola. Mino Raiola gravissimo in rianimazione: l’affetto di Balotelli, la visita di Ibrahimovic. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Il re del calciomercato, procuratore di calciatori come Balotelli, Ibrahimovic, Donnarumma, al San Raffaele. Un post smentisce il decesso. Zangrillo: sta combattendo. Malato da tempo, 54 anni, a gennaio era stato operato.

Mino Raiola, il re del calciomercato, è ricoverato in gravissime condizioni e lotta per la vita. Il noto agente di calcio, 54 anni, manager fra gli altri di Mario Balotelli e Haaland, di Donnarumma e Pogba, è malato da tempo. Lo scorso gennaio ha subito un delicato intervento e nelle ultime settimane le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate. A tal punto che nella giornata di ieri s’era diffusa la notizia della sua morte, inizialmente confermata da fonti a lui vicine, ma poi smentita dal dottor Alberto Zangrillo, primario dell’unità operativa di Anestesia e rianimazione dell’ospedale San Raffaele, dove l’agente è ricoverato. «Si specula sulla vita di un uomo che sta combattendo» il duro attacco di Zangrillo, storico medico personale di Silvio Berlusconi e dal novembre scorso anche presidente del Genoa. Sui seguitissimi profili social del superagente italo-olandese è comparso invece questo messaggio: «Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazz... È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembrano anche in grado di risuscitarmi...». Ha parlato anche José Fortes Rodriguez, braccio destro del procuratore: «Sta molto male, è in una brutta situazione, ma non è morto». Nel pomeriggio a far visita a Raiola al San Raffaele è arrivato Zlatan Ibrahimovic, che all’agente è legatissimo da vent’anni. «Per me è come un padre» ha ammesso più volte il centravanti svedese del Milan, che conobbe Mino da ragazzino, quando all’Ajax non riusciva ancora a sbocciare.

Amato e odiato

Spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Amato dai suoi assistiti, come Ibra, appunto. O Donnarumma, che nel 2021, quando lascia il Milan, s’affida completamente al suo manager, con la fiducia che si dà solo a un padre, a un fratello: «Per me decide lui». E poi Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti, tutti convinti: «Mino è il migliore». Dal punto di vista del calciatore, verissimo: i soldi che ti fa guadagnare lui, con gli altri te li scordi. Un po’ meno bene gli vogliono i club, che spesso si vedono portare via i giocatori a zero euro. Mai visto però un dirigente che gli abbia chiuso la porta. «Dice sempre in faccia quello che pensa, anche le sue pretese economiche, esose ma chiare, per me è il migliore in circolazione — ha detto Beppe Marotta, a.d. dell’Inter —. Spero che possa ancora stare bene. A lui mi lega un rapporto di amicizia, basata su diversi scontri avuti. È preparato, furbo, scaltro, però molto corretto». Basta dire che parla sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce».

Campano cresciuto in Olanda

Nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem in Olanda, a 15 anni scopre fra i tavoli della pizzeria di famiglia di avere un particolare talento: sa come trattare i clienti, li fa sentire bene, sa dare consigli. Poi, a 18, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così parte la sua scalata. Una lunga carriera che l’ha portato a diventare un fuoriclasse del mestiere di procuratore, che reinterpreta: non più semplice rappresentante, ma intermediario. Il suo stratagemma è tanto semplice quanto geniale: i soldi del cartellino che fa risparmiare al club li fa incassare ai calciatori. Affarista nato, non sbaglia un colpo: come quando nel 2016 compra a Miami la villa che fu di Al Capone, spendendo 8 milioni: oggi ne vale il doppio. Nella classifica di Forbes è il quarto agente più pagato al mondo, con 84,7 milioni di dollari, circa 70 milioni in euro, guadagnati in commissioni. «Ma non guardo il mio conto corrente. Odio le banche. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare». Ieri anche Mario Balotelli, che gioca in Turchia, gli ha dedicato un messaggio: «Tieni duro, Mino. Ti voglio bene».

Mino Raiola, da Al Capone a 007, dalla nonna a McDonald’s: 10 cose che non sapete sul procuratore più famoso (e discusso) al mondo. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 29 Aprile 2022.

Parla sette lingue (olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano), è nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem (Olanda) e oggi vive a Montecarlo: ma questo non è tutto.

Poliglotta

Spregiudicato, scorbutico, ma anche scaltro e geniale: Mino Raiola parla sette lingue (olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano), è nato a Nocera Inferiore, cresciuto ad Haarlem (Olanda) e oggi vive a Montecarlo. Di mestiere cura gli interessi dei calciatori: da Ibrahimovic a Donnarumma, a Balotelli e Pogba, la sua è una flotta in continua espansione. Per loro negozia, litiga con i club, risponde a telefonate in piena notte. Dà loro consigli, li tratta come fossero di famiglia. Deve fargli ottenere il contratto migliore, spesso ci riesce. Come con Donnarumma, che nel Paris Saint Germain grazie a lui ha appena trovato un tesoro da 12 milioni a stagione per 5 anni. Tutti felici, ennesima vittoria (almeno economica) di un uomo di 53 anni partito dalla pizzeria di famiglia (dove serviva ai tavoli, non era in cucina come leggenda racconta) e arrivato ad essere uno degli agenti sportivi più potenti e discussi (vedi il recente caso Romagnoli) al mondo. Con qualche segreto.

Il rapporto con la nonna e la religione

Raiola crede in Dio, o comunque «in una potenza più forte di noi. Anche perché ho visto in mia nonna la personificazione del bene. Per me era una santa». Ecco, la nonna, una delle persone più importanti nella vita di Mino. «Avevamo un rapporto straordinario — ha raccontato in un’intervista a Sport Tribune —. Era analfabeta, ma mi ha cresciuto: è la donna più intelligente che ho mai conosciuto». Da lei Raiola ha imparato tutto: «Il suo ego non contava, si metteva sempre a disposizione di tutti: cucinava per chi tornava di notte, quando non aveva niente da fare lavava per terra nel ristorante, puliva le salviette e tovaglie cosi risparmiavamo soldi, e la mattina quando ti svegliavi alle sette trovavi già la salsa pronta».

Il primo affare: McDonald’s

Tra i tavoli della pizzeria di Haarlem Raiola scopre di avere un particolare talento: sa come trattare i clienti, li fa sentire bene. Gli chiedono consigli, cercano in lui delle risposte. Mino ha 15 anni, ma già si occupa dei conti della famiglia e parla con avvocati e fiscalisti. Entra, neanche maggiorenne, nel consiglio degli imprenditori della città. Poi, a 18 anni, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così parte la sua scalata.

La moglie Roberta, conosciuta a Foggia

Direttore sportivo dell’Fc Haarlem, a 24 anni porta Bryan Roy dall’Ajax al Foggia dei miracoli di Zeman per 2,2 miliardi di lire. Un accordo particolare, che prevede una riverniciata nella nuova casa del giocatore e un servizio taxi per almeno sette mesi. Mino, insomma, resta in Puglia. Qui conosce Roberta, la sua futura moglie: «Ci vediamo poco, e il grande segreto del mio successo». Stanno insieme da quasi trenta anni.

Papà Mario, la persona più importante

Perfezionista come papà Mario, ambizioso come mamma Annunziata: «Migliora te stesso, me lo ripeteva sempre». Sul padre: «Non è mai stato interessato ai soldi. Per comprargli un paio di pantaloni devi puntargli una pistola alla testa. Forse non lo sa neanche, ma è stato la persona più importante della mia vita. Non mi ha mai ostacolato, non mi ha mai detto che ero pazzo».

La vita a Montecarlo

Raiola vive a Montecarlo dal 1995, ufficio in Boulevard d’Italie. Una scelta di vita, ha spiegato, non legata ad interessi fiscali: «La gente pensa che sono andato via per le tasse ma non è vero. Qui la qualità della vita è altissima. A volte mi arrabbio con l’Italia. A Monaco vedo che le cose funzionano e mi chiedo: perché noi non lo possiamo fare? Perché non lo vogliamo. In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire».

Discendente di Al Capone?

Mino è uno dei discendenti di Al Capone? Possibile. La famiglia del gangster italo-americano è infatti originaria di Angri, proprio come quella di Raiola. E la madre di Alphonse, figlia di un contadino del posto, si chiamava Teresina Raiola. L’agente non ha mai confermato la presunta parentela ma, nel 2016, ha comprato a Miami per 8 milioni la villa che fu di Al Capone: otto camere, sei bagni, 3mila metri quadri di giardino. Solo una casualità?

Forbes: quarto agente più pagato al mondo

Si definisce «supercapitalista». Vuole che tutti siano più ricchi «anche nel calcio, per ottenere mega contratti per i migliori calciatori». Lui ci è riuscito: secondo Forbes è da anni uno degli agenti sportivi più potenti al mondo. Nella classifica del 2020 è quarto, con 84,7 milioni di dollari (circa 70 milioni in euro) guadagnati in commissioni. Eppure dice di non aver mai guardato il proprio conto corrente: «Odio le banche. Ho un fiscalista di fiducia che si occupa di tutto. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare».

Balotelli

Con i calciatori che rappresenta ha un rapporto molto stretto. Un esempio? Nell’ottobre del 2011 Balotelli gioca con i fuochi d’artificio nella sua casa di Manchester, scoppia un incendio: la prima persona che cerca, in piena notte, è proprio Raiola. Secondo cui «Mario capita che mi chiami tre volte in dieci minuti, Ibra anche cinque volte al giorno».

Il mito 007

Il suo mito è James Bond, l’agente segreto al servizio Sua Maestà Britannica. Nell’ufficio di Montecarlo le pareti sono tappezzate di locandine dei film di 007. Unica concessione le maglie di alcuni calciatori della sua scuderia.

Il rapporto con il sesso

Mino Raiola e il sesso: «Da giovane credevo di essere bravo a letto – ha detto sempre a “Sport Tribune “- Adesso non devo essere io a giudicarlo». Non ha mai dovuto pagare per farlo: «Ho sempre frequentato donne più grandi, mi hanno cresciuto loro, a 16 anni ne frequentavo una di 28. Non ho mai avuto la necessitàdi imparare dalle prostitute. In Olanda molte erano clienti del mio ristorante. Per loro ho un grande rispetto dato che fanno un lavoro difficile e molto apprezzabile».

Da gazzetta.it il 30 aprile 2022.

È morto all'età di 54 anni Mino Raiola. Il super agente di calciatori era malato da tempo e lo scorso gennaio era stato ricoverato all'ospedale San Raffaele di Milano. Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha lavorato nella pizzeria di famiglia prima di intraprendere la carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera fino a diventare uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale. 

Da Ibrahimovic a Robinho, da Pogba a Balotelli, da Lukaku a De Ligt, solo per citare alcuni dei trasferimenti principali con l'intermediazione di Raiola, che nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari secondo Forbes. Negli ultimi anni Raiola, assieme a Mendes, Barnett e Manasseh, ha creato un'associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

Da cinquantamila.it/ - La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Mino Raiola (Carmine R.), nato a Nocera Inferiore (Salerno) il 6 novembre 1967 (51 anni). Procuratore sportivo. Secondo l’ultima classifica della rivista Forbes (aggiornata al 25 settembre 2018), quinto agente sportivo più potente del mondo, con introiti da commissioni pari a 62,89 milioni di dollari 

Figlio di un meccanico, a neppure un anno di età emigrò al seguito dei genitori in Olanda, ad Haarlem, «in cerca di fortuna. Annunziata Cannavacciuolo, mia madre, era l’ambizione e l’orgoglio. Mio padre Mario l’idealismo. Vivevamo con uno zio panettiere e, se toglie la parte criminale, la casetta sembrava il set de Il padrino. Ragù, salami, spettacolini. Il periodo più felice della mia vita» (a Malcom Pagani). Lì i suoi genitori si reinventarono ristoratori: «Volevano rieducare gli olandesi: “Il cibo fa schifo, insegniamogli a mangiare”». 

«“Prima paninoteca, poi pizzeria, quindi ristorante di classe. Abbiamo vinto dei premi. Il segreto era usare prodotti italiani. Siamo di Angri, la terra dei pomodori San Marzano: 35 mila persone e 800 aziende che fanno pelati, è l’85% del mercato mondiale. […] Davo una mano a mio padre, che lavorava sette giorni su sette. Da lui ho imparato a non mollare. Intanto studiavo Giurisprudenza – mia madre ci teneva tantissimo –, e giocavo pure a pallone: nell’Haarlem, la squadra più vecchia d’Olanda. […] 

Ho cominciato a lavorare come intermediatore perché al ristorante venivano clienti olandesi che non capivano il modo di fare degli italiani. Commercianti che avevano ordinato merce che non arrivava mai, per esempio. Mi dicevano: Mino, pensaci tu. Io telefonavo. Risolvevo problemi. Ho fondato una società”. Nome? “Intermezzo, naturalmente… Comunque: a mangiare da noi veniva, ogni venerdì, anche il presidente dell’Haarlem con la moglie. La terza moglie. Gli dicevo sempre che di calcio non capiva niente. Un giorno mi prende e mi fa: senti, provaci tu. Mi ha nominato direttore sportivo. Lì mi sono scontrato con il problema dei problemi: per fare una squadra ci vogliono soldi. Noi non li avevamo”» (Paolo Crecchi). 

«Per il primo salto importante ci vuole la prima plusvalenza, che però è a base di hamburger. Sì, perché Raiola a 19 anni acquista un McDonald’s, che dopo due mesi rivende a prezzo maggiorato: con l’incasso mette su la prima azienda, che chiama “Maguire Tax & Legal” ispirandosi al film Jerry Maguire con Tom Cruise (ora gestisce anche la “Sportman” con sede a Montecarlo). La vera intuizione, però, è diventare il rappresentante unico dei giocatori olandesi in Europa grazie ad un accordo con il sindacato: è così che Raiola si presenta in Italia nel 1992, portando Bryan Roy al Foggia, poi Vink al Genoa e infine facendo da mediatore nella trattativa che trasferisce Bergkamp e Jonk all’Inter. 

Da lì sempre più contatti, più affari, e il boom con Nedved (dalla Lazio alla Juve), colpo che segna la svolta e un nuovo modo di fare il procuratore: più grano ai giocatori grazie ai diritti di immagine e più grane ai club» (Alessandro Dell’Orto). «Il talento di Raiola si mostra in tutta la sua perversa grandezza nel passaggio del centrocampista alla Juve, per 70 miliardi di lire (era arrivato dallo Sparta Praga per 9, per dire). […] D’accordo con Moggi e Cragnotti, che ha bisogno di un buon affare per dar fiato alle casse biancocelesti, porta, quasi di peso e a tradimento, Nedved a Torino. Il ceco non vuole lasciare la capitale, lui lo convince almeno a visionare le strutture bianconere. […] Appena scende dall’aereo privato, si trova davanti uno stuolo di cronisti e fotografi, convocati con uno scaltro passaparola da Moggi. Messo alle strette e ormai lontano, almeno metaforicamente, dalla Lazio, il centrocampista firma, per la felicità di tutti. Di lì a poco diventa uno degli imprescindibili di Lippi, nonostante l’iniziale ritrosia. […] Il resto delle prodezze e delle glorie del biondo sono storia recente, sotto gli occhi di tutti, Pallone d’Oro e Serie B compresi. Dietro, nell’ombra, pronto ad aiutarlo, parlare e intercedere per lui, c’è sempre l’uomo più furbo del mondo, Raiola. Lo difende nei primi tempi, quando stenta in campo, ancora afflitto “dal mal di Roma”, si ritira di buon grado quando esplode, tratta il suo passaggio (mancato) all’Inter, nell’anno del triplete» (Jacopo Rossi). 

«Particolare fu […] il suo primo incontro con Zlatan Ibrahimovic, ricordato così dallo svedese nella sua autobiografia Io, Ibra: “Misi la mia bella giacca di pelle di Gucci, il mio orologio d’oro, e parcheggiai la Porsche proprio davanti all’albergo: non avevo affatto intenzione di fare la figura del buzzurro. Entrai sicuro di me al ristorante dell’albergo, dove c’era un tavolo prenotato, immaginando un tizio in completo gessato con un orologio d’oro ancora più grosso del mio, invece… Ma che razza di individuo era quello che entrò dopo di me? In jeans e t-shirt Nike, e con quella pancia enorme… sembrava uno dei Soprano.

Chi diavolo è questo qui? Dovrebbe essere un agente quella specie di gnomo ciccione? E, quando ordinammo, cosa credete, che arrivò un piattino di sushi con avocado e gamberetti? No, arrivò una valanga di roba, cibo per cinque persone, e lui divorò tutto come un dannato! […] Sapete cosa fece quel bastardo sfacciato? Tirò fuori quattro fogli A4 su cui c’erano nomi e cifre, tipo ‘Christian Vieri: 24 gol in 27 partite’, ‘Filippo Inzaghi: 20 gol in 25 partite’, “David Trezeguet: 20 gol in 24 partite’, ‘Zlatan Ibrahimovic: 5 gol in 25 partite’. Poi Raiola chiese: ‘Credi che possa venderti con una statistica del genere? Tu ti credi tanto figo, eh?

Credi di potermi impressionare con il tuo orologio e la tua Porsche, ma non è così. Io trovo che siano tutte cazzate. Vuoi diventare il migliore del mondo, oppure quello che guadagna di più?’. Risposi: ‘Sì, il migliore del mondo’. ‘Allora bene, perché se diventi il migliore del mondo poi arriverà tutto il resto, ma se insegui solo il denaro allora non otterrai mai niente, capisci? Allora pensaci su e poi mi fai sapere, ma se vuoi lavorare con me devi fare come dico io. Dovrai vendere tutte le tue macchine, tutti i tuoi orologi e cominciare ad allenarti tre volte più duramente, perché adesso la tua statistica fa schifo’”» (Daniele Roselli). 

«Dopo i saluti i due si separano. Ibra rimane impressionato dalla grinta del suo interlocutore. Una volta seduto in macchina Ibra non ha più remore: “È la persona che fa per me”. Era il 2003. Da quel giorno inizia l’escalation tecnica ed economica di Zlatan» (Tiziano Crudeli). «Attorno a Ibra ruota molta della fortuna e della mitologia di Raiola. Ogni cambio di squadra è stato un colpo per il calciatore e per l’agente. E Zlatan ne ha cambiate sette» (Beppe Di Corrado).

«Un capolavoro, finché il ragazzo ha collaborato, è stata anche la gestione di Balotelli, che a Liverpool firmò un contratto da 6 milioni di euro a stagione. In Inghilterra Raiola voleva portare anche Hamšik, che però aveva altri progetti di vita. Rimase a Napoli, e i due ruppero: fu una delle poche volte in cui le cose non andarono come Mino esigeva» (Dario Falcini). Particolarmente fortunata l’estate del 2016, quando «"Re Mino" ha rotto anche l’ultimo argine, quel Manchester United nel quale non era mai riuscito ad entrare durante il regno di Alex Ferguson ("Non mi è mai piaciuto, di lui subito diffidai", raccontò).

A Manchester ha portato Pogba, Ibrahimovic a costo zero e Mkhitaryan, e in cambio è stato ricoperto d’oro. Dall’operazione Pogba, Mino ha incassato 25 milioni dalla Juve (da sottrarre ai 105 incassati dai bianconeri) e altri 10 dal Manchester United (in questa cifra ci sarebbe anche un bonus per Ibra a zero). Ancora 8 sono arrivati sempre dallo United per l’affare Mkhitaryan con il Borussia Dortmund. Altri 6-7 (e la stima è al ribasso) Mino li fattura grazie alle commissioni sugli ingaggi dei suoi assistiti, che per lui oscillano tra il 5% e il 7% sul lordo: Zlatan, Mkhitaryan, Paul hanno firmato contratti stellari. Senza dimenticare anche Van der Wiel, passato a parametro zero al Fenerbahçe» (Mario Pagliara). 

Durante l’estate del 2017 Raiola finì al centro delle polemiche insieme al suo assistito Donnarumma per le lunghe esitazioni che precedettero il rinnovo del contratto del giovane portiere con il Milan. «Rinnova? Non rinnova? Raiola lo tiene al sicuro, mentre le voci sul suo rinnovo si sprecano. Sul giovane Gigio ci sono Real Madrid e big di pari blasone: il Milan, all’improvviso, dopo baci e promesse, sembra lontanissimo. […] Quasi tutta l’Italia tifosa si scaglia contro il traditore guantato e, soprattutto, contro la sua eminenza grigia. Mino […] se ne frega egregiamente. […]

Dopo alcune settimane deliranti, costellate da tweet di odio e amore, Donnarumma firma il rinnovo tanto atteso: guadagnerà sei milioni annui. La vicenda riserva anche una parentesi commovente: […] suo fratello maggiore Antonio, qualitativamente ben più modesto, che difende i pali dell’Asteras Tripolis, passa ai rossoneri per un milione all’anno» (Rossi). Piuttosto deludente, invece, l’estate del 2018. «Non è il declino di un impero: 

Mino Raiola resta Mino Raiola, uno dei più potenti agenti del circo pallonaro, ma, nell’estate di Cristiano Ronaldo alla Juve, il procuratore nato in Italia e cresciuto in Olanda non è riuscito a piazzare alcun pezzo grosso della sua scuderia: Pogba, Donnarumma e Verratti sono rimasti dov’erano a giugno. Balotelli non si è schiodato da Nizza. Persino il giovane Kean è congelato alla Juve. Zlatan Ibrahimovic ai Los Angeles Galaxy, il viale del tramonto perfetto: nell’anno solare 2018 è stato l’unico affare raiolesco di discreto rilievo mediatico. 

Per il resto, trasferimenti di nicchia o di prospettiva, per esempio la bella promessa Justin Kluivert dall’Ajax alla Roma. Investimenti sul futuro, medio cabotaggio, mentre a Oporto la GestiFute di Jorge Mendes orchestrava il colpo del decennio, l’operazione CR7 a Torino. […] Oggi il principale problema di Raiola sembra essere la "Portuguese Connection". Il portoghese Mendes gli ha rubato la scena del mercato e lo ha sorpassato nelle relazioni con la Juve, un tempo riserva di caccia di Mino grazie al rapporto ruspante con Luciano Moggi. Il portoghese José Mourinho gli ha dichiarato guerra al Manchester United, con Paul Pogba come soggetto del contendere: lo Special One e il francese si sono beccati e di botto è franata l’apparente intesa tra Mou e Raiola. […] La Juve, per Raiola, può essere una buona sponda per uscire dall’angolo. Un anno fa Mino ha portato Matuidi a Torino, a gennaio potrebbe restituire Pogba alla Signora. Si formerebbe una coppia di francesi campioni del mondo e ritornerebbero in mente i tempi d’oro, quando Raiola, giovane e rampante, faceva affari con Moggi e gli lasciava in dote gente del livello di Nedved e Ibrahimovic. Mino in declino? Si prega di attendere» (Sebastiano Vernazza) 

«Già che c’è, diventa ricco anche lui, abbastanza da comprarsi la villa di Al Capone. Continuano a dargli del “pizzaiolo”, come se arrivare a fatturare 500 milioni in commissioni partendo da un ristorantino della provincia olandese fosse una colpa da espiare e non una medaglia al valore; lui non si scompone e li corregge: “Veramente, facevo il cameriere”. Il metodo Raiola si basa su due assunti elementari. Il primo: meno soldi si spendono per i cartellini, più ne restano per salarî e provvigioni. (Corollario: se non è possibile limitare l’entità del trasferimento, tanto vale garantirsi una fetta anche di quello: vedi l’affare Pogba). Il secondo: ogni volta che un calciatore fa le valigie, si può creare valore. L’accusano di spostare i suoi assistiti come pedine: eppure sono loro a firmare i contratti: quelli con le società, s’intende, perché i rapporti con Mino, invece, si reggono sulla fiducia reciproca. Ma chi lo sposa difficilmente l’abbandona.

Anche perché Raiola, con il suo stile rusticano, è il perfetto parafulmine. Ti riempie le tasche e ti salva la faccia» (Massimiliano Trovato). «Io penso che quando un giocatore decide di andare via da una squadra debba andare via. Non ho mai fatto compromessi, lavoro esclusivamente nell’interesse del mio assistito, i giocatori sono la mia fortuna e ho una grande responsabilità verso di loro. Comunque non ho mai compiuto azioni scorrette o azioni che io, personalmente, non reputo corrette. […] I vecchi procuratori facevano gli interessi delle società. Per me, prima viene il calciatore»

Risiede da molti anni nel Principato di Monaco, insieme alla moglie e ai due figli («belli, perché hanno preso dalla mamma»)

«Io ho praticato thai boxe, fantastica. Il calcio in certe partite è un gioco noioso, diluito in 90 minuti. Nella boxe invece ti giochi tutto in 3 minuti, non puoi mai distrarti: c’è un’adrenalina pazzesca, non senti il dolore. O, meglio, sì, ma dopo. Tyson diceva che i suoi avversari avevano sempre un piano, che però saltava appena lui li menava. Ecco: io sul ring non sono mai salito. Ero troppo buono: ero preoccupato di fare male…» (a Marco Lombardo)

«Parla otto lingue: italiano, francese, inglese, olandese, tedesco, spagnolo, portoghese “e naturalmente napoletano”. Raiola, […] come ha fatto? “Non è intelligenza, è preparazione: guardavo Disney in originale a tre anni. A quattro, in Olanda, cominciano a insegnarti la seconda lingua. Poi metti che chi parla olandese impara molto facilmente il tedesco, che spagnolo e italiano sono simili… Il portoghese l’ho studiato per trattare i calciatori brasiliani”» (Crecchi)

«Brutto, sporco e ciccione, Carmine “Mino” Raiola non è mai venuto meno al suo cliché di procuratore plebeo: quello che vestendo i panni del topo di campagna si è sempre fatto gioco dei topi di città, tutti tessera e distintivo, incontrati sul suo cammino» (Paolo Ziliani). «La verità è che Raiola, per il calcio è il personaggio del decennio. È stato lui a trasformare definitivamente il procuratore in protagonista. Ha preso il suo ruolo e l’ha fatto uscire dall’ombra delle stanze in cui si fanno gli affari, e l’ha messo di fronte alla telecamera.

Un Don King senza i capelli dritti e gli occhiali, ma con la stessa capacità di fare show a ogni dichiarazione. È il re del tavolo: si siede e alza il prezzo. Con la squadra di provenienza e con quella che è interessata al suo giocatore. Il mestiere è questo, in fondo: fare in modo che il suo assistito venga pagato di più, cosicché anche l’agente aumenti i suoi compensi. La semplicità dell’ovvio, che per paradosso complica l’estate e anche l’inverno di tifosi, allenatori, compagni, avversari. Perché i procuratori alimentano passioni e tensioni, fanno entusiasmare e deprimere. “Ogni soluzione è possibile”, dice Raiola dei suoi ragazzi» (Di Corrado).

«Non sono un tassista. Gestisco gente, di cui sono orgogliosissimo, che non è mai uscita dalla provincia. Il mio mestiere è aiutare le persone a trovare la loro dimensione, a credere nell’incredibile. Con i ragazzi non ci sono contratti. Basta una stretta di mano: o tutto o niente. Ci troviamo e ci capiamo, però se non ci capiamo più, poi, liberi tutti»

«Ai calciatori domando: “Vuoi diventare il più pagato o il migliore?”. Se rispondono “il più pagato”, gli indico la porta. Il pittore che dipinge un quadro per denaro e non per passione non lo vende. I soldi sono molto importanti, ma se li insegui non arriveranno mai e con il tempo finisci per capire che c’è sempre qualcuno più ricco di te»

«Mi piacerebbe comprare una società e fare di testa mia. Anzi, penso proprio che un giorno lo farò!». «Fui più vicino di Pallotta a comprare la Roma con alcuni soci. Avrei voluto rifondarla iniziando dall’allontanamento di Totti. Lui è un pezzo di storia, ma volevo partire con volti nuovi e senza pesanti eredità. All’epoca, UniCredit, piena di sportelli in città, non era proprio entusiasta»

«Ferguson dice di non aver mai odiato nessuno tranne me. È un grande complimento. Se non hai nemici, non hai lavorato bene. Le cose normali, le fanno tutti. Io muovo l’aria. Muovo i sogni. E ogni tanto faccio incazzare qualcuno». 

Mino Raiola è morto: l’annuncio della famiglia su Twitter. Il procuratore aveva 54 anni. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è morto: a dare la notizia la famiglia. Era stato operato lo scorso gennaio. Era uno dei procuratori di calciatori più potenti, ricchi e controversi del mondo: tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Donnarumma, Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti.

Mino Raiola è morto. L’annuncio è stato dato dalla famiglia del procuratore — uno dei più potenti e famosi del calcio mondiale. Nato il 4 novembre 1967 a Nocera Inferiore, era malato da tempo e lo scorso gennaio era stato operato all’ospedale San Raffaele di Milano. In quei giorni il suo entourage parlò di controlli medici programmati e smentì la voce di un «intervento d’urgenza».

«Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre», si legge nel tweet della famiglia. «Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore». 

IL RITRATTO

«Mi danno del pizzaiolo, ma che offesa è?», chi era Raiola

Nella giornata di giovedì la notizia della sua morte aveva iniziato a circolare ed era stata ripresa da diversi media, tra cui il Corriere, cui era stata confermata da fonti vicine al procuratore. L'ospedale San Raffaele aveva però smentito la morte di Raiola, confermando che le sue condizioni fossero gravissime: «Sta combattendo», aveva detto Alberto Zangrillo , primario dell'Unità operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele.

Dal profilo Twitter di Raiola era stato inviato un messaggio che recitava: «Il mio stato di salute, per chi se lo stesse chiedendo: furioso perché per la seconda volta in 4 mesi mi hanno ucciso. Mi sembra di essere in grado di risuscitare». Oggi, proprio da quel profilo — oltre che dall'Ospedale San Raffaele — è arrivata la notizia della morte del procuratore. 

Originario della Campania, cresciuto ad Haarlem in Olanda, Raiola a 15 anni aveva scoperto fra i tavoli della pizzeria di famiglia di avere un particolare talento: sapeva come trattare i clienti, sapeva dare consigli. 

Poi, a 18, il primo vero affare: compra un McDonald’s che poi rivende molto bene per fondare una società di intermediazioni, la Intermezzo spa. Così era partita la sua scalata. Una lunga carriera che l’aveva portato a diventare un fuoriclasse del mestiere di procuratore, che reinterpreta. Cambia le regole d’ingaggio: non più semplice rappresentante, ma intermediario. Il suo stratagemma è tanto semplice quanto geniale: i soldi del cartellino che fa risparmiare al club li fa prendere ai calciatori.

Affarista nato, non sbaglia un colpo: come quando nel 2016 compra a Miami la villa che fu di Al Capone, spendendo 8 milioni: oggi ne vale il doppio. Nella classifica di Forbes era il quarto agente più pagato al mondo, con 84,7 milioni di dollari, circa 70 milioni in euro, guadagnati in commissioni. «Ma non guardo il mio conto corrente. Odio le banche. Ho un fiscalista di fiducia che si occupa di tutto. Io in banca non ci voglio nemmeno entrare», aveva detto.

«Mino è la mia famiglia», aveva detto di lui, nella sua autobiografia, Zlatan Ibrahimovic, uno dei suoi assistiti, che giovedì era andato a trovarlo in ospedale. 

«Mino è il migliore», dicevano di lui Donnarumma, Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti. 

Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce», diceva.

Numerose le reazioni del mondo del calcio: il presidente della Juventus Andrea Agnelli ha scelto un tweet affettuoso scritto in inglese per ricordare Raiola: «Non prendere in giro in Paradiso, sanno la verità. Ti voglio bene Mino». Gli fa seguito l’ad dell’Inter, ed ex bianconero, Beppe Marotta. «Sono affranto e dispiaciuto per la scomparsa di Mino — le parole di Raiola —. È stato un amico e un interlocutore nell’attività lavorativa, una persona di qualità ed elevata competenza. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto, ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità». Marotta ricorda quando Raiola fu artefice della «doppia operazione su Pogba, con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juventus al Manchester United». «Un grande capolavoro» dice il dirigente del club nerazzurro. Adriano Galliani, storico ad del Milan, oggi al Monza, lo ha invece ricordato così sempre sui social: «Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace».

«Mi danno del pizzaiolo, ma che offesa è?»: chi era Mino Raiola «il procuratore più straordinario». Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 30 aprile 2022.

Spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Mino Raiola ripeteva: «Chissà perché mi danno del pizzaiolo. Io facevo il cameriere. Ma poi, che offesa è?». La famiglia: «Il procuratore più straordinario di sempre». 

È morto all'Ospedale San Raffaele di Milano il procuratore dei campioni Mino Raiola: aveva 54 anni. L'annuncio della famiglia in un tweet: «Il procuratore più straordinario di sempre»

Suite privata all’ultimo piano del Monte-Carlo Bay Hotel, duemila euro a notte, luglio 2017. Il caldo è tremendo, ma il clima della Costa d’Azzurra c’entra fino a un certo punto. È l’estate bollente di Gigio Donnarumma, 17 anni, corteggiato da mezza Europa: il braccio di ferro fra Mino Raiola e il Milan dei cinesi va avanti da mesi, senza sosta, a colpi di taglienti dichiarazioni a mezzo stampa fra il d.s rossonero Mirabelli e l’agente del portiere, che a sorpresa convoca una conferenza per la domenica più calda dell’anno.

Da Milano partono i giornalisti, tutti in giacca e camicia, che a Montecarlo è meglio, si sa mai. Arriva lui. In costume, una specie di bermuda da bagno, come quello che indossava al primo famoso incontro con Ibrahimovic, nel 1999. Scende dalla Mercedes, guarda tutti, sghignazza: «Come cazzo vi siete vestiti?». Si sale alla suite. Un inserviente entra con le bevande fresche. Mino lo ferma sull’uscio: «Tranquillo, ci penso io». Lo fa davvero. Prende i bicchieri e serve uno a uno. «Chissà perché mi danno del pizzaiolo. Io facevo il cameriere. Che poi, mi sono sempre chiesto, che offesa è dare a uno del pizzaiolo?».

Già, che offesa è? Mino era questo: spiazzante, eccessivo, geniale, genuino, divisivo. Amato e odiato. Amato dai suoi assistiti, come Ibra, che nell’autobiografia racconta: «Mino è la mia famiglia». O Donnarumma, che nel 2021, quando poi lascia davvero il Milan, s’affida completamente al suo manager, con la fiducia che si dà solo a un padre, un fratello, forse: «Per me decide lui». E poi Pogba, Haaland, Balotelli, Verratti, tutti convinti: «Mino è il migliore». Dal punto di vista del calciatore, verissimo: i soldi che ti faceva prendere lui, con gli altri te li scordavi. Un po’ meno bene gli volevano le società, che spesso si sono viste portare via i giocatori a zero euro. Mai visto però un dirigente che gli abbia chiuso la porta. Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. «Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce».

Mino Raiola, è morto il noto procuratore di calciatori. Emanuele Gamba su La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Il famoso agente di giocatori aveva 54 anni ed era malato da tempo. Le condoglianze e i ricordi dei protagonisti del mondo del pallone.

Mino Raiola è morto a 54 anni. A dare la notizia è stata la famiglia del più famoso procuratore del mondo del calcio, con un comunicato pubblicato sul profilo Twitter dell'agente: "Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto". Per poi aggiungere: "Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione". 

"Ringrazieremo di cuore - si legge ancora - coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore". Raiola era stato operato a gennaio, le sue condizioni erano già gravi. Era malato da tempo.

Raiola era nato a Nocera Inferiore, cresciuto in Olanda, aveva iniziato a lavorare da ragazzino nella pizzeria dei genitori. Era tra gli agenti più ricchi. Curava gli interessi di giocatori del calibro di Ibrahimovic, Pogba, Verratti e Donnarumma: le trattative con le società erano estenuanti. Non si alzava e non si concludevano fino a quando non era riuscito a strappare il miglior contratto a vari zeri per i suoi assistiti. Giovedì si era sparsa la notizia della sua morte, ma era stata smentita da ospedale e famiglia.

Agnelli: "Non prendere in giro in Paradiso, ti voglio bene"

"Non prendere in giro in Paradiso, loro conoscono la verità...tvb Mino". Con questo affettuoso messaggio, scritto in inglese ("Don't take the piss in paradise, they know the truth..."), il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, ha salutato su Twitter l'amico Mino Raiola.

Marotta: "Perdiamo un amico e un grande professionista"

Anche l'ad dell'Inter, Beppe Marotta, ha voluto ricordare Raiola: "Sono affranto per la scomparsa di Mino, un amico e una persona di elevata competenza. Il mondo del calcio perde un grande professionista. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità. I ricordi - ha raccontato Marotta - sono tanti, uno su tutti la doppia operazione su Pogba con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juve allo United. Un grande capolavoro in cui Raiola ha avuto un ruolo importante. Il mondo del calcio perde un grande professionista, spesso critico con il sistema ma la sua critica era molto costruttiva per un calcio sempre migliore".

Il Milan: "Ci stringiamo intorno alla famiglia Raiola"

Lo stemma del Milan e il simbolo del lutto per ricordare Mino Raiola. Così la società rossonera ricorda il re dei procuratori, stringendosi intorno alla sua famiglia. "AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa".

De Laurentiis: "La scomparsa di Raiola ci addolora"

"La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia". È il cordoglio del presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, su Twitter per la scomparsa dell'agente italo-olandese.

Galliani: "Innovatore e amico leale"

"Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace". Questo il messaggio comparso sul profilo Twitter del Monza.

Capello: "Per me Raiola significa Ibrahimovic"

"Per me Mino Raiola è legato a Ibrahimovic, la prima volta che l'ho conosciuto era il suo procuratore". È questo il primo ricordo di Fabio Capello del procuratore scomparso il 30 aprile dopo una lunga malattia. "Era una persona a posto. Ha costruito una fortuna e nel senso buono, con grande capacità: ha dimostrato di saper fare quello che deve saper fare un procuratore".

Moggi: "Lo consideravo quando tutti lo chiamavano pizzaiolo"

"Mino Raiola era un amico, è nato con me quando ero direttore generale della Juventus - ha detto Luciano Moggi a Tuttomercatoweb -. "Quando tutti lo chiamavano pizzaiolo, io gli davo massima considerazione perché avevo capito chi era. Mi dispiace che tanti abbiano giocato sulla sua morte quando non era vera".

L'Udinese: "Riferimento del calcio mondiale"

"Gino Pozzo e tutta l'Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale. Alla famiglia Raiola vanno le più sentite condoglianze".

Quando Ibra scelse Raiola: tra insulti, sushi per sette e una camicia hawaiana. La Repubblica il 30 aprile 2022. Il primo incontro tra il campione svedese e il procuratore di origine italiana non fu dei più canonici: nel 2003 al ristorante tra offese e confronti con i migliori attaccanti del momento scattò subito la scintilla di un legame rimasto sempre saldo. Zlatan: "Me lo avevano detto, tra tutti sceglierai lui, perché è identico a te".

È morto a 54 anni Mino Raiola, il re dei procuratori. Ma fino al 30 aprile 2022, giorno della sua scomparsa, ha sempre curato gli interessi di grandi campioni. Uno su tutti, Zlatan Ibrahimovic. In un ambiente come il calcio, in cui i cambiamenti sono all'ordine del giorno, il rapporto tra Ibrahimovic e Raiola è stato tra quelli più duraturi tra agente e calciatore. Molto probabilmente perché andato ben al di là dell'ambito professionale, tra due personaggi troppo simili come carattere e modo di essere per non amarsi completamente, di certo tra i più carismatici e caratteristici del mondo del pallone internazionale.

Lo dimostra proprio il modo in cui è nato quel legame, quasi per caso, di sicuro non banale: nel 2003, quando un giovane fuoriclasse, alla seconda stagione all'Ajax, cosciente della propria forza e delle proprie capacità atletiche, ma la cui personalità spigolosa aveva già fatto parlare di sé dentro e fuori il campo, scelse un ambizioso procuratore, che stava facendosi largo in Olanda e prendendo il proprio spazio all'interno di un universo di agenti senza quasi regole scritte.

Quel primo incontro fra offese e sushi per sette

Il giovane Zlatan aveva solo 22 anni, ma sapeva mettere in riga già chiunque, tanto da ritrovarsi senza un procuratore valido proprio nel momento in cui la sua carriera era in rampa di lancio. In Olanda aveva già vinto il campionato, ma non era ancora esploso: "le cose non andavano come volevo, cercavo qualcuno che mi valorizzasse e credesse in me", confesserà poi, anche fosse un pacioccone emigrato italiano, vestito male e con poca cura dell'apparenza.

Non a caso, il primo incontro tra i due avvenne al ristorante, in modo quasi informale. Iniziò con un paio di insulti e cattivi pensieri, finì con un sodalizio che non si è più interrotto, a distanza di quasi venti anni. A rivelarlo gli stessi interessati in vari aneddoti, retroscena e racconti. "Zlatan decise di firmare con me perché fui il primo - e forse l'unico - a dirgli che era uno stronzo. Tutti gli altri gli dicevano solo delle belle cose, io invece gli avevo detto la verità, per renderlo migliore. L'ho guardato e gli ho detto: pensa a lavorare di più", la versione di Raiola.

Dal canto suo, Ibrahimovic non fu da meno. A vedersi di fronte quella persona di origini italiane, vestita con "dei pantaloncini colorati, una maglietta della Nike e una camicia hawaiana sbottonata", era convinto di aver preso una classica topica. "Uno si aspetta che un procuratore si vesta bene, lui non era così. Andiamo in un ristorante a mangiare sushi e ordina per sette. 'Ma siamo solo 3, chi mangerà tutta questa roba?', gli chiesi. 'Non ti preoccupare', la sua risposta".

Da lì a qualche istante, scattò la classica scintilla. Galeotti furono gli attaccanti che a quel tempo andavano per la maggiore in Italia e in Europa, come spiega ancora Zlatan: "Mi presentò un foglio con le statistiche dei gol di Shevchenko, Inzaghi, Vieri e di molti altri centravanti. Poi, guardò la mia cartella e mi disse che, dal momento che avevo segnato solo 4 gol in 21 partite, vendermi sarebbe stato impossibile. Mi fece pesanti critiche. Ricordo che lo guardai sorridendo e gli dissi che, se avessi avuto i numeri di Shevchenko, anche mia madre mi avrebbe potuto vendere ed era per quello che mi serviva lui. Scoppiò a ridere". 

Raiola quasi un secondo padre per Ibra

Una delle classiche bugie 'alla Raiola', capace comunque di far scattare fra i due la classica scintilla. Da lì in poi l'attaccante svedese varrà qualcosa oltre i 200 milioni di euro, in trattative continue con i migliori club del mondo (Juve, Inter e Milan in serie A e poi Barcellona, Manchester United, Psg, LA Galaxy), e capace di fare notizia anche oltre la soglia dei 40 anni. Sempre consigliato per il meglio (di tutti e due ovviamente) dal fido Mino, come con l'ultima 'drittà di riportarlo - dopo la parentesi a stelle e strisce - in Italia, al Milan, al momento giusto con le opzioni giuste. "Me l'avevano detto: ti piacerà il procuratore italiano. Perché? Perché è uguale a te", ha ricordato Zlatan tornando a quel suo primo incontro con Raiola, definito in più occasioni quasi come un secondo padre.

Raiola, la prima missione impossibile: Nedved dalla Lazio alla Juventus e quella commissione da sei miliardi di lire. Giulio Cardone La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Morte Mino Raiola: i suoi giocatori e i colpi di mercato. Il procuratore ha scoperto molti campioni e curato i loro interessi. Da Nedved a Ibrahimovic, fino a Donnarumma.

Se n'è andato a 54 anni il 30 aprile 2022, Mino Raiola. Il re dei procuratori, una vita vissuta tra trattative e trasferimenti. Quando la sua famiglia si trasferisce dalla Campania all'Olanda, comincia a lavorare come cameriere, studia giurisprudenza e impara cinque lingue oltre all'italiano. Da giovane, fonda una società di intermediazione commerciale. Ma ben presto si dedica al mondo del calcio, diventando il direttore sportivo dell'Haarlem, sempre nei Paesi Bassi. Si assicura poi la rappresentanza dei calciatori olandesi all'estero. Si accorda col sindacato dei giocatori e, in questo ruolo, nel 1993, cura il trasferimento di Dennis Bergkamp dall'Ajax all'Inter. Inizia poi la carriera di agente Fifa, fonda la sua società con sede a Montecarlo, la Sportman, e inizia a trattare diversi giocatori nel campionato italiano.

Pavel Nedved

Pavel Nedved è stato scoperto proprio dall'agente italo-olandese, che ha curato il passaggio del ceco dallo Sparta Praga alla Lazio di Cragnotti nel 1996 per 3 milioni di euro. E successivamente è stato il mediatore per il trasferimento alla Juventus nel 2001, costato la bellezza di 35 milioni di euro.

Zlatan Ibrahimovic

La prima squadra a cui Raiola bussa alla porta per Zlatan Ibrahimovic è la Juventus, che non si fa scappare l'occasione e nell'estate del 2004 paga 14 milioni di euro per assicurarsi il bomber svedese dell'Ajax. Dopo la sentenza di Calciopoli che condanna i bianconeri alla retrocessione in Serie B, Raiola tratta il passaggio di Ibra all'Inter. Il costo dell'operazione è di 21 milioni di euro.

Nel 2009, l'agente è l'artefice dell'operazione di calciomercato più clamorosa di quella estate. Ovvero il trasferimento di Zlatan Ibrahimovic dall'Inter al Barcellona per 46 milioni di euro più Samuel Eto'o. Dopo un anno in Spagna, lo svedese torna in Italia, ma al Milan che lo paga 20 milioni. Nell'estate 2012, lo svedese va al Psg, pagato 18 milioni di euro. A Parigi ci resta quattro anni per poi passare a parametro zero nel 2016 al Manchester United, dietro un compenso di quasi 12 milioni di euro. Quindi la breve parentesi ai LA Galaxy fino al ritorno al Milan nel 2020.

Mario Balotelli

È proprio Ibrahimovic, durante la sua permanenza all'Inter, a consigliare Mario Balotelli a Mino Raiola. Il primo botto arriva nel 2010, quando l'attaccante bresciano lascia l'Inter post-triplete per andare in Premier League con il Manchester City. 25 milioni di euro il prezzo del cartellino, con un ingaggio da top player. Nel 2013 passa al Milan, che spende 17 milioni per riportarlo in Italia. Ma dopo appena 18 mesi torna in Inghilterra, stavolta al Liverpool che sborsa 17 milioni per il suo cartellino. Dopo il ritorno in rossonero nel 2015, la carriera di Mario declina con passaggi al Nizza, Marsiglia, Brescia, Monza, fino ai turchi dell'Adana Demirspor.

Paul Pogba

Paul Pogba è il capolavoro di calciomercato di Mino Raiola. Lo porta alla Juventus a parametro zero nell'estate 2012, a soli 19 anni, dopo aver convinto il francese a non rinnovare con il Manchester United. L'agente poi riesce a rivendere Pogba proprio ai Red Devils (che lo avevano formato nel loro vivaio) nel 2016 alla cifra record di 110 milioni di euro, di cui 27 spettano al procuratore. Con un ingaggio più che triplicato per il centrocampista.

Gianluigi Donnarumma

Per Gianluigi Donnarumma, nel 2017 Raiola riesce a strappare al Milan un contratto di cinque anni a sei milioni di euro a stagione. L'agente inoltre fa approdare in rossonero anche il fratello Antonio, pagato un milione di euro, come terzo portiere. Nell'estate del 2021 Gigio decide di non rinnovare col club meneghino e si trasferisce a parametro zero al Psg. L'ingaggio iniziale ammonta a 7 milioni più bonus.

Il calciomercato di Mino Raiola: le citazioni del procuratore morto. Se n'è andato il re delle trattative. Sempre diretto, ecco le frasi che hanno contribuito a renderlo celebre nel mondo del calcio. La Repubblica il 30 aprile 2022.  

Mino Raiola, vero nome Carmine Raiola, è nato a Nocera Inferiore il 6 novembre 1967. Morto il 30 aprile 2022, è stato uno dei procuratori sportivi più influenti nel mondo del calcio. Tanti i giocatori famosi che sono finiti sotto la sua ala protettrice. Ricordiamo, tra gli ultimi, Zlatan Ibrahimovic, Gianluigi Donnarumma, Paul Pogba ed Erling Haaland. C'è chi lo considerava un vero e proprio mago delle trattative, e chi lo additava come un 'mercenario' troppo concentrato sui soldi e sul guadagno. Restano celebri alcune sue frasi pronunciate durante la sua carriera. Vediamone alcune. Cominciamo dalla sua filosofia di vita e lavoro, partendo proprio dal messaggio scritto su Twitter quando quasi tutti i media lo avevano dato già per deceduto:

"Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato! E? la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembrano anche in grado di rianimare".

Le migliori frasi di Raiola

"Più mi metti i bastoni tra le ruote e più mi diverto".

"In Italia dove c'è la voglia di qualcuno, c'è sempre l'ostruzione di qualcun altro".

"In Italia dovrei fare il procuratore dei politici, con quelli che passano da destra a sinistra ci farei i miliardi".

"In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire".

"Non mi è mai interessato quello che pensano di me, al di fuori della mia famiglia e dei miei amici, che sono pochi".

"Io sono un super capitalista. Il super capitalista vuole tutti più ricchi. E io sono così. Io voglio che diventano tutti ricchi nel calcio, così posso offrire grandi contratti a grandi giocatori, il sistema diventa più ricco, diritti tv più ricchi, tutti più ricchi".

"Io mi arrabbio molto coi miei figli quando mi dicono 'questo non si può fare'. Che cosa? Tutto si può fare. Se hanno inventato i telefoni che si toccano, se possiamo mandarci le fotografie, se possiamo guardare fra uno e l'altro... tutto si può fare".

"Il mio conto corrente? Mai guardato in vita mia. Odio le banche. La mia azienda non è mai stata finanziata dalle banche, è sempre stata finanziata dal mio lavoro, dai miei investimenti; ho un fiscalista di mia fiducia che si deve occupare di tutte le cose di banca e il direttore di banca che sa che io lì non ci voglio nemmeno entrare"

Raiola, frasi celebri sui calciatori

"Pensate ai quadri di maggior valore al mondo, come la Gioconda o l'Urlo. La gente sta lì, a guardarli a distanza e sembra stupida. Il Psg e il Manchester City possono permettersi di sognare questi quadri. Con l'acquisto di Zlatan Ibrahimovic, il Paris Saint-Germain può coronare un sogno".

"Il rapporto con i miei giocatori? Dipende... Pavel Nedved ti chiamava una volta ogni tre mesi, Zlatan può chiamarmi anche cinque volte al giorno, Mario Balotelli mi può chiamare tre volte in 10 minuti, poi se le cose vanno come dice lui non ti chiama per tre settimane e poi quando lo chiami tu, ti fa: 'Che e? successo?'. È cresciuto molto ultimamente".

"Cosa può essere Pogba? Senza dubbio un Salvador Dalì per quanto sia prezioso e importante".

"Zlatan Ibrahimovic somiglia a Brad Pitt quando interpreta Benjamin Button, l'uomo che ringiovanisce giorno dopo giorno. Ha un'energia incredibile, migliora col tempo. E quando può va a fare pure caccia estrema. È disumano, nel senso che fa cose che gli umani neanche s'immaginano".

Raiola, la prima missione impossibile: Nedved dalla Lazio alla Juventus e quella commissione da sei miliardi di lire

di Giulio Cardone30 Aprile 2022

"Gianluigi Donnarumma lo paragono a un Modigliani. Vale 170 milioni. Ha un grande avvenire, è un ragazzo straordinario e si fa ben volere da tutti. È già un piccolo campione, ma potrà diventare un grande campione".

"Il prezzo di Pogba lo ha fatto Florentino Pérez, acquistando Gareth Bale per cento milioni. A questo punto, Pogba vale almeno il doppio. Non sono io, sia chiaro, che faccio la valutazione: è stato il Real Madrid e la legge del mercato a dire che Pogba oggi vale duecento milioni".

"È facile fare il contratto a Donnarumma, è più difficile consigliarlo bene per il futuro... Se oggi faccio il contratto a Donnarumma per una società in declino totale, che faccio, mi sparo? Io a Gigi devo dargli l'assoluta certezza che lui sta in un club di un certo spessore o che se non è di un certo spessore, sappiamo che non è di un certo spessore e scegliamo di esserci o no".

"Un giorno mi chiama Zlatan e mi dice: qui all'Inter c'è un fenomeno, è un ragazzo di colore, con la palla fa quello che vuole, devi venire a vederlo. Andai e conobbi Balotelli. Gli parlai. Dopo due anni mi telefonò e mi disse che mi voleva come procuratore. Mi chiedete se oggi è contento? Così e così. Ma su di lui c'è un piano: gli ho promesso che diventerà tre volte Pallone d'oro e lui si fida di me".

Le parole di Raiola su club, dirigenti e allenatori

"Non sono juventino però devo dire che la Juve è una società gioiello. È molto più organizzata la Juve del Real o del Barcellona. Il management della Juventus è di più alto livello di tante società che io vedo fuori Italia. Io dico: non si vince per caso".

"Come vedo questi cinesi del Milan? Non mi fido. Uno che va dal notaio e dà la caparra per la casa e fa il rogito, e alla fine il rogito è finito e non si va a prendere la casa, è una cosa molto strana, perché uno quando fa il rogito vuol prendere possesso della casa. Mi sa molto di speculazione. Con Thohir lo avevo detto: 'Non è niente, è lì per rivendere l'Inter o portarla in borsa'".

"Normalmente il mio lavoro è di andare a trovare le società e di conseguenza i giocatori, dove non ho i giocatori vado a trovare solo le società per vedere come sono messi, le idee, i loro progetti. Molti procuratori non sanno in che ambiente vanno a finire. Devi avere sempre una visione completa, se no non fai la differenza".

"Cruijff? Può andare al diavolo. Sta diventando vecchio e non ha avuto la forza di continuare la sua carriera da allenatore. Credo che lui e Guardiola possano andare in un ospedale psichiatrico, seduti a giocare a carte, farebbero un favore al Barcellona. Cruijff ha detto che Ibra è più adatto al calcio italiano, perché non ha detto che non era adatto a quello spagnolo prima di comprarlo".

"Galliani fa gli interessi della Fininvest, quindi io non posso chiedere a lui certe cose. E comunque con lui c'è un rispetto reciproco. La gente non sa che su ogni trattativa litighiamo di brutto. Tant'è che alla prima o seconda presentazione di Balotelli al Milan, io non c'ero. Perché lui è fatto come me: il suo vero amore è il Milan. Per me il vero amore sono i miei figli, però i miei giocatori li tratto come tali. Perciò ci andiamo giù duro uno contro uno, ma sappiamo che non è una cosa personale: è una cosa di due pugili che vanno sul ring e dopo si rispettano".

Dopo lo scudetto biancoceleste del 2000 il futuro Pallone d'Oro passò in bianconero per 75 miliardi grazie a una mossa segreta di Moggi e al grande lavoro del re dei procuratori. Che in quell'occasione piazzò il primo grande colpo della sua prestigiosa carriera.

La grande dote di Mino Raiola era l'empatia che riusciva a creare con i suoi assistiti, la sua capacità di convincerli della scelta migliore per la propria carriera. Loro si fidavano ciecamente di lui. Un esempio, uno dei più eclatanti, risale all'estate di ventuno anni fa e riguarda uno dei giocatori cui era più legato, Pavel Nedved.

È morto Mino Raiola. L'annuncio della famiglia: "Infinito dolore". Marco Gentile il 30 Aprile 2022 su Il Giornale.

Mino Raiola lascia una moglie e due figli. Il mondo del calcio perde un personaggio influente e irriverente.  

Mino Raiola, questa volta, non ce l'ha fatta sul serio ed è morto oggi all'età di 54 anni. Ad annunciarlo su Twitter è stata la famiglia: "Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre", si legge nel post.

"Mino ha lottato fino all'ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori", scrivono nel lungo ricordo in inglese e in italiano, "E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. È stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringrazieremo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore".

Il noto e potente procuratore sportivo nei mesi passati era stato dato per morto per ben due volte suscitando una corretta indignazione da parte della sua famiglia e del suo entourage. Il 12 gennaio del 2022 l'agente di Zlatan Ibrahimovic, Mario Balotelli e Paul Pogba, solo per citarne alcuni, era stato ricoverato inaspettatamente presso la clinica San Raffaele di Milano per sottoporsi ad un intervento chirurgico destando un forte sospetto anche se il suo entourage aveva parlato di "una cosa programmata". L'operazione fu effettuata per risolvere una patologia polmonare non legata all'infezione da Covid-19. Nei giorni successivi al ricovero si rincorsero voci sulla sua possibile morte da lì a poche ore, cosa che naturalmente non avvenne.

Quando fu dato per morto

Due giorni fa, lo scorso 28 aprile, invece, la notizia della sua morte, data per certa, aveva nuovamente creato sgomento all'interno del mondo del calcio e non solo. A distanza di poche ore, però, arrivò prontamente la smentita da parte del suo braccio destro, José Fortes Rodriguez: "Sta combattendo tra la vita e la morte", le sue parole. Il 28 aprile del 2022, dunque, sarà ricordato come il giorno della morte e della risurrezione di Raiola che purtroppo ci ha lasciati il 30 aprile del 2022.

La notizia della sua scomparsa aveva fatto velocemente il giro del web: una fake news prontamente smentita dal suo entourage, e dal professor Alberto Zangrillo in persona, direttore del dipartimento di Anestesia e Terapia Intensiva dell’ospedale San Raffaele dove Raiola si trovava in cura. "Sono indignato dalle telefonate di pseudo giornalisti che speculano sulla vita di un uomo che sta combattendo", le parole di un indignato Alberto Zangrillo.

Non solo, perché alle parole di Zangrillo fecero seguito quelle dello stesso Raiola, o chi per lui, direttamente dal suo proflilo Twitter:

"Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato. E' la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembro anche in grado di resuscitare".

Chi era Mino Raiola

Mino Carmine Raiola nasce il 4 novembre del 1967 a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, anche se la sua famiglia era originaria di Angri. I genitori decino presto di emigrare in Olanda e più precisamente ad Haarlem dove il padre, all'epoca dei fatti meccanico di professione, apre un'attività di ristorazione, dove il giovane Mino è impiegato come cameriere. Raiola nel frattempo studia e frequenta per due anni la facoltà di Giurisprudenza senza però completare il suo percorso di studi. Parla fluentemente sette lingue: italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese a testimonianza di una grande dialettica e di una grande elasticità mentale.

Mino inizia anche a giocare a calcio fin da piccolo ma raggiunta la maggiore età decide di appendere gli scarpini al chiodo e si mette dietro la scrivania iniziando così una nuova carriera. Nel 1987, a soli 20 anni, diventa responsabile del settore giovanile dell'Haarlem e intraprende la carriera imprenditoriale entrando anche nel consiglio degli imprenditori della città olandese in cui si è trasferito. Sempre all'età di 20 anni fonda la società di intermediazione finanziaria chiamata "Intermezzo".

La sua carriera sportiva però continua in maniera inesorabile e diventa così direttore sportivo dell'Haarlem e grazie ad un accordo con il sindacato dei calciatori diventa anche rappresentante all'estero dei giocatori olandesi. Nel 1993 fa da mediatore nella trattativa che porterà in Italia, tra le fila dell'Inter, Dennis Bergkamp e Wim Jonk direttamente dall'Ajax. La vera vocazione di Mino però è la procura sportiva e diventando agente FIFA abbandona tutte le altre attività. Fonda la società Sportman con sede a Montecarlo, ma con uffici di rappresentanza anche in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca. Pian piano Raiola inizia ad acquisire credibilità e potere e grazie a questo status inizia ad acquisire maggiore notorietà e dunque anche calciatori famosi.

Raiola è stato spesso criticato, in Italia ma non solo, per il suo atteggiamento molto aggressivo in sede di discussione dei contratti dei suoi assistiti. Celebre fu la cessione di Zlatan Ibrahimovic dall'Inter al Barcellona, per 50 milioni di euro più il cartellino di Samuel Eto'o in favore dei nerazzurri con lui che percepì 1,2 milioni di euro annui, pagati dal Barcellona per cinque anni dal 2009 al 2014.

Il procuratore ha avuto nella sua grandissima scuderia tantissimi calciatori di diverso livello. I più celebri sono stati: Pavel Nedved, Zlatan Ibrahimovic, Earling Braut Haaland, Paul Pogba, Mario Balotelli, Robinho, Marco Verratti, Gigio Donnarumma, Henrik Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Matthijs de Ligt solo per citarne alcuni. Nel 2020 Forbes lo ha inserito al quarto posto al mondo tra i procuratori con un fatturato da capogiro da 84,7 milioni di dollari avendo chiuso affari per 847,7 milioni di dollari.

La battaglia con i club

Raiola è sempre stato un personaggio che ha spesso seminato il panico e messo paura ai grandi club italiani ed europei e ne sanno qualcosa Inter, Juventus ma soprattutto il Milan. Il caso più emblematico e recente è stato quello di Gianluigi Donnarumma arrivato a scadenza di contratto con il club rossonero per poi passare a parametro zero al Psg scatenando l'ira dei tifosi del Diavolo ma l'indiffirenza della dirigenza di via Aldo Rossi. Con l'Inter ebbe quache problema di troppo con Mario Balotelli e Zlatan Ibrahimovic ma dopo un piccolo embargo durato per qualche stagione tra le fila dei nerazzurri ha assistito Denzel Dumfries, Stefan de Vrij e Andrea Pinamonti.

Gli insulti ricevuti

In tanti, tra i tifosi, l'hanno sempre descritto con termini forti da "mafioso" a "pizzaiolo" anche se lui stesso ha sempre tenuto a precisare di non aver mai fatto il pizzaiolo. Il suo assistito e grande amico Zlatan Ibrahimovic nella sua autobiografia l'ha definito in maniera scherzoso: "meraviglioso ciccione idiota". Lo svedese è stato di certo l'assistito più longevo e forse più importante avuto nella sua scuderia. I due si conobbero nel 2003, quando Zlatan aveva 22 anni, e in questi quasi 20 anni i due ne hanno completati di trasferimenti milionari.

E pensare che all'inizio Zlatan Ibrahimovic non si fidava di quello che poi sarebbe stato il suo futuro agente dato che non gli piaceva. Raiola, che all'epoca curava gli interessi del brasiliano Maxwell, ex Psg, Inter e Barcellona, si presentò con jeans, maglietta bianca a maniche corte e una forma fisica non impeccabile. Ibrahimovic ne rimase impressionato, in negativo ovviamente ma all'abile procuratore bastarono poche parole per conquistare il cuore e la procura dello svedese.

Le grandi massime

Raiola ha sempre avuto una grande dialettica e nel corso degli anni ha sempre regalato alcune massime, sempre pungenti: "In Italia, dove c’è la voglia di qualcuno c’è sempre l’ostruzione di qualcun altro", "In Italia dovrei fare il procuratore dei politici, con quelli che passano da destra a sinistra ci farei i miliardi", "Più mi metti i bastoni tra le ruote e più mi diverto", "In Italia non si vive per costruire, si vive per demolire", "Io sono un supercapitalista. Il supercapitalista vuole tutti più ricchi. E io sono così. Io voglio che diventano tutti ricchi nel calcio, così posso offrire grandi contratti a grandi giocatori, il sistema diventa più ricco, diritti tv più ricchi, tutti più ricchi" solo per citarne alcune.

E ancora: "Alla fine io sto parlando del mio sport, del mio lavoro, della mia industria, se tu migliori il Paese, migliori tutto. Perché il calcio è uno specchio del Paese, lo è sempre stato". Parlando invece di Zlatan Ibrahimovic: "Zlatan somiglia a Brad Pitt quando interpreta Benjamin Button, l’uomo che ringiovanisce giorno dopo giorno. Ha un’energia incredibile, migliora col tempo. E quando può va a fare pure caccia estrema. È disumano, nel senso che fa cose che gli umani neanche s’immaginano".

Parlando di Gigio Donnarumma, invece, prima del suo addio al Milan disse: "Gianluigi Donnarumma lo paragono a un Modigliani. Vale 170 milioni. Ha un grande avvenire, è un ragazzo straordinario e si fa ben volere da tutti. È già un piccolo campione, ma potrà diventare un grande campione. È facile fare il contratto a Donnarumma, è più difficile consigliarlo bene per il futuro… Se oggi faccio il contratto a Donnarumma per una società in declino totale, che faccio, mi sparo? Io a Gigi devo dargli l’assoluta certezza che lui sta in un club di un certo spessore o che se non è di un certo spessore, sappiamo che non è di un certo spessore e scegliamo di esserci o no di un altro suo assistito, invece, Paul Pogba disse. "Il prezzo di Pogba lo ha fatto Florentino Pérez, acquistando Gareth Bale per cento milioni. A questo punto, Pogba vale almeno il doppio. Non sono io, sia chiaro, che faccio la valutazione: è stato il Real Madrid e la legge del mercato a dire che Pogba oggi vale duecento milioni".

Su Inter e Milan quando ancora appartenevano rispettivamente a Eric Thohir e Yonghong Li disse: "Come vedo questi cinesi del Milan? Non mi fido. Uno che va dal notaio e dà la caparra per la casa e fa il rogito, e alla fine il rogito è finito e non si va a prendere la casa, è una cosa molto strana, perché uno quando fa il rogito vuol prendere possesso della casa. Mi sa molto di speculazione. Con Thohir lo avevo detto: “Non è niente, è lì per rivendere l’Inter o portarla in borsa". Su Balotelli, invece, raccontò come fu Ibrahimovic a segnalarglielo: "Un giorno mi chiama Zlatan e mi dice: qui all’Inter c’è un fenomeno, è un ragazzo di colore, con la palla fa quello che vuole, devi venire a vederlo. Andai e conobbi Mario. Gli parlai. Dopo due anni mi telefonò e mi disse che mi voleva come procuratore. Mi chiedete se oggi è contento? Così e così. Ma su di lui c’è un piano: gli ho promesso che diventerà tre volte Pallone d’oro e lui si fida di me".

Mino Raiola è morto, "ha lottato fino all'ultimo". La famiglia conferma: "Perché ci ha reso ancora orgogliosi". Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Stavolta purtroppo Mino Raiola è morto davvero. A comunicarlo è stata la famiglia con un tweet pubblicato sul profilo del procuratore, che si è spento a 54 anni all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato da diverso tempo. “Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre - si legge - Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori”.

“E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui - prosegue la famiglia - senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini - la chiosa - e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore”.

Soltanto un paio di giorni fa c'erano state grosse polemiche per la fuga di notizie dall'ospedale: Raiola era stato dato per morto, ma non era vero, sebbene le sue condizioni fossero gravissime. Il procuratore, o qualcuno per lui, aveva scritto un tweet molto arrabbiato: "È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembra che sia in grado di resuscitare". A stretto giro di posta era arrivata anche la smentita di Alberto Zangrillo, che aveva in cura Raiola: "Sono indignato dalle telefonate di pseudo giornalisti che speculano sulla vita di un uomo che sta combattendo". 

Nato a Nocera Inferiore il 4 novembre 1967, Raiola all'età di un anno si trasferì ad Haarlem, in Olanda, con tutta la sua famiglia. Il padre era un ristoratore, lui iniziò aiutando la famiglia in veste di cameriere. Nel giro di qualche anno impara la bellezza di sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. E per questo suo lavoro, per tutta la vita Raiola sarà accompagnato dal soprannome "il pizzaiolo".

A vent'anni, la passione per il calcio lo porta a ricoprire il ruolo di responsabile del settore giovanile dell'Haarlem, dunque direttore sportivo del club olandese. Successivamente ha fondato la sua società di intermediazione, diventando agente calcistico. Anzi, l'agente per antonomasia: uno dei più potenti, ricchi e tosti del calcio mondiale. Tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Donnarumma, Balotelli e Pogba, passando per Verratti, de Ligt, de Vrij e Haaland e tanti ancora. Insomma, il meglio del calcio. 

Mino Raiola, "la malattia che lo ha ucciso": il mistero e le indiscrezioni dal San Raffaele. Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è morto a 64 anni. A dare l’annuncio ufficiale è stata la famiglia tramite il profilo Twitter del super agente calcistico: “Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori”. Non è chiaro cosa abbia causato la morte di Raiola, dato che quest’ultimo e il suo entourage non ne hanno mai voluto parlare.

Lo scorso 12 gennaio il procuratore era stato operato all’ospedale San Raffaele di Milano per una malattia polmonare, non legata al Covid. Raiola aveva però smentito, parlando soltanto di controlli di routine: adesso è evidente che non era così e che Mino è stato male per mesi. Non a caso pochi giorni dopo l’operazione del 12 gennaio erano emerse ulteriori indiscrezioni: secondo la Bild il procuratore era stato ricoverato in terapia intensiva con un quadro clinico molto complicato.

Evidentemente la situazione di Raiola si è poi aggravata, fino ad arrivare al decesso, confermato ufficialmente nel pomeriggio di sabato 30 aprile. Un paio di giorni fa c’era invece stato un falso annuncio: Mino era stato dato per morto, ma non era vero, sebbene le sue condizioni fossero gravissime. Il procuratore, o qualcuno al suo posto, aveva scritto un tweet molto arrabbiato: “È la seconda volta in quattro mesi che mi uccidono. Sembra che sia in grado di resuscitare”. Stavolta però è arrivata la conferma della famiglia: “Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore”. 

Mino Raiola, "forse un giorno...": quel clamoroso video al figlio di Gianluigi Nuzzi. Libero Quotidiano il 30 aprile 2022.

Mino Raiola è venuto a mancare a 54 anni mentre si trovava all’ospedale San Raffaele di Milano, dove versava in condizioni gravi da tempo. A comunicare la triste notizia è stata la famiglia, che ha condiviso un messaggio sui profili social ufficiali del super procuratore calcistico. Dagospia ha tirato fuori un video che Raiola aveva inviato al figlio di Gianluigi Nuzzi in occasione del suo compleanno.

“Mi hanno spiegato che sei un grande tifoso del Milan - le parole di Mino - ma se vuoi fare il mestiere di procuratore devi essere tifoso dei giocatori e non delle squadre. Però per il momento tifa quello che vuoi e divertiti. Spero che vai bene a scuola, che ti concentri sulla scuola e che poi un giorno farai qualcosa di più importante del procuratore”. Di certo c’è che Raiola è stato il più grande in epoca recente nel suo campo e quindi la sua morte lascia un vuoto professionale, oltre che umano.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino - si legge nel comunicato della famiglia - il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze, proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione”.

Chi era Mino Raiola, il re dei procuratori morto a 54 anni. Il Quotidiano del Sud il 30 aprile 2022.

Si è spento a soli 54 anni Mino Raiola, il più potente, il più bravo, il più discusso, il più temuto dai club e il più amato dai suoi assistiti, tra i procuratori di calcio. Tra i suoi assistiti fuoriclasse del calibro di Pavel Nedved, Zlatan Ibrahimovi, Paul Pogba, Matthijs De Ligt e Gigio Donnarumma.

Raiola nasce a Nocera Inferiore, in provincia di Salerno, da una famiglia di Angri, il 4 novembre 1967. La sua famiglia emigra meno di un anno dopo ad Haarlem, nei Paesi Bassi. Il padre, allora meccanico, apre con successo un’attività di ristorazione, in cui il giovane Mino è impiegato come cameriere. Allo stesso tempo consegue la maturità classica e frequenta per due anni l’università, iscrivendosi alla facoltà di giurisprudenza.

Inizia a giocare a calcio nelle giovanili dell’Haarlem, ma smette all’età di diciotto anni. Nel 1987 diventa responsabile del settore giovanile della squadra. Da quell’anno, intraprende la carriera imprenditoriale, acquistando (e poi rivendendo) un ristorante della compagnia McDonald’s ed entrando nel consiglio degli imprenditori di Haarlem.

All’età di vent’anni fonda una propria prima società di intermediazione, la Intermezzo. Intanto diventa direttore sportivo dell’Haarlem. Grazie alla conoscenza di ben sette lingue – italiano, inglese, tedesco, spagnolo, francese, portoghese e olandese – riesce ad allacciare contatti e stringere legami a tutte le latitudini.

In seguito ad un accordo con il sindacato dei calciatori diventa poi rappresentante all’estero dei giocatori olandesi. Nel 1992 porta Bryan Roy al Foggia, mentre nel 1993 intercorre come mediatore nella trattativa che porta Dennis Bergkamp e Wim Jonk dall’Ajax all’Inter.

Diviene poi agente Fifa e abbandona le altre attività. Fonda la società Sportman con sede a Montecarlo, ma con uffici di rappresentanza anche in Brasile, Paesi Bassi e Repubblica Ceca. Negli anni successivi tratta alcuni giocatori per il mercato italiano, come Michel Kreek, Marciano Vink e Pavel Nedved.

Mino Raiola acquisisce notorietà grazie ai calciatori molto famosi da lui seguiti e alle trattative milionarie in cui è coinvolto curando gli interessi dei giocatori stessi: molto dibattuto mediaticamente è, nel 2009, il passaggio di Zlatan Ibrahimovic dall’Inter al Barcellona, circostanza nella quale Raiola firma una clausola in virtù della quale avrebbe guadagnato 1,2 milioni di euro annui, pagati dal Barcellona fino al 2014.

Nell’estate del 2010 e nel corso del calciomercato invernale del 2011 agisce da mediatore nelle trattative che conducono Ibrahimovi, Robinho, Mark van Bommel, Urby Emanuelson e Dídac Vilà al Milan e Mario Balotelli al Manchester City. Nell’estate del 2012 è protagonista del passaggio di Ibrahimovic dal Milan al Paris Saint-Germain e di Paul Pogba dal Manchester Utd alla Juventus.

Nel gennaio del 2013 si occupa del trasferimento di Mario Balotelli dal Manchester City al Milan. Nel 2014 cura il trasferimento di Mario Balotelli dal Milan al Liverpool e porta a termine la trattativa per il rinnovo del contratto di Pogba, legato alla Juventus fino al 2019.

Nell’estate del 2015 Mino Raiola cura il ritorno dell’attaccante Mario Balotelli dal Liverpool al Milan. L’estate del 2016 lo vede concludere molti ingaggi dei suoi assistiti con il Manchester United: si trasferiscono nelle file dei Red Devils lo svincolato Ibrahimovic, Henrik Mkhitaryan dal Borussia Dortmund e Pogba dalla Juventus; grazie a quest’ultimo trasferimento (all’epoca il più costoso della storia del calcio) si assicura 25 milioni di euro di commissione.

L’estate del 2019 lo vede concludere svariate operazioni, la più importante delle quali è il trasferimento dell’olandese Matthijs de Ligt dall’Ajax alla Juventus per 75 milioni di euro complessivi e di Kostas Manolas dalla Roma al Napoli per 36 milioni. Nel 2020 Forbes lo inserisce al quarto posto al mondo tra i procuratori con un fatturato da 84,7 milioni di dollari avendo chiuso affari per 847,7 milioni di dollari.

Mino Raiola non ce l’ha fatta: l’annuncio della sua famiglia via Twitter. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 30 aprile 2022.

L'agente italo-olandese aveva 54 anni ed era il n° 1 al mondo nel suo lavoro. Raiola Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha intrapreso la sua carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera, tra i suoi assistiti Ibrahimovic, Pogba, Haaland, Balotelli, De Ligt, Donnarumma e Verratti diventando uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale che secondo il magazine americano Forbes nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari . Negli ultimi anni Raiola, insieme a Mendes, Barnett e Manasseh, aveva creato un'associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

Mino Raiola non ce l’ha fatta e si è spento oggi sabato 30 aprile all’ospedale San Raffaele di Milano, dove lottava in gravi condizioni : a darne l’annuncio ufficiale è stata la famiglia con un post su Twitter. Dopo le polemiche dei giorni scorsi la triste notizia è purtroppo arrivata e il mondo del calcio ora piange il 54enne procuratore italo-olandese, tra i più ricchi e famosi di tutto il mondo, che poteva vantare nella sua ‘scuderia‘ campioni del calibro di Ibrahimovic, Pogba, Haaland, Balotelli, De Ligt, Donnarumma e Verratti (e in passato anche Hamsik ed Insigne).

Nato a Nocera Inferiore, è cresciuto in Olanda dove ha lavorato nella pizzeria di famiglia prima di intraprendere la carriera di procuratore sportivo, inizialmente con le deleghe di alcuni calciatori olandesi come Bergkamp e Jonk e poi allargando sempre più la sua sfera fino a diventare uno degli agenti più potenti e temuti del calcio globale che secondo il magazine americano Forbes nel 2020 arrivò a guadagnare 85 milioni di dollari . Negli ultimi anni Raiola, insieme a Mendes, Barnett e Manasseh, aveva creato un’associazione di super procuratori in aperto contrasto con la Fifa e il suo proposito di riformare la categoria.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha reso orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che gli sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore. The Raiola Family“, questo l’annuncio comparso sulla pagina ufficiale Twitter dello storico agente italo-olandese.

Precursore di un cambio di mentalità che ha cambiato le leggi del calciomercato. «I vecchi procuratori facevano gli interessi delle società, per me viene prima il calciatore», il suo personale Vangelo accolto da tantissimi assistiti che poi si sono riscoperti milionari. I suoi capolavori sono stati Nedved, Ibrahimovic, Pogba e Donnarumma, plasmati, allevati e mai abbandonati. Balotelli, un altro dei suoi fedelissimi clienti, la sua pedina più spostata. «Per me tutti i miei giocatori sono importanti», l’urlo in diretta televisiva per lamentarsi della connessione internet lenta nell’hotel milanese del mercato che aveva fatto saltare il trasferimento di Kasami al Pescara. Croce e delizia delle società, della stampa e dei colleghi procuratori: amico e nemico a seconda delle situazioni. Mancherà a tutti: come era impossibile immaginare due Mondiali senza l’Italia, sembrerà irreale concepire un calciomercato senza Mino Raiola.

L’affetto di Ibrahimovic e lo sfogo social

Proprio il milanista Ibrahimovic giovedì aveva fatto visita a Raiola, nel giorno in cui si era già erroneamente diffusa la notizia della sua morte poi smentita dal professor Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele. “Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato – le parole apparse in quelle ore sugli account Twitter e Instagram ufficiali del procuratore –. È la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembro anche in grado di resuscitare“.

Capello: “Per me Raiola significa Ibrahimovic“

“Per me Mino Raiola è legato a Ibrahimovic, la prima volta che l’ho conosciuto era il suo procuratore”. È questo il primo ricordo di Fabio Capello del procuratore scomparso il 30 aprile dopo una lunga malattia. “Era una persona a posto. Ha costruito una fortuna e nel senso buono, con grande capacità: ha dimostrato di saper fare quello che deve saper fare un procuratore“.

Moggi: “Lo consideravo quando tutti lo chiamavano pizzaiolo”

“Mino Raiola era un amico, è nato con me quando ero direttore generale della Juventus – ha detto Luciano Moggi a Tuttomercatoweb -. ‘Quando tutti lo chiamavano pizzaiolo, io gli davo massima considerazione perché avevo capito chi era. Mi dispiace che tanti abbiano giocato sulla sua morte quando non era vera“.

Galliani: “Innovatore e amico leale“

“Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace“. Questo il messaggio comparso sul profilo Twitter del Monza

Adriano Galliani è affettuosamente vicino alla famiglia e piange la scomparsa del caro amico Mino, grande manager calcistico, innovatore nel suo settore e sempre leale nelle trattative. Riposa in pace. 

Agnelli: “Non prendere in giro in Paradiso, ti voglio bene”

“Non prendere in giro in Paradiso, loro conoscono la verità…tvb Mino”. Con questo affettuoso messaggio, scritto in inglese (“Don’t take the piss in paradise, they know the truth...”), il presidente della Juventus, Andrea Agnelli, ha salutato su Twitter l’amico Mino Raiola.

Marotta: “Perdiamo un amico e un grande professionista“

Anche l’ad dell’Inter, Beppe Marotta, ha voluto ricordare Raiola: “Sono affranto per la scomparsa di Mino, un amico e una persona di elevata competenza. Il mondo del calcio perde un grande professionista. Abbiamo vissuto molti momenti positivi insieme, di collaborazione e intenso lavoro, con qualche contrasto ma sempre corretto, nel rispetto delle persone e delle professionalità. I ricordi – ha commentato Marotta – sono tanti, uno su tutti la doppia operazione su Pogba con il passaggio dal Manchester United alla Juventus e dalla Juve allo United. Un grande capolavoro in cui Raiola ha avuto un ruolo importante. Il mondo del calcio perde un grande professionista, spesso critico con il sistema ma la sua critica era molto costruttiva per un calcio sempre migliore“.

FC Internazionale Milano esprime il proprio cordoglio per la scomparsa di Mino Raiola: a lui e a tutti i suoi cari va il pensiero del Club in questo momento di dolore. 

Il Milan: “Ci stringiamo intorno alla famiglia Raiola”

Lo stemma del Milan e il simbolo del lutto per ricordare Mino Raiola. Così la società rossonera ricorda il re dei procuratori, stringendosi intorno alla sua famiglia. “AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa“.

Our deepest condolences to the Raiola family and all the friends of Mino for their tragic loss.

AC Milan si stringe attorno alla famiglia di Mino Raiola e alle persone a lui care nel giorno della sua scomparsa. 

De Laurentiis: “La scomparsa di Raiola ci addolora“

“La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia“. È il cordoglio del presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, su Twitter per la scomparsa dell’agente italo-olandese.

La notizia della scomparsa di Mino Raiola addolora me e tutto il Napoli. Le più sentite e sincere condoglianze e la nostra vicinanza alla sua famiglia #ADL

L’Udinese: “Riferimento del calcio mondiale”

“Gino Pozzo e tutta l’Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale. Alla famiglia Raiola vanno le più sentite condoglianze”.

Gino Pozzo e tutta l’Udinese Calcio esprimono il proprio cordoglio per la prematura scomparsa di Mino Raiola, agente sportivo di riferimento del panorama calcistico mondiale.

Alla famiglia #Raiola vanno le più sentite condoglianze.

Redazione CdG 1947

La scomparsa per la malattia a 54 anni. Mino Raiola è morto, addio al re dei procuratori: “Ha scritto capitolo indelebile della storia del calcio”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 30 Aprile 2022. 

Mino Raiola è morto. Il re dei procuratori sportivi è scomparso all’età di 54 anni: ad annunciarlo via Twitter è stata la famiglia dell’agente.

“Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre“. Con queste parole la famiglia Raiola annuncia la morte dell’agente sul suo profilo twitter con un lungo post accompagnato da una foto di Raiola giovane. 

“Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze – prosegue il post -, proprio come faceva per difendere i calciatori e ancora una volta di ha resi orgogliosi di lui senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile nella storia del calcio moderno“. “Ci mancherà per sempre – aggiunge la famiglia -, il suo progetto di rendere il mondo del calcio un mondo migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione. Ringraziamo di cuore coloro che ci sono stati vicini e chiediamo a tutti di rispettare la privacy di familiari e amici in questo momento di grande dolore“.

Da giorni il mondo del calcio era in apprensione per le condizioni di salute dell’agente. Giovedì era infatti filtrata dall’ospedale San Raffaele di Milano la notizia della sua scomparsa, smentita poco dopo dal primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione Alberto Zangrillo.

Raiola era stato ricoverato d’urgenza anche nel gennaio scorso, ma successivamente le notizie sulle sue condizioni di salute sono rimaste sempre riservate.

Raiola, nato a Nocera Inferiore (Salerno), era cresciuto in Olanda, dove si era trasferito con la famiglia negli anni ’60. Ad Haarlem il padre aveva aperto una pizzeria e lui lavorava da cameriere. Aveva sempre voluto, fin da bambino, lavorare nel mondo del calcio. Ha cominciato con le giovanili dell’Haarlem, con i calciatori olandesi. Parlava sette lingue: olandese, inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e italiano. “Ma quando penso, penso in dialetto campano: è più veloce”. Aveva avuto due figli con la moglie.

Forbes aveva inserito Raiola nel 2020 al quarto posto al mondo tra gli agenti di tutto il mondo con un fatturato da 84,7 milioni di dollari e con un giro di affari chiusi per un valore di 847,7 milioni. Raiola ha assistito giocatori del calibro di Ibrahimovic, Haaland, Donnarumma, Pogba, Verratti, Balotelli, Mikhitaryan e De Ligt.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Antonio Barillà per “la Stampa” il 2 maggio 2022.

Cinquantaquattro anni soltanto. L'incredulità che si somma al dolore. La percezione violenta della fragilità di fronte al destino. Quando s' abbatte niente ha più senso, né il potere né il denaro. Mino Raiola li possedeva entrambi e non era grazia ricevuta, aveva costruito un impero partendo dal nulla, dal ristorante aperto ad Haarlem, due passi da Amsterdam, da papà e mamma emigrati da Angri, provincia di Salerno, quando lui aveva appena otto mesi.  

Lo chiamavano "Il pizzaiolo" e il tono tradiva il senso: ammirazione per un self made man o richiamo sprezzante alle origini umili. Giurava di non aver mai sfornato una Margherita, ma d'averle sì portate ai tavoli: ne andava fiero perché quella era stata la sua scuola, più del liceo e dell'università interrotta.

Aiutando i genitori, contabile e non solo cameriere, scoprì la vocazione imprenditoriale e l'inclinazione per le lingue, passepartout del successo: ne parlava sette, l'italiano delle radici e l'olandese della seconda patria, l'inglese imparato da bambino guardano Disney in originale, il tedesco, il francese, lo spagnolo e il portoghese. 

Amava il pallone, aveva fatto qualche gol nelle giovanili dell'Haarlem, me le prime mediazioni non c'entravano: i commercianti olandesi e italiani avevano modi e metodi opposti negli affari e Mino, all'anagrafe Carmine, smussava, avvicinava, trovava il punto d'intesa. Il calcio arrivò poco dopo, chiacchierando con il presidente dell'Haarlem che tutti i venerdì andava a cena nel suo locale: fu così convincente, o sfacciato, da essere nominato, ventenne, responsabile del settore giovanile e poi direttore sportivo.

Imparò in fretta i trucchi del mercato, ottenne dal sindacato calciatori l'incarico di rappresentante degli olandesi all'estero, portò Bryan Roy al Foggia, Dennis Bergkamp e Wim Jonk all'Inter, poi superò l'esame di agente Fifa e diede inizio alla scalata. 

Tra i primi assistiti Pavel Nedved, trasferito dallo Sparta Praga alla Lazio per 9 miliardi di vecchie lire e, cinque stagioni dopo, alla Juventus per 75. Bianconero diventò anche Zlatan Ibrahimovic, amico fraterno prima che punta di diamante della scuderia, conosciuto da piccolo narciso all'Ajax e trasformato in gladiatore: raccontava d'averne conquistato la fiducia dandogli al primo incontro dello str..., spiegandogli bruscamente che per diventare il migliore non doveva più fare il fighetto ma lavorare duro. 

Zlatan capì e la pessima impressione iniziale finì in frantumi: quello «gnomo ciccione» in t-shirt che aveva «divorato cibo per cinque» sarebbe diventato il suo guru. Il look a Mino interessava, a chi gli rimproverava d'apparire trasandato replicava che lui discuteva di soldi e non di moda e che anzi l'apparenza era un'arma così lo sottovalutavano e strappava di più, difatti per anni ha spostato top player e milioni in bermuda e camicia hawaiana: Paul Pogba, Erling Haaland, Mario Balotelli, Matthijs de Ligt, Gigio Donnarumma, Stefan De Vrij, Marco Verratti, Ryan Gravenberch, Moise Kean. Tutti legatissimi. 

Mino ha cambiato il ruolo del manager, ha difeso i loro interessi contro tutto e tutti, fregandosene di inimicarsi dirigenti, colleghi e politici. Dissacrante, d'altronde. Provocatorio, spregiudicato, sfrontato. E di chi poteva avere soggezione uno capace di tacciare pubblicamente di mafia le maggiori istituzioni sportive e dare dell'incompetente a uno dei suoi più alti rappresentanti? Era tra gli agenti più discussi, ma anche tra i più bravi e ricchi: quarto al mondo per Forbes nel 2020 con un fatturato di 84,7 milioni di dollari e un giro di affari di 847,7, il patrimonio non è stimato con precisione ma si dice sfiori i 500 milioni di euro. 

Tutto è impallidito di fronte alla malattia, affrontata con coraggio ma purtroppo più forte: «Mino ha lottato con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i suoi calciatori - recita l'annuncio social della famiglia -. È stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il mondo del calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione».

Dagonews l'1 maggio 2022.  

Da Donnarumma a Haaland, da Ibra a Balotelli: cosa faranno i campioni della scuderia di Raiola dopo la scomparsa del loro agente? Non ci sarà nessuna smobilitazione. L’attività dell’agenzia prosegue. A prendere il posto del re del calciomercato sarà l'avvocato brasiliano Rafaela Pimenta, braccio destro dello stesso Raiola, che ha seguito da vicino le trattative più importanti e può vantare un rapporto diretto con i calciatori dell’agenzia…

Da blitzquotidiano.it il 9 maggio 2022.

L’impero di Mino Raiola è rimasto senza il grande capo.  L’eredità passerà certamente nelle mani della avvocatessa  brasiliana Rafaela Pimenta, sua socia da 18 anni. 

Ma Rafaela resterà sola a gestire gli affari della “One”, la società di Montecarlo che procura e gestisce le fortune di molti calciatori? Che ha in portafoglio un patrimonio tecnico stimato 800 milioni? Società  che Raiola ha fondato negli Anni Novanta dopo essere diventato agente Fifa? 

L’avvocatessa non sarà affiancata, per ora almeno, dai due figli ventenni di  Raiola che vivono con la madre a Montecarlo e non ne vogliono sapere di fare la vita del padre.

Sono decine i campioni della scuderia di Mino Raiola. Il primo colpo grosso è stato Ibrahimovic nel 2009, trasferito dall’Inter al Barcellona. Il colpo che gli ha dato notorietà internazionale e prestigio, specie tra le star alle quali procurava ingaggi faraonici. 

Ne aveva fatti altri con la sua prima società (“Intermezzo”) ma quello messo a segno per l’amico e concittadino Ibra resta iconico. Oggi nella sua scuderia ci sono campioni di ogni parte del globo. Sudamericani, europei, africani.

Gente che grazie alla sua abilità guadagna cifre esagerate. I nomi più importanti? Anzitutto gli olandesi  come De Vriij (Inter) e De Light (Juventus). Gli italiani come Donnarumma e Verratti (PSG). E Balotelli (AdanaDemirspor, Turchia). Persino l’armeno della Roma, l’attaccante Mkhitaryan (ex Arsenal).

Mino Raiola era un procuratore di gran fiuto. Ha visto il gigante  norvegese una prima volta nel Molde (Norvegia ), lo ha portato al Salisburgo  appena ventenne e l’anno dopo, estate 2020, gli ha spalancato le porte del Borussia Dortmund.

E il ragazzone di quasi due metri lo ha ripagato con 65 gol in 61 partite. Mino lo ha messo all’asta, i grandi club europei se lo contendono. In lizza sono rimasti in tre: Manchester City, Real Madrid e Bayern Monaco.  Facile che vinca il City che da poche ore ha rinnovato il contratto all’allenatore Guardiola, il coach espressamente richiesto da Haaland. 

E le cifre? Mino lo aveva proposto in un primo momento  al Chelsea di Abramovich (che stava per accettare) ma la guerra in Ucraina ha rovinato i piani all’oligarca russo e a Raiola. È saltato tutto.

Le cifre? 50 milioni di ingaggio per il vikingo, 40 milioni di commissioni per il re dei procuratori. Ora che al timone c’è l’avvocatessa la parcella sarà più robusta.  E per il gigante? Chiesti 86 mila euro. Al giorno. Prendere o lasciare. Le follie nel calcio non finiscono mai.

Ivan Zazzaroni per corrieredellosport.it l'1 maggio 2022.

Lo conoscevo dal ’92, dal suo primo affare italiano, Bryan Roy al Foggia. Eravamo diventati quasi amici. Tre anni fa, marzo 2019, mi mandò affanculo per colpa di un titolo sbagliato: avevamo preso per buono un intervento su un suo profilo fake, maledetto facebook. Conservo ancora l’sms: «Ciao Ivan, solo per informarti che denuncerò il tuo giornale e il giornalista… basso livello, non è da te, abbraccio Mino». Non lo fece. Al telefono fu sgradevolissimo: sapeva essere di un’aggressività ineguagliabile, ce ne dicemmo di tutti i colori.

Tempo dopo si era già dimenticato tutto e pochi mesi fa, premettendo che si fidava solo di me, regalò al Corriere dello Sport l’intervista esclusiva a Donnarumma sul trasferimento al Psg. Queste le sue parole: «Gigio non ha lasciato il Milan per altro motivo che per crescere».

Raiola sapeva essere angelo e diavolo, più spesso diabolico che angelico. Lo chiamavo Houdini: così come spariva e per mesi non si faceva trovare, all’improvviso ricompariva. «Come va?».

È stato lui a rendere internazionalmente (im)popolare la figura del procuratore, a farle del bene ma anche del male. Era diventato il parametro, il simbolo, il manifesto di una professione di base antipatica, quella dell’intermediario; il cognome aveva sostituito il ruolo: procuratore uguale Raiola. E non viceversa.

Mino non aveva paura di nessuno, era un mix di determinazione e arroganza, andava spesso allo scontro, in particolare con i giornalisti, ed era diventato lo specialista dei trasferimenti più scomodi. Fra tutti, quelli di Ibra dal Barcellona di Messi al Milan dopo una sola stagione (litigò con Guardiola) e di Donnarumma al Psg a parametro zero. Da oltre un anno stava lavorando alla cessione di Haaland per il quale chiedeva - si dice - 50 milioni di commissioni da dividere col padre dell’attaccante.

Aveva stretto alleanze-amicizie importanti e strategiche: Zeman, Nedved, Moggi, Ibra, Galliani. Aveva soprattutto capito che Fifa e Uefa se ne fregavano e quindi, in barba ai regolamenti, era di fatto socio delle famiglie dei campioni. Intelligente e scaltro, prima e più di ogni altro, si era reso conto che i governing bodies pensavano ai loro interessi e a nient’altro. 

Diciotto anni fa, a Udine per il premio Eurochampion organizzato a settembre dalla famiglia Pozzo (presente anche il giovanissimo Messi accompagnato dal padre), cenammo insieme a Ibrahimovic, che era stato appena acquistato dalla Juve, e all’avvocato che curava la parte legale di Raiola, una signora brasiliana. A un certo punto Mino provocò Zlatan - per lui era “Slatan” - dicendogli che se avesse segnato di più sarebbe diventato il più grande centravanti al mondo, la risposta di Ibra fu questa: «Se avessi fatto più gol non avrei avuto bisogno di te». In realtà con Mino arrivarono per Ibra i gol, i milioni e l’eterna libertà di pensare e dire.

Raiola ha sempre fatto più del massimo per i suoi assistiti e per se stesso. Anche per questo i giocatori lo amavano e non l’avrebbero mai lasciato: aveva una sensibilità non comune nell’individuare l’affare e le fragilità di presidenti e dirigenti. Parlava molte lingue, «la peggiore l’italiano», confessò. Lo chiamavano “il pizzaiolo” perché la sua famiglia aveva dei locali ad Haarlem. La cosa lo faceva incazzare e più di una volta aveva chiarito, inascoltato, di non aver mai steso una pizza in vita sua. 

Nel 2010, per GQ Italia, il direttore Michele Lupi mi chiese di intervistarlo: andai a Montecarlo, pranzammo, conobbi Vincenzo, cugino e primo collaboratore, e mi fece incontrare la moglie, conosciuta a Foggia, e i figli appena rientrati da scuola. Abitavano in un bell’appartamento in avenue d’Angleterre. Ricordo che prima di salutarmi disse: «Memorizza bene questa casa perché l’anno prossimo sarà diversa, mia moglie fa ridipingere in continuazione le pareti. Mi costa un sacco di soldi». Con quello che Mino portava a casa ogni estate avrebbe potuto farle rifare ogni giorno. 

Non voglio neppure immaginare come siano stati i suoi ultimi sei mesi, la sofferenza, il dolore fisico. So che ha lottato come un leone contro un avversario che fatica a scendere a patti. 

Nelle ultime drammatiche ore, sempre grazie a una fake news, Mino è riuscito a imitare 007 in versione personale, “Si muore solo due volte”. Avrebbe sofferto anche di più se avesse immaginato di essere rimpianto. Non dico da suoi calciatori, ma dai tanti avversari, anche i più odiosi. D’altra parte, un nemico così dove lo trovi? 

Andrea Sorrentino per “il Messaggero” l'1 maggio 2022.

«Mino!». Rispondeva al telefono così, né «Pronto» né «Hello», solo il suo nome, un annuncio secco più che un saluto, come a dire: io sono io, adesso fatti avanti tu, che ho da fare. Si dice sia stato il re del mercato, ma più che altro è stato l'uomo che ha cambiato il calcio moderno, non soltanto il mercato. Per questo non solo i suoi celebri assistiti, ma tutti i calciatori dovrebbero dedicargli un pensiero affettuoso, una lacrima, un monumento equestre. Gli devono moltissimo.  

Se c'è stato un uomo che partendo dal nulla ha avuto la spregiudicatezza, la forza, l'intuito e il cinismo di spingere il calcio più in là, verso la centralità dei calciatori rispetto ai club in nome di guadagni sempre più elevati, anzi talmente esagerati al punto da arrivare quasi a scassare l'intero sistema, ebbene quell'uomo è stato Mino Ràiola, all'anagrafe Carmine, scomparso ieri a 54 anni all'ospedale San Raffaele di Milano, dopo una lunga battaglia contro la malattia.

Nato a Nocera Inferiore nel 1967, a un anno di età emigrato con la famiglia ad Haarlem, vicino Amsterdam, infine spirato a Milano, nella sua Italia, anche se lui risiedeva a Montecarlo e le sue società a Malta e a Dublino. Controverso, simpaticissimo, inquietante, furbo come il demonio, un poliglotta da sette lingue imparate sul campo. Ineffabile, compiaciuto e panciuto, quindi per quel vecchio adagio uomo di grande sostanza; sbrigativo, sbrindellato, la camicia sempre sopra i pantaloni a troneggiare sul girovita fuori misura.

Con Mino si diventava ricchi per forza, bastava seguirlo, e anche per questo era diventato il numero uno dei manager, anche se in perenne lotta con Jorge Mendes, alleato solo nelle battaglie contro Fifa («Sembra un dittatore comunista») e Uefa, la vera controparte dei draghi del mercato. 

Si era fatto tutto da sé, Mino, partendo dalla pizzeria, poi ristorante, del padre ad Haarlem: nel locale passano imprenditori in affari con l'Italia, Mino ha intuito, guizzi e comunicativa. Sbarca nel calcio quasi subito, come rappresentante di giocatori olandesi all'estero, l'Italia sempre nel destino. 

A 20 anni è tra i mediatori nella trattativa che porta Rijkaard dallo Sporting Lisbona al Milan. A 25 anni conduce Brian Roy al Foggia: lì conosce la sua futura moglie e diventa amico di Zeman. Altri affari di quegli anni: Bergkamp e Jonk all'Inter, Vink al Genoa. Il primo grande colpo, Nedved dallo Sparta Praga alla Lazio di Zeman. 

E i giocatori li sceglie lui, non il contrario: se Mino intravede del talento, si getta sul giocatore promettendogli una carriera luminosa. Accade così con Ibrahimovic: «Dammi retta e ti porto sulla vetta del mondo, ma impara a comportarti», e Zlatan gli darà retta, a quello che definisce con affetto «un meraviglioso ciccione idiota». 

Intanto Mino ha affilato gli artigli. Basta essere uno e trino, giocare su tre tavoli. Basta che al giocatore inizino a venire mal di pancia e insoddisfazioni varie, per portarlo a scadenza e arrivare alla rottura col suo club; poi indirizza la cessione su un secondo club con cui Mino è già d'accordo, che a quel punto sarà grato al mediatore per il risparmio sul cartellino dell'atleta, a cui riconoscerà un ingaggio lauto, e non parliamo del premio al manager. Li ha traghettati tutti così, rendendo ricchissimi loro, e se stesso: nel 2020 la rivista Forbes lo ha accreditato di 85 milioni di commissioni.  

Amava i suoi giocatori, molti di loro avevano un vissuto complesso, li paragonava ai grandi artisti: Donnarumma un Modigliani, Pogba un Basquiat, De Ligt un Rembrandt. Ha costruito il fenomeno Mario Balotelli, ha intuito che il futuro sarebbe stato Haaland, ha conquistato dopo lunga corte Verratti.

 Molti non lo amavano, ovvio: «Ci sono alcuni agenti che non mi piacciono e uno è Mino Raiola. Non mi fido di lui, è un sacco di m...», sbottò un giorno sir Alex Ferguson. Il calcio e i calciatori erano cambiati, e Mino aveva avviato il mutamento. Logico che non piacesse a parecchi. Ma i calciatori, lo venerino in eterno. Alla sua famiglia, cugino, figlio e nipote, il compito di gestire la sua eredità, immensa e piena di campioni.

A.S. per “il Messaggero” l'1 maggio 2022.  

Beppe Marotta, ad dell'Inter, una lunga relazione di lavoro con Mino Raiola: da quanto lo conosceva?

«Da almeno trent' anni. Sono dispiaciutissimo, addolorato, affranto. Mino era un amico. Quante trattative insieme, quanti anni di vita. 

E anche diverbi, litigate, certamente: eravamo sempre su piani diversi, io rappresentavo i club e lui i calciatori, normale ci fosse qualche frizione, ma c'era grande stima. Aveva competenza, bravura, tenacia. Si era fatto da sé. 

Aveva iniziato molto giovane a occuparsi di calcio e di intermediazioni. Ho avuto i primi contatti con lui quando era diventato collaboratore di Gino Pozzo all'Udinese: Mino lavorava sui giocatori olandesi, ma poi estese ben presto il suo raggio d'azione. Io a quei tempi ero dirigente al Monza, al Como, al Venezia, e cominciai ad avere a che fare con lui. Un grosso professionista, che infatti ha avuto un successo mondiale».

E' vero che Raiola ha cambiato il calcio con i suoi metodi, modificando i rapporti di forza tra calciatori e club?

«Era abilissimo. Si faceva valere. Rappresentava i suoi assistiti nel modo migliore, si batteva per loro, strappava i contratti alle sue condizioni, spesso. Modi spicci, grande franchezza nell'esprimersi, una persona di valore. Era polemico e incisivo a livello mediatico, come lo era nel privato delle trattative, sempre uguale a se stesso. Poco convenzionale, anche nel modo di vestirsi, diretto. Poi è stato anche molto critico col sistema, e faceva bene la sua parte anche in quello. Poi in un sistema ci sono anche le altre controparti, come i club, le federazioni. Ma con lui i calciatori si sentivano tutelati, combatteva per loro». 

Insieme a lui avete messo a segno una delle plusvalenze più incredibili di sempre, per Paul Pogba.

«Lo prendemmo a costo zero dal Manchester United, dove non aveva trovato spazio con Alex Ferguson; Mino era il suo manager, credeva un sacco nel giocatore, ci garantì che era un campione ancora incompreso, e lo portò alla Juventus. Quattro anni dopo il Manchester United aveva una proprietà diversa e una mentalità diversa, e ce lo comprò per 115 milioni. Sono colpi che capitano, anche se non con quelle proporzioni. Ci sono spesso dei giovani che non trovano spazio e fanno fortuna in un'altra nazione da cui partono per una grande carriera: mi viene in mente il caso di Scamacca, che andò via dalla Roma per giocare in Olanda».  

C'è un erede di Raiola? 

«Non credo. Era unico».  

E' stato anche un personaggio controverso, no? 

«Spesso ha spinto al massimo, i suoi giocatori cambiavano tante squadre. E se da un lato, sul piano economico, gli spostamenti hanno sempre garantito guadagni maggiori ai suoi atleti, in alcuni casi non sono state operazioni felicissime sul piano tecnico, e qualcuno non si è trovato bene. Fa parte del gioco». 

Pensiamo a Donnarumma, ad esempio? 

«Può essere. Magari, a vedere le cose adesso, se Donnarumma fosse rimasto al Milan sarebbe stato meglio per lui. Ma giudicare alla fine è facile».  

Aldo Cazzullo nella rubrica della posta del "Corriere della Sera" il 3 maggio 2022. Caro Aldo, Raiola sarà stato pure bravo ma ha contribuito molto allo sfascio del calcio italiano e non... con continui trasferimenti di giocatori da una parte all’altra per prendersi altre provvigioni costosissime dalle società. Giovanni Piscopo 

Odiato da molti solo per essere stato il migliore nel suo campo… grande Mino. Antonio De Falco

Cari lettori, La morte di Mino Raiola ha colpito molti di voi, sia per la giovane età, sia per la peculiarità del personaggio. Tra le sue frasi, ormai diventate di culto, sceglierei questa: «Sono trasandato perché devo parlare di soldi e non di moda; e poi così mi sottovalutano, e riesco a strappare di più». 

Non c’è dubbio che nel calcio i procuratori abbiano preso troppo potere, contribuendo a far lievitare a dismisura i costi. Ma non dobbiamo sorprendercene. Un campione dello sport spesso è una creatura fragile. Brucia tutto nel giro di pochi anni, a parte qualche fenomeno, come ad esempio Zlatan Ibrahimovic, che può vincere uno scudetto a quarant’anni compiuti.

Ma anche un duro come Ibra può scoprirsi delicato; ad esempio in seguito a un infortunio. Il campione che si rompe un ginocchio è un animale ferito, un purosangue che guarda incredulo il proprio arto spezzato. 

È quello il momento — e non solo quando si tratta di concludere un nuovo contratto — in cui diventa decisivo il ruolo del procuratore. Nel bel libro scritto con Luigi Garlando, Adrenalina, Ibra definisce Raiola «amico, fratello, padre».

Quando gliene ho chiesto il motivo, ha risposto: «Le racconto un episodio. A Manchester mi rompo il ginocchio. Esco dal campo con le mie gambe, rifiuto gli antidolorifici, penso che non sia niente. Invece ho il crociato a pezzi, si sono staccati tendini, muscoli: un disastro. Mino comincia a ricevere le telefonate degli avvoltoi».

Chi? «Chirurghi, italiani e no, che mi vogliono operare. Studiamo la cosa e vediamo che il migliore al mondo è tale Freddie Fu, un dottore americano originario di Hong Kong, che lavora a Pittsburgh; ma per un appuntamento bisogna aspettare mesi. Pochi giorni dopo mi chiama Mino: “Ibra prepara le valigie, si parte per Pittsburgh”.

Atterriamo alle 4 del mattino e andiamo subito in ospedale. Il leggendario professor Freddie Fu ci aspettava sotto l’ingresso con il suo staff. Alle 4 del mattino». Anche per questo, nei giorni in cui Mino Raiola lottava per la vita, Zlatan Ibrahimovic era al suo capezzale.

Salvatore Riggio per corriere.it il 3 maggio 2022.

Nei giorni del dolore per la scomparsa di Mino Raiola, morto sabato 30 aprile a Milano all’età di 54 anni, c’è un impero da portare avanti. Il cugino Vincenzo, per tutti Enzo, amicissimo di Donnarumma, ha imparato tutto al fianco di uno dei migliori procuratori del mondo del calcio. 

Ma nell’entourage c’è una figura ora al vertice della piramide. Si tratta di Rafaela Pimenta, amica di Raiola da almeno 20 anni e sua socia da 18. È con lei, e solo con lei, che Mino ha voluto condividere le quote della società One, con sede a Montecarlo. Attraverso questa azienda, disegnata come se fosse una famiglia, l’agente ha sempre curato gli interessi dei suoi giocatori, sparsi nel mondo. Da Haaland, attaccante del Borussia Dortmund, a Ibrahimovic, passando per Pogba, Balotelli, De Ligt, De Vrij, Donnarumma, Romagnoli, Verratti, Lozano, Mkhitaryan, Kean, Dumfries e tanti altri ancora.

Mino e Rafaela si sono conosciuti in Brasile nei primi anni 2000. Lei si era laureata in giurisprudenza nel 1995 e aveva iniziato a lavorare, giovanissima, nella squadra dell’antitrust costruita dall’allora presidente del paese, Fernando Henrique Cardoso. Parla sei lingue e ha sempre avuto una passione nel cuore: il calcio. Tanto da aiutare due suoi famosi connazionali, Rivaldo e Cesar Sampaio, a fondare il Guaratinguetà, club dello Stato di San Paolo (dove è nata anche lei), poi sciolto nel 2017. Sta di fatto che Raiola e Pimenta si sono incontrati durante il lancio del progetto, sono rimasti in contatto e hanno iniziato a lavorare insieme. Lo step successivo è stato il trasferimento di Rafaela a Montecarlo, con l’ingresso nella One e diventando il braccio destro del potente procuratore.

Adesso tutto è in mano a lei. I figli 20enni di Mino, Mario e Gabriele, vivono con la madre (sempre a Montecarlo) e studiano. In attesa di capire se vorranno o meno seguire le orme del padre, sarà Pimenta a portare avanti gli affari. Il più importante sarà il trasferimento di Haaland dal Borussia Dortmund: una trattativa da 150 milioni di euro. Il botto del prossimo calciomercato, il primo dopo tre decenni senza Raiola.

L’attaccante norvegese piace al Real Madrid e a molti club della Premier. In primis, il Manchester City di Pep Guardiola. Rafaela è molto amica di Pogba, un altro pezzo forte della scuderia di Mino, pronto a dire addio – ancora una volta – al Manchester United e a infiammare il mercato. Si appoggerà alle poche persone che lavorano nella One: tra queste, c’è Enzo Raiola, il cugino, che cura gli interessi dei calciatori italiani. E ai tanti collaboratori sparsi per il Vecchio Continente. Si tratta di avvocati (in Italia c’è Vittorio Rigo), procuratori, social manager. Insomma, anche loro fanno parte del motore di un’azienda importantissima nel mondo del calcio. Che dovrà anche difendersi dalle possibili mire espansionistiche dei colleghi di Mino.

Salvatore Riggio per il corriere.it il 6 maggio 2022.

C’erano tutti, da Haaland a Ibrahimovic, passando per Donnarumma, Fabregas, Verratti e Kluivert junior, ex Roma. Tutti presenti nella chiesa di Saint-Charles, a due passi dal Casinò di Montecarlo, per l’ultimo saluto a Mino Raiola, il potente procuratore scomparso il 30 aprile, all’età di 54 anni, all’ospedale San Raffaele di Milano. 

Mino è stato «più padre che manager», come ha detto nella sua omelia padre Claudio, che ha officiato il rito funebre nella chiesa del Principato, giovedì 5 maggio. L’ultimo saluto a Mino è stato in forma privata, ma con tanta gente comune intorno, spinti dalla curiosità di quanto stesse accadendo. 

Presenti, oltre ai familiari e ai collaboratori più stretti, anche tanti amici arrivati dall’Italia per l’ultimo saluto. Adesso c’è un impero da portare avanti. Nell’entourage c’è una figura al vertice della piramide. Si tratta di Rafaela Pimenta, amica di Raiola da almeno 20 anni e sua socia da 18. È con lei, e solo con lei, che Mino ha voluto condividere le quote della società One, con sede a Montecarlo.

Attraverso questa azienda, disegnata come se fosse una famiglia, l’agente ha sempre curato gli interessi dei suoi giocatori, sparsi nel mondo. Laureata in giurisprudenza nel 1995 – parla sei lingue – ha conosciuto Mino nei primi anni del 2000. Sarà Rafaela Pimenta a portare avanti la missione di Raiola nel calcio, a partire dal possibile addio di Haaland al Borussia Dortmund. Un affare da 150 milioni di euro.

·        E' morto il politologo Percy Allum.

Scompare Percy Allum, politologo e studioso del Sud e delle infiltrazioni della camorra. Visse a lungo a Napoli. Fu uno storico collaboratore di Repubblica per l'edizione partenopea. La Repubblica il 28 Aprile 2022.  

E' morto Percy Allum, politologo inglese, molto legato a Napoli e profondo studioso della questione meridionale e delle infiltrazioni della camorra nel tessuto economico e politico. Aveva 89 anni. E' stato a lungo collaboratore di Repubblica nell'edizione napoletana. Per 12 anni ha ricoperto per dodici anni la cattedra di Scienze Politiche all'Università Orientale.

Nel 1975 è stato l'autore di un'opera precorritrice: "Potere e società a Napoli nel dopoguerra" (Einaudi). Raccontò l'ascesa di Gava, che definì boss, intendendo non una figura criminale ma un personaggio capace di usare ogni risorsa organizzativa e politica locale per affermarsi a livello nazionale.

"Il ruolo intellettuale di Percy Allum, storico e politologo molto legato alla città di Napoli e studioso delle dinamiche sociali del Mezzogiorno - gli rende omaggio il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi - è stato indiscutibilmente rilevante: ha rappresentato un'autorevole visione esterna di una lunga fase storica dei nostri territori".

·        Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.

Andrew Woolfolk, morto il celebre sassofonista degli Earth, Wind and Fire. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera.it il 27 Aprile 2022.

Il cantante Philip Bailey ha confermato la morte del musicista, ricordandolo sui social: «Grandi ricordi. Grande talento. Divertente. Competitivo. Sveglio. E sempre con stile». 

L’assolo di sassofono più coinvolgente della musica disco americana ha perso la sua voce: Andrew Woolfolk, storico componente degli Earth, Wind and Fire, autore di brani memorabili come «September», impossibile da non ballare, è morto domenica scorsa 24 aprile. Lo ha annunciato un altro membro del gruppo, il cantante Philip Bailey. Woolfok aveva 71 anni. Era malato da sei. «Lo conobbi al liceo — ha raccontato su Instagram, Bailey — e da quel momento diventammo rapidamente amici e compagni di band. Grandi ricordi. Grande talento. Divertente. Competitivo. Sveglio. E sempre con stile».

Woolfolk, nato l’11 ottobre 1950 a San Antonio, Texas, si era trasferito con la famiglia a Denver, Colorado, dove in seguito aveva incontrato Bailey. Fu Bailey che chiese a Woolfolk di unirsi agli EWF nel 1973. All'epoca, il gruppo aveva già avuto qualche piccolo successo. All'uscita dal gruppo del sassofonista/flautista Ronnie Laws, Bailey suggerì alla band di scegliere il suo vecchio compagno di liceo, Woolfolk, come suo sostituto.

All'epoca, Woolfolk viveva a New York City, studiando sassofono con il grande jazzista Joe Henderson. Stava considerando anche una carriera nel settore bancario quando arrivò l'offerta di Bailey: scelse la musica. Il primo disco di Woolfolk con gli EWF fu «Head to the Sky» del 1973, il primo della band a diventare di platino. L'ambum diede il via a un periodo di grande successo per la band, che è continuato con «Open Your Eyes» del 1974. In oltre quarant'anni di carriera gli EWF hanno venduto circa 90 milioni di dischi nel mondo e ricevuto 20 nomination ai Grammy Awards, vincendone sei.

La band è rimasta molto popolare per tutti gli anni Settanta: un successo destinato a declinare all'inizio degli Eighties. Dopo l'uscita di «Electric Universe del 1983» il gruppo si prese una in pausa, continuando a produrre in modalità spot album talvolta anche di discreto successo. Woolfolk ha continuato a suonare il sax fino al 1993. Celebri i momenti dei concerti in cui, nel mezzo di un brano, entrava in scena il suo sassofono, che cominciava a scatenare la voglia di ballare nel pubblico, e con gli altri membri che battevano le mani per scandire il ritmo.

·        E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.

(ANSA il 26 aprile 2022) -  E' morta Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta e considerata la memoria storica della destra italiana, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio.

Da cinquantamila.it - La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti 

• (Stramandinoli) Catanzaro 1925. Vedova di Giorgio Almirante (1914-1988), mitico segretario del Msi degli anni Sessanta e Settanta (si conobbero nel 1951 a casa del conte Sabatini, un comune amico). «Non sono mai stata fascista e nemmeno missina». 

• «Vedova dello storico leader missino, è la prosecuzione immaginaria del suo verbo, idolatrata e ricercata, temuta da molti big della destra, a partire da Fini (“è un pigro”), e anche del Pd (“mi hanno chiamato alcuni uomini di Renzi per capire il motivo dei miei attacchi al loro leader”)» (Alessandro Ferrucci) [Fat 19/1/2015]. 

• «Non c’è diatriba, in casa An, che non veda i giornalisti precipitarsi in casa di donna Assunta per raccoglierne il verbo. Donna Assunta non si fa pregare. Per ognuno ha una bella dichiarazione, libera, controcorrente, coraggiosa. Una manna per i giornalisti. “Giorgio Almirante non l’avrebbe fatto”. Oppure: “Mio marito sarebbe stato d’accordo”» (Claudio Sabelli Fioretti). 

• «Spesso apro la porta di casa e trovo silenziosi omaggi di ammiratori di mio marito. Mi portano i fiori, anche la mozzarella fresca, la lasciano nei contenitori termici, senza nome, davanti all’uscio». 

• A coloro che le hanno offerto di candidarsi ha detto: «Ma non esiste proprio. Per nessuna ragione. Ma le pare che io mi sarei fatta dire: “È la moglie di, conosce tutti”. Avrei provato un senso di vergogna» (a Brunella Bolloli) [Lib 20/2/2013]. 

• La prima impressione su Almirante? «Vestiva malissimo, da vergognarsi, con la camicia alla Robespierre, i sandali e le unghie di fuori». Lei lo ha portato sulla rotta del “doppiopetto”. «Un lavorone, ci ho pensato sempre io, ma era necessario stargli dietro. E poi era distratto, a volte tornava a casa con scarpe non sue perché in treno se le toglieva e poi si rinfilava quelle del vicino».

Si divertiva di queste distrazioni? «Insomma, più che altro mi schifavo». Lei era la ricca dei due... «Non mi sono mai lasciata mantenere, ho sempre lavorato, a ognuno il suo conto. Quando l’ho conosciuto lui non aveva la macchina io già possedevo la 130» (intervistata da Alessandro Ferrucci, cit.).

Tommaso Labate per corriere.it il 26 aprile 2022.

Assunta Almirante è morta martedì 26 aprile. La vedova di Giorgio Almirante, leader storico del Movimento sociale, aveva compiuto 100 anni il 14 luglio scorso. Raffaela Stramandinoli (questo il nome da nubile), catanzarese di nascita, romana d’adozione, vedova dello storico segretario del Movimento Sociale italiano, è stata per la regina madre della destra italiana. 

«Quando non ci sarò più, si dimenticheranno di me. E si dimenticheranno anche di voi». Ascoltandole dalla voce sofferente dell’amato Giorgio Almirante, queste parole, Donna Assunta si era commossa. Era l’inverno del 1988, il marito aveva lasciato la guida del Movimento Sociale Italiano al «delfino» Gianfranco Fini, la destra italiana era attesa a cambiamenti fin lì neanche immaginabili e lei, Donna Assunta, osservava da vicino un mondo, il suo mondo, che non sarebbe mai stato più quello che aveva conosciuto.

Raccontano che dopo la morte del consorte, arrivata il 22 maggio dello stesso anno, in piena primavera, a chiunque le ricordasse l’amara profezia sulla sorte da «dimenticato» del cognome Almirante – che valeva per la memoria del marito Giorgio e anche per lei, che era rimasta viva – Donna Assunta avrebbe risposto sfoderando quel ghigno beffardo che negli anni a venire avrebbe trasformato in una specie di marchio di fabbrica, unito al gesto delle corna e all’immancabile urletto con cui teneva alla larga le iatture: «Tie’!». 

Si è spenta oggi dopo aver superato il secolo di vita e raggiunto quello che, in fondo, era diventato lo scopo della sua esistenza. Impedire che la polvere del nuovo – la nuova destra, i nuovi leader, il nuovo tutto – si depositasse su quello che era stato, cancellandolo per sempre; ma anche smentire la diceria antica secondo cui campa cent’anni solo chi si fa i fatti suoi.

Nata Raffaella Stramandinoli nel 1921 a Catanzaro, e diventata «Assunta» perché da bambina la chiamavano «Assuntina», Donna Assunta cent’anni li ha vissuti senza mai farseli, i fatti suoi. Sposata giovanissima al Marchese Federico de’ Medici, nel 1952 se ne separa per stare con Giorgio Almirante, il grande amore che nella vita – forse - bussa una sola volta. Le nozze arriveranno nel 1969, alla morte del marchese Federico, undici anni dopo la nascita della loro figlia Giuliana, che aveva preso il cognome de’ Medici. 

Nel 1974, quando si avvicina il referendum sul divorzio, la condizione familiare degli Almirante diventa uno strumento di delegittimazione interna del segretario dell’Msi. A Donna Assunta importa poco o nulla. «Io voto a favore del divorzio», ripete in ogni occasione. Al marito toccherà il peso di difendere la ragione del partito e di fare la campagna «contro» insieme alla Dc, rinviando i conti con la propria coscienza al segreto dell’urna. «Almirante», avrebbe ricostruito lei anni dopo, «era favorevole al divorzio. Ma siccome l’esecutivo del partito lo aveva messo in minoranza, ha dovuto accettarne le decisioni. Anche io ero favorevole. Perché, girando il mondo, ci eravamo accorti che molti, soprattutto i meridionali, si erano rifatti una famiglia».

Morto Almirante, non c’è ragione di partito che separa il pensare di Donna Assunta dal dire e quindi dal fare. Pur non essendo mai stata fascista - «Perché vengo da una famiglia antifascista» - diventa una specie di Cassazione della storia su quello che va fatto oppure no per difendere l’eredità politica del marito. Custode unica dell’ortodossia almirantiana, Donna Assunta sarà contraria alla svolta di Fiuggi impressa da Gianfranco Fini, suo antico «pupillo», e decisamente scettica sul berlusconismo. Alle Europee del ’99, quando Fini vara il progetto dell’Elefantino insieme a Mariotto Segni, arriva a minacciare un voto per la sinistra; poi però alla fine non ce la fa, si fa accompagnare al seggio, ritira la scheda e la annulla con una scritta a caratteri cubitali: «Viva Almirante!».

Da lì in poi, tolto Francesco Storace, avrebbe messo in riga chiunque: da Fini, ai colonnelli di Alleanza Nazionale, a Giorgia Meloni. Gli amici, a destra, si fanno sempre meno. Il telefono smette presto di squillare e, quando squilla, dall’altra parte ci sono più quelli «dell’altra parte», dai coniugi Bertinotti agli eredi di Bettino Craxi passando per la vedova dell’ex ministro socialista Italo Vignanesi, che per il compleanno dei cent’anni – nel luglio scorso – gli ha fatto recapitare cento rose rosse. 

Nel 2018, dopo le ultime elezioni politiche, sceglie insieme alla figlia Giuliana che è ora di lasciare le scene. Mai più interventi, mai più interviste, mai più parole pubbliche di quelle che un tempo erano capaci di provocare dei piccoli terremoti all’interno della destra. «Un ritiro alla Greta Garbo», si dicono mamma e figlia. Così sarà, da lì in poi, solo silenzio. Un silenzio però colorato, come il rosso acceso del suo rossetto, ostentato nella terrazza della sua casa ai Parioli anche nel giorno del suo ultimo compleanno, senza politici attorno.

Un deputato della Lega con un passato nel Fronte della Gioventù, Mauro Lucentini, era passato senza preavviso con un mazzo di fiori da far recapitare alla festeggiata. «Lascio solo questi, non vorrei disturbare». Donna Assunta l’ha fatto salire in casa, giusto in tempo perché ascoltasse la «Calabrisella mia» che le stavano dedicando dagli amici. Per i non più amici, invece, hanno continuato a valere il ghigno beffardo, il gesto delle corna e l’immancabile «tie’!». Magari non detto ma solo pensato, questo sì. Fino all’ultimo sospiro. 

Aldo Cazzullo per corriere.it il 26 aprile 2022.

«Ma perché signor Fini ha fatto viaggio a Israele? Perché?». Le prime vittime della storica visita a Gerusalemme dell’allora capo della destra italiana (quella del fascismo male assoluto, frase in realtà mai pronunciata) erano Lal e Tusita, i filippini di casa Almirante. Il loro compito era filtrare i militanti indignati che chiedevano lumi e aiuto a lei, la vedova di Giorgio. «Donna Assunta, qui sotto casa c’è un altro che vuole restituire la tessera di An». «Mettetela con le altre. Poi le portiamo in cantina». «Donna Assunta , ancora telefono». «Vi ho detto che ci sono soltanto per Alessandra». «Donna Assunta, è Alessandra Mussolini». «Alessa’!». «Donna Assu’!». 

Seguì telefonata quasi altrettanto storica: la nipote del Duce e la moglie di Almirante si dissero che An era finita, e bisognava rifondare la destra italiana, magari già con una lista alle Europee. Donna Assunta, che la candidatura l’aveva sempre rifiutata, quella volta ci stava pensando: «Ma secondo lei, un italiano di destra per chi dovrebbe votare? Per Mussolini, o per Gustavo Selva? Per Almirante, o per Publio Fiori?». Non si trattava di fondare un nuovo partito. Bastava riprendersi il vecchio.

«Guardi – spiegava donna Assunta – tutti parlano della svolta di Fiuggi . Ma che è successo a Fiuggi? La Destra Nazionale di mio marito è diventata Alleanza Nazionale. Sai la novità. Stessi dirigenti. Stessa sede. Stesso simbolo. Fini vuole andare oltre? Fare il partito unico del centrodestra? Benissimo! Vada! Però ceda la fiamma. A noi». Lei ne parlava come di un figlio perduto. «Io non so cosa gli sia successo, in Israele. L’ha visto? Sembrava drogato. Narcotizzato. Un bambino agli esami. Uno studente punito. Tutto tirato, in quel cappottino. Pareva un attore. Io a Gerusalemme ci sono stata, al Muro del Pianto mi sono commossa, però insomma anche ad Assisi, che ci sono pure Giotto e la cripta di San Francesco. Lui invece. Qualunque cosa gli avessero chiesto, purché portassero la kippah in testa, gli avrebbe detto di sì. Avrebbe rinnegato non solo i morti di Salò, non solo Mussolini, avrebbe rinnegato persino...persino...».

Giorgio Almirante era raffigurato nella sua vecchia casa ai Parioli 34 volte tra foto, busti, ritratti. Quasi un sacrario. Lettera di Brasillach dal carcere. Diploma di primo della classe, Torino, anno scolastico 1923. Il telefono intanto suonava senza tregua. Foto in doppiopetto al ricevimento di Juan Carlos. Servizio di piatti dono dello Scià di Persia. Citofono. «Chi chiama? Chiama l’Italia! Ma l’ha visto La Russa l’altra sera da Vespa? Quando ha spezzato la biro? Quanto soffriva, povero Ignazio. Suo padre non ha mai preso la tessera di An, è rimasto missino, e lui pure. Ma quale liberaldemocratico! Creda a me che lo conosco da quand’era ragazzo: Ignazio La Russa è un fervente mis-si-no! Di liberali in giro ce n’è fin troppi. Il nostro dev’essere il partito dei valori di Almirante: nazione e patto sociale». 

Duplice bracciale d’oro, triplice anello a ogni anulare, anello nobiliare al mignolo sinistro («sono stata sposata a un De Medici»), ottuplo giro di perle, Donna Assunta fremeva di indignazione ma non perdeva lucidità. «Ammettiamo pure che Salò sia una vergogna. Perché allora Fini è entrato nel Msi? L’avrà obbligato il dottore? Perché ha taciuto finora? Ha scoperto qualcosa che non sapeva?

Era il capo del Fronte della Gioventù, il leader dei giovani, che erano piuttosto accesi, e mio marito si occupava semmai di moderarli. I missini non sono antisemiti, già nel ‘67, guerra del Kippur, Almirante schierò il partito con Israele; avevamo amici ebrei, da Camponeschi due anni fa ho incontrato privatamente Shimon Peres, Barillari ci ha pure fotografati. Mi ha colpito però che Fini non abbia incontrato un solo palestinese. Ma come, quando Arafat veniva a Roma lo baciavano tutti, pure il Papa, e adesso neanche un saluto? Dicono che è malato. Che c’ha, la lebbra?».

Tusita portò il telefono: era di nuovo la Mussolini. «Alessandra! Oggi pomeriggio dovevo andare alla sezione della Balduina a distribuire le tessere, e non ci vado. Anzi, sai che c’è? Ci vado, non dò le nuove tessere, e dico agli iscritti: restituite le vecchie! Anzi, dev’essere Fini a restituirci la fiamma. Si vergogna? Benissimo. Vuole uscire dalla casa del padre? La lasci a noi. Alessa’ : la destra siamo noi». 

Dopo essersi sfogata, Donna Assunta abbassò la voce. «Sono sempre rimasta vicina ai Mussolini, in questi anni. Edda, una donna intelligentissima. Sempre silenziosi, sempre dignitosi. Adesso però sono indignati, e hanno ragione. Al povero Duce ne hanno fatte di tutte, l’hanno appeso a testa in giù, gli hanno sputato; che cosa c’era ancora bisogno di fare?

Sa perché Almirante tra cinque o sei candidati ha scelto Fini come erede? Perché era l’unico nato dopo la caduta del fascismo. Me lo ricordo Fini a Fiuggi. Piangevano tutti, lui fece il gesto di togliersi gli occhiali, ma forse fingeva, forse piangeva con la glicerina come gli attori. E’ un bravo ragazzo, voleva e vuole bene a mio marito, è capace, fa bella figura in tv. Ma non fa come faccio io, non va più in giro a stringere mani, firmare autografi, cenare con i militanti. 

E’ stimato, ma non credo sia davvero amato. Il nostro popolo amava Giorgio». Dicono che anche suo marito fosse un po’ un attore. “Veniva da una famiglia di artisti, ma soprattutto aveva il polso della folla. Arrivavano da tutta Italia ad ascoltarlo in piazza del Popolo, e lui li faceva ridere e piangere, sapeva provocarli e confortarli. Un giorno, lui lo sapeva, la destra sarebbe andata al governo”.

Altre foto. Viaggio in Spagna, dalla vedova e dalla figlia di Franco. Il matrimonio dei figli, Giuliana e Leopoldo, lo stesso giorno, 12 settembre 1987, Amalfi. «Vennero da tutti i paesi della costiera e pure da Napoli. Parevano le nozze della regina Elisabetta. Portavano limoni, ciambelle, ricotta fresca. Davano a Giorgio i bambini da baciare, si sporgevano per sfiorarlo: “Tuoccalo!”. Povera Giuliana, le hanno strappato il vestito. Lui stava già male. Sei mesi dopo è morto. Al terzo giorno di camera ardente pareva come levitato. Era disteso su un letto di tessere. 

Ho riempito tre sacchi con le tessere che i militanti gli avevano restituito in segno di omaggio, come a dire: con te muore il Msi». A chiederle di Berlusconi, rispondeva: «E’ un grosso impresario, ma mi pare troppo sicuro di sé”. Aveva molta simpatia per Francesco Storace. Ma il politico che stimava di più era Bettino Craxi. “Fu il primo a ricevere mio marito. Giorgio gli disse: “Guardi che io sono fuori dall’arco costituzionale…”. Lui rispose: “L’arco costituzionale è roba da De Mita”. Leader come Giorgio e Bettino non ne nascono più”.

Assunta Almirante, l'imperatrice madre del postfascismo. Stefano Cappellini su La Repubblica.it il 26 Aprile 2022.  

È morta a 100 anni la vedova di Giorgio Almirante. È stata per decenni la custode della "matrice", il galateo del neofascismo

La chiamavano l'Imperatrice madre. E l'impero, naturalmente, era quello postfascista di cui il marito di Donna Assunta, Giorgio Almirante, era stato leader assoluto per oltre 18 anni e guida carismatica per tutto il dopoguerra. Se non fosse che a lei, Assunta, la definizione di imperatrice piaceva eccome, quella di postfascista proprio no: "Giorgio non si è mai definito postfascista.

Un lungo secolo a destra: addio all'ultima testimone. Stenio Solinas il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

La morte a 100 anni della vedova del leader missino. Una vera "esule in patria", sconfitta ma mai rassegnata.

Per capire chi fosse donna Assunta Almirante, morta ieri a cento anni di età, o meglio, il carattere di donna Assunta, bisogna fare un salto all'indietro di mezzo secolo, il 1973 per la precisione. La scenario è rappresentato da un Motta-Grill, sull'autostrada del Sole, all'altezza del casello di Cantagallo. Insieme con il marito Giorgio, segretario del Movimento sociale italiano e il figlio di primo letto di lei, c'è come autista e amico il deputato missino Michele Marchio. Marchio è una buona forchetta, come il suo stesso fisico dimostra, ed è lui a proporre una sosta. Sono tutti in viaggio da Milano per Roma, dove l'allora presidente della Repubblica Leone sta procedendo con le consultazioni delle forze politiche. Donna Assunta ordina, come piatto unico, cotechino con lenticchie, dopotutto siamo in Emilia, il marito, che al cibo non ha mai fatto caso, una pastasciutta in bianco, di Marchio e del ragazzo la cronaca non ricorda le scelte, se non che oltre a un primo c'era un secondo. Sta di fatto che a un certo punto la scena si anima, la coda di chi deve ordinare si allunga, qualcuno protesta, si vedono gli inservienti dell'autogrill tutti a braccia conserte. «Siamo in sciopero» dicono a chi vorrebbe soltanto una lasagna... Non parla più nessuno.

Almirante, che intanto, incuriosito si è alzato, capisce e chiama il direttore: «Questo silenzio è in mio onore?» chiede. «Sono lavoratori della Cgil» risponde quello un po' impacciato. «Ah, capisco» replica Almirante e torna al tavolo: «Andiamo» dice al resto della compagnia. Donna Assunta però non ci sta: «Nemmeno per sogno. Voglio mangiare anche la frutta». Va al buffet, si serve da sola, torna a tavola, passano così altri venti minuti e intanto il silenzio si può tagliare con il coltello tanto l'atmosfera si è fatta pesante. «L'ho fatto per tigna, soltanto per tigna» ha raccontato anni dopo a Luca Telese in un libro che, non a caso, si intitolava Cuori neri...

Se quello era il clima, e quello era il clima, si capisce come e perché Assunta Almirante fosse insieme tignosa, da buona calabrese trapiantata a Roma, orgogliosa e gelosa, tutt'uno con il marito e con il partito da quest'ultimo guidato. Allora stavano già insieme da vent'anni, entrambi reduci da due matrimoni andati male, e insieme sarebbero rimasti sino alla morte di lui, nel 1988. Dopo, lei ne avrebbe custodito la memoria, rendendosi via via conto che il cavallo su cui aveva puntato in qualità di erede, con Almirante ancora vivo, ovverosia il quarantenne Gianfranco Fini, non era il purosangue, soprattutto da lei, immaginato.

Passare da protagonista a testimone non è mai un'impresa facile, ma donna Assunta ha saputo farlo con dignità e fermezza, senza tatticismi e mai nascondendosi dietro le parole, tenacemente difendendo una storia, di un marito, di un partito, di una comunità ideale, che era poi tutta la sua vita, e guadagnandosi in tal modo un consenso bipartisan, degli amici come dei nemici.

Sarebbe contrario alla verità dire che al tempo in cui era la moglie e insieme la «consigliera» di Almirante ci fosse all'interno del mondo missino un consenso indiscusso. Era un mondo misogino e in più, specie nella sua componente giovanile, numerosa, in proporzione, quanto quella del Pci, l'antagonista storico, e che si sentiva alternativa al sistema, se non rivoluzionaria, le intromissioni femminili dall'alto, non militanti, insomma, venivano viste come «borghesi», segno di indebolimento... Era stata sposata con un marchese molto più anziano di lei, donna Assunta, aveva gusti altolocati, aveva rivestito il nuovo marito, Almirante appunto, da capo a piedi, gli aveva imposto insomma abitudini, gusti e costumi «borghesi», la terribile parola d'ordine con cui quei poveri ragazzi fieri di aver scelto «la parte sbagliata» bollavano tutto ciò che odiavano. Lo dico per dare un'idea di che cosa fosse un mondo, non solo politico, ma ideale dove si militava senza alcuna idea di tornaconto, un ghetto chiuso per disperazione anche dall'interno e dove ogni sortita professionale fortunata e insieme fortuita veniva vissuta come un tradimento.

Con Assunta Almirante scompare un pezzo fondamentale di storia d'Italia, quella dei cosiddetti «esuli in patria», sconfitti e però mai rassegnati, custodi di un piccolo mondo antico a volte anacronistico, ma pulito, come sempre accade a chi non mette il suo dio nella carriera.

Italiani per bene, anche al tempo in cui chi si credeva democratico non avrebbe voluto, in nome della democrazia, nemmeno permettergli di bere un caffè... 

Quando smascherò Fini sulla casa di Montecarlo. Massimo Malpica il 27 Aprile 2022 su Il Giornale.

Non perdonò mai a Gianfranco Fini quell'affare: "Almirante non aveva cognati..."

Ci sono leader e leader, cognati e cognati. Lei lo sapeva bene. Regina madre della destra italiana, Assunta Almirante già da moglie di Giorgio giocò un ruolo importante nel Msi. Fu proprio lei, ricordava, a «imporre» al marito nel 1987 la scelta di un 35enne Gianfranco Fini come segretario. Una decisione ponderata, spiegava Donna Assunta, che all'epoca apprezzava quel giovane politico ma che poi ne sarebbe diventata una spina nel fianco. «Sfiduciandolo» dopo la svolta di Fiuggi, per poi ripudiarlo quando, a fine luglio 2010, esplose lo scandalo della casa di Montecarlo. Quella lasciata in eredità per la «buona battaglia» al partito dalla contessa Anna Maria Colleoni, e finita svenduta per 300mila euro a una serie di società offshore, che avevano scelto come inquilino Giancarlo Tulliani, il fratello della compagna del fondatore di An, Elisabetta.

La storia è nota, la reazione di Fini all'inchiesta del Giornale che la rivelò pure: Fini derubricò tutto a campagna di delegittimazione, sostenne che il giovane Tulliani aveva affittato quella casa a sua insaputa, sminuì l'evidenza solare del ridicolo prezzo di vendita, e promise di dimettersi se fosse stato provato che Tulliani era il vero proprietario dell'appartamento. Il caso spaccò la destra, molti ex missini gli voltarono le spalle dandogli del traditore, altri seguirono l'allora presidente della Camera nella sua ultima avventura politica, la nascita di Futuro e Libertà, appena due giorni dopo la pubblicazione del primo articolo sull'affaire monegasco del Giornale. Il seguito della storia sbugiardò l'ex leader di An. Prima un documento del governo di Saint Lucia, l'isola caraibica sede delle offshore (Printemps, Timara, Jaman Directors), attestò che proprio il cognato era il proprietario di fatto di quelle società, e quindi della casa. Poi, anni dopo, la vicenda riemerse come punta dell'iceberg di un'indagine per maxiriciclaggio connessa al «re delle slot» Francesco Corallo. Per gli inquirenti, proprio con i soldi di quest'ultimo Tulliani avrebbe «saldato» il prezzo d'occasione pagato ad An per l'appartamento, mentre metà dei soldi incassati rivendendolo (al vero prezzo di mercato, assicurandosi una plusvalenza da 1,2 milioni di euro) dopo lo scandalo erano finiti sui conti dei Tullianos, compresa Elisabetta. Fini si difese dandosi del «coglione». Ma per le Fiamme Gialle, l'affaire immobiliare era stato concordato da Corallo e dai Tulliani, «nella piena consapevolezza» di Fini. Che, nel 2018, fu rinviato a giudizio per riciclaggio con compagna, cognato e suocero per aver trasferito fondi del gruppo Corallo a società offshore.

Fini, oggi 70enne, si è eclissato. Il processo da quattro anni tarda a ingranare. Ma Donna Assunta ha fatto in tempo a emettere il suo verdetto, anche se solo morale e politico: una condanna senza appello. Disse che l'ex delfino, rinviato a giudizio, doveva restituire i soldi alla fondazione An. Ricordò che Giorgio Almirante, «non aveva cognati», tanto da trasferire subito al partito «altri appartamenti» donati dalla stessa contessa Colleoni. E, su Fini, tagliò corto: «Vorrei non averlo mai conosciuto».

MARIO AJELLO per il Messaggero il 27 aprile 2022.

Era la regina madre della destra italiana. «Fascista io? No, sono di destra ma quella vera e non voltagabbana». E in questo c'era, da parte di Donna Assunta Almirante, la sua critica alla svolta finiana di Fiuggi («Gianfranco fingeva di piangere mentre noi piangevamo sul serio»). 

Era un peperino («Sono come la nduja della mia Calabria»), spigliata e super-pop. Ora è morta Donna Assunta, a 100 anni, tutti vissuti al massimo e spesso fuori dagli schemi. Compresi quelli ideologici. Ha fatto simpatia a molti di sinistra (e alcuni di loro domani saranno ai funerali di massa nella chiesa di Piazza del Popolo) che ne hanno apprezzato una libertà di giudizio che sovente manca nel fronte progressista sia maschile sia femminile. 

In un secolo di vita, Donna Assunta di schemi ne ha rotti parecchi. Sposò Almirante, con cui stava dal 1952, soltanto nel 1969, dopo la morte del primo marito Federico de' Medici, da cui aveva già avuto tre figli. Ed è per questo che divenne una fervente sostenitrice del divorzio, difeso a spada tratta nel referendum abrogativo del 1974 anche se la linea del Msi era un'altra.

E' stata custode silenziosa di tutte le volte in cui Almirante incontrava di nascosto il segretario comunista del Berlinguer («Persona onesta e lineare»). E sarebbe rimasta in scena anche dopo la morte di Giorgio. «Io la adoro quasi fosse Mamma Rosa», le ha detto una volta Berlusconi. Il quale ora («Il Cavaliere? Più che altro un grosso imprenditore», e per lei questo non era un complimento) la piange come tutti. A cominciare dalla Meloni («E' stata un pilastro della memoria storica della destra italiana», scrive Giorgia) alla cui proposta di intitolare una strada di Roma ad Almirante, Donna Assunta rispose: «Non ce n'è bisogno».

Ruppe con Fini e alle Europee del '99 minacciò che avrebbe votato per la sinistra per contrastare «l'orrido elefantino» del progetto politico di Gianfranco e Mariotto (Segni). All'ultimo secondo, poi, non ce la fece. Scrisse sulla scheda un gigantesco «Evviva Almirante!». Avrebbe messo in riga, negli anni a venire, chiunque: anche i colonnelli di An ma è rimasta legatissima a Francesco Storace. Calabrese doc, Donna Assunta a luglio, per il suo centesimo compleanno, si è fatta suonare «Calabrisella mia».

Aveva tanti amici a sinistra e soprattutto un feeling anche mondano, con i coniugi Bertinotti. E pure con la famiglia Craxi. «Bettino fu il primo a ricevere mio marito. Giorgio gli disse: guardi che io sono fuori dall'arco costituzionale Lui rispose: l'arco costituzionale è roba da De Mita». Era nata Raffaela Assunta Stramandinoli, ma poi il secondo nome ha finito per imporsi sul primo. È stata un personaggio cult della vita romana, dispensatrice di stroncature feroci e carezze amorevoli. Di Mussolini diceva: «Ma proprio a testa in giù dovevano metterlo? E c'era proprio bisogno di sputargli addosso? Ma che gentaccia!». Ora Donna Assunta non c'è più e il presepe italiano perde un pezzo che lo ha animato assai.

Marcello Veneziani per “La Verità” il 27 aprile 2022.  

Assunta Almirante restò missina fiammante per tutta la vita. Anche se per lei il Movimento sociale italiano era il nome d'arte del suo grande amore, Giorgio Almirante, di cui lei era stata la grande fiamma e poi sua moglie. 

Donna Assunta era fiammeggiante nel temperamento, scoppiettante nel carattere e leggermente ustionante nel parlare, con lieve inflessione calabrese, nei colori vivaci a cui l'associo (me la ricordo come un quadro di Andy Warhol). Restò per la destra postfascista la Custode inflessibile del Fuoco di Vesta della Fiamma missina. 

Donna Assunta ha resistito al 25 aprile ed è morta alle prime ore di ieri; aveva già compiuto cento anni, ai nostalgici piacerà ricordare che è morta nel centenario della Marcia su Roma. Ma Donna Assunta era diventata dopo la morte di Almirante, un personaggio di prima fila nella vita pubblica italiana.

Dico prima fila non a caso perché avrò visto Donna Assunta in prima fila in eventi politici, spettacolari, teatrali, mondani e istituzionali almeno trecento volte. Non poteva mancare, a volte la sua presenza sanciva l'importanza dell'evento. E tra le tante sue prime file me ne ricordo una. Ero sul palco per un mio «comizio d'amore all'Italia» e in un video che lo accompagnava, con la colonna sonora Ritornerai di Bruno Lauzi, apparve il volto di Almirante in comizio. 

Lei sbarrò gli occhi, ebbe un sussulto e disse alzando le braccia «Madonna mia». La sua spontaneità espansiva, la sua mimica, la sua gestualità, raccontavano il personaggio.

Anche quando era in platea era sul palcoscenico. 

Donna Assunta diventò una celebrità dopo la scomparsa di Almirante. Fu vista di volta in volta come la Regina madre, la Vedova indomita, la Suocera della destra nazionale, la Maestra di catechismo almirantiano, la Madonna pellegrina della missineria impenitente; ma restò soprattutto la combattiva signora senza peli sulla lingua che non risparmiava nessuno.

Piaceva a destra ma non dispiaceva affatto a sinistra, e lei sapeva essere ammiccante anche con loro. Raccontò di molti incontri tra Almirante ed Enrico Berlinguer, forse più di quelli realmente accaduti e cavalcò l'onda del paragone tra i giganti gloriosi del passato e i nani infami del presente. Strapazzava i missini, poi aennini, poi fratellini, senza riguardi, ma loro devotamente pendevano dal suo rossetto. Trattava anche maturi ultrasessantenni come ragazzini. 

Picchiò duro su Gianfranco Fini dopo il suo «tradimento» e su tutti i colonnelli, a turno o insieme. Ricordo sue telefonate interminabili e appassionate su di loro, sulla Fondazione, magari in seguito a miei scritti. Negli ultimi tempi ricordo pure qualche piccola confusione: come quando disse che Almirante, sdegnato per come avevano trattato Bettino Craxi, andò a trovarlo nel suo esilio di Hammamet. Ma Almirante era morto cinque anni prima.

In realtà lei proiettava su Almirante, sentendosi la sua propaggine, la sua simpatia per Craxi. Ma, salvo qualche defaillance, la lucidità l'accompagnò nella lunga vecchiaia e nei 34 anni di onorata vedovanza.

Qualcuno le attribuì la colpa di aver suggerito lei ad Almirante di nominare Fini, e pure lei alla fine ci credette. Ma la scelta di Almirante fu dettata da due ragioni politiche comprensibili: Fini consentiva il salto generazionale postfascista ed era un leader adatto per un partito fondato sui comizi e l'oratoria. Gli altri notabili missini erano poco più giovani di Almirante se non più vecchi (come Pino Romualdi), non avevano capacità oratorie e televisive o esprimevano una linea di opposizione ad Almirante, per giunta con un'indole meno «politica» (come Pino Rauti o Beppe Niccolai). 

Lei magari aveva espresso un parere favorevole sul giovanotto Fini ma non è sensato pensare che Almirante, che considerava il Msi come la sua vita, decidesse di scegliere il suo successore su consiglio muliebre, seppure della sua sveglia consorte. 

Donna Assunta, al secolo Raffaela Stramandinoli, non volle mai scendere in politica e godere del voto riflesso, in memoria di Almirante; preferì esserne la custode e la vestale, arrivando perfino a parlare in suo nome («Giorgio non l'avrebbe mai fatto»).

Donna Assunta fu l'esempio di come una donna possa essere rispettata e perfino temuta, pur non essendo femminista né disponendo di alcun potere.

Gestì con salda e signorile noncuranza le voci sull'infedeltà di suo marito, ritenendole parentesi passeggere e irrilevanti, perché sapeva di essere lei saldamente al centro della sua vita affettiva e privata. La chiamavano tutti Donna Assunta, ma quel Donna stava anche nel significato classico di Domina. 

Con lei ho avuto un rapporto affettuoso e un po' omertoso: non ebbi mai il coraggio di dirle il mio dissenso da Almirante, né mai le raccontai uno scambio epistolare polemico con lui con sgradevoli conseguenze. Ma non volli mai rivangare con lei quei dissapori; il tempo è gran signore e i signori dimenticano, soprattutto per non dispiacere le signore.

Negli anni scorsi Donna Assunta restò imbottigliata nel traffico stradale: mi riferisco alle vie che si volevano intitolare ad Almirante in tutta Italia o che si voleva impedire di farlo, quelle che furono negate o cancellate appena cambiò la giunta dei Comuni. Donna Assunta fu tirata di qua e di là per esprimere pareri, giudizi, plausi e condanne, ma mantenne gelosamente la sua dignitosa indipendenza. Paradosso vuole che oggi sarebbe più facile dedicare una via a lei, Donna Assunta, che a suo marito. Sarebbe per lei una trionfale, postuma sconfitta. 

"Esempio di coerenza e attaccamento agli ideali". Francesca Galici il 26 Aprile 2022 su Il Giornale.

Giuliana de Medici ha ricordato sua madre Donna Assunta Almirante, scomparsa a Roma all'età di 100 anni. Tante le dimostrazioni d'affetto.

A 100 anni è morta Donna Assunta Almirante, memoria della destra storica italiana. Si è spenta nella sua casa romana e fino a che ha potuto ha partecipato agli eventi politici insieme a sua figlia, Giuliana de Medici, con la quale si è spesa per lunghi anni per la fondazione Giorgio Almirante, custode di un patrimonio politico e culturale. "L'esempio che ci ha lasciato è la sua volontà incredibile, non si arrendeva di fronte a nulla", ha dichiarato Giuliana de Medici.

Donna Assunta Almirante ha saputo costruire attorno a sé una rete di grande influenza politica e il suo modo di essere e di pensare le hanno permesso di ricevere molti attestati di stima in vita, che ora si traducono in manifestazioni di vicinanza alla famiglia, così come rivelato da sua figlia: "Sto ricevendo tantissime dimostrazioni di affetto, le volevano tutti tanto bene". Fino alla fine, come sottolineato da Giuliana de Medici, Donna Assunta Almirante è stata "un esempio di coerenza e di attaccamento agli ideali e al suo uomo". Una dedizione stoica ed è "questo l'esempio più grande che ci ha lasciato".

Questo è il momento del dolore per la famiglia e per gli amici più intimi, che si sono stretti a Giuliana de Medici per supportarla e aiutarla ad affrontare la dipartita di sua madre, alla quale è sempre stata legatissima, soprattutto negli ultimi anni, quando Donna Assunta Almirante ha avuto più bisogno della vicinanza di sua figlia: "Una perdita enorme, perché tra noi c'era un rapporto speciale, soprattutto in questi ultimi anni eravamo sempre insieme e sempre vicine".

Donna Assunta Almirante nacque a Catania ma era ormai diventata romana d'adozione. Ha trascorso qui gran parte della sua vita e a Roma ha accentrato a sé la prosecuzione della destra italiana, della quale veniva considerata quasi la "regina madre". Ha dispensato consigli agli uomini della destra italiana fino alla fine ma non è stata mai tenera con gli stessi, ai quali non ha risparmiato nemmeno forti critiche. Per quanto fu una delle più grandi promotrici dell'ascesa di Gianfranco Fini alla guida del Msi, per esempio, criticò duramente la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l'Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza nazionale. Ha sempre avuto idee nette e determinate in tutte le vicende politiche che hanno interessato la destra italiana.

Addio a donna Assunta: a cento anni si spegne la moglie di Almirante. Il Quotidiano del Sud il 26 aprile 2022.

E’ morta Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta e considerata la memoria storica della destra italiana, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio.

Raffaela Stramandinoli, detta Assunta, era nata a Catanzaro ma era diventata romana d’adozione. Per decenni, anche dopo la morte di Almirante nel 1988, è stata la regina madre della destra italiana, dispensatrice di consigli ma anche di pesanti critiche, sponsorizzò Gianfranco Fini alla guida del Msi ma criticò la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l’Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza Nazionale.

“Donna Assunta Almirante ha segnato un’epoca della vita italiana. Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione”, dichiara il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri.

“Addio a donna Assunta Almirante,una delle donne più affascinanti e influenti di Roma,morta oggi a 101 anni. Voglio ricordarla con questa istantanea,accanto a Silvio Berlusconi, nel giorno del mio cinquantesimo compleanno”. Così il deputato Fi Gianfranco Rotondi postando su twitter una fota della vedova Almirante con il leader azzurro.

Assunta Almirante muore a 100 anni, la "Donna" dell'Msi: Giorgio, la destra e il "tradimento"di Fini. Libero Quotidiano il 26 aprile 2022.

È morta questa mattina 26 aprile Assunta Almirante, moglie di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. La donna, chiamata Donna Assunta, aveva 100 anni, compiuti lo scorso 14 luglio. Nata a Catanzaro aveva sposato in prime nozze il marchese Federico de' Medici, di 21 anni più anziano di lei, dal quale ebbe tre figli: Marco, Marianna e Leopoldo. Nel 1952 il colpo di fulmine per Giorgio Almirante che la portò a separarsi dal marito. Dalla loro unione nacque nel 1958 Giuliana, che porta il cognome de' Medici perché il marchese la riconobbe per evitare che venisse considerata una figlia illegittima.

Alla morte del marchese, Assunta sposò nel 1969 Giorgio Almirante in chiesa, con matrimonio tramite rito di coscienza, perché il divorzio non era ancora stato introdotto e anche lui era legato da un precedente matrimonio civile, con Gabriella Magnatti, da cui aveva divorziato in Brasile e dal quale era nata una figlia nel 1949, Rita Almirante.

Da sempre Donna Assunta è stata considerata la memoria storica della destra italiana. Fu lei a sponsorizzare l'elezione di un giovane Gianfranco Fini nel 1987 a segretario del Msi. Fu critica nei confronti della Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l'MSI-DN diventò in larga parte Alleanza Nazionale e nel 2007 partecipò all'assemblea costituente de La Destra di Francesco Storace, stigmatizzando la fusione di AN con Forza Italia nel Popolo della Libertà e la successiva scissione che portò Fini a fondare Futuro e Libertà per l'Italia.

"Donna Assunta Almirante ha segnato un'epoca della vita italiana", ha commentato il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. "Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione", ha concluso. 

Vedova di Giorgio Almirante. È morta donna Assunta Almirante, aveva 100 anni: “Scompare la memoria storica della destra”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Aprile 2022.

La chiamavano Donna Assunta Almirante, vedova di Giorgio Almirante, fondatore e leader storico del Movimento Sociale Italiano. Aveva compiuto 100 anni lo scorso luglio, si è spenta nella sua casa romana. Nata a Catanzaro come Raffaela Stramandinoli, era considerata la memoria storica della destra italiana e anche un punto di riferimento per tanti.

“Un esempio di coerenza e di attaccamento agli ideali e al suo uomo, questo l’esempio più grande che ci ha lasciato. Aveva una volontà incredibile, non si arrendeva di fronte a nulla – racconta all’Adnkronos la figlia, Giuliana de Medici – Una perdita enorme, perché tra noi c’era un rapporto speciale, soprattutto in questi ultimi anni eravamo sempre insieme e sempre vicine. Sto ricevendo tantissime dimostrazioni di affetto, le volevano tutti tanto bene”.

Donna Assunta, calabrese di nascita e romana di adozione, dopo il primo matrimonio con il marchese Federico dè Medici, si sposò con Almirante nel 1969. Per decenni, anche dopo la morte del marito nel 1988, è stata la “regina madre” della destra italiana, dispensatrice di consigli ma anche di pesanti critiche, sponsorizzò Gianfranco Fini alla guida del Msi ma criticò la Svolta di Fiuggi del 1995, con la quale l’Msi-Dn diventò in larga parte Alleanza Nazionale. Nel 2007 partecipò all’assemblea costituente de La Destra, il partito fondato da Francesco Storace e Teodoro Buontempo.

Con il marito Giorgio fu amore a prima vista. All’epoca, il 1952, lui era deputato. Lasciò il primo marito da cui aveva avuto tre figli. Dalla relazione con Almirante ne nacque un’altra nel 1958. Solo nel 1969, dopo la morte di Federico de’ Medici, Assunta e Giorgio poterono sposarsi. Ed è per questo che si schierò apertamente a favore del divorzio in occasione del referendum del 1974. La sua diventò una voce libera e dissonante all’interno della destra italiana, un ruolo che mantenne per tutta la vita.

Il primo a ricordare Donna Assunta Almirante è stato Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia: “Ha segnato un’epoca della vita italiana. Generosa, prodiga di consigli, sincera, infaticabile custode della memoria di Giorgio Almirante, ha rappresentato nel tempo un punto di riferimento per tanti. Il suo affetto è stato un privilegio per molti di noi. La ricordo con affetto e con commozione”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La scomparsa. Chi era Assunta Almirante, la sacerdotessa della Prima Repubblica morta a 100 anni. David Romoli su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Sono certamente intrisi di nostalgia gli omaggi praticamente unanimi, quasi più da parte dei nemici che degli amici, che hanno salutato ieri la scomparsa della centenaria Raffaela Stramandinoli, nata a Catanzaro il 14 luglio 1921, da sempre e per tutti Assunta, dal 1969 in Almirante. Nostalgia per la prima Repubblica però, non per il fascismo che lei, peraltro, trattava con sufficienza, quello vero e quello degli eredi guidati dal marito: “Non sono mai stata fascista e non ho mai abbracciato in toto la cultura del Msi”.

Di destra, questo sì e a viso aperto. Orgogliosamente conservatrice: “Dio patria e famiglia”. Almirantiana sempre e con trasporto ma non al punto di seguire ciecamente. Nel 1974, quando il marito, dicono di malavoglia, schierò il Msi a fianco della Dc nella crociata contro il divorzio, lei si schierò dalla parte opposta. Tra la coerenza alla sua biografia e la ragione di partito, anzi del segretario di partito, scelse la prima. Dal 1952 al 1969 aveva vissuto con il futuro leader del Msi, già coniugato e padre di una figlia. Sposata lo era anche lei, con il marchese De’ Medici e già madre di tre figli. La quarta, Giuliana, figlia di Giorgio, sarebbe nata nel 1959 e il marchese, generoso, avrebbe accettato di darle il nome per non renderla “illegittima”. Per sposarsi, nel 1969, la coppia aveva dovuto ripiegare sul “rito di coscienza”, che consentiva al sacerdote di unire in matrimonio senza tener conto dei vincoli civili. Di più, senza divorzio non si poteva fare.

Di politica Assunta Almirante si è sempre impicciata ma senza mai ammetterlo, almeno fino alla morte del marito nel 1988. Ancora un anno prima, mentre brigava a più non posso per insediare al posto del dimissionario e malato coniuge il protetto Gianfranco Fini, s’infuriava a sentirselo rinfacciare: “Non ho mai sponsorizzato nessuno e non lo farò certo adesso. Anche perché mio marito non si fa portare per mano da nessuno e io non mi sognerei di interferire nelle sue decisioni politiche”. Interferiva invece, ma dietro le quinte. Convincendo. Ricorrendo alla suasion che il ruolo sommato al carattere le consentivano. Anche in questo donna Assunta Almirante era decisamente “prima Repubblica”, un’epoca in cui le mogli incidevano molto più di quanto i leader non fossero disposti ad ammettere ma da casa, esercitando un potere non codificato ma inesorabile. Lei stessa lo ammetteva, ironica solo a metà, quando si definiva “imperatrice madre” del Msi.

Allo scoperto uscì solo dopo la morte del marito, legittimata più dal ruolo di vestale della sua memoria che dall’appartenenza politica propriamente detta. La casa dei Parioli, abitata sino all’ultimo giorno, era quasi un altare: di immagini del marito, fotografato, scolpito o dipinto se ne contavano 34. I cimeli sarebbero bastati a riempire una mostra nella quale avrebbe figurato buona parte della destra europea della seconda metà del secolo. Come sacerdotessa del culto di san Giorgio, quando Pino Rauti spodestò il delfino Gianfranco e lo rimpiazzò alla segreteria, passaggio del resto effimero e fulmineo, l’agguerrita calabrese, tanto determinata che il marito la chiamava scherzosamente “il mio Adolf”, chiamò alle armi il popolo missino, minacciò di invocare l’occupazione delle sezioni provocando le comprensibili ire dell’usurpatore.

Eppure nessuno meritò i suoi strali e fu da quelli più bersagliato dell’un tempo protetto numero uno, Gianfranco “il traditore”. Tradimento nei confronti del partito che nel 1994 sciolse per ribattezzarlo Alleanza nazionale, certo, ma soprattutto tradimento nei confronti di suo marito, rinnegato nel 1994 dall’erede e con lui da tutti “quei giovani che hanno oggi il potere grazie a Giorgio, che hanno avuto tutto dal partito e ci sputano sopra, vogliono liquidarlo . Pensare che Giorgio li ha allevati, li ha cresciuti, ha dato loro un patrimonio morale”.

Fu la sola la prima delle molte delusioni che il delfino le diede. Poi arrivarono la sfortunatissima alleanza con Segni, e quella volta non se la sentì di votare per l’Asinello a metà con Mariotto, anzì minacciò persino, massima bestemmia “di votare per la sinistra”. Poi lo storico viaggio in Israele che le andò più che mai di traverso: “Qualsiasi cosa gli avessero chiesto avrebbe detto sì. Avrebbe rinnegato Salò, Mussolini e persino…”. Persino Almirante intendeva dire anche se di fronte al cronista del Corriere che ne registrava lo sdegno il nome non riuscì a pronunciarlo. Per un attimo donna Assunta fu tentata di scendere in campo in prima persona, anche candidandosi in nome di un partito “fondato sui valori di Almirante”.

Ma il sempre più ostentato disprezzo per la generazione opportunista, disinvolta e cinica di cui vedeva in Fini il rappresentante più subdolo e deludente non derivava dal culto per il regime ma dal rispetto, certo ammantato di ricordi nostalgici, per la Repubblica della quale il marito era stato a modo suo uno dei protagonisti. Per Nilde Iotti, l’ “irripetibile”. Per il sempre rispettato (anche da Giorgio Almirante) Enrico Berlinguer, per Bettino Craxi, il preferito: “Uomini come loro non ne nascono più”. Raffaella Assunta Stramandinoli Almirante era una donna della prima Repubblica e attraverso il culto per suo marito Giorgio aveva finito per diventare a modo suo una sacerdotessa di quella Repubblica. Chi ieri la ha salutata commossa, salutava con lei anche quello che in fondo tutti considerano, da ogni punto di vista ma soprattutto in politica, un tempo migliore. David Romoli

Donna Assunta, quando la personalità ti fa diventare un personaggio. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 27 Aprile 2022.

Dopo Maria Sofia, lei. Dopo la Tedeschina – amata sovrana del Regno delle Due Sicilie – l’altra Regina del Sud è stata lei, Donna Assunta.

Nata cento anni fa a Catanzaro, vedova di Giorgio Almirante – il leader storico della Destra italiana – Assunta, all’anagrafe Raffaella Stramandinoli, non è solo la memoria di una stagione politica ma una protagonista attiva della politica nel meridione.

Pur nel ruolo di compagna e poi moglie del segretario nazionale del Msi, Donna Assunta affina la sua indiscussa capacità di comando nell’attività imprenditoriale prima, in Calabria – presso le sue proprietà ­– e, dopo, nella tessitura politica facendosi a volte portavoce ma, ancor più spesso, regista di tante raffinate strategie.

Quasi un’identità tutta al femminile quella della destra in Calabria.

In una terra dove, in particolar modo dopo la sconfitta dell’Italia, le donne non hanno un ruolo ancillare – basti pensare a Jole Giugni Lattari o alla spericolata marchesa De Seta Pignatelli – la signora Almirante, mai dimentica delle sue origini, neppure nella sua parlata tutta di aspirate, è una vera e propria comandiera.

Nella sua casa di Roma, nel quartiere Parioli, mai la porta è chiusa a chi, soprattutto dal Sud, si rivolge a lei in vista di un progetto politico o elettorale. È lei a decidere il successore del marito alla guida del Movimento Sociale; sceglie lei, infatti, Gianfranco Fini ma è in Sicilia – con Enzo Trantino – che individua il vero erede di Giorgio Almirante.

La storia del suo partito, il Msi, trova in lei il capitolo esistenziale di un impasto fatto di realismo, sentimento e coraggio.

La sua indiscussa generosità – anche nell’aiuto materiale a chi manca di pane – si svela poi, politicamente, in un vero e proprio apostolato presso i più remoti angoli d’Italia.

Va ovunque per aiutare nelle campagne elettorali gli amici, come il terronissimo Baldo Licata – illustre primario dell’ospedale Sant’Antonio, candidato a Padova – dove Donna Assunta è accolta dal sindaco della città, il pur comunista Flavio Zanonato, in una tre giorni di cavalleresco confronto di mondi lontanissimi, e non soltanto distanti politicamente, anche geograficamente!

Una personalità che sa farsi personaggio, quella di Donna Assunta.

Forte, di gran carattere, forgia la grezza e genuina natura del marito per farne un vero e proprio modello di stile: il Doppiopetto di Giorgio Almirante, grazie a lei, s’impone quale proposta di maturità politica di una destra moderna sull’arruffata giovinezza della generazione uscita sconfitta dalla guerra , e costretta ai margini al tempo del famigerato “Arco Costituzionale”, quell’intesa volta a escludere la destra dall’agone politica messa in cantina, infine, tra le paccottiglie dell’odio, dalla lungimiranza di Bettino Craxi.

A proposito di Craxi, ieri, le parole più belle nell’addio a Donna Assunta, sono state quelle della figlia del leader socialista, ovvero Stefania.

Quasi un intendersi tra perseguitati, l’affetto tra queste due donne.

«Ho fatto la sua conoscenza in anni non facili della mia vita e della vita del Paese. Erano gli anni a ridosso di Tangentopoli e mentre molte persone, anche presunti amici e compagni di una vita facevano finta di non conoscermi o si voltavano da un’altra parte. Donna Assunta mi fu vicina e si comportò da vera amica, pur venendo da storie e mondi diversi».

Storie e mondi diversi. Come la sincera amicizia con Fausto Bertinotti, leader di Rifondazione Comunista che, nel salutarla, dice una cosa ormai inaudita nell’Italia “liberal-occidentale” di oggi: «Da frontiere opposte si poteva parlare».

Una Regina del Sud, Donna Assunta. Non c’era città – paese, contrada e perfino cortile del Mezzogiorno d’Italia – dove lei non abbia ripercorso i passi del marito per non farlo dimenticare ma, in fondo, per non dimenticarsi di se stessa e del suo preciso dovere.

Quello proprio della comandiera.

Che sempre fa, e che sa.

Col cuore e con la passione.

Nel coraggio di chi fa, e di chi sa.

Come toccare e vivere storie e mondi sempre diversi.

Roma, folla ai funerali di Donna Assunta Almirante. «Lei memoria storica della destra». I saluti romani. Diana Romersi su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2022.  

Il feretro accolto da molti esponenti politici. Gianni Alemanno: «Mai incline al compromesso». Storace silenzioso e con gli occhi lucidi.

«Camerata Assunta Almirante, presente!», il comando prima detto da pochi, quasi a bassa voce, poi con sempre più audacia. L’ultimo saluto a Raffaella Stramandinoli, moglie del leader del Movimento sociale italiano Giorgio Almirante, si conclude con il braccio teso. Davanti alla Chiesa degli Artisti in piazza del Popolo, sono le mani che si sollevano, una dopo l’altra, per il saluto romano a dare man mano coraggio a chi non rinnega il proprio passato fascista e, anzi, preferisce ostentarlo. Davanti al feretro coperto dalla bandiera tricolore un militante in polo nera commenta: «La fiamma non si è spenta».

In una piazza assolata e nuovamente percorsa da turisti, i primi ad arrivare insieme al feretro di Assunta Almirante erano stati i figli Marco, Leopoldo e Marianna De’ Medici, accompagnati da nipoti, familiari, amici come la vedova del senatore Italo Viglianesi. Assente per malattia la figlia Giuliana De’ Medici. Pochi inizialmente i vecchi nostalgici con mascherine e bandiere tricolori ad aspettare l’inizio delle celebrazioni, molti di più i politici ad affacciarsi dentro la navata.

L’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, ha infilato il portone della chiesa senza parlare e con gli occhi lucidi. E a dire addio alla centenaria Assunta Almirante sono arrivati anche la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, l’ex sindaco Gianni Alemanno, i vicepresidenti di Camera e Senato, Ignazio La Russa e Fabio Rampelli. Domenico Gramazio sotto il colonnato apre la bandiera italiana a favore di telecamere. Poi, ancora, i leghisti Mauro Lucentini e Francesco Lollobrigida, di Fratelli d’Italia, Isabella Rauti, i forzisti Maurizio Gasparri e Gianfranco Rotondi e il presidente della Regione Sicilia, Nello Musumeci.

«Teneva ai valori veri della destra, ha sempre contrastato qualsiasi tendenza al compromesso, verso il mondo moderato», ha detto l’ex sindaco di Roma Alemanno. Durante le celebrazioni, è stata la lettera del nonno Giorgio Almirante, letta dal nipote Gabriele, a provocare commozione e applausi nella chiesa gremita. «Lotto disperatamente perché tu non mi lasci», scrisse Almirante alla sua Assunta, «donna libera e anticonformista».

Applausi per il feretro di Donna Assuna Almirante all'arrivo in chiesa. Francesca Galici il 28 Aprile 2022 su Il Giornale.

Grande affluenza per i funerali di Donna Assunta Almirante nella chiesa degli Artisti in piazza del Popolo a Roma. Presente anche Giorgia Meloni.

Si sono svolti nella chiesa di Santa Maria in Montesanto di Roma, nota anche come chiesa degli Artisti, i funerali di Donna Assunta Almirante, memoria storica della destra italiana morta lo scorso 26 aprile all'età di 100 anni. L'ingresso del feretro in chiesa è stato accolto da un lunghissimo applauso da parte dei presenti, che si sono ritrovati in piazza del Popolo per offrire l'ultimo saluto alla vedova di Giorgio Almirante.

In chiesa, ad attendere la bara di Donna Assunta Almirante, c'erano i figli Marco, Leopoldo e Marianna De Medici. Non era, invece, presente Giuliana, che non ha potuto presenziare per malattia. Tanti i volti noti della politica italiana, soprattutto gli esponenti di destra, che hanno voluto salutare per l'ultima volta Donna Assunta Almirante, che per lunghi decenni è stata protagonista della politica italiana, sebbene non abbia mai partecipato attivamente alla vita dei Palazzi di Roma. Presenti, nella chiesa degli artisti di piazza del Popolo, l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio, Francesco Storace, ma anche i forzisti Maurizio Gasparri e Gianfranco Rotondi.

Tra gli ultimi a entrare in chiesa anche Giorgia Meloni, leader di Fratelli d'Italia, seguita dal vicepresidente del Senato Ignazio La Russa. Santa Maria in Montesanto era stracolma di gente, accorsa in piazza del Popolo per omaggiare la memoria di una delle donne che ha maggiormente influenzato la politica di destra tra la prima e la terza Repubblica. Al termine del funerale, Giorgia Meloni ha lasciato la chiesa tra le urla di incoraggiamento dei presenti. Dalla piazza si sono alzati diversi "dai Giorgia" e "forza Giorgia".

In un'intervista rilasciata al Corriere della sera, Francesco Storace ha ricordato che Donna Assunta Almirante "partecipò alla promozione della rinascita di An. Ricordo un pranzo nella sua casa ai Parioli. Voleva l'unità tra noi e Giorgia Meloni ma l'operazione non riuscì, più per volontà mia, lo ammetto". Per Storace, Donna Assunta "era umanissima e animata da un grande spirito di solidarietà, se veniva a conoscenza di persone in difficoltà un minuto dopo si attivava per portare il suo aiuto".

Mario Ajello per “il Messaggero” il 29 aprile 2022.

La Pax Assunta, ovvero in nome della vedova di Almirante scomparsa l'altro giorno a 100 anni, viene celebrata nella chiesa degli artisti a Piazza del Popolo. In un funerale che riesce a far dimenticare, per una mezza giornata, le divisioni e anche gli odi personali e politici che hanno diviso il mondo che fu missino, poi An e a seguire. 

Donna Assunta è riuscita nel miracolo di ricomporre la diaspora intorno alla fiamma della sua simpatia e ci sono tutti quelli che contano intorno alla bara avvolta in una bandiera tricolore portata in chiesa da Gramazio detto Er Pinguino, storica figura della destra romana. La Meloni uber alles. 

«Giorgia dai siediti nelle prime file», le dicono e lei che all'inizio sta tra la folla si avvicina ai posti che contano ma non vuole essere protagonista nonostante gli incitamenti: «Ormai ci resti solo tu, e Salvini te lo mangi in un boccone».

E Storace, Gasparri, La Russa, Alemanno, Nello Musumeci (il governatore siciliano che fu almirantiano super-doc e adorato dagli ex camerati romani), Isabella Rauti, l'editore Angelucci vestito come un giovincello (ma fa amarcord: «Con Ciarrapico e Donna Assunta eravamo un super trio»), lo storico portavoce almirantiano Massimo Magliaro. Ed ecco Fabio Rampelli, occhio a Lollobrigida e Lavinia Mennuni di FdI e al senatore Peppino Valentino, presidente della Fondazione An. 

Si sente dire alle sue spalle: «Non si poteva allestire nella Fondazione la camera ardente per Donna Assunta? Ci sarebbe stata una processione, e Assunta diventata la nuova Evita Peron!».

Chi non c'è, in tanto revival di An e di pre-Fiuggi e di post-Fiuggi, è Fini, pupillo poi ripudiato da Donna Assunta. «Se arriva je menamo», si lascia sfuggire un robusto signore con la t-shirt nera. Ma c'è, venerata, l'ex moglie Daniela Di Sotto. «È una di noi», dicono tutti, «mica come quel badogliano di Gianfranco...». E chissà se Daniela, che non ha mai rinnegato le origini e neppure la Lazio, ora diventerà la regina madre del post-fascismo alla romana visto che la titolare non c'è più. 

Daniela Di Sotto viene riverita dentro e fuori dalla chiesa («Finché era in carica lei, come moglie, Fini rigava dritto...») in questo mix nobiliare (principi o aristocratici di super destra qua e là nelle sacre navate, e uno si presenta così:

«Sono Antonio Foschini, segretario particolare del principe Ruspoli»), centrista (occhio a Gianfranco Rotondi che ora punta su Giorgia in chiave neo-leader di una sorta di neo-Pdl, l'ex uddiccino Pino Galati e la moglie ex deputa leghista Carolina Lussana più un altro parlamentare del Carroccio: Mauro Lucentini), pop (ex militanti del Msi dal fisico potente ma diventati bonari dopo gli indimenticabili anni 70 come Er Colonnello, questo il mitico soprannome, che era della sezione di Colle Oppio e racconta: «Mi ricordo qui davanti al comizio di Almirante contro il divorzio che c'era Donna Assunta sotto il palco e diceva: in questo referendum non sono d'accordo con Giorgio ma lo amo lo stesso e sempre di più»), salotto capitolino trasversale (Marisela Federici, Marisa Stirpe: peccato che manca Lellona Bertinotti ma c'è Antonio Razzi il baffuto responsabile che fa i siparietti tivvù) ), di berlusconismo da cene galanti (guarda chi si vede: Gianpy Tarantini), socialisti come Donato Robilotta (consigliere regionale Psi ma in pista anche successivamente e ottimo personaggio: «Domma Assunta ha difeso Craxi durante Tangentopoli, anche dagli attacchi che venivano da destra»), An con tutte le sue correnti riunite (dalla Destra Sociale a Destra Protagonista) e via così. 

Anche con l'immarcescibile mondo missino pariolino e spicca su tutti il magnifico Filippo Pepe, che gli ex camerati chiamano Lippo e lui dall'angolo visuale di Piazza Pitagora e Ungheria sa tutto di questa comunità di affetti (e liti) oltre che di ex ideologie: «Avrei voluto una maggiore partecipazione di tutta la destra, perché Donna Assunta oltre ai buoni consigli portava anche tanti voti». Conferma il democristiano Rotondi: «Era un panzer da tutti i punti di vista. È stata madrina, insieme a Maria Pia Fanfani, alla festa dei miei 50 anni. Berlusconi era seduto in mezzo a queste due super-donne e spariva». 

L'ALTARE E i familiari? Ovvio: sono al centro della scena. Mancava la figlia Giuliana, perché ha il Covid, ma ci sono gli altri tre e uno di loro, Poldo, aspetta i partecipanti all'ingresso della chiesa: «Ao, so' vent' anni che non ci vediamo...». 

Il nipote Lorenzo Pompei legge dall'altare una lettera a Donna Assunta e alla fine si scopre che era una vecchia missiva di Almirante alla moglie: «Tu sei ovunque vado io, ovunque sono io...». 

Non pochi si commuovono. Ed è molto scosso Storace, il prediletto di Donna Assunta. Racconta: «Stamattina ho chiamato Mancini, il deputato del Pd amicissimo di Gualtieri, e gli ho detto: a Cla', ma metti la fascia tricolore addosso a Gualtieri e fallo venire qui al funerale. Ma niente, la sinistra ha perso una grande occasione di civiltà». 

O forse ha voluto evitare imbarazzi. Questo è stato un funerale poco fascio, per dirla con linguaggio retrò, ma piuttosto variegato.

Se però fossero mancati alla fine i saluti romani, la scena sarebbe stata un po' ipocrita. E allora, eccoli: una trentina di braccia tese quando esce. Con il coro più scontato che ci sia, ripetuto tre volte: «Camerata donna Assunta...Presente!». Qualcuno aggiunge: «A noi!». I politici fuori dalla chiesa fanno finta di non sentire e tutti gli altri non si sorprendono e non s' indignano. Mentre la Meloni, quando partono le mani tese e i gridi di battaglia, è già andata via.

·        E’ morto l’industriale Antonio Molinari.

Addio mister sambuca, così Molinari portò la dolce vita nel mondo. Valentina Conte su La Repubblica il 25 Aprile 2022.  

Era il presidente della casa produttrice del celebre liquore all’anice. Membro di una famiglia che ha attraversato la storia d’Italia. "Non è Sambuca, è Molinari", recitavano i Carosello degli anni '60, quelli della Dolce Vita e dei bar felliniani di Via Veneto, tra Cafè de Paris e Caffè Strega, che servivano un liquore nuovo all'anice stellato, da gustare liscio, ghiacciato o "con la mosca", con due chicchi di caffè dentro. Quel liquore molto italiano, veniva da Civitavecchia, reinventato da Angelo Molinari, il capostipite classe 1893 di una famiglia industriale romana che sabato ha perso il suo presidente Antonio, Tonino, 81 anni, figlio di Angelo e padre di Mario, Inge e Angelo, la terza generazione proiettata a diffondere quel liquore, prodotto dai due stabilimenti di Civitavecchia e Colfelice, in provincia di Frosinone (60 mila bottiglie...

«Un caffè corretto Sambuca». E la sambuca per definizione è Molinari. D’ora in poi però il liquore all’anice stellato dal tipico sapore dolce avrà un retrogusto un po’ amaro. È morto sabato 23 aprile di mattina, all’età di 81 anni, Antonio Molinari, l’imprenditore presidente di Molinari Italia che, assieme al padre e ai suoi fratelli - tutti scomparsi prima di lui - ha reso celebre nel mondo la Sambuca made in Italy. Ad annunciare la scomparsa sono stati, con una nota, la moglie Daniela e i figli Angelo, Inge e Mario. «Uomo brillante e lungimirante imprenditore - scrivono i familiari nel messaggio - ha dedicato la sua vita all’azienda e alla famiglia, fin da giovane in azienda insieme al padre Angelo e ai fratelli Mafalda e Marcello, ne ha preso poi le redini portandola, con passione e dedizione, grazie al suo forte intuito imprenditoriale ed alla sua visione innovativa e fuori dagli schemi, al successo di oggi e lanciandola a livello internazionale. Tutti i dipendenti e collaboratori si stringono al dolore della famiglia Molinari e ne onorano il ricordo ispirandosi ai valori di responsabilità, onestà e rispetto di cui è sempre stato promotore».

Il cordoglio del sindaco di Civitavecchia

«Non è un bel giorno per Civitavecchia - ha scritto il sindaco della città Ernesto Tedesco - . Ci ha lasciati Antonio Molinari, capace di trasmettere una grande passione e la professionalità adatta per sostenerla ai massimi livelli mondiali, ai suoi splendidi figli, cui va il mio abbraccio. Ciao Tonino, persona limpida ed esemplare, insieme agli indimenticati Marcello e Mafalda, con i quali è di diritto nell’elenco dei grandi imprenditori della nostra città».

Sambuca «extra», la storia inizia nel 1945

L’azienda è fondata a Civitavecchia dal padre Angelo Molinari nel 1945 , in una città distrutta dalla Seconda guerra mondiale. La Sambuca prodotta si differenzia dalle altre in commercio perché si basa su una formula a base di «anice stellato», e in quanto «pregiata», vi aggiunge la denominazione «extra». Come per la Coca-Cola, la ricetta è tenuta segreta. Il liquore, venduto inizialmente nei bar della città portuale, si diffonde e arriva a Roma dove comincia a diventare popolare tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando esplode il fenomeno della «dolce vita» raccontata da Federico Fellini e i barman dei locali di via Veneto offrono la Sambuca con un chicco di caffè: nasce così la «Sambuca con la mosca». Nel 1959 sorge il primo stabilimento e l’azienda cominciare a farsi conoscere facendosi pubblicità in tv e sulla radio con testimonial quali Carlo Giuffré, la top model Veruska, Adriano Panatta, Paolo Stoppa e Rina Morelli, Walter Chiari, Sidney Rome, il campione di Formula 1 Mario Andretti e, più di recente, José Mourinho. «Persino Frank Sinatra, grande estimatore della Sambuca Molinari - si legge sul sito aziendale - ne è così entusiasta da scrivere una lettera alla famiglia Molinari in cui ne tesse le lodi».

Il passaggio del testimone ai figli

Nel 1974 viene inaugurata a Colfelice (Frosinone) la Molinari Sud spa, un nuovo stabilimento ad alto livello di automazione «con una capacità produttiva - si legge sempre nella storia dell’azienda - che arriva a battere il record di 60.000 bottiglie al giorno». Dal 1975, in seguito alla scomparsa di Angelo Molinari, i figli raccolgono il testimone. Ora con la scomparsa di Antonio, che nel 2014 aveva lasciato la guida, l’azienda è definitivamente nelle mani dei figli Angelo, Mario e Inge, che presiede la Fondazione «Angelo e Mafalda Molinari Onlus», creata nel 2006 per onorare la memoria dei nonni. I funerali sono previsti nella Cattedrale di Civitavecchia alle 15.30 di martedì 26 aprile.

Ignazio Riccio per ilgiornale.it il 25 aprile 2022.

Acqua, zucchero, erbe naturali e oli essenziali, della varietà di anice stellato. Sono questi gli ingredienti base della Sambuca, il liquore italiano dal sapore dolciastro famoso in tutto il mondo grazie al lavoro certosino portato avanti da Antonio Molinari, presidente dell’omonima azienda produttrice della bevanda alcolica, insieme alla sua famiglia. 

L’imprenditore è morto all’età di 81 anni, dopo aver amministrato per decenni, con i fratelli Marcello e Mafalda, la storica impresa di Civitavecchia fondata dal padre Angelo. 

Ad annunciare la scomparsa del presidente della Molinari Spa sono stati la moglie Daniela e i figli Angelo, Inge e Mario. “Uomo brillante e lungimirante imprenditore – hanno scritto in una nota i familiari – ha dedicato la sua vita all'azienda e alla famiglia, fin da giovane in azienda insieme al padre Angelo e ai fratelli Mafalda e Marcello, ne ha preso poi le redini portandola, con passione e dedizione, grazie al suo forte intuito imprenditoriale e alla sua visione innovativa e fuori dagli schemi, al successo di oggi e lanciandola a livello internazionale. 

Tutti i dipendenti e collaboratori si stringono al dolore della famiglia Molinari e ne onorano il ricordo ispirandosi ai valori di responsabilità, onestà e rispetto di cui è sempre stato promotore”. 

La storia della Sambuca è legata indissolubilmente a quella dell'azienda fondata nel 1945. La Sambuca prodotta si differenzia dalle altre in commercio perché si basa su una formula a base di anice stellato, e in quanto pregiata, vi aggiunge la denominazione “extra”. Il prodotto è diventato popolare già tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando a Roma esplose il fenomeno della "dolce vita", raccontata da Federico Fellini. A quel tempo, i barman dei locali di via Veneto offrivano la Sambuca con un chicco di caffè; nacque così la "Sambuca con la mosca". 

Nel 1959 fu realizzato il primo stabilimento e l'azienda cominciò a fare anche pubblicità con alcuni spot televisivi e radiofonici diventati storici, con testimonial del calibro di Carlo Giuffré, della top model Veruska, di Adriano Panatta, di Paolo Stoppa, di Rina Morelli, di Walter Chiari, di Sidney Rome, del campione di Formula 1 Mario Andretti, e, in anni recenti, dell’allenatore di calcio José Mourinho. Tra le curiosità ricordate sul sito dell'azienda anche la lettera scritta da Frank Sinatra nella quale “The voice” tesseva le lodi della Sambuca della quale era grande estimatore. 

·        È morto il cantante Marco Occhetti.

È morto Marco Occhetti, il Kim ex cantante dei Cugini di Campagna. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2022.

Marco Occhetti aveva 62 anni. Era stato voce dei Cugini di Campagna dal 1986 al 1994, dopo Paul Manners. 

Per una decina d’anni scarsi, i riccioli biondi e la voce in falsetto marchio di fabbrica dei Cugini di Campagna sono stati quelli di Marco Occhetti: il cantante, conosciuto come Kim, aveva fatto parte del gruppo dal 1986 al 1994 per poi abbandonare e dedicarsi alla carriera solista. Si è spento venerdì sera a 62 anni, a causa di un arresto cardiaco. Dopo il periodo di successo e i tour in giro per il mondo con la band, di lui non si era più sentito parlare, finché qualche anno fa, in alcune interviste, aveva raccontato di essere finito a suonare per le strade di Roma e di trovarsi in difficoltà economiche.

La notizia della morte è stata ufficializzata dalla figlia Giulia con un post pubblicato sulla pagina Facebook del padre: «Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto. Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo». Gli stessi «Cugini», dal loro profilo ufficiale, hanno dedicato un pensiero all’ex compagno di avventure: «Un saluto al nostro fraterno amico Kim, di cui abbiamo appreso la dipartita. Ti ricorderemo con affetto».

Nato a Roma il 24 dicembre 1959, Occhetti aveva preso il posto di Paul Manners come voce principale del gruppo nel 1986. Con il caratteristico falsetto, aveva contribuito al successo della formazione, fondata nel 1970 dai gemelli Ivano e Silvano Michetti, interpretando brani celebri come «Anima mia» e partecipando alle tante tournée all’estero di quegli anni. Nel 1994 Occhetti aveva mollato: a lui era succeduto Nick Luciani, diventato poi il frontman più riconoscibile della band, ancora oggi al microfono dopo un periodo di incomprensioni e distacco.

Un addio voluto, quello di Occhetti, che citava una voglia di evolversi artisticamente non condivisa con il resto della band: «Lasciare il gruppo è stata una mia scelta - raccontava al Messaggero nel 2017 -, non ero più in sintonia con loro. Erano troppo attaccati alle vecchie cose, come ad “Anima mia”. Grandissimo brano, ma poi nella musica bisogna sapersi rinnovare». Su “Anima mia” era tornato a esprimersi anche in televisione, ospite di «Nemo - Nessuno escluso» su Rai2, sempre nel 2017: «“Anima mia” mi ha stufato, non la sopporto più, anche se è una bellissima canzone, per carità».

In tv, capelli corti e cappello, un’immagine lontanissima da quella degli anni 80, aveva raccontato anche di essere caduto in disgrazia: «Sono stato la voce solista dei Cugini di Campagna, anche se adesso non mi si riconosce più - si era presentato -. Adesso mi ritrovo a suonare nelle piazze di Roma, praticamente dalle stelle alle stalle, che preferisco, perché è più vero. Ma è stata dura. Suono a piazza Navona, al Pantheon, e sbarco il lunario così».

In quell’occasione, aveva descritto i Cugini di campagna come amici: «Li adoro, ci sentiamo, mi abitano pure vicino». Sul Messaggero, invece, non aveva risparmiato loro delle critiche: «Non mi hanno versato i contributi, si sono inventati mille sotterfugi. Sono tutti tirati con i soldi, ma a livelli estremi. Ed è finita male». Ma la sua parabola, al di là dei possibili attriti, mostra la precarietà di una carriera artistica dopo che si sono spenti i riflettori: «Ci sono tanti artisti molto bravi e non siamo tutelati per niente, lo Stato non ci considera proprio - aveva detto Occhetti in televisione -. Dovrebbero regolamentare questa cosa».

Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 26 aprile 2022.

Mi domandavo (sono le domande stupide che spuntano a tradimento nel vuoto di un lunedì di festa) perché la morte del cantante storico dei Cugini di Campagna fosse diventata la notizia del giorno, più letta della guerra, delle elezioni francesi e dell'ultimo delitto di nera. Erano in pochi, fino a ieri, ad associare il nome di Marco Occhetti a una pietra miliare della loro educazione sentimentale, e lo pseudonimo Kim rappresenta ormai solo una chicca per vecchi appassionati di pop. 

Anche la sua bella faccia di sessantenne passava inosservata nelle piazze di Roma, dove si era ritrovato a strimpellare canzoni per sbarcare il lunario. La vita era stata particolarmente ingiusta con il Cugino Kim, eppure non lo aveva trasformato in una vittima da compatire, né in un caso umano da esibire. E allora perché la sua morte ha acceso improvvisamente i riflettori su di lui? 

Credo dipenda dal fatto che anche chi ne ha dimenticato o non ne ha mai conosciuto il nome associa il «frontman» dei Cugini di Campagna a un momento preciso della sua giovinezza: l'apparizione di una enorme capigliatura bionda che canta in falsetto «Anima mia, torna a casa tua». Fu uno dei primi casi, in Italia, di cambiamento d'immagine del maschio: una trasgressione per famiglie che anticipava tutti gli Achille Lauro del futuro. Non è dunque la difficile storia del Cugino di Campagna che ricordiamo con tanta partecipazione, ma quel momento di gloria in cui la sua vita si è incrociata indelebilmente con le nostre.

Raffaella Troili per “il Messaggero” il 26 aprile 2022.  

«Mi fa male la spalla mi riposo un pochino». Erano le cinque del pomeriggio di venerdì e Marco Occhetti, 62 anni, in arte Kim, ex voce dei Cugini di Campagna, si è addormentato e non si è più svegliato. Il cantante si è spento a 62 anni - ha fatto sapere la figlia Giulia - per arresto cardiaco e i funerali si sono svolti ieri a Fiano Romano nella chiesa di Santo Stefano Protomartire dove l'ex cugino viveva. 

Nato a Roma il 24 dicembre 1959, Occhetti era stato la voce del gruppo dal 1986 al 1994, dopo aver preso il posto del cantante Paul Manners. Con la sua voce in falsetto, caratteristica della band, aveva portato i successi del quartetto, a partire da Anima Mia, in giro per il mondo, in numerose tournée. «Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto - si legge in un post della figlia su Facebook -. 

Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo». La parrucca bionda, la voce in falsetto, i pantaloni a zampa, tutti lo ricordano per gli anni d'oro quando faceva parte del gruppo. In realtà dopo i trionfi era stato lui ad allontanarsi per provare la carriera da solista, tentare di fare una musica diversa, prendere le distanze dal passato.

Non aveva avuto gran fortuna, ma non aveva rinnegato se stesso, tanto che da un po' di tempo aveva preso a cantare con un cappello alla De Gregori per le piazze del centro di Roma. A volte riconosciuto, a volte no, si cimentava in pezzi completamente diversi, alcuni composti da lui. Dal successo internazionale ad artista di strada. «Sono stato la voce solista dei Cugini di Campagna, anche se adesso non mi si riconosce più - aveva detto - Adesso mi ritrovo a suonare nelle piazze di Roma, praticamente dalle stelle alle stalle, che preferisco, perché è più vero. Ma è stata dura. Suono a piazza Navona, al Pantheon, e sbarco il lunario così». 

Ai suoi colleghi non aveva risparmiato critiche «tirati, falsi, non mi hanno versato i contributi» ma alla fine erano comunque rimasti in buoni rapporti. Tanto che viveva poco lontano da Ivano Michetti storica chitarra e voce nonché tra i fondatori del gruppo, a Fiano Romano.

«Con lui abbiamo girato il mondo, America, Australia, Francia, Germania - ricorda - si è spento senza soffrire e questo è quel che mi rincuora. Un infarto, ma soffriva di un brutto male, un tumore ai polmoni, si sarebbe dovuto operare tra un mese. I medici non gli avevano dato grandi speranze, ma lui ci avrebbe provato». Da qualche anno con la sua chitarra sbarcava il lunario cantando in strada, nelle piazze del centro di Roma «era felice, non si vergognava. E in generale si è divertito, ha saputo godersi la vita, gli volevo un sacco bene perché era molto vero. Due giorni fa ho chiamato la figlia e ho saputo della sua morte. Al funerale c'era tanta gente. Un mare di fan». 

Aveva provato a volare da solo, ma nonostante la bravura non era riuscito a sfondare. Ciò nonostante si sentiva con Mina ed era apprezzato dagli addetti ai lavori, anche adesso che, prese le distanze dai lustrini e le paillettes, tentava di voltare le spalle al passato e sperimentare altra musica, anche la sua. «Ho mamma e fratello invalidi, poi ho una figlia. Tutti sulle mie spalle. A volte sto sotto a un treno, faccio debitini tipo Paperino. Ma non mi vergogno, per fortuna dicono che sono bravo, lo preferisco è più vero», disse al Messaggero nel 2017. Bravo e sfortunato, l'angelo più biondo che hanno avuto i cugini.

Estratto dell'articolo di Luca Dondoni per “la Stampa” il 26 aprile 2022.  

«Ero ricco, famoso e giravo il mondo. Ora per campare sono costretto a esibirmi per strada e spero nella benevolenza delle persone per racimolare qualche spicciolo. Ma nessuno mi sentirà mai cantare Anima Mia, mi fa troppo male pensare a quello che non ho più». 

Da fanpage.it il 25 aprile 2022.

È morto Marco Occhetti, in arte Kim, ex voce dei Cugini di Campagna. Si è spento a 62 anni venerdì sera per arresto cardiaco e i funerali si svolgeranno oggi alle 15 a Fiano Romano presso la Chiesa di Santo Stefano Protomartire, riferisce la figlia Giulia. Nato a Roma il 24 dicembre 1959, Occhetti era stato la voce del gruppo dal 1986 al 1994, dopo aver preso il posto del cantante Paul Manners. 

Con la sua voce in falsetto, caratteristica della band, aveva portato i successi del quartetto, a partire da Anima Mia, in giro per il mondo, in numerose tournée. "Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto. Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo", si legge in un post della figlia su Facebook.

Chi sono state le voci de I cugini di Campagna

Nick Luciani è stata la voce che l'ha sostituito dal 1994 al 2014, quarto cantante in ordine temporale, dimissionario a sua volta nel 2014 dopo i continui attriti con Ivano Michetti per discordanze sulla gestione del quartetto, a suo dire "per mancanza di collaborazione, prove, allestimento degli spettacoli" che avrebbe portato a "concerti sempre più scadenti". 

Nel marzo 2021, dopo quasi 7 anni, durante i quali gli era succeduto Daniel Colangeli, Nick Luciani torna ad essere nuovamente la voce dei Cugini di Campagna, in seguito a una rappacificazione con Ivano Michetti. Attualmente, solo Luciani è un concorrente de L'Isola dei Famosi 2022, a seguito della squalifica per bestemmia di Silvano Michetti.

Quando Occhetti lamentò l'oblio: "Vivo come artista di strada"

Era il novembre 2017 quando Marco Occhetti rilasciò una triste intervista a Il Messaggero, lamentando l'oblio nel quale era stato relegato e lo stato di abbandono in cui lo aveva lasciato il gruppo de I Cugini di Campagna. Un artista di strada, che avrebbe vissuto nell'indigenza negli ultimi anni: 

Suono solo due ore al giorno perché ho una licenza regolare rilasciata dai vigili per esibirmi ma dalle ore 16, sia in inverno sia in estate e nello spazio di 2 ore ci dobbiamo alternare in quattro per forza. Quindi a me restano 20 minuti, massimo 30. Troppo poco. Ho mamma e fratello invalidi, poi ho una figlia. Tutti sulle mie spalle. A volte sto sotto a un treno, faccio debitini tipo Paperino. Ma non mi vergogno, per fortuna dicono che sono bravo.

I motivi della rottura con I Cugini di Campagna

Nella stessa intervista, il cantante spiegò bene perché al tempo decise di lasciare I cugini di Campagna e come loro, a suo dire, si sarebbero comportati in seguito: 

Lasciare il gruppo è stata una mia scelta non ero più in sintonia con loro. Erano troppo attaccati alle vecchie cose, come ad Anima mia. Grandissimo brano, ma poi nella musica bisogna sapersi rinnovare. Come hanno fatto i Pooh. Col tempo sono nate diatribe, anche sulla nostra immagine. E me ne sono andato.

Non mi hanno versato i contributi, si sono inventati mille sotterfugi. Sono tutti tirati con i soldi, ma a livelli estremi. Ed è finita male. Quella è gente fredda. Dopo la mia uscita, mi hanno messo i bastoni tra le ruote. Non volevano che usassi il nome della band. Ma per i primi 3-4 anni ho vissuto sulla scia della popolarità come ex voce dei Cugini di Campagna. Poi la cosa è andata scemando. E la situazione è precipitata.

Aveva 62 anni, negli ultimi anni viveva da artista di strada. È morto Marco Occhetti, Kim dei Cugini di Campagna: “Era un casinaro gli sarebbe piaciuto avere tanta gente a ricordarlo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Aprile 2022. 

Si è spento a 62 anni per un arresto cardiaco. Marco Occhetti, in arte Kim, è stato cantante dei Cugini di Campagna tra il 1986 e il 1994. È morto venerdì sera. Ad annunciarlo la figlia sul suo profilo Facebook: “Come avrete potuto leggere, purtroppo ieri sera papà è venuto a mancare. Ringrazio tutti per i messaggi che gli avete scritto. Papà era un casinaro e gli sarebbe piaciuto avere tanta gente intorno a ricordarlo. Per questo, vi comunico che Lunedì 25 aprile alle h.15,00 si terrà il suo funerale a Fiano Romano presso la Chiesa di Santo Stefano Protomartire”.

Anche i suoi ex colleghi I Cugini di Campagna lo hanno ricordato sul loro profilo Facebook. Un saluto al nostro fraterno amico KIM, di cui abbiamo appreso la dipartita – hanno scritto – Ti ricorderemo con affetto. R. I. P.”. Nato a Roma il 24 dicembre 1959, Occhetti aveva preso il posto del cantante Paul Manners nei Cugini di Campagna nel 1986. Con la caratteristica voce in falsetto aveva contribuito al successo del gruppo, interpretando brani celebri come “Anima mia”, ed era stato in tour con la band in giro per il mondo. Sono tantissimi i messaggi di affetto dei fans che stanno inondando il profilo Facebook dell’artista scomparso.

Poi nel 1994 si era allontanato dal gruppo fondato dai gemelli Ivano e Silvano Michetti nel 1970: a lui era succeduto Nick Luciani, diventato il frontman più riconoscibile della band, ancora oggi voce del gruppo. Occhetti aveva continuato a fare musica da solista ma qualche anno fa aveva raccontato in alcune interviste le sue difficoltà economiche tanto da essere diventato un’artista di strada. “Ero ricco, famoso e giravo il mondo. Ora per campare sono costretto a esibirmi per strada e spero nella benevolenza delle persone per racimolare qualche spicciolo. Ma nessuno mi sentirà mai cantare ‘Anima Mia’, mi fa troppo male pensare a quello che non ho più”, aveva detto in un’intervista al settimanale DiPiù nel 2017.

Aveva anche raccontato al Messaggero delle difficoltà con gli ex compagni del gruppo: “Non mi hanno versato i contributi, si sono inventati mille sotterfugi. Sono tutti tirati con i soldi, ma a livelli estremi. Ed è finita male. Quella è gente fredda. Dopo la mia uscita, mi hanno messo i bastoni tra le ruote. Non volevano che usassi il nome della band. Ma per i primi 3-4 anni ho vissuto sulla scia della popolarità come ex voce dei Cugini di Campagna. Poi la cosa è andata scemando e la situazione è precipitata”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·        Morto Paolo Mauri.

Morto Paolo Mauri, la critica letteraria e la fedeltà al giornalismo. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 24 Aprile 2022.  

Milanese, nato nel 1945, si è diviso tra attività redazionale e direttiva interna ai giornali e attività critica. Per vent’anni guidò la Cultura de «la Repubblica».  

Come molti letterati della sua generazione, Paolo Mauri, milanese nato nel 1945, si è diviso tra attività redazionale e direttiva interna ai giornali e attività critica. Tre nomi: Nico Orengo era del 1944, Antonio Debenedetti era del 1937, Renato Minore è del 1944… Altre figure più anziane ma certamente affini, sia pure con tratti diversi tra loro, sono state quelle di Giuliano Gramigna (1920), Giulio Nascimbeni (1923), Enzo Golino (1932), Lorenzo Mondo (1931), che è morto pochi giorni fa. Tutte personalità di notevole rilievo e competenza che hanno gestito pagine culturali di quotidiani e che al contempo hanno avuto parte fondamentale di orientamento critico in prima persona. Paolo Mauri, come quasi tutti i suoi compagni di strada, ha esercitato una lunga rigorosa fedeltà: intanto al suo giornale, che è stato ed è rimasto sin dal 1977 «la Repubblica» di Eugenio Scalfari, dove ha lavorato al Paginone culturale con compagni di primissimo piano come Enrico Filippini, Rossellina Balbi, Nello Ajello, accogliendo più giovani colleghi come Simonetta Fiori, Antonio Gnoli, Franco Marcoaldi, e coordinando i contributi di collaboratori eccelsi, da Arbasino a Eco, da Citati ad Asor Rosa a Giuliano Briganti.

Dopo una fase di insegnamento nelle scuole medie, il giornalismo è stato una fedeltà appassionata e rigorosa, una missione di civiltà ma anche di gentilezza, solo parzialmente ricambiata, se si pensa che i suoi interventi negli ultimi anni erano diventati sempre più rari. Lo si poteva leggere in una colonna sui «Libri di ieri» del settimanale «Il Venerdì». Anche in quel breve spazio, però, Mauri riusciva a distribuire molto del suo talento e delle sue illuminazioni critiche, come quella recente su un racconto familiare di Thomas Mann tradotto da Renata Colorni che si conclude così: «Mann aveva letto Freud. E in Freud aveva letto sé stesso». Già in Corpi estranei (Sellerio 1984), del resto, Mauri aveva offerto un saggio della sua capacità di stabilire connessioni tra i classici e la contemporaneità narrativa e poetica.

Di sintesi straordinarie era maestro, Paolo Mauri. E di chiarezza illuminista. Aveva studiato a Roma con Sapegno e Asor Rosa, laureandosi su Carlo Porta, che rappresenta per lui un’altra sua lunga fedeltà (come l’ammirazione per gli studi di Dante Isella), il nucleo da cui è nata una raccolta di saggi (Nord, Einaudi 2000) dedicati a scrittori tra Piemonte, Lombardia e Liguria e ispirati al binomio di «geografia e storia» che fu teorizzato da Carlo Dionisotti. Mauri ci metteva - nelle sue indagini su Gozzano, Ragazzoni, Maggi, Manzoni, Tessa - non solo un’acuta attenzione stilistica ma un interesse sociologico orientato in modo speciale verso il pubblico (bellissimo saggio sui Promessi sposi come «romanzo esemplare» per la scuola). In questa prospettiva di «critica della cultura» si presenta la raccolta di saggi sulla narrativa contemporanea L’opera imminente. Diario d’un critico (Einaudi 1998).

Altre passioni di Mauri coincidevano con autori che gli erano stati amici per una vita: su tutti, Luigi Malerba e Antonio Tabucchi, del quale ha curato il Meridiano mettendo in luce come il nutrimento della scrittura tabucchiana sia in primo luogo la letteratura, «perché la letteratura è la sola capace di far vedere la vita, di cogliere l’istante che illumina la mente e lo fissa per sempre». Anche questa una sintesi folgorante. Il temperamento comico-grottesco del primo Malerba gli era particolarmente affine, perché Paolo amava la dimensione ironico-giocosa della letteratura (era un patito di Toti Scialoja), al punto da assumere per una decina d’anni la direzione de «Il Cavallo di Troia» (1981-89), un trimestrale «piratesco», goliardico, ludico, che vantava un comitato di direzione incredibilmente ricco, con Giampaolo Dossena, Gaio Fratini, Giuliano Gramigna, Walter Pedullà, Antonio Porta, oltre allo stesso Malerba.

La critica militante è stata una sua fedeltà quasi esclusiva sul piano della scrittura, visto che diversamente da altri giornalisti-studiosi Paolo Mauri non ha mai ceduto alla tentazione di dedicarsi al versante creativo in proprio. In questo senso, Buio (Einaudi 2007), un curioso saggio-racconto-viaggio sul fascino che l’oscurità ha esercitato nei secoli, è solo in apparenza un paradosso per un illuminista come Mauri: «Il buio è un pensiero: siamo noi che lo rendiamo buono o perverso a seconda delle nostre emozioni».

E' morto Paolo Mauri, critico letterario e per vent'anni capo della Cultura di Repubblica. Antonio Gnoli su La Repubblica il 24 Aprile 2022.   

Con Eugenio Scalfari ha creato un nuovo modo di fare quelle pagine. Con lui scrissero Arbasino e Bertolucci, Tabucchi e Briganti. Aveva 77 anni. Il ricordo di un collega che lo conosceva bene.

È stato un uomo spiritoso e colto. Si poteva tranquillamente riconoscergli quest’ultimo aspetto. Ma l’altro veniva fuori in maniera sorprendente nei contesti più diversi. Magari a cena o durante una riunione. Era il suo modo di sdrammatizzare o rendere interessante una conversazione, un contatto, un incontro. Paolo Mauri per più di vent’anni è stato alla guida delle pagine culturali di Repubblica. Vi chiederete che ruolo effettivo vi abbia svolto. Ebbene, non ho incertezza alcuna nell’attribuirgli una posizione fondamentale per aver reso quelle pagine tra le più belle e interessanti degli ultimi trent’anni.

Eugenio Scalfari le aveva fin dall’inizio volute diverse. Che fossero non più la classica “terza pagina”, ma un paginone posto al centro di un giornale che era nato nel gennaio del 1976 e molta strada avrebbe fatto. A chi gli chiese il perché di quello spostamento Scalfari rispose che la nuova collocazione avrebbe dovuto rappresentare il “pantheon” che un giornale così giovane non poteva per tradizione vantare. Ma bastava crearlo, bastava dargli la giusta dignità culturale. Giunsero così i primi nomi della cultura che cominciarono a firmare quelle pagine: Alberto Arbasino, Attilio Bertolucci, Alfredo Giuliani, Antonio Tabucchi, Giuliano Briganti. Sono le prime straordinarie figure che mi vengono in mente. Più tardi si aggiunsero Cesare Garboli, Mario Bortolotto e Pietro Citati che Scalfari aveva corteggiato a lungo per averlo come firma prestigiosa di Repubblica.

Quelle pagine furono dirette prima da Rosellina Balbi (in origine Scalfari le aveva affidate a Enzo Golino). Poi, dopo la sua scomparsa, toccò a Paolo assumerne la guida. Lo fece con discrezione e tolleranza. Col tempo diede un’impronta in continuità con il lavoro svolto in precedenza. Come Rosellina, aveva imparato a curare personalmente il rapporto con i collaboratori importanti. Condurre quelle pagine, così affollate di “primedonne” non era facile. Bisognava avere un orecchio predisposto all’ascolto. Paolo poteva passare ore al telefono assorbendo a volte gli sfoghi, altre ancora i dubbi o le perplessità di chi in quel preciso momento gli stava parlando. È stato sotto questo profilo un incassatore straordinario. Vederlo nel suo box tra pile di libri e di giornali mentre discuteva serrando la cornetta del telefono, mi faceva venire in mente la paziente tessitura con cui riusciva comporre quelle pagine.

Non l’ho mai visto trascendere o arrabbiarsi. Né alzare la voce. Credo fossero sentimenti totalmente alieni alla sua personalità. Ma in quella postura mentale non c’era niente di arrendevole, niente che potesse compiacere l’altro, solo perché magari l’altro era la pregevole firma che arricchiva Repubblica. La sua guida fu un insieme di competenza e di resistenza. Sì, la capacità di incassare e di resistere all’usura di un lavoro che dietro le apparenze del navigare in acque tranquille, celava lo sforzo prolungato dell’impegno speso giorno dopo giorno. Ho pensato, e non sono stato il solo, che Paolo fosse la persona giusta al posto giusto. Una specie di missionario laico il cui spirito di servizio è stato un po’ da esempio.

Un giorno gli chiesi perché avesse scelto la carriera giornalistica preferendola a quella del professore (si era laureato con Natalino Sapegno e Alberto Asor Rosa) che per qualche tempo aveva esercitato. Mi rispose che un po’ fu il caso, ma anche il desiderio di non marcire aspettando una carriera, quella universitaria, che forse avrebbe richiesto troppo tempo. E poi, aggiunse: “C’è già una professoressa in famiglia, Luana, mia moglie”.

Ora che Paolo non c’è più mi chiedo come sia stato il nostro rapporto di collaborazione e cosa ha significato prendere il suo posto una volta che andò in pensione. Abbiamo avuto punti di vista diversi e talvolta, assai impulsivamente, gli sottolineavo il disaccordo per certe scelte. Ma alla fine credo che abbia avuto ragione lui. Perché Paolo ha davvero rappresentato ciò che di più intimo quelle pagine espressero fin dall’inizio: cioè essere l’habitat nel quale sostare prendendosi tutto il tempo necessario alla lettura. Se ci pensate è straordinario. Scalfari aveva immaginato un giornale concepito proprio così: con una prima parte arrembante e una  seconda arricchita dalla cronaca. In mezzo la sosta, il riprendere fiato con i migliori nomi che la cultura nazionale e internazionale offriva: da Umberto Eco a Maria Corti, da Claude Lévi-Strauss fino a Milan Kundera.

A proposito di quest’ultimo nel 2008 scoppiò un caso increscioso. Lo scrittore ceco venne accusato di delazione dalla rivista praghese Respekt. È una storia che risale ai primi anni Cinquanta, quando Kundera era ancora un giovane studente. Gli autori dell’articolo sostenevano di avere tra le mani il dossier della polizia che provava il coinvolgimento del futuro scrittore nell’arresto di Mirolslav Dvoracek, un ex pilota reclutato dai servizi segreti americani. La notizia esplosiva stava intasando le agenzie di tutto il mondo. Finalmente, su un’agenzia italiana, giunse la smentita di Kundera. Non ci sembrò sufficiente. Occorreva sentirlo. Dissi a Paolo che doveva essere lui a chiamarlo. Parlargli, farsi spiegare il senso della sua smentita. Prese il telefono e chiamò Parigi. Rispose la moglie che dopo un attimo di esitazione gli passò il marito. Assistetti a una telefonata tranquilla, senza imbarazzi né reticenze. Paolo mi parve sollevato. Kundera respinse ogni accusa. Sembrò sincero nel sostenere l’assoluta infondatezza di quella che definì essere una incomprensibile “montatura”. Mi colpì, alla fine del breve colloquio, la sobrietà con cui Paolo aveva affrontato quell’uomo ferito da una più che probabile calunnia. Poi si mise a scrivere nell’urgenza di quelle pagine che di lì a poco andavano chiuse.

Paolo Mauri è stato, al di là del lavoro giornalistico, un competente critico letterario. Non ha mai girato le spalle alla letteratura. Ricordo che agli inizi degli anni Ottanta, insieme a Stefano Giovanardi, Luigi Malerba, Walter Pedullà, Alfredo Giuliani, Nico Orengo, Gianpaolo Dossena e altri, aveva dato vita alla rivista “Il cavallo di Troia”. Fu un esperimento tra il goliardico e il provocatorio che Paolo diresse per qualche anno. Credo che quell’impegno rispondesse al suo lato giocoso, spesso tenuto volutamente nascosto.

Non è un caso che nel suo lavoro di critico abbia privilegiato quella letteratura italiana, in un certo senso minore e stravagante, ma non per questo meno nobile: dall’amato poeta Guido Gozzano a Gianni Celati, dallo sperimentalismo di Luigi Malerba agli incubi ministeriali raccontati, in maniera esilarante, da Augusto Frassineti. Esordì, da buon milanese, con un lavoro critico su Carlo Porta e la poesia dialettale.

Con Paolo ho continuato una frequentazione negli anni. Il nostro appuntamento – quasi un rito – era il torneo di bocce nelle Marche a casa di Tullio e Alessandra Pericoli. Non so perché, ma quell’incontro di metà agosto l’ho sempre immaginato come qualcosa di molto francese: la campagna, l’orto, gli alberi e poi la vista sulle colline, le macchine che liberamente arrivavano alla spicciolata nel parcheggio interno e infine la gioia di poterci in qualche modo ritrovare. Forse oggi la parola “gioia” ha esaurito il proprio compito. Forse oggi viviamo in una spenta decadenza, dentro qualcosa che assomiglia alla parola “buio”. E mi torna in mente uno degli ultimi libretti che Paolo scrisse proprio sulla parola “Buio”: 49 brevi racconti per declinare un’esperienza che ci trascina nelle più diverse situazioni: dal cinema, al bosco di notte e agli occhi che un giorno o l’altro decidono di chiudersi per sempre. Quando il sonno tutto sospende e il cuore si fa muto.      

I funerali di Paolo Mauri si terranno martedì 26 aprile alle 15 nella Chiesa di Santa Maria in Campitelli, a Roma

·        È morto l’attore Jacques Perrin.

 (ANSA il 21 aprile 2022) - L'attore, regista e produttore francese Jacques Perrin è morto oggi all'età di 80 anni a Parigi: è quanto annunciato dai suoi familiari citati dall'agenzia France Presse. "La famiglia ha l'immensa tristezza di informarvi della scomparsa del cineasta Jacques Perrin, oggi 21 aprile a Parigi. 

Si è spento nella pace all'età di 80 anni", si legge nella comunicazione trasmessa dal figlio, Mathieu Simonet. Perrin era nato a Parigi il 13 luglio 1941.A partire dagli anni Cinquanta, ha girato oltre 70 film, tra cui grandi successi come "Les Demoiselles de Rochefort" nel 1967 e "Peau d'âne" nel 1970. Profondi i legami anche con l'Italia.

Nel 1966 vinse due premi come miglior attore al Festival di Venezia per il film italiano "Un uomo a metà" e per il film spagnolo "La busca". Nel 1977 produsse, tra l'altro, "Il deserto dei Tartari" di Valerio Zurlini, in cui interpretò anche il ruolo del giovane protagonista, il tenente Giovanni Drogo. Nel 1988 interpretò il ruolo di Salvatore da adulto in "Nuovo Cinema Paradiso" di Giuseppe Tornatore. Memorabile fu anche la sua interpretazione ne "In nome del popolo sovrano" (1990) di Luigi Magni, film storico-risorgimentale dove recitò nelle vesti del frate Ugo Bassi.

È morto Jacques Perrin, fu tra i protagonisti di «Nuovo cinema Paradiso». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 21 Aprile 2022.

Nel 1966 Perrin vinse due premi come miglior attore al Festival di Venezia. 

L’attore, regista e produttore francese Jacques Perrin è morto ieri all’età di 80 anni a Parigi: lo hanno annunciato i suoi familiari citati dall’agenzia France Presse. Perrin era nato a Parigi il 13 luglio 1941, ma nel corso di una carriera fatta di oltre 70 film, aveva avuto profondi legami con l’Italia. I primi ruoli giovanili gli vennero assegnati infatti dal regista Valerio Zurlini, che lo affiancò a Claudia Cardinale nella commedia romantica «La ragazza con la valigia» (1961) e a Marcello Mastroianni nel film «Cronaca familiare» (1962), in cui Perrin interpretò il ruolo del giovane Lorenzo. In quegli stessi anni interpretò per più di 400 volte «L’Année du bac» sui palcoscenici teatrali parigini. Nel 1966 Perrin vinse due premi come miglior attore al Festival di Venezia per il film italiano «Un uomo a metà» e per il film spagnolo «La busca»; mentre nel 1977 produsse, tra l’altro, «Il deserto dei Tartari» di Valerio Zurlini, in cui interpretò anche il ruolo del giovane protagonista, il tenente Giovanni Drogo.

Il ruolo che forse lo rese più riconoscibile e popolare fu quello di Salvatore da adulto nel successo internazionale «Nuovo cinema Paradiso» di Giuseppe Tornatore, che vinse l’Oscar come miglior film straniero nel 1990. Notevole e degna di nota fu anche la sua interpretazione ne «In nome del popolo sovrano» (1990) di Luigi Magni, film storico-risorgimentale di produzione italiana, dove recitò nelle vesti del frate barnabita Ugo Bassi. Ottenne poi grande successo con film sugli animali, come «Microcosmos - Il popolo dell’erba» (1996) e «Il popolo migratore» (2001), entrambi prodotti dal suo studio Galatée Films..Perrin aveva due figli divenuti entrambi attori, Mathieu Simonet, nato nel 1975, e Maxence Perrin, nato vent’anni dopo, apparso al suo fianco ne «I ragazzi del coro», nel ruolo del giovane Pépinot.

Morto Jacques Perrin. Fu "Salvatore" in Nuovo Cinema Paradiso. Edoardo Sirignano il 21 Aprile 2022 su Il Giornale.

Jacques Perrin, attore e regista, è scomparso all’età di ottanta anni a Parigi.

Morto "Salvatore" di Nuovo Cinema Paradiso. L’attore francese Jacques Perrin, noto appunto per il ruolo avuto in uno dei capolavori intramontabili del cinema, è scomparso all’età di ottanta anni. A dare la triste notizia sono stati proprio i parenti dell’artista citati dall’agenzia France Press.

“La famiglia – è scritto nella comunicazione trasmessa dal figlio Mathieu Simonet – ha l’immensa tristezza di informarvi della scomparsa del cineasta”. Un lutto, quindi, incolmabile per i francesi e inaspettato, soprattutto tenendo conto che avviene in un momento delicato come le elezioni presidenziali che si terrano tra qualche giorno.

Tra le più grandi pellicole non si può non menzionare “Cronaca familiare”, dove ha lavorato col grande Marcello Mastroianni. Stiamo parlando di un personaggio che ha operato per più di mezzo secolo nel mondo del grande schermo, come ha scritto la testata Le Figarò, sia dietro che davanti la cinepresa.

Perrin ha conquistato sia il pubblico francese che quello italiano. Passato alla ribalta non solo per l’interpretazione di “Salvatore” nel capolavoro di Giuseppe Tornatore, dove hanno fatto discutere e non poco i baci censurati, ma anche per "In nome del popolo sovrano”, dove ha indossato i panni del sacerdote Ugo Bassi. Allo stesso modo non sarà facile dimenticare quando ha interpretato un Lorenzo Fainardi innamorato perso della bellissima Claudia Cardinale nel film “Ragazza con la valigia” di Valerio Zurlini.

Ha vinto, inoltre, la Coppa Volpi alla mostra del cinema di Venezia. Bene anche la sua carriera da produttore. Non si può non ricordare che nel 1977 vinse l’Oscar per il miglior film straniero con “Bianco e nero a colori” di Jean-Jacques.

Negli anni ottanta, invece, si specializzò principalmente nei reportage, mentre ha deciso di chiudere una brillante carriera non solo col maestro Tornatore, ma sviluppando quella passione di sempre per gli animali. Uno tra gli ultimi importanti lavori, ad esempio, è stato “Il popolo migratore”, documentario sugli uccelli.

·        È morta l'attrice Ludovica Bargellini.

Da tgcom24.mediaset.it il 19 aprile 2022.  

È morta a soli 35 anni l'attrice pistoiese Ludovica Bargellini. La donna era alla guida della sua Lancia Y quando, forse a causa di un colpo di sonno, è andata a sbattere contro un muro all’incrocio tra via Colombo e via Grotta Perfetta, Roma. Era nota per alcuni spot pubblicitari e per aver recitato nella serie tv firmata da Paolo Sorrentino "The Young Pope". 

Non è ancora chiara la dinamica dell'incidente, ma tra le ipotesi più probabili c'è quella dell'improvviso colpo di sonno, anche se la Polizia ha messo al vaglio le immagini delle telecamere di videosorveglianza della zona. 

La donna è morta pochi minuti dopo l'arrivo in condizioni molto critiche all'ospedale Sant'Eugenio.

Diplomata al Centro sperimentale come costumista, solo dopo ha intrapreso il percorso da attrice, studiando al Teatro Azione di Roma.  In seguito ha conseguito una specializzazione alla scuola di recitazione sempre nella Capitale, dove ha approfondito anche la recitazione cinematografica. Dal 2009 ha partecipato ad alcuni lungometraggi tra cui "Non c'è tempo per gli eroi" di Mugnaini,  “Dylan Dog vittima degli eventi” di Claudio di Biagio e “Palato assoluto” di Francesco Falaschi.

Grave incidente alla Montagnola, muore l'attrice Ludovica Bargellini. Laura Cataldo il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Tragica sorte per l'attrice toscana Ludovica Bergellini (35 anni). Aveva lavorato anche con Paolo Sorrentino.

Vani sono stati i disperati soccorsi per Ludovica Bargellini, l'attrice è morta questa notte dopo un impatto violentissimo tra il suo veicolo, una lancia Y, e un muro all'incrocio tra tra via Colombo e via di Grotta Perfetta, nella Capitale. Non sono ancora chiare le dinamiche, ma non si esclude un colpo di sonno.

L'attrice di 35 anni, che aveva studiato al Centro sperimentale di cinematografia a Roma, è stata tirata fuori dalle lamiere dai vigili del fuoco verso l'una di notte alla Montagnola, e trasportata d'urgenza all'ospedale Sant’Eugenio. Purtroppo non c'è stato nulla da fare ed è morta a causa delle ferite riportate, pochi minuti dopo l'arrivo al pronto soccorso.

Originaria di Pistoia, la giovane attrice si era trasferita a Roma per rincorrere il suo sogno. Ludovica Bargellini era un volto noto al grande pubblico grazie principalmente al suo ruolo nella serie tv The Young Pope del regista Paolo Sorrentino. Dopo essersi diplomata aveva lavorato come costumista. In seguito aveva intrapreso il percorso teatrale come attrice. Aveva lavorato per alcuni spot pubblicitari di Campari e Sky-Now Tv e per alcuni lungometraggi come "Palato assoluto" di Francesco Falaschi e "Non c'è tempo per gli eroi" di Andrea Mugnaini. Aveva svolto diversi workshop con Ivana Chubbuck, Michael Margotta e Doris Hicks lavorando come modella.

Non appena è uscita la tragica notizia molti tra amici e colleghi hanno lasciato messaggi di cordoglio sui social.

Sul luogo dell’incidente sono tornati gli agenti della polizia locale di Roma Capitale e i carabinieri, che proseguono con i rilievi per accertare le reali cause dell'incidente mortale.

Camilla Palladino per il "Corriere della Sera" il 20 aprile 2022.

L'auto distrutta contro il guardrail di cemento tra le corsie di via Cristoforo Colombo, la strada romana ad alto scorrimento che collega il centro della città al quartiere di Ostia. È lo scenario che si sono trovati di fronte gli agenti della polizia locale nella notte tra lunedì e martedì, quando sono intervenuti per un incidente intorno all'1.30 all'altezza dell'incrocio con via di Grotta Perfetta, periferia sud di Roma. All'interno del veicolo (una Lancia Ypsilon) Ludovica Bargellini, volto noto nel mondo dello spettacolo che, dopo essere stata tirata fuori dalle lamiere, è stata trasportata d'urgenza al vicino ospedale Sant' Eugenio.

A pochi minuti dall'arrivo, l'attrice toscana è deceduta. Il corpo è stato dunque trasferito al Policlinico Tor Vergata, e i familiari rintracciati e avvisati di doversi recare a Roma per riconoscere la salma.

I vigili urbani presenti sul posto hanno aperto un fascicolo d'indagine per ricostruire la dinamica dell'impatto, ancora in fase di accertamento. Stando ai primi rilievi, nessun altro veicolo sarebbe coinvolto. La donna, 35 anni, era sola e viaggiava sulla Colombo in direzione centro quando ha perso il controllo della sua auto ed è andata a finire contro lo spartitraffico. Il motivo dello sbandamento è ancora da accertare, e sono due gli elementi su cui si sta indagando: da una parte le immagini delle videocamere di sorveglianza della zona, dall'altra l'accertamento dello stato di salute della vittima.

Su quest' ultimo punto in particolare, come fa sapere la polizia locale, al momento non si può escludere niente: a causare l'incidente potrebbe essere stato un colpo di sonno, un malore, una distrazione o l'eventuale assunzione di droghe o alcol. Lo dovrà accertare l'autopsia, che verrà disposta dal pubblico ministero nominando il medico legale. A questo punto, tutti gli atti sono in mano alla Procura di Roma.

Originaria di Pistoia ma residente a Roma, Ludovica Bargellini aveva tante passioni. 

Prima tra tutte, quella per il cinema: durante la sua carriera ha lavorato con Paolo Sorrentino nella serie televisiva per Sky Atlantic The Young Pope e con Paolo Virzì nel film La pazza gioia , David di Donatello per il miglior film nel 2017. Entrambe le esperienze risalgono al 2015, lo stesso anno in cui l'attrice aveva frequentato il corso di Costume al Centro sperimentale di cinematografia a Roma. Poi la donna ha continuato il suo percorso, tra lavoro e formazione, seguendo workshop, lavorando in tv e teatro, passando per gli spot pubblicitari.

LUDOVICA BARGELLINI

Ludovica Bargellini era anche una grande sportiva: tra le sue discipline preferite lo sci, l'equitazione, la pallavolo. 

Nella Capitale praticava pugilato e kickboxing in una palestra del centro. Centinaia i messaggi di cordoglio apparsi su Facebook e Instagram. Da quelli di chi faceva il suo stesso mestiere, come gli attori Leonardo Bocci e Miguel Gobbo Diaz, a quelli di amici e conoscenti. «Eri cuore e luce», un'«attrice di rara forza», «un'amica, una donna bella, sorrisi, ironia. Ciao Ludovica», sono solo alcune delle parole con cui l'attrice 35enne viene descritta sui suoi profili social da chi, da ieri, la vuole ricordare anche con un ultimo saluto online.

«Ti avevo conosciuta sul set di un film al quale avevamo lavorato entrambe, avevamo riso, parlato, c'eravamo sorrise», ricorda una collega. «Così dolce e piena di vita - aggiunge al ritratto dell'attrice un altro amico - anche se dallo sguardo dolente».

·        È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.

Da repubblica.it il 18 aprile 2022.

È morto all'età di 90 anni lo scrittore e critico letterario Piergiorgio Bellocchio, nella sua casa di Piacenza. Lascia la moglie Marisa e la figlia Letizia. Tra i maggiori intellettuali militanti della sinistra eterodossa, con la sua rivista "Quaderni piacentini" ha dato un contributo determinante al rinnovamento della cultura e della sinistra italiana. 

Nato a Piacenza il 15 dicembre 1931, era il fratello maggiore del regista Marco ed aveva partecipato di recente assieme agli altri fratelli (Letizia, Alberto e Maria Luisa) al film Marx può aspettare (2021), dedicato proprio alla famiglia Bellocchio. Il 27 dicembre 1968 Camillo Bellocchio, fratello gemello del regista Marco, si tolse la vita, all'età di 29 anni: i fratelli superstiti ripercorrono nel documentario quella tragedia senza filtri o pudori.

Nel 1962 Piergiorgio Bellocchio ha fondato la rivista Quaderni piacentini e l'ha diretta fino alla chiusura, nel 1984. Suoi compagni di avventura furono, in particolare, Grazia Cherchi e Goffredo Fofi, che lo affiancarono anche nella direzione del trimestrale che apparve con il sottotitolo "a cura dei giovani della sinistra", come prolungamento dell'attività del circolo "Incontri di cultura" di Piacenza. 

È stata una rivista centrale nonché punto di attrazione per la cultura e l'evoluzione del pensiero politico di sinistra in Italia a partire dalla seconda metà degli anni '60. Ha poi pubblicato "Diario" (1985-1993), rivista "personale" interamente scritta con Alfonso Berardinelli (il reprint integrale di "Diario. 1985-1993" è apparso da Quodlibet nel 2010).

Bellocchio ha collaborato con l'editore Garzanti scrivendo voci per l'Enciclopedia della letteratura (1972) e per l'Enciclopedia Europea (1976) e prefazioni a Stendhal, Dickens e Casanova. Dal 1977 all'80 ha diretto a Milano la piccola casa editrice Gulliver e - fra le tante altre cose - è stato il primo direttore responsabile di "Lotta continua" apparso per la prima volta come settimanale il 1º novembre del 1969 come organo ufficiale dell'omonima formazione extraparlamentare, non seguendone però l'evoluzione redazionale.

Come direttore del giornale venne denunciato e fece tre mesi di carcere. Annunciando la sua scarcerazione, un editoriale non firmato sul giornale spiegava che le accuse contro Bellocchio erano dovute al fatto che avrebbe tradito la "corporazione degli iscritti all'Albo dei giornalisti" non avendo controllato chi voleva scrivere sul giornale e nell'essersi, lui intellettuale, immischiato con un'"azione politica rivoluzionaria" che stampava un giornale che finiva nelle mani di operai e proletari. 

Con i racconti raccolti nel volume "I piacevoli servi" (Mondadori, 1966) Piergiorgio Bellocchio ha vinto il Premio Pozzale di Empoli. Le sue prose critiche sono raccolte in "Dalla parte del torto" (Einaudi, 1989), "Eventualmente" (Rizzoli, 1993), "L'astuzia delle passioni" (Rizzoli, 1995), "Oggetti smarriti" (Baldini Castoldi Dalai, 1996).

Nel libro "Al di sotto della mischia. Satire e saggi" (Scheiwiller, 2007) l'autore ha raccolto articoli e note dedicati alle opere e all'attività politica e culturale dello scrittore piacentino, di Cherchi e di Fofi e alla storia dei "Quaderni piacentini", di "Ragionamenti" e di altre riviste della sinistra eterodossa. Al di là delle differenze, ciò che accomuna questi intellettuali militanti è principalmente la critica della sinistra istituzionale, del potere, della cultura e dei valori dominanti. 

Da lucido saggista Bellocchio appare capace di vedere nei vari e apparentemente eterogenei mutamenti della società italiana le costanti di un "brutto poter che a comun danno impera". Per Feltrinelli ha scritto l'introduzione a "Scompartimento per lettori e taciturni" di Grazia Cherchi (1997). Con Gianni D'Amo aveva promosso a Piacenza nel 2006 l'associazione Cittàcomune.

Bellocchio ha collaborato a vari periodici ("Questo e altro", "Rendiconti", "Linea d'ombra", "Panorama", "Illustrazione italiana", "Tempo illustrato", "l'Unità", "Paralleli", "King"), ha scritto prefazioni, voci per opere miscellanee, note di costume. 

Tra i suoi impegni più recenti, nel 2006 aveva fondato assieme a Gianni D'Amo l'associazione Cittàcomune, tutt'ora molto attiva a Piacenza.

Morto Piergiorgio Bellocchio, fondatore dei «Quaderni piacentini». CRISTINA TAGLIETTI su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

Critico e organizzatore culturale, era stato direttore di «Lotta Continua». Per il fratello, il regista Marco, l’anno scorso era comparso nel documentario «Marx può aspettare».

Critico letterario attento alla chiave sociale e politica, narratore, fondatore nel 1962 dei «Quaderni piacentini», rivista simbolo dell’anima eterodossa della sinistra italiana, Piergiorgio Bellocchio, morto il 18 aprile a novant’anni nella sua casa di Piacenza, è stato un intellettuale eretico, lontano da ogni conformismo e convinto sostenitore che la vera letteratura debba nutrirsi delle trasformazioni sociali. Con i «Quaderni piacentini» — alla cui elaborazione si aggiunsero presto Grazia Cherchi e Goffredo Fofi — animò il dibattito culturale negli anni Sessanta-Settanta seguendo una linea di autonomia e indipendenza nei confronti di qualsiasi organizzazione politica germinata a cavallo del Sessantotto.

I propositi, scrisse nell’editoriale intitolato Prova per una rivista da farsi pubblicato sul primo numero che, come il secondo, venne ciclostilato, «sono di studiare i problemi locali di fondo — dalla scuola all’editoria, dall’industria all’agricoltura, dalla stampa ai divertimenti — con un’apertura mentale ampia e spregiudicata, non provinciale». Il Vietnam, la questione arabo-palestinese, la Cina di Mao Zedong e i movimenti studenteschi, le rivolte operaie, le stragi, le battaglie civili: la rivista affrontò ogni tipo di dibattito, accogliendo opinioni contrastanti anche al suo interno e riunendo intorno al nucleo fondatore amici e collaboratori di varie età e posizioni, come Cesare Cases, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Giovanni Jervis, Ernesto Masi.

«Quaderni piacentini» era una rivista agile dove il lettore poteva trovare la politica, la letteratura, la filosofia e la psicoanalisi, la sociologia e l’economia, ma anche la poesia con autori già noti come Vittorio Sereni e lo stesso Fortini, e altri che lo sarebbero diventati, come Fernando Bandini, Giovanni Raboni, Roberto Roversi, Giancarlo Majorino. In pagina c’erano rubriche molto seguite come Franco tiratore o Da leggere e Da non leggere, stroncature caratterizzate da giudizi gustosi, a volte tranchant, capaci di mietere vittime illustri di cui magari in seguito fare ammenda, come il Vladimir Nabokov di Lolita. « Va da sé — era scritto in uno degli ultimi numeri — che i libri vincitori dei premi Strega, Viareggio e Campiello sono tutti da non leggere».

Nato a Piacenza nel 1931 da una facoltosa famiglia borghese, Piergiorgio Bellocchio era il primogenito di otto figli, tra cui il regista Marco, autore, lo scorso anno, del film documentario Marx può aspettare a cui il critico prese parte con gli altri fratelli (Letizia, Alberto e Maria Luisa) per rievocare l’evento tragico che sconvolse la famiglia: il suicidio, nel 1968, di Camillo, gemello di Marco. A Paolo Di Stefano in una delle ultime, preziose interviste, pubblicata sul «Corriere» nel febbraio 2020 aveva raccontato: «Sono povero, non ho più un soldo, ho campato a lungo sulle rendite senza mai sprecare nulla. Noi dei “Quaderni piacentini” avevamo una specie di terrore del lucro, appena vendevamo un po’ abbassavamo il prezzo senza tesaurizzare. Abbiamo sempre lavorato gratis».

Chiara e precisa, la scrittura di Bellocchio — che, come narratore, aveva esordito con tre racconti, I piacevoli servi, usciti nel 1966 nella collana Mondadori Il Tornasole, voluta da Vittorio Sereni e Niccolò Gallo — era animata da una profonda tensione morale e da un’esigenza di rinnovamento ideale e politico.

Fu anche il primo direttore responsabile di «Lotta Continua» di cui però non seguì direttamente la lavorazione redazionale , mentre dal 1985 al 1993 con Alfonso Berardinelli inventò e redasse «Diario », una pubblicazione arricchita dalle pagine riproposte di grandi autori, come Kierkegaard, Leopardi, Tolstoj, Simone Weil. Con due numeri all’anno, «Diario» recuperava il senso di una puntuale critica del presente prendendo atto del cambiamento dello scenario sociale e politico, «contro la falsa coscienza di una sinistra che si immaginava immune dal contagio della cultura dominante, convinta di aver conservato una sua diversità culturale»

Uno stile ironico e risentito, che mescola passione e razionalità caratterizzava le osservazioni di Bellocchio sul presente e sui fenomeni culturali: le traduceva in aforismi o racconti brevi, come quelle, per lo più provenienti dal «Diario», raccolte nel volume Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), o nell’apocalittico Eventualmente (sottotitolo: Osservazioni sul panorama aculturale, Rizzoli 1993), a cui seguirono L’astuzia delle passioni. 1962-1983 (Rizzoli, 1995), Oggetti smarriti (Baldini&Castoldi, 1996) e Al di sotto della mischia. Satire e saggi (Libri Scheiwiller, 2007).

Lettore vorace, nel 2020 aveva pubblicato il volume Un seme di umanità (Quodlibet), raccolta di saggi, prefazioni, recensioni, scritti tra il 1967 ed il 2005 che vanno dai classici dell Ottocento (Dickens, Dostoevskij, Stendhal, Flaubert...) a Pier Paolo Pasolini; da Edmund Wilson, che considerava un maestro, al maledetto Ferdinand Céline delle Bagatelle («con le sue unghie sporche continua a sembrarmi carico di verità anche quando è al suo peggio»), ma anche all’amico Danilo Montaldi, autodidatta cremonese coltissimo, esperto di sociologia, letteratura, musica, arte. Una figura ai margini che Bellocchio definì «il migliore esempio di libertà e coerenza che io abbia incontrato nel mondo intellettuale». Negli ultimi tempi il lockdown causato dalla pandemia, lo aveva costretto a un isolamento accettato con rassegnazione, come gli anni che passavano. «La vecchiaia è una brutta bestia — aveva detto con il lucido pessimismo che lo caratterizzava nell’intervista a Di Stefano — e ormai non c’è più verso di morire, la vita è troppo lunga».

Davide Brullo per “il Giornale” il 19 aprile 2022.

Nelle rare fotografie appare preoccupato, serio, sotto il lume della severità; di solito Piergiorgio Bellocchio veniva inscatolato nella didascalia «fratello del regista Marco». Nel film Marx può aspettare (2021), Marco Bellocchio, il regista, rievoca la storia del fratello Camillo, suicida nel dicembre del '68, a 29 anni; Piergiorgio, nato a Piacenza il 15 dicembre del 1931, era il più grande. 

Nelle note pubblicate qua e là, rinvenibili in rete, di Piergiorgio Bellocchio si dice di tutto, tranne l'importante. Si ricorda che è stato il primo direttore responsabile di Lotta continua, nel '69: un incarico «di servizio», sostenuto senza partecipare ai lavori del giornale, che gli garantì tre mesi di carcere. Si legge che ha diretto per tre anni - dal 1977 al 1980 - la casa editrice Gulliver; che fu implicato nel «caso» che inchiodava Daniele Luttazzi, reo, dopo la pubblicazione di Va' dove ti porta il clito, di aver plagiato, con aggravante di satira, Va' dove ti porta il cuore della Tamaro.

La Tamaro- con la quale si schierò Bellocchio - perse la causa; per Luttazzi tifavano, tra gli altri, Maria Corti, Omar Calabrese, Alberto Bertoni; qualcuno scrisse, senza errori, che il «tormentone» era francamente ridicolo. Così, di Piergiorgio Bellocchio si ricordano i libri minori - le «note di lettura» pubblicate nel 2020 da Quodlibet come Un seme di umanità, ad esempio - perché quelli maggiori sono ostinatamente dimenticati da un sistema editoriale che uccide i propri padri per omaggiarli quando sono nella tomba: la raccolta di racconti I piacevoli servi, stampata da Mondadori nel 1966, le raccolte di articoli distribuite in Dalla parte del torto (Einaudi, 1989), Eventualmente (Rizzoli, 1993), L'astuzia delle passioni (Rizzoli, 1995). «Non amo scrivere libri, non ne sono capace», diceva lui; aveva l'arguzia di un minatore del verbo, tetragono come un moralista mentre intorno sibila la ghigliottina. 

A volte le cifre hanno più compassione degli uomini. Citato, spesso, per aver fondato Diario, insieme ad Alfonso Berardinelli, Piergiorgio Bellocchio è stato, soprattutto, l'ideatore di Quaderni piacentini: il primo numero uscì nel marzo del 1962, sessant' anni fa. 

Il periodico, realizzato «a cura dei giovani della sinistra», si proponeva con «il carattere di "prova"», si presentava come «un foglio di battaglia, portata non solo all'esterno ma anche all'interno», con formula giornalistica rotonda: «Si può e si deve esser seri senza esser noiosi.Con allegria». 

La testata - scabra, cruda, con rigore da samizdat - ricalca il viso di Pierluigi Bellocchio, ne è la fotocopia, l'anima, qualora vi si creda. Del primo numero di Quaderni piacentini - reperto più arcaico delle pitture di Lascaux - va letta la sulfurea rubrica «Da leggere. Da non leggere»: si consigliava L'uomo senza qualità di Musil, Casa Howard di Forster, La mia vita di Trockij, battezzando come inutili i saggi di Moravia e di Pasolini sull'India, La vacanza di Dacia Maraini e «tutta l'opera» di Jack Kerouac. Già da qui si rivela l'indole, indocile, di Bellocchio & Co.

Dal secondo numero - 1 bis, aprile 1962- è Piergiorgio Bellocchio a orientare il genio critico: la segnalazione su Borges, «esempio di cosmopolitismo letterario dei più arditi e perfetti», è centrata («I suoi racconti barocchi accentuano spesso la precarietà della sorte dell'uomo ma ne illuminano anche tutta una serie di nuovi significati che dipende solo da noi tradurre in proposte di vita.

Se ne costernino i pavidi, i pigri»); quella su Pier Paolo Pasolini è esatta, scritta oggi, soprattutto per la denuncia, limpida, senza livore, della palude culturale italica: «Va riconosciuto il merito a Pasolini di essere un personaggio: tutti i suoi libri sono sempre stati dei fatti, delle novità, nello squallido panorama della nostra letteratura fatta soprattutto di rimasticature, di promesse mancate, di abili e pigri rentier, di provincialismo... Pasolini, infine, non può che ripetersi. Per questo, nonostante l'autenticità del suo mondo e il suo grandissimo talento poetico... finisce col logorare rapidamente il mezzo espressivo impiegato».

Alla sua rivista - di cultura, dunque, in seguito, "di culto" collaborarono, tra i tanti, Giancarlo Majorino, Franco Fortini, Giovanni Giudici, Giovanni Raboni, Goffredo Fofi, Franco Rella, Costanzo Preve. In un saggio A proposito di «Barry Lyndon», uscito nell'aprile del 1977, Bellocchio attaccava Novecento di Bertolucci, «un film irrilevante non tanto perché "faccia il gioco del PCI", ma in primo luogo perché è banale e noioso, non dà emozioni, non stimola nessuna facoltà critica». Vi si respirava una stregata libertà.

A chi scrive nel latte degli ingenui, scevro dai diktat della Storia, pare che Piergiorgio Bellocchio sia l'emblema di un tempo in cui contavano le idee prima delle ideologie. Poi, certo, c'è chi dice «militanza», parola stentorea, stinta dall'abuso; diciamo che chi non è per le passioni tristi e per il quieto vivere, per il grigiore del conformismo, per la cultura da salotto o da riunione di partito, altro dagli intellettuali con la sottana che velano di prepotenza la propria debolezza, è degno di essere santo subito.

L'addio all'intellettuale. Chi era Piergiorgio Bellocchio: critico, scrittore e fustigatore che credeva nella rivoluzione. Filippo La Porta su Il Riformista il 19 Aprile 2022. 

In un paese normale la scomparsa di Piergiorgio Bellocchio, a novant’anni, sarebbe un evento commentato ampiamente e variamente sulle pagine culturali dei principali quotidiani. Dubito che ciò avvenga. Eppure è stato uno dei più straordinari intellettuali italiani del secondo dopoguerra, una figura da collocare idealmente accanto a Nicola Chiaromonte e allo stesso Pasolini, con cui pure ebbe un duro scontro. Saggista elegante, polemista acuminato, commentatore caustico e divertito dell’attualità, demolitore di mitologie culturali (celebre una gustosissima stroncatura del Nome della rosa di Eco), narratore originale (1966: I piacevoli servi), fondatore di riviste autorevoli (“Quaderni piacentini” nei ‘60 e “Diario”, con Alfonso Berardinelli, negli ‘80), animatore di progetti culturali di alta pedagogia (la enciclopedia Gulliver), critico dell’ideologia, e soprattutto grande scrittore satirico (su questo torno tra un po’).

Innumerevoli i suoi titoli – di cui ricordo almeno, a partire dal 1989 Dalla parte del torto, Eventualmente, L’astuzia delle passioni, Oggetti smarriti, Al di sotto della mischia, fino al Seme dell’umanità, nel 2021 – benché fosse autore schivo, sempre più appartato. Molti dei suoi libri sono dovuti alle insistenze degli amici. Collaborò anche per un breve periodo a “Panorama”, poi si dimenticarono di lui, originando tra l’altro uno dei suoi pezzi satirici più irresistibili. Nella sua formazione confluivano vari filoni e umori: iniziale simpatia per il “Mondo” di Pannunzio e per il Partito Radicale (nella sua giovinezza piacentina: era nato nel 1931), neomarxismo anni ‘60 dei “Quaderni rossi”, della New Left americana, e dell’eretico poi ortodosso Fortini, assoluta centralità del romanzo ottocentesco (alcune sue introduzioni, per Garzanti, a scrittori russi, inglesi e francesi, sono magistrali, e ottennero il plauso degli specialisti), poi con il ‘900 Karl Kraus, la immaginazione sociologica di Kracauer, la critica della modernità dei francofortesi, l’attenzione a figure di maestri irregolari e indocili come Orwell, Camus, Simone Weil, Silone, a scrittori come Heinrich Boll, ad autori molto ai margini come Noventa o Peguy. Umori personalissimi che si scioglievano in una prosa sobria e affilata, comunicativa e di grande respiro. La intensa frequentazione del romanzo moderno lo “salvò” sempre da qualsiasi ermetismo dello stile e da ogni vocazione “filosofica” a mettere le braghe al mondo.

La mia generazione si è “formata”, letteralmente, su alcuni suoi preziosi scritti apparsi sui “Quaderni piacentini”, la rivista dell’allora Movimento, attenta al conflitto sociale ma anche severa verso cadute e slittamenti troppo ideologici dello stesso Movimento. Non tanto e solo alcuni editoriali importanti, e molto attesi, come ad esempio un intervento sulla vicenda Sofri e il terrorismo, ma certi articoli più d’occasione, come le recensioni a due film di Kubrick (2001 Odissea nello spazio e Barry Lindon) e quella alla famigerata Agenda Rossa Savelli, di cui fustigò giustamente tutta la sottocultura conformista al di là di una fasullissima irriverenza tutta di superficie. Colpisce la sua onnivora curiosità per la cultura di massa, per il cinema (d’autore ma anche la commedia all’italiana), per la televisione, per la pubblicità, per i giornali (era solito ritagliare articoli e immagini, a comporre degli stupendi collage di “cronaca” ragionata dell’esistente) e insieme lo sguardo critico fermo, equanime, sensibile alle gerarchie di valore.

Mi scuso per un ricordo personale ma vent’anni fa dovevo fare per un piccolo editore un libro-intervista con lui, sulla scia di una bella conversazione che avemmo a Radio3. L’inizio fu promettente, rispose subito e quasi con fervore alle prime domande. Poi un po’ misteriosamente il progetto si arenò, per varie ragioni: rinvii, soste improvvise, lunghi silenzi, ripensamenti sulle risposte già date, dubbi sull’operazione editoriale, forse anche qualche fisiologica pigrizia . Capii che in quella formula dell’intervista, nelle sue stesse risposte, ci stesse troppo stretto. Accennavo prima alla sua vocazione di scrittore satirico, dove potrebbe essere accostato a Flaiano (che pure non è tra i suoi maestri). Condividono un acre, risentito moralismo, il gusto della battuta folgorante (a volte puro calco di una conversazione ascoltata casualmente), una intelligenza fenomenologica del dettaglio, la riscrittura del flaubertiano “dizionario dei luoghi comuni”, una intensa pietas verso i poveracci e gli ultimi.

Ma c’è una differenza importante. Bellocchio, a differenza di Flaiano, alla Rivoluzione, magari per un attimo, ci ha creduto. Certo, con il suo scetticismo problematico, con il suo quieto e laico disincanto (mai cinico), però ci ha creduto. Ora, tale idea di rivoluzione, che certo in quel periodo si caricò di contenuti perfino teologici o salvifici, successivamente declinata variamente, e tradotta in una fede ostinata nella verità (che sempre per lui trionferà alla fine, su ogni inganno e impostura) e in una inesausta passione per la giustizia sociale, innerva ogni scritto di Bellocchio. Filippo La Porta

Addio a Piergiorgio Bellocchio, fondò la rivista «Quaderni Piacentini». Lutto nel mondo della cultura, aveva 90 anni. Era il fratello del regista marco. Giorgio Lambri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Aprile 2022.

Il 15 dicembre scorso aveva compiuto 90 anni: Piergiorgio Bellocchio, intellettuale, organizzatore di eventi culturali e critico letterario, fratello del regista Marco, è morto ieri nella sua casa di Piacenza, città in cui era nato e in cui ha trascorso la vita.

Nel marzo del 1962, quindi sessant’anni fa, aveva fondato la rivista trimestrale «Quaderni Piacentini» con il sottotitolo «a cura dei giovani della sinistra», il cui primo numero uscì tirato in ciclostile. Lo affiancarono, dal numero 16, prima Grazia Cherchi e poi dal numero 28, Goffredo Fofi. Nacque poi un «Comitato di direzione» nel quale, assieme ai tre, figuravano Luca Baranelli, Bianca Beccalli, Alfonso Berardinelli, Francesco Ciafaloni, Carlo Donolo, Giovanni Raboni, Giovanni Jervis. Tra i collaboratori firme del calibro di Franco Fortini, Sergio Bologna, Giovanni Giudici, Giancarlo Majorino, Giacomo Marramao, Luciano Amodio, Edoarda Masi, Roberto Roversi, Mario Isnenghi, Alberto Asor Rosa, Cesare Cases, Renato Solmi, Sebastiano Timpanaro, Guido Viale, e quindi anche, dal 1983, Gad Lerner, Franco Moretti, Roberto Moscati e Stefano Nespor.

I «Quaderni Piacentini» può essere considerata, per il grande livello dei contenuti, una delle riviste politiche e culturali più interessanti di quegli anni, anche se non superò mai la diffusione massima di 11mila copie. Sul Sole 24 Ore del 22 aprile 2007, Cesare De Michelis la ricorda come la rivista di un gruppo di intellettuali che «cercarono di tenere assieme il lume della ragione con la pratica della contestazione».

Piergiorgio Bellocchio, nel 1969, fu anche il primo direttore responsabile di «Lotta Continua», organo dell’omonima formazione della sinistra extraparlamentare italiana, di orientamento comunista e rivoluzionario. Dal 1977 al 1980, Piergiorgio Bellocchio diresse la casa editrice Gulliver di Milano, mentre dopo la fine del ciclo dei «Quaderni», fondò, con Alfonso Berardinelli, la rivista letteraria «Diario» (1985). Nel 1995 fu perito di Susanna Tamaro nella causa intentata contro Daniele Luttazzi, la cui parodia, «Va dove ti porta il clito», era accusata di essere un plagio. Il ricorso fu respinto dai giudici.

Le sue prose critiche sono raccolte in Dalla parte del torto (Einaudi 1989), Eventualmente (Rizzoli 1993), L’astuzia delle passioni (Rizzoli 1995), Oggetti smarriti (Baldini Castoldi Dalai 1996), Al di sotto della mischia. Satire e saggi (Scheiwiller, 2007) e Diario 1985-1993 (con Alfonso Berardinelli), Quodlibet, 2010. Nel 2020 viene pubblicata da Quodlibet la raccolta Un seme di umanità. Ha vinto il premio Pozzale di Empoli con la raccolta di racconti I piacevoli servi (Mondadori)

Lo scorso anno Piergiorgio Bellocchio ha partecipato a Marx può aspettare, il documentario che il fratello regista Marco ha dedicato alla propria famiglia e alla lacerazione provocata dal suicidio del fratello gemello Camillo, risalente al 1968. Il film è stato presentato agli Special Screenings del Festival di Cannes. «Una dolorosa perdita per Piacenza e per l’intera comunità culturale - ha detto la sindaca Patrizia Barbieri - Bellocchio è stato un fine intellettuale, protagonista del mondo culturale locale e attento osservatore della società».

·        È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.

È morto lo scrittore Valerio Evangelisti. La Repubblica il 18 aprile 2022.

E' morto Valerio Evangelisti, scrittore e saggista, grande autore di libri fantasy e horror. Aveva 69 anni. Erano diventato un best seller il suo ciclo di romanzi dell'Inquisitore Nicolas Eymerich. Era stato protagonista della vita politica bolognese e nazionale. Sempre a sinistra, è stato fondatore del sito carmillaonline.

Valerio Evangelisti non c'è più. E' stato un maestro, un amico, un compagno di strada. Ha immaginato strade impensabili per la narrativa non realistica, ma non solo. E' stato un grande scrittore, uno scrittore politico fino in fondo. E' stato un amico. Hasta siempre, fratello.

La giornalista, scrittrice e conduttrice di Radio 3 Loredana Lipperini ha dato la notizia su Twitter: "Valerio Evangelisti non c'è più. E' stato un maestro, un amico, un compagno di strada. Ha immaginato strade impensabili per la narrativa non realistica, ma non solo. E' stato un grande scrittore, uno scrittore politico fino in fondo. E' stato un amico. Hasta siempre, fratello".

È morto lo scrittore Valerio Evangelisti, militante del fantasy. ALESSANDRO BERETTA su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2022.

Autore versatile, è scomparso a Bologna a 69 anni. Inventore della serie dell’inquisitore Eymerich e della trilogia di Magus, dedicata a Nostradamus, aveva rivoluzionato la letteratura di genere. Nel 2013 aveva raccontato la sua malattia nel memoir «Day Hospital»

La letteratura fantastica non è fatta soltanto di sogni e fantasie, ma delle storie e delle idee di società che porta con sé e della grandezza dei suoi eroi. Da oggi, uno dei più grandi autori italiani del genere, Valerio Evangelisti, non c’è più. È morto infatti ieri a 69 anni nella sua Bologna dov’era nato nel 1952 e dove ha sempre vissuto, stando poi negli anni per alcuni mesi in Messico.

Evangelisti nel 1994 aveva letteralmente sbancato e rinnovato la letteratura di genere creando il personaggio dell’inquisitore Nicolas Eymerich, nel suo esordio Nicolas Eymerich, inquisitore, vincitore del Premio Urania e pubblicato nell’omonima celebre collana di fantascienza di Mondadori. In quella prima avventura, a una traccia ambientata nel Medioevo dell’inquisitore, ispirato all’omonimo personaggio storico autore del manuale Directorium inquisitorum, si affiancavano altre due trame ambientate in un futuro lontano. L’incrocio delle tre era sinonimo d’avventura e lo è stato per i successivi romanzi della serie: 14 in tutto, tradotti in 22 lingue, fino al conclusivo Il fantasma di Eymerich (2018); tutti i romanzi sono stati raccolti nel 2019 in tre volumi negli Oscar Mondadori Vault a cura di Alberto Sebastiani.

La serialità è stata il modus operandi di Evangelisti che ha ottenuto grande successo anche con la trilogia di Magus dedicata a Nostradamus, raccolta in unico volume nel 2000, e con quella dedicata al pistolero e stregone messicano Pantera, composta da Metallo urlante (Einaudi Stile libero, 1999), Black Flag (Einaudi Stile libero, 2002) e Antracite (Mondadori, 2003), omaggio, fin dal nome del protagonista, alla musica heavy metal di cui era appassionato.

La forza della letteratura fantastica sta nell’essere iconica per definizione, cercando di creare immaginari nuovi e imprevisti e, nel caso di Evangelisti, di lotta. Come dichiarò in una delle sue ultime interviste, in occasione della sua candidatura a capo lista del movimento politico di sinistra Potere al Popolo nel settembre 2021, «nella mia professione di scrittore, ho voluto raccontare una fetta di umanità, gli ultimi della società che si sono conquistati il palcoscenico della storia». La fantasia al potere, o meglio, come messa in discussione continua e serrata del potere. Una pratica che Evangelisti aveva coltivato con la saggistica storica, come in Sinistre eretiche. Dalla banda Bonnot al Sandinismo (Sugarco, 1985), per portarla successivamente anche sul piano della teoria letteraria, come in Alla periferia di Alphaville. Interventi sulla paraletteratura (L’ancora del Mediterraneo, 2003). A siglare l’attivismo culturale militante dell’autore, inoltre, nel 1995 la pubblicazione di «Carmilla», rivista di «letteratura, immaginario e cultura d’opposizione», nata inizialmente come fanzine e cresciuta negli anni fino a diventare un magazine online di riferimento per certi temi antagonisti e autori, tra cui il collettivo dei Wu Ming.

Sulla lunga malattia che l’ha portato via dalle lotte e dalla scrittura, un raro linfoma, Evangelisti aveva scritto un memoir nel 2013 per Giunti, Day Hospital. Della forza della narrativa, invece, nelle pagine di Controinsurrezioni (Mondadori, 2008), rilettura del Risorgimento che raccoglieva una sua storia e una di Antonio Moresco, aveva scritto: «Solo la narrativa può restituire, in parte, il sapore di ciò che accadde. Gli odori, i colori: una verità che lo storico, vincolato a criteri quantitativi e a valutazioni asettiche, non può permettersi».

·        E’ morta l’attrice Catherine Spaak. 

Da ilgiorno.it il 17 aprile 2022.  

E' morta a 77 anni Catherine Spaak, attrice, cantante, conduttrice televisiva e ballerina belga naturalizzata italiana. A luglio era stata colpita da un'emorragia cerebrale. 

Nell'ultima intervista, a ottobre 2020, aveva confessato: "Ho avuto un'emorragia cerebrale, ho perso la vista e non riuscivo a camminare. 

Ora ne rido, bisogna prendere le cose con leggerezza". E ancora: "La malattia, il dolore non sono una vergogna". Aveva poi ringraziato medici e infermieri che l'avevano rimessa in piedi, definendoli 'angeli' perché l'avevano rimessa in piedi da condizioni gravissime, " a gennaio non vedevo più, non sapevo più camminare, avevo perso la vista".

Morta Catherine Spaak: l’attrice aveva 77 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2022.

Catherine Spaak, attrice e conduttrice, è morta oggi a 77 anni dopo una lunga malattia. Era nata in Belgio ma aveva conosciuto la fama in Italia a partire dagli anni ‘60 con film come «La voglia matta» e «Il sorpasso». In tv era stata conduttrice di «Harem». 

È morta Catherine Spaak: aveva 77 anni ed era da tempo malata. «L’attrice di tanti meravigliosi film, la brillante conduttrice, la scrittrice, soprattutto la donna che ha vissuto sino all’ultimo con eleganza e carattere, ci ha lasciato stasera a Roma. Ci mancherà tantissimo», ha scritto la famiglia in una nota, indicando come i funerali si svolgeranno«in forma strettamente privata». Nata in Belgio, aveva conosciuto la fama in Italia: aveva debuttato a soli 15 anni, nel 1960, nel film «Dolci inganni» di Alberto Lattuada. La fama era arrivata due anni dopo con «La voglia matta» e subito dopo con «Il sorpasso» di Dino Risi. In televisione aveva condotto per anni la popolare trasmissione sulla rai «Harem». Era stata sposata quattro volte, due anni fa era stata colpita da una emorragia cerebrale. Qui il ricordo di Maurizio Porro.

La prima vera Lolita, la prima vera ninfetta italiana, la prima scapigliata degli anni 60 fu Catherine Spaak, parola di Alberto Lattuada e dei suoi «Dolci inganni», preso di mira dalla incattivita censura del 1960. L’attrice è mancata a 77 anni dopo una vita tumultuosa sentimentalmente (4 mariti, 2 figli), avventurosa professionalmente, essendo attrice, cantante, conduttrice tv, ballerina, giornalista. 

Nata in Belgio, a Boulogne Billancourt, il 3 aprile 1945, figlia del famoso sceneggiatore Charles Spaak e di Claudie Clèves, attrice come la sorella Agnes, nipote di un primo ministro, Catherine fu la vera diva ma anche la pecora nera di una famiglia borghese di cui aveva minato le certezze trasferendosi con tutte le sue irrequietezze in Italia. 

Il primo a notarla, solo 14enne, fu Jacques Becker che la fa debuttare nel carcerario «Il buco» ma sarà Lattuada che la incasella nella parte dell’adolescente spregiudicata e tormentata dalla prima esperienza sessuale in quel film, tutto a ritmo di jazz freddo, che scoppia come una bomba all’interno della società italiana in divenire, con Marquand e Sorel. 

L’immagine della ragazzina senza timori, desiderosa di provare tutto e subito, viene replicata in diverse versioni, due basilari: nella «Noia» di Damiano Damiani del ’63, dal romanzo cult di Moravia, in cui è una modella che ossessiona il pittore Horst Buccholz fino al culmine della famosa scena in cui lui la copre nuda con banconote da diecimila; nella «Voglia matta», storica commedia generazionale di Luciano Salce del ’62. Qui in gruppo con Gianni Garko, Jimmy Fontana, Fabrizio Capucci (che sul set conosce e poi sposerà) manda in tilt i sogni erotici piccoli piccoli di un Ugo Tognazzi irretito in una festa di giovani sul finir dell’estate in una villa in riva al mare dove si balla allacciati «Sassi» di Gino Paoli. È un gran successo, toccata e fuga dal romantico al patetico, con un magistrale Tognazzi e una Spaak al culmine della sua adolescente bellezza un po’ androgina, fuori dai canoni delle maggiorate: tutti a prendere in giro il povero Ugo che diventa lo zimbello di un gruppo di giovani disincantati. 

Nello stesso modo si prenderà gioco di Vittorio Gassmann, che è suo padre ma non la riconosce, nel «Sorpasso», storico road movie di Dino Risi del ’62, continuando con altri titoli da commedia da spiaggia come «Diciottenni al sole», tutti in costume da bagno con Garko e il marito Capucci. Catherine con la sua indifferenza glaciale è un ottimo aggancio al disamore esistenziale dei tempi. Se ne accorgono Florestano Vancini che la sceglie per «La calda vita» con Ferzetti e il grande proto femminista Antonio Pietrangeli che le disegna su misura il personaggio della «Parmigiana», ancora la «fenomenologia» sentimentale di una ragazza irrequieta cui va stretta la vita di provincia, prefazione ideale della Sandrelli di «Io la conoscevo bene». 

Nel folto curriculum dell’attrice simpatica sia agli uomini sia alle donne, c’è anche la riduzione di una spudorata commedia di Fabbri «La bugiarda» di Comencini, sempre in avversione alla monogamia. 

Intanto inizia una carriera musicale con la Ricordi che pubblica i primi 45 giri giovanilistici (“Quelli della mia età», «Noi siamo i giovani») che diventano hit grazie anche ai sabati sera televisivi in cui Catherine è ospite, mentre nel 64 vince la targa ai David di Donatello e in tutto pubblica 7 album. 

Se la disputano i migliori, Monicelli nell’«Armata Brancaleone» e poi lavora molto con Festa Campanile nelle quasi pochade «La matriarca» e «Adulterio all’italiana», tradendo ora Manfredi ora Trintignant, mentre in «Certo certissimo… anzi probabile» di Fondato si confronta con una coprotagonista, la Cardinale. 

Gioca anche ma senza successo la carta di Hollywood in «Intrighi al Grand Hotel» ma nel ’68 in tv debutta nella «Vedova allegra» diretta da Falqui e doppiata da Lucia Mannucci del Quartetto Cetra, mentre nei primi film le voci erano di Adriana Asti e Maria Pia di Mejo.

Essendo Johnny Dorelli partner nell’operetta di Lehàr ecco un’altra ditta di lavoro e sentimentale: si sposano nel ’72, dopo la fine delle nozze con Capucci, mentre con Dorelli avrà il figlio Gabriele e successo in «Aspettando Jo» e nel musical di Simon «Promesse… promesse». 

Non solo. La Spaak, amante del mondo dello spettacolo, lo racconta sui giornali, partendo dal «Corriere della Sera» (dalla mostra di Venezia) e poi molti settimanali. Si dirada l’attività cinematografica legata alla sua spudorata ed esibita giovinezza, ci sono partecipazioni a film a episodi (svetta quello di Ferreri), continua la carriera teatrale con «Cyrano» regìa di D’Anza, partner Modugno, dal ’78 all’80 cui seguiranno un testo di Albee e uno spettacolo su Vivien Leigh. 

Il format televisivo le si addice per le interviste amichevoli nel talk show «Harem», 15 edizioni Rai, dopo aver sperimentato «Forum» (in «Buona domenica»). 

La sua ultima esperienza tv è sulla 7 in «Il sogno dell’angelo», sul tema della spiritualità ma nel 2007 partecipa a «Ballando con le stelle» e nel 2015 cede alla «Isola dei famosi». 

I terremoti sentimentali, dopo le nozze giovanili con Capucci (dal ’63 al ’71), la vedono moglie di Dorelli dal 72 al 78, dell’architetto Daniel Rey dal 93 al 2010, infine di Vladimiro Tuselli dal 2013, ma il 2 giugno 2020 dichiara in tv di essere tornata single. 

Al cinema lavora, nel secondo tempo della carriera, con Salce, Sordi, Risi, la Vitti, l’ultima volta diretta da Iannacone in «La vacanza» del 2019, mentre in tv recita anche in film e miniserie, «Un Posto al sole» e «Un medico in famiglia» e perfino in «Fosca» dal romanzo di Tarchetti, mentre dà alle stampe alcuni volumi: «26 donne», «Oltre il cielo», «Lui».

Aldo Grasso per il corriere.it il 18 aprile 2022.

Il programma che l’ha consacrata come intrattenitrice televisiva si chiamava «Harem» (1987), il primo il primo talk show tutto al femminile. 

Tra sete e damaschi alle pareti, morbidi cuscini, soffici tappeti, Catherine Spaak ospitava in ogni puntata tre donne, alcune famose altre sconosciute. 

Era una brillante «salonnière», una donna affascinante, diversamente non sarebbe mai riuscita a convincere quel burbero di Angelo Guglielmi, il direttore di Raitre. Il salotto, infatti, creava un’atmosfera di intimità e complicità, nella quale le ospiti, fra vecchie foto e piccoli oggetti significativi, raccontavano la loro storia. I temi affrontati spaziavano dall’alcolismo alla fedeltà, dal coraggio alla seduzione, sotto la regia della conduttrice che, dietro l’aspetto soave, nascondeva una curiosità puntigliosa e una notevole determinazione.

E anche una piccola ossessione, forse nata da ragioni personali: le sue domande ruotavano sempre con ossessione intorno al rapporto con i genitori: come va con la mamma? come va con il papà? come sta il tuo io? 

Pochi minuti prima della fine dello show, la padrona di casa introduceva un ospite maschile che aveva assistito dietro una grata alla conversazione per poi commentarla, quasi a sottolineare che si trattava di una trasmissione «femminile», non «femminista». 

Nella tv italiana, Catherine Spaak appare nel 1968, nell’insolita veste di attrice, cantante e ballerina nella commedia musicale diretta da Antonello Falqui «La vedova allegra», dove sostiene la parte della protagonista Anna Glavari, sofisticata e avvenente vedova che sceglie come suo sposo lo squattrinato principe Danilo (Johnny Dorelli).

Nel 1978 le viene affidato il ruolo di protagonista nello sceneggiato «La gatta», mentre nel 1983 interpreta la parte di una giovane nonna nello sceneggiato televisivo «Benedetta & Company». Nel 1984 a Canale 5 inaugura il lungo ciclo dei processi nel tribunale di «Forum», programma alla cui conduzione subentrerà poi Rita Dalla Chiesa. 

Nel 1996 propone un nuovo talk show dal sapore confidenziale, «Pascià», che tenta di ribaltare la formula di «Harem», eleggendo a protagonista un ospite maschile. Nel 2002 conduce il talk «Il sogno dell’angelo» su La7. Nel 2007 partecipa come concorrente a «Ballando con le stelle» ma viene eliminata alla terza settimana.

Nel 2015 è una dei concorrenti della decima edizione del reality «L’isola dei famosi» su Canale 5. Lo sbarco sull’isola, con un mare agitato, resterà famoso per una sua frase, la sua uscita di scena dal mondo televisivo: «La barca si muoveva moltissimo, abbiamo sbattuto, qualcuno rideva, qualcuno no. Io posso dire di aver passato la mezzora più brutta della mia vita».

Catherine Spaak, 4 matrimoni e un arresto: le fu tolta la figlia con l’accusa di «dubbia moralità». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 17 aprile 2022.

Una vita da film anche nei matrimoni. Quattro. Ognuno con una sceneggiatura diversa. Il primo a tinte drammatiche: Catherine Spaak fu arrestata per essere scappata con sua figlia, la bambina le fu tolta e di fatto non l’ha più rivista. Era il 1962, sul set di La voglia matta dove incontrò l’attore Fabrizio Capucci. «Ci innamorammo e restai incinta — aveva raccontato al Giornale solo due giorni fa —. Avevo 17 anni e, per la mentalità dell’epoca, era uno scandalo». Una situazione emotivamente difficile da gestire, per di più in un Paese non suo, lontana da genitori che sono stati molto assenti. «Fui vittima della mia età... Ero ospite a casa Capucci dopo il mio matrimonio con Fabrizio, ma non mi sono mai sentita a mio agio, così presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia, fui arrestata a Bardonecchia. In frontiera. Allora c’era la patria potestà, una donna non era veramente libera. Così mi riportarono a Roma con mia figlia, per tutto il viaggio in braccio a un carabiniere. Finimmo tutti in tribunale. Il giudice fece presto ma fu una tragedia».

Le tolsero la figlia. «La motivazione era, a dir poco, discutibile. Sosteneva che la madre, cioè io, essendo un’attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna. Hanno distrutto la mia vita. E quella di Sabrina. Non ci siamo mai più ritrovate, non sono riuscita a recuperare quello che il magistrato ha rovinato». Un’incomunicabilità che sorprende a sentire una storia in cui anche lei è vittima. «È stata una vendetta dei Capucci. Il lavaggio del cervello di Sabrina ha fatto il resto. Le hanno ripetuto: la mamma è cattiva. Ti ha abbandonato. Offese che hanno lasciato segni indelebili».

Dieci anni dopo le tinte migliorano (peggio era difficile), ma arrivano nuovi problemi. Il matrimonio (dal 1972 al 1979) con Johnny Dorelli porta un secondo figlio, Gabriele. Ma i tormenti interiori sono tanti: «Avevo problemi di salute, anoressia, andai in analisi, non riuscivo a lavorare. Ero sposata con Johnny Dorelli che non aveva piacere che lavorassi. Diceva: ce n’è già uno e basta». Passeranno più di 10 anni dalla fine di quella relazione, ma «la voglia matta» le ritornò, un nuovo matrimonio. Questa volta niente attori, ma il risultato è lo stesso: l’unione con l’architetto Daniel Rey scade dopo i canonici 7 anni. Nel 2013 arriva la quarta occasione e Catherine Spaak non se la lascia sfuggire: Vladimiro Tuselli è un ex comandante di navi che ha 18 anni meno dell’attrice. Lei ci scherzava su: «È un argomento che ci fa molto sorridere anche se all’inizio ero un po’ sconcertata quando l’ho scoperto: lui non me l’aveva detto, io non glielo avevo chiesto. Per fortuna». Da tre anni, pace dei sensi, era tornata single: «Al primo posto ci sono io, finalmente».

Da fanpage.it il 21 aprile 2022.

La morte di Catherine Spaak ha sconvolto Eleonora Daniele, che ha voluto dedicare grande spazio all'attrice e conduttrice nel corso della puntata di Storie Italiane trasmessa lunedì 18 aprile. Nel corso del programma, è intervenuta telefonicamente Agnès Spaak, sorella dell'artista, che ha spiegato le cause che hanno portato al decesso. 

Proprio a Storie Italiane, Catherine Spaak aveva raccontato che nel 2020 aveva avuto un'emorragia cerebrale, che aveva compromesso la sua vista e anche la capacità di camminare. Poi, mentre ancora tentava di riprendersi, aveva avuto un secondo ictus. L'artista non si era data per vinta e aveva continuato a combattere per ristabilirsi. Pian piano, con un faticoso percorso di riabilitazione, era riuscita a riacquisire l'uso delle gambe e della vista, sebbene non completamente. Il 25 luglio 2021, purtroppo, c'è stata una ricaduta. Catherine Spaak è stata colpita da un altro ictus mentre si trovava a Sabaudia. Stavolta la situazione è apparsa grave sin da subito. I familiari sapevano che all'attrice restava poco da vivere. Nel giorno di Pasqua, il 17 aprile 2022, è arrivata la notizia della sua morte. 

I funerali saranno in forma privata

I funerali, la cui data non è ancora stata fissata, saranno celebrati in forma strettamente privata. Catherine Spaak aveva espresso il desiderio di essere cremata. La sorella dell'attrice, Agnès Spaak, è intervenuta telefonicamente a Storie Italiane. Con la voce rotta dal pianto ha raccontato la coraggiosa lotta di Catherine:

"Il 25 di luglio ha avuto il terzo ictus e da allora purtroppo c'è stato un lunghissimo calvario. Posso dire, però, che se n'è andata tranquillamente, io le sono stata vicina fino all'ultimo momento. Voglio ricordarla sorridente. È stata una grande stella che brillerà per sempre".

Agnes Spaak: «Gli ultimi mesi di mia sorella Catherine un calvario. Ma si è riconciliata con la figlia che non vedeva da 40 anni». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2022.

Il rapporto tra le due non è mai stato semplice, ma nel periodo della malattia sono state molto vicine: «Era una donna complicata, ma un file rouge ci ha sempre legato». 

«Era una donna complicata e ha avuto una vita complessa, ma un file rouge ci ha sempre legato, un grande amore che non si è mai spento». Agnès Spaak, sorella maggiore di Catherine, scomparsa la domenica di Pasqua a 77 anni, non riesce a trattenere la commozione, riavvolgendo il filo dei ricordi.

Lei aveva solo un anno di più di sua sorella...

«Avevamo solo 11 mesi di differenza, eravamo praticamente quasi gemelle e siamo cresciute insieme... poi come sempre avviene la vita ci ha fatto percorrere strade diverse e, a volte, anche molto distanti. Però voglio assolutamente sfatare una leggenda».

Quale?

«Quando anche io facevo l’attrice, il nostro rapporto è stato falsamente manipolato da certa stampa. Dicevano che litigavamo, che c’era rivalità tra noi, gelosie reciproche e continui conflitti... Non è assolutamente vero! Anche perché io poi mi sono totalmente dedicata ad altro, ho fatto la fotografa. Catherine aveva un carattere non facile, ma ciò non significa che fossimo nemiche...».

In che modo era diversa?

«Lei era molto introversa e, nonostante fossimo molto vicine d’età, non si confidava con me. Ricordo che quando avevamo 12-13 anni, io andavo a spiare nella sua camera da letto, per vedere quale libro stesse leggendo... tanto per capire meglio cosa avesse in testa mia sorella».

Che libro stava leggendo?

«”Viaggio al termine della notte” di Céline. Di sicuro aveva sottratto, di nascosto, questo volume alla libreria di nostro padre. E da quella sua lettura, di un libro così impegnativo, ho capito la sua diversità. Catherine mi accusava di essere troppo scherzosa, discutevamo, magari ci scontravamo anche su come reagire a certi eventi. Insomma, la differenza di carattere tra noi era evidente, come accade spesso nei rapporti di sorellanza, ma poi un accordo lo trovavamo sempre... soprattutto quando ci scambiavamo i vestiti... ».

E quando lei ha iniziato a fare l’attrice, le ha dato consigli, suggerimenti...?

«In verità, ho fatto questo mestiere per poco tempo, dedicandomi poi alla fotografia, la mia vera passione. Quindi Catherine non ha nemmeno fatto in tempo ad aiutarmi con eventuali consigli su questo o quel progetto, su questo o quel regista, non so nemmeno se abbia mai visto un mio film... Semmai, dopo, ha condiviso il mio lavoro da fotografa, condividendo con me alcune sue visioni, suggestioni... Tanto che avevamo progettato di creare insieme un racconto sul tema della solitudine, corredato da foto e da testi, immagini e storie».

E lei, come spettatrice, quale film ha amato maggiormente di sua sorella?

«Mi piacque tanto “Dolci inganni”, diretta da Alberto Lattuada, il suo primo film davvero importante realizzato in Italia, e poi “La voglia matta”, con la regia di Luciano Salce. Inoltre sono stata sua spettatrice quando debuttò al Teatro Sistina nello spettacolo "Promesse... promesse” nel 1970. Era molto preoccupata, essendo un’esperienza completamente nuova... era molto tesa, perché doveva esibirsi sul più importante palcoscenico della commedia musicale, diretta dai mitici Garinei e Giovannini, per di più a fianco di Johnny Dorelli... Ricordo che sedevo in platea con mio padre».

E il papà Charles, importante sceneggiatore, fu soddisfatto del debutto?

«Lui era sempre molto sarcastico... dotato di un forte senso dell’umorismo... era divertito».

Catherine ha avuto anche una vita sentimentale piuttosto movimentata...

«È vero, ben quattro mariti, ogni sette anni un nuovo matrimonio. Quando mi accordava qualche confidenza, riguardo al rapporto con gli uomini mi raccomandava sempre una cosa: non bisogna mai essere troppo generose, ma pensare al rispetto di sé stesse».

Dal primo marito, Fabrizio Capucci, ebbe la figlia Sabrina...

«Un rapporto difficile tra madre e figlia: non si sono frequentate per una quarantina di anni. E io ho cercato, riuscendovi, a farle riavvicinare: negli ultimi mesi di vita di Catherine, Sabrina è stata accanto alla madre, si sono riappacificate».

Il più bel ricordo che custodisce di sua sorella?

«Quando suonavamo la chitarra cantando insieme la canzone “Le tourbillon” che Jean Moreau cantava nel film “Jules e Jim” di Truffaut. E poi i capodanni in Alta Savoia... con tante risate e tanti ragazzi intorno che ci facevano la corte. Ma erano molti di più quelli innamorati di Catherine, un’icona di bellezza».

Gli ultimi ricordi?

«Gli ultimi mesi sono stati i più dolorosi. Le sono stata vicina sia quando è iniziata la pandemia e poi dallo scorso luglio quando è stata colpita dall’ictus. Ha sofferto tanto, era paralizzata nel lato destro e non riusciva più nemmeno a parlare... un calvario fino a quando la sua luce si è spenta definitivamente».

(ANSA il 18 aprile 2022) - "Ero avvolto dalla sua grazia ed eleganza: si capiva che era una donna di origini nobili, perché era semplicissima nello stesso tempo di una classe altissima". 

Pippo Baudo ha "frequentato a lungo" Catherine Spaak, l'attrice morta ieri a Roma, nata nel 1945 da una famiglia dell'alta borghesia belga, figlia dello sceneggiatore Charles e nipote dello statista Paul-Henri, e la ricorda "con grande affetto". 

"Era molto bello starle accanto: era una persona intelligente, colta, interessante, faceva tutto con grande amore. 

Era entusiasta di Harem, programma al quale ho anche partecipato - racconta Baudo - e rimase male quando la trasmissione le fu tolta, cosa che visse come un'ingiustizia. Ma poi trovò altri stimoli, sempre di alta eleganza".

"E' stata anche una grande diva dello schermo, interprete di film importantissimi, dal Sorpasso a La noia. E ha lasciato il segno anche nella musica: aveva una 'piccola' voce, ma la usava benissimo, ispirandosi a Francoise Hardy. L'esercito del surf è stato un grande successo", dice ancora il conduttore, che nel 2014, in giuria nello show di Carlo Conti “Si può fare”, ha ritrovato l'attrice tra i concorrenti. 

Nella mente di Baudo si affollano "tanti piccoli ricordi, una costellazione fatta di incontri... mi veniva a trovare spesso in ufficio per fare quattro chiacchiere, anche senza ragione. Ci sedevamo e parlavamo, perché aveva anche brillanti doti nella conversazione, da regina del salotto". 

Catherine Spaak l’attrice volto elegante della tv che ha raccontato le donne è morta. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Aprile 2022.  

Attrice e conduttrice, è morta a 77 anni dopo una lunga malattia. Era nata in Belgio ma aveva conosciuto la fama in Italia a partire dagli anni ‘60 con film come «La voglia matta» e «Il sorpasso». In tv era stata conduttrice di «Harem»

«L’attrice di tanti meravigliosi film, la brillante conduttrice, la scrittrice, soprattutto la donna che ha vissuto sino all’ultimo con eleganza e carattere, ci ha lasciato stasera a Roma. Ci mancherà tantissimo», ha scritto la famiglia in una nota, indicando come i funerali si svolgeranno «in forma strettamente privata». Nata in Belgio, aveva conosciuto la fama in Italia: aveva debuttato a soli 15 anni, nel 1960, nel film «Dolci inganni» di Alberto Lattuada. La fama era arrivata due anni dopo con «La voglia matta» e subito dopo con «Il sorpasso» di Dino Risi. In televisione aveva condotto dal 1988 al 2002 la popolare trasmissione Rai «Harem» talk show al femminile. Era stata sposata quattro volte, due anni fa era stata colpita da una emorragia cerebrale. I terremoti sentimentali, dopo le nozze giovanili con Capucci (dal ’63 al ’71), la vedono moglie di Johnny Dorelli dal 1972 al 1978, dell’architetto Daniel Rey dal 1993 al 2010, infine di Vladimiro Tuselli dal 2013, anche se il 2 giugno 2020 dichiarava in tv di essere tornata single.

Nata in Belgio, a Boulogne Billancourt, il 3 aprile 1945, era figlia del famoso sceneggiatore Charles Spaak e di Claudie Clèves, attrice come la sorella Agnes, nipote di un primo ministro, Catherine Spaak è stata la vera “diva” ma anche la pecora nera di una famiglia borghese della quale aveva minato le certezze, trasferendosi con tutte le sue irrequietezze in Italia. 

Nel suo salotto televisivo ospitava attrici, donne manager, scrittrici, disposte a raccontarsi tra vita privata e carriera; lei, che teneva le fila della conversazione, spesso veniva accusata di snobismo: “È soltanto il mio modo di fare. Adesso sicuramente è un modo di fare fuori moda, ma questo è il mio carattere: è riservatezza, pacatezza. E quindi non è una cosa costruita”. Le spettatrici curiose la seguivano, tra le tante ospiti, Catherine Deneuve, Monica Bellucci, Ornella Muti Marina Ripa di Meana, Margherita Buy, Franca Valeri, Isabel Allende  nessuna le diceva di no. Curiosa delle donne, spiegava come l’avessero colpita: “Tutte mi sorprendono in maniera diversa e dicono cose inaspettate. Spesso anch’io mi sorprendo a scoprirmi diversa“.

L’attrice-conduttrice aveva chiesto alle spettatrici di scrivere. “Abbiamo ricevuto tantissime lettere, i temi più comuni sono sempre legati alla vita privata, ai sentimenti. Le donne hanno ancora poco potere, sono poco ascoltate, per me questa parità di cui tanto si parla non c’è” raccontava. Lo stile ovattato che caratterizzava la trasmissione nasceva “dall’atmosfera che si crea in studio. Io non incontro mai prima le mie ospiti, non anticipo le domande che farò. La voglia di parlare, di raccontare anche le cose più intime, nasce spontaneamente. Succede quasi sempre, ma non credo sia merito mio, penso che chiunque disposto ad ascoltare inviti alla confidenza. Sono una conduttrice attenta, disponibile, mai volgare e per questo molti mi accusano di essere rigida”. 

Qualche anno fa l’attrice aveva raccontato a La vita in diretta di essere andata in Rai per proporre uno speciale di Harem: “Sono stata diverse volte in Rai a proporre una rivisitazione di Harem, ma mi è stato detto con molto franchezza che sono troppo vecchia. Aspettiamo ancora un po’ allora…”, aveva ironizzato la Spaak con il suo piacevole sarcasmo intelligente.

Aveva fatto una considerazione sui tempi che cambiano. “Oggigiorno forse le presentatrici, le attrici sono molto più disinvolte, sono diverse ed è giusto perché cambiano i tempi”, aveva spiegato. “Sin dagli anni Sessanta avevo dentro di me la convinzione, che poi si è anche rivelata giusta, che una donna deve essere indipendente ma non solo nella mente o nel cuore ma proprio dal punto di vista economico. Il lavoro e l’indipendenza economica sono stati i punti fermi della mia vita e della mia dignità, perché essere donna non era facile in quegli anni così come non lo è nemmeno oggi, però più che mai nell’arco di questi cinquant’anni l’indipendenza economica per una donna ha significato libertà e autonomia che consentiva, e che consente, alla donna di fare le sue scelte e di non avere bisogno di un uomo“. Redazione CdG 1947

È morta Catherine Spaak, addio all'icona di bravura, sensualità e ribellione. Arianna Finos su La Repubblica il 17 Aprile 2022.

Nata nel 1945 in Francia da famiglia belga, ha cominciato da ragazzina una lunga e fortunata carriera al cinema e in tv e, parallelamente, come cantante: "Non volevo essere un'attrice ma una ballerina classica, ero troppo alta all'epoca. Ma fare questo lavoro è stata la mia salvezza".

È morta, a 77 anni, Catherine Spaak. Attrice, scrittrice, cantante, ballerina, conduttrice televisiva, grande protagonista del cinema italiano negli anni Sessanta e Settanta, bellezza raffinata, grande personalità, era stata adolescente ribelle e sensuale negli anni Sessanta, signora borghese nel cinema dei Settanta e poi scrittrice, giornalista, conduttrice.

Era nata a Boulogne-Billancourt, nella regione Île-de-France, da una famiglia belga: figlia d'arte, sua madre era l'attrice Claudie Clèves mentre il padre lo sceneggiatore Charles Spaak; la sorella Agnès, attrice e fotografa e lo zio Paul-Henri aveva ricoperto più mandati da primo ministro del Belgio.

Nel 2020, a pochi giorni dal lockdown a causa della pandemia, era stata colpita da un'emorragia cerebrale: aveva rischiato di morire, come raccontato in tv nella trasmissione Storie italiane: "Sono venuta per dire che se siamo malati non dobbiamo vergognarci. Sono ancora qua con il sorriso, con la capacità di ragionare e di parlare, ma anche di ribellarmi. Non ho perso la mia grinta e il coraggio". All'emorragia era seguita una crisi di epilessia dovuta alla cicatrice. "Non camminavo e non vedevo. Non ricordo niente di questa crisi e trovo che sia bellissimo. Ci si cura, si guarisce e si torna a fare la stessa vita di prima".

Dai nove ai quindici anni cresce in collegio. La sua prima vita cinematografica è da adolescente spregiudicata e cinica. Esordisce a 15 anni nel film francese Il buco, di Jaques Becker, si trasferisce quindi in Italia. "Sono partita con una lettera di mio padre che mi autorizzava a lavorare. Ero terrorizzata di recitare, ho vissuto per anni nel terrore. Non volevo essere un'attrice ma una ballerina classica, ero troppo alta all'epoca. Ma fare questo lavoro è stata la mia salvezza". Viene notata da Alberto Lattuada che la sceglie in I dolci inganni, è il 1960, per il personaggio di Francesca, studentessa di buona famiglia che si concede a un uomo maturo, il film fa discutere, lo scandalo incontra problemi con la censura e la pubblicità che ne deriva consegna all'attrice una sorta di etichetta: sarà scritturata per altri film in una variazione di questo tipo di ruoli. 

Gli anni Sessanta e la commedia all'italiana

Negli anni Sessanta Catherine Spaak è una presenza costante, della Commedia all'Italiana. Indimenticabile la scena di La Noia di Damiano Damiani in cui compare coperta di banconote. È il 1964, due anni prima ha affiancato Vittorio Gassman in Il sorpasso di Dino Risi, nel ruolo di Lilly, figlia adolescente con il delizioso completino a strisce che entra nella storia del costume, l'attrice è immortalata in costume nel poster del film: "Venivo dalla Francia, noi giovani eravamo più trasgressivi, all'epoca".

Con Ugo Tognazzi in 'La voglia matta' Nello stesso anno, 1962, ha girato La voglia matta di Luciano Salce, accanto a Ugo Tognazzi, sul cui set conosce Fabrizio Capucci, che sposerà nel 1963. Nel 1964 ecco L'armata Brancaleone di Mario Monicelli, "sono la tua pecorella, brancami, leone", dice a Gassman. C'erano solo tre donne sul set, eravamo in difficoltà, racconterà. "Ero timida e sul set i colleghi si divertivano a insultarmi. Poi Vittorio si è scusato". Il partner che ricorda con più affetto è invece Marcello Mastroianni, "Educato, gentile, si lavorava benissimo con lui", ricordava del set di L'uomo dai cinque palloni di Marco Ferreri, girato nel 1963. Approda poi a ruoli di raffinata donna borghese, altra etichetta che le resterà anche nei successivi.

Dotata di una voce calda e piacevole, Catherine Spaak porta avanti, negli anni Sessanta, anche una carriera parallela come cantante. La Dischi Ricordi le offre un contratto, tra i primi 45 giri Mi fai paura (1964) e Quelli della mia età, cover di Tous les garçons et les filles di Françoise Hardy, L'esercito del surf diventano successi da Hit parade, rilanciati dalle sue apparizioni da ospite nei varietà televisivi del sabato sera. Un disco del gruppo rock The Love Potions del 1999 si intitola Voice of Catherine Spaak.

Catherine Spaak, “Il sorpasso” e quel confronto con papà Gassman

Nel 1964 le consegnano la Targa d'Oro ai David di Donatello, lavora con i più celebri autori e registi. Non le riesce invece di imbastire una carriera hollywoodiana. Nel 1967 è nel cast di Intrighi al Grand Hotel, regia di Richard Quine, con Rod Taylor e Karl Malden ma il film non ha successo e l'esperienza resta isolata.

Grandissimo successo ha La vedova allegra, nel 1968, musical televisivo di Antonello Falqui, tratto dall'operetta omonima. Ma, nelle parti cantate, Catherine Spaak viene doppiata da Lucia Mannucci del Quartetto Cetra. Nel musical la affianca Johnny Dorelli, che poi sposerà. 

Gli anni Settanta e l'età della scrittura

Dal 1970 Catherine Spaak inizia a scrivere per molte testate giornalistiche, mentre si diradano le apparizioni cinematografiche. Nel 78 e per due stagioni è Rossana, nella commedia musicale Cyrano, di Riccardo Pazzaglia e Domenico Modugno, in quella successiva la sostituisce Alida Chelli. Nel 1976 è la volitiva compagna di 'Madrake' Gigi Proietti, nel culto di Steno Febbre da cavallo, proprietaria di un bar e spesso infuriata perché la perdita al gioco influisce pesantemente sulla vita sessuale del fidanzato.

Nel 1989 affianca Monica Vitti, di cui è grande amica, in Scandalo segreto, film che ne segna il debutto da regista e che è anche l'ultima apparizione cinematografica di Vitti. Nel 2019 Spaak ha girato La vacanza, di Enrico Iannaccone, interpreta una donna in fuga dalla famiglia che incontra un giovane, interpretato da Antonio Folletto.

Insieme all'amica Monica Vitti Dal 1985 ha condotto per tre anni la trasmissione Forum, con il giudice Santi Licheri, continua la carriera da autrice e conduttrice, oltre quindici stagioni di successo di Harem. Come scrittrice ha pubblicato 26 Donne, Da me, Un cuore perso, Oltre il cielo.

Negli anni Sessanta è stata sposata con l'attore Fabrizio Capucci, incontrato sul set del film La voglia matta e da cui ha avuto una figlia, Sabrina. Dal 1972 al 1979 è stata sposata con Johnny Dorelli e ha avuto un figlio, Gabriele. Dal 1993 al 2010 è stata sposata con l'architetto Daniel Rey. Nel 2013 si è sposata con Vladimiro Tuselli, rapporto durato fino al 2020. Problematico il rapporto con la figlia Sabrina, attrice di teatro: "Mi tolsero mia figlia, il giudice sosteneva che la madre, cioè io, essendo un'attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna. Hanno distrutto la vita di entrambe".

Catherine Spaak, il dolore di Eleonora Daniele: "Chiamavi sempre. Sconvolta perché non ti ho potuto salutare". Eva E.Z il 18 aprile 2022 su Today.it.

Su Instagram il cordoglio della conduttrice di Storie Italiane. Fu proprio nello studio di Rai 1 che l'attrice tornò a mostrarsi in pubblico dopo l'emorragia.

E' unanime il cordoglio per la morte di Catherine Spaak, attrice e conduttrice morta in queste ore dopo una lunga malattia. Tanti i colleghi e la gente comune che si stanno riunendo virtualmente per lasciare il loro cordoglio in rete. Tra i molti, anche quello della giornalista Eleonora Daniele, a cui Catherine affidò il suo racconto un anno e mezzo fa circa, al termine di un percorso di riabilitazione intrapreso dopo una emorragia cerebrale. Spaak scelse infatti "Storie Italiane", trasmissione del mattino di Rai Uno, per mostrarsi di nuovo in pubblico. 

Dopo l'annuncio del ministro della cultura Dario Franceschini arrivato in serata, Eleonora Daniele è tra le prime a salutare Catherine. "Ogni volta che trattavo una storia di disabilità o di emarginazione mi chiamavi per offrire il tuo aiuto e la tua vicinanza - si legge nel post pubblicato su Instagram, dove mette a corredo un primo piano dell'attrice belga - sempre con grande discrezione, eri una donna con un cuore immenso e una classe innata". 

Morta Catherine Spaak, la vita privata: i quattro matrimoni e il dolore per Sabrina, la figlia persa

Grande rammarico di Daniele, è quello di non essere riuscita a dare l'ultimo saluto alla adorata Catherine: "Sono sconvolta - prosegue - per averti perso così, senza averti potuto salutare. Mi mancherà la tua dolcezza, le tue idee, la tua forza, il tuo carattere, la tua estrema sincerità. Ciao Catherine". 

Catherine Spaak, l'emorragia e il racconto della malattia: "Mai vergognarsi" 

Spaak è morta in queste ore. La famiglia non ha ancora reso note le cause del decesso. Due anni fa l'attrice fu colpita da una emorragia cerebrale che le tolse la capacità di camminare e la vita. Poi la riabilitazione la rimise in piedi e le permise di tornare a vedere e ad una vita normale. Quattro i matrimoni alle spalle e due figli, Gabriele e Sabrina, con cui ebbe un rapporto difficile. Restò il suo più grande dolore. 

Una vita intensa sia dal punto di vista professionale, che l'ha vista attrice, conduttrice, scrittrice e giornalista, ma anche in termini di percorso sentimentale, quella di Catherine Spaak, morta oggi all'età di 77 anni. Quattro infatti i matrimoni alle spalle. Due i figli: Sabrina Cappucci e Gabriele Guidi. 

I genitori e la famiglia d'origine

Proveniente da una famiglia che si disgregò quando era ancora ragazza - la mamma era Claudine, hippie, e il padre era Charles, di professione sceneggiatore, che si trasferì in Costa Azzurra con una donna più giovane - Catherine ha investito molto nell'amore quando fu la sua volta. Negli ultimi anni, nel corso delle ultime interviste rilasciate, si dichiarò però single: "Sono sempre attiva, scrivo, leggo moltissimo, ho preso per 4 anni lezioni di pittura. Ho un marito, un cagnolino delizioso, tanti amici, le giornate volano. Una vita così non l’ho mai avuta, se non a questa veneranda età", disse. 

Il primo marito Fabrizio Cappucci. E il difficile rapporto con figlia Sabrina, avuta 17enne

Il primo matrimonio è arrivato negli anni Sessanta, quando Catherine ha sposato l'attore Fabrizio Capucci, fratello dello stilista Roberto ed incontrato sul set del film La voglia matta. E' grazie a lui che ha avuto la prima figlia, Sabrina. Con quest'ultima, il rapporto non è mai pacifico. Il suo più grande dolore fu proprio quello di non essere mai riuscita a ricostruire il rapporto con la donna, avuta giovanissima, ad appena 17 anni. 

Catherine Spaak, l'emorragia e il racconto della malattia: "Mai vergognarsi"

"Ci innamorammo e restai incinta", disse Spaak. I due dovettero sposarsi ma l'attrice non si trovò bene con la famiglia di lui. "Presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia", raccontò. La Spaak fu arrestata a Bardonecchia e riportata a Roma insieme ai carabinieri. "Non si poteva discutere, non era ammissibile. Finimmo tutti in tribunale". Col passare del tempo, infatti, la situazione non migliorò, tanto che la bambina le fu tolta perché il tribunale la giudicò "di dubbia moralità essendo un’attrice. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna". Il rapporto con la piccola andò in pezzi e le due non riuscirono più a ritrovarsi. Negli anni successivi, Catherine accusò la famiglia del marito di averla sempre messa in cattiva luce con la figlia. 

Il matrimonio con Jhonny Dorelli

Poi, dal 1972 al 1979, è stata la volta del matrimonio con l'attore Johnny Dorelli, da cui ha avuto il figlio Gabriele. Il loro amore è durato circa quindici anni. Terzo marito l'architetto Daniel Rey, con cui è andata avanti 1993 al 2010. Infine, nel 2013, le nozze con Vladimiro Tuselli, ex comandante di navi sposato il 19 luglio 2013 in Sicilia, precisamente, nel suggestivo paese di Erice. 

"Quattro matrimoni? Certe domande solo a noi donne"

Proprio nel corso di una delle rare interviste rilasciate in tv, anni fa, la conduttrice Caterina Balivo le domandò: "Come si affrontano quattro matrimoni e tre separazioni?". E lei risponde con decisione e provocazione: "Chissà perché queste tipo di domande si fanno sempre alle donne e mai agli uomini. Tipo Maurizio Costanzo, ha affrontato più di un matrimonio ma non la fanno una domanda così a lui". Balivo replicò immediatamente: "Ma perché Maurizio Costanzo non è mai stato qui". 

In quell'occasione, tenne a smentire i rumors su un presunto flirt con Gino Paolo "sono ed ero molto amica della sua compagna (Stefania Sandrelli, ndr). Con Stefania, ho sempre avuto un grande rapporto", disse. 

Single negli ultimi anni

Nell'ultima apparizione televisiva in cui parlò del privato, risalente al giugno 2020, si dichiarò nuovamente single. 

Catherine Spaak, l'emorragia e il racconto della malattia: "Mai vergognarsi". Eva E.Z il 18 aprile 2022 su Today.it.

Due anni fa l'attrice, morta in queste ore, fu colpita da una emorragia cerebrale. Tornata in tv, lanciò un appello al pubblico.

"Voglio che alle persone arrivi un messaggio: se siamo malati non dobbiamo vergognarci". Così Catherine Spaak, morta in queste ore all'età di 77 anni, parlava nel settembre di due anni fa in tv al termine di un lungo percorso di riabilitazione seguito ad una emorragia cerebrale. "Tante persone che hanno problemi di salute tendono a nasconderlo - disse in merito alla malattia a Storie Italiane, ospite del programma di Rai Uno condotto da Eleonora Daniele - Sei mesi fa ho avuto un’emorragia cerebrale e, successivamente, delle crisi epilettiche dovute alla cicatrice". 

"Persi la vista e la capacità di camminare, mi dissero che non sarei arrivata al giorno dopo"

"Non sono venuta qui solo per parlare del mio film", chiarì subito, all'epoca, la Spaak, che sarebbe tornata di lì a poco al cinema con la pellicola La Vacanza. Il suo obiettivo era un altro. Era lanciare un appello al pubblico. Appello che resta vivo anche oggi che l'attrice è scomparsa: "Voglio che alle persone arrivi un messaggio: se siamo malati non dobbiamo vergognarci". Parole che arrivavano alla fine di un percorso affrontato con determinazione dall'attrice belga: contestualmente all'emorragia, infatti, Catherine perse la vista e la capacità di camminare. La notte dell'emorragia, i medici le dissero che "probabilmente non sarei arrivata all’alba del giorno dopo".

Morta Catherine Spaak, la vita privata: i quattro matrimoni e il dolore per Sabrina, la figlia persa

"Un’emorragia non fa piacere a nessuno - continuava - ma oggi qui con il sorriso, con la capacità di ragionare e di parlare, ma anche di ribellarmi. Non ho perso la mia grinta e il mio coraggio. Dico a tutti che si va avanti". Un racconto che, di lì a poco, proseguì nel corso della trasmissione "I Lunatici", in onda su Rai RadioDue, in cui il messaggio fu lo stesso, tanto che definì la malattia "una prova da affrontare con coraggio ma anche serenità".

Costretta ad un lungo ricovero in ospedale, i suoi ringraziamenti più sentiti andavano al personale sanitario che l'aveva supportata e curata. "Medici e infermieri sono stati angeli, mi hanno fatto rinascere, sorridere di nuovo alla vita e al mondo", disse. Eva E.Z

Attrice, conduttrice, ballerina, cantante: aveva 77 anni. Addio a Catherine Spaak, i quattro matrimoni, il rapporto perso con la figlia Sabrina e le accuse ai suoceri: “Se siamo malati mai vergognarsi”. Redazione su Il Riformista il 18 Aprile 2022. 

Attrice, conduttrice, ballerina, cantante. Una figura poliedrica, una bellezza raffinata, che amò l’Italia sin dalla giovane età. Addio Catherine Spaak, morta a 77 anni in una clinica romana. Malata da tempo, nel 2020 era stata colpita da un’emorragia cerebrale. Spaak nacque in Francia, a Boulogne-Billancourt il 3 aprile del 1945 da una famiglia dell’alta borghesia belga, figlia dello sceneggiatore Charles e nipote dello statista Paul-Henri. Naturalizzata italiana, nel nostro Paese ha conosciuto la fama negli anni Sessanta e Settanta. Il suo debutto nel cinema italiano ad appena 15 anni, quando recitò nel film ‘Dolci inganni’ di Alberto Lattuada.

Il successo era alle porte ed è arrivato con pellicole del calibro di ‘La voglia matta’ di Luciano Salce e ‘Il sorpasso’ di Dino Risi. Con la sua eleganza, è diventata un modello di stile per le ragazze italiane dell’epoca. Molto attiva nel cinema, ha recitato anche ne ‘L’armata Brancaleone’ di Mario Monicelli e ‘Febbre da cavallo’ con la regia di Steno. Il suo talento poliedrico è emerso anche nella carriera da cantante: incise una cover di ‘Tous les garçons et les filles’ di Françoise Hardy e la celebre ‘L’esercito del surf’. Catherine conquistò con il passare degli anni anche il piccolo schermo. Fu conduttrice del programma tv ‘Forum’ negli anni Ottanta e soprattutto volto di ‘Harem’ e di ‘Carosello‘, oltre ad aver preso parte alla soap opera ‘Un posto al sole’, alla serie tv ‘Un medico in famiglia 8’ e a ‘Ballando con le stelle’ nel 2007.

Nella vita privata, Spaak è stata sposata 4 volte. La prima negli anni Sessanta con Fabrizio Capucci, incontrato sul set della pellicola ‘La voglia matta’ da cui ebba una figlia, Sabrina. Più tardi, dal 1972 al 1979 è convolata a nozze con Johnny Dorelli, da cui ha avuto un altro figlio, Gabriele. Per l’attrice anche altri due matrimoni, con l’architetto Daniele Rey, dal 1993 al 2010, e tre anni più tardi con Vladimiro Tuselli, che lasciò nel 2020.

La malattia

A inizio 2020, a pochi giorni dal lockdown, viene colpita da un’emorragia cerebrale: “Non provo nessuna vergogna a parlarne”, ha raccontato a Storie italiane su Rai1 successivamente. “Tante persone che hanno problemi di salute tendono a nasconderlo. Sei mesi fa ho avuto un’emorragia cerebrale e, successivamente, delle crisi epilettiche dovute alla cicatrice. Voglio che alle persone arrivi un messaggio: se siamo malati non dobbiamo vergognarci. Un’emorragia non fa piacere a nessuno, ma oggi qui con il sorriso, con la capacità di ragionare e di parlare, ma anche di ribellarmi. Non ho perso la mia grinta e il mio coraggio. Dico a tutti che si va avanti”.

Il rapporto perso con la figlia Sabrina

Con la primogenita Sabrina, avuta a 17 anni nel corso della relazione con Fabrizio Capucci (conosciuto sul set), il rapporto degenerò e non è mai stato quasi del tutto recuperato. “Mi tolsero mia figlia, il giudice sosteneva che la madre, cioè io, essendo un’attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna. Hanno distrutto la vita di entrambe” ha commentato negli anni Catherine Spaak.

“Ci innamorammo e restai incinta” ma il rapporto con la famiglia di Capucci non decollò mai. L’attrice non si trovava bene e “presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia”. In quel frangente, la Spaak fu arrestata a Bardonecchia e riportata a Roma insieme ai carabinieri. Negli anni successivi, Catherine accusò la famiglia del marito di averla sempre messa in cattiva luce con la figlia. Il rimpianto più grande.

Dagospia il 12 gennaio 2020. Da Le Lunatiche. Catherine Spaak è intervenuta nel corso della nuova trasmissione Le Lunatiche in onda su Rai Radio 2 ogni sabato e domenica dall’1 alle 5, condotta da Federica Elmi e Barbara Venditti.

Sulla notte: La notte passo molte ore a leggere, poi mi accorgo che sono le 2 di notte e mi impongo di andare a dormire.

Sulla sua carriera: Il mestiere di chi fa spettacolo è cambiato tantissimo, non mi va di criticare o giudicare. Allora già il mio modo di fare veniva scambiato per freddezza, distacco e addirittura snobismo, non era vero e non lo è, è soltanto il mio modo di fare. Adesso sicuramente il mio modo di fare è fuori moda ma questo è il mio carattere, il mio carattere è riservatezza, pacatezza e quindi non è una cosa costruita ma che mi appartiene molto. Oggigiorno forse le presentatrici, le attrici sono molto più disinvolte, sono diverse ed è giusto perché cambiano i tempi. Sin dagli anni ’60 avevo dentro di me la convinzione, che poi si è anche rivelata giusta, che una donna deve essere indipendente ma non solo nella mente o nel cuore ma proprio dal punto di vista economico. Per me il lavoro e l’indipendenza economica sono stati i punti fermi della mia vita e della mia dignità, perché essere donna non era facile in quegli anni così come non lo è nemmeno oggi, però più che mai nell’arco di questi 50 anni l’indipendenza economica per una donna ha significato indipendenza, libertà, autonomia che consentiva e che consente alla donna di fare le sue scelte e di non avere bisogno di un uomo.

Su Harem: Sono stata molto attratta e incuriosita da Kuki Gallmann. Quando ogni tanto facevamo gli special di Harem, io sono andata in Africa a filmare il luogo in cui vive, dove sono sepolti suo marito e i suoi figli, il suo nido che è su un albero. Kuki è una scrittrice, una donna che ha avuto una vita molto tormentata, sia sentimentale che anche per decisioni molto importanti. Ha scritto “Sognavo l’Africa”, non tutti la conoscono ma per me è stata un’avventura meravigliosa incontrarla, vederla in Africa, nella sua riserva, nel suo mondo, e mi ha lasciato un ricordo di grande forza fisica, psicologica. Non parlava solo dell’ambiente ma anche della crescita spirituale, della consapevolezza, dell’evoluzione psicologica della donna, quindi corrispondeva perfettamente a molti punti di vista miei. Ho passato quella settimana con lei andando a visitare tutti i luoghi dove ha vissuto con il marito, che poi è morto. È sicuramente la donna che in 15 anni di Harem mi ha lasciato il segno più importante. Mi manca la pace nel mondo per tutti noi. Bisogna che gli uomini imparino, che cambino per vivere meglio senza guerre.

Sulla solitudine: La cosa più importante che ho imparato e che credo sia importante per tutte le donne e anche gli uomini, è sapere vivere da soli, non aver paura della solitudine e dei nostri lati oscuri, perché in fondo tutti noi abbiamo paura di qualcosa. Quindi resistere all’idea delle paure che abbiamo e che non sono reali, bisogna imparare a stare tranquilli da soli in un mondo che è sempre più caotico e rumoroso, quindi riservarci il più possibile quando lo possiamo fare. Quindi lo dobbiamo trovare questo tempo per passare da sole qualche ora al giorno o anche meno, però per avere quella solitudine senza rumore, musica, suoni, telefoni, per imparare a respirare e avere un contatto con il nostro Io più profondo. Credo sia questa la cosa più importante che ho raccontato nella mia vita.

Sul film Febbre da cavallo: Non sono una giocatrice, un giorno mentre giravo un film a Montecarlo mi hanno invitata a giocare al casinò ma ho rifiutato però ho chiesto di giocare il 90, allora si sono messi a ridere perché nella roulette il 90 non esiste. Non sapevamo che stavamo girando un film che sarebbe rimasto impresso a così tante persone, ancora quando prendo un taxi mi dicono “Allora, come va Gabriella? Come vanno i cavalli?” e si ricordano anche le battute. Ci siamo molto divertiti, il merito è tutto del regista e poi noi attori ci siamo divertiti e siamo grati al successo del film e al segno che ha lasciato. Con Gigi abbiamo sfondato il soffitto dell’appartamento in cui giravamo la  scena dove io mi arrabbio e gli tiro i piatti.

Marco Giusti per Dagospia il 18 aprile 2022.

“Mio padre è belga, io sono nata in Francia e ora vivo in Italia. La gente non sa bene chi io sia”. Credo che la carriera di Catherine Spaak, con Sofia Loren, Stefania Sandrelli e Claudia Cardinale l’attrice più importante della commedia all’italiana, per come l’abbiamo vissuta da spettatori poco più giovani di lei, sia tutta racchiusa nei primi anni ’60. 

Nel primo periodo, ancora giovanissima, scoperta o ri-scoperta da Alberto Lattuada per “I dolci inganni”, poi clamorosamente Lolita dominatrice del quarantenne Ugo Tognazzi in “La voglia matta” di Luciano Salce, poi addirittura figlia di Vittorio Gassman nel fondamentale “Il sorpasso” di Dino Risi, i film che forse la definiscono di più come icona del tempo, forse anche più delle altre colleghe. 

Quando ci sembrava un misto di sfrontatezza, determinazione e indifferenza giovanile, l’ideale per fare impazzire il borghese medio italiano alla ricerca del suo demonio.

Poi in un periodo intermedio, quando già da star italiana interpreta film innovativi come “Madamigelle De Maupin” di Mauro Bolognini da protagonista femmina vestita da uomo, o “Adulterio all’italiana” di Pasquale Festa Campanile, prima commedia sofisticata all’italiana, che le aprirà le porti di un tipo di cinema più garbato e protofemminista, grazie a registi attenti come Campanile e Giorgio Capitani.

Fino alla sua fase americana, un contratto con la Warner Bros di cinque anni per cinque film, uno all’anno, a cominciare dal 1966. Ma ne girerà solo uno. Per poi ritornare in Italia. Eppure, da spettatori da sempre innamorati di lei, chi non lo era in quegli anni?, eravamo convinti che Catherine Spaak sfondasse come star di Hollywood proprio con quel film, “Hotel” o “Intrighi al Grand Hotel” diretto da Richard Quine, scritto e prodotto da Wendell Mayes, girato a New Orleans con un cast di gran classe, Rod Taylor, Melvyn Douglas, Karl Malden, Merle Oberon, Richard Conte, Kevin McCarthy.

Lì Catherine Spaak indossa gli abiti di Edith Head, la costumista più celebre d’America, quella che aveva più Oscar di Walt Disney. L’idea è di farne non una nuova Loren o Gina, ma una nuova Audrey Hepburn. 

Colta, elegante, intelligente. Figlia di un grande sceneggiatore come Charles Spaak, nipote di un ministro, nonché primo segretario generale della Nato, Catherine Spaak non è mai stata una attrice qualunque. Anche da giovanissima, sullo schermo ha sempre avuto un peso, un carattere che poche attrici al tempo possedevano.

A Hollywood le scrivono che “il suo inglese è disastroso”. Lei risponde: “Io sono un genio e i Beatles mi aiuteranno”. Quel poco inglese che sa lo ha imparato ascoltando e riascoltando, come molti di noi, i dischi dei Beatles. Joseph E, Levine, il produttore che da anni lavora sul cinema italiano imponendolo in tutto il mondo, da “Le fatiche di Ercole” ai film di Vittorio de Sica, ha distribuito “La voglia matta” e “Le monachine” di Salce.

Ma in America l’hanno vista in ruoli più sexy, ad esempio ne “La noia” diretta da Damiano Damiani tratto dal romanzo di Alberto Moravia. “Guardate la scena delle banconote di Catherine Spaak”, si legge sui giornali americani, “E’ tutto quello che indossa”. E si continua con frasi come “I maschi più combustibili tra il pubblico possono prendere fuoco vedendola” (“The New York Post”). Accidenti… o “Ha molte cose in comune con Brigitte Bardot, i capelli sparsi e un modo ingenuo di indossare un piccolo asciugamano da bagno” (The Saturday Evening Post”).

Il suo regista, Richard Quine, ottimo autore di commedie, la descrive come una nuova Audrey Hepburn. “Ha quella qualità enigmatica… Tu non sai mai cosa abbia in testa. E’ estremamente intelligente e ha il 90% di quello che hanno le grandi star, una carica sia da bambina sia da donna…”.

Ma la descrivono anche come molto sicura di sé e decisa. “Decide lei che film fare e con quale uomo stare. E’ stata a Hollywood anni fa e ha rifiutato molte offerte”. Lei stessa parlando del suo primo film, “L’hiver”, interpretato a 14 anni in Francia dice che “Lì ho capito di poter contare solo me stessa”. 

A 21 anni, con un contratto con la Warner Bros ha girato già 26 film in Italia e molti di grande successo, ha alle spalle un matrimonio finito male con Fabrizio Capucci e una bambina di 3 anni, Sabrina, che ha lo stesso nome del personaggio più celebre del suo modello di attrice, Audrey Hepburn. Una bambina che non può vedere.

E vanta una storia segreta con un miliardario italiano. Da quel set a New Orleans, da quella esperienza americana, Catherine Spaak non tornerà più con la carica erotica e sovversiva che aveva prima, in grado di far perdere la testa a tutti i nostri attori maschi più celebri, da Tognazzi a Gassman a Mastroianni, e di imporre un modello di donna che sa quello che vuole. Qualcosa si è rotto per sempre. 

Forse non è più la ragazzina francese che ha il potere di rivoluzionare la famiglia borghese italiana e strappare i padri di famiglia dal loro ruolo. Forse non sarà mai la star americana che pensavano alla Warner. Ricordo che l’avevamo lasciata con tutta la sua carica erotica in “L’armata Brancaleone”, dove tradisce tutti con il più depravato ma anche l’attore più eversivo del momento, Gian Maria Volonté, l’avevamo rivista nel 1967 in “Hotel”, notando quanto fosse poco a suo agio in quel tipo di cinema, e l’avevamo poi recuperata con un’immagine del tutto diversa nelle tre commedie garbate, “Fate l’amore non la guerra” di Franco Rossi con Philippe Leroy, “La notte è fatta per rubare” di Giorgio Capitani con Philippe Leroy e Gastone Moschin e “Il marito è mio e l’ammazzo quando mi pare” di Pasquale Festa Campanile con Hywel Bennett e Hugh Griffith, che ne fanno proprio un altro tipo di attrice.

Pasquale Festa Campanile cerca, con “La matriarca”, di farne un’eroina proto-femminista, una donna che scopre i tradimenti del defunto marito e pensa di comportarsi come lui, mentre con Marcello Fondato in “Certo, certissimo, anzi probabile”, dove divide la scena con Claudia Cardinale, interpreta un tipo di donna che si scontra con la realtà di un mondo diverso dove i ruoli non sono più così definiti. 

Ma in generale, pur girando molti film, tra cinema e tv, passando da Dario Argento (“Il gatto a nove code”) a Enrico Maria Salerno (“Cari genitori”), toccando il cinema di Albert Sordi (“Io e Caterina”) come un cult come “Febbre da cavallo” di Steno, non riuscirà più a trovare il grande successo popolare che aveva avuto nella prima fase della sua carriera.

Troppo libera e intelligente, forse, per poter funzionare nel cinema italiano di allora così stereotipato, tra commedia, commedia sexy e cinema d’autore, che non toccherà proprio. Allora, forse, meglio rifugiarsi nella tv, come presentatrice, ricordo “Harem” della Rai Tre di Angelo Guglielmi, primo talk tutto al femminile, con la sua presenza elegante e internazionale. 

Ma quando, personalmente, penso a Catherine Spaak la ricordo quasi sempre nel suo primo esplosivo periodo, quando era davvero una giovane star in grado di dominare i grandi mattatori del cinema italiano. Ne eravamo tutti incantati.

La morte dell'attrice. Catherine Spaak, la dea della leggerezza e del non-narcisismo: fu la diva del boom economico. Fulvio Abbate su Il Riformista il 19 Aprile 2022. 

Probabilmente, su tutto, di Catherine Spaak, morta nei giorni scorsi a 77 anni (era nata in Francia, nella cintura parigina, a Boulogne-Billancourt, il 3 aprile 1945) ricorderemo intatta, immobile, nell’incanto del nostro sguardo, Lilly, l’adolescente de Il sorpasso. Ne rivedremo il sorriso, il broncio trattenuto, lei, ora e sempre, accanto a Vittorio Gassman. Tutina aderente ai fianchi a righe orizzontali, taglio carré, Catherine messaggera di un biondo che restituisce eros e stupefazione. E ancora la lieve asimmetria degli incisivi, lo splendore acerbo della “ragazza francese”, anzi, belga, figlia di attori, nipote di un “padre” fondatore dell’Europa post-bellica, il socialdemocratico Paul-Henri, che sarà infine primo ministro del Belgio.

E ancora Catherine tornerà nel ricordo nuovamente “ragazza”, lei ne La voglia matta di Luciano Salce, dispettosa lolita che porta amorosa disperazione negli occhi di un affranto quarantenne, Ugo Tognazzi, pronto a far ritorno sconsolato, a bordo della sua spider, le piume da capo indiano sul capo, toro sconfitto, lungo la litoranea del Circeo, così nell’eternità del bianco e nero emozionale, cinematografico degli anni Sessanta. Catherine Spaak è stata un volto, un viso, un ovale familiare, sussurrato nell’Italia del boom economico, “vocina” d’Oltralpe, eccola infatti Catherine mentre canta un brano-manifesto, “Quelli della mia età” cioè “Tous les garçons et les filles” di Françoise Hardy, e ancora “L’esercito del surf” – “Noi siamo i giovani, i giovani…” – sempre il suo viso tra jukebox e copertine iconiche di 45 giri, feste e sogni di ragazzi e ragazze, hit parade, “concessionaria” in prestito dall’altrove “francese” dell’eros adolescenziale. Anche lì la pronuncia acerba, la desiderabilità, il “sogno proibito”, e poi ancora lei, sempre ragazza, sul letto, le banconote a coprirne la nudità ne La noia di Damiano Damiani dal libro di Alberto Moravia.

La ritroveremo, non più ragazza, non meno desiderabile, è già il 1976, titolare di un bar di via d’Ara Coeli, tra Campidoglio e piazza Venezia, in Febbre da cavallo, “moglie” furente dell’incorreggibile Mandrake-Gigi Proietti. Se può essere d’aiuto nella comprensione della sua “desiderabilità” impertinente la ricorderemo ancora con i nostri occhi innamorati di adolescente in un altro film, Certo, certissimo anzi probabile, 1969: due giovani amichette, lei e Claudia Cardinale, a contendersi il maschio, salvo infine scoprire che il comune oggetto d’amore preferisca invece il suo migliore amico, e con questi partirà per un lungo viaggio in barca a vela. La “biondità” di Catherine Spaak, lo sguardo di scorcio, e poco importa se la sua bellezza sembrasse contraddetta dalla montatura degli occhiali, poi sempre lei, Catherine, “la Spaak”, al fianco di Johnny Dorelli nel musical di Neil Simon, le musiche di Burt Bacharach, Promesse promesse, attrice, cantante, partner; professionalmente ineccepibile, nonostante la voglia di non essere diva: la sua parole di distanza dalle scene stesse, confessate a chi sta scrivendo, meglio, al ragazzo di un tempo che le racconta d’essere “stato innamorato di lei”, e Catherine, anzi, “la Spaak” che così risponde: “Non ho più rivisto i film che ho fatto…”, con lieve punta di alterigia signorile “francese”, forse anche con sfumata sufficienza, lei che, raccontando del padre, spiega la diffidenza, di quando lui le chiese di lasciarsi andare giù dalla cima di un armadio, perché certamente l’avrebbe salvata tra le braccia, e invece la lasciò cadere sul pavimento, aggiungendo un istante dopo, come lezione i giorni futuri: “Così imparerai a non fidarti di nessuno”.

Catherine, “la Spaak” e il suo marcato distacco dal cinema, infatti anni dopo, già “signora”, la ritroveremo “intervistatrice” sul Corriere della Sera, poi in televisione, nel salotto di Harem su Raitre, ospite di altre donne con complicità, sebbene algida e distacco, le gambe accavallate, padrona di casa complice eppure distante.

Il turista di passaggio a Roma, in certi anni, sollevando lo sguardo sugli attici di piazza di Spagna sembrava cercarla lassù, proprio lassù, dove abitava, tra invidia provinciale e speranza segreta di incontrarla, come si desidera accogliere nel proprio sguardo, tra via del Babuino e l’infilata di Trinità dei Monti, sogno suggerito dagli scatti dei paparazzi che talvolta ne seguivano il suo quotidiano privato, l’allure, l’oro di Catherine, miraggio della mondanità romana da rotocalco. Andrà ricordato il matrimonio con Fabrizio Capucci, la nascita di Sabrina, una storia amara, ne racconterà così: “Era il ‘62, avevo 17 anni e, per la mentalità dell’epoca era uno scandalo. Presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia. Fui arrestata a Bardonecchia. Allora c’era la patria potestà, una donna non era veramente libera. Così mi riportarono a Roma con mia figlia, per tutto il viaggio in braccio a un carabiniere”.

Le fu tolta. “La motivazione era, a dir poco, discutibile. Sosteneva che la madre, cioè io, essendo un’attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna. Hanno distrutto la mia vita. E quella di Sabrina”. Con Dorelli sarà invece un racconto “borghese”, verrà la nascita di Gabriele nel 1971. Catherine Spaak non ha mai amato se stessa diva, è rimasta “apolide” rispetto alla fama, se così può dirsi, eppure, nella percezione comune resta tuttavia intatta nel tempo cinematografico, il suo. Incancellabile Dora ne La parmigiana di Antonio Pietrangeli o Maria, ne La bugiarda di Comencini, sembra di vederla ancora adesso mentre, in tenuta da hostess, scende la scalinata di via Licinio Calvo e va incontro ai suoi uomini con lo sguardo dell’inganno che custodisce il perdono che si deve all’impertinenza delle ragazze: Roma, il cielo della Balduina, le sue palazzine, l’età dell’oro edilizia di un tempo felice residenziale, tra mangiadischi e il sorriso che incanta, la pace della commedia all’italiana, su tutto lei, la Spaak. Addio, Catherine.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Germana Consalvi per leggo.it il 19 aprile 2022.

«Sopra piazza del Popolo vendevano palloncini colorati. Tutti i giorni ne compravo uno, esprimevo un desiderio e poi lo lasciavo volare. Ero molto bambina... Prenda la crostata, l’ho fatta io ieri in campagna…». 

Quel giorno di dicembre 1993, negli studi televisivi dove lavorava al suo programma “Harem”, vero salotto-cult in onda il sabato notte su Raitre dal 1988 al 2002, Catherine Spaak aveva riservato un momento di pausa accettando di raccontare alla rivista “Roma, ieri oggi e domani”, il suo legame fortissimo con la città che oggi, a 24 ore dalla sua scomparsa a 77 anni, avvenuta proprio nella Capitale, val la pena ricordare.

L’attrice francese di origine belga aveva 48 anni ed era radiosa: Harem, di cui era anche autrice, andava alla grande, e in quei giorni aveva presentato la sua autobiografia “Da me”. Bellissima, fisico da modella, camicia di seta e pantaloni bianchi, offrì con garbo una fetta di crostata che aveva preparato per la redazione.

Erano già passati trentatrè anni dal suo primo incontro con la Capitale: «Arrivai una sera di marzo del 1960 all’aeroporto di Ciampino, mi aspettava il regista Alberto Lattuada per il provino del film “I dolci inganni”. Avevo 15 anni, non conoscevo una parola d’italiano ed ero molto intimidita». 

La passione per i palloncini le è rimasta anche dopo, e infatti ha continuato anche da grande a comprarli, anche se si rammaricava di trovare «palloncini sempre più brutti, di plastica pesante e dimensioni enormi». 

Della Roma che la accolse negli Anni Sessanta, Catherine Spaak rimase piacevolmente colpita anche «dal teatrino con le marionette al Pincio, la casetta di legno con il siparietto, il burattinaio e i ragazzini seduti sulle panchine, proprio come a Parigi, e da quei grandi taxi verdi e neri con un predellino all’interno che permetteva al passeggero di allungare le gambe: indimenticabili quei taxi».

A soli 16 anni decise di stabilirsi a Roma e non se n’è mai pentita, mai avuto alcun ripensamento perché, sottolineava, «qui mi sono sentita a casa fin dal primo momento, mai avuta la sensazione di trovarmi all’estero, anche quando non parlavo l’italiano. Che, comunque, imparai in sei mesi». 

La brava, versatile e fascinosa Spaak sognava, pensava e parlava in italiano, «la mia lingua», con due sole eccezioni: fiori e verdure le sognava e pensava in francese, confessava ridendoci su. Roma era casa sua, il centro storico il suo «osservatorio privilegiato».

Abitava in una deliziosa casa con terrazzo nel rione Parione, quasi di fronte a Castel Sant’Angelo: «Il rione per me è fondamentale, è una specie di città in cui tutti si conoscono e in cui capitano cose divertenti. Come la vecchietta che abita di fronte a me e cala il cestino per fare la spesa che ordina al negozio di sotto urlando in romanesco. È un clan, ci si protegge a vicenda». 

Romana di adozione ma non di indole: «Al contrario dei romani, sono ansiosa. Mi faccio venire forti sensi di colpa se non sono preparata perfettamente. I romani sono schietti ma soprattutto pigri, amanti della pace, adorano la pennichella, rifiutano stress e angosce e non soffrono la mancanza di potere. La loro lentezza mi rilassa e il romanesco mi diverte».

Un grande amore, quello tra Catherine Spaak e Roma, parolacce e smog a parte: «C’è una parolaccia che mi disturba in modo particolare, ha a che fare con i morti, ed è molto spesso pronunciata dai romani. I toscani attaccano direttamente in alto, i romani invece se la prendono con i parenti defunti. E poi non sopporto traffico, rumore e gas di scarico. Per passeggiare mi rifugio in campagna, non lontana però: a soli quarantacinque minuti da Roma». 

Un idillio da favola, letteralmente: «Roma è le Mille e una notte, è Aladino con la sua lampada, ha una luce molto africana e i suoi ocra e rosa ricordano i dolci molto zuccherati del Marocco». E mentre del maschio romano l’attrice apprezzava «la natura semplice, davvero pane al pane e vino al vino», delle romane sottolineava «la complessità, dietro a un’apparenza solare, e soprattutto la grande femminilità. Nessuno l’ha espressa così tanto. Le romane sono segrete e profonde». E, da regina di Harem, confessava: «Magari avessi potuto avere Anna Magnani, superbo esemplare di romana e di romanità».

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 20 aprile 2022.

Catherine Spaak, scomparsa qualche giorno fa, era senz'altro un'icona di stile e di eleganza ma senz'altro non esente da una certa perfidia. Nel suo raffinatissimo Harem, più volte le ospiti femminili furono infatti vittime di battute al vetriolo, umiliazioni o addirittura trappole da parte della padrona di casa. Ricordiamo per esempio la frecciata a Maria Maddalena Fellini, sorella di Federico, la quale a 62 anni si affacciava al cinema e che, alla domanda sul perché debuttasse sul grande schermo alla sua età, rispose scherzando: "Audrey Hepburn si ritira e arrivo io". La Spaak, con un maligno sorrisetto, sentenziò: "Be', non avete le stesse misure..." ironizzando sul sovrappeso dell'interlocutrice che ribatté visibilmente mortificata: "Lei è molto cattiva".

Nulla al confronto dell'onta subita dalla povera Wendy Windham che, sempre a Harem, fu ridicolizzata da Aldo Busi che tradusse letteralmente il suo cognome in "prosciutti al vento", facendola scappare via piangendo sotto lo sguardo divertito della Spaak. La quale non solo non batté ciglio, ma neanche fece alcunché per difendere o per richiamare l'ospite in fuga, continuando la trasmissione come se niente fosse e senza rivolgere il minimo rimprovero allo scrittore.

Sì, come in ogni harem che si rispetti, anche dietro ai damaschi dell'arabeggiante salotto di Catherine Spaak si nascondevano pericolose insidie, e ne sa qualcosa Lilli Gruber attirata dalla conduttrice in un'autentica trappola nella puntata andata in onda il 7 novembre 1992, della quale VigilanzaTv ha recuperato in esclusiva un lungo frammento, visibile nel video qui allegato. 

Una premessa è d'obbligo. Qualche mese prima, a fine agosto 1992, la Gruber allora in forza al Tg1 era stata spiattellata completamente nuda sulla copertina di Novella 2000 (poi anche sulle pagine di Oggi), immortalata in un servizio del settimanale scandalistico costellato di diversi scatti rubati dai paparazzi mentre prendeva il sole nella villa dei genitori in Sardegna. Per Lilli non era la prima volta, essendo le sue foto in topless in spiaggia a Capalbio finite l'anno precedente sui giornali scandalistici, ma se nel frangente toscano non aveva protestato, nel caso degli scatti rubati in Sardegna s'inalberò oltremodo adendo le vie legali. 

Fu lei stessa - furente - a precisarne il motivo ai giornali: "Il servizio di Novella 2000 non ha spiegato che mi trovavo nella casa sarda dei miei genitori e, mancando di questa essenziale notizia, è viziato d'incompletezza d’informazione. Fino a prova contraria, nessuno è tenuto a rendere conto dei comportamenti che tiene in casa propria“. 

Oltre al danno, la beffa: le foto rubate della Gruber erano corredate da un'intervista allo stesso fotografo che spiegava la fatica erculea affrontata per immortalare la giornalista, costretto ad arrampicarsi su un "albero ostico" munendosi di "potente teleobiettivo". Sta di fatto che Lilli citò in giudizio di fronte al Tribunale di Milano la RCS, il direttore responsabile, l’articolista e il fotografo A.E. Più avanti vedremo come si risolse il contenzioso. 

La denuncia da parte della giornalista vide la subitanea levata di scudi da parte dei paparazzi, con Rino Barillari e Massimo Sestini a capo della protesta, e le foto incriminate di Lilli finirono anche su Newsweek, sulle cui pagine l'allora mezzobusto del Tg1 veniva definita ''vittima'' degli obiettivi più invadenti del mondo in un lungo articolo dedicato ai paparazzi e alla loro "caccia alle stelle". Nell'articolo si scopriva insomma che le foto di "Lilli Gruber nuda" erano preda ambitissima per i tabloid, al pari degli scatti senza veli rubati a principi e principesse di Monaco, reali d'Inghilterra, attori, rockstar, politici.

E se fotografi e direttori di giornali difendevano a spada tratta "la legittimità della cronaca scandalistica", l'allora mezzobusto del Tg5 "rivale" della Gruber Cristina Parodi si ammantava di candido perbenismo e ci metteva il carico da undici commentando: "Io non mi metterei a prendere il sole in topless, figuriamoci nuda. Non mi ci metto per una questione di principio. Ma anche se mi piacesse spogliarmi, non lo farei lo stesso. In fondo, non ci vuole molto a prendere qualche precauzione. A meno che una non abbia interesse a finire sui giornali…". (Qualche anno dopo sarà fotografata varie volte in topless sulle spiagge nudiste, ma tant'è).

Torniamo al passato. Siamo a novembre 1992, l'estate, gli arenili e le nudità balneari sono ormai un lontano ricordo. Catherine Spaak, alle redini del celebratissimo Harem, allestisce una puntata nella quale le ospiti sono Antonella Boralevi ma soprattutto (guarda caso) Lilli Gruber e Cristina Parodi. Dopo qualche convenevole e salamelecco di rito, ecco che la padrona di casa con il suo suadente accento francese snocciola la stucchevolmente velenosa premessa: "Quest'estate abbiamo ammirato Lilli in copertina" e domanda a un'angelica Parodi come preferisca prendere il sole al mare.

Visibilmente intimidita dalla presenza della Gruber seduta a pochi centimetri da lei, l'allora mezzobusto del Tg5 volta pervicacemente le spalle alla collega altoatesina e sbattendo gli occhi da cerbiatta innocente risponde alla Spaak di essere abituata a prendere il sole in costume, perché così si trova bene e perché è molto timida e molto riservata e non le è mai interessato spogliarsi nuda (tabù poi superato, come abbiamo visto sopra). Poco dopo, nella stessa fatidica puntata di Harem, la Boralevi confessa altrettanto santamente alla Spaak di non prendere mai il sole e di essere sempre "vestitissima" anche quando è in barca.

A quel punto la padrona di casa interpella la Gruber, che chiede - con ironia non disgiunta da un certo fastidio - "la domanda di riserva" per poi spiegare più volte che in Sardegna si trovava a casa dei genitori e che vorrebbe vivere in Paese un po' più civile, nel quale la privacy e l'inviolabilità del domicilio siano tutelate dalla legge. Al che Spaak ribatte: "Ma la spiaggia non è un domicilio", e Lilli le ricorda ancora una volta - sempre più piccata - che quella era casa sua, non una spiaggia. "E poi non mi avevi detto che questo sarebbe stato un tema della serata", chiosa sempre più indispettita, svelando il "trappolone" della conduttrice che sorride civettuola. 

Tra un finto sorriso e l'altro, l'harem si trasforma via via in un'aula di tribunale e, mentre la Parodi resta trincerata in un cauto silenzio, la Boralevi come a voler soffiare sulle fiamme dell'umore già esacerbato dell'imputata Gruber, se ne esce: "Quando si fa un mestiere pubblico, ci sono delle responsabilità. Purtroppo, anche se vuoi mangiarti le unghie mentre conduci il telegiornale, non puoi farlo, invece a casa tua puoi farlo. Ci sono dei contesti in cui effettivamente il tuo ruolo, la tua professione ti richiedono un certo comportamento". 

A quel punto la diretta interessata sbotta: "A casa mia posso farlo?" e la Boralevi, che sembra cadere dal pero (o dall'albero ostico del paparazzo di cui sopra): "Ma Lilli, quella era una spiaggia...", e la Gruber con malcelata esasperazione: "Ma quale spiaggia! Era la casa dei miei genitori in Sardegna!". 

Una causa persa per la malcapitata, della quale a un certo punto (riecheggiando il commento estivo della Parodi...) viene quasi adombrata una certa "connivenza" con il putiferio mediatico alla quale è stata sottoposta, tanto da indurla a ventilare in diretta "querela nel giro di due secondi" contro chiunque dovesse tacciarla di "complicità". La Spaak, più zuccherosa che mai, le ricorda più volte che non esiste una legge che tuteli le sue rivendicazioni e che, fin quando non ci sarà, ci vuole buonsenso. La giornalista altoatesina la definisce "una visione sbagliata della questione", minaccia "ma ne riparleremo", e annuncia: "abbiamo querelato (paparazzi, R.C.S, direttori, ecc. ndr), staremo a vedere cosa succede".

Il "processo a Lilli Gruber" officiato a Harem si concluse all'italiana a tarallucci e vino ("l'imputata" tornò ospite altre due volte dalla Spaak, il 14 dicembre 1996 e il 10 aprile 1999, e tra le due - almeno a detta di Catherine nacque una profonda stima). Ma come finì invece quello ai responsabili delle foto incriminate? Il Tribunale diede ragione alla giornalista condannandoli al pagamento della somma complessiva di 100 milioni di lire. Come si legge sul sito difesa dell'informazione.com, secondo il Tribunale “non è ipotizzabile una pubblicazione legittima di immagini attinenti alla vita privata di un soggetto, realizzata con una condotta che integri la fattispecie di cui all’art. 615 bis cod.pen.”. Pertanto, “costituisce violazione del diritto alla riservatezza l’utilizzo, consistente nella diffusione a mezzo stampa, di immagini attinenti alla vita privata indebitamente carpite in luogo privato con strumenti professionali”.

Quanto alla "trappola" tesa a Lilli Gruber a Harem, c'è da dire che - malgrado la tensione tangibile e il malcelato disappunto dell'allora mezzobusto del Tg1 - nessuna delle presenti in studio trascese mai: non un grido, non una parola fuori posto, non una caduta di tono. Merito anche della padrona di casa. Perfida sì, ma con stile. Anche questo era Catherine Spaak

L’Intervista a Enzo Ferrari di Catherine Spaak per “Autosprint” - 30 marzo 1982

«Ho trovato uomini che indubbiamente amavano come me l’automobile. Ma forse non ho trovato altri con la mia ostinazione, animati da questa passione dominante nella vita che a me ha tolto il tempo e il gusto per molte altre. Io, non ho mai fatto un vero viaggio turistico, non sono mai andato una volta in vacanza in vita mia, per me le più belle ferie sono quelle che trascorro in officina...». 

Credo anch’io che all’uomo basti una volontà ostinata, un’ambizione sorda, determinata, costante, per superare tutti gli ostacoli che incontra lungo il cammino della sua vita. Il punto focale pero e “per quale scopo”. 

A Fiorano, a Maranello non sono andata eccitata dai celebrati simboli della potenza, riverente e ossequiosa davanti al mitico cavallino rampante, nè in cerca di emozioni a trecento all’ora. Volevo incontrare un uomo, non la sua leggenda. Guardingo, sospettoso, mi osservava con impassibilità dietro spesse lenti scure. 

Capii perchè Ferrari intimorisce, l’arte di mettere gli altri alle strette non e fatta di parole ma di silenzi e di sguardi. Comunque, gli occhiali li tolse a meta colazione. Potrà sembrare strano ma abbiamo parlato di filosofia, mangiando un ottimo souflè. «Io mi sento solo dopo tanti avvenimenti e quasi colpevole di essere sopravvissuto».

Credo che questa sia la sola considerazione che possa fare un uomo all’età di 84 anni, per il quale la tecnica e il progresso meccanico sono stati l’unica ragione di vita. Piu di quanto ha fatto lui, sembra, non si poteva fare in questo mezzo secolo. Domani il mondo della ricerca e della tecnica in materia di automobili, andrà avanti comunque, forse meno rapidamente, con meno amore, ma tutto continuerà a mutare. 

L’imperatore, lo zar, il re della F.1 e pero solo, forse come il più umile dei suoi operai, sembra una favola per bimbi saggi e un po’ assonnati, eppure non lo e. A volte il più grande e anche il più piccolo. Dipende dall’angolazione e dagli occhi che guardano.

«La sola preghiera che so e questa: Dio, fatemi diventare buono». 

Forse Ferrari e cattivo? Direi proprio di no. Ne più nè meno degli altri. E forse poco pratico di cose spirituali. Sorride un po’ sornione e nostalgico quando sussurra: «La donna rimane il più bel premio al lavoro... La donna deve avere cinque qualità: essere una buona moglie, ottima madre, esperta cuoca, gentile e bella creatura con gli ospiti, passionale al punto di non far desiderare una scatenata amante».

E poi aggiunge, quasi per rassicurarsi nel timore di avere un dubbio: «Pensando anche a certi gemiti, sostenere che l’uomo schiavizza la donna e la considera semplice oggetto, mi sembra eccessivo». Forse che il piacere di una donna (vero o simulato), sia il perno del dare e dell’avere o dell’essere. Ma perchè stupirsi se Ferrari e pronto a dire che, se anima c’è è più probabile che ce l’abbia un motore anzichè un essere umano. 

Lei dunque, ingegnere, crede solo nel corpo, nella materia?

«E cos’altro ci dovrebbe essere?». 

Lei e solo un tubo digerente, metri d’intestino, acqua e un mucchietto di ossa?

«C’e il pensiero, mia cara, un grande computer fatto di innumerevoli cellule...».

E cosa c’è, ingegnere, che non cambia mai, al di là del corpo e della mente?

Ferrari mi guarda stupito, e si che di “attori” ne ha visti passare a Fiorano. Vede Ferrari, il guaio, secondo me, e tutto nell’identificazione, noi finiamo per diventare quello che crediamo di essere. 

Lei si è identificato con un meraviglioso motore e ne derivano conseguenze curiose, cosi si mescolano idee e sentimenti vari e si fa confusione con l’orgoglio, il possesso, la competizione, il senso patriottico, il coraggio, la moralità, la politica e il progresso. 

C’è gente un po’ esaltata che si rivolge a lei in questi termini: La Ferrari, ai vostri concorrenti mette paura, inquietudine, incute rispetto, riverenza, Lei, Ferrari, ha creato un desiderio in noi che possediamo macchine inferiori, una mira per la quale vale la pena combattere, possedere un giorno la vettura “non plus ultra”! Avete lanciato una sfida: e una Ferrari, siete degno di pilotarla? 

«Noi ascoltiamo attentamente il suono del motore e ci chiediamo: non e questo un motore che piange di protesta. No: questo e il suono d’un motore che urla di gioia, un suono che nessuna orchestra può suonare, una sinfonia di suoni che porta gioia alla mente e il sorriso sul volto». 

A me, tutto questo sembra pericoloso: può davvero, una Ferrari, rappresentare l’ideale di felicita d’un uomo? La gioia della mente? E non e grottesco che, come e avvenuto in California, una miliardaria si faccia seppellire al volante della sua Ferrari cabriolet, murate insieme per l’eternità in un blocco di cemento? Progredire e necessario, l’impegno di Ferrari e nobile, ammirevoli il suo contributo, la sua dedizione, la sua tenacia. 

Tuttavia Ferrari che dice che le donne le ha tradite, i motori mai, mi intenerisce perchè, secondo me, non si è accorto che, forse, la sola persona che ha tradito davvero e sè stesso. Chissà che il vero progresso, quello che cambia davvero qualcosa per il bene dell’umanità, non vada cercato dentro l’uomo anzichè fuori. La sinfonia più bella per gli uomini non e quella dei giri d’un motore, dovrebbe risiedere nel silenzio di un cuore ottantaquattrenne che ha trovato la pace, la serenità e che sa che non e non sarà mai, ne solo ne colpevole. 

Il suo nome e famoso in tutto il mondo, il suo marchio somiglia a una leggenda. Come si costruisce tutto questo?

«Lavorando immensamente e considerando il lavoro un’ancora di salvezza in mezzo a tanto disordine». 

In che cosa consiste l’alleanza Ferrari-Fiat?

«L’accordo Fiat-Ferrari e nato il 18 giugno 1969 e fu definito per assicurare alla mia azienda artigiana sviluppo e continuità, garantendo al tempo stesso a me la facoltà di continuare a interessarmi ai problemi connessi allo sport e al progresso dell’automobilismo».

E’ vero che le spese di gestione della Ferrari per la F.1 si calcolano quest’anno oltre i 9 miliardi?

«Nella mia conferenza stampa di fine anno ho avuto occasione di precisare che il disavanzo della Gestione Sportiva per l’anno 1981 e stato di lire 5.805 milioni (dei quali lire 500 milioni pagati dalla Fiat). Questa cifra, per il 1982, subirà ovviamente la lievitazione imposta dalla svalutazione». 

Lei ha detto che “lo Sport con la S maiuscola e stato ucciso dalla sponsorizzazione, dalla selvaggia speculazione commerciale”. Come mai le sue macchine sono tappezzate di adesivi Olivetti, Goodyear, Agip, Longinus ecc? La sua e una resa?

«Sostengo, da sempre, che l’unica pubblicità ammissibile e quella di coloro che contribuiscono all’evoluzione tecnica della vettura da corsa. Le Case da lei citate nulla hanno a che fare con la miriade di prodotti di consumo e voluttuari che hanno invaso l’ambiente fino al punto di personalizzare le vetture: sono sponsorizzazioni tecniche e possono, anzi, hanno il diritto di apparire».

E’ vero che Cartier ha comprato il suo marchio (il cavallino rampante) per un orologio?

«La Ferrari non ha venduto il suo marchio, ma ha in corso di perfezionamento un accordo con Cartier affinchè questa marca possa usufruire del cavallino rampante su diversi suoi prodotti che annualmente verranno sottoposti all’approvazione della Ferrari. Con ciò, la Ferrari ha inteso difendere il suo marchio su un mercato invaso da tanti profittatori, fidando che la Cartier saprà opportunamente difendere la concessione». 

Come pensa si concluderà la “guerra” fra motore aspirato e turbo?

«Sono quindici anni che esiste l’attuale F.1 e solo da due le Case tentano di esplorare compiutamente questa formula prima che essa concluda il suo ciclo nel 1984. Questa guerra preventiva al turbo, che non ha ancora vinto nessun campionato mondiale, e condotta da chi tende a trasformare i Gp di Formula Uno in una spettacolare corrida motoristica, nella quale sport e tecnica diventano degli intrusi disturbatori». 

Chi, secondo lei, deve comandare in questo giro d’affari senza regole fisse e che sembra allargarsi giorno per giorno?

«E’ vero: il giro d’affari si va allargando sempre più con la spinta dei piloti che esercitano e pianificano la commercializzazione del loro diritto d’immagine, mentre tante scuderie che da questa attività traggono alimento e guadagno non intendono spendere per il progresso tecnologico. Pero, le regole fisse esistono: ci sono regolamenti, c’è il Codice Sportivo, e tutto preordinato perchè tutto ritorni alla normalità. Manca soltanto la presenza di una forte autorità sportiva-legislativa che ne pretenda il rispetto».

Se e ambigua la regola sul peso alla partenza per le macchine in gara, perchè non la si cambia?

«La regola non è ambigua. Ne viene consentita una interpretazione distorta che, disinvoltamente operata da diverse scuderie, si traduce in aperta violazione dello spirito della legge. Con la stessa “buona fede” si potrebbe pretendere l’impunita per chi uccide una donna, soltanto perchè il codice punisce l’omicidio e non parla di “donnicidio”». 

Perche non si riesce a stabilire una più giusta formula di equivalenza per equilibrare i Cmc di cilindrata fra i vari motori?

«Non ritengo, allo stato attuale della ricerca tecnica, che si possa stabilire che l’attuale formula di equivalenza e ingiusta. Chi può dirlo?» 

A lei nuocerebbe (la suddetta formula piu giusta) o comunque i motori turbo sono i più forti?

«Ho già detto che la nostra ricerca tecnica e volta al progresso. I motori turbo sono una innovazione che si trova ormai sulla maggioranza degli attuali motori Diesel già entrati nelle vetture di uso comune e questo significa progresso, poichè questa strada tecnica offre la possibilità di ottenere motori meno inquinanti e con maggiore disponibilità di potenza a parità di consumo». 

A che servono i reclami se prima della partenza non si stabiliscono regole da rispettare?

«I reclami dovrebbero servire a far riconoscere le vere ragioni. Purtroppo mi sono convinto che oggi, nel nostro ambiente, pretendere la ragione equivale ad esporre la propria impotenza». 

Se e vero che il rapporto uomo-macchina in corsa e così suddiviso: telaio 33 per cento, motore 33 per cento, gomme 20 per cento; un pilota che contribuisca al 14 per cento vale davvero miliardi? Perche?

«Ho sempre sostenuto che nello sport dell’automobile, salvo rare occasionali eccezioni, i successi non sfuggono alla legge della pura mezzadria: cinquanta per cento di merito al pilota e cinquanta per cento alla macchina. Quello che guadagna oggi un pilota non può essere previsto da nessuna piattaforma sindacale ma, ripeto, la cessione del diritto della propria immagine e operazione che compete al solo soggetto interessato». 

Servono davvero la sperimentazione e la ricerca per la F.1 alla produzione in serie o dietro tutto questo c’è una diversa motivazione? Quale?

«L’automobile e nata e progredita con le corse. La competizione e il necessario avallo di qualsiasi ritrovato tecnico, poichè soltanto il pilota può trovarsi in uno stato di necessita che lo in- duce a una somma di manovre impensabili, imprevedibili, abnormi e pertanto solo la corsa, con le sue esasperate sequenze, può generare giudizi assoluti». 

Niki Lauda ha detto: “Oggi in corsa nelle curve l’accelerazione di gravita raggiunge i 3 g. Il tuo corpo pesa cioè tre volte tanto, come negli aerei in picchiata. Gli occhi si iniettano di sangue, sfuggono dalle orbite, la testa si reclina e tu non vedi più niente”. Non le sembra mostruoso tutto questo? E a che scopo, poi?

«Niki Lauda ha fatto un’affermazione che e stata confermata anche nel recente Gran Premio del Brasile. Tutti abbiamo potuto constatarlo. Aveva visto giusto il presidente della FISA Balestre quando decise la soppressione delle famigerate minigonne, che consentono velocita eccessive in curva. Il guaio e che egli non ha avuto poi la forza di far rispettare la disposizione di fronte all’avversione delle scuderie inglesi. Tutto questo e irrazionale e comporta responsabilità morali per coloro che hanno aggirato una disposizione tecnica estremamente valida e saggia». 

Secondo lei, la violenza delle corse di F.1, che può comportare anche la morte «in diretta», e spettacolo? Non siamo tornati ai tempi dei cristiani divorati dai leoni?

«C’e stato un Onorevole che ha dichiarato che le corse di F.1 sono un’espressione di violenza, ma io spero che lei non si associ a questo assunto. Le ho già parlato delle finalità di progresso che sono alla base della competizione: accanto a questo contenuto tecnico c’è nella competi- zione anche un aspetto spettacolare in grado di offrire al pubblico la somma di emozioni che compendia quell’ansia di superamento connaturata all’essenza e al gusto della vita umana». 

Cosa prova quando un pilota muore?

«Al di là dei valori sentimentali, potrei dire affettivi, ritengo un mio imperativo dovere cercare di conoscere se l’incidente e stato causato da ragioni tecniche. Io sento profondamente la responsabilità che mi assumo quando affido una mia macchina a un pilota e la considero sicura, nei limiti della perfettibilità umana». 

C’è guerra fra lei, Ecclestone e Jean-Marie Balestre. Cosa pensa dei metodi d’assalto?

«Non sono in guerra con nessuno. Rispetto le norme stabilite dalla FISA, nulla lasciando d’intentato affinchè tutti le rispettino. Questo ha portato disaccordi e contrasti, e ovvio, come pure e ovvio che ognuno trasferisce nella vita di tutti i giorni l’educazione che ha ricevuto». 

Cosa poteva fare Lauda per la Ferrari che non abbia fatto? Si e mai sentito in qualche modo responsabile dell’incidente del Nurburgring che rischio di costargli la vita?

«Come posso immaginare le disponibilità di un essere umano nei confronti dei suoi rapporti con una casa costruttrice che lo ha rivelato? Sia chiaro, comunque, che fra la Ferrari e Lauda non ci sono conti sospesi».

Perchè sono cosi poche le donne che riescono ad approdare alla F.1?

«Forse perchè la Formula Uno si addice più agli uomini che alle donne. Le eccezioni che ricordo, infatti, sono poche: Maria Antonietta Avanzo, Elisabetta Junek, Maria Teresa De Filippis, Lella Lombardi». 

Lei ha dichiarato: “La macchina mi ha sempre dato un grande senso di liberta”. lngegner Ferrari, per lei cos’e la liberta? E cos’è il coraggio?

«Ho letto che la nostra libertà finisce dove comincia quella altrui e che il coraggio e l’individuazione dell’esatto confine che le separa». 

Sono più di 50 anni che vive di motori, non si è stancato? Non ha mai avuto altri interessi, altre passioni?

«Si, effettivamente sono 63 anni che mi interesso di motori e di macchine e io attribuisco a questa passione il merito di avermi offerto uno scopo nella vita fra tanti crudeli tormenti». 

Cosa l’ha delusa di più in tutta la sua vita?

«L’impotenza a difendere la vita di un figlio che mi è stato strappato, giorno dopo giorno, per ventiquattro anni». 

E più forte chi comanda o chi sa ubbidire?

«Chi veramente comanda non ha bisogno di essere forte, poichè le sue capacita gli conferisco- no prestigio e consenso. Ubbidire, anzi, saper ubbidire significa aumentare costantemente la propria forza, apprendere, collaborare, e molte altre cose».

Che cosa vuoi dire vincere?

«Vincere non significa soltanto l’applauso della folla, ma soprattutto il riconoscimento della sintesi di tutto quello che abbiamo saputo fare e prevedere». 

Marco Zonetti per vigilanzatv.it il 18 aprile 2022.

La scomparsa di Catherine Spaak, che ha ulteriormente intristito il lungo weekend pasquale già appesantito dalla guerra in Ucraina, ha rievocato il ricordo dell'appuntamento televisivo del sabato, quando in seconda serata su Rai3 tre donne e un uomo misterioso (fra i quali anche Giulio Andreotti e Bettino Craxi), che disvelava la propria identità soltanto alla fine, s'incontravano nel salotto dell'attrice, ovvero nella trasmissione Harem andata in onda con grande successo per quindici edizioni, dal 1988 al 2002.

Harem che il Segretario della Commissione di Vigilanza Rai Michele Anzaldi, ricordando la Spaak, ha definito "emblema di vero servizio pubblico", e che rappresenta di fatto uno dei programmi più imitati (perlopiù male, se non malissimo) nella televisione italiana. 

Ultima copia in ordine di tempo, ma in versione virile, Ciao Maschio condotto da Nunzia De Girolamo il sabato in seconda serata su Rai1 con ascolti assai meno lusinghieri dell'originale, con tre uomini protagonisti e, al posto dell'uomo misterioso, altri maschi en travesti, prima Drusilla Foer e poi le Karma B, più valenti della conduttrice secondo Aldo Grasso, rilanciato da Dagospia.

E se il critico del Corriere della Sera definiva il programma della Spaak "femminile ma non femminista", descrivendo una puntata di Ciao Maschio ha utilizzato la parola "insignificante", spiegando che il termine si riferiva "al fatto che i tre maschi intervistati, l’ex-campione di pugilato Patrizio Oliva, l’attore Giovanni Scifoni e Michele Mirabella, medico honoris causa (sono solo note informative), sembravano adolescenti che si ritrovano attorno a un falò estivo per descriversi con tre aggettivi, per rivolgersi domandine pruriginose nascoste nei bigliettini, per marzulleggiare con De Girolamo".

A parte i confronti impietosi tra originale e copie, non esiste conduttrice nostrana che non abbia espresso il desiderio di "rifare Harem", perfino Antonella Clerici - come rivelò la stessa Spaak in un'intervista a Franco Bagnasco su Oggi - progetto che tuttavia non andò mai in porto. 

Ma per quale motivo un programma così imitato e tanto rimpianto fu cancellato? Fu una decisione politica? E chi fu, soprattutto, a impugnare la mannaia che, di fatto, stroncò anche la carriera televisiva di Catherine Spaak? Lo ha raccontato quest'ultima più volte: Paolo Ruffini, attuale Prefetto del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede e Direttore di Rai3 dal 2002 al 2009.

Che, al suo arrivo al timone della Terza Rete, disse semplicemente a Catherine: «Non intendo più fare Harem: punto, senza aggiungere altro, né arrivederci, né grazie'. Il perché? Lo rammentò la diretta interessata in una conferenza stampa nell'ottobre 2002: "Chiedetelo a lui. In questi 15 anni sono cambiati sette-otto direttori di rete e non ho mai avuto problemi. Sono allibita da questo trattamento, ma la politica, in questo caso, non c'entra niente... La mia trasmissione non ha mai dato fastidio. Era un' isola tranquilla, lo è sempre stata e otteneva uno share medio del 10%». 

In seconda serata, aggiungiamo. Cifre che oggi, se raggiunte o anche solo sfiorate in prime time su Rai3 (non parliamo poi di Rai2...), sono considerate un successo strepitoso.

E lascia stupiti che, per usare le parole della stessa Catherine, un programma simbolo della "Tv pacata, non urlata" in contrapposizione con "quella volgare e isterica che va in onda oggi" - ovvero le "grida a pagamento" sottolineate dall'On. Anzaldi - sia stato cancellato sostituendolo con un programma sportivo non da un becero dirigente quanto invece da quel Paolo Ruffini che, nel corso del suo mandato (2002-2009), ha inventato programmi di successo quali Che tempo che fa, Ballarò, Parla con me e così via.

In ogni modo, dopo la cancellazione decisa e annunciatale dall'allora Direttore di Rai3 "con un mezzo sorrisetto", sempre secondo l'attrice, e dopo essere stata "messa alla porta dalla Rai", colei che era stata musa di Alberto Lattuada ci riprovò su La7 con Il sogno dell'angelo, che raccontava "di luoghi misteriosi, leggende e soprattutto di angeli". Ma la nuova avventura non ottenne il riscontro di Harem e andò in onda una sola stagione. Dopodiché, per la Spaak si chiuse per sempre il capitolo della conduzione sul piccolo schermo. 

Catherine ebbe un'altra sgradevole esperienza con un celebre dirigente televisivo, poi entrato in politica e quindi nelle istituzioni. No, non parliamo di Silvio Berlusconi, bensì dell'attuale Sindaco di Bergamo Giorgio Gori che, ai tempi, era a capo della società di produzione Magnolia. Intorno al 2005, come raccontò a Oggi, la Spaak allora sessantenne e munita di varie idee che aveva nel cassetto, una soprattutto, si presentò a Gori. Questi le disse: "Niente male, l’idea è carina, non mi dispiace, lei è ancora una bella donna, ma vuole che sia sincero? È troppo vecchia”.

Per Catherine fu un affronto, "Avevo sessant’anni, ma non mi pareva di essere così disastrata. Poi, quante in tv lavorano dopo i 60 anni?". L'attrice/conduttrice salutava però "senza rancori" Ruffini e Gori, che dal canto loro non hanno espresso - ancora almeno - pubblicamente cordoglio per la sua scomparsa. L'ultimo tweet del Sindaco di Bergamo è un ricordo della giornalista Giusi Ferré, che ci ha lasciati qualche giorno fa. 

Da "lolita" a gran signora con la voglia matta di libertà. Maurizio Acerbi il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'attrice fu il sogno erotico degli italiani e "influencer" di moda e società. Poi la sua classe fece la differenza.

Sembra quasi una beffarda coincidenza che Catherine Spaak sia morta proprio a Pasqua. Nel giorno più importante per i cristiani, è venuta a mancare la donna che è stata per tanti italiani l'emblema della tentazione morbosa del peccato. Come è paradossale che a incarnare sul grande schermo la prima ragazzina italiana dalla sessualità disinibita, precoce, sia stata quella giovane francesina di origine belga, diventata il simbolo di una generazione di adolescenti che voleva emanciparsi e farsi più spregiudicata.

Catherine Spaak è scomparsa domenica in una clinica romana, dopo «un lunghissimo calvario», come ha raccontato la sorella maggiore Agnès (anch'essa attrice), «ma se n'è andata tranquillamente». Aveva avuto un terzo ictus il 25 luglio scorso mentre si trovava a Sabaudia, eredità, forse, dell'emorragia cerebrale che l'aveva colpita nel 2020 compromettendole vista e capacità di camminare.

È stata davvero un simbolo per tante ragazzine e ben prima di quella rivoluzione sessuale che cambiò per sempre i costumi. La Spaak ha incarnato quella malizia acerba che la faceva ingenuo oggetto del desiderio maschile, capace di provocare, ma con candore. Emblema perfettamente riassunto in La voglia matta, con Tognazzi che si ridicolizzava, umiliandosi, sbavando dietro la lolita Francesca, un'ossessione pur lontana dal canone delle maggiorate. Catherine è stata, per anni, la «voglia matta» di tanti uomini, l'icona del desiderio nascosto e del gusto del proibito.

Era nata nel 1945, da mamma Claudie, attrice, e papà Charles, famoso sceneggiatore anche per il nostro cinema. Una famiglia, la sua, che vantava anche uno zio, Paul-Henri, più volte primo ministro del Belgio. Origini borghesi che non le hanno impedito di diventare una sorta di «pecora nera» ribelle. Jacques Becker la ritrae, giovanissima, ne Il buco. Appare per due minuti, ma il dialogo preconizza quello che sarà il suo ruolo da icona. Lo spasimante, in carcere, le dice: «Sapessi quanto io desidero te, da morire. E tu non mi desideri?». «Sei troppo ansioso, tu», risponde lei, tra candore e sguardo sensuale. Lattuada ne capisce l'enorme potenziale e la lancia con il super censurato Dolci inganni (1960), dove è Francesca, una ragazzina invaghitasi di un 37enne, fra turbamenti e fine di un universo adolescenziale che scavalla il crinale dell'età adulta attraverso la prima esperienza sessuale: oggetto sì, ma attivo, del desiderio. Quasi normale il passaggio a un cult come La voglia matta, appunto, o nella scena simbolo de La noia in cui, nuda, viene ricoperta di soldi dall'amante adulto.

Il desiderio di emancipazione, del provare tutto e subito, che emergeva dirompente da questi ruoli, l'hanno trasformata nella principale «influencer» di quell'epoca, imitata anche nella moda e nel suo caschetto biondo; altro che Tik Tok. Del resto, era arrivata in Italia, quindicenne, da sola, con la voglia di diventare ballerina («ma ero troppo alta», diceva), rappresentando il realizzarsi di quel sogno di libertà di tante sue coetanee italiane. Era il modello a cui ispirarsi per ribellarsi agli adulti e alle loro etichette imposte, rendendosi indipendenti. Un conflitto generazionale, ben rappresentato dal rapporto padre-figlia, con Vittorio Gassman, ne Il sorpasso (1962). Indimenticabile è stata anche ne La parmigiana (1963), di Antonio Pietrangeli, dove seduce un seminarista e sembra sfidare l'Italia bigotta, provinciale e maschilista dell'epoca, con una spregiudicatezza che rasenta l'indifferenza.

Ma la Spaak è stata molto di più. Un talento naturale, emerso in pellicole d'autore e non, capace di passare dalla commedia al dramma senza colpo ferire. Recita, tra gli altri, in Break-up di Marco Ferreri, in L'armata Brancaleone, dove pronuncia «sono la tua pecorella, brancami, leone» (e nel quale denunciò il bullismo maschile nei suoi confronti) di Mario Monicelli, stringendo un sodalizio con Festa Campanile (da Adulterio all'italiana a La matriarca). Se la contendevano i migliori, trasformandola da provocante ribelle a signora borghese del cinema anni Settanta. Il che non le ha impedito di diventare anche una apprezzata cantante (7 album al suo attivo), di debuttare in tv nella Vedova allegra, diretta da Falqui, primo di una lunga serie, di scrivere libri. È stata anche un'ottima attrice teatrale e perfetta padrona di casa televisiva di Harem.

Una vita quasi da film anche a livello sentimentale, con quattro mariti (Fabrizio Capucci, Johnny Dorelli, Daniel Rey e Vladimiro Tuselli) e due figli, Gabriele e Sabrina, quest'ultima avuta con Capucci e per la quale venne addirittura arrestata dopo essere scappata via con lei. Catherine Spaak è stata grande artista, ma anche donna colta, elegante, raffinata, garbata.

Articolo di Stefano Giani per "il Giornale", 26 luglio 2021 - da cinquantamila.it - la Storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

A quindici anni sul set in tre film, a 17 madre di Sabrina. Anticipatrice di un metoo che ha sconvolto il cinema ma all’epoca aveva assaggiato l’omertà femminile. 

Catherine Spaak è donna precoce. In tutto. Eppure, sostiene di aver vissuto in balìa degli eventi. Di essersi lasciata trasportare troppo in gioventù e, solo ora, possiede un’autodeterminazione mai avuta prima. 

Saranno gli anni, che poi non sono così tanti, ma la consapevolezza raggiunta porta con sé nuovi ruoli e premi inediti. Come quello consegnatole di recente dal Bardolino film festival nella sua prima edizione, in omaggio alla carriera. 

Un riconoscimento con il sapore di un tributo a un’attrice amatissima che ha fatto dell’Italia la sua casa. Così, la ragazza che fece «innamorare» Ugo Tognazzi, cercò di sedurre Gassman-Brancaleone e «piantò in asso» Mastroianni, si consegna a un ruolo introspettivo e a un’innocente amicizia con un uomo più giovane. Bipolare lui, alle soglie dell’Alzheimer lei nell’ultimo film, La vacanza, di Enrico Iannaccone, presentato proprio nella rassegna sul Garda.

Che cosa vede, guardandosi indietro?

«Mi stupisco della fortuna e delle casualità propizie, capitate a una ragazza semplice come me. Era una situazione complicata che ho vissuto con leggerezza e trasporto. Come forse era giusto. Come forse la vive un giovane».

Perché complicata? Era il 1960. Pieni anni del boom.

«Ho iniziato a lavorare presto per motivi diversi da quello che si potrebbe pensare. La mia famiglia era molto in crisi e, all’improvviso, si è presentato il cinema». 

Come si è offerto a una francesina di 15 anni?

«Mio padre era uno sceneggiatore molto noto in Francia, era amico di Prévert e molti altri autori. Tra questi c’erano registi come Alberto Lattuada che veniva spesso in vacanza a casa nostra in Costa Azzurra». 

«Dolci inganni» allora nacque così.

«A mio papà lo disse spesso, parlando di me. Questa bambina farà l’attrice. E così è stato». 

In famiglia come la presero, data l’età

«In un certo modo potrei dire di non averne mai avuta una». 

In che senso?

«Mio padre non lo vedevo quasi mai. Mia madre, che faceva l’attrice, neppure. A nove anni sono finita in collegio perché avevano iscritto mia sorella Agnès che a scuola non andava bene. Io avevo ottimi voti ma dovetti andarci lo stesso per colpa sua. Quando uscii, mio papà mi diede un passaporto, con una dichiarazione che mi autorizzava a varcare qualsiasi frontiera». 

Una stranezza.

«Nessuna ragazza l’aveva». 

Genitori emancipati ma famosi. Suo zio è stato primo ministro in Belgio, un famoso europeista.

«E mia nonna è stata la prima donna senatrice a Bruxelles. Viaggiava con un medaglione al collo con la scritta In caso di malessere, nessun prete. Decisamente anticlericale». 

In quel momento il cinema diventava la sua famiglia.

«Capitava al momento giusto, in una fase importante di passaggio, di cui peraltro non mi rendevo conto».

Non ci credo.

«Ero in Italia, un Paese diverso come costume e modo di vivere, che ho adorato. Era il posto giusto al momento giusto. Nessuno lasciava tanta libertà a una ragazza. Non parlavo bene la lingua ma mi sentivo a casa». 

Cosa ha significato, in quel momento, recitare?

«È stata un’ancora di salvezza. Sognavo l’indipendenza economica. L’idea di essere mantenuta da un uomo, sposarmi e sistemarmi mi faceva orrore». 

E «La voglia matta» venne davvero.

«Una svolta. Professionalmente eccitante, umanamente tremenda». 

Perché?

«Sul set di quel film incontrai Fabrizio Capucci. Ci innamorammo e restai incinta. Era il ’62, avevo 17 anni e, per la mentalità dell’epoca era uno scandalo. Per di più, in un Paese straniero lontano dai familiari». 

Come se la cavò?

«Non me la cavai. Fui vittima della mia età. Ero ospite a casa Capucci, dopo il mio matrimonio con Fabrizio. Mi aggiungevo alla sorella Marcella e Roberto, già affermato stilista. Ma non mi sono mai sentita a mio agio». 

E decise di fuggire.

«Presi la bambina e scappai. Loro non me la perdonarono e sporsero denuncia». 

Morale.

«Fui arrestata a Bardonecchia. In frontiera. Allora c’era la patria potestà, una donna non era veramente libera. Così mi riportarono a Roma con mia figlia, per tutto il viaggio in braccio a un carabiniere». 

Ma se non si trovava bene a casa Capucci, non bastava parlarne?

«Non si poteva discutere, non era ammissibile. Finimmo tutti in tribunale. Io persi un film con Roger Vadim che avrei dovuto girare a Parigi, La ronde, un adattamento de Il girotondo di Arthur Schnitzler, noto in Italia come Il piacere e l’amore. Un titolo che sembrava una beffa». 

Senza passaporto, in attesa di sentenza, è dovuta restare a Roma.

«La giustizia era molto più rapida di oggi. Il giudice fece presto ma fu una tragedia. Almeno per me».

E le tolse sua figlia.

«La motivazione era, a dir poco, discutibile. Sosteneva che la madre, cioè io, essendo un’attrice, era di dubbia moralità. Quindi la bambina sarebbe rimasta con la nonna paterna». 

Allora l’equazione attrice uguale donna poco seria era un assioma indiscutibile.

«Però hanno distrutto la mia vita. E quella di Sabrina». 

Vi siete ritrovate a distanza di tempo

«Mai più. Non sono riuscita a recuperare quello che il magistrato ha rovinato».

Un’incomunicabilità che sorprende.

«È stata una vendetta dei Capucci. Il lavaggio del cervello di Sabrina ha fatto il resto. Le hanno ripetuto: La mamma è cattiva. Ti ha abbandonato. Offese che hanno lasciato segni indelebili». 

Ma anche sua figlia avrà voluto conoscere meglio sua madre.

«Ho fatto molti passi per avvicinarmi ma non ho mai ricevuto ascolto. Quando è cresciuta ho chiesto di vivere un po’ con lei ma ha scelto la famiglia e io ho rispettato la sua decisione. Poi, dopo il suo terribile incidente automobilistico, sembrava che potesse aprirsi uno spiraglio. Purtroppo, non è accaduto». 

Che dire

«Niente. Detesto chi si piange addosso». 

Però un rimpianto c’è.

«Ho avuto la sfortuna di avere genitori molto leggeri. Quando ho avuto bisogno, la mia famiglia non c’è mai stata. Ripeto. Avevo 17 anni». 

«La voglia matta» ha significato anche successo.

«Mi arrivavano progetti a valanga e lì sono stata fortunata. Mi ha aiutato l’intuito e forse una certa incoscienza giovanile, fatto sta che ho scelto i migliori». 

Ed è stata testimone dello sviluppo della commedia all’italiana.

«Allora era snobbata. Era considerata un sottoprodotto. Eppure La noia o La parmigiana non erano filmetti. È stato un passaggio per tutti - autori, registi, produttori - ognuno nel suo ruolo». 

A questo punto è inevitabile continuare con i ricordi. Iniziamo da Dino Risi che l’ha diretta ne «Il sorpasso».

«Un gran signore. Una persona educatissima. Gli porto molto rispetto e ne conservo grande stima».

Un aggettivo per definire Marcello Mastroianni.

«Tranquillizzante. Il set de L’uomo dei cinque palloni è stato spiazzante, anche se divertente. Lui mi ha dato sicurezza». 

Marco Ferreri invece?

«Lo incontro a Milano. Ultimo piano di un grattacielo in costruzione. Arrivo con il copione in mano. Lui mi guarda. Lo prende. E lo butta dalla finestra. Ce lo dimentichiamo mi dice sardonico mentre Marcello mi fa cenno di non preoccuparmi, che andava tutto bene».

Poi

«Prima della scena iniziale, naturalmente diversa dalla sceneggiatura, mi spiegò che il cast - tutto maschile - esercitava un rito propiziatorio cantando una canzoncina. Angelo dell’angelo vieni qui da me intonava uno. E tutti dovevano rispondere Non posso perché il diavolo mi tenta. Guardavo preoccupatissima questi pazzi, per fortuna c’era Mastroianni. Protettivo. Gentile. Carino, come uomo e come collega».

Invece, Vittorio Gassman visto da molto vicino

«Ecco, appunto».

Tasto scivoloso?

«No (ride). Era timido ma recitava sempre la parte dello spaccone, sicuro di sé. Come nel Sorpasso. Non è stato facile con lui». 

Perché?

«Sul set de L’armata Brancaleone - 40 uomini e quattro donne - ho avuto molte difficoltà linguistiche con un italiano maccheronico e barocco, che non assomigliava all’idioma antico, pur facendogli il verso. Così sono stata presa di mira da lui, Monicelli e tutta la banda. Erano ragazzacci goliardi e impuniti ma talvolta esageravano. Mi accoglievano con insulti pesanti per farmi arrossire e ci riuscivano. Ho sofferto parecchio ma ho scelto la diplomazia. E a distanza di tempo, Vittorio ha capito. E mi ha chiesto scusa».

Come giudica i rapporti tra uomini e donne nel cinema, un tema oggi d’attualità

«Negli anni 80 dissi pubblicamente che per le attrici era difficile essere rispettate. Era il periodo dei ricatti. Io non ho mai dovuto dare niente in cambio per lavorare ma le generazioni precedenti alla mia avevano dovuto affrontare il problema. I ricatti sessuali erano un’infamia». 

Una sorta di #Metoo in anticipo.

«Molte colleghe si stupirono. Dissero che doveva essere accaduto solo a me. Sottolineo. Io non ho avuto brutte esperienze. Poi è arrivato il #Metoo. Quello vero. E il problema è emerso». 

I set di oggi hanno più equilibrio, però.

«Non si lasci raggirare dalle apparenze. Non credo che i signori uomini si siano ravveduti. È un altro tipo di ipocrisia, il problema rimane».

Secondo lei, perché?

«La maggior parte dei maschietti la butta sul predominio di una donna preda e succube. E molte cedono, per interesse. Convinte di migliorare. È sempre stato così. L’unica differenza è che una volta si taceva. Una questione di potere di cui sono schiavi gli uomini che lo usano e le donne che tacciono». 

E il domani Come lo vede?

«Non lo vedo (ride). Me ne strafrego. Oggi mi posso permettere tutto. Anche una parolaccia, se serve». 

In che cosa si sente diversa?

«Sono più diffidente con tutti, maschietti e femminucce indistintamente. Prima ero trascinata da un fiume incontrollabile, ora non più». 

Anche nell’isolamento della pandemia

«Del Covid non mi sono nemmeno accorta. Due mesi prima che scoppiasse ho avuto un’emorragia cerebrale e sono tornata a casa il giorno che è scattato il lockdown. L’8 marzo, festa della donna. Il blocco mi ha concesso una tranquilla convalescenza».

Che cosa le ha insegnato la malattia?

«All’ospedale Santa Lucia mi hanno salvata e in quel reparto di neurologia ho capito il valore del dono e dell’amicizia. Solo la sofferenza ci fa maturare, purtroppo». 

Che cos’è la solitudine?

«Non la conosco. Vivo con i miei due cagnolini, uno yorkshire vecchietto e Maya, un tibetano. Muto e meditativo. In campagna ne ho altri due, entrambi adottati, il maremmano Athos e Dia. Secondo me, tra i randagi, si è sparsa la voce che a casa mia si mangia bene».

Le fa onore.

«Non so cosa mi fa, però mi fa star bene».

Catherine Spaak. Quella sex symbol rivoluzionaria ed eterna, scrive Bruno Giurato il 02/04/2019 su Il Giornale. L’inizio vi potrà sembrare un po’ strano eppure io me la ricordo in quel film di Dario Argento del 1971, era il gatto a nove code e lei sembrava una bond girl mentre guidava la sua auto sportiva, una Porche 356. Era solo un ruolo “minore”, non era certo la protagonista in assoluto del giallo argentiano, eppure fin da quella giovane età “bucò lo schermo”. Naturalmente avrebbe legato il suo nome anche ad altre pellicole di registri celebri diventando una presenza ricorrente nella commedia all’italiana (L’armata Brancaleone, Adulterio all’italiana, La matriarca, Certo, certissimo, anzi… probabile) e da ultimo l’avviamo vista sbarcare all’Isola Dei Famosi nell’edizione del 2015. Oggi è il suo 74esimo compleanno e a noi piace festeggiarla con l’intervista che il nostro Bruno Giurato le fece qualche anno fa. (Emanuele Beluffi). Catherine Spaak, un’icona del cinema italiano e internazionale. L’attrice francese (italiana di adozione) nata il 3 aprile 1945, ha attraversato gli schermi, le copertine, l’immaginario, imponendo un nuovo modello di sex symbol “introversa” (non certo la pin up curvosa). Attrice, cantante, conduttrice televisiva, scrittrice. A suo agio nella commedia, come nelle parti più “serie”. Capace di far parlare di sé anche in assenza, vedi la sua partecipazione saltata all’Isola dei famosi, di esprimersi in modo “scomodo” e di rivendicare se stessa senza false timidezze, né birignao. Ecco l’intervista OFF alla Spaak, realizzata qualche mese fa.

Ci racconta un episodio OFF dell’inizio della sua carriera, un aneddoto particolare degli anni della gavetta?

«Ricordo il primo giorno della lavorazione de “L’uomo dei cinque palloni” di Marco Ferreri, all’ultimo piano di un grattacielo altissimo in centro a Milano: sono arrivata lì con il mio copione e il regista l’ha buttato fuori dalla finestra. Poi ha radunato tutta la troupe, con Marcello Mastroianni che mi faceva dei cenni per rassicurarmi, e abbiamo dovuto dire tutti in coro: “Angelo, bell’angelo, vieni qui da me”, e la risposta di Marco Ferreri è stata: “Non posso, perché il diavolo mi tenta”. Poi abbiamo cominciato a girare. È stato molto strano, soprattutto perché avevo diciassette anni e su un set con Ferreri e Mastroianni non sapevo come comportarsi».

Lei è diventata famosa anche grazie all’incontro con Sophia Loren. Com’è avvenuto?

«Mio padre aveva scritto una sceneggiatura per un film di Alberto Lattuada. Fu lui, dopo avermi vista la prima volta da bambina, a capire che sarei stata un’attrice: diceva sempre che avrebbe aspettato che crescessi. E una volta, per caso, all’uscita della scuola andai con mio padre sul set de “Il buco”, di Jacques Becker, e girai una scena per sostituire una ragazzina, in cui dovevo parlare con un detenuto in una prigione. Dopo di che mandarono una troupe televisiva a scuola per intervistarmi, la signora Loren mi vide e mi fece fare un provino con Lattuada, che cercava la protagonista femminile per “Dolci inganni”. Andai a Roma, feci il provino, e poi il film».

E poi ci furono altri film, come “Il sorpasso” e “Voglia matta”, e lei è diventata il simbolo di una nuova donna, emancipata e autonoma…

«Corrispondevo a una nuova tipologia femminile: non più la maggiorata, la donna abbondante, la mamma mediterranea, ma una donna più inquietante, con meno femminilità ma con una testa pensante, possibilmente colta e capace di prendere in mano la sua vita».

… Una figura senz’altro affascinante, ma anche spaesante per la platea maschile dell’epoca…

«Sicuramente anticipava l’emancipazione femminile, che era già avvenuta in Francia».

Com’era, invece, l’universo maschile italiano di quei tempi?

«Pensavo erroneamente che il mondo del cinema e dell’arte fosse al di fuori di pregiudizi e luoghi comuni, invece era ancora fortemente maschilista».

Per esempio, come fu il rapporto con Vittorio Gassman e Mario Monicelli durante la lavorazione de “L’armata Brancaleone”?

«Monicelli, come Gassman e altri componenti della troupe, era un grande misogino. Vittorio era molto aggressivo e cercava continuamente di mettermi in imbarazzo, il che era facilissimo, e faceva ridere tutti quanti. È stata un’esperienza tremenda».

Invece chi è il regista che ha apprezzato di più?

«Non saprei, ho girato più di centoventi film, tutti con registi importanti che mi hanno dato tantissimo, nonostante i loro caratteri magari discutibili. Mi ritengo molto fortunata ad aver fatto parte di un periodo storico tanto importante del cinema italiano».

Crede che la commedia all’italiana sia morta con quel periodo storico?

«Il film comico è basato sul costume, e il costume con il passare degli anni cambia. Quindi anche il cinema cambia, ed è difficile che qualcosa che faceva ridere negli anni ’60 faccia ancora ridere. Esistono i film cult, ovviamente, per esempio “Amici miei” e “Febbre da cavallo”: non posso prendere un taxi a Roma senza che il conducente sappia a memoria tutte le battute di quel film. Mentre giravamo, con Steno e Gigi Proietti, non potevamo immaginare che “Febbre da cavallo” sarebbe diventato quello che è diventato per il pubblico italiano».

Lei è una donna piuttosto riservata, secondo alcuni un po’ altera…

«Quello è il classico malinteso per cui se non si danno pacche sulle spalle e non cosi dicono parolacce si è alteri, freddi o snob…»

Ma come ci si sente a essere una delle donne più desiderate del cinema italiano?

«Mi fa sorridere, perché la vita è fatta di cose più concrete».

Ha sempre amato scrivere, come mai?

«Ho scritto per tredici anni sul Corriere della Sera e su praticamente tutte le riviste femminili. Come mai? A lei perché piace fare il giornalista? La trovo una cosa abbastanza normale, non siamo più nel seicento, quando le pittrici venivano considerate pazze e possibilmente rinchiuse».

La donna di oggi ha ancora bisogno di liberarsi dal punto di vista sociale e culturale?

«Ci sono ancora dei pregiudizi e dei tabù. Penso che siano gli uomini a dover lavorare su loro stessi».

Ha sempre tenuto molto alla crescita personale attraverso la meditazione. Com’è stato il suo percorso in questo senso?

«La mia è stata un’avventura spirituale soprattutto di consapevolezza, che ho cercato di raggiungere con ogni mezzo possibile: letture, concorsi, meditazione, introspezione…»

È stato un tipo di percorso religioso o laico?

«La meditazione è una pratica orientale, ma il mio è stato soprattutto un percorso laico.

Ha lavorato in televisione per anni e con un grandissimo successo, prima a Forum e poi ad Harem. Tornerebbe a lavorare in TV?

«Mi piacerebbe, vorrei riprendere Harem facendo dei cambiamenti adeguati alla situazione attuale. Ma non penso che i dirigenti RAI sarebbero interessati».

Si è sposata con un uomo più giovane. Gli uomini da sempre hanno compagne più giovani, quando la situazione è invertita invece si parla subito di toy boy… Come si giudica dal punto di vista sentimentale?

«Penso che ognuno dovrebbe essere se stesso senza dare troppo ascolto a ciò che dice la gente. Io l’ho fatto, e penso di aver fatto bene».

Claudio Sabelli Fioretti per “Sette – Corriere della Sera” – 14 novembre 2002

Affascinante? Fredda? Sexy? Ipocrita? Catherine Spaak ha fatto parte dei sogni erotici degli italiani. Aveva 16 anni quando interpretò la splendida ninfetta che stimolava la voglia matta di Ugo Tognazzi nel film di Salce. 

Oggi che ha 56 anni la gente la ricorda soprattutto signora per bene, conduttrice per quindici anni del salotto di Harem con continue puntate su sesso ed eros. Da quest’anno, per vederla, bisogna spostarsi su “La7”, per “Il sogno dell’angelo”, fantasie erotiche, storie straordinarie, medicina alternativa, fiabe. 

Allora, signora Spaak, è ipocrita?

“Ipocrita no. Semmai maliziosa. Affascinante no. Semmai carismatica. Eppoi divertente. Talvolta provocante”. 

Sexy?

“No, sensuale”. 

Veramente dicono di lei che è fredda.

“Stereotipi. La mia riservatezza inganna”.

Rai Tre, la rete della sinistra, le ha chiuso Harem e nessuno protesta. La sinistra protesta solo per Santoro.

“Nemmeno io protesto. Diceva Audrey Hepburn: “Quando chiedi aiuto non trovi nessuno, però hai una mano, la tua mano che ti deve aiutare. Poi, quando hai capito la lezione, ricordati che hai un altra mano. E quella serve per aiutare gli altri””. 

Questa è saggezza.

“Non mi aspetto mai niente dagli altri. Sono presuntuosa”. 

E’ vero che l’Italia è il Paese dei voltagabbana?

“E’ una connotazione umana. L’uomo è fatto molto male”.

Si sente mai adulata?

“Si. E mi dispiace per la persona che lo fa”. 

Molti complimenti per essere invitati alla sua trasmissione?

“Lo chiedono senza fare tanti salamelecchi”. 

Ne sono passate centinaia dal suo salotto. Marina Ripa di Meana disse di essere caduta in una imboscata.

“Non mi era simpatica all’inizio, ma ho scoperto che è molto intelligente. Adesso siamo amiche”. 

E’ successo mai il contrario?

“Persone che pensavo fossero simpatiche e invece no? Francesca Archibugi fu difficile da interpretare, molto chiusa”. 

Ha dei trucchi per sbloccare i caratteri chiusi?

“Le energie che ognuno di noi emette si incontrano soprattutto quando si è seduti vicino”. 

Per questo si sposta come un folletto sui divani.

“Cerco la vicinanza fisica. Dopo un po’ la persona si rilassa e si apre”.

Lilly Gruber non si rilassò quando le chiese della fotografia in topless.

“In seguito ci siamo sentite parecchie volte e sempre con molta simpatia reciproca”. 

Una foto della Spaak in topless quanto vale?

“Non esiste. Ma in qualche film si è visto il seno. Poco”. 

Alla Gruber disse: “Se una non vuole farsi fotografare in topless basta che non si tolga il reggiseno”.

“Non ricordo. Comunque lo penso”. 

Riesce a recuperare sempre?

“Quasi. Giordano Bruno Guerri mi combinò un bel casino. C’era Barbara Palombelli in trasmissione. Lui disse: “Posso raccontare una storiella?” Io dissi di sì, purché fosse attinente al tema. Invece raccontò una storia molto volgare, del tutto gratuita, solo per scandalizzare le signore presenti”. 

E lei?

“Ho interrotto la trasmissione. Gli ho detto: “Riprendiamo dopo che lei si sarà scusato con le signore”. Si scusò”. 

Una volta Wendy Windham se ne andò.

“Per colpa di Aldo Busi. Le disse, traducendo il suo nome: “Lo sai che ti chiami “Prosciutti al vento?” Wendy si mise a piangere e scappò via”. 

Che ricordi ha di quando era bambina?

“Quattro anni di collegio. Ero molto attaccata a mia madre e la separazione l’ho sofferta moltissimo. Un brutto periodo”. 

Una mamma incapace di amare. Così l’ha descritta. Parole dure.

“Parole sincere”. 

Anche il papà la trascurava?

“Mio padre era molto assente, l’ho frequentato poco. A me sarebbe piaciuto una grande famiglia con fratelli, sorelle, gente sempre per casa”. 

Almeno i nonni…

“Mia nonna, Marie, la mamma di mio padre, era meravigliosa. Fu la prima donna senatore in Belgio. Suo figlio Paul Henry divenne primo ministro. Quando andava in Senato cominciava i suoi discorsi: “Mamma, signori…” Mia nonna si arrabbiava. “Non chiamarmi “mamma” in Senato!” 

Del collegio che cosa ricorda?

“Un grande ippocastano con i fiori rosa. Io andavo nel bagnetto squallido e puzzolente, salivo sulla tazza, aprivo il piccolo oblò e parlavo con quest’albero che mi faceva compagnia”. 

Idoli?

“Adoravo Gerard Philipe e ho avuto la fortuna di essere sua allieva per un anno.  Fantastico”. 

Voleva fare l’attrice?

“Al collegio firmavo autografi alle compagne di classe”.

Le compagne le chiedevano l’autografo?

“No. Ma io glieli firmavo lo stesso”. 

“La voglia matta”: le piaceva quel personaggio di ragazzina viziata, maliziosa?

“No”. 

Tognazzi le fece la corte?

“Pochissimo”. 

Pochissimo?

“Mezz’ora”. 

Lo dice con rimpianto?

“Con sollievo. Appena salita sulla sua macchina mi mise le mani addosso. Io urlai. Lui frenò, aprì la mia portiera e mi scaraventò fuori”.

Quattro film di grandissimo successo: “La voglia matta”, “Il sorpasso”, “La noia”, “L’armata Brancaleone”. Che cosa ricorda del periodo cinematografico?

“Era un mondo misogino. Quando giravamo “L’Armata Brancaleone” gli uomini mi prendevano sempre in giro, Monicelli e Gassmann me ne dicevano di tutti i colori. Io ero molto timida, arrossivo, diventavo proprio viola e Vittorio si divertiva molto a insultarmi, puttana, troia. Mi faceva piangere. E tutti si divertivano da morire a vedermi imbarazzata e offesa”.

Lei ha avuto tre mariti.

“Sono sicuramente nel mondo dello spettacolo quella che ha avuto meno storie d’amore. Eppure si dice: “Quella donna ha avuto tre mariti””. 

Fece scandalizzare mezza Italia…

“Osai fuggire con mia figlia quando il tribunale decise di togliermela. Finii in manette”.

Perché le tolsero la bambina?

“Motivazione: essendo la signora Spaak attrice, e quindi di dubbia moralità, per il bene della bambina…” 

Cita testualmente?

“Tra virgolette”. 

Altri tempi.

“Il coraggio che ho avuto a quella età è stato meraviglioso. Nessuno si può rendere conto di che cosa significhi trovarsi i fotografi nelle stanze d’albergo, nelle cliniche. Un fotografo, travestito da infermiere, mi scattò una foto mentre il ginecologo mi stava visitando e quindi può anche immaginare la mia posizione”. 

Perché smise con il cinema?

“Avevo problemi di salute, anoressia, andai in analisi, non riuscivo a lavorare. Ero sposata con Johnny Dorelli che non aveva piacere che lavorassi. Diceva: “Ce n’è già uno e basta”. Era anche nata mia figlia. Ho cominciato a scrivere, prima per Ulisse, giornale dell’Alitalia, e poi per il Corriere della sera. Direttore era Di Bella”. 

Lei sapeva che Dorelli era massone?

“Si, ma non ne vorrei parlare”. 

Perché?

“Perché sono fatti suoi”. 

Le seccava avere un marito massone?

“Non credo che si possa parlarne”. 

Anche lei è massone?

“Non c’è massoneria per le donne”. 

C’è.

“Non sono massone, non sono mai stata iscritta a un partito, non ho mai fumato marijuana, non so che cosa sia la cocaina…” 

Perché non se ne può parlare?

“Lui non ne avrebbe piacere”. 

A lei seccava?

“Non se ne parlava”. 

Non se ne parlava perché a lei seccava?

“Non vorrei che scrivesse questo di Giorgio”. 

Di massoneria bisogna parlare il più possibile. Per un minimo di decenza…

“Certo”. 

Lei ha scritto anche quattro libri…

“Finivano tutti in classifica. Ma nessun critico letterario li ha mai recensiti”. 

Le dispiaceva ?

“Era un pregiudizio stupido”. 

Lei ha avuto problemi con sua mamma, ma anche con sua figlia.

“Il fatto che sia stata allevata dalla nonna è stato un grosso danno per lei e per me”.

Incomprensioni…

“Si”. 

Lei vedeva sua figlia nei week end, la portava a spasso…

“Si”. 

Drammatico?

“Si”. 

Conseguenze?

“Da parte sua una forte rivalità, insuperabile”. 

Che cosa fa sua figlia?

“E’ una bravissima attrice. Ha lavorato molto con Ronconi”. 

Lei ha scritto che sua mamma le rubava i fidanzati.

“Mi riservo di non rispondere”. 

E’ successo anche tra lei e sua figlia?

“Le problematiche sono diverse”. 

L’ultimo suo periodo è stato quello televisivo.

“Forum, due anni”. 

Perché solo due anni?

“Non volli subire la corte di una persona che aveva potere, quindi sono stata punita. E sostituita con Rita Dalla Chiesa”.

Dopo Forum, 15 anni di Harem. Miscela esplosiva. Erotismo con l’aria della signora per bene.

“Io non ho l’aria da signora per bene. Io sono una signora per bene”. 

Filo di perle, tailleurino…

“Stereotopi ingannevoli…” 

Faceva domande che in tv non si facevano.

“Non erano né volgari né insinuanti”. 

Lei chiese a una signora se sarebbe andata a letto con un signore per un miliardo.

“Era appena uscito un film, Proposta indecente”. 

Ha mai avuto una storia con una donna? Sa, è uscito un film.

“Le mie scelte sessuali le vorrei tenere per me”. 

Le hanno mai fatto un offerta da un miliardo?

“Mai”. 

Mezzo miliardo?

“Un signore offrì a mio marito una cartiera”. 

E Dorelli che cosa rispose?

“Rilanciò. Due cartiere”. 

Esistono ancora le proposte indecenti?

“A me non capita più. Sanno che picchio”. 

Lei picchia per davvero.

“C’era un signore che mi molestava. L’avevo conosciuto al corso di meditazione buddista. Fra i meditanti c’era un signore cortese, educato. Mi faceva qualche telefonata, gentile. Poi cominciò a mandarmi messaggi osceni sul cellulare. L’ho denunciato. Ho cominciato a trovarmelo sotto casa. Chiamavo la volante. L’ultima volta mi ha messo le mani addosso. E io l’ho colpito con l’ombrello”. 

Dove? In testa?

“Dove ho potuto. Dovunque”. 

Come è finita?

“E’ a Regina Coeli, da un mese”. 

Strana gente si incontra ai corsi di meditazione buddista.

“I malati ci sono dovunque”. 

“Lei risponderebbe a Catherine Spaak che le fa domande sulla sua vita sessuale?

“No”. 

Qual è la domanda più imbarazzante che abbia mai fatto?

“Non faccio domande imbarazzanti”. 

Ha mai chiesto ad una donna se le piace il sesso senza amore?

“Non è una domande imbarazzante”. 

Le piace il sesso senza amore?

“No, non provo attrazione se non provo amore”. 

E’ gelosa?

“Si”. 

Scenate? Mena? Tira piatti?

“Mi controllo. Chiusura totale. Silenzio”. 

Lei torna a casa, trova il suo uomo a letto con un’altra. Silenzio?

“Non mi è mai successo”. 

E’ mai stata tradita?

“Si”. 

Chiusura totale? Silenzio?

“Sì”. 

Lei ha mai tradito?

“Si”.

Perché si tradisce?

“Per inconsapevolezza, per leggerezza, per stupidità”. 

Lei era inconsapevole, leggera o stupida?

“Stupida”. 

Un uomo le ha mai detto di no?

“Sì”. 

E come si è permesso?

“Me lo chiedo ancora”. 

Si è mai interessata di politica?

“Non ho mai avuto una grande passione”. 

Suo zio e sua nonna di che idee erano?

“Di sinistra”. 

E lei?

“Non ho mai voluto schierarmi”. 

Per chi ha votato?

“Mai per la destra”. 

E quindi?

“Sempre a sinistra”. 

Chi le piace a sinistra?

“Non vorrei parlare di politica. Non sono in grado di avere un giudizio, non conosco i politici”. 

Ne avrà intervistato qualcuno…

“Molti. Andreotti…Craxi…” 

Simpatici?

“Craxi è stato divertente. Io facevo le domande e lui rispondeva scrivendo su dei fogli. Poi li accartocciava e li buttava nel cestino. Alla fine sono andata a frugare nel cestino. Per vedere che cosa aveva scritto”. 

Che cosa aveva scritto?

“Esattamente quello che aveva detto”. 

C’è qualche giornalista che non le piace?

“Gualtiero Peirce. Quando scriveva sulla Repubblica mi attaccò in maniera assolutamente ingiusta. Io gli risposi con una lettera con un finale piuttosto duro”. 

Tipo?

“Tipo vaffanculo”. 

Lei è molto vicina alle filosofie orientali.

“Sì”.

In queste polemiche sull’Islam?

“Mi piace quello che scrive Tiziano Terzani”. 

Che cosa è secondo lei l’adulazione?

“Una forma di paura”. 

Chi è un adulatore?

“Non lo so. E se lo sapessi non glielo direi”. 

Anche lei adulatrice.

“Non è il mio compito”. 

Se un tg non dà certe notizie, è adulazione?

“No, è censura”.

Censurare lo speciale Blob su Berlusconi è adulazione nei confronti di Berlusconi?

“Non ho seguito la cosa”. 

Bloccare una trasmissione di satira contro una persona è adulazione?

“Potrebbe essere”. 

Lei è contro la caccia?

“Sì”. 

Quando Sophia Loren fece pubblicità per le pellicce…

“Io la criticai”. 

Ha avuto nella vita due grandi rivali, Lauretta Masiero e Gloria Guida.

Rivali? 

Lauretta Masiero era la moglie di Dorelli prima di lei. Gloria Guida la moglie di Dorelli dopo di lei…

“Non ho mai avuto con loro né problemi, né frequentazione”. 

E’ difficile strapparle un giudizio…

“Deve essere stato un periodo molto difficile per Lauretta quando io ho incontrato Giorgio”. 

Con la Guida, stessa situazione a ruoli invertiti…

“No. Giorgio e Gloria si sono conosciuti quando noi ci eravamo già separati”. 

A lei non piacciono le interviste vero?

“Mi piace intervistare, non essere intervistata”. 

Forse perché è una donna fredda…

“Perché nessuno, nemmeno il più bravo giornalista, può mai rendere profondamente, onestamente, quello che è avvenuto”. 

La perfezione non si raggiunge mai.

“Io quando scrivevo per il Corriere cercavo di seguire il mio istinto e non le regole”. 

Male.

“Cercavo di riportare qualche cosa che mi aveva comunicato la persona aldilà delle parole”. 

Malissimo.

“C’era sempre qualcosa di importante che non era una frase detta ma qualcosa che era successo. La maggior parte dei giornalisti non vuole dar retta a quella piccolissima cosa”. 

Fortunatamente.

“Io sono convinta che lei scriverà cose molto diverse da quelle che pensa”. 

Scriverò le sue parole. Non le mie impressioni.

“Lei avrà paura di essere deriso dai suoi colleghi”. 

Io non ho paura di niente. Modestamente.

“Ricordo un amico giornalista del Corriere che un giorno stava leggendo un mio libro. Qualcuno è arrivato e gli ha detto: “Ma che fai? Leggi i libri della Spaak? Sei scemo?” E lui si vergognò”. 

Qualche giornalista che l’ha soddisfatta c’è stato?

“Qualche volta è successo. Non mi ricordo il nome. Era una donna”. 

La Fallaci?

“Al contrario. Quando mi intervistò la Fallaci i suoi pregiudizi erano enormi. Mi ha fatto dire cose che non avevo detto. Voleva sostenere che ero scema…” 

E l’ha dimostrato?

“L’ha sostenuto. Non l’ha dimostrato”.

Gioco della torre. Raul Bova o Alessandro Gassman?

“Gassman è simpatico, è vivace, è per bene”. 

Bova è antipatico, moscio e lazzarone?

“E’ un po’ troppo consapevole della sua fisicità”. 

Feltri o Belpietro?

“Non saprei” 

Panorama o Espresso?

“Non saprei”. 

Cofferati o D’Alema?

“Oh Dio non posso” 

Mimun o Mentana?

“Non voglio…” 

Santoro o Biagi?

“Non posso…”. 

Costanzo o Vespa?

“Non voglio”. 

Ho capito. Lasciamo perdere.

“Sì. Questo gioco non mi piace”.

·        E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.

Da corriere.it il 15 aprile 2022.

È un giallo la morte di Cedric McMillan, campione di bodybuilding di 44 anni e veterano di guerra dell’esercito Usa. Notissimo negli Stati Uniti, amico stretto di Arnold Schwarzenegger, «The One», questo era il soprannome di McMillan, era considerato uno dei migliori bodybuilder al mondo. A darne la notizia uno sponsor: «Siamo spiacenti di informarvi che il nostro amico e fratello è morto oggi. Cedric ci mancherà molto come atleta, compagno, amico e padre».

L’azienda non ha fornito ulteriori dettagli, ma secondo il sito specializzato Generation Iron pare si sia trattato di «un infarto sul tapis roulant». A causa del Covid, il campione avrebbe sofferto di problemi cardiaci oltre che polmonari. Era stato ricoverato e aveva lottato tra la vita e la morte.

McMillan, sposato e padre di tre figli, era un veterano dell’esercito e anche un membro della Guardia Nazionale della Carolina del Sud. Ha raggiunto il grado di sergente di prima classe nel luglio 2021. La sua passione per il bodybuilding era iniziata da bambino, quando la mamma gli regalò un set di pesi. Col tempo era diventato un campione della disciplina. Aveva vinto nel 2017 il prestigioso titolo di bodybuilding Arnold Classic, dal nome appunto di Arnold Schwarzenegger.

Nato nel New Jersey, McMillan è cresciuto idolatrando l’attore. «Noto per la sua personalità più grande della vita, il suo sorriso contagioso, un cuore gentile e un senso dell’umorismo amato sia dagli altri concorrenti che dai fan, Cedric mancherà profondamente», ha scritto su Facebook l’organizzazione dell’Arnold Classic.

In un video pubblicato su Instagram il 28 febbraio, McMillan aveva raccontato i suoi problemi di salute, parlando anche di una sorta di esperienza pre-morte. «Non riesco a trattenere il cibo nello stomaco. Mi prende uno stupido singhiozzo, ho il singhiozzo tutto il giorno e anche di notte. Ho il singhiozzo ogni volta che mangio, o addirittura bevo acqua. Torna su, niente vuole rimanere dentro. Quattro settimane fa sono andato di nuovo dal dottore e mi hanno consigliato di non fare l’Arnold Classic». Aveva perso 13 chili. Meno di due mesi dopo è morto.

·        E’ morta la giornalista Giusi Ferré.

Morta Giusi Ferré, la firma numero uno della moda italiana. Inventò la rubrica «Buccia di banana». Michela Proietti su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2022.

La nota giornalista italiana è scomparsa nella notte. Volto iconico del costume e della moda italiana, aveva fatto la prima intervista a Miuccia Prada. Aveva trasformato la sua severità in ironia, creando la nota rubrica di scivolate di stile. 

E’ morta la scorsa notte Giusi Ferré, decana del giornalismo di moda italiana, 76 anni. Era malata da tempo, ma ha continuato a lavorare fino all’ultimo giorno. Notista di moda e costume, nata a Milano da una famiglia di milanesi doc - padre tranviere, mamma sarta - ha cominciato da subito a lavorare nel mondo della moda. Rossa di capelli, del segno del Sagittario nata il 16 dicembre, amava vestire di nero, il suo colore preferito: ha «allevato» una generazione di giornalisti di costume e di lei Quirino Conti, autore della postfazione del suo libro più noto «Buccia di Banana», aveva annotato «il senso morale, per come scrutava fatti, cose e persone».

Seconda di tre figli, era imparentata con Oreste Speciani, il noto nutrizionista milanese,ma non con Gianfranco Ferré, ma con il quale aveva un legame fortissimo. Mai piegata all’uso del computer, ha continuato fino alla fine ad usare la macchina da scrivere, che maneggiava con grande velocità, usando solo due dita: dopo l’esordio a Epoca, aveva scritto per Linea Italiana e Linea Sport, diretti da Fabrizio Pasquero. Fu poi presa all’Europeo ed è sua la prima intervista a Miuccia Prada, nel periodo in cui Karl Lagerfeld dichiarò che avrebbe voluto inventare lui la borsa di nylon con le catene della Chanel. Abilissima a cogliere in ogni racconto il dettaglio più curioso, in quella intervista era riuscita a far ricordare a Miuccia Prada di quando il padre portava la moglie e la zia Rocchina, sorella della mamma di Miuccia, in America a bordo del transatlantico vestendole di nero, perché in caso di naufragio non sarebbero state divorate dai pescecani.

Dopo aver scritto un libro di grande successo sulla Timberland, aveva inventato il «format» Buccia di Banana, storica rubrica di costume e moda del settimanale Io Donna sugli scivoloni di stile delle celebrità, a cui ha dedicato un libro edito da Rizzoli e che ha ispirato la trasmissione su Lei tv. Aveva la rubrica fissa settimanale su Io Donna (Buccia di Banana e Tocco di Classe) e ha fatto parte della giuria del programma Italia’s Next Top Model.

Giusi Ferré ha raccontato Giorgio Armani, l’uomo e le rivoluzionarie idee sullo stile femminile, nel libro «Giorgio Armani, il sesso radicale». E allo stilista è rimasta legata nel tempo firmando molte interviste al maestro della moda italiana.

Aveva trasformato la sua severità in ironia pungente, senza mai scendere a compromessi in fatto di cultura, ripetendo che «per scrivere un pezzo al giorno bisogna leggere almeno un libro al giorno».

Morta Giusi Ferré, pilastro del giornalismo di moda e costume in Italia. Francesca Galici il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Da anni combatteva contro una malattia: Giusi Ferré ha saputo raccontare la moda e il costume italiano come nessun altro ha mai fatto.

Si è spenta nella notte a 76 anni la giornalista Giusi Ferré, autorevole e decana firma del giornalismo di moda e costume del nostro Paese per il settimanale Io Donna e per il Corriere della sera. A darne notizia è stato proprio il Corriere della sera. Da tempo combatteva contro una malattia. Tagliente, pungente e ironica, con il suo particolarissimo punto di vista ha raccontato i cambiamenti dell'Italia fin dagli anni del boom della moda nel nostro Paese. La sua prima intervista è stata a Miuccia Prada ma è anche stata l'artefice della rubrica "Buccia di banana", nella quale negli altri ha raccolto tutte le più clamorose, e non, cadute di stile.

Milanese doc, Giusi Ferré ha fatto del giornalismo la sua ragione di vita, diventando un faro per un'intera generazione di giornalisti di costume, cresciuti nel suo mito. Era apprezzata per la sua grande arguzia e per lo straordinario spirito di osservazione, che le permetteva di notare dettagli invisibili ad altri, di guardare oltre e di arrivare laddove nessuno si era mai spinto. Le sue interviste erano note per essere ricche di dettagli particolari: Giusi Ferré non si accontentava di parlare col personaggio, lo voleva raccontare attraverso aneddoti unici che ne tratteggiassero la personalità in maniera inequivocabile e inedita.

Esordì scrivendo per Epoca per poi passare all'Europeo, per il quale firmò la storica intervista a Miuccia Prada. Erano gli anni d'oro della moda italiana, quelli della creatività durante i quali tutto sembrava essere possibile, l'Italia era in gran fermento e Giusi Ferré riuscì a cogliere l'essenza del cambiamento attraverso il suo sguardo sul mondo. A Miuccia Prada fece rivelare che quando suo padre le portava in America a bordo del transatlantico, le obbligava a vestirsi di nero nella convinzione che così non sarebbero state mangiate dagli squali in caso di naufragio.

Ha scritto numerosi libri nei quali ha raccontato i principali fenomeni di moda e costume della nostra epoca, a partire da Timberlandia, ma non solo. Grande successo ha avuto la sua opera Alberta Ferretti: lusso, calma, leggerezza scritta con Samuele Mazza. Numerosi, poi, i libri dedicati a Gianfranco Ferré, grande firma della moda italiana, con il quale la giornalista aveva uno stretto legame di parentela del quale, però, preferiva non parlare. Ha frequentato spesso anche la tv, parlando di moda e di costume.

·        È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi. 

Da ilsole24ore.com il 15 aprile 2022.  

È morto a Parigi l’economista francese Jean-Paul Fitoussi. Era nato a La Goulette il 19 agosto 1942. Negli ultimi mesi aveva avuto un ruolo importante nell’organizzazione del prossomo festival dell’economia di Trento. 

Tra le tante cose era docente all’istituto di studi politici di Parigi (Sciences Po) dal 1982 e dal 1989 ha presieduto l’osservatorio francese sulle congiunture economiche (Ofce). Era membro del consiglio scientifico dell’Istituto “François Mitterrand” e dal 2010/11 ha partecipato all’insegnamento in International relations, prima laurea magistrale in lingua inglese della Luiss.

I suoi lavori riguardano le teorie dell’inflazione, la disoccupazione, le economie aperte e il ruolo delle politiche macroeconomiche. È stato un critico della rigidità nelle politiche di bilancio e di economia monetaria, per gli effetti negativi sulla crescita dell’economia e sui livelli di occupazione. I suoi lavori recenti riguardano i rapporti tra democrazia e sviluppo economico.

In uno dei suoi ultimi interventi, a proposito della guerra in Mosca-Kiev, Fitoussi aveva sostenuto che «l’Ucraina è Europa» e che «tutti i Paesi europei ne subiranno le conseguenze». E poi che, se venisse trovato un compromesse in grado di soddisfare Putin, «l’Unione europea pagherà più di tutti» e «Mosca avrà ancora più potere sul gas».

È morto l’economista francese Jean-Paul Fitoussi. Francesco Curridori il 15 Aprile 2022 su Il Giornale.

Keynesiano critico delle politiche di austerity, è morto questa notte a Parigi a 79 anni.

L’economista francese Jean-Paul Fitoussi è morto questa notte a Parigi a 79 anni. Il prossimo 19 agosto ne avrebbe compiuti 80.

Fitoussi, nato a La Goulette il 19 agosto 1942, era professore emerito di SciencesPo, di cui aveva creato il dipartimento di Economia e docente alla Luiss di Roma. Ma non solo. È stato anche membro del Center for Capitalism and Society delle Columbia University e del consiglio scientifico dell’Istituto “François Mitterrand”. Dal 1982 e dal 1989 ha presieduto l’osservatorio francese sulle congiunture economiche (Ofce), megli ultimi mesi, stava lavorando all'organizzazione del prossimo Festival dell’Economia di Trento.

I suoi studi hanno riguardato l’inflazione, la disoccupazione e i rapporti tra democrazia e sviluppo economico. Critico delle politiche di austerity, era un keynesiano convinto. Dal 2000 al 2009 è stato esperto presso il Parlamento Europeo, Commissione Affari Monetari ed Economici. È stato anche membro della Commissione delle Nazioni Unite sulla riforma del sistema monetario e finanziario internazionale. Insieme ai premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen aveva guidato la Commissione per le performance economiche e il progresso sociale, che nel 2009 aveva proposto nuovi indicatori per determinare il livello di benessere dei popoli. Conosceva e amava l'Italia, soprattutto Firenze dove aveva frequentato l'Istituto di Studi Europei di Fiesole. Pochi giorni fa aveva rilasciato a Il Giornale una delle sue ultime interviste in cui aveva criticato le politiche economiche del presidente Emmanuel Macron: "Si può dire che ha sbagliato tutto. Ha cominciato dando l'impressione di disprezzare la gente. Ha diminuito l'aiuto all'alloggio (Apl) di 5 euro a settimana nei primi mesi di mandato; non uno scherzo per i più poveri. Poi, nel 2018, ha fatto una riforma ultra-liberale della Snfc, il sistema delle ferrovie, mettendo quasi tutti i francesi contro di lui". Secondo l'economista francese, la carriera politica del capo dell'Eliseo era stata provvidenzialmente salvata dal Covid, per colpa del quale ha dovuto rimandare una assai contestata riforma previdenziale.

Prontamente sono arrivate le condoglianze di Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione, che ricorda le principali battaglie dell'amico "di tante battaglie e dell'Italia" Fitoussi: "La fede nell'Europa federale e solidale, la critica alle politiche di bilancio basate su parametri rigidi, il sostegno alle misure espansive come motore per la crescita e strumento anti-disuguaglianze, l'analisi mai banale della crisi delle democrazie liberali".

Scomparso a 79 anni. Morto Jean-Paul Fitoussi, addio all’economista francese critico dell’austerità. Redazione su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Jean-Paul Fitoussi, noto economista francese, è morto questa notte a Parigi all’età di 79 anni. A comunicarlo sono stati i familiari del professore emerito di SciencesPo, l’istituto di studi politici di Parigi di cui aveva creato il dipartimento di Economia, considerato il più autorevole teorico contemporaneo del reddito di base.

Fitoussi, che avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 19 agosto, è stato sempre legatissimo all’Italia: docente alla Luiss di Roma, aveva trascorso un lungo periodo anche a Firenze, presso l’Istituto di Studi Europei di Fiesole, mentre recentemente aveva avuto un ruolo chiave nell’organizzazione del Festival dell’Economia di Trento.

Attualmente era direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsioni e membro del consiglio scientifico dell’Istituto “François Mitterrand”. Autore di numerose opere tra cui ‘La misura sbagliata delle nostre vite. Perché il Pil non basta più per valutare benessere e progresso sociale’ (Etas 2010 e 2013), scritto con Joseph Stiglitz e Amartya Sen; ‘Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale’ (Einaudi 2013) e ‘La neolingua dell’economia. Ovvero come dire a un malato che è in buona salute’ (Einaudi 2019).

Fitoussi da sempre è stato fortemente critico rispetto alle misure di austerità, alla rigidità nelle politiche di bilancio e di economia monetaria alla luce degli effetti negativi sulla crescita dell’economia e sui livelli di occupazione.

Con i premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen aveva diretto la Commissione per le performance economiche e il progresso sociale, che nel settembre 2009 aveva proposto nuovi indicatori più adatti del Pil per determinare il livello di benessere delle popolazioni.

Nei giorni scorsi aveva preso posizione sulla guerra in Ucraina, sostenendo che il no al nucleare fosse un regalo a Putin. Fitoussi aveva spiegato che “l’Ucraina è Europa” e che se venisse trovato un compromesso in grado di soddisfare Putin, “l’Unione europea pagherà più di tutti” e “Mosca avrà ancora più potere sul gas“.

L'addio all'economista. È morto Jean Paul Fitoussi: intollerante ai dogmi, all’economia chiedeva di guardare in faccia la realtà. Corrado Ocone su Il Riformista il 16 Aprile 2022. 

Sentirlo parlare di Unione Europea, senza sapere chi fosse, avrebbe potuto generare non pochi equivoci o fraintendimenti. Lo si sarebbe potuto includere senza troppi complimenti fra i “sovranisti” e gli “antieuropeisti” più accaniti. Nulla di più lontano da lui, dalla sua formazione culturale e dal senso di certe sue battaglie. Tanto poteva considerarsi ortodosso nell’adesione alla corrente economica dominante nel secondo dopoguerra, quella keynesiana, tanto si discostava dal discorso economico ufficiale nelle conseguenze che ne traeva. Nonché per un certo suo pragmatismo che era poi intolleranza per i dogmatismi di ogni tipo.

Intanto, Jean-Paul Fitoussi, morto a Parigi l’altra notte quasi ottantenne (era nato il Tunisia il 19 agosto 1942), pur essendosi conquistato una fama internazionale come economista, non si era mai rinchiuso nella sua disciplina, nelle formule astratte e nei teoremi costruiti a tavolino dai suoi colleghi: non solo li aveva sempre misurati nella realtà, ma aveva anche capito che un nesso indissolubile li lega alla politica e agli orientamenti pratici di chi opera e pensa economicamente. È così che il problema dell’Euro per lui non era tanto economico ma politico, rinviando quindi al problema più generale della costruzione europea e della filosofia che l’aveva ispirata, almeno negli ultimi decenni (cfr. La crisi economica in Europa, scritto con il Premio Nobel Edmund Phelps, Il Mulino 1989). In qualche modo l’Europa era stata l’esperimento proprio di un modo di fare economia che non era il suo. In nome, infatti, di un ideale astratto, il pareggio di bilancio, e di una concezione altrettanto astratta della concorrenza sia sociale sia fiscale si sono promosse politiche di austerità che hanno in qualche modo invertito il concreto rapporto fra l’uomo e la scienza economica: non la seconda al servizio del primo, ma il primo schiavo dei dogmi della seconda (cfr. Il dittatore benevolo. Saggio sul governo dell’Europa, Il Mulino 2003; L’Etat de l’Union européenne, Fayard, 2007).

Da una parte, Fitoussi riteneva perciò, keynesianamente, che la politica economica dovesse sostenere l’occupazione attraverso la domanda, e dovesse combattere la povertà e la disoccupazione (cfr. Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, Einaudi 2013); dall’altro sembrava rendersi conto, almeno ultimamente, che l’intera disciplina andava ripensata e rifondata su nuove basi (cfr. La neolingua dell’economia ovvero come dire a un malato che è in buona salute, Einaudi 2019). In quest’ottica, ma è solo un esempio fra i tanti, egli aveva lavorato, con altri due premi Nobel come Joseph Stiglitz e Amartya Sen, alla definizione di un indicatore dello sviluppo economico diverso dal PIL che aveva definito “la misura sbagliata delle nostre vite” (cfr. Misurare ciò che conta, Einaudi 2021). Così come aveva da subito messo in luce le cause tutte teoriche, oltreché politiche, della crisi finanziaria del 2007-2008. Aveva anche sollecitato più volte i politici a mettere al centro dell’attenzione il problema demografico, che era per lui il più evidente segno del declino europeo e della necessità di invertirne la marcia.

Storico professore dell’Institut d’etudes politiques (SciencesPo) di Parigi, Fitoussi era anche docente da una decina di anni di Economic Policy alla Luiss di Roma. All’Italia era legato da un rapporto di amore e frequentazione che lo portava ad essere molto presente nel dibattito pubblico nazionale. Non si contano i premi e i riconoscimenti della sua vita di studioso, nonché i ruoli pubblici ricoperti: in Francia, ove era stato consigliere economico di più presidenti, ma anche nel nostro Paese (dal consiglio di amministrazione di Telecom Italia a quello di sorveglianza di Banca Intesa Sanpaolo). Quel che più conta però, e che rimarrà di lui, è la capacità che aveva di dare in modo semplice e confidenziale risposte autorevoli e spesso controcorrente ai suoi interlocutori: il tratto umano gentile e lo stile sereno e colloquiale del suo parlare... Corrado Ocone

Aveva 79 anni. Chi era Jean Paul Fitoussi, il keynesiano contro il regno del pil. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 16 Aprile 2022.  

“Caro Prof, ha dieci minuti per Il Riformista?” Era diventato l’incipit delle nostre telefonate. E lui sempre cordiale, disponibile, nonostante i mille impegni che aveva. Non dico che fosse nata un’amicizia tra noi, ma qualcosa che le andava vicino credo proprio di sì. Jean Paul Fitoussi, scomparso ieri all’età di 79 anni, non era uno che se la tirava. E sì che ne avrebbe avuti tutti i titoli, visto che nel campo dell’economia e delle politiche sociali era un’autorità indiscussa.

Nato a La Goulette, in Tunisia, il 19 agosto 1942, professore emerito all’Institut d’Etudes Politiques di Parigi e alla Luiss di Roma, direttore di ricerca all’Observatoire francois des conjonctures economiques, istituto di ricerca economica e previsione, membro del Center for Capitalism and Society della Columbia University. Insomma, il gotha. Era un economista keynesiano con lo sguardo rivolto al futuro. Aveva sempre contestato la “iattura” dell’iper austerità perché riteneva che il compito della politica economica fosse quello di sostenere la domanda per assicurare la piena occupazione, ma anche di combattere la povertà e l’esclusione. Dopo aver presieduto con Joseph Stiglitz e Amartya Sen la Commissione per valutare le dimensioni del progresso e del benessere sociale dal 2007 al 2009 è stato, dal gennaio 2013, co-presidente con lo stesso Stiglitz e Martine Durand del gruppo di esperti di alto livello sulla misurazione della performance economica e del processo sociale.

In una delle nostre ultime conversazioni, gli avevo chiesto cosa conta di misurare per costruire una Europa meno squilibrata di quella esistente. La sua risposta, letta oggi, nel giorno della scomparsa, ha il segno di un testamento etico, prim’ancora che economico e politico. «Tutti lo sanno quello che dovremmo misurare. Su tutto, il capitale umano. La competenza, l’istruzione, l’efficienza nel lavoro. C’è da misurare tutti i fattori che hanno una incidenza sul capitale umano. Puntando sull’occupazione. E non ad una occupazione precaria che rende questo capitale più fragile. Si deve misurare la salute, il sistema della salute, che fin qui non abbiamo misurato. Un sistema pubblico malridotto, quasi inesistente, come ha tragicamente disvelato una pandemia virale tutt’altro che debellata.[…]. È il momento di andare al di là del Prodotto interno lordo. Dobbiamo misurare ciò che conta e ciò che conta davvero è il benessere. Bisogna dare tutta la priorità possibile al benessere e non al Pil. Se c’è un buon sistema d’indennità di disoccupazione, un buon sistema sanitario, un buon sistema d’istruzione, allora si può guardare con fiducia al futuro».

Il neo liberismo non l’aveva mai attratto. Nei suoi scritti e interventi aveva sempre contrastato, con sapienza e determinazione, l’idea per cui lo Stato doveva lasciar fare al mercato. Lui era di parere diametralmente opposto. «Se si vuole cambiar passo e puntare decisamente su una crescita socialmente equilibrata – ebbe a dire in una delle interviste concesse a questo giornale – c’è bisogno di uno Stato “invasivo” in economia, nei settori strategici, come le infrastrutture, l’innovazione, una seria green economy, e nei “beni comuni”, a cominciare dalla sanità e dall’istruzione. E poi c’è il secondo tabù da infrangere: quello del pareggio di bilancio. Che andrebbe cancellato dalla Costituzione europea. Ma forse è chiedere troppo a chi ha paura di investire sul futuro». Lui quel futuro l’aveva continuato a frequentare. Con le partecipate lezioni universitarie, negli incontri con i giovani studenti ricercatori, in Francia e in quell’Italia che ha sempre avuto nel cuore.

“L’iper austerità – batteva sempre su questo tasto – ha provocato devastazioni sociali alle quali non sarà facile porre rimedio. Di certo, non basteranno semplici ritocchi o misure emergenziali. Impariamo dalla storia: l’Europa ha bisogno di un suo “New Deal” che, sul modello rooseveltiano, faccia leva sull’intervento dello Stato in settori strategici dell’economia. Altro che “invasione di campo”. Oggi la sfida è ricostruire, su basi e idee nuove, un “campo” diventato impraticabile». E ancora: «Oggi più che mai abbiamo bisogno di costruire nuovi diritti sociali, non di decostruire quelli già esistenti. Abbiamo bisogno di costruire dei diritti sociali che garantiscano un futuro di uguaglianza di genere, per gli uomini e le donne, che consentano effettivamente di fare aumentare la speranza di vita delle popolazioni, che permettano agli Stati di rivolgere maggiore attenzione all’istruzione dei loro giovani. Non è quello che sta succedendo, oggi, poiché si stanno invece riducendo i bilanci destinati all’istruzione».

Mentre aumentano le spese militari. La guerra in Ucraina, è l’allarme che aveva lanciato, avrà effetti sull’inflazione aumentando le disuguaglianze e probabilmente porterà ad una profonda recessione. «E più la crisi continuerà peggio sarà». La guerra ha svelato e drammatizzato i nodi irrisolti dell’Europa. Nel campo energetico, in primis. «L’Unione – dice Fitoussi – avrebbe dovuto investire sulle energie alternative per non dipendere dalla Russia.» Dice Fitoussi. Al presente. Perché le sue lezioni resteranno in vita. Ci mancherai, caro Prof.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

·        E’ morto il calciatore Freddy Rincon.

È morto Freddy Rincon, l'ex Napoli non ce l'ha fatta dopo un incidente stradale. La Repubblica il 14 Aprile 2022.

Aveva 55 anni. È stato capitano della Colombia, ha giocato anche nel Real Madrid. Da giorni era in agonia a Cali. 

L'ex stella del calcio colombiano Freddy Rincon, già capitano della nazionale e centrocampista di Napoli e Real Madrid, è morto mercoledì a Cali dopo un incidente d'auto avvenuto due giorni prima. Lo hanno riferito i medici della clinica dove era ricoverato. Aveva 55 anni. L'ex giocatore era stato ricoverato lunedì scorso in condizioni critiche, dopo una violenta collisione tra un autobus e il furgone su cui viaggiava.

Col Corinthians campione del mondo nel 2000

Oltre alle avventure europee, Rincon ha giocato per i colombiani del Santa Fe e dell'America. È stato capitano dei brasiliani del Corinthians, vincendo la prima edizione del Mondiale per club, nel 2000. Ha fatto parte della "generazione d'oro" di giocatori colombiani che hanno portato la nazionale a partecipare a tre Coppe del mondo consecutive: 1990, 1994 e 1998.

Morto Freddy Rincon, l’ex calciatore del Napoli aveva 55 anni. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2022.

Il colombiano era rimasto vittima di un incidente d’auto a Cali lunedì 11 aprile. Le sue condizioni erano apparse subito critiche, inutile un intervento chirurgico. Giocò col Napoli di Boskov nella stagione 94/95 e fece parte della generazione d’oro del calcio colombiano anni 90. 

Freddy Rincon non ce l’ha fatta. L’ex calciatore colombiano, che ha giocato anche nel Napoli e nel Real Madrid, è morto mercoledì 13 aprile a 55 anni in seguito alle conseguenze del terribile incidente d’auto di cui era stato vittima lunedì 11 a Cali in Colombia.

L’auto di Rincon si era scontrata contro un autobus di linea e nell’impatto erano rimaste ferite altre quattro persone. Ricoverato all’Imbanaco Clinic di Cali, Rincon era apparso subito in condizioni disperate ed era stato operato d’urgenza. «La prognosi è riservata, continueremo con tutte le misure del caso — aveva informato il primo bollettino medico—. Deve essere chiaro che l’evoluzione non è favorevole, è estremamente critica». Purtroppo il quadro si è complicato ulteriormente fino alla morte dell’ex campione.

Rincon era nato a Buonaventura in Colombia il 14 agosto 1966: centrocampista d’attacco e ala dotato di grande prestanza fisica (in patria era soprannominato il «Il Colosso»), iniziata la carriera nel 1986 nell’Atlético Buenaventura, aveva poi giocato con Independiente Santa Fe, América de Cali, Palmeiras, Napoli, Real Madrid, Corinthians, Santos e Cruzeiro. Nella stagione 1994/95 al Napoli allenato da Vujadin Boskov ha giocato 28 partite e segnato sette gol: la squadra arrivò settima e si giocò fino all’ultima giornata la qualificazione in Coppa Uefa, traguardo poi fallito proprio nel rush finale. La buona stagione gli procurò la chiamata del Real Madrid dove però giocò appena 21 partite in una stagione e mezza prima di trasferirsi in Brasile, dove proseguì il resto della carriera nel 2004. 

Con la Nazionale colombiana della famosa generazione d’oro — quella di Andres Escobar (ucciso il 2 luglio 1994 a Bogotà perché considerato colpevole, per l’autorete realizzata contro gli Usa, dell’eliminazione della Colombia), Valderrama e Higuita — ha segnato 17 gol in 84 gare fra il 1990 e il 2001 e ha giocato tre Mondiali tra il 1990 e il 1998 (con un famoso gol alla Germania, a Milano, durante Italia 90).

Ha poi intrapreso la carriera di allenatore guidando Iraty, São Bento e São José: la sua ultima esperienza risaliva al 2010, come vice sulla panchina dell’Atletico Mineiro in Brasile. Nel 2015 fu indagato per riciclaggio di denaro sporco a Panama e per aver acquistato a suo nome, ma con i soldi del boss del narcotraffico Pablo Rayo Montano, diverse proprietà.

·        E’ morto l’attore Michel Bouquet.

Michel Bouquet morto a 96 anni, addio al poliedrico attore: cinema e teatro francese in lutto. Ilaria Minucci il 13/04/2022 su Notizie.it.

Michel Bouquet morto all’età di 96 anni: il poliedrico attore è stato uno dei pilastri del cinema e del teatro francese a partire dal secondo dopoguerra. 

Michel Bouquet morto all’età di 96 anni: il poliedrico attore è stato uno dei pilastri del cinema e del teatro francese a partire dal secondo dopoguerra.

Michel Bouquet morto a 96 anni: cinema e teatro francese in lutto

Nella giornata di mercoledì 13 aprile, l’attore francese Michel Bouquet è morto in un ospedale di Parigi all’età di 96 anni.

Nel corso della sua carriera, l’artista è stato diretto dai più grandi artisti della Francia, ha vinto due volte il Premio César come miglior interprete ed è stato considerato come uno dei pilastri del teatro contemporaneo. Nel 2018, poi, il presidente Emmanuel Macron aveva insignito Bouquet della gran croce della Legion d’Onore.

Michel Bouquet era nato il 6 novembre 1925 a Parigi e aveva cominciato a studiare recitazione con Maurice Escande della Comédie-Francaise quando era ancora molto giovane.

In teatro, ha debuttato alla fine della Seconda Guerra Mondiale e ha recitato per circa settanta anni, contribuendo a rendere note al pubblico francese le commedie dell’assurdodi Eugène Ionesco, Samuel Beckett e Harold Pinter.

Tra le sue più celebri interpretazioni teatrali, possono essere citate le interpretazioni dei drammi Aspettando Godot e Dinale di partita di Samuel Bechet e de Il re muore di Eugène Ionesco.

Addio al poliedrico attore che ha interpretato il pittore Auguste Renoir nel 2012

Non solo teatro, Michel Bouquet ha recitato anche al cinema, facendo la sua prima apparizione nel 1947 in Monsieur Vincent di Maurice Cloche. Inoltre, ha collaborato anche con Truffaut in La mia droga si chiama Julie nel 1969; con Jeanne Moreau in La sposa in nero nel 1968; con Claude Chabrol in Stéphane, una moglie infedele e All’ombra del delitto nel 1970 o, di nuovo negli anni ’80, in Una morte di troppo nel 1986; con Nadine Trintignant in L’uomo in basso a destra nella fotografia nel 1973.

Nel 1982, ha interpretato l’ispettore Javert in Les Misérables nella versione di Robert Hossein con Lino Ventura.

Tra le sue ultime interpretazioni, infine, può essere citata quella del pittore Auguste Renoir nel film Renoir del 2012.

·        E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.

Morta Letizia Battaglia, la fotografa testimone della lotta alla mafia. Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 13 Aprile 2022.

È morta Letizia Battaglia, la fotografa di Palermo aveva 87 anni. Il cordoglio degli sindaco Leoluca Orlando. 

Diceva di essere stanca, ma fino all’ultimo ha fotografato. Cose, strade, giovani donne. Alle quali diceva: «Combattete, combattete per qualche cosa». Letizia Battaglia è mancata a 87 anni, fiaccata forse nel fisico ma lo spirito era rimasto quello della cacciatrice di istanti. La bambina con il pallone, il corpo senza vita di Piersanti Mattarella, le storie di strada di una Sicilia mai prestata alla retorica, mai una sbavatura dall’asciuttezza della cronaca. Nata a Palermo nel 1935 Letizia Battaglia ha cominciato presto a lavorare al giornale L’Ora, unica donna tra tanti uomini. Racconterà: «Mi sono sempre sentita soltanto una persona che fotografa». Aveva capito che gli anni durissimi della sua Sicilia andavano raccontati, metaforicamente, in bianco e nero, la stessa lezione di Ferdinando Scianna. Che poi era quella di Leonardo Sciascia: partire dall’ombra per cercare la chiarezza e dunque le risposte ai tanti misteri. E Letizia Battaglia ha cercato proprio questo, risposte ai misteri di mafia, chiarezza nella condizione delle donne, a volte durissime in certi posti.

Si sposò giovanissima, si separò nello scandalo. Tre figlie, una delle quali, Shobba, ha seguito le sue orme. Tante le donne che ha fotografato e quando le chiedevano perché lei rispondeva che «le donne sanno essere consapevoli». Dunque, cercava la compiutezza nei soggetti: la bambina dei quartieri poveri e la signora che riceve in salotto hanno il medesimo sguardo pieno, rotondo, risolto. Battaglia ha lavorato tanto, conscia del suo ruolo di apripista per tante altre reporter. Ha vinto molti premi, come il Premio Eugene Smith a New York nel 1985 (prima donna europea, ex aequo con l’americana Donna Ferrato). Ha esposto in Italia, Francia, America, Canada. Inevitabile l’impegno politico: dalla co-fondazione del Centro di Documentazione Giuseppe Impastato fino all’incarico di consigliera comunale dei Verdi.

Il sindaco Leoluca Orlando la ricorda così: «Palermo perde una donna straordinaria, un punto di riferimento, un simbolo internazionalmente riconosciuto nel mondo dell’arte e una bandiera nel cammino di liberazione di Palermo dal governo della mafia». Ma il suo impegno politico è stato anche l’aver fondato riviste come Mezzocielo, realizzata da donne. O l’aver diretto il Centro Internazionale di Fotografia alla Zisa, sempre nella sua Palermo, città che proverà a lasciare per un po’, trasferendosi a Milano e Parigi, ma poi tornando, come un destino. Negli anni 80 aveva fondato il laboratorio d’If che formò tanti reporter palermitani.

Inaugurando una sua retrospettiva a Venezia, quattro anni fa, lodò Greta Thunberg e tutti i giovani che «credono in un mondo più rispettoso delle persone e della vita». E forse con queste parole ha spiegato perché le sue fotografie sono belle pur non ricercando mai, lei, «la bella immagine». Anche quando ritraggono tragedie o situazioni difficili: dietro c’è la vita, c’è una specie di respiro che non si spegne. «Fotografare alcune persone — disse allora — era anche restituire loro una dignità». E vengono in mente le immagini di Mattarella ma anche Felicia Bartolotta Impastato, che siede su un divano con, alle spalle, il ritratto del figlio ucciso dalla mafia. Letizia Battaglia ha lavorato tanto, ma la si ricorda anche per altro. I libri (come Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra impegno civile e bellezza, con Sabrina Pisu, del 2020), le conferenze, le apparizioni in tanti documentari, le iniziative di impegno civile. Forse perché aveva ben chiara una cosa, come disse una volta all’Ansa: «La fotografia è una parte di me ma non è la parte assoluta». Ha conservato così la freschezza di chi sa cogliere una casualità, un’occasione, il raggio violetto negli occhi di una bambina della Cala.

Letizia Battaglia è morta, addio alla fotografa dei delitti di mafia e delle donne di Palermo. Alessia Candito e Sara Scarafia su La Repubblica il 13 Aprile 2022.

E' stata un simbolo della rinascita di Palermo dopo la stagione delle stragi.

E' morta Letizia Battaglia, fotografa, testimone e narratrice con la sua macchina fotografica per decenni di fatti di cronaca e di mafia. Aveva 87 anni. Era malata da tempo ma nessuno credeva che avrebbe ceduto al tempo e agli acciacchi. È morta nella tarda serata di oggi. Irriverente, iconica, volutamente divisiva Letizia Battaglia ha lasciato il suo segno nella storia della fotografia, ma soprattutto di Palermo. La sua città, che ha voluto raccontare e interpretare, soprattutto attraverso la narrazione delle sue donne. È divenuta nota come fotografa di mafia: la reporter che è riuscita a strappare i primi piani ai boss e rendere iconici gli arresti. Ma è la Palermo che scorreva attorno, i volti dei quartieri, gli occhi neri della ragazza con il pallone sotto il braccio che hanno mostrato più profondamente la città di quegli anni.

Ogni scatto una storia da raccontare, un retroscena, una sorpresa. Le foto di Letizia Battaglia, scomparsa oggi all'età di 87 anni, sono state tutto questo. Hanno aperto una nuova via alla narrazione per immagini. Aveva iniziato tardi la carriera, era già quarantenne. Ma le foto in realtà erano solo lo strumento tecnico per raccontare il mondo che si palesava davanti ai suoi occhi e che lei era in grado di restituire fino all'essenza quando veniva fuori dalla camera oscura.

Morta Letizia Battaglia, tutto cominciò al L'Ora

Aveva iniziato la sua carriera nel 1969 al giornale L'Ora di Palermo. Poi a Milano, assieme al fotografo Franco Zecchin, ha creato un'agenzia di Informazione fotografica che documentò i grandi fatti di cronaca del periodo. Fu lei a fotografare per prima la scena del delitto di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980, in via Libertà a Palermo davanti all'abitazione del presidente della Regione siciliana. In quella foto un giovane Sergio Mattarella prova a estrarre dalla vettura il fratello.

Morta Letizia Battaglia, le lacrime del sindaco Orlando

Piange il sindaco Leoluca Orlando, che ricorda il terrore che avevano tutti quando entrava in giunta: "Le sue proposte erano sempre al limite della legge, sempre volte ad aiutare qualcuno ai margini. Letizia è stata una persona straordinaria che ha reso visibile quello che era invisibile". Assessora al Verde nelle giunte Orlando pentacolore ed esacolore, dal 1987 al 1990. Battaglia ha realizzato il palmeto del Foro Italico e ha rimosso le bancarelle dal lungomare di Mondello, restituendo la vista della battigia e del porticciolo. Poi deputata regionale della Rete dal 1991 al 1996.

Ma la sua vera cifra, la sua anima, è stata quella di cantrice di una Palermo irredimibile: la Palermo del sangue e della morte, delle donne costrette a un destino imposto, che non avevano scelto. Battaglia diventa fotografa a quarant'anni, reinventandosi una vita. Con la macchina fotografica si presenta al giornale L'Ora e scrive la storia del fotogiornalismo italiano. Carismatica, riesce sempre a dividere, come recentemente con la pubblicità Lamborghini: dure le polemiche scatenate per le "sue" bambine ritratte davanti alle auto in piazza Pretoria.

Morta Letizia Battaglia, la sua lotta per il riscatto delle donne

Ma a lei non importava delle polemiche. Quelle bambine e adolescenti, ritratte indifferenti al lusso, erano il racconto di una città che al netto delle lusinghe non si fa comprare. Così spiegava Letizia, arrabbiata per quelle polemiche che riteneva pretestuose. Perché alla "mia Palermo" - e quel possessivo lo premetteva sempre - aveva consacrato il racconto e l'arte del raccontare. Ed era con vivo entusiasmo che parlava delle donne che accoglieva e guidava nei workshop di fotografia al Centro sperimentale della città. Inesperte, troppo nuove al mezzo per avere una propria cifra narrativa, ma con la voglia e la rabbia che a lei piaceva. "Lo faccio gratis, lo faccio per la città", ha rivendicato fino all'ultimo, con l'orgoglio di chi ha scritto un capitolo nella storia della sua terra e della sua arte a dispetto di chi non ci credeva.

"Quando ho iniziato, nessuno mi considerava", diceva solo qualche mese fa "ma le mie fotografie rimangono, quelle di altri no". L'ultima mostra a Lubjana, con decine di scatti. "Vivo del mio lavoro", rivendicava orgogliosa. Della sua vita, del suo percorso, delle sue contraddizioni. Felice ha festeggiato l'anniversario di casa Stagnitta, proprio a ridosso del suo ultimo compleanno, rimandando ogni impegno pur di esserci. "Perché a Letizia piaceva la vita - dice chi la conosceva - e per questo sapeva catturarla con i suoi scatti". Fino alla fine.

Morta Letizia Battaglia, la figlia: "Attiva fino all'ultimo"

"È stata lucida e attiva fino alla fine". Gli ultimi momenti di vita di Letizia Battaglia sono ricordati così dalla figlia Patrizia Stagnitta. "Mia madre - dice - non si fermava mai. Malgrado le sofferenze della malattia e le difficoltà di movimento continuava ad avere tanti contatti, a partecipare a incontri anche all'estero e ad affrontare perfino lunghi viaggi. Proprio la settimana scorsa era andata a Orvieto per partecipare a un workshop. La grande voglia di vivere non le era mai passata".

Negli ultimi tempi, ricorda ancora Patrizia Stagnitta, era costretta a usare la sedia a rotelle. "Ma questo - aggiunge subito - non le impediva di prendere un aereo e rispondere alle tante chiamate e ai tanti inviti che continuava a ricevere". Fino a questa mattina Letizia Battaglia era lucida e presente. Poi c'è stato un improvviso peggioramento delle condizioni. "È accaduto tutto all'improvviso tanto che - conclude la figlia - non ci ha dato il tempo di capire che se ne stava andando".

Antonio Gnoli per “Robinson - la Repubblica” il 14 aprile 2022.

Le fotografie di Letizia Battaglia provocano su di me un effetto malinconico. È lo stesso sentimento che avverto davanti a un film neorealista di Rossellini o De Sica. Ho visitato recentemente una sua piccola mostra alla galleria "Il Cembalo" di Roma. 

Foto che parlano di bambine, di morti violente, di donne ai margini, di bassi. Tutto mi appare crudo e intenso. Come se Letizia, con il suo occhio sovrano, metta in gioco le sue ferite e i suoi tormenti. Anche adesso, che mi parla per telefono, la sua voce si riveste di una strana malinconia. 

E mi pare di vederla in quella Palermo che è tutta la sua vita.

È una grande donna ma, come tutti vive, i suoi inciampi: le angosce improvvise, le insonnie che da qualche tempo infuriano nella sua testa e le impediscono di sognare. Sta lottando contro un cancro che la spossa. Ma lei non demorde. Grinta e indignazione la spingono oltre. 

Oltre cosa? Oltre i molti luoghi comuni che ha ribaltato: sulla mafia, sulle donne, sugli uomini, sulla Sicilia e in particolare su quella Palermo da cui non può prescindere: «L'amo al punto che se dovesse sparire la piangerei come la più cara delle persone perdute». Mi dice con accorata convinzione. 

Hai accettato di parlarmi nonostante tu non stia bene. Posso chiederti cosa stavi facendo?

«Ma che domanda strana. Pensavi fossi a letto. Sono spesso a letto. Ma prima di parlarti stavo guardando le foto che ho scattato e che scelgo per aggiungerle al mio archivio».

Come le scegli?

«Non me ne frega più di tanto se sono belle, brutte, carine o modeste. Non è questo il criterio. Voglio lasciare delle foto che raccontino di me, non di Gina Lollobrigida o di Leoluca Bagarella. Perché puoi fotografare le mafie o gli artisti di tutto il mondo, ma alla fine è il mio mondo che accoglie e fissa gli altri mondi». 

Si chiama empatia.

«È quella che provo un attimo prima di scattare. Mi innamoro non del mio sguardo ma di ciò che il mio sguardo in quel momento accoglie».

Ma puoi innamorarti del male? Molte tue foto parlano di miseria, di morti violente, di soprusi.

«Non mi potrei mai innamorare del male. Quando ho fotografato Bagarella ricevetti un calcio. Un messaggio di disprezzo e violenza. Tu, donna, come ti permetti, sembrava volermi dire. Ma le mie foto non esaltano il male, lo raccontano attraverso la bellezza. 

Per me la disperazione è bellezza, la sconfitta è bellezza, la cattiva sorte è bellezza.

Sono andata avanti tutta la vita con questi strumenti del cuore e della mente. Quando fotografo non faccio progetti. Non faccio estetica come Mappletorphe o Salgado. Seguo il mio cuore e la mia testa». 

Ma hai dei fotografi ai quali ti senti più legata?

«Certo. Il più vicino di tutti è Josef Koudelka. Fu lui a cercarmi la prima volta. Veniva a Palermo, sapeva del mio lavoro ed era curioso di conoscermi. Diventammo subito amici. E quando era a Palermo veniva ospite da me. La sua presenza era una festa. 

Era emozionante vederlo fotografare. Stava fermo per dei minuti e poi scattava. Il suo segreto era la capacità di annullare il tempo fisico. Vederlo lavorare mi è servito tantissimo. Poteva perfino far passare un anno prima di sviluppare i suoi rullini. Gli chiesi perché impiegasse tutto questo tempo.

Mi rispose che quello era il tempo giusto per distaccarsi dall'emozione. E io ridendo gli dissi: Josef, mi sa tanto che io la vita l'afferro e tu la controlli. È stato un maestro, ma come tutti i grandi maestri, del tutto involontario. Non c'era in lui nessuna pretesa di volerti insegnare il mestiere. 

Lo dici come se le scuole siano inutili.

«Sono autodidatta. Ho imparato a fotografare di istinto e perché a un certo punto ho pensato che la fotografia fosse una lingua con cui potevo comunicare. Ma ho cominciato tardi, avevo quasi quarant' anni». 

Prima che facevi?

«La donna di casa, la madre di famiglia, la moglie sottomessa. Mi sono sposata che avevo sedici anni. La classica fuga e poi le nozze riparatrici. La prima figlia a diciassette anni. Amavo il mio uomo. Ero giovane e avevo perso la testa per lui».

Lui chi?

«Un uomo facoltoso, produceva e commerciava caffè. Forse pensava che io fossi come quei sacchi di juta che conservava gelosamente nei suoi magazzini. Insomma un oggetto che allietasse il suo ambiente. 

A un certo punto scattò in me una vera insofferenza. Più provava a riempirmi di regali costosi e più io sbroccavo. Stavo male al punto che decisi un bel giorno di partire per Mestre con le tre figlie. Raggiungevo i miei. Papà era un marittimo e si spostava nei vari porti italiani. Poi ci fu la ricomposizione e di nuovo le sue ossessioni. Volevo studiare, frequentare gente interessante. Alla fine mi ammalai di brutto. Soffrivo di crisi di panico e di depressione. Mescolavo whisky e valium. Stavo letteralmente a pezzi».

A quel punto cosa accadde?

«I medici decretarono che avevo un esaurimento nervoso. Mi spedirono in una clinica Svizzera per una cura del sonno. Dormii di filata per quattordici giorni! Poi suggerirono una clinica palermitana dove curare, dicevano, i miei nervi. Mi rifiutai e la fortuna ha voluto che incontrassi una persona strepitosa: Francesco Corrao, uno psicoanalista freudiano che mi tenne in analisi per tre anni».

E tutti questi ribaltamenti come ti hanno condotto alle fotografia?

«Se avessi potuto avrei fatto la scrittrice». 

Scusa cosa te lo ha impedito?

«Scrivere richiede un esercizio e una disciplina che non mi potevo permettere. La fotografia, no. La fotografia è impulso, decisione e immaginazione. Ti ho detto che ho iniziato tardi.

Mi presentai all'Ora di Palermo, era l'estate del 1969. Per questo glorioso giornale feci la prima foto». 

Il soggetto qual era?

«Fotografai una prostituta di Palermo. Una donna bellissima, per niente sfregiata dalla vita che faceva. Ma a sfregiarla fu altro. Era stata coinvolta nell'omicidio di un'altra prostituta. Di qui il valore di cronaca che la sua immagine aveva per il giornale. Ho lavorato duramente per alcuni anni.

Poi complice una persona che mi stava a cuore mi sono trasferita a Milano. È stata una città importante per me. Per le persone che vi ho conosciuto, per il lavoro svolto. E poi perché per la prima volta mi sono sentita libera, una donna senza più costrizioni». 

Il che non ti ha impedito di tornare a Palermo.

«Ho provato varie volte ad andarmene definitivamente da quella città. Ma ogni volta che, per qualche ragione, fuggivo c'era una ragione più forte che mi diceva di tornare». 

Che cos' è che ti lega esattamente a Palermo?

«Non lo so, non lo so davvero. Non mi sono mancate le occasioni per decidere di andare a vivere a Londra, Parigi o New York. Ma alla fine io sono me stessa solo riconoscendomi negli odori, nei gesti, nelle voci, negli angoli della mia città. Mi piace così slabbrata, decadente, povera. Non ne faccio l'elogio da snob, perché è un pensiero e un atteggiamento che non mi appartengono. È che sono gelosa della mia città, morbosamente attaccata e non so spiegarmelo se non epidermicamente». 

Non ti sembra che vada posto un limite alla sua caduta?

«È stato fatto, a volte con risultati interessanti. Penso che il futuro di una città, di un paese sia nelle mani di chi li vive, di chi vi soffre e di chi vi gioisce. Occorre l'impegno e io penso di essermi impegnata. Ho cercato di restituire quello che la città mi aveva dato».

Lo hai fatto in tanti modi. Ma quello che più ti corrisponde è la fotografia. Penso al tuo lavoro sulla mafia.

«Sì, ma non devi pensare a qualcosa di neutro, di semplicemente documentale. Ho avuto un anno particolarmente orribile, il 1992. Fu una sequenza di morti. Dagli amici più cari alle persone di riferimento come mia madre e Corrao che mi aveva tenuto in cura come fosse un padre. Si era anche chiusa una storia d'amore per me importante. E in quell'anno ci fu la morte di Falcone e Borsellino. Ero talmente infelice che volevo isolarmi da tutto e tutti. Scelsi di andare in Groenlandia. Volevo un deserto di ghiaccio e di freddo. Arrivai a Copenaghen. Ero sfinita, dormii in terra all'aeroporto e la mattina seguente partii per una cittadina di cui non ricordo il nome. Sbarcai. Mi sembrava una di quei non luoghi, nei quali ogni cosa ti è indifferente». 

E cosa facesti?

«Andai a mangiare. Il freddo, il fatto che erano due giorni che praticamente non toccavo cibo mi spinsero verso un locale con delle insegne, su una c'era scritto "Pizza". Entrai e, quando mi portarono la lista dei cibi, non ci potevo credere. Tra le varie versioni di pizza c'era "pizza mafia"! Io volevo dimenticare e allontanarmi dallo schifo e lì per puro luogo comune associavano la pizza italiana a un fenomeno criminale». 

Tu la mafia l'hai combattuta con i tuoi mezzi. E la mafia come ha reagito?

«A un certo punto mi volevano dare la scorta. Ma non l'ho voluta. Ho pensato se ti vogliono ammazzare lo fanno. Tanto vale non coinvolgere gli altri. Ho sofferto per coloro che sono morti per mano mafiosa, da Boris Giuliano ai tanti che hanno disseminato di sangue la mia terra. Ho pianto, ho imprecato e ho documentato le carneficine e gli omicidi. A volte penso alla mia infanzia e al fatto che la mafia non c'era, ma c'era la guerra e c'erano le bombe. Come oggi in Ucraina. Noi, intendo la mia famiglia e io, eravamo a Trieste. Ma non ci volevano e siamo tornati nel 1945 a Palermo, su un carro bestiame. Non ho avuto una vita semplice».

La tua vita è stata per certi versi incredibile.

«Lo so, ma solo in parte è dipeso da me. Se fossi nata a Bergamo o nella provincia del Nord molto probabilmente non sarei stata la persona che sono diventata. Siamo il risultato della casualità e del desiderio di trovare il nostro sé. Mi è sempre piaciuta la cultura. Ho letto tanto anche per curiosità e per non sentirmi spiazzata. Ho conosciuto Pound a Venezia, ho letto l'Ulisse di Joyce, ho fotografato Pasolini. Ho avuto dei maestri che ho chiamati "invisibili"».

Perché?

«Non sapevano di esserlo, non sapevano tutto quello che mi stavano dando. Ora lasciami in pace, non ho più fiato. Ho diminuito le sigarette, prima ne fumavo sessanta, ma non basta. Devo scendere di più, devo smettere. Faccio fatica a respirare. Sono stata spregiudicata, provocatoria, ma vera.  E ho sempre saputo che la gente mi perdonava tutto. Vorrei che le ragazze che mi cercano non amassero solo la fotografia, ma quello che c'è dietro. Ora quando esco mi spingono con una carrozzella. Ma la cosa che mi fa piacere è che la gente vede me e non la protesi su cui siedo. Ho un cancro e certe notti sento che il mio subconscio si ribella. Ho paura e accendo le candele e provo a dormire. Riesco a farlo per due ore. I sonniferi non mi fanno niente. E allora mi è difficile recuperare le forze nella giornata. Devo vigilare sulle mie paure, sulla mia insonnia. Lo so è difficile per una vecchia di 87 anni. Ma se penso a quello che ho fatto, ecco improvvisamente sento che la mia vita è valsa la pena di viverla»

"Mescolarsi al mondo con un clic". L'anima inquieta di Letizia Battaglia. La sua città, che ha voluto raccontare soprattutto attraverso la narrazione delle sue donne, la lotta sociale per affermarsi come professionista, la mafia sanguinaria. Tutto questo è racchiuso negli splendidi scatti della fotografa palermitana. Laura Lipari il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.  

"Ho paura che quando io non ci sarò più i miei negativi vengano trovati a terra, che vengano schiacciati. Sogno spesso che volino per aria". Letizia Battaglia è stata non solo fotografa ma anche testimone e narratrice di avvenimenti storici, spesso tragici. Con i suoi scatti ha saputo raccontare e allo stesso tempo rivendicare le figure che avrebbero dovuto essere tutelate, ma che spesso venivano dimenticate: le donne e i bambini.

Le sue rivoluzioni

Letizia Battaglia nasce a Palermo il 5 marzo 1935 e inizia la sua carriera nel 1969 come collaboratrice del giornale L'Ora. Il 1971 è un anno di cambiamenti in ogni aspetto della sua vita: per la prima volta Battaglia lascia la sua amata Palermo e si reca a Milano assieme alle due figlie. Lì visita varie redazioni per proporre i suoi articoli ma la risposta che riceve è sempre uguale: senza fotografie non si fa niente. Non si dà per vinta, inizia a scattare con una piccola macchinetta da autodidatta e scopre la sua vera grande passione. Prima di quella rivelazione era solo “un’anima inquieta”. Sono infatti proprio i suoi scatti a darle una seconda chance, con essi si sente rinata e compresa, soprattutto da se stessa.

Seguono anni di crescita personale e formativa, incontra le personalità più carismatiche di quei tempi come Pasolini e Fo con cui inizia alcune collaborazioni. Nel 1974 ritorna a Palermo. È felice di essere nuovamente nella sua terra e poterla raccontare finalmente dal suo punto di vista. Ormai ha tutte le facoltà per farlo. Qui crea con il fotografo e compagno, Franco Zecchin, l'agenzia "Informazione fotografica" frequentata da Josef Koudelka e Ferdinando Scianna. Dal 1974 comincia a documentare la carneficina della sua città, oltre mille morti nella guerra tra clan. C'è solo un problema: è una donna e dunque, secondo la mentalità di allora, il sesso debole, da proteggere di fronte agli orrori della violenza. "Non mi facevano passare per fotografare. L'unico a concedermelo fu Boris Giuliano, da allora tutti mi diedero il permesso". 

La tragedia però non è l'unica protagonista dei suoi scatti: ama fotografare le donne, i bambini, i riti, le tradizioni, i vicoli. Negli anni '80 crea il "Laboratorio d'If" dove si formano fotografi e fotoreporter, un'innovazione per quei tempi. Ma le rivoluzioni non finiscono qua, perché nel 1985 è la prima donna europea a ricevere il premio Eugene Smith a New York. “Con questo premio è cambiata la concezione che avevo di me perché prima di allora nessuno mi aveva lodata. Questa svolta mi ha dato la carica per continuare”.

I corpi delle donne e i volti delle bambine

Non oggetto di desiderio sessuale ma arma per un riscatto sociale. Così Letizia ha sempre concepito il corpo delle donne che fotografa rigorosamente nude. Non è solita farle mettere in posa, il suo intento non è quello di compiacere ma di rivelare. “Ai miei tempi nessuno avrebbe accettato di farsi fotografare senza vestiti, oggi invece vengono da me e me lo chiedono. Trovo che questo sia molto bello”. Il corpo come lotta per l'emancipazione e di rivendicazione, simbolo anche di un cambiamento generazionale. Niente di perfetto, come non lo erano tecnicamente i suoi scatti, ma piuttosto un'interpretazione della forza e della debolezza dell’essere umano.

"Tutta la mia vita fa riferimento a una scena: ero piccola e un uomo mi si palesa e comincia a masturbarsi. Io non sapevo nulla del sesso. Ero come le altre bambine che sognavano l'amore e di essere principesse. Da quel momento persi l'idea di libertà per sempre". Non appena accaduto il fatto, corre a dirlo ai suoi genitori, è spaventata e confusa, non ha capito il senso di quel gesto. A quelle dichiarazioni il padre reagisce in un modo che la segnerà per tutta la vita: la chiude all'interno di una stanza e lì, reclusa, Letizia sogna per la prima volta di evadere. Talmente è forte questo suo desiderio da spingerla a sposarsi a 16 anni, ma questo episodio non fa che peggiorare la situazione.

Il matrimonio è un inferno, non si sente adeguata a fare la moglie e la mamma. L'unico spiraglio di luce lo vede dopo molti anni con la sua prima macchina fotografica, l'unico oggetto che le permette di andare oltre e altrove. "Con questa cosuccia ho impostato una vita mia, felice e libera, indipendente. Posso esprimermi e raccontare il mondo e me stessa. È stata una fortuna incontrarla". L'episodio di molestia ha scattato in lei un duplice scopo: quello di fuggire via rimanendo ancorata alle realtà più disumane di Palermo e quello di salvare le "sue bambine". I volti innocenti fanno spesso parte dei suoi ritratti, in loro vede se stessa e quell'ingenuità rubata. 

La Città

“La Città di Palermo l’ho amata e odiata: la mia Palermo fa puzza e questo mi piace molto – aveva dichiarato la fotografa durante un’intervista - È la Palermo che io amo, quella del centro storico: quella dei quartieri 'bene' non mi interessa, non ci vado, non ho amici da quelle parti. Palermo puzza splendidamente, è il motivo per cui non riesco a lasciare questa città: la sua potente decadenza che tenta di rialzarsi continuamente”.

In diciannove anni Letizia Battaglia racconta il bello e il brutto, la miseria e lo splendore di Palermo. Nel tempo molte personalità hanno cercato di estrapolare l'oro dalla ristrettezza, soprattutto nei tempi più difficili legati a una mafia senza scrupoli. Alcune di queste però hanno ceduto arrendendosi e sono andate via. Troppe cose non andavano e non vanno tutt'oggi. Lei invece è rimasta fino alla fine dei suoi giorni, ancorata a una terra che fa male quando colpisce ma che sa regalare meraviglie quando la si guarda da un punto di vista differente.

I luoghi del sangue

Un appellativo che ha mal sopportato durante tutta la sua vita è stato quello di “Fotografa della Mafia”. Nonostante la crudeltà di Cosa Nostra sia sempre stata in primo piano tra i suoi scatti, darle un'importanza che non meritava non è mai stata la sua priorità. Lo era invece combatterla scuotendo la coscienza della gente. La sua era una cronaca da raccontare quanto fosse velenosa, quanto dolore provocasse e quanto fosse insediata tra le piccole e grandi realtà.

Nel 1979 riesce ad avvicinarsi a Leoluca Bagarella, soprannominato “Don Luchino”, affiliato al Clan dei Corleonesi e artefice di molti omicidi tra cui quello di Boris Giuliano. Durante il suo arresto lei è in prima fila e si trova faccia a faccia con un uomo dagli occhi di ghiaccio. Sfrutta il momento e scatta un'unica foto nel momento esatto in cui il mafioso sta per uscire dalla questura scortato dai carabinieri. Un attimo dopo Letizia si trova a terra dopo aver ricevuto un calcio violento dal Bagarella infastidito. Lei ruzzola a terra, ma lo scatto è salvo.

Tra le sue opere più celebri c’è senza dubbio quello che ritrae la scena straziante di un giovane Sergio Mattarella mentre cerca di tirare fuori dall’auto il cadavere del fratello, Piersanti, trivellato dai colpi della mafia il 6 gennaio 1980. È un caso che lei si trovi poco distante dal luogo della tragedia. In quel momento è lì con la sua inseparabile macchina fotografica e non ci pensa due volte a far partire quel click che ha permesso di imprimere per sempre questo momento.

Quando viene a sapere della morte di Giovanni Falcone invece non vuole andare sul luogo della strage. Il sentimento di riconoscenza che lei ha nei confronti del giudice è troppo forte per recarsi tra le macerie. La stessa accade dopo che i giornali cominciano a parlare della morte di Paolo Borsellino. Letizia si trova lì, sul luogo della tragedia, ha la macchina in mano, è come bloccata. Del corpo smembrato del magistrato è rimasto ben poco e non è giusto per lei ricordarlo così, le sembra un'ennesima violenza. Da quel giorno finisce di fotografare l’orrore, troppo dolore per lei. 

Letizia Battaglia muore il 13 aprile del 2022 a 87 anni. Nelle ultime interviste, con i suoi capelli rosa, era consapevole che il suo corpo stava cedendo come un soldato che è stato per troppi anni in guerra e adesso chiede solo il riposo. La sua mente, però, è rimasta lucida fino alla fine e il suo pensiero andava sempre alle sue fotografie. La sua preghiera costante era quella di averne rispetto anche dopo la sua morte, perché racchiudono una parte di lei, la sua anima. “Non basta avere una macchina fotografica, dietro la macchina fotografia ci sei tu, e tu, con tutta la tua ricchezza che hai dentro, ti mescoli al mondo con un semplice click”.

Morta Letizia Battaglia, la fotografa della lotta alla mafia. Sarà cremata a Cosenza. Il Quotidiano del Sud il 14 aprile 2022.

Letizia Battaglia, che tanto amava il mare di Palermo, tornerà in mare dopo la cremazione. È stata lei stessa a chiederlo alle figlie Shobba e Patrizia prima di morire.

La notizia della cremazione si è diffusa nella camera ardente allestita nell’atrio di Palazzo delle Aquile dove il feretro è stato accolto dal sindaco Leoluca Orlando. Accanto alla bara è esposta la foto della bambina con il pallone che Letizia Battaglia ha rintracciato e abbracciato dopo 38 anni.

Domani mattina i resti delle fotoreporter saranno trasferiti a Cosenza per la cremazione. Saranno le figlie a riportare le ceneri a Palermo perché siano disperse in mare, secondo le volontà della madre. Letizia Battaglia se n’è andata pochi giorni prima che la sua storia irrequieta, interpretata da Isabella Ragonese e raccontata in una fiction di Roberto Andò, venisse trasmessa dalla Rai. Letizia Battaglia, 87 anni, ha lottato fino all’ultimo contro la malattia e le sofferenze fisiche. Non si era mai fermata tanto che la settimana scorsa aveva partecipato a Orvieto a un workshop di fotografia. E preparava altri viaggi anche all’estero per rispondere ai tanti inviti che ancora riceveva da ogni parte del mondo. Il suo rapporto con la fotografia era cominciato tardi, nel 1971.

La svolta della sua vita arrivò nel 1974. Rispose all’invito del direttore del giornale L’Ora, Vittorio Nisticò, e presto diventò una testimone della grande cronaca di Palermo e della Sicilia. Per contratto dovette riprendere i morti ammazzati, le mogli delle vittime e le sorelle disperate, le stragi. Le foto di Letizia Battaglia erano icone drammatiche e simboliche delle vicende di mafia. Ma lo erano anche quelle che riprendevano i boss imputati nel maxiprocesso, Giovanni Falcone che raccoglieva le rivelazioni di Tommaso Buscetta, la figura di Giulio Andreotti accusato di avere avuto rapporti con Cosa nostra.

Lo scatto più drammatico e più evocativo è quello che riprende Sergio Mattarella mentre cerca di soccorrere il fratello Piersanti abbattuto dai sicari della mafia. L’archivio di Letizia Battaglia è diventato così una immensa galleria di personaggi ma anche un giacimento di memoria e di quella che Andò ha chiamato la “liturgia struggente” dell’Apocalisse palermitana. 

Malata da tempo, aveva 87 anni ma continuava a viaggiare. E’ morta Letizia Battaglia, la fotoreporter che ha raccontato la sua Palermo: dalla mafia agli scatti a donne e bambini. Redazione su Il Riformista il 14 Aprile 2022.

A quasi 35 anni ha deciso di fare la fotografa, iniziando a raccontare i grandi fatti di cronaca, a partire dall’ascesa della mafia in Sicilia e dando in là a una fervente attività professionale che l’ha portata a girare l’Italia fino alla scorsa settimana, nonostante fosse costretta negli ultimi tempi su una sedia a rotelle. Letizia Battaglia si è spenta all’età di 87 anni n seguito ad alcuni problemi di salute dei quali era affetta da tempo. Ad annunciare la sua scomparsa, nella tarda serata di mercoledì 13 aprile, il sindaco del capoluogo siciliano Leoluca Orlando.

Aveva tre figlie avute dal suo primo matrimonio: Cinzia, Shobha e Patrizia Stagnitta. E’ stata la prima donna europea a ricevere nel 1985, ex aequo con l’americana Donna Ferrato, il Premio Eugene Smith, a New York, riconoscimento internazionale istituito per ricordare il fotografo di Life.

Icona antimafia a livello mondiale, Letizia Battaglia ha iniziato la sua carriera nel 1969 al giornale L’Ora di Palermo. Poi a Milano, insieme al fotografo Franco Zecchin, ha creato un’agenzia di Informazione fotografica che documentò i grandi fatti di cronaca del periodo. Fu lei a fotografare per prima la scena del delitto di Piersanti Mattarella, ucciso dalla mafia il 6 gennaio del 1980, in via Libertà a Palermo davanti all’abitazione del presidente della Regione Siciliana, immortalando un giovanissimo Sergio Mattarella in soccorso del fratello.

Negli anni 80 fu fondatrice del laboratorio d’If dove si formarono i fotoreporter palermitani Mike Palazzotto, Salvatore Fundarotto e la stessa figlia della fotografa Shobha, anch’essa nota fotoreporter palermitana. “Palermo perde una donna straordinaria, un punto di riferimento. Letizia Battaglia era un simbolo internazionalmente riconosciuto nel mondo dell’arte, una bandiera nel cammino di liberazione della città di Palermo dal governo della mafia”. Cosi’ il sindaco Orlando commenta la scomparsa della fotoreporter, che fu anche assessore comunale in una delle sue giunte. “In questo momento di profondo dolore e sconforto – aggiunge il sindaco – esprimo tutta la mia vicinanza alla sua famiglia”. 

“E’ stata lucida e attiva fino alla fine” ha ricordato la figlia Patrizia Stagnitta. “Mia madre non si fermava mai. Malgrado le sofferenze della malattia e le difficoltà di movimento, negli ultimi tempi era costretta a usare la sedia a rotelle, continuava ad avere tanti contatti, a partecipare a incontri anche all’estero e ad affrontare perfino lunghi viaggi. Proprio la settimana scorsa era andata a Orvieto per partecipare a un workshop. La grande voglia di vivere non le era mai passata”.

Le precarie condizioni fisiche non le impedivano di “prendere un aereo e rispondere alle tante chiamate e ai tanti inviti che continuava a ricevere“. Il peggioramento delle condizioni di salute è avvenuto nella mattinata di mercoledì 13 aprile: “E’ accaduto tutto all’improvviso tanto che non ci ha dato il tempo di capire che se ne stava andando”.

Letizia Battaglia si è spenta poche settimane prima che la sua storia, interpretata da Isabella Ragonese e raccontata in una fiction di Roberto Andò, venisse trasmessa dalla Rai. 

Lascia un archivio fotografico inestimabile. Ma- come spesso precisato da lei – non è solo “la fotografa della mafia”. I suoi scatti si prefiggono di raccontare soprattutto Palermo nella sua miseria e nel suo splendore, i suoi morti di mafia ma anche le sue tradizioni, gli sguardi dei bambini e delle donne, i quartieri, le strade, le feste e i lutti, la vita quotidiana e i volti del potere di una città dalle mille contraddizioni.

Racconta inoltre l’egemonia del clan dei Corleonesi. Sono suoi gli scatti all’hotel Zagarella che ritraggono gli esattori mafiosi Salvo insieme a Giulio Andreotti e che furono acquisiti agli atti per il processo. Nel 1980 un suo scatto della “bambina con il pallone“ nel quartiere palermitano della Cala fa il giro del mondo. 

È morta a 87 anni. Chi era Letizia Battaglia, la prima fotografa (“contro la mafia”) a lavorare in un giornale italiano. Antonio Lamorte su Il Riformista il 14 Aprile 2022.  

Sua la foto di Piersanti Mattarella ucciso in auto davanti alla famiglia, sua quella della bambina con il pallone e di quella con il pane, il bambino con la pistola in mano e il volto coperto. Letizia Battaglia è stata la prima donna a lavorare come fotografa per un giornale italiano. “Fotografa di mafia”, la definivano. “Fotografa contro la mafia”, si definiva lei. Lei, con i suoi scatti, è entrata nell’immaginario collettivo. Nota come le sue foto, un modello da seguire, una reporter pop. È morta a 87 anni, era malata da tempo.

Era nata a Palermo nel 1935. Con il quotidiano L’Ora è diventata la prima donna fotoreporter a lavorare per un giornale. Unica donna in mezzo a tanti uomini. “Mi sono sempre sentita soltanto una persona che fotografa”. La sua carriera iniziò alla fine degli anni Sessanta. Ha raccontato gli anni più bui della mafia e delle faide in Sicilia. In bianco e nero. Fotografie che erano anche racconto delle condizioni di vita spesso degradate delle famiglie e dei bambini siciliani.

Sposata giovanissima, separata nello scandalo, ha avuto tre figlie, una delle quali ha seguito le sue orme, Shobba. La sua fotografia più famosa: quella del corpo senza vita di Piersanti Mattarella, governatore della Sicilia ucciso dalla mafia nel 1980, soccorso dal fratello Sergio Mattarella, attuale Presidente della Repubblica. Battaglia avrebbe raccontato in seguito di essere arrivata sul posto per caso e di essere stata la prima a fotografare la scena, quando il presidente della Regione era ancora in vita. Decise di smettere di fotografare fatti di mafia nel 1992, dopo l’uccisione del magistrato Giovanni Falcone nel terribile attentato di Capaci.

Battaglia era nota in tutto il mondo. È stata la prima donna europea a ricevere a New York il premio americano Eugene Smith nel 1985, intitolato al celebre fotografo della rivista Life. Dopo alcuni anni a Milano aveva fondato l’agenzia Informazione Fotografica. Ha diretto la rivista fatta solo da donne Mezzocielo e il Centro Internazionale di Fotografia alla Zisa, aprì il Laboratorio d’If, luogo di formazione per giovani fotografi palermitani, e contribuì all’apertura del centro di documentazione Giuseppe Impastato a Palermo. Divenne anche assessore a Palermo tra il 1985 e il 1990. La sua ultima mostra a Roma, Vintage Prints, si era chiusa sabato scorso.

“Palermo perde una donna straordinaria, un punto di riferimento, un simbolo internazionalmente riconosciuto nel mondo dell’arte e una bandiera nel cammino di liberazione di Palermo dal governo della mafia”, ha dichiarato il sindaco di Palermo dando la notizia della morte. Ha pubblicato anche un libro nel 2020 Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra impegno civile e bellezza, con Sabrina Pisu, e partecipato a numerose iniziative e documentari. “La fotografia è una parte di me ma non è la parte assoluta”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Giada Lo Porto per repubblica.it il 21 novembre 2020. Polemica sulle foto di Letizia Battaglia per Lamborghini con due bambine ritratte per sponsorizzare il marchio. Sui social fioccano i commenti di indignazione per l'accostamento "imbarazzante" tra bimbe a auto, dopo che la stessa fotografa ha rilanciato gli scatti sul suo profilo Facebook. Il sindaco di Palermo Leoluca Orlando si discosta dalla campagna: "Il Comune non ha mai autorizzato la campagna della Lamborghini presente sui social con modalità che non condividiamo". E chiede alla società di sospenderla immediatamente. "La società - spiega il sindaco - ha presentato una richiesta per realizzare un grande progetto fotografico a finalità culturale. Ma di questo progetto non ha mai fornito i dettagli, che abbiamo scoperto solo dopo l'avvio della campagna pubblicitaria". Letizia Battaglia dal canto suo replica dicendo che "per me Palermo é bambina e lo sguardo innocente di una persona che cresce". Lamborghini commenta: "Quando abbiamo deciso di coinvolgere Letizia Battaglia eravamo consapevoli della potenza delle sue immagini. Chi la conosce sa che i suoi soggetti sono incentrati sui ritratti di giovani figure femminili che per lei rappresentano una visione di sogno e di speranza". Protesta anche il presidente dell'associazione italiana dei pubblicitari Vicky Gitto, mentre un gruppo informale che vede unirsi operatori della cultura e gruppi femministi di Palermo ha scritto una lettera aperta a Letizia Battaglia. In serata la casa automobilistica ha rimosso dai social network le immagini contestate.

Lei cercava la bellezza, i moralisti l’hanno linciata. Letizia Battaglia dalla bimba col pallone alla pubblicità Lamborghini: arte confusa con pedofilia. Angela Azzaro su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Letizia Battaglia era la più grande. Era unica. Ha raccontato l’Italia: l’uccisione di Piersanti Mattarella, la bimba con il pallone, la lotta alla mafia. Non basta ricordare i suoi scatti, perché la sua stessa vita era una poesia, un ritratto di signora: libera, acuta, seducente, geniale. Eppure anche una così grande, una che ci ha regalato le immagini-icona che sono entrate a far parte del nostro album personale, come se a scattarle fossimo state noi, anche una come lei al di sopra di qualsiasi critica, è stata travolta dalle polemiche. Nel 2020 invece di parlare della sua grandezza, Letizia Battaglia è diventata trend topic sui social a causa della campagna pubblicitaria della Lamborghini. Gli scatti erano suoi. La città era Palermo. E accanto alle auto, in maniera irriverente, aveva fotografo delle ragazze giovanissime in pantaloncini.

Lo sguardo libero, autonomo, fuori dagli schemi. Ma questo lo diciamo noi. Questo lo abbiamo visto noi. Perché l’opinione pubblica ci ha visto lo sfruttamento dell’immagine femminile, quasi un invito alla pedofilia. Uno scandalo. Che ha costretto Letizia Battaglia e la Lamborghini a fare marcia indietro e a ritirare la campagna. Uno smacco. Una torsione moralista che non ha risparmiato neanche un’artista come lei. Perché questo è il punto: lo sguardo con cui si osservano i soggetti. La forza di Letizia Battaglia era quella di far trasparire la forza e l’unicità di chi inquadrava. Non li rendeva oggetti, ma faceva risaltare la loro individualità. Invece il moralismo, che da anni ci sta travolgendo e annoiando, ha contestato anche la sua arte, ha messo in discussione il suo sguardo. Il problema era la giovane età delle ragazze e il fatto che portassero abiti succinti.

Quanta confusione nel cielo dei perbenisti?! A forza di linciare, non si sa più neanche perché si lincia e si confondono le battaglie, gli ideali, i linguaggi. Il problema non è, o meglio non dovrebbe mai essere, l’esibizione dei corpi ma il modo in cui questa esibizione viene fatta. Lo sguardo. Il modo con cui si racconta. Invece la sacrosanta critica al fatto che in certo cinema mainstream, mentre non si mostra mai il pube dell’uomo, si buttino in scena i nudi delle donne, ha portato banalmente all’epurazione di queste immagini. e non si tratta di creare una sorta di parità tra i corpi maschili e femminili, ma di cambiare radicalmente il modo di guardarli, di rappresentarli. Ma non di censurarli, arrivando all’assurdo che il nudo è sinonimo di violenza, come se ci fosse qualcosa di male nel mostrare un corpo. Sono lontani gli anni in cui i movimenti di liberazione quella nudità la esibivano, la rivendicavano, la mettevano in mostra.

Ma come si fa a cambiare sguardo, come si cambia la narrazione? Intanto impariamo da un’artista come Letizia Battaglia. Prendiamo la sua celebre foto, la bambina con il pallone. Vediamola assieme. Secondo il semiologo Roland Barthes, nel suo celebre saggio La Camera chiara, ogni foto ha due livelli. Lo studium che appartiene al fotografo. È la struttura che lui ha voluto dare alla rappresentazione. Il modo in cui ha voluto costruire quel frame. Poi c’è il punctum. Qualcosa che si indica con il dito, un punto che il soggetto che guarda riconosce come pregnante, come ciò che quella immagine gli comunica. Qualcosa che è personale, suo. E che a volte si può solo indicare, perché rientra nella sfera dell’indicibile, di ciò che non si può spiegare razionalmente. Nell’immagine della bimba con il pallone io rivedo, per esempio, la mia passione, quando avevo la stessa età, per il calcio, quando per le ragazzine non esistevano ancora i club ufficiali e la strada era l’unico luogo che potesse accoglierci. La faccia arrabbiata, il corpo scattante di chi non vede l’ora di tirare di nuovo un calcio al pallone.

Credo che poche immagini come questa racchiudano il senso della libertà fuori dagli schemi, quegli schemi che costruiscono il genere e che fin da bambine ci piombano addosso come gabbie. Letizia Battaglia rompe la gabbia, spezza le catene, libera il desiderio e le identità. Ecco come si fa a cambiare lo sguardo. Cambiamento che Battaglia interpretava anche quando ha fatto la pubblicità Lamborghini. Non c’era alcuna volontà oggettivizzante e lo sguardo delle protagoniste degli scatti è sempre quello di chi vuol farsi valere, di chi non si vuol far giudicare. Invece questa società sempre più moralista ha giudicato Battaglia. E l’ultima volta in cui si è parlato ampiamente di lei sui giornali, prima della sua morte, è stato per accusarla di ciò che non le apparteneva per nulla: svilire l’immagine delle giovani donne. Lei che più di ogni altra ci aveva restituito libertà, forza, autonomia. In scatti che restano, mentre il moralismo, si spera, sparirà.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

L'artista che si inventò fotografa. Letizia Battaglia, se ne va a 87 anni la reporter della foto a Mattarella. Fulvio Abbate su Il Riformista il 15 Aprile 2022. 

Di Letizia, mi piace ricordare il grande senso dell’amicizia, fuori d’ogni retorica, liberandola anche dalla corona di spine da “Pasionaria” palermitana che, insieme all’Oscar per la fotografia, le è stato assegnato nel tempo. Letizia, oltre la leggenda pubblica e perfino il racconto professionale, Letizia che per bisogno, per fuga, si “inventa” fotografa. Raccontava infatti che avrebbe voluto essere scrittrice; la vita ha invece voluto che dovesse corredare i suoi primi e unici articoli con le immagini.

Eccola nel mio ricordo a Palermo, lo splendore del 1976, il notturno inoltrato sotto i Quattro Canti, le statue delle sante cittadine e dei re spagnoli, in quell’esatto istante del tempo, c’è Letizia sul “Motom” rosso del suo compagno di quei giorni, Franco Zecchin, reduce da una fluviale riunione di una rivista letteraria, ordita dallo scrittore del Gruppo 63, Gaetano Testa, intento a dimostrare che “il sottoproletariato dello Spasimo è l’avanguardia della cultura planetaria”. Letizia, reflex a tracolla, zoccoli olandesi, una tempesta di fiori sulla gonna, caschetto biondo, Letizia già “signora borghese” che abbandona il fasto di via Ruggero Settimo, “salotto cittadino”, trovando libertà nella fotografia, meglio, scopre se stessa. Letizia Battaglia iconica tra i “morti ammazzati” delle guerre di mafia. Gli strilloni del giornale “L’Ora”, suo luogo di lavoro, scendono in strada, anche nei giorni di magra criminale, “abbanniando”: “Quanti ni’ murieru!”, quanti ne sono morti…

La casa di piazza Marina, Palazzo Galletti, i pranzi in terrazza sotto un cielo d’azzurro maiolicato, la sua curiosità verso i ragazzi e le ragazze: Letizia vorrebbe tutti felici, liberi, immersi a fare l’amore; Palermo, già a metà degli anni Settanta, ha compreso che il brivido della militanza politica è ormai finito, “Dopo la lotta verrà la festa continua”, titola “L’Espresso” raccontando, sempre a Palermo, i baci tra Nicoletta Machiavelli e Mauro Rostagno ormai “arancioni”. Il suo “ufficio” nel pianterreno in via Meccio, Letizia fotografa “d’assalto” de “L’Ora”: il centralino squilla, “pare che c’è un morto in via Mariano Stabile…” Letizia corre, le do uno strappo, il morto in verità è un cadavere eccellente, un giudice, Gaetano Costa, vittima di mafia, è il 6 agosto 1980. I morti ammazzati di Palermo, politici, “servitori dello Stato”, magistrati, ma anche “aranc’ ‘n tierra”, povera gente, arance cadute dall’albero, ora nel “rigor mortis” in attesa di constatazione da parte del medico legale di turno… Letizia, gioia, curiosità, umana attenzione “civile” e insieme compassionevole verso le povere persone che abitano i “catoi” del centro storico rimasto in rovina dai bombardamenti Alleati del 1943. Il bambino lì sul letto con la mamma, nessuna luce, non dormono, attendono, non hanno da mangiare; il bambino morsicato dai topi della miseria e degli stenti. Letizia è lì, con la sua Leica: se di queste piccine struggenti molliche sociali è rimasta contezza nel tempo fotografico lo dobbiamo a lei.

Letizia, accanto ai cafarnai, restituisce le feste di Carnevale dell’aristocrazia cittadina mondo residuale, intatto nella propria immobilità, ma anche i teatranti, le ragazze, le fanciulle in fiore dei primi anni Ottanta, mentre la guerra di mafia è già pronta a bussare tra Porta Felice e Porta Nuova; tra Kalsa, Ballarò e Albergheria. La foto di Piersanti Mattarella appena assassinato, via Libertà, dov’era la sua casa, davanti alla Pizzeria Astoria: stavamo insieme a Villa Sperlinga, al Bar “La Cuba”, cupole rosse omaggio alla città arabo-normanna, Letizia dice di andar via, accompagna a casa Patrizia, la sua bambina, che si sente poco bene, ed è sulla via del ritorno che incontra gli ultimi istanti di vita, la tragica scena del delitto Mattarella. La morte, la velocità del suo scatto. Per lei, assessore della giunta Orlando, in piena “Primavera di Palermo”, ho litigato con Vittorio Sgarbi al “Maurizio Costanzo show”, era già il 1990. Sgarbi le rimproverava di avere collocato alla Vucciria, “in una piazza del Cinquecento alcune panchine realizzate da un architetto fighetto milanese, Ettore Sottsass,” un attimo, sempre Sgarbi, dopo aggiunge: “Chi dovrebbe sedersi su quelle panchine, forse i drogati?” E io: “Veramente non capisco perché i drogati dovrebbero rimanere sempre in piedi”. La platea mi colma di applausi, Letizia sorride.

La sua voglia di lasciare Palermo per Parigi, salvo poi, come il protagonista de “Lo straniero” di Albert Camus, sente il bisogno di tornare nella sua “Algeri”. Di fronte alla domanda sul perché non vuole stare a Parigi, Mersault risponde: “A Parigi non ci sono le blatte”. Letizia si è presa cura d’ogni povera blatta che la città custodisse, con generosità e sentimento straordinari. Restano nel ricordo i nostri giorni trascorsi al “manicomio” di via Pindemonte, le feste, i panettoni, le povere ragazze lì murate, gli abiti di vent’anni prima, struggenti, i collettini bianchi da educandato, Letizia giunge lì per farle ballare, se ne prende cura, le adotta, Letizia santa laica, come Santa Giovanna dei Macelli di Brecht.

La sua galleria per esporre i fotografi che le sono cari, il Laboratorio d’If: Josef Koudelka o Luigi Ghirri, che poté essere presente alla vernice, i costi del biglietto. I cieli di Ghirri. Chissà dove è finito il catalogo a fisarmonica che teneva insieme proprio quei cieli che Letizia mi volle donare. Il sogno realizzato di una scuola di fotografia nei Cantieri Culturali alla Zisa. Letizia racconta di aver incontrato Pier Paolo Pasolini durante un dibattito al Club Turati, a Milano: il suo scatto casuale mostra Pasolini appena insultato dagli studenti, Letizia che ancora racconta ogni meraviglia del mondo dell’arte che sente proprio, il suo incanto davanti agli anelli di Fernanda Pivano, “grandi come quelli di Gertrude Stein”, mi dice, oppure facendo caso al mondo che Franco Maresco ha voluto mostrare insieme a lei. Letizia ora e sempre.

Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 1 dicembre 2020. “Letizia Battaglia è stata imbrogliata”. Non ha dubbi Oliviero Toscani, rockstar della fotografia, che sulle provocazioni – oltre alla qualità dei suoi scatti – ha costruito una carriera ricca di successi. Alla polemica che ha investito la fotoreporter palermitana, riguardante la campagna di promozione delle auto Lamborghini, mancava solo la sua visione, che come spesso accade apre spiragli inediti. Ricapitolando la vicenda, Letizia Battaglia, fedele al suo stile, ha scelto di immortalare delle bambine e, sullo sfondo, la famosa auto di lusso. La campagna pubblicitaria si chiamava “With Italy, for Italy”. Tra gli scatti – che comprendevano quelli di 21 fotografi in giro per l’Italia – anche i suoi pubblicati sul profilo Facebook della casa del toro che hanno ritratto alcune giovanissime in compagnia di una Aventador Svj gialla tra piazza Pretoria e piazza San Domenico. Le reazioni, che hanno accusato di sessismo sia la fotoreporter che il marchio, sono state così forti – e hanno visto in prima fila anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando - che alla fine Lamborghini ha rimosso le foto dai suoi social ufficiali. Non si è poi fatta attendere la replica della Battaglia, che ha difeso il suo lavoro: "Contro di me cattiveria inaspettata. Per me Palermo è una bambina e per questo ho deciso di fotografare giovani volti insieme a macchine di lusso nel cuore della città” e in seguito ha deciso di lasciare la direzione del Centro Internazionale di Fotografia, scatenando la reazione delle donne palermitane, che in una lettera le hanno chiesto di rimanere: “Ferita aperta, sarebbe una enorme perdita". Insomma, a riaprire la polemica e a dare una versione di quanto avvenuto diversa e originale, ci ha pensato Oliviero Toscani che ha puntato il dito contro chi gli ha commissionato quella campagna promozionale: “Il paragone che ha fatto qualcuno con le mie foto non ci sta. Io personalmente non avrei mai accettato. Comunque, la povera Letizia Battaglia è stata imbrogliata, ho grande rispetto per lei. Solo che i famosi uffici marketing sono pieni di imbecilli, di gente senza sale in zucca. Hanno preso una grande reporter e gli hanno fatto scattare foto su queste macchine assurde che sembrano condizionatori d’aria per gente altrettanto assurda. Siccome Letizia Battaglia è una donna generosa, una grande artista – ha proseguito Toscani -, è cascata in questo tranello. Non è il suo mestiere fare le foto pubblicitarie e lei pensava che la gente della pubblicità fosse onesta, invece non lo è. Questi sono degli imbecilli, che l’hanno utilizzata male, invece avrebbero dovuto riflettere un po’ di più. Alla fine, ci ha rimesso lei, infatti sembra che sia colpa sua questa stupida scelta”. E alla domanda sul perché non avrebbe accettato la proposta di Lamborghini, Toscani ha risposto: “Almeno prima avrei discusso a lungo su come farle, come integrare queste macchine nella città di Palermo. Sono bellissime, però assurde. Chi ha bisogno della Lamborghini di questi tempi quando siamo pieni di problemi ecologici, del risparmio e del riciclo? Non sono contrario, ma comunque è una macchina assurda. Non per il fatto che sia costosa, visto che esistono cose alla portata di tutti e altrettanto assurde”. Infine, Toscani si è espresso anche sul sindaco di Milano, Giuseppe Sala e ha lanciato una sua personale candidatura: “Sala ha dimostrato di essere all’altezza. È una persona seria e intelligente. All’inizio non ero d’accordo, poi mi sono accorto che era un bravo sindaco. Ma se fosse per me candiderei Giorgio Armani, ma non solo a sindaco di Milano, a primo ministro. Sala forse è un po’ troppo educato, mentre Armani è più secco, non ha peli sulla lingua e quindi farebbe filare molto di più la gente”.

Valentina Venturi per “il Messaggero” il 27 novembre 2020. «Sono stata massacrata, specialmente dai colleghi fotografi maschi e dalle femministe che non hanno capito. Ma quale corpo esposto: quelle sono persone, sono bambine che stanno crescendo. Non ho fatto niente che sia sporco o non delicato. Le mie foto sono anti pubblicitarie, era una campagna culturale, le mie bambine mi guardano con forza e mi danno i loro sogni». Così Letizia Battaglia, 85 anni, commenta la recente polemica legata alle fotografie scattate a Palermo per Lamborghini With Italia, for Italy, dove appaiono sullo sfondo le auto gialle e in primo piano le adolescenti. Dopo gli attacchi social, la casa automobilistica ha sospeso la campagna e rimosso gli scatti da Facebook, mentre il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ne ha chiesto l' immediata sospensione e rimozione. Parole addolorate quelle della fotoreporter siciliana che ipotizza di lasciare il Centro internazionale di fotografia ai Cantieri culturali alla Zisa, esternate ieri durante l' incontro online sui social del Maxxi e incentrato sul libro pubblicato per Einaudi Mi prendo il mondo ovunque sia, scritto insieme alla giornalista Sabrina Pisu. Perché Battaglia occupa in modo indiscutibile un posto unico nella fotografia di genere documentaristico e giornalistico. Lo occupa per il forte impegno sociale svolto nel quotidiano L' Ora negli anni Ottanta, in cui ha testimoniato i tanti delitti di mafia come l' omicidio del presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella. Lo occupa per il suo approccio militante, per lo sguardo femminista e per il caparbio convincimento che si possa costruire un mondo diverso. «Mi interessa non solo la fotografia», racconta la fotoreporter, mentre tiene tra le mani l' immancabile sigaretta, «ma anche esserci e fare parte dell' umanità. Con i miei piccoli mezzi voglio creare e partecipare alla lotta. Per me è indispensabile». Mi prendo il mondo ovunque sia è una duplice biografia in cui viene raccontata sia una Letizia privata che cresce e matura nella sua indipendenza di donna, sia una Letizia fotoreporter che fissa, attraverso immagini uniche, sia la vita quotidiana che le mattanze palermitane. «La sua storia di donna risponde al moderatore Roberto Ippolito la coautrice Sabrina Pisu, vincitrice del premio Giustolisi per il giornalismo investigativo - s' interseca con quella di Palermo, insanguinata dalla guerra di mafia che lei ricostruisce e analizza con un ruolo di primo piano, come coraggiosa testimone, impegnata per costruire una società più giusta». Battaglia testimone di omicidi, ma anche in grado di cogliere incontri eccezionali come il servizio fotografico a Pier Paolo Pasolini nel 1972 o la foto di Franca Rame all' interno della Palazzina Liberty sede del collettivo teatrale La Comune di Dario Fo, nella Milano del 1974. Battaglia è infine anche la testimone delle bambine di Palermo, di quei visi che attraverso il suo obiettivo diventano universali come la celebre bambina con il pallone. E sul motivo per cui le sue bambine non ridano mai, spiega: «Non voglio che ridano, voglio che fermino la loro camera dentro di me. Se ridono diventano solo carine, io voglio che io e loro, io e la bambina che è in me comunichino. Sono uno strumento della mia ricerca che il sogno si avveri. Se ridono me le perdo».

Fulvio Abbate per huffingtonpost.it il 23 novembre 2020. Una foto di Letizia Battaglia fa “scandalo”. Scattata a Piazza Pretoria, lo stesso luogo dove appare seduto Garibaldi nel dagherrotipo della presa di Palermo, sullo sfondo la Fontana della Vergogna. Nel nostro caso, troviamo una Lamborghini gialla, fa da sfondo a una bambina, capelli rossi, seduta su una poltroncina di fortuna. Una Lamborghini gialla in luogo di Garibaldi (lì, un tempo, a riposarsi d’ogni fatica per la conquista dell’unità d’Italia, come racconta il cronista Alexandre Dumas) e la facciata del Palazzo del Comune, con le sue lapidi. Su questo scatto, perfino le pizzute reazioni di istituzioni, femministe e altri ancora. Si reputa forse “inaccettabile” che gli scatti di Letizia possano, per committenza, innalzare a maggior gloria una Lamborghini e non l’insieme della città “Felicissima” (così per gli Spagnoli Palermo) dall’immenso e sontuoso carico di storia? Dimenticavo: la bellezza infantile è un qualcosa che Letizia Battaglia ha sempre osservato con amorevole curiosità. Se leggo bene, alla fine la foto è stata ritirata da ogni ideale vetrina di città. Punto. Fine della storia, così ogni scandalo sanato. Conosco Letizia Battaglia da oltre quarant’anni, insieme alla sua storia di fotografa, di ragazza e poi donna in rivolta, ho condiviso con lei molte lotte, o forse, sì, battaglie, non c’è davvero altro modo per definirle, innanzitutto condotte dalle pagine del leggendario giornale “L’Ora”, immensa scuola civile di giornalismo e di vita, e di battaglia, Letizia ne era la fotografa “ufficiale”, il volto, il suo “carrè” biondo, la gonna ampia a fiori, il suo irrompere sul “luogo del delitto”, facendosi largo tra i poliziotti e il medico legale, nella Palermo dei primi anni Ottanta, la cosiddetta “grande guerra di mafia”. Insieme a lei, fra molto altro, ho visto perfino un povero giudice appena assassinato da sicari corleonesi. Era l’Epifania del 1980, mi trovavo davanti alla portineria del giornale quando una telefonata ha avvisato il portinaio Genduso di “un morto ammazzato davanti a dov’era la Birreria Italia”, Letizia ha approfittato del mio passaggio, siamo giunti prim’ancora d’ogni ambulanza e delle “gazzelle”, il “morto” da appena un istante per terra. Sempre con lei ho condiviso serate meravigliose in feste della buona società cittadina, tra nobiluomini di mondo e ragazze convinte d’avere il genio del teatro, conversazioni su comuni amici giornalisti in preda a terrificanti crisi sentimentali, innamorati di perfide colleghe, riunioni con amici scrittori del Gruppo 63 per realizzare periodici d’avanguardia, così fino a notte nelle sale della Libreria Dante, ai Quattro Canti, cioè al Teatro del Sole, poco lontano proprio dalla piazza della “vergognosa” foto che mostra la bambina in posa davanti alla Lamborghini gialla. Occasioni indimenticabili, quando sembrava che Palermo nulla avesse da invidiare al mondo. Sempre con Letizia ho condiviso strazianti pomeriggi al “manicomio” di via Pindemonte, fino a scoprire la sua generosità… Ancora, pensandoci bene, nel maggio 1990, ospite del “Maurizio Costanzo Show”, per lei ho litigato con Vittorio Sgarbi, proprio per difendere lei, allora parte della giunta Orlando, in piena “Primavera di Palermo”. L’assessore Letizia aveva fatto collocare alcune poltrone di marmo disegnate da Ettore Sottsass alla Vucciria, Sgarbi disse di ritenere “inaccettabile”, che fossero stati messi degli arredi “di un design fighetto milanese in una piazza siciliana del ’500”, aggiungendo: “…e poi, chi dovrebbe mai sedersi su queste poltrone, forse dei drogati?”. In quel momento esatto ho pensato alla nostra amicizia, al modo in cui a Letizia piacesse che noi ragazzi pomiciassimo per strada (anzi, come si dice a Palermo, “schiniassimo” felici), metti, sulle panchine di Villa Sperlinga chiedendo perfino di metterci a favore della sua reflex per fotografare i nostri baci, così ho pronunciato una semplice frase: “Sinceramente, non capisco perché mai i drogati dovrebbero sempre stare in piedi?”. Mi hanno coperto di applausi, le poltrone di Letizia laggiù salve. E’ vero pure che Letizia a un certo punto della sua vita ha voluto abbandonare Palermo, convinta di avere visto troppi morti ammazzati, fin troppo sangue, fin troppo dolore, decidendo così di trasferirsi a Parigi. Alla fine però, come il personaggio di Camus che confessa di non voler vivere in “un posto dove non si vedono gli scarafaggi”, Letizia è tornata a Palermo. Leoluca Orlando in città le ha anche offerto uno spazio per realizzare una “sua” scuola di fotografia, se ho capito bene. Di Letizia, ricordo anche splendidi primi pomeriggi al sole nella sua terrazza in cima a Palazzo Galletti, nel regno di Piazza Marina, davvero una vita fa. Che si possa trovare “osceno” e “inaccettabile” un suo scatto dove si mostra una bambina su sfondo di una Lamborghini gialla appare, confesso, ai miei occhi, l’ho già detto, incomprensibile. Nel Teatro del Sole credo che Letizia possa mostrare ogni miraggio: gli occhi imbevuti di “Bacardi” del giornalista innamorato della collega, la grisaglia di Salvo Lima, i poveri nel buio dei “catoi” dei mandamenti, l’ennesimo morto senza nome, se non nel rendiconto catastale mafioso, esatto, ogni cosa si trovi a incontrate le sue pupille. Letizia Battaglia ha conquistato, grazie alla sua storia di libertà, prim’ancora che in nome del talento, un salvacondotto che tutto concede, e che noia doverlo adesso ribadire.

GIULIA ZONCA per la Stampa il 4 dicembre 2020. Capelli rosa, sigaretta in bocca e fotografie nella testa. Letizia Battaglia prepara la sua lectio per Vita Nova in programma domenica (ore 18,15). Nel gioco degli opposti che girano dentro l'assaggio di Salone del Libro, lei ha scelto vita e morte, ma non ha voglia di guardarsi indietro. Se si voltasse vedrebbe sangue, cadaveri, la mafia che ha documentato, un orrore dopo l'altro.

Che posto hanno le foto a cui ha legato il suo nome?

«Sono diventate quasi un incubo. Io ci tengo a vivere e a divertirmi, per questo ho i capelli colorati. Lì c'è troppa morte, violenza, rancore. Ho vissuto una guerra civile e a 85 anni non voglio più essere una reduce».

Lì c'è pure un pezzo di storia e 20 anni della sua carriera.

«E dolore e fatica e silenzio. Non è naturale. Poi, certo, restano proprio per raccontare quella carneficina, un conflitto tra fratelli. Tutti siciliani».

Per quale foto ha avuto più paura?

«Non ne avevo, non potevo averne: la respiravo ma non la sentivo e quando sono arrivati i brividi è iniziata la politica. Fare è sempre d'aiuto, è un'ottima terapia. Sono diventare assessore per questo».

Una delle poche non deluse dalla politica.

«Se la fai bene è a favore delle persone, delle cause, le foto sono sempre contro e io non amo la polemica».

Quella sulle ragazzine scelte per la campagna della Lamborghini l'ha appena travolta.

«Non era una pubblicità, mi hanno chiesto il contributo per un libro ed è partito un corto circuito. Mi sono sentita dire dalle mie amiche femministe che ho "tradito il corpo delle donne". Figurarsi». 

Il corto circuito è nato per la ragazzine davanti all'auto.

«Sono io che guardo me stessa, sono io che celebro la libertà che a 10 anni non avevo. Se la sognano la mercificazione. Sono bambine, hanno 7, 11 anni, non conoscono la sensualità, vogliono giocare e la macchina è un giocattolo».

Non un oggetto del desiderio?

«Non per me, non ho nemmeno la patente. Tutti smaniavano per guidarla, io mi sono solo seduta sul predellino all'esterno. Le ragazzine sono arrivate con i genitori che poi mi hanno scritto lettere bellissime. Almeno un po' di conforto. Adesso me ne frego, ma non è stato facile».

Colpa del femminismo di ritorno?

«È quello vecchio. Non esiste un nuovo femminismo, le ragazze hanno aperto qualche porta e tante non si accorgono che gli uomini guadagnano ancora di più, che loro non saranno mai direttrici di banca o presidenti della Repubblica».

Mai?

«Io non ci credo. Oggi vedo solo donne che si ficcano le dita negli occhi».

Tra le sue foto più note c'è la bambina con il pallone, lei ha idealmente fatto strada. Oggi le bimbe possono correre dietro un pallone se vogliono.

«Quello sguardo così cupo è stato un dono. Non è un'immagine posata, come si crede, è una sequenza e il pallone non è un semplice gioco, è il sogno: il desiderio di un mondo fantastico che in quell'età devi poter inseguire. Come fanno anche le bimbe della Lamborghini».

Nella lezione al Salone di Torino, purtroppo solo digitale, come racconta la vita?

«Con Palermo nuda, il mio ultimo progetto. Ci sto dietro da due anni, mostra donne fotografate così come sono».

Scateneranno altre polemiche?

«Non c'è desiderio, quello è nello sguardo degli uomini che si confrontano con la nudità».

Scelga tre foto non sue per raccontare il mondo.

«Una qualsiasi di Diane Arbus, sono tutte perfette. Il coronavirus catturato da Antoine d'Agata, i suoi fantasmi rossi ci fanno vedere come siamo diventati senza più contatto. E Aylan, il piccolo siriano trovato sulla spiaggia di Bodrum».

Ancora morte però...

«Già e c'è sempre una donna dietro l'obiettivo, Nilüfer Demir che ha fatto tanti lavori sui migranti. Forse anche lei un giorno non avrà più voglia di vedere quei corpi».

La fotoreporter Letizia Battaglia che vedeva il talento nei bambini. Ornella Sgroi su Il Corriere della Sera il 23 febbraio 2019 (modifica il 14 aprile 2022).

Aveva fondato e dirigeva il Centro Internazionale di Fotografia, nei Cantieri Culturali alla Zisa di Palermo, dove teneva i corsi (gratuiti) per i ragazzini i 10 e i 14 anni. Questo il servizio che le aveva dedicato Buone Notizie. 

Una fotografia scattata con gli occhi. A una giovane ragazza inquieta di ottantaquattro anni, con caschetto e frangetta rosa, seduta al tavolo di legno massiccio del suo soggiorno palermitano. Lei è Letizia Battaglia, sigaretta in mano e un bel quadro alle sue spalle, grande quanto la parete, pieno di pozze rosse. In basso, una dedica: «A Rita Atria». La testimone di giustizia che si uccise a diciassette anni, una settimana dopo la strage di via D’Amelio e la morte di Paolo Borsellino, nel 1992. Basterebbe già questa fotografia mai scattata per raccontare l’immensa fotoreporter di Palermo, riconosciuta nel mondo per il potere narrativo della sua fotografia. Che non è stata solo documentazione della violenza mafiosa in Sicilia, in un bianco e nero struggente e vero. Ma è stata, ed è tuttora, anche passione, bellezza, libertà e impegno sociale. Che Letizia Battaglia mette, oggi, al servizio dei bambini e dei ragazzi di Palermo, protagonisti dei laboratori che lei stessa tiene al Centro Internazionale di Fotografia, di cui è fondatrice e direttrice.

Partire dall’ascolto

«Mi piace scoprire il talento negli altri, stimolarlo. Con i bambini è complicato perché si distraggono subito e devi stare attenta a non annoiarli, come persona e insegnante che non ha la loro età e le loro emozioni. Allora devi sedurli, per portarli ad un pensiero nuovo e a scoprire cosa è la fotografia», racconta Letizia con un sorriso grintoso e indagatore, sul volto carico di quella curiosità vivace che è propria dei giovani. Il primo laboratorio è partito nel 2018 e le fotografie in queste pagine sono solo alcune di quelle scattate dai trentadue ragazzi palermitani, tra i dieci e i quattordici anni, che lo hanno frequentato. Gratuitamente. E che potranno tornare a frequentarlo anche quest’anno, se vorranno. «Quello che abbiamo fatto insieme è stato iniziare. A capire, a scegliere. A guardare foto, di altri artisti però, non le mie!» esclama categorica. «È stato bello perché tra tanti bambini senza ancora il coraggio di affrontare il proprio talento qualcuno è venuto fuori. Hanno raccontato il viaggio, la solitudine, il mare, gli animali. E hanno espresso i colori. L’intento non era fare di loro dei fotografi, ma trasmettere loro un approccio all’arte della fotografia che li faccia crescere e li aiuti a vederla in modo non banale».

Oltre la banalità

La banalità di certo non ha mai bussato alla porta di Letizia Battaglia. E questa maestra dal carisma forte cerca di tenerla alla larga anche dai suoi allievi, cui ha dedicato la galleria «Fotografia dei ragazzi» all’interno del Centro. «Andare oltre la banalità - insiste - e imparare a esprimersi, questo è importante per loro. Se capiscono che un certo approccio è banale, iniziano a rifiutarlo. È un cammino, una riflessione, che può servire per tutto. Anche a imparare la disciplina, il rispetto di un progetto e delle potenzialità che hanno dentro, affinché possano svilupparle». Lezioni di vita, insomma. Oltre che di fotografia. E per molte di esse, Letizia attinge alla propria esperienza di artista che, nonostante e oltre i morti ammazzati, ha immortalato scorci di bellezza intimi, profondi, ancestrali. E positivi. «Io sono una donna positiva» conferma.

«E sono una che non si arrende. Anche se a volte pure arrendersi è positivo. Inutile insistere, se una cosa non può andare. Non è una resa, si tratta solo di riconoscere che non funziona e cambiare direzione, senza che la vita diventi per questo drammatica. Per me la fotografia è stata la soluzione magnifica della mia vita, quella che mi ha permesso di essere, di esistere, di non soccombere. Soccombere è un pianto contro la vita, quindi soccombere mai. Nel mio lavoro ho portato tutta me stessa, nel bene e nel male, nelle mie foto convergono tutte le esperienze che ho fatto. La musica ascoltata, i film visti, i libri letti, le foto di maestri dell’altra parte del mondo». Ecco perché non le piace l’etichetta «insopportabile» di «fotografa della mafia». «Sono fotografa della vita, di me stessa, di quello che sento. La mafia è stata un incidente di percorso. Però durato diciannove anni», scherza. Consapevole, piuttosto, di essere stata una donna coraggiosa, che la mafia l’ha combattuta. Guardando sempre in avanti. E oltre: «Il coraggio - conclude - è elegante, molto commovente. Il mio sta nel non lasciarmi sconfiggere da sentenze, sguardi, opinioni. Sono sempre stata proiettata verso il futuro, anche oggi, che tra sei anni ne compirò novanta! Le cose del passato un po’ mi annoiano, a parte certi ricordi. Per questo guardo avanti, mi interessano l’oggi e il domani. Il fare. Non posso stare ferma a non elaborare vita».

Addio Letizia Battaglia, fotografa militante. Non si tirava indietro davanti a nulla, e ha sempre portato le sue immagini nelle piazze, lasciando che diventassero uno strumento di lotta e di denuncia. Tiziana Faraoni su L'Espresso il 14 Aprile 2022.  

Una perdita irreale. "Non chiamatemi fotografa di mafia" diceva Letizia Battaglia, scomparsa a Palermo all’età di 87 anni. Amava scrivere, e ha iniziato a fotografare solo per accompagnare i suoi articoli e per potersi mantenere. Poi finalmente a 40 anni ha il coraggio di rompere il silenzio e gli schemi della sua vita, lasciando tutto e portando con se solo la sua bellezza e la sua macchina fotografica.

Quello strumento che utilizzava ( come diceva) senza tecnica ma con uno sguardo pieno di passione per l’arte e la composizione classica ( Raffaello e Cranach i suoi grandi amori) diventa sinonimo di libertà emancipazione e lotta .

La sua scelta anticonformista e il suo lavoro a Milano la portano nel pieno degli anni della guerra di mafia, quasi inaspettatamente, a capo del team fotografico dell’Ora a Palermo. Donna indipendente e militante...è la prima volta in Italia che danno un ruolo di rilievo ad una donna in uno staff totalmente maschile.

Cosa aveva di diverso Letizia Battaglia che la distingueva dagli altri fotografi? Non si limitava a pubblicare le sue foto sul giornale ma portava le sue immagini stampate nelle piazze, lasciando che diventassero uno strumento di lotta e di denuncia sul territorio, un lungo impegno per la giustizia. Non si tirava indietro davanti a nulla, faceva parte del suo io e tutto veniva portato avanti con rigore e fatica. 22 anni di mafia al fianco di Franco Zecchin. Uno sguardo attento diverso dagli altri. Lei donna forte e battagliera. Viveva in empatia con la scene che si trovava davanti. Si caricava ogni volta del dolore che carpiva nei suoi scatti. Un’emozionalità e un rispetto del soggetto anche privo di vita. Basta soffermarsi a guardare “il triplice omicidio di Nerina” un quadro dove il dolore viene sublimato oltre l’attimo.

Avrebbe voluto fotografare le donne e i bambini che erano la sua passione. Carpiva l’anima e i la storia che ognuno di loro si portava dietro e nascondeva dietro il proprio sguardo. Merita di essere ricordata anche per Il suo impegno sul territorio, non si fermava al singolo sguardo o scatto portato a casa ma il suo attivismo era anche cultura. Autrice di spettacoli teatrali nell’ospedale psichiatrico di Palermo e fondatrice di varie case editrici portava poesia e letteratura e cinema tra la gente.

Dopo la sua lunga esperienza all’Ora come fotografa, viene paradossalmente dimenticata da qualsiasi redazione, e nessuno le da mai più un assegnato, mentre parallelamente il suo lavoro viene riconosciuto, riscoperto e osannato all’estero. creando successivamente l’incoronazione a regina della fotografia

Amava la vita, i giovani e il contatto con gli altri. Ed era buffo vederla stupirsi del suo successo e dell’affetto del quale era circondata. «Sono una persona normale, facevo il mio lavoro» continuava a ripetere, come se fosse grata a questo successo come a un miracolo.

Oggi ci lascia il suo sguardo straordinario che ho potuto descrivere anche grazie alle parole di affetto di Maria Chiara Di Trapani amica e curatrice del suo archivio per oltre 15 anni. «La immagino volteggiare con Pina Bausch, uno dei suoi più grandi amori». Grazie Letizia.

Mia cara Letizia, «invincibile amore». Invincibile, ti crediamo ancora così anche se le ore passano sulla tua assenza e continueranno a farlo senza pietà, siamo tutti attaccati a te, alla voglia di non lasciarti andare. Sabrina Pisu

su L'Espresso il 14 Aprile 2022.  

«”Mia cara, nel bel mezzo dell’odio, ho scoperto che vi era in me, un invincibile amore”: è Albert Camus, le scrivo, ho pensato a te».

Letizia: «È bellissima».

Invincibile: ti abbiamo creduto così Letizia mentre il male, anzi i mali, scarnivano il tuo viso, solcavano le rughe che si piegavano su se stesse come ferite dal nucleo sempre più inespugnabile, cercavano di fermare le tue gambe quei mali che ti «consumavano», come dicevi tu.

«Come ti senti? ».

«Sto male e bene, bene e male, ma vado avanti. Allora cosa dobbiamo fare? ».

La memoria sa essere una lama, taglia, manipola il tempo, illumina e oscura, censura, dai ricordi ci si protegge spesso, e inconsapevolmente, in un tentativo di consolazione e assoluzione. E questo è quello che non hai mai fatto tu, tu hai fatto a calci e pugni con te stessa, l’hai affrontata e attraversata la tua storia, una Storia che è privata e collettiva, non ti sei lasciata paralizzare dal male, quello che era fuori e poi dentro di te. Ti sei ribellata, lo hai fatto con quella tua energia indomabile, che sgorgava e finiva da e verso un punto imprevedibile, e che era voglia di prendere a morsi il mondo, per cambiarlo, non lasciare nessuno scampo alle sue regole imperanti di odio, indifferenza, convenienza e potere di contaminare, corrodere il bello che c’è.

Invincibile, ti crediamo ancora così Letizia, anche se le ore passano sulla tua assenza e continueranno a farlo senza pietà, siamo tutti attaccati a te, alla voglia di non lasciarti andare, e così continuo a pensare che tu ti sia presa una pausa, come quando andavi via all’improvviso dicendo: «Ho bisogno di stare sola con me stessa», e ti facevi così piccola.

Invincibile, mentre fumavi nonostante il tumore ai polmoni, mentre continuavi a muoverti con il bastone e poi, ultimamente, sulla sedia a rotelle, mentre tossivi e parlavi con un filo di voce ma intanto progettavi, progettavamo il futuro, lo aggrappavi con la stessa tenacia, e profondità, ma anche dolcezza e rispetto con cui aggrappavi la macchina fotografica per metterci dentro gli invisibili e, con loro, il tuo respiro di giustizia e verità.

«Sì, ma la mia avventura non è ancora finita»: mi avevi detto quando ti ho proposto di raccontare insieme in un libro la tua storia, ripercorrere l’orrore della seconda guerra di mafia che negli anni Ottanta a Palermo ha fatto 700 morti e 300 lupare bianche, sentivo che fosse necessario conservarti, tu e il tuo coraggio, tra le pagine, metterti in qualche modo al sicuro dal passare del tempo che facilmente cancella, mette sullo sfondo, a volte dimentica, altre mistifica. E ora guardo il nostro libro e mi sembra prezioso come mai ma anche, improvvisamente, così fragile, e non so spiegarti ancora bene perché, forse perché eri fragile anche tu e non lo abbiamo capito, accettato, fino in fondo. E, forse, quel continuare a progettare con te era una mia, una nostra necessità, di tenerti stretta, forse avresti voluto che fossimo noi a permetterti di essere fragile quando tu non lo permettevi a te stessa, costantemente spinta dall’urgenza di quella bambina che ti ha sempre abitato e parlato dentro e che voleva riprendersi il diritto al futuro, a sua immagine, solo suo, esattamente come lo sognava lei, senza concessioni, no le concessioni non fanno per te.

Eri felice di parlare di quel tempo che doveva ancora venire, delle azioni, delle fotografie da fare, sembrava senza fine quella pellicola di libertà con cui hai rivoluzionato la tua vita, e il modo di raccontare, e testimoniare, la vergogna dei morti ammazzati dalla mafia, per la strada senza essere più visti, senza più dignità, facendone un atto di partecipata denuncia civile, una presa di responsabilità, un terreno di resistenza personale e politico.

Non eri invincibile Letizia, oggi fa male pensare di averlo, senza essercene accorti, pensato, o peggio preteso da te.

Ma sì, il tuo amore lo è, uno su tutti quello per Palermo dove tra quei vicoli poveri che «puzzano splendidamente», come dicevi tu, risuonerà sempre la tua voce, quel suono inconfondibile, mentre cerchi di «organizzare la bellezza come puoi».

È il grido, e il seme, di combattimento di una poetica guerriera: questo sì Letizia, è invincibile.

Morta Letizia Battaglia, la camera ardente con la sua foto icona

C'è la figlia Shobba che piange e abbraccia il sindaco Leoluca Orlando davanti alla fontana Pretoria: "Per mia madre”, sussurra, ma non trattiene le lacrime, mentre la bara entra a Palazzo delle Aquile dove è allestita la camera ardente della fotografa della città, per l'ultimo saluto di Palermo. Poi Shobba con un filo di voce dice al sindaco: "Adesso condividiamo mia madre con la città". E cominciano ad arrivare i palermitani che portano i fiori alla camera ardente tra le lacrime dei familiari. "Come piacevano a lei", sussurra ancora Shobba. C'è Marina la sorella di Letizia Battaglia e le altre due figlie della fotografa, Cinzia e Patrizia. E ancora alcuni nipoti, come Matteo, che custodisce preziosamente il grande archivio della nonna. O Marta Sollima, che a lei era legatissima. Ma anche gli allievi del centro Internazionale di Fotografia dei Cantieri Culturali della Zisa, grande sogno di Battaglia, che anche oggi non ha smesso di accogliere i visitatori. Quando accanto al feretro viene portata la foto iconica della "bambina con il pallone" scatta un applauso denso di commozione. di Tullio Filippone

La mia Letizia, sempre dalla parte dei diritti negati. Eugenia Romanelli su La Repubblica il 28 Maggio 2022.

Rewriters.it e il Premio Battaglia: il ricordo della fotografa della scrittrice Eugenia Romanelli.

Ho conosciuto Letizia già ottantenne, quindi al massimo della sua lucentezza e maturità, ed è stata per me un esempio della donna a cui mi piacerebbe assomigliare: generosa, fattiva, empatica, concentrata, visionaria, irriverente, libera. Lei faceva un workshop a Firenze al Museo del Novecento, organizzato da Crumb Gallery, la prima galleria d’arte europea dedicata solamente ad artiste donne, a cui Battaglia si era molto legata tanto da concedere i suoi nudi di donna. Crumb era ed è partner del mio progetto editoriale, Rewriters.it, sulla riscrittura dell’immaginario contemporaneo: Battaglia chiese a mia moglie se poteva fotografare nostra figlia, incuriosita dalla nostra famiglia omogenitoriale, promettendo di regalarci gli scatti.

Iniziammo a sentirci, le raccontai in dettaglio la nostra storia, del processo per garantire a nostra figlia che i suoi genitori fossero per legge riconosciuti tali, della vittoria in appello, della sentenza, la seconda del genere mai scritta in Italia, del coraggio di cambiare il corso della storia in nome delle proprie intime verità (“che mai possono danneggiare altri”, mi disse). Si coinvolse molto: da sempre Letizia si schierava dalla parte dei diritti negati, delle ingiustizie, delle persone discriminate, perseguitate, emarginate, sempre in prima linea per la libertà.

Su questi temi avevo appena fondato Rewriters.it, in un anno diventato un movimento culturale di respiro nazionale con una sua robustezza, e le feci leggere il Manifesto: giovani, giustizia intergenerazionale, crisi climatica, sostenibilità, ecologia, antispecismo, cultura bioetica, diritti civili, pari opportunità, giustizia sociale, antirazzismo, contrasto all’abilismo, all’ageismo, al bullismo, diritti LGBTQI+, educazione affettiva, salute mentale, linguaggi inclusivi, comunicazione non-violenta, contrasto alla violenza contro le donne.

Eugenia Romanelli Su quest’ultimo punto si infervorò e mi disse, tutto d’un fiato: “La violenza contro le donne è una piaga che va combattuta come una guerra”. Acconsentì immediatamente ad entrare nel movimento, con queste sue motivazioni: “Aderisco al Comitato Scientifico per dare una mano a questo lavoro di riscrittura che vuole aiutare le nuove generazioni a costruire un nuovo immaginario e nuove rappresentazioni libere”. Il nostro Comitato la accolse onorato.

Ricordo che durante una riunione, prese la parola e disse qualcosa di così semplice da disarmarmi: “Non si può stare qui a parlare – si rivolgeva a me, a Giancarlo Leone, Lidia Ravera, Giovanna Melandri, non ricordo chi altro ci fosse – bisogna agire, sporcarsi le mani, occorre cercare soldi, anzi trovarli, Rewriters ha bisogno di risorse per continuare a sopravvivere, le parole sono belle ma sono i fatti che cambiano la storia”. Poi tornò alla carica sulle donne: “Sono le donne, le uniche, a poter fare la differenza, bisogna dare potere alle donne”.

Con Crumb Gallery, intanto, avevamo messo in piedi un concorso fotografico, Cherchez la femme, rivolto appunto soltanto a donne, con Battaglia in giuria: volevamo riscrivere l’immaginario sulle donne. Fu allora che decidemmo di mettere in piedi il Premio Letizia Battaglia: ogni giorno, su Rewriters.it, pubblichiamo scatti inediti di giovani talenti. Letizia ne avrebbe selezionati 10 su 360 e noi li avremmo inserite nella nostra galleria d’arte web esponendole poi al ReWriters fest. di Roma.

Ci sentivamo regolarmente per telefono, a volte faticava per la sua malattia, di cui però voleva parlare poco, diceva: “Su, su, andiamo avanti”. La sentivo ruggire. La prima collettiva ebbe un grande successo, sia di pubblico, sia di critica, con gli autori e le autrici entusiaste. Letizia non si era tenuta, e di foto ne aveva scelte 14: in quelle foto, tutt’ora in esposizione digitale, è riconoscibilissimo il suo sguardo: le donne, l’amore, l’infanzia, il dolore, la solitudine, il disordine della verità.

Per il Rewriters fest 2022, aveva selezionato 10 foto, che saranno esposte alla prossima edizione, al WeGil di Roma, il 14, 15 e 16 ottobre 2022, insieme alle fotografe vincitrici del concorso Cherchez la femme. Lei non ci sarà, ma sarà per me un’emozione enorme dare al pubblico la possibilità, ancora una volta, di vedere coi suoi occhi.

Stiamo cercando, adesso, di capire come andare avanti per far proseguire negli anni il Premio Battaglia, ho già preso contatto con la famiglia, sono determinata a mantenere accesa l’attenzione sul suo nome e a continuare a farlo vivere nel tempo con la stessa generosità che ho ricevuto.

Letizia Battaglia, una donna generosamente sottosopra nella sua Palermo. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 aprile 2022.

Nel giorno in cui Giovanni Falcone è saltato in aria non ce l'ha fatta più: «Ho detto basta, quel sabato ho detto basta con i cadaveri di Palermo: a Capaci non ci sono riuscita». E nemmeno cinquantasei giorni dopo, in via Mariano D'Amelio, l'autobomba di Paolo Borsellino. Non c'è una sola foto di Letizia di quell'estate di trent'anni fa.

Una foto del 1972, in bianco e nero, mani nodose che coprono un viso, Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano: «L'ho incontrato lì un giorno ma ce l'avevo già dentro e non me lo sono fatto scappare più».

Lo scoop: quella foto che ritrae insieme Giulio Andreotti con l’esattore mafioso Nino Salvo.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Letizia Battaglia: "Io, vecchia comunista ma in Sicilia si vince solo alleati col centro". Concetto Vecchio su La Repubblica il 19 agosto 2017.

La fotografa palermitana di fama mondiale: "I grillini sono incapaci e presuntuosi. Non si parla quasi più di mafia, perché spara molto di meno, ma la gente continua a pagare il pizzo".

Letizia Battaglia, dove si trova in vacanza?

"Non faccio ferie, sono a Palermo, preparo le prossime mostre, una ad Amsterdam e l'altra a Perugia, poi andrò in tour, come i Rolling Stones: a Rio de Janeiro e negli Stati Uniti, dove saranno allestite delle personali. Nel frattempo mi sono tinta di verde i capelli, sembro un quadro di Andy Warhol". 

A 82 anni la voce della grande fotografa siciliana risuona allegra e autoironica. Reduce dal successo della sua mostra al Maxxi di Roma è un fiume di progetti.

"Ma lei mi chiama per parlare delle prossime elezioni siciliane, giusto?" 

Per chi voterà?

"Il rettore proposto dal sindaco Orlando, Fabrizio Micari, è una persona perbene: potrebbe essere un buon candidato. Serve un centrosinistra che apra al centro, quello buono. Da soli i piccoli partiti di sinistra non andranno da nessuna parte, temo. Nonostante tutte le contraddizioni non vedo alternative". 

Alfano fa parte di questo centro buono?

"Io non c'entro niente con quel mondo lì, sia chiaro, ma penso che con Alfano bisogna parlare". 

La sinistra è allo sbando, non ha nemmeno un candidato. Che fare?

"Ma questa crisi non nasce da ora, è così da molti anni. Vede, io sono rimasta comunista, pur non avendo mai aderito al Pci: a volte ho nostalgia di quel mondo, di quell'organizzazione. Ricordo un giorno a piazza San Giovanni, c'era il comizio di Berlinguer, se chiudo gli occhi rivedo una distesa di persone che lo seguiva in silenzio". 

Renzi sottovaluta il test Sicilia?

"Renzi poteva essere uno di sinistra, ma poi fa cose di destra. Il Ponte sullo Stretto è una bestemmia, costa miliardi e congiunge due terre fortemente sismiche". 

Nel frattempo è tornato in auge Berlusconi.

"Non dimentichiamoci cos'è stato. La vergogna che abbiamo provato durante i suoi governi. Questo degrado è anche figlio della sua cultura. Una cultura di escort! Nel '92, dopo le stragi, sorse una grande mobilitazione popolare, ma poi la gente si consegnò mani e piedi a Berlusconi". 

Come lo spiega?

"Il popolo non vuole avere troppi eroi, preferisce l'uomo che gli racconta le barzellette". 

Grillo può vincere in Sicilia?

"No, se la sinistra ha l'umiltà di fare una coalizione. Grillo non mi piace per niente. I suoi sembrano bravi ragazzi, ma alla lunga si rivelano incapaci e presuntuosi". 

Cosa pensa di Di Maio che, in certi casi, giustifica l'abusivismo?

"Una volta una mia conoscente mi disse: "Mi faccio la terrazza, tanto poi verrà la sanatoria". Ho rotto l'amicizia. Gli abusivi sono una vergogna, non rispettano né il territorio, né gli altri". 

Il sindaco di Licata è stato cacciato per il suo impegno contro gli abusivi.

"Ha la mia stima. Anni fa, al Raggio verde di Santoro, criticai gli scempi nella valle dei Templi: m'invitarono a non farmi più vedere da quelle parti. Ma la bellezza è bellezza se rispetta le regole". 

Com'è cambiata la Sicilia?

"Ci sono persone straordinarie, figure di cristallina onestà, e poi guardi come i siciliani hanno lasciato le spiagge dopo i bivacchi di Ferragosto: invase dalla sporcizia, i rifiuti ovunque, le bottiglie scagliate in mare". 

Lei ha fatto politica. Cosa ricorda?

"Ho fatto l'assessora alla Vivibilità urbana nella giunta Orlando, a Palermo, dall'86 al '91. Lo ricordo come il periodo più bello della mia vita". 

Più della sua attività di fotografa?

"Sì, perché avevo la sensazione di poter cambiare le cose della mia città. Facevo le scenate per strade se la gente buttava la spazzatura, mi occupavo del verde pubblico: era bellissimo". 

Cosa pensa del codice Minniti?

"È una questione complicata. Trovo terribile che le ong si siano ritirate, svolgevano un lavoro straordinario, ma dall'altro lato come si fanno i conti con simili migrazioni? Non ho la risposta. Quel ragazzotto della Lega, la fa facile. Come si chiama, mi aiuti...". 

Salvini?

"Ecco, lui dice: "Aiutiamoli a casa loro!". Come si fa?". 

Si parla troppo poco di mafia?

"Non ne se parla quasi più, ma si capisce: non spara, quindi dà meno fastidio, ma la gente continua a pagare il pizzo". 

La sua passione civile è rimasta intatta?

"Penso di sì. Sono felice perché a ottobre apriamo ai Cantieri culturali della Zisa un centro internazionale di fotografia: conterrà un archivio delle foto di Palermo, ma sarà anche un luogo dove fare teatro, musica. Vede, stiamo ancora aspettando la rivoluzione. E la rivoluzione si fa con la cultura". 

Quando Letizia Battaglia raccontava all'ANSA "la ricca umanità dei pazzi". La fotografa alla fine degli anni Settanta dedicò tre anni ad immortalare i pazienti del manicomio di Palermo. Di Luciano Fioramonti su Ansa.it il 14 aprile 2022

"I folli, una umanità ricca ed emozionante…".

Parola di Letizia Battaglia, la grande fotografa che alla fine degli Settanta documentò i malati di mente del manicomio di Palermo aprendo uno squarcio su un mondo nascosto che solo la legge del 1978 ispirata da Franco Basaglia riuscì a liberare da un isolamento e una negazione secolari.

L' artista, capelli rosa e 84 anni portati con energia e lucidità straordinarie, ha raccontato quella stagione irripetibile di lotte e tensioni politiche, passioni e impegno sociale al pubblico che ha gremito Palazzo Merulana per un incontro dedicato appunto ai manicomi a 40 anni dalla morte dello psichiatra veneziano.

"Entrai in manicomio perché ero attratta dalla follia - dice - sapevo che la legge Basaglia era stata approvata uno o due anni prima ma i manicomi erano ancora aperti. L' intento non era la foto, ero attratta dalla vita e da quel mondo molto chiuso. All' inizio non volevano farsi fotografare, avevano vergogna, ma facendo la ruffiana e la stupida…".  Quegli anni tra i malati di mente furono scanditi da contatti normali, giochi a palla, cinema, teatro, piccole cose. Letizia Battaglia, che all' epoca lavorava al quotidiano "L' Ora", scappava dalla redazione durante la pausa pranzo e ogni giorno dedicava due ore del suo tempo nella Real Casa dei Matti di via Pindemonte. "Delle tantissime foto che ho scattato lì dentro solo una trentina sono buone" spiega. Riuscì a convincere ad entrare nel manicomio siciliano anche il collega ceco Josef Koudelka, autore dello

storico reportage sulla fine della primavera di Praga e l'invasione sovietica con i carri armati nel centro della città. "Ha scattato tantissimo anche lui ma non ha mostrato nulla" dice con rammarico.

I ricordi di Letizia Battaglia fanno affiorare tante storie drammatiche. Graziella, ad esempio, entrata in manicomio a quattro anni. "Quando la incontrai aveva 22 anni. Era diventata schizofrenica, la convinsi a venire a casa nostra ma non restò a lungo. 'Voglio essere ammalata tutta la vita, voglio tornare in manicomio', mi disse. Fu un fallimento, un insuccesso e un dispiacere'.  O quella di Fara, portata in manicomio a 15 anni

perché un parroco l' aveva messa incinta: il bambino finì in un orfanotrofio ma il prete mantenne l' incarico.  "Fara teneva le sue cose più care sotto il materasso perché non c' erano armadietti. Un giorno la suora fece pulizia e buttò tutto e lei morì di crepacuore. Organizzammo per lei un funerale cantando e ballando intorno alla sua bara". Era possibile anche sorridere, però. "Una volta portammo un gruppo di punk e guardando il loro abbigliamento e il loro modo di fare i malati commentarono questi sono pazzi'. In un filmato c'era anche mia figlia che feci rasare a zero: lei faceva la pazza, i malati del manicomio i normali. Eravamo felici". 

"Ho sempre fotografato i malati con rispetto come ho fatto per i mafiosi. Non ho mai avuto paura della follia. Quello fu uno dei periodi più stimolanti della mia vita", dice oggi Letizia Battaglia. Accanto a lei, nell' incontro organizzato da Palazzo Merulana con Collettiva, c' era Goffredo Fofi, giornalista e saggista, amico della fotografa e come lei impegnato in tante battaglie di quegli anni. Parla dei manicomi come di "una tragedia di cui tutti dovremmo provare vergogna", riferendosi alle persone fate rinchiudere  dai familiari per questioni di eredità, ai mariti che si liberavano i questo modo delle mogli,  a quanti costretti ad entrare sani in manicomio furono poi travolti davvero dalla malattia mentale.  "Bisogna ripartire da Basaglia - dice -.  L' Italia  è stato il primo paese al mondo a chiudere i manicomi, poi abbiamo perso via via terreno. Bisogna lottare, con la lotta qualcosa si ottiene, altrimenti non può cambiare nulla. Allora c' era una sinistra… democristiani e comunisti pur con percorsi e motivazioni diverse erano accomunati dalla volontà di intervenire sui temi sociali". "Io ero terrorizzato dai malati di mente, mi mettevano a disagio. Letizia invece, no. Lei è una  donna,  è un po' matta. Ha una vitalità, una generosità, un'affettività  non solo verso i matti, ma verso i bambini, i morti ammazzati". Nel tessere  l' elogio della fotografa Fofi la definisce "non solo un'artista, ma una grande militante. E' troppo….Letizia è troppo". 

Con il Sessantotto ho ritrovato me stessa. Per ricordare Letizia Battaglia, scomparsa il 13 aprile 2022, pubblichiamo dall'archivio di MicroMega un testo uscito sul numero 1/2018 della rivista.

Da MicroMega 1/2018

Da Dario Fo e Franca Rame a Pier Paolo Pasolini, da Pietro Valpreda a Mauro Rostagno. La ‘fotografa della mafia’ Letizia Battaglia – suoi alcuni degli scatti più significativi della storia italiana degli ultimi cinquant’anni – li ha incrociati tutti nei primi anni Settanta fra Milano e Palermo, sull’onda di quel Sessantotto che fu come uno spartiacque nella sua vita: di là la cappa democristiana, il perbenismo ipocrita; di qua la libertà dei costumi, l’autonomia, nuove forme di relazione. Ben oltre le rivendicazioni degli studenti, un movimento che ha rappresentato un’‘illuminazione generale’ della società, che oggi ci stiamo perdendo.

Un’inquietudine in sintonia con il tempo

Nel 1968 avevo 33 anni e vivevo a Palermo. Non ero ancora una fotografa, non lavoravo. Ero la moglie di un ricco signore che aveva una ditta import-export di caffè ed ero madre di tre figlie. Ma ero inquieta, in quella vita stavo a disagio, la divisione in classi mi faceva inorridire, sentivo una passione per il comunismo, per l’ideale dell’eguaglianza. Dentro di me, insomma, ero molto in sintonia con lo spirito del Sessantotto e quando il movimento scoppiò io mi ritrovai finalmente in armonia con il mio tempo.

In Sicilia, in realtà, non ci fu un grande movimento studentesco, almeno non in quegli anni (mentre diverso fu nel 1977). Avevamo altre preoccupazioni: ricordo manifestazioni per la casa, per il lavoro, ma non per grandi princìpi ideali. Per fare la rivoluzione, anche solo per sognare di fare la rivoluzione devi avere fiducia in te, devi pensare che puoi avere un progetto rivoluzionario. Noi non lo pensavamo, eravamo schiacciati dalla mafia, dalla corruzione, dalla Dc. E anche il Pci non era rivoluzionario, non lo fu mai da nessuna parte, e in particolare non lo fu mai in Sicilia. Noi non abbiamo avuto grandi slanci di popolo se non dopo l’omicidio di Falcone e Borsellino nel 1992.

Nonostante questo, però, lo spirito del Sessantotto, la sua carica rivoluzionaria arrivò fino a noi. Per me il Sessantotto significò essenzialmente sentirmi finalmente a posto con me stessa, non sentirmi più quella gran puttana che la società perbenista di allora mi considerava. Trovai finalmente una sintonia con quello che stava accadendo, che era certamente il movimento studentesco, ma che erano anche, per esempio, le musiche che ascoltavamo – le dispute sui Beatles di destra e i Rolling Stones di sinistra erano cose scimunite, certo, ma anche il segno della vitalità dell’epoca. Posso dire che con il Sessantotto la mia vita trovò pace, anche grazie all’incontro con uno psicoanalista eccezionale, freudiano ma aperto, che aveva attraversato Jung e Lacan, una di quelle persone difficili da incontrare oggi. Uno spregiudicato. Grazie a lui io finalmente sentii che ero una persona buona, che non ero cattiva solo perché ero carina e libera.

Ricordo che, mentre le altre bambine scappavano di casa e si mettevano la minigonna di nascosto in ascensore, a mia figlia gliela cucii io la minigonna, identica a quella di Mary Quant. Perché era giusto così, perché la libertà è una cosa giusta e inventarsi cose nuove è importante. Potete immaginare cosa questo significasse in un ambiente borghese, con la cappa democristiana che incombeva su di noi, in una società impregnata di un insopportabile e ipocrita perbenismo. Quando io provavo a dire a mia madre qualcosa sulla Dc, lei rispondeva: «Ma che dici, non lo vedi che c’è la croce lì dietro!». Questa era l’atmosfera che si respirava prima del Sessantotto. Io fremevo all’idea del comunismo, della libertà e dell’uguaglianza e guardavo con grande interesse a quello che stava accadendo. E così iniziai a muovermi e nel 1969 a lavorare come giornalista freelance al giornale L’Ora, quotidiano palermitano del Pci. Facevo piccole cose, cronaca spicciola, cominciai così.

Il triennio milanese

La mia inquietudine era tale, però, che nel 1971 lasciai mio marito – scappai letteralmente di casa con le mie figlie – e mi trasferii a Milano, dove rimasi fino al 1974. Furono tre anni molto intensi, che ricordo con grandissima emozione. Eravamo in pieno movimento studentesco, ricordo le cariche contro gli studenti, l’uccisione di Roberto Franceschi 1 da parte della polizia. Io c’ero. Frequentavo la Palazzina Liberty di Dario Fo e Franca Rame ed è lì che cominciai con la macchina fotografica. Lo feci quasi per dare una giustificazione alla mia presenza. Io non mi sentivo all’altezza del Sessantotto, e non per una questione anagrafica, non mi sono mai sentita «fuori tempo», anzi, ho sempre avuto una sintonia con la modernità, sia allora, da giovane, sia oggi, da vecchia. Ma ero di famiglia borghese, non avevo alle spalle studi o conoscenze per avvicinarmi al comunismo. Sono sempre stata una comunista nella pratica, però la teoria non l’ho mai frequentata. Leggevo qui e lì, ma da ignorante. Per cui con la macchina fotografica mi inventai un pretesto. E, in realtà, se da un lato non mi sentivo all’altezza di far parte del movimento, dall’altro non mi sentivo neppure in grado di essere una fotografa, anche se pian piano iniziai a guadagnare qualcosa con i miei scatti.

Quegli anni li vissi alla Statale, conobbi Mario Capanna, una persona stimabile di cui mi è rimasto un ottimo ricordo, e anche Pietro Valpreda, con cui mangiavo spesso. Valpreda era un poveraccio, lo amavo, ma lo seguivo così, senza particolare convinzione. Anche quando morì Pinelli, io c’ero.

Il Sessantotto non fu tuttavia solo movimento studentesco. Furono per esempio le comuni, dove io abitai, sia a Palermo sia a Milano, si stava nudi e ci si baciava tutti sulla bocca, maschi e femmine: era una forma di liberazione. Una delle mie figlie, che all’epoca aveva dodici anni, una volta mi disse: «Mamma, molti miei amici sono morti di droga e se io non avessi partecipato a quel movimento, mi sarei rovinata». Era piccola, ovviamente, ma viveva comunque in quello spirito. Ricordo il giro che facevamo per evitare di incontrare i fascisti a piazza San Babila a Milano. Avevamo paura fisica, perché eravamo riconoscibili, vestite male, con gli zoccoli, le gonnacce.

Tra gli incontri milanesi che ricordo con più emozione c’è quello con Pier Paolo Pasolini. Io lo adoravo, e lo adoro ancora, ho tutto quello che è possibile avere di suo. Era al di sopra di tutto, anche del Sessantotto. Ero pazza di lui. Pasolini non aveva mai torto, per definizione: sono un po’ fanatica, di parte. Aveva ragione anche sulla famosa poesia «Il Pci ai giovani», in cui, all’indomani di Valle Giulia, prese le parti dei poliziotti. Era vero: i ragazzi della borghesia facevano la rivoluzione e i figli dei proletari facevano i poliziotti 2.

Lo incontrai una sera del 1972 al circolo Turati di Milano in occasione di un dibattito sui suoi film. Non so più di quali film si discutesse, ma ricordo che fu massacrato dai compagni comunisti, dagli operai, per la pornografia delle sue pellicole. Scattai delle foto quella sera, che vennero pure bene, stranamente! Su quella serata Giulia Borgese scrisse un articolo sul Corriere della Sera, una pagina che ho ritrovato di recente. Ho regalato quelle foto al Centro studi Pasolini a Casarsa. Una cosa curiosa è che quella sera era presente anche Giovanna Calvenzi, una curatrice di fotografia milanese, moglie del grande fotografo di città Gabriele Basilico, con cui poi sono diventata molto amica e che allora però neanche conoscevo.

Per far capire l’importanza che ha per me Pasolini racconto questo aneddoto. Qualche anno fa ho fatto una mostra che si intitolava «Gli invincibili», in cui ho raffigurato tutti i personaggi che in un modo o nell’altro sono stati centrali nella mia vita, che in un qualche senso – a volte anche solo per una parola – mi hanno «salvato», mi hanno aiutato ad attraversare questa vita complicata, a volte anche pericolosa. Tra gli altri erano ritratti Che Guevara, Freud, Joyce (mi basta il monologo di Molly Bloom alla fine dell’Ulisse, dove c’è questa donna che parla e parla per cento pagine), Marguerite Yourcenar (per il solo fatto di aver detto «Io sono Adriano, l’imperatore», una donna che dice «Io sono Adriano»…), Rosa Parks, Gesù (sono atea, ma Gesù è Gesù, e poi forse era ateo anche lui), Pina Bausch (una coreografa che ho inseguito con la mia Alfasud fino a Wuppertal, a Parigi, a Roma. Una che non faceva depilare le ballerine! Fece anche uno spettacolo dedicato a Palermo, Das Palermo Stück, che inizia con una montagna di spazzatura: veniva da piangere a vederlo). Il primo era però Pier Paolo Pasolini. 

Ritorno a Palermo

Tornata a Palermo nel 1974 mi iscrissi subito alla sezione del Pci del quartiere del Capo, una zona centralissima ma molto povera, dove la mafia reclutava i suoi killer. L’esperienza con il Pci durò pochissimo: io proposi un progetto con i giovani di quel quartiere, il partito non ne volle fare nulla e io me ne andai. Ero ormai una fotografa vera e propria e in questa veste seguii tutti i movimenti di quegli anni. A differenza del Sessantotto, che in Sicilia, in quanto movimento studentesco vero e proprio, si avvertì poco, come ho già accennato, è proprio da Palermo che prese il via il Settantasette. E fu molto bello, anche per me che avevo 45 anni, vedere gli studenti che si svegliavano. A mio avviso si tratta comunque di un’unica storia, che inizia nel 1968 e dura fino a dopo il 1977. Un movimento che ho fotografato tantissimo, immagini non sempre bellissime, ma che documentano un’epoca. Tutto partì dalla facoltà di Lettere: ricordo in particolare il movimento degli Indiani metropolitani, che si mettevano un fazzoletto sulla bocca e facevano il gesto della pistola, ma anche gli studenti barricati all’università, le belle frasi sui muri, le poesie, spesso legate a un’omosessualità finalmente libera di esprimersi. Non posso dimenticare un personaggio molto particolare come Nino Gennaro 3 di Corleone e un episodio che secondo me esemplifica molto bene il passaggio dal prima al dopo Sessantotto. Una ragazza di Corleone venne chiusa in casa dal padre, un dentista, perché voleva andare a Palermo per partecipare a un corteo. Determinata a non rimanere chiusa in casa, si calò dalla finestra e andò ugualmente alla manifestazione. Poi denunciò il padre, che fu condannato: una cosa impensabile prima del Sessantotto. Il giudice che lo condannò era Peppino Di Lello, il quale allora era un pretore e poi entrò nel pool antimafia di Falcone e Borsellino.

Peppino Impastato e Mauro Rostagno

Forse in qualche modo si può dire che anche l’antimafia ebbe origine nello spirito del Sessantotto. Umberto Santino – cui si deve la nascita vera e propria dell’antimafia e che nel 1977 fondò, insieme alla moglie Anna Puglisi, il Centro siciliano di documentazione sulla mafia, successivamente intitolato a Giuseppe Impastato – si formò politicamente proprio nelle compagini di sinistra di quegli anni. Di recente la giunta Orlando ha destinato un palazzo nel centro di Palermo, palazzo Gulì, a un progetto di Memoriale dell’antimafia proposto proprio da Santino, che ha speso l’intera sua vita a documentare la mafia.

Ma se da un lato ci si può forse azzardare a dire che i semi dell’antimafia risalgono allo spirito del Sessantotto, di certo in quegli anni coloro che denunciavano la mafia agivano in assoluta solitudine, a partire dallo stesso Peppino Impastato, che dalla sua Radio Aut denunciava con nomi e cognomi i mafiosi del suo paese, Cinisi. Noi a Palermo non ne sapevamo assolutamente nulla, io stessa non ne avevo mai sentito parlare, ma è stato bello ritrovarlo anni dopo per caso in alcuni dei miei scatti di allora. Eppure io lavoravo in un giornale, avrei dovuto conoscerlo. Ma L’Ora era del Pci e Peppino era un militante della sinistra extraparlamentare, candidato per Democrazia proletaria, per cui il Pci lo ignorava. Il partito infatti non amava molto gli extraparlamentari: ricordo che, quando portavo le foto di una manifestazione al giornale, avevo poche speranze che venissero pubblicate se ad accogliermi c’era un caporedattore molto legato al Pci.

Un destino di isolamento simile toccò anche a Mauro Rostagno, che invece conobbi di persona. Rostagno era un personaggio eclettico, un rivoluzionario, un sociologo. Andò in India da Osho 4, dove peraltro si trovava anche una delle mie figlie e dove incontrò Franco Cardella, un pornografo siciliano che aveva tanti soldi e che, diventato il cassiere di Osho, gli fotté tutto. Cardella, tornato in Sicilia, fondò nei pressi di Trapani la comunità Saman, che frequentai anche io. Era una comunità aperta, spregiudicata. Ricordo che ad aprire la porta c’era una donna nera nuda: immaginate la reazione di un contadino che non aveva mai visto nuda neanche sua moglie – perché questa si copriva persino nell’intimità – al vedersi aprire la porta da una donna nera, nuda. Anche Rostagno frequentava la comunità Saman, ma non seguì tanto i movimenti di Cardella e, da giornalista, denunciava la mafia del trapanese. Anche lui, come Impastato, in completa solitudine. E anche a lui, come a Peppino, gliela fecero pagare.

La mafia ha determinato la storia della Sicilia. C’è una foto con Salvo Lima, ammazzato dalla mafia e mafioso lui stesso, con una scritta alle spalle che diceva «La Dc contro la mafia», una cosa quasi ironica.

Le Brigate rosse e l’amicizia con Senzani

Credo si possa dire che la presenza della mafia sia la ragione per la quale in Sicilia non si ebbero le Brigate rosse. Devo ammettere che io non guardavo alle Br con disprezzo, ero consapevole che la loro violenza era una cosa ben diversa da quella fascista, anche se stiamo comunque parlando di omicidi. Uno dei miei amici più cari da 25 anni è Giovanni Senzani, brigatista con sei ergastoli sulle spalle, l’assassino di Roberto Peci 5. Sono andata a trovarlo in carcere per conoscerlo e siamo diventati molto amici. Sei ergastoli sono un’enormità, difficile immaginare cosa possa significare «fine pena mai». Per anni non ha visto un filo d’erba, così a un certo punto gli mandai in carcere una pianta, di quelle rampicanti che poi lui, quando è uscito, ha lasciato al suo compagno di cella. Ho anche discusso con lui sui motivi che portarono le Br a sequestrare e uccidere Moro. Gli chiedevo: «Ma perché non Andreotti?», che per me, da siciliana, rappresentava il legame fra mafia e politica. Ma non capiva, per lui il punto era il compromesso storico e Moro ne era il simbolo. Solo adesso inizia a capire cosa sia la mafia.

Ricordo che una volta – avrò avuto sessant’anni – sono andata a trovarlo nel carcere di Trani e, mentre parlavamo da dietro il vetro, un signore che era accanto a lui, un altro detenuto, mi guarda e mi chiede: «Ma lei non è Letizia Battaglia?». Era un mafioso importante, uno che aveva a che fare con la morte di Calvi a Londra.

Dopo l’uccisione di Falcone e Borsellino decisi di utilizzare i soldi che prendevo come deputata regionale per fondare una casa editrice: Edizioni della battaglia (con la «b» minuscola, ci tengo a sottolinearlo!). E lui, che è un sociologo, molto più colto di me, dal carcere mi dava una mano: io gli mandavo i testi dattiloscritti e lui mi dava dei consigli. Ha persino diretto una collana nella mia casa editrice, ma l’avrò visto una decina di volte in tutta la mia vita. Dopo 22 anni di reclusione iniziò a uscire dal carcere per qualche ora. Io stessa fui interrogata dai magistrati e sostenni, come ho sempre fatto, che secondo me aveva pagato il suo conto e, se è vero che non ha mai rinnegato la sua storia, è certo però che ha molto riflettuto. Quando finalmente lo traferirono a Firenze – lui era di lì – io presi in affitto un buco nel capoluogo toscano per farci la sede della casa editrice, e lo assunsi. Lui veniva in ufficio al mattino e tornava in carcere la sera, però almeno aveva la possibilità di incontrare la moglie. Adesso invece è definitivamente libero e può anche viaggiare. Sono molto contenta di avergli dato una mano. Seguo le vicende della famiglia di Senzani con molto affetto e partecipazione. So che ha fatto anche cose orribili, so che è parte di quella storia. Una storia che è figlia del Sessantotto, di una certa idea di rivoluzione e dell’incapacità di accettare il fatto di non riuscire a cambiare la realtà politica senza violenza.

L’esperienza nelle istituzioni

Ho fatto anche politica nelle istituzioni: l’esperienza più bella in assoluto è stata quella della cosiddetta Primavera palermitana con Leoluca Orlando, un pazzo rivoluzionario. Fu un periodo entusiasmante, lavoravamo con grande passione. Ero assessore comunale alla Vivibilità urbana, che significava tutto e niente. Ma quel che contava era che potevo fare cose concrete per la città. È stato il periodo più bello della mia vita.

Quello più brutto, invece, fu quello da deputata regionale. Fu talmente frustrante che mi venne una specie di malattia: mentre qualcuno parlava, io mi addormentavo. Il ricordo più netto è l’impotenza. Arrivavamo nella Sala d’Ercole – 88 uomini e due sole donne: io e Giuseppina La Torre, la vedova di Pio La Torre – e avevamo chiarissima la sensazione di non poter fare assolutamente nulla: era tutto già stabilito. Noi della Rete eravamo un piccolo gruppo. Io ero pure vicepresidente della commissione Cultura, ma non avevo il benché minimo potere. Una volta mi ritrovai in mezzo a una discussione surreale a proposito di una tomba etrusca, che sorgeva su una collina e i miei colleghi deputati volevano «spostare» per far posto a non ricordo quale costruzione, una villa o qualcosa del genere. Io ero scioccata e dicevo loro: «Ma cosa vi viene in mente? Ma vi rendete conto? Spostare una tomba etrusca che sta lì da secoli!». Ovviamente mi guardarono come se venissi da Marte. Vigliaccamente, non mi sono mai più informata sul destino di quella tomba.

L’eredità del Sessantotto

Il Sessantotto – nell’accezione lunga che ho detto – è stato cruciale nella mia storia personale, la mia vita senza il Sessantotto sarebbe stata molto diversa: mi sarei fatta un amante ricco e non avrei lavorato per il giornale L’Ora. E invece mi sono sempre scelta amanti poveri, tutti fotografi!

Purtroppo quello spirito è andato completamente perduto, e stiamo rapidamente tornando indietro. Certo ci sono e ci saranno sempre sparuti gruppetti di persone che portano avanti quelle idee, ma la caratteristica di allora era un’illuminazione generale, che coinvolse, volenti o nolenti, anche strati della società distanti dal movimento e fece davvero sperare che saremmo definitivamente usciti da quella cappa in cui avevamo vissuto fino ad allora. Poi è arrivato Berlusconi, più tardi anche Salvini i quali, a prescindere dalle loro attività politiche, hanno avuto un’influenza morale e psicologica molto pesante sul nostro paese.

Molto spesso a essere accusata di questa deriva è proprio la generazione che ha fatto il Sessantotto. Io rifiuto questo rimprovero. Certo, qualcuno avrà fatto degli errori, ma è una generazione – penso per esempio a Rossana Rossanda – che ha comunque fatto la sua parte, ci ha provato. Non possiamo sempre guardare agli errori di chi ci ha preceduto. Anche Orlando oggi viene accusato di non «creare» il suo successore: ma perché, lo deve fare lui? Io direi piuttosto che chi è venuto dopo non è stato all’altezza.

Certo, è vero, molti sessantottini, che sembravano rivoluzionari, sono invece diventati dei conservatori. Ma era difficile rimanere coerenti con quei princìpi, costa sacrifici non volere a tutti i costi il denaro, non voler essere per forza primi nella scala sociale. Ogni giorno devi fare una rinuncia, che è anche una cosa bella – perché tutto può essere bello se lo scegli con bellezza – ma costa fatica. (testo raccolto e curato da Cinzia Sciuto)

1 Roberto Franceschi era uno studente della Bocconi di Milano e uno dei leader del gruppo Movimento studentesco. Venne ucciso da un poliziotto il 23 gennaio 1973 nel corso di uno scontro fra studenti e polizia proprio davanti alla Bocconi. Tutte le note sono della curatrice.

2 La poesia, pubblicata su L’Espresso il 16 giugno 1968, è integralmente riprodotta in questo volume.

3 Scrittore, drammaturgo, poeta, attivista gay.

4 Osho Rajneesh (1931-1990) è stato un mistico e maestro spirituale indiano. La sua comunità in India negli anni Settanta fu meta di molti giovani occidentali spesso militanti del movimento.

5 Roberto Peci era un operaio, fratello del brigatista Patrizio Peci. In seguito al pentimento del fratello, le Br, con in testa Senzani, decisero di rapire Roberto Peci, che fu ucciso il 3 agosto del 1981, dopo 55 giorni di prigionia (come Aldo Moro). Lo stesso Giovanni Senzani fotografò il momento dell’esecuzione, avvenuta con 11 colpi di arma da fuoco

Teresa Monestiroli per la Repubblica - Milano - 9 dicembre 2019

«Quando sono arrivata a Milano nel 1971 ero una poveraccia, senza soldi e senza futuro. Questa città mi ha accolto e dato l' opportunità per decidere della mia vita. Avevo 36 anni e qui ho cominciato a essere una fotografa» racconta Letizia Battaglia, tornata a Milano quasi cinquant' anni dopo per presentare la retrospettiva che porta a Palazzo Reale "Storie di strada", trecento immagini che racchiudono l' intero percorso della sua carriera. 

«Mi proposi al Corriere della Sera e al Giorno come freelance - continua - . Presentavo i miei articoletti e tutte le volte mi chiedevano: " E le fotografie?". Così ho iniziato a scattare».

Non si è più fermata. Oggi ha 84 anni, i capelli rosa shocking a caschetto, una Leica ancora al collo e l' energia di una donna che ha vissuto fuori dagli schemi, capace di fermare sulla pellicola con la stessa intensità il dolore del lutto e la spensieratezza dei bambini che giocano nelle strade di Palermo. Si commuove vedendo la storia del suo successo appesa ai muri: «Mi è venuto un nodo alla gola quando ho visto la mostra perché tutta la mia vita passa in queste stanze - commenta - ringrazio Francesca ( la curatrice, ndr.) che mi ha ricostituita e messa in ordine. Non sono foto grandiose, alcune non sono nemmeno belle, ma tutte hanno un senso».

Parte da Milano, con la sequenza di ritratti di Pierpaolo Pasolini al Circolo Turati e il servizio dalla Palazzina Liberty occupata con Franca Rame fra i manifestanti, la mostra curata da Francesca Alfano Miglietti, omaggio alla grande fotoreporter dell' Ora diventata famosa per gli scatti che testimoniano le stragi di mafia, i corpi anonimi trafitti dai proiettili mescolati a quelli di giudici ammazzati, politici e presidenti di Regione come Piersanti Mattarella, assassinato da Cosa Nostra nel giorno dell' Epifania del 1980. Una scena ripresa quasi in diretta, fissando per sempre la concitazione del momento in alcuni scatti mossi di grande impatto, con l' attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella che trascina fuori dall' auto il corpo esanime del fratello. « Quel 6 gennaio camminavo con mia figlia Patrizia in via della Libertà a Palermo - racconta Battaglia nel catalogo edito da Marsilio -. C' era gente, mi avvicinai. Avevano ucciso Piersanti Mattarella. Arrivai seconda dopo il killer. Iniziai a fotografare: macchina dai vetri rotti, donne piangenti, corpo martoriato dalle pallottole. Quegli scatti in confusione sono carichi di senso».

Perché è solo il senso quello che Battaglia da sempre insegue: non lo scatto perfetto, tecnicamente corretto, o il taglio originale, ma un significato che alcune volte passa perfino dalle fotografie sfuocate, tutte ambientate nell' amata Palermo, «città cui sono morbosamente attaccata, con cui sono da sempre arrabbiata».

Foto disordinate e piene di umanità formano una galleria di persone; una fiumana affolla il percorso della mostra dove il comizio di Enrico Berlinguer si mescola ai ritratti di Guttuso, Sanguineti ed Elvira Sellerio, la gioia dei bambini si alterna alle crude immagini dei ragazzini nei vicoli che puntano le pistole, in una carrellata di pranzi di famiglia, processioni religiose, funerali, sguardi profondi di bambine, baci, balli e donne che fanno la maglia. « Consiglio di fotografare da molto vicino, a distanza di un cazzotto, o di una carezza», scrive Letizia. Che pugni e carezze dispensa a sua volta in egual misura in questa esposizione imperdibile e toccante, frutto di uno sguardo carico di empatia, capace di mostrare il reale senza alcuna indulgenza. Fino al 19 gennaio 2020, ingresso 13 euro.

L’intervista di Antonello Piroso a Letizia Battaglia per La verità del 26 giugno 2019 

Indomita e battagliera lo è sempre, Letizia Battaglia. Un nome e un cognome che incarnano un ossimoro. Da una parte, la gioia, la serenità, il bene. Dall'altra, la lotta, il conflitto, la guerra.  

Arrivata a 84 anni, la voce arrochita dalla quantità industriale di sigarette fumate ogni giorno ("Dovrei diminuirle" "Perché, quante sono?" "Cinquanta, sessanta, vorrei stare almeno nei due pacchetti, ho cominciato a dodici anni"), la più celebre fotoreporter italiana, la prima europea premiata dagli americani già nel 1985 - "no, no, non chiamatemi fotografa, sono solo una persona che scatta foto"- ha l'entusiasmo di una ragazzina nel puntualizzare, polemizzare, difendere con veemenza e crudezza i suoi punti di vista, illustrare il suo lavoro come testimonianza e impegno anche civile. 

Ma come spiega lei, "per diventare bravo, bisogna essere quello che siamo: chi fa arte o scatta, deve far vibrare quello che è. Se si è cattivi si faranno foto spietate, se siamo compassionevoli, faremo foto compassionevoli".  

Il New York Times l’ha inserita, unica connazionale, tra le undici donne più rappresentative del 2017. 

In occasione della mostra "Letizia Battaglia, fotografia come scelta di vita", una grande retrospettiva a Venezia fino al 18 agosto, Marsilio ha pubblicato un volume antologico che raccoglie 300 scatti, alcuni dei quali inediti. Oggi (giovedì 27) a Roma, all'auditorium del museo Macro, verrà proiettato il documentario Shooting the Mafia, presentato al Sundance Film Festival di Robert Redford, dedicato a questa donna passionale e coraggiosa.  

Lei sfoggia capelli di un rilucente color rosa, ma in passato io li ricordo anche verdi.

Oh sì, li tenevo così nella foto della carta d'identità. Li ho avuti pure rossi. Per il futuro non escludo il blu. Un vezzo, ma la vita è un susseguirsi di colori. Niente trucco solo un po' di rossetto, niente lifting, mi piacciono le mie rughe, sto discretamente in salute, arrivata alla mia età ho una forza che non avevo quando ero più giovane, e sento di poter dire e fare quello che voglio, e di cose ne voglio fare ancora tante. 

Però da fotografa ha sempre prediletto il bianco e nero.

Vero. Mi è capitato di fare foto a colori, ma poi le ho messe via. Ho un animo essenziale, sono un poco drammatica, il colore banalizza, il bianco e nero ti permette di vedere, per contrasto, cose che il colore non rivela. E comunque non avrei mai potuto raccontare i morti di Palermo a colori, se lo immagina?

Palermo c'è sempre, un rapporto viscerale.

Certo! Palermo è me, e io sono Palermo. Qui sono nata, qui sono sempre tornata.

Perchè se n'è allontanata?

Da bambina perché papà era un marittimo, e ci portava in giro con sé. Napoli, Civitavecchia, Trieste durante la guerra, da cui ritornammo a Palermo con un viaggio di 14 giorni tipo carro bestiame. Poi all'inizio degli anni 70 per mantenermi, visto che mi ero separata, salii a Milano. 

Si era sposata giovane?

Sì, e a 17 anni avevo già una figlia, la prima di tre, tutte femmine. Noi donne ci innamoriamo, ai nostro uomini diamo dedizione, che loro ripagano volendoci asservite e fottendoci, esaltando il proprio egoismo, arrivando all'indifferenza e alla violenza. Quando decisi che era finita, rifiutai perfino gli alimenti. Ma a quel punto dovevo ingegnarmi per campare, e cominciai come redattrice al quotidiano L'Ora. 

Quindi alla fotografia non è arrivata perché sentiva ardere dentro di sé un sacro impulso...

No, ci sono arrivata per fame. A L'Ora mi pagavano molto poco, mi trasferii a Milano, iniziai a collaborare con altri giornali, tra cui Vie Nuove, che era un periodico comunista. Io portavo l'articolo, e quelli mi chiedevano: "E le foto?". 

Lo domandano anche oggi...

Allora mi procurai una piccola macchina non professionale e comincia a scattare, ma solo perchè era necessario a sostenere la mia indipendenza. Dopo tre anni, pubblicavo sulle testate più importanti, il Corriere della sera, Il Giorno.

Ma la sirena di Palermo era irresistibile.

L'Ora mi chiese di tornare per occuparmi del settore fotografico del giornale. Cominciai a studiare il lavoro dei grandi professionisti, e imparando e scattando, m'innamorai della fotografia.

Diventando la fotografa della mafia, anche se la mostra a Venezia e il volume di Marsilio dimostrano che il suo occhio si è posato anche altrove: gli innamorati, le donne, l'infanzia, gli animali e le processioni religiose. Con Palermo sempre a fare da scenografia.

Certe volte mi dico: basta parlare di mafia. Non ne posso più. Parliamo piuttosto di riscatto, di bellezza, di futuro. Ma all'inizio era così. A ogni delitto correvo sul posto e scattavo, ma non avrei voluto. Mi veniva da vomitare, continuavo a sentire quell'odore, il sangue, dappertutto, perfino dentro casa. Mi costava molto dolore. E fatica, perchè in molti mi vedevano come la figlia dei fiori, una figura pittoresca vestita con colori sgargianti e con gli zoccoli. Fu grazie alle forze dell’ordine, e al commissario Boris Giuliano, che finirà pure lui ammazzatto dai killer di Cosa Nostra,  oltre che alla qualità del mio lavoro, che vinsi le resistenze.

Come riusciva ad andare avanti ad affrontare la morte, trovandosi in mezzo a quella che lei ha definito una guerra civile tra siciliani, scatenata dai corleonesi di Totò Riina?

Per senso del dovere, vincendo il senso di nausea. Dovevo andare oltre le mie emozioni, giravo con Franco Zecchin (suo compagno per 18 anni, ndr) sulla sua vespa per testimoniare quello che stava succedendo e condividerlo con la gente di Palermo. Scattavo molte foto, perchè per il coinvolgimento emotivo mi tremavano le mani e venivano mosse o sfuocate, ma alla fine quella buona usciva sempre.

Andò così anche il 6 gennaio del 1980...

Transitammo per via Libertà, e vedemmo un piccolo capannello di persone, saranno state cinque sei, intorno a un'auto. Pensammo a un incidente, ci fermammo. Franco girò dal lato del passeggero, io da quello del guidatore e scattai infilando la macchina nell'abitacolo senza sapere sul momento di chi fosse quel corpo. E sullo sfondo un uomo con i capelli bianchi che lo sorreggeva.

Una foto che ha fatto il giro del mondo. Un'immagine che, non so perchè, mi ha sempre fatto pensare alla Deposizione di Caravaggio. Quell'uomo con i capelli bianchi era il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che teneva tra le braccia il fratello Piersanti, presidente della regione.

Mattarella mi infonde fiducia perchè con lui lì non vedremo traffico o mercimonio tra lo Stato e la Mafia come è successo in passato. 

Si riferisce alla cosiddetta "trattativa".

Be', c'è una sentenza che certifica che tra una parte dello Stato e i mafiosi ci fu questo accordo consumato sulla pelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Qualcuno propose un immondo scambio: "Voi smettete di ucciderci, noi vi veniamo incontro, vi garantiamo qualche vantaggio, un minore rigore carcerario". E così è avvenuto. 

(Vorrei obiettare che quelle tragiche vicende sono intrecciate in modo complesso, che si presta a una lettura più articolata, ma su questo punto Letizia Battaglia è un fiume in piena, come quando tiro in ballo il sindaco di Palermo) Lei è da sempre sostenitrice di Leoluca Orlando, è stata anche assessore per i Verdi nella sua giunta durante la Primavera siciliana della seconda metà degli anni 80, e poi deputato regionale nella sua Rete. Eppure lui a un certo punto attaccò Falcone, che fu costretto a difendersi davanti al Csm dall'accusa di tenere i dossier scottanti "chiusi nel cassetto".

Minchiate! Erano amici, si sostenevano l'un l'altro, e quel fraintendimento fu chiarito: non furono mai nemici. Si voleva indebolire il fronte antimafia, questa è la verità. 

Dopo l'estate di sangue del 1992 lei se ne andò di nuovo da Palermo.

Amore e odio, per la mia città. In quel momento volevo morire, ma per davvero. Mi rifugiai a Parigi, dove Franco aveva un monolocale da cui quasi non uscivo. Durò un anno, poi trovai la forza di tornare. 

E' sempre di sinistra?

E me lo chiede? Sempre. Ho fotografato Pier Paolo Pasolini, Enrico Berlinguer. Persone che hanno vissuto con tensione civile e distacco dal potere, di cui non subivano il fascino e non avevano la vanità, come mi ha insegnato Ezra Pound.

Ma come, mi cita un fascista?

Innanzi tutto, io non ho i paraocchi. Secondo, era un poeta, una persona m-e-r-a-v-i-g-l-i-o-s-a. L'ho conosciuto prima di diventare fotografa, e un suo verso "Strappa da te la vanità, ti dico: strappala!", è un monito che a 35 anni ho fatto mio, mentre affrontavo un percorso di analisi freudiana. E quanto al fascismo di Pound, secondo me non capiva un cazzo, aveva una visione confusa, di ammirazione per le politiche economiche e sociali di Benito Mussolini, finì pure in manicomio, e mi dispiace che della sua figura si siano appropriate le teste rasate di CasaPound. 

Ma se le chiedessi di farmi il nome di qualcuno di sinistra oggi? Che so, Nicola Zingaretti, segretario del Pd?

Persona per bene, mi pare, ma non mi dice proprio nulla. Matteo Renzi? Ma perchè, era di sinistra? Forse direi Massimo Cacciari... 

Da ultimo: perchè adesso le foto di donne nude?

Il corpo nudo femminile è pulito, sereno, autentico, senza sovrastrutture. E' Palermo. Ho questa attrazione, e so che qualcuno si chiede se per caso io non sia lesbica. Se lo fossi, di certo non lo nasconderei nè mi nasconderei. I miei amanti sono stati uomini, ma sa che c'è? Voi maschi non siete soggetti poi così interessanti da fotografare.

·        È morto l’attore Gilbert Gottfried.

È morto Gilbert Gottfried, l’attore di Piccola Peste aveva 67 anni. Si è spento all’età di 67 anni Gilbert Gottfried, l’attore e comico noto per il suo ruolo in Piccola Peste. A cura di Gaia Martino su Fanpage.it il 12 aprile 2022.

L'attore e doppiatore statunitense, noto per il suo ruolo nel film Piccola Peste, Gilbert Gottfried si è spento all'età di 67 anni dopo aver lottato contro una malattia, a dare la triste notizia è la sua famiglia attraverso il profilo Twitter.

Siamo affranti nell'annunciare la scomparsa del nostro amato, avvenuta dopo una lunga malattia. Oltre ad essere la voce più iconica della commedia, Gilbert è stato un meraviglioso marito, fratello, amico e padre di due giovani bambini. Anche se oggi è un giorno triste per tutti noi, per favore continuate a ridere il più forte possibile in onore di Gilbert.

Le cause della morte di Gilbert Gottfried

La famiglia del noto attore e comico americano ha fatto sapere della morte del loro caro spiegando che il suo cuore ha smesso di battere dopo aver lottato contro una malattia. A rendere pubblica la malattia di Gilbert Gottfried è il suo rappresentante che a TMZ ha aggiunto che a interrompere la vita dell'attore è stata un'anomalia cardiaca chiamata tachicardia ventricolare. Soffriva della distrofia miotonica di tipo II, una malattia genetica caratterizzata da una perdita di forza progressiva e associata ad una forte rigidità muscolare. 

La carriera e la vita privata di Gilbert Gottfried

L'attore e doppiatore statunitense Gilbert Gottfried, morto all'età di 67 anni a causa di una malattia, era nato a New York nel 1955 e conosciuto soprattutto per aver doppiato il personaggio di Iago nel film Aladdin e per il ruolo del signor Igor Peabody nel film Piccola Peste. Il comico era conosciuto anche per le sue imitazioni di David A Stockman e del regista Roman Polanski. Gottfried iede voce al maggiolino Porfirio nel film Thumbelina – Pollicina. Nel 2007 sposò Dara Kravitz dopo 10 anni di fidanzamento, dalla relazione sono nati i figli Lily Aster e Max Aaron, rispettivamente nel 2007 e nel 2009.

·        E’ la storica Morta Chiara Frugoni.

Morta Chiara Frugoni, indagatrice del Medioevo. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

È stata una delle voci più colte e importanti della storiografia italiana, autrice di libri fondamentali tradotti in tutto il mondo su san Francesco d’Assisi.

Il Medioevo, con la sua spiritualità e la sua materialità, era il campo d’indagine della storica Chiara Frugoni, studiosa di grande prestigio internazionale scomparsa all’età di 82 anni. Con lei ci lascia una delle voci più colte e importanti della storiografia italiana, autrice di libri fondamentali tradotti in tutto il mondo su san Francesco d’Assisi, del quale aveva indagato con estrema attenzione il messaggio e il rapporto con le istituzioni del suo tempo. Molta attenzione aveva dedicato anche all’arte, alle testimonianze figurative provenienti da quel tempo passato, nella convinzione profonda che «l’immagine parla», che attraverso l’iconografia ci vengono trasmessi dai nostri avi messaggi e indicazioni che per lo storico sono di un’importanza eccezionale.

Nata a Pisa il 4 febbraio 1940, Chiara Frugoni era figlia del medievista Arsenio, per cui si può dire che avesse ereditato dal padre la materia dei suoi studi. Ma con lui aveva avuto un rapporto per molti versi problematico, che le aveva provocato forti insicurezze: argomenti intimi di cui aveva scritto in età già avanzata nel libro autobiografico Persino le stelle devono separarsi (Feltrinelli, 2013). Diceva di avere imparato dal padre «l’onestà e il senso del dovere. Ma al prezzo di una grande infelicità». Chiara Frugoni era andata a scuola dalle suore, che per lei erano state, ricordava, una scuola di ateismo per la loro incredibile rigidità e le loro ossessioni bigotte.

Si era laureata nel 1964 alla Sapienza di Roma e nel 1974 era approdata all’insegnamento universitario. Tra il 1980 e il 1988 aveva insegnato Storia medievale all’Università di Pisa, quindi si era trasferita all’ateneo di Roma Tor Vergata, da cui si era dimessa nel 2000. Nel 1965 Chiara Frugoni aveva sposato lo storico dell’arte Salvatore Settis, dal quale aveva avuto tre figli. In secondo matrimonio si era unita nel 1991 a Donato Cioli.

Il suo primo libro, uscito nel 1978, riguardava la figura di un grande condottiero militare e l’influenza che aveva esercitato con le sue gesta nella storia successiva: La fortuna di Alessandro Magno dall’antichità al Medioevo (La Nuova Italia). Ma poi Chiara Frugoni si era dedicata con ottimi risultati alla figura di un personaggio agli antipodi del sovrano macedone come il poverello di Assisi. Molti i suoi libri su quel tema, tutti di elevata caratura scientifica: Francesco e l’invenzione delle stigmate (Einaudi, 1993); Vita di un uomo: Francesco d’Assisi (Einaudi, 1995); Le storie di San Francesco (Einaudi, 2010); Storia di Chiara e Francesco (Einaudi, 2011). In lui ammirava soprattutto l’impegno per dare concretezza al messaggio del Vangelo, senza il timore di mettersi in contrasto con la società del suo tempo, comprese le istituzioni ecclesiastiche ufficiali, fino a inaugurare un primo abbozzo di dialogo tra le diverse religioni in un’epoca dominata dall’intolleranza.

Un altro merito rilevante di Chiara Frugoni era peraltro stato quello di contribuire a liberare il Medioevo dall’immagine stereotipata ed errata di un periodo buio, di arretramento della civiltà. Uno dei suoi libri, Medioevo sul naso (Laterza, 2001) è dedicato proprio ai progressi che l’umanità aveva compiuto in quei secoli anche sotto il profilo delle invenzioni più minute ma significative, come gli occhiali e i bottoni. Da segnalare anche la sua attenzione ai sentimenti diffusi e alle figure femminili, di cui aveva valorizzato il contributo con volumi preziosi e ricchissimi di illustrazioni pubblicati dal Mulino: Paure medievali (2020) e Donne medievali (2021).

·        E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.

Moda, è morto Umberto Cucinelli. Valentina Dardari il 10 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il padre dell’imprenditore-stilista è stato fondamentale per la crescita morale del figlio Brunello, il re del cachemire.  

Lutto nel mondo della Moda per la scomparsa all’età di 100 anni di Umberto Cucinelli, padre dell'imprenditore-stilista re del cachemire. I funerali si sono svolti alle 9 di oggi, domenica 10 aprile, nella chiesa di Solomeo di Corciano, comune in provincia di Perugia, il borgo definito da Brunello "Borgo del Cashmere e dell'Armonia, un luogo amabile dove sentirsi custodi della bellezza". Umberto Cucinelli è stato protagonista di una vita semplice, contraddistinta dall'attaccamento ai valori della famiglia e al profondo legame con il territorio umbro. Per la crescita morale di Brunello, la figura del padre è stata fondamentale. In varie occasioni lo stilista ha più volte pubblicato e reso note le frasi del genitore, tra le quali anche le sue raccomandazioni sul rispetto reciproco e la correttezza nei rapporti umani e professionali. Il figlio considerava il padre il suo mentore nella sua attività di ‘imprenditore umanista’, e amava ricordare gli insegnamenti da lui ricevuti: "Fai quello che vuoi ma sii sempre una persona perbene".

Una vita semplice

Il sindaco Andrea Romizi e l’Amministrazione comunale tutta si sono stretti con affetto a Brunello Cucinelli per la scomparsa del papà Umberto. Infatti, in una nota di Palazzo dei Priori, si legge: “Umberto Cucinelli è mancato ai suoi cari all’età di 100 anni dopo una vita semplice, contraddistinta dall’attaccamento ai valori della famiglia ed al profondo legame con il territorio. Il signor Umberto è stata una figura fondamentale per Brunello che amava citare le frasi più celebri del padre, tra cui la raccomandazione di essere sempre una persona perbene. A Brunello vanno le più sentite condoglianze dell’Amministrazione comunale”. Quando Brunello Cucinelli aveva fatto ritorno nella sua Solomeo, dopo avere ottenuto il prestigioso riconoscimento ‘Designer of the year 2021’ dalla rivista britannica GQ, aveva voluto festeggiare circondato da tutti i suoi lavoratori della sede e dalla sua famiglia. Rivolgendosi all’anziano genitore aveva detto: “Grazie che mi ricordi di essere una persona perbene”.

Nella classifica di Forbes

Brunello Cucinelli è stato di recente inserito da Forbes nella lista dei trenta imprenditori italiani più ricchi. Nella nuova classifica annuale pubblicata dalla rivista Forbes, il patrimonio personale dell'imprenditore di Solomeo viene in fatti valutato in 2 miliardi di dollari, cifra che lo porta al 27esimo posto tra gli italiani e al 1.513esimo a livello mondiale. Cucinelli ha guadagnato qualche posizione rispetto alla classifica dello scorso anno, quando con un patrimonio netto di 1,7 miliardi era al 28esimo posto in Italia e al 1.833esimo nel mondo.

·        E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.

Lucia Menghini, tamponata da un furgone: la giovane è morta sul colpo. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 10 Aprile 2022.

La campionessa del game show «Reazione a catena» era seduta sul sedile posteriore dell'auto quando c'è stato l'impatto. Ferite le due amiche che viaggiavano con lei. 

Sarebbe stata tamponata da un furgone l’auto su cui stavano viaggiando Lucia Menghini, Marta Orsini e Cristina De Propris, venerdì pomeriggio, in Giordania nella zona di Aqaba. La campionessa di «Reazione a catena», il game show di Rai1 in cui Lucia era la capitana de Le Pignolette, sembra che fosse seduta sul sedile posteriore quando c’è stato l’impatto. Dalle notizie che arrivano da Amman, Lucia sarebbe morta sul colpo. Le sue due amiche sono rimaste entrambe ferite: avrebbero subito un trauma cranico. Le due perugine sono state raggiunte sabato sera in Giordania dai genitori con un volo da Bologna che è arrivato ad Amman all’ora di cena.

«Ciao Lucia, riposa in pace — ha scritto in un post su Instagram il conduttore del programma Marco Liorni —. Siamo tutti sconvolti per la notizia della scomparsa in un incidente in Giordania di una ragazza che abbiamo avuto la fortuna di conoscere e apprezzare a “Reazione a Catena”, con le sue amiche e compagne di squadra, le Pignolette, protagoniste di tante puntate, di tante vittorie. Le nostre condoglianze alla sua famiglia, a chiunque le voleva bene». Intanto a Foligno, città natale di Lucia, venerdì sera c’è stata una veglia di preghiera nella chiesa di San Paolo, a poche centinaia di metri da dove la dottoressa che voleva diventare anestesista abitava con i genitori. Moltissime persone, tra cui tanti giovani, si sono raccolti in preghiera. Lucia è stata ricordata anche durante la messa della Domenica delle Palme. 

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 10 Aprile 2022.

«Drogatevi di sorrisi e ubriacatevi di felicità!», era la filosofia di vita di Lucia Menghini, un entusiasmo spezzato in uno dei Paesi più belli del mondo, la Giordania delle rocce rosse di Petra e del sale che brucia del Mar Morto. 

Era in vacanza con le sue amiche, oggi (domenica) sarebbe dovuta rientrare in Italia, invece le è stato fatale un incidente in macchina. Era una dottoressa che aveva il sogno di diventare anestesista, ma era stata un volto familiare per milioni di appassionati di Reazione a catena, il quiz condotto da Marco Liorni su Rai1.

Originaria di Foligno (Perugia), 31 anni, Lucia Menghini aveva partecipato al game show con le sue amiche Serena e Ilaria, si facevano chiamare «Le Pignolette» perché il tratto che avevano in comune era quello di essere «maniache della perfezione». Protagonista di tante puntate, campionessa del gioco con le sue inseparabili amiche e compagne di squadra, Marco Liorni ha voluto ricordarla pubblicamente sia con un post su Instagram, sia in chiusura di puntata a ItaliaSì (il suo programma del sabato). 

Aggiunge ora il conduttore: «Lei era rimasta molto in contatto con tutte le maestranze, io ho saputo della sua tragica morte da Anna, una sarta del centro di produzione di Napoli a cui in questi giorni mandava le foto del suo viaggio in Giordania. È davvero un dispiacere enorme».

In gara, nel gioco di Rai1, Lucia era rimasta per due/tre settimane: «Siamo tutti sconvolti. Quando facciamo Reazione a catena non c'è solo il gioco, ma c'è anche il dietro le quinte, sono tempi di attesa che si trasformano in complicità, entri nelle vite dei concorrenti, si chiacchiera di sogni e aspirazioni, di paure e debolezze. Nella registrazione ci sono degli stop tecnici, minuti in cui ne approfitti per stemperare la tensione, piccole cose che creano complicità: scherzavamo su Foligno, l'ombelico d'Italia; sul fatto che erano pignolette, tutte precise; lei trasmetteva intelligenza, simpatia; traspirava l'unione che aveva con le altre ragazze; gli scherzi e le risate dietro le quinte poi arrivano anche in trasmissione. In quei momenti si crea qualcosa di più di semplici concorrenti che passano». La promessa è ricordare Lucia anche nella prima puntata della prossima edizione (che prenderà il via a giugno).

Una vacanza fuori stagione - le migliori -, il tepore e i colori della Giordania documentati su Facebook, diario personale che diventa collettivo. «Questo è il senso del deserto, che c'è abbastanza spazio e abbastanza tempo» aveva scritto Lucia sullo sfondo del Wadi Rum, la Valle della Luna, che assomiglia piuttosto a Marte per tutte le sfumature di rosso che regala. 

Inevitabili le foto a Petra, davanti a El Khasneh (il Tesoro del Faraone) che sembra un tempio ma è un monumento funerario scavato nella parete rocciosa, appare come un'epifania alla fine di una gola stretta e lascia senza fiato. «Non saprai mai cos'è Petra, a meno che tu non ci venga di persona... ammirare meraviglie».

Le sue amiche, anche loro dottoresse, sono ricoverate in terapia intensiva all'ospedale di Amman. Una comunità sconvolta. Un ospedale (il San Matteo degli Infermi di Spoleto) incredulo: «Una ragazza solare, sempre disponibile, con una grande passione per il lavoro, senso di appartenenza, dedizione, professionalità - così esprime il suo cordoglio la dottoressa Marina Vissani, responsabile della struttura di Anestesia e Rianimazione -. Ricordiamo con affetto il suo dolce sorriso, i suoi modi gentili e garbati, i grandi occhi azzurri». 

"Siamo sconvolti". Morta la concorrente di Reazione a catena. Francesca Galici il 9 Aprile 2022 su Il Giornale.

Lucia Menghini è morta a 30 anni in un incidente stradale in Giordania: aveva partecipato a Reazione a catena insieme alle sue amiche.

Gli appassionati di Reazione a catena, il gioco a quiz estivo di Rai1, sono sotto choc. Una delle concorrenti più amate delle ultime edizioni è tragicamente morta pochi giorni fa in Giordania. A darne la notizia è stato Marco Liorni, storico conduttore del programma, che ha riferito lo stato d'animo di tutta la produzione per la prematura scomparsa, ad appena 30 anni, di Lucia Menghini.

Chi segue Reazione a catena l'ha conosciuta come componente della squadra delle Pignolette, che hanno vinto svariate puntate del programma, appassionando il pubblico a casa. Lucia Menghini giocava con le sue amiche, Serena Becchetti e Ilaria Presilla. Insieme, le tre hanno portato a casa un montepremi piuttosto importante ma, soprattutto, hanno raccolto l'affetto di un'ampia fetta di pubblico, che alla notizia della scomparsa della giovane ha reagito con profonda tristezza sui social.

Lucia Menghini, originaria di Foligno, si è laureata poco più di un anno fa in Medicina e chirurgia. Era un'aspirante anestesista e stava lavorando sodo per raggiungere il suo obiettivo. Questo viaggio in Giordania insieme alla amiche era probabilmente il premio per un lungo anno di lavoro, una conquista meritata incastrata in un momento di pausa dagli impegni quotidiani. Quello svago, però, si è trasformato in una tragedia enorme per la sua famiglia, che non la vedrà più tornare a casa. Lucia stava documentando la sua vacanza sui social e su Facebook si trovano le foto di una vacanza spensierata, come tutte quelle che si fanno a quell'età, quando il futuro davanti a sé è un foglio bianco tutto da scrivere.

Purtroppo, però, la sua vita è stata spezzata su una strada della Giordania a causa di un incidente automobilistico. Non si conoscono ancora i dettagli di quanto accaduto, ma la notizia ha sconvolto la famiglia e il pubblico televisivo. Anche Marco Liorni, conduttore di Reazione a catena, è rimasto pietrificato quando ha scoperto della morte di Lucia ed è stato lui a rendere pubblico il tragico evento con un post sui suoi profili social: "Siamo tutti sconvolti per la notizia della scomparsa in un incidente in Giordania di una ragazza che abbiamo avuto la fortuna di conoscere e apprezzare a Reazione a Catena, con le sue amiche e compagne di squadra, le Pignolette, protagoniste di tante puntate, di tante vittorie. Era una dottoressa, aveva il sogno di diventare anestesista. Le nostre condoglianze alla sua famiglia, a chiunque le voleva bene".

·        E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.

Lutto nel cinema italiano: muore a 66 anni il produttore Massimo Cristaldi. Valentina Mericio il 09/04/2022 su Notizie.it.

Con il morte di Massimo Cristaldi il cinema italiano perde uno degli uomini più illustri. Il produttore aveva 66 anni. 

Nel corso della sua lunga carriera, insieme al padre Franco ha realizzato alcuni dei film più belli che il cinema italiano ricordi. Massimo Cristaldi, noto produttore cinematografico, si è spento improvvisamente a Roma nella notte di venerdì 8 aprile all’età di 66 anni.

A darne notizia è stata la Cristaldi Pics srl. L’uomo lascia la moglie Simona.

Morto Massimo Cristaldi: i primi passi nel mondo del cinema

Classe 1956, Massimo Cristaldi ha iniziato a muovere i primi passi nel cinema diventando assistente e ispettore di produzione presso la società del padre Franco Cristaldi nel 1974.

Diventerà successivamente direttore di produzione. Dal 1983, come organizzatore generale e produttore esecutivo curerà la realizzazione di opere importanti sia della Cristaldi Pictures che della 2Vides arrivando a collaborare con “mostri sacri” del calibro di Fellini, Sergio Corbucci, Francesco Rosi o ancora Nanni Loy.

I successi internazionali

La carriera di Massimo Cristaldi è stata soprattutto impreziosita da grandi successi internazionali come Nuovo Cinema Paradiso di Giuseppe Tornatore che nel 1990 ha vinto un Oscar e un Golden Globe per il migliore film straniero.

Nel 1992 con la morte del padre è diventato proprietario della Cristaldi Pictures. In tempi più recenti stava lavorando alla realizzazione del film tratto dall’opera originale di Erri De Luca “Tu, mio”. Le riprese dovrebbero prendere il via a settembre 2022.   

·        E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.

Marco Giusti per Dagospia il 7 aprile 2022.

Era il più vecchio attore della vecchia Hollywood e della tv della Golden Age rimasto in circolazione Nehemiah Persoff, che ci ha lasciato a 103 anni dopo una carriera durata quasi un secolo e qualcosa come oltre 200 titoli tra film e serie in ruoli sempre molto caratterizzati dove poteva dar vita a qualsiasi tipo di personaggio e di dialetto europeo e americano, ma anche qualsiasi tipo di gangster ebreo o americano. 

Recitando a fianco di giganti come Marlon Brando, Rod Steiger, Lee J. Cobb, John Wayne, Robert Ryan, Jason Robards.

Una carriera che partiva da particine in capolavori come “La città nuda” di Jules Dassin e “Fronte del porto” di Elia Kazan, dove è il tassista in una celebre scena con Marlon Brando e Rod Steiger, e arrivava al 2003 in “Angels in America” di Mike Nichols, attraversando però ruoli importanti in “A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder, dove era il gangster Piccolo Napoleone, in “The Wrong Man” di Alfred Hitchcock, dove era Gene Conforti, o “Al Capone” di Richard Wilson con Rod Steiger, dove era Johnny Torrio, per non parlare delle sue partecipazioni a serie leggendarie come “Ai confini della realtà”, “Gunsmoke”, “Gli intoccabili”, “L.A.Law”, “Star Trek”.

Ma invecchiando, specializzandosi in ruoli di patriarca ebreo, lo abbiamo visto come padre di Barbra Streisand in “Yentl”, e come voce di Papà Mousekewitz nella bellissima serie di cartoni animati di Don Bluth “Fievel” per non parlare delle sue strepitose apparizioni teatrali nel monologo di “Sholem Aleichem”, che ne fecero un personaggio mitico della scena newyorkese.

Nehemiah Persoff, che riuscì a non americanizzare mai il suo nome, a parte un iniziale “Nick Perry”, era nato nel 1919 a Gerusalemme e era arrivato con la famiglia in America solo nel 1929, a New York, in piena crisi. Trovò presto dei lavoretti da tecnico da fare in città, ma poi la passione per il teatro si fece avanti. La sua prima apparizione sulle scene newyorkesi è nel 1940 con “The Emperor’s New Clothes”.

La guerra lo portò lontano dalle scene per tre anni. Quando ritornò, si fece le ossa con Stella Adler e divenne uno dei primi attori dell’Actor’s Studio già nel 1947 assieme a Julie Harris, Martin Balsam, James Whitmore. Nello stesso anno lo volle Charles Laughton per la sua versione teatrale di “Galileo” di Bertold Brecht e solo un anno dopo fece la sua prima apparizione al cinema in “La città nuda” di Jules Dassin.

Grazie al fisico, tarchiato, duro, alla capacità di modulare la voce, alle grandi doti di attore, si fece subito largo soprattutto come cattivo. Lo ricordiamo in grandi film degli anni ’50, grasi tutti film di gangster o di realismo violento, “The Harder They Fall” di Mark Robson con Humphrey Bogart e Rod Steiger, “The Wrong Man” di Alfred Hitchcock, “The Wild Party” di Harry Horner con Anthony Quinn, “Uomini in guerra” di Anthony Mann con Robert Ryan, “La diga sul Pacifico” di René Clement con Anthony Perkins e Silvana Mangano, Alida Valli, “The Badlanders” di Delmer Daves e “La notte senza legge” di André De Toth, due dei suoi rari western.

“A qualcuno piace caldo” di Billy Wilder gli dette grande popolarità, come “Verdi dimore” di Mel Ferrer con Audrey Hepburn, dove interpreta un prete, e in una marea di telefilm e di serie. Ma lo troviamo nei primi anni ’60 in decine e decine di serie televisive. Più forte il suo ruolo in “Comanceros” di Michael Curtiz con John Wayne o in “Destino in agguato” di Ralph Nelson con Glenn Ford. Il suo primo ruolo da ebreo credo sia come Shemiah in “La più grande storia mai raccontata” di George Stevens. Ma negli anni ’60 gira quasi esclusivamente serie tv di ogni tipo.

Lo rispolvera il cinema italiano di mafia nel film di Damiano Damiani tratto dal romanzo di Leonardo Sciascia “Il giorno della civetta” a fianco di Franco Nero, Claudia Cardinale e Lee J. Cobb, dove interpreta il ruolo di Pizzucu. 

Ha un buon ruolo nel cult movie fantasy “La forza invisibile” di Byron Haskin, ma passa anche gran parte degli anni ’70 nelle serie tv. Senza mai abbandonare il teatro, visto che vinse un premio rpestigioso nel 1975 per il suo ruolo in “The Dybbuk”. Dopo aver interpretato Stalin e Breznev in tv Hollywood lo rispolvera come padre di Barbra Streisand in “Yentl”, diretto dalla stessa star nel 1983, film di grande successo internazionale. Da lì diventa la voce di Papa Mousekewitz in “Fievel sbarca in America” e “Fievel conquista il West” di Don Bluth e il rabbino di “L’ultima tentazione di Cristo” di Martin Scorsese. Ma lo vuole anche Ivan Reitman per “Twins”.

Sarà un rabbino anche nella strepitosa miniserie di Mike Nichols tratta dal testo di Tony Kushner “Angels in America” nel 2003. Ritiratosi dalle scene per problemi di salute, Nehemiah Persoff, che viveva con la moglie Thia a Cambria in California, si dedicò molto alla pittura, con i suoi acquarelli fece molte mostre. E grandi furono i festeggiamenti, con i suoi quattro figli e i tanti nipoti, per i suoi 100 anni nel 2019. “Nicky ha vissuto una lunga vita d’amore, mi mancherai Papa” lo ha salutato Barbra Streisand.

·        E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.

Da leggo.it il 3 aprile 2022.  

Piero Sonaglia, lo storico assistente di Maria De Filippi morto all'improvviso, sarebbe stato stroncato da una partita di calcetto. Secondo quanto riporta Canale Dieci, la tv in chiaro e giornale di notizie di Ostia e del litorale romano, «si è accasciato nel campo di calcetto dove stava giocando con il figlio 25enne». L'assistente di studio dei programmi Uomini e Donne e Tu si que Vales, infatti, aveva una casa ad Ostia.

Dalle notizie sulle dinamiche emerse, l'assistente di studio stava giocando con il primo dei suoi quattro figl su uno dei campi da calcetto di via Amenduni. Tutti si stavano avviando verso gli spogliatoi quando, all'improvviso, Piero si è accasciato. A nulla è valso l'arrivo dei soccorsi. Scrive Canale 10 che il referto del medico parla di «morte per infarto da trauma». Il corpo verrà sottoposto ad autopsia presso l'istituto di Medicina legale dell'università di Tor Vergata.

Maria De Filippi si è detta scioccata per la perdita dell'amico: «Fa davvero malissimo. La tua voce, il tuo volto, il tuo sguardo attento, il tuo modo di esserci, la capacità di ascoltare. Sempre teso a cercare di fare la cosa giusta... Ho iniziato con te. Ho vissuto il mio lavoro sempre con te, con il tuo sorriso e le tue spalle forti, pronto a portare la tua squadra e me per prima, sempre sani e salvi in porto. Nel modo giusto, per tutti. E ogni volta che sarò in studio non smetterò di cercare il tuo sguardo nella certezza che ti troverò, che mi capirai in un secondo come sempre, nella certezza che alzerai il pollice per dirmi che va tutto bene. Ti ho voluto bene, ti voglio bene e te ne vorrò sempre».

Piero Sonaglia morto per «infarto da trauma» mentre giocava a calcetto con il figlio. Redazione Online su su Il Corriere della Sera il 3 aprile 2022.

«Infarto da trauma»: sarebbe questa la causa della morte di Piero Sonaglia, l’assistente di studio di Maria De Filippi che si è accasciato nel campo da calcetto dove stava giocando sabato con il figlio primogenito, di 25 anni, a Ostia. Lo riferisce Canale Dieci, un’emittente del litorale. Secondo il racconto dei compagni di squadra, i giocatori si stavano dirigendo verso gli spogliatoi dei campi di via Amenduni quando Sonaglia si è accasciato e non ha ripreso più conoscenza. Inutile l’arrivo dell’ambulanza e il trasporto in ospedale. La salma è stata portata all’istituto di Tor Vergata dove verrà sottoposto ad autopsia.

Sonaglia era diventato suo malgrado un personaggio della trasmissione tv Uomini e donne, perché spesso la conduttrice lo evocava, e lui interveniva per ogni evenienza. Aveva iniziato la carriera in tv a 21 anni, con La Corrida, e aveva poi proseguito con tanti programmi di De Filippi, da Tu sì que vales ad Amici. Il regista di Uomini e donne, Roberto Cenci, lo ha salutato con un post su Instagram: «Per sempre con noi, ciao Piero». Anche De Filippi lo ha salutato con un post affettuoso.

"Si è accasciato dopo il calcetto". Così è morto Piero Sonaglia. Novella Toloni il 3 Aprile 2022 su Il Giornale.

Secondo l'emittente televisiva Canale Dieci Sonaglia sarebbe deceduto in seguito a un infarto avuto sul campo da calcetto, dove si trovava con il figlio maggiore.

Piero Sonaglia, l'assistente di studio di Amici, Tu si que vales e Uomini e donne, sarebbe morto stroncato da un infarto dopo una partita di calcetto. L'uomo, che viveva a Ostia, stava giocando con suo figlio, 25 anni, nei campi da calcetto di via Amenduni. Ma all'improvviso, mentre tutti stavano abbandonando il terreno di gioco, il 51enne ha avuto un malore.

A riferirlo è l'emittente televisiva ostiense Canale Dieci, che nelle scorse ore ha reso nota la dinamica del decesso di Sonaglia. "Si è accasciato nel campo di calcetto dove stava giocando con il figlio", riporta il servizio dell'emittente tv, spiegando che Piero Sonaglia stava disputando una partitella con il figlio maggiore, quando si è sentito male. Secondo la ricostruzione dei fatti fornita da alcuni presenti, i giocatori stavano rientrando verso gli spogliatoi, quando Sonaglia si è accasciato a terra.

"Subito i presenti hanno capito la gravità della situazione e immediatamente è scattato il primo soccorso in attesa dell'arrivo dell'ambulanza. Purtroppo il cuore di Piero ha cessato di battere e per i sanitari dell’Ares 118 non c'è stato nulla da fare se non riconoscere l'avvenuto decesso", riferisce Canale Dieci, che riporta come causa del decesso - secondo il referto del medico - "morte per infarto da trauma". Il corpo dovrebbe essere sottoposto a un esame autoptico presso l'istituto di Medicina legale dell'università di Tor Vergata nei prossimi giorni. Solo l'autopsia, infatti, sarà in grado di accertare le reali cause del decesso.

Lutto a Uomini e donne, morto storico assistente di Maria de Filippi

La notizia della morte di Piero Sonaglia, storico assistente di studio di Maria De Filippi, ha sconvolto il mondo dello spettacolo. Migliaia i messaggi di cordoglio per l'uomo, che era un punto di riferimento per tutti all'interno di programmi come Amici, Uomini e donne e Tu si que vales. Il pubblico e i telespettatori avevano imparato a conoscerlo quando veniva coinvolto davanti alle telecamere da Gerry Scotti e Maria De Filippi nelle varie trasmissioni.

Piero era amato e ben voluto anche dai volti noti, che hanno transitato nei programmi di Canale 5, ma soprattutto dai colleghi e dallo staff della Fascino, la casa di produzione per la quale lavorava. Distrutta dalla prematura scomparsa di Sonaglia Maria De Filippi, che sui social lo ha voluto salutare con un messaggio straziante. "Fa davvero malissimo. Ogni volta che sarò in studio non smetterò di cercare il tuo sguardo nella certezza che ti troverò", ha scritto la conduttrice nel suo messaggio diffuso in un video di addio, che Witty Tv ha voluto dedicare a Sonaglia con foto e video del suo lavoro in studio e dietro le quinte.

·        E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.

Patrick Demarchelier, morto a 78 anni il fotografo delle star (e il preferito di Lady Diana). Federica Bandirali e Michela Proietti su Il Corriere della Sera l'1 Aprile 2022.

Scompare uno dei fotografi più amati e conosciuti nel mondo della moda. A dare l’annuncio della scomparsa dell’artista è stato l’account Instagram ufficiale. 

È morto all’età di 78 anni Patrick Demarchelier, uno dei fotografi più amati e conosciuti nel mondo della moda, noto anche per essere stato il fotografo ufficiale di Lady Diana, il primo non inglese a immortalare i reali britannici. A dare l’annuncio della scomparsa dell’artista è stato l’account Instagram ufficiale che cita le persone attorno a lui, la moglie Mia e i tre figli Gustaf, Arthur, Victor. Tante le star che hanno postato su Instagram un pensiero e un ricordo A quello che è stato un grande maestro della fotografia di moda: sui social sono comparsi i ricordi di modelle Amber Valletta, Mariacarla Boscono e Afef tra i tanti nomi.

Ma su tutte spicca proprio il nome della Principessa Diana, che con il fotografo ha intrecciato un percorso non solo artistico, ma anche privato. Sorridente e sofisticata, la Principessa aveva posato, ritratta sulla copertina della rivista “Vogue” in occasione del suo 33 compleanno. Era stato sempre lui a fotografarla tre anni prima, sempre per Vogue, inaugurando così un sodalizio che sarebbe proseguito fino alla tragica scomparsa della principessa. Grazie a Demarchelier Lady Diana, dopo sei mesi di ritiro dalla scena pubblica dovuti alla sua separazione con il Principe Carlo,era tornata più bella e seducente che mai sotto i riflettori. Con Demarchelier non era nato solo un rapporto lavorativo, ma di amicizia. Proprio nella villa del fotografo, sull’ isola di Saint Berthelemy, nei Caraibi, Diana, era stata paparazzata mentre si slacciava il reggiseno e subito dopo, preoccupata dai possibili sguardi indiscreti, si copriva il seno. Le foto pubblicate in Olanda e Giappone avevano sollevato uno scandalo a corte, come altri scatti rubati alla Principessa dopo il divorzio da Carlo. Ma non c’è stata solo Diana nel portfolio di Demarchier: un’altra primadonna, Carla Bruni, lo scelse durante la sua permanenza all’Eliseo come fotografo ufficiale. Demarchelier a chi gli chiedeva di fare un confronto rispondeva secco: «: «Ognuna è fatta a suo modo. Carla è il new deal».

Tutte le sue muse hanno espresso gioia e riconoscenza per aver lavorato con il maestro. Le cause della morte di non sono state rese note. Demarchelier iniziò la sua carriera a Parigi: a 20 anni fu assistente di nomi della fotografia tra cui il celebre Henri Cartier-Bresson e lensman Hans Feurer, maestri negli scatti di moda. Da lì una carriera solo in ascesa con tante maison francesi (da Dior a Yves Saint Laurent) che lo hanno scelto per scattare le foto delle collezioni e di progetti editoriali. Il fotografo francese ha ritratto Kate Moss, Sophia Loren e Jennifer Lopez nel calendario Pirelli, di cui ha firmato le edizioni dal 2005 al 2008. Autore di due Calendari Pirelli (2005 e 2008) ammetteva di avere qualche rimpianto lavorativo. ««Non aver ancora fotografato il Papa, Nelson Mandela, il Dalai Lama». Nel 2018, Demarchelier fu accusato di molestie sessuali da parte di alcune modelle.

Da lastampa.it l'1 aprile 2022.

Ha ritratto le donne più belle del mondo in passerella, da Kate Moss a Linda Evangelista, e ha immortalato nei suo scatti tante star, da Sophia Loren a Jennifer Lopez, da Madonna a Angiolina Jolie, oltre ad essere stato il fotografo preferito della principessa Diana: Patrick Demarchelier è morto giovedì 31 marzo all'età di 78 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato sui social dallo staff del fotografo francese, che da quasi mezzo secolo viveva e lavorava a New York. 

Considerato uno dei più grandi ed acclamati fotografi di moda e del mondo dello spettacolo, nel 1989 Demarchelier, primo non inglese, fu scelto come fotografo ufficiale della famiglia reale britannica e in particolare di Lady D, di cui ha firmato molti ritratti iconici. Era anche il fotografo ufficiale di Alberto di Monaco e Charlene Wittstock ed ha firmato due Calendari Pirelli, nel 2005 (a Rio de Janeiro) e nel 2008 (a Shanghai).

Nato il 21 agosto 1943 a Le Havre, Patrick Demarchelier a 20 anni si stabilisce a Parigi dove diventa fotografo, prima lavorando come assistente di Hans Feurer, poi per Elle, Marie Claire e altri periodici, scattando foto per Dior, Louis Vuitton, Chanel, Yves Saint Laurent. Nel 1975 prende casa a New York e trova subito un proprio spazio professionale collaborando a Vogue, Glamour, Mademoiselle, GQ, Rolling Stone, Life, Newsweek, Elle, Esquire. Dal 1992 al 2004 ha lavorato stabilmente per Harper's Bazaar, con cui aveva firmato un contratto di esclusiva dopo una lunga collaborazione.

Una lunga collaborazione con le case di moda

Nel corso della sua carriera il lavoro di Demarchelier si è concentrato anche sulle case di moda, collaborando per importanti campagne pubblicitarie. Tra i suoi clienti più importanti figurano i nomi di Dior, Louis Vuitton, Versace, Chanel, Armani, Lancôme, Guerlain, Tommy Hilfiger, Yves Saint Laurent, Lacoste, Calvin Klein, Ralph Lauren, Lacoste, L'Oréal, Céline, Revlon, Yves Saint Laurent, Lancôme, Elizabeth Arden e Gianfranco Ferré. Oltre che con gli stilisti francesi, era amato dagli americani Ralph Lauren, Calvin Klein e Donna Karan e dagli italiani Gianni Versace, Giorgio Armani, Moschino e Gianfranco Ferré. 

La sua fama era così vasta nel mondo della moda che Patrick Demarchelier viene ripetutamente citato nel film Il diavolo veste Prada (2006). Il fotografo appare nel documentario The september issue, nella serie tv Sex and the city, nel video della canzone di Mariah Carey Obsessed e in un episodio del talent America's next top model. La giornalista statunitense Anna Wintour, la stimata e influente direttrice di Vogue ha descritto il suo lavoro come «classico senza tempo». Sue le foto di copertina di Bedtime stories e Justify my love di Madonna e di tante altre cover di album, da Britney Spears a Céline Dion, da Mariah Carey a Quincy Jones, passando per Elton John. Ha realizzato anche le foto per le locandine di alcuni film come James Bond - La morte può attendere (2002),  Dick Tracy (1990) e Bugsy (1991).

Nel 2007 è stato insignito del titolo di Ufficiale dell'Ordine delle Arti e delle Lettere della Repubblica francese. Tra i suoi ritratti in bianco e nero anche quelli di Michelle Obama, Prince, Azzedine Alaïa, Robert De Niro e Hillary Clinton. Nel 2018 il fotografo francese è stato coinvolto nello scandalo #MeToo, con diverse donne che lo hanno accusato di molestie sessuali. Il quotidiano americano The Boston Globe pubblicò le testimonianze di sette donne, tra cui una delle ex assistenti del fotografo, che riferirono di essere state molestate.

Si è spento Patrick Demarchelier , il fotografo da sempre preferito dalle dive. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2022.  

La sua fama di fotografo amato dalle dive di Hollywood e della moda internazionale era così nota nel mondo della moda che Patrick Demarchelier nel film "Il diavolo veste Prada" (2006) viene ripetutamente citato. Il fotografo appare nel documentario "The september issue", nella serie tv "Sex and the city", nel video della canzone "Obsessed" di Mariah Carey e in un episodio del talent "America's Next Top Model". La regina mondiale del giornalismo di moda e costume Anna Wintour, la temuta, rispettata ed influente direttrice di Vogue ha descritto il suo lavoro come «eterno, classico senza tempo».

Patrick Demarchelier è morto giovedì 31 marzo all’età di 78 anni. L’annuncio della sua scomparsa è stato reso noto sui social dallo staff del fotografo francese, che da quasi mezzo secolo viveva e lavorava a New York. oltre ad essere stato il fotografo preferito della principessa Lady Diana ha ritratto le donne più belle del mondo in passerella, da Kate Moss a Linda Evangelista, e ha immortalato nei suoi scatti tante star, da Sophia Loren a Jennifer Lopez, da Madonna a Angiolina Jolie.

Demarchelier nato il 21 agosto 1943 a Le Havre, a 20 anni si trasferisce a Parigi dove diventa fotografo lavorando come assistente di Hans Feurer, e successivamente per i magazine Elle, Marie Claire e altri periodici, scattando foto per Christian Dior, Louis Vuitton, Chanel, Yves Saint Laurent. Nel 1975 prende casa a New York e conquista il mercato americano collaborando e fotografando per Vogue, Glamour, Mademoiselle, GQ, Rolling Stone, Life, Newsweek, Elle, Esquire. Dopo una lunga collaborazione durata dal 1992 al 2004 lavora stabilmente come direttore editoriale per il mensile Harper’s Bazaar, con il quale aveva firmato un contratto di esclusiva .

Considerato uno dei più grandi ed acclamati fotografi di moda e del mondo dello showbusiness internazionale, nel 1989 Demarchelier, fu scelto primo non inglese, come fotografo ufficiale della famiglia reale britannica e in particolare di Lady D, di cui ha firmato molti ritratti iconici. Era anche il fotografo ufficiale di Alberto di Monaco e Charlene Wittstock ed ha fotografato e firmato due Calendari Pirelli, nel 2005 (a Rio de Janeiro) e nel 2008 (a Shanghai).

Nel corso della sua carriera il lavoro di Patrick Demarchelier si è concentrato anche sulle case di moda, collaborando per importanti campagne pubblicitarie. Tra i suoi clienti più importanti figurano i nomi di Christian Dior, Louis Vuitton, Versace, Chanel, Armani, Lancôme, Guerlain, Tommy Hilfiger, Yves Saint Laurent, Lacoste, Lacoste, L’Oréal, Céline, Revlon, Yves Saint Laurent, Lancôme, Elizabeth Arden e . Oltre che con gli stilisti francesi, Demarchelier era molto amato dagli americani Ralph Lauren, Calvin Klein e Donna Karan e dagli italiani Giorgio Armani, Gianni Versace, Gianfranco Ferré e Moschino . 

La sua fama di fotografo amato dalle dive di Hollywood e della moda internazionale era così nota nel mondo della moda che Patrick Demarchelier nel film “Il diavolo veste Prada” (2006) viene ripetutamente citato. Il fotografo appare nel documentario “The september issue“, nella serie tv “Sex and the city“, nel video della canzone “Obsessed” di Mariah Carey e in un episodio del talent “America’s Next Top Model”. La regina mondiale del giornalismo di moda e costume Anna Wintour, la temuta, rispettata ed influente direttrice di Vogue ha descritto il suo lavoro come «eterno, classico senza tempo». Sue le foto di copertina di “Bedtime stories” e “Justify my love” di Madonna e di tante altre cover di album, da Céline Dion a Britney Spears, da Mariah Carey a Quincy Jones, passando per Elton John. Ha scattato anche le foto per le cover di alcuni film come “James Bond – La morte può attendere” (2002),  “Dick Tracy” (1990) e “Bugsy” (1991). 

Nel 2007 è stato insignito del titolo di Ufficiale dell’Ordine delle Arti e delle Lettere della Repubblica francese. Tra i suoi ritratti in bianco e nero anche quelli di Michelle Obama, Prince, Azzedine Alaïa, Robert De Niro e Hillary Clinton. 

Ciao Patrick di Antonello de Gennaro Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Aprile 2022.

Con la scomparsa di Patrick Demarchelier perdo un vecchio e caro amico, con cui ho passato serate divertenti a Parigi e Milano durante le Fashion Weeks, indimenticabili vacanze a St. Barth, dove mi ha permesso di assistere e filmare i suoi shooting fotografici per delle mie produzioni televisive che ho realizzato negli anni ’90 ed ai primi del 2000. Vederlo all’opera era un piacere, e capivi che la sua fotografia per lui era arte, era un piacere, e soltanto dopo un lavoro. Ovunque tu vada, vecchio amico mio, un giorno ci ritroveremo di nuovo tutti quanti come sulla spiaggia di Salinè, e continueremo a ridere. Ciao Patrick, ci mancheranno il tuo sorriso beffardo e la tua ironia.

Redazione CdG 1947

·        È morto Tom Parker.

È morto Tom Parker, il cantante dei Wanted. Aveva 33 anni. La Repubblica il 30 Marzo 2022.

L'artista inglese, membro della boy band britannica, era stato colpito da un tumore al cervello. Lascia due bambini, Aurelia Rose, nata nel 2019, e Bodhi, nato lo scorso ottobre.

Tom Parker, cantante dei Wanted, è morto all'età di 33 anni per un cancro al cervello. La notizia è stata diffusa dalla moglie del cantante, Kelsey Hardwick, con un post su Instagram: "È con il più pesante dei cuori che confermiamo che Tom è morto pacificamente con tutta la sua famiglia al suo fianco. I nostri cuori sono spezzati, Tom era il centro del nostro mondo e non possiamo immaginare la vita senza il suo sorriso contagioso e la sua presenza energica". "Grazie a tutti coloro che lo hanno curato per tutto il tempo, ha combattuto fino alla fine. Sarò sempre orgogliosa di te", ha concluso la moglie, che aveva sposato Parker nel 2018 e dal quale ha avuto due bambini, Aurelia Rose, nata nel 2019, e Bodhi, nato lo scorso ottobre.

Parker era uno dei cinque membri dei Wanted, una delle boy band di maggior successo nel Regno Unito. I suoi compagni hanno  detto di essere "devastati" dalla morte di Parker, spiegando che erano al suo fianco assieme alla sua famiglia quando è morto: "Le parole non possono esprimere la perdita e la tristezza che proviamo. Sempre e per sempre nei nostri cuori". I Wanted si sono formati nel 2009, con Parker, Max George, Siva Kaneswaran, Nathan Sykes e Jay McGuness. Il loro singolo di debutto del 2010, All time low, ha raggiunto il primo posto in classifica in Inghilterra così come Glad you came nel 2012. Il gruppo ha pubblicato un album dei più grandi successi lo scorso novembre.

Nel 2021, Parker ha diretto un documentario della serie Stand up to cancer di Channel 4, seguendo la sua vita con la sua famiglia mentre si sottoponeva al trattamento. A novembre aveva detto ai fan che il suo tumore era stabile e sotto controllo, all'inizio di marzo è anche stato in grado di esibirsi in alcune serate del tour dei Wanted nelle arene del Regno Unito dopo la riunione del gruppo nel 2021, ma le sue condizioni sono improvvisamente peggiorate. Il suo libro di memorie, Hope, annunciato all'inizio di questo mese, sarà pubblicato a luglio, e l'aveva presentato con un video su Instagram in cui diceva tra l'altro: "Non è un libro sul cancro, ma su come trovare la speranza in qualsiasi situazione ti venga assegnata e vivere la tua vita migliore, qualunque cosa accada".

·        Addio al giornalista Franco Venturini.

Addio a Franco Venturini, giornalista galantuomo che ci spiegava il mondo. Paolo Fallai su Il Corriere della Sera il 30 Marzo 2022.

Franco Venturini, giornalista del Corriere della Sera da 36 anni, è stato corrispondente in Russia e aveva raccontato la stagione di Gorbaciov agli italiani. 

Uno dei fronti più complessi dell’informazione, nei giornali, ha un nome semplice: esteri. Come se in una paroletta sul concetto di altrove si potesse raccontare la difficoltà di spiegare caratteri, culture, abitudini, ossessioni lontane e a volte vicinissime alle nostre. Per farlo bene non c’è una scorciatoia, bisogna studiare e molto. Bisogna viaggiare, bisogna ascoltare moltissimo. 

Franco Venturini aveva la straordinaria capacità di averlo fatto per tutta la vita. È morto ieri, al Policlinico Umberto I di Roma, uno degli editorialisti più importanti del Corriere della Sera e uno dei colleghi più competenti e disponibili con cui abbiamo avuto il privilegio di lavorare. Aveva 75 anni, Franco, e da 36 firmava i suoi articoli sul Corriere. Era nato a Venezia, il 26 luglio 1946, figlio di un diplomatico di carriera. Con il padre aveva cominciato presto a girare il mondo: aveva frequentato le scuole francesi. Parlava cinque lingue e si era laureato in Scienze politiche alla Sapienza di Roma.

La lunga carriera

Il primo incontro con il giornalismo alla redazione romana del Gazzettino, negli anni ’70, poi il passaggio al Tempo di Gianni Letta dove diventa il capo del servizio Esteri e l’inviato di punta che segue la caduta dei colonnelli in Grecia, la rivoluzione dei garofani in Portogallo, la nascita di Solidarnosc in Polonia. Appena arrivato al Corriere nel 1986 diventa corrispondente da Mosca dove segue la stagione di Gorbaciov. Dall’Italia ci ha raccontato e aiutato a capire la caduta del Muro di Berlino e la nascita di una nuova Europa. Era un galantuomo, principe dei commentatori, ma con uno stile d’altri tempi. Aveva avuto la Legion d’Onore in Francia, collaborava con la Bbc, ha scritto fino a pochi giorni fa. Il suo ultimo editoriale, intitolato «Il pericolo più grande» è uscito il 7 marzo. Con chiarezza parlava di questa «guerra che invade le nostre coscienze, che ci assale con le immagini dei morti e dei profughi, soprattutto dei bambini. Sappiamo che in questa come in quasi tutte le guerre c’è un aggressore e un aggredito, che il colpevole si chiama Vladimir Putin». Ricordandoci lucidamente: «La Russia che rischia di perdere in Ucraina non va umiliata, va battuta con una pace degna. Sapendo che dovremo comunque affrontare il ritorno della guerra fredda in Europa, e che il costo sarà molto alto anche per noi, non soltanto in termini di spese per la difesa o di più difficili rifornimenti energetici. Ma anche la vecchia guerra fredda aveva le sue regole, e per questo non diventò mai calda». Questo era Franco Venturini. Ai suoi cari e in primo luogo ai figli Federica, Marco e Vittoria, va l’abbraccio di tutti noi del Corriere della Sera.

Il ricordo di Paolo Conti pubblicato da odg.roma.it il 31 marzo 2022.

Franco Venturini apparteneva a quella schiera di giornalisti del Corriere della Sera della cosiddetta “vecchia generazione” che hanno sempre assicurato al lettore un’informazione approfondita, e intrinsecamente libera, per una preparazione professionale particolarmente solida. Nel caso di Venturini, raffinato analista di avvenimenti internazionali, c’era di mezzo anche una nascita che era già un destino. 

Era nato a Venezia il 26 luglio 1946,  figlio di un diplomatico di carriera. Ha dunque avuto, sin dall’inizio, un’esistenza cosmopolita che lo ha visto crescere in giro per il mondo e gli ha consentito di parlare correntemente cinque lingue, conoscendo subito la vita e la storia di tanti Paesi. Si laureò in Scienze Politiche a Roma con una tesi di Politica economica pubblicata dal ministero del Tesoro. Poi i primi passi professionali al “Gazzettino di Venezia”, quindi a “Il Tempo” di Roma, durante la direzione di Gianni Letta, dove diventò capo degli Esteri.

Seguì la caduta del regime dei Colonnelli in Grecia nel 1974, la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo nello stesso anno, la nascita del sindacato Solidarnosc in Polonia. Nel 1986 venne chiamato al Corriere della Sera dove fu subito nominato corrispondente da Mosca. Rientrato in Italia nel 1988 diventò commentatore ed editorialista. E lo è rimasto fino all’ultimo ultimo con passione, orgoglio, cura del dettaglio, capacità di spiegare anche gli aspetti più complessi della politica e delle crisi internazionali. Fino all’ultimo non è un’espressione retorica: il suo ultimo articolo (“Il pericolo più grande”) è appena del 7 marzo, riguardava ovviamente l’invasione russa dell’Ucraina. Venturini parlava di “guerra che invade le nostre coscienze, che ci assale con le immagini dei morti e dei profughi, soprattutto dei bambini”. 

Negli ultimi anni aveva focalizzato la sua attenzione professionale sulle complesse evoluzioni dell’integrazione europea. Venturini aveva ricevuto la Legion d’Onore in Francia, nel 1992 aveva vinto il Premio Hemingway. Aveva collaborato a lungo con la Bbc e con France Culture, pubblicando molti saggi non solo in Italia. Tra le interviste più famose della sua carriera quella a George Bush senior, Boris Eltsin, Kofi Hannan, Hosni Mubarak, Jacques Chirac.

Venturini era non solo un prestigioso, autentico giornalista. Era anche, intrinsecamente, un gentiluomo nato, un uomo elegante, colto e  ironico, capace di mantenere il distacco durante molti momenti complessi della sua vita senza però rinunciare all’immediatezza, all’affetto per i colleghi e le colleghe del Corriere della Sera: era legatissimo al nostro giornale, sentiva sinceramente il vincolo di appartenenza. Nessuno di noi ricorda di aver ascoltato da lui giudizi sommari o sbrigativi su persone qualsiasi come su Grandi della Terra. Era un Signor Giornalista, e un Giornalista Signore.  Lo rimpiangeremo in tanti, lettori e colleghi.

Un altro grande giornalista che se ne va. Franco Venturini, collega preparatissimo, ironico e raffinato, avrebbe dovuto ritirare la targa per i 50 anni di iscrizione all’albo dei Giornalisti del Lazio. Lo abbiamo ricordato nel corso dell’assemblea per l’approvazione del bilancio. Purtroppo non abbiamo fatto in tempo. Presto organizzeremo un incontro per consegnarla ai figli. Pubblichiamo uno straordinario ricordo di Paolo Conti, altra grande firma del Corriere della Sera, compagno di banco per anni di Franco Venturini.

Guido D’Ubaldo. Presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio

·        È morto l’attore Lars Bloch.

È morto Lars Bloch, il Megapresidente di «Fantozzi contro tutti». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Aveva 83 anni e da più di 20 anni aveva lasciato il cinema. 

Il nome (Lars Bloch) non dice molto, ma il suo volto nei panni del Megapresidente Arcangelo in «Fantozzi contro tutti» se lo ricordano in molti. Certo non come l’altro personaggio di culto (il Megadirettore Galattico interpretato dall’apparentemente innocuo Paolo Paoloni), ma nel suo genere una figura di riferimento che ora non c’è più. Se ne è andato a 83 anni. Attore e compositore danese naturalizzato italiano, apprezzato compositore nel suo Paese d’origine, Lars Bloch come attore lavorò principalmente in Italia, distinguendosi per la sua recitazione misurata. Volto rassicurante e con un sorriso angelico pronto a diventare demoniaco a seconda delle esigenze, partecipò a pellicole quali Il disco volante (1964) di Tinto Brass, Certo, certissimo, anzi... probabile (1969) di Marcello Fondato, Il conte di Montecristo (1975) di David Greene e Fantozzi contro tutti (1980) di Neri Parenti. Dalla seconda metà degli anni Ottanta Bloch liofilizzò la sua attività sul grande schermo, tanto che la sua ultima apparizione in un film risale a più di 20 anni fa: Un bugiardo in paradiso (1998) di Oldoini.

Marco Giusti per Dagospia il 29 marzo 2022.

Se ne va anche Lars Bloch, gigante biondo di Via Veneto, un ragazzone danese, era nato a Hellerup nel 1938, che scese a Roma dal grande nord con la vespa alla fine degli anni ’50 e lì rimase per sempre. Adorava Roma. E ha girato in vespa fino a pochissimi anni fa malgrado si fosse un bel po’ ingrassato negli anni. 

Fu attore, caratterista in peplum, western, commedie, ma anche produttore intelligente di film assurdi come “Santa Sangre” di Alejandro Jodorowski, “Dust” di Milko Manchevski, e il fantascientifico “Ecce Homo” di Bruno Gaburro.  

Sempre con un progetto pronto da portare avanti, l’ultimo, leggo, era un biopic sul jazzista Buddy Bolden scritto da Michael Ondaatje, “Coming Throught Slaughter”, ma anche il buffo resoconto delle sue avventure a Cannes, “A Viking in the Croisette”. 

Lars sapeva tutto di tutti nel mondo del cinema. Poteva raccontarti di come Terence Young scelse Sean Connery per James Bond e dei problemi che ebbe per non far vedere sullo schermo quanto fosse coatto. O del suo amico fraterno Chet Baker, col quale fece i primi musicarelli assieme a Piero Vivarelli e che accompagnò più volte in giro per i festival.

Più personaggio e amico di tutti che vero attore, come arrivò a Roma e lo videro. I registi italiani gli fecero fare di tutto, il soldato americano, il vichingo, l’unno, il tedesco, il marito cornuto svedese, il prete, il gigante che prende le padellate negli western comici, l’omosessuale dichiarato che porta via l’uomo a Catherine Spaak o Claudia Cardinale in uno dei finali che lasciarono davvero storditi gli spettatori italiani. Ma tu puoi preferire davvero Lars Bloch alla Cardinale o alla Spaak? Simpatico, bon vivant, sempre pronto alla battuta e alla risata, Lars era una forza della natura.

Tra il 1959 e il 1961 lo troviamo ovunque, “Annibale”, “Tipi da spiaggia”, ovviamente “La dolce vita” e Fellini lo chiamerà sempre negli anni ’60, “Il principe fusto”, buffa opera prima di Maurizio Arena sulla dolce vita romana, “Era notte a Roma” con Roberto Rossellini. 

Nel peplum “La regina delle amazzoni” il suo ruolo è quello di Lars. Facile. Ma lo troviamo anche come Mark ne “La giornata balorda” di Mauro Bolognini, “Il gobbo” di Carlo Lizzani, ne “Le svedesi” ha il ruolo di Erik, ma è Erik e vichingo anche in “Maciste nella terra dei ciclopi”.

Le cronache del tempo di Viktor Ciuffa sul “Corriere”, che lo descrivono come ricco figlio di un birrario danese, dicono che ha sfidato Ugo Tognazzi a duello per l’onore di una attrice, Sfida che verrà praticata sui campi di tennis. Ma Lars non si ricordava questa storia. Chissà?

Con Tognazzi lo troviamo come soldato americano biondo ne “Il federale” di Luciano Salce. Torna con Fellini per “Boccaccio 70”, ma intanto è anche sul set di “Sodoma e Gomorra” di Robert Aldrich, “Diciottenni al sole” di Camillo Mastrocinque. 

In “Storie sulla sabbia” di Riccardo Fellini, fratello di Federico che ebbe la sventura di tentare la carriera di regista, è ancora Lars, come nell’episodio di Giuliano Montaldo, “La moglie svedese” di “Extraconiugale”.

Nel kolossal su Michelangelo di Carol Reed “Il tormento e l’estasi” è il Barone Von Silenen. Perfetto. Ma sarà anche un perfetto Arcangelo ne “La Bibbia” di John Huston, Negli western non ha il fisico da protagonista, ma fa ogni ruolo secondario, da “Navajo Joe” a “Un dollaro tra i denti”, dal bellissimo “Se sei vivo spara” di Giulio Questi con Tomas Milian a tutti gli western trashioni successivi, “Trinità e Sartana figli di…”, “Allelluja e Sartana figli di… Dio”, “Il West ti va stretto amico, parola di Alleluja”, dove non la smette mai di prendere padellate in faccia.

Ma è all’epoca degli spaghetti western che scopre di poter far qualcosa di più nel cinema. Così produce il primo dietro le quinte del cinema western italiano da vendere al mercato inglese, il fondamentale “Western Italian Style” diretto da Patrick Morin con la voce narrante di Frank Wolff. E lì che vediamo i si gira di western famosissimi di Sergio Corbucci, Sergio Sollima, Enzo G. Castellari.

Da quello produrrà anche “Ecce Homo” di Bruno Gaburro e una decina d’anni dopo incontrerà Alejandro Jodorowski e riuscirà a dar vita a “Santa Sangre”. Infaticabile, nei primi anni’80, dopo aver girato qualsiasi tipo di ultimo western, perfino il folle “E il terzo giorno arrivò il condor”, un film che falliva sempre e passava di regista e produttore a regista, produttore e protagonista ogni volta, fino ad avere ben tre registi diversi, anche se Lars sosteneva ce ne fosse addirittura un quarto, e dopo aver fatto il mega presidente Arcangelo per “Fantozzi contro tutti” e un’apparizione in “Fracchia contro Dracula”, passa direttamente alla produzione. Ci mancheranno il vecchio Lars e la sua vespa.

·        E’ morto l’attore Gianni Cavina.

(ANSA il 26 marzo 2022) - E' morto questa notte a Bologna, all'età di 81 anni, l'attore Gianni Cavina. A darne notizia all'ANSA è il regista Pupi Avati, che ha diretto Cavina in numerosi film tra cui l'inedito 'Dante', atteso in sala a settembre. Nato a Bologna 81 anni fa, malato da tempo, Cavina aveva vinto nel 1997 il Nastro d'argento per la sua interpretazione in 'Festival' di Avati.

Fabio Marasca per tvblog.it il 26 marzo 2022.

Gianni Cavina, attore bolognese, volto noto, per quanto riguarda il piccolo schermo, grazie a programmi televisivi, film tv, fiction e spot pubblicitari, e in generale, per il suo sodalizio con il regista Pupi Avati, è morto ieri, venerdì 25 marzo 2022, all’età di 81 anni. 

L’attore, malato da tempo, è deceduto nella sua città, Bologna. A comunicare ufficialmente la notizia, Antonio Avati, produttore, sceneggiatore e fratello di Pupi Avati: Purtroppo la moglie di Gianni, all’alba di oggi, ci ha dato questa tristissima notizia. Gianni era già malato ma aveva affrontato con grande forza anche le riprese di Dante (film di Pupi Avati dedicato a Dante Alighieri, ndr), dove interpreta il notaio Pietro Giardino. 

Nel suo messaggio, Antonio Avati ha sottolineato come Gianni Cavina fosse un attore eclettico, capace di passare “dalle parti più comiche ed esagerate, come quelle che interpretò nei nostri primi film, a ruoli molto sentiti e importanti, che ha portato nei nostri film ma anche in quelli di altri importanti registi, da Luigi Comencini a Marco Bellocchio”.

Antonio Avati spera che la Rai possa omaggiarlo con la messa in onda de Il signor Diavolo, film del 2019. 

Grazie a Pupi Avati, Gianni Cavina ha anche vinto un Nastro d’Argento come migliore attore non protagonista per il film Festival.

Soffermandoci sulla sua carriera televisiva, negli ultimi anni, Gianni Cavina aveva lavorato con Riccardo Milani per le fiction Atelier Fontana – Le sorelle della moda e Una grande famiglia.

Dagli anni ’70 fino agli anni’ 90, l’attore bolognese prese parte a diversi prodotti televisivi, molti diretti da Pupi Avati, come Jazz Band, Cinema!!! e Dancing Paradise, e altre miniserie e film tv come Il mulino del Po, Una lepre con la faccia di bambina, La vita leggendaria di Ernest Hemingway, Appuntamento a Trieste e L’ispettore Sarti. 

Con Pupi Avati, Gianni Cavina lavorò anche nel documentario Accadde a Bologna e per il programma Hamburger Serenade. A cavallo tra gli anni ’70 e ’80, l’attore partecipò anche ai programmi di intrattenimento Che combinazione e Le Regine.

Per quanto concerne gli spot pubblicitari, da ricordare la serie di spot 4 Salti in Padella Findus, andata in onda nel 2000 e nel 2001, ambientata nell’Olimpo, nella quale Cavina interpretò la parte di Giove.

È morto Gianni Cavina, attore feticcio di Pupi Avati. Il Tempo il 26 marzo 2022.

È morto questa notte a Bologna, dove era nato, l’attore Gianni Cavina. Aveva 81 anni ed era malato da tempo. A dare la notizia all’Adnkronos, il produttore Antonio Avati, fratello di Pupi, con il quale Cavina ha girato diversi film, compreso l’ultimo "Dante", ancora inedito.

«Purtroppo - ha detto Antonio Avati - la moglie di Gianni ci ha dato questa tristissima notizia. Gianni era già malato ma aveva affrontato con grande forza anche le riprese di "Dante", dove interpreta il notaio Pietro Giardino». Nel 1997, Cavina ha vinto il Nastro d’argento al migliore attore non protagonista proprio con un film di Pupi Avati, "Festival". «Aveva le qualità dell’attore completo - ha aggiunto Antonio Avati - poteva passare dalle parti più comiche ed esagerate, come quelle che interpretò nei nostri primi film, a ruoli molto sentiti e importanti, che ha portato nei nostri film ma anche in quelli di altri importanti registi, da Luigi Comencini a Marco Bellocchio. C’è un film di Pupi che la Rai ha e che spero mandi in onda per ricordarlo, "Il signor Diavolo", dove fa un bellissimo ruolo», ha concluso il produttore.

Addio Gianni Cavina, attore cult di Pupi Avati e ispettore Sarti in tv. Emilio Marrese La Repubblica il 26 Marzo 2022.  

L'artista bolognese aveva 81 anni ed era malato da tempo. Aveva recitato anche in "Una grande famiglia". È morto questa notte a Bologna, dove era nato, l'attore Gianni Cavina. Aveva 81 anni ed era malato da tempo. A dare la notizia  il produttore Antonio Avati, fratello del regista Pupi, con il quale Cavina ha girato ben diciassette film, compreso l'ultimo 'Dante' ancora inedito, e cinque serie tv.

Formatosi alla scuola teatrale di Franco Parenti e dopo aver mosso i primi passi nel mondo del cabaret anche accanto a Lucio Dalla, tra i ruoli interpretati da Cavina per Pupi Avati rimane nella memoria quello in "Regalo di Natale", film del 1986 in cui recita nei panni di uno dei giocatori di poker della feroce partita entrata nella storia del cinema italiano, con Diego...

È morto l’attore Gianni Cavina, l’attore feticcio di Pupi Avati (20 film). Renato Franco su Il Corriere della Sera il 26 Marzo 2022.

L’attore aveva 81 anni ed era malato da tempo. 

Attore feticcio di Pupi Avanti (recitò per lui in 20 tra film e serie tv), caratterista camaleontico — ben rasato in Regalo di Natale, barba incolta in Festival —, leggero nel dramma, intenso nella commedia, è morto a Bologna, dove era nato, Gianni Cavina. Affetto da anni da una grave malattia che ne aveva compromesso le capacità motorie, aveva 81 anni. «Un dolore immenso», sono le prime parole con cui Pupi Avati ricorda l’amico, sottolineandone il ruolo fondamentale nella sua carriera: «È stato il coprotagonista del mio primo film e ha partecipato anche all’ultimo. Lui c’è stato sempre nella mia cinematografia. Abbiamo imparato a fare questo mestiere insieme». «Aveva le qualità dell’attore completo — aggiunge Antonio Avati, produttore di tutti i film del fratello —, poteva passare dalle parti più comiche ed esagerate, come quelle che interpretò nei nostri primi lavori, a ruoli molto sentiti e importanti, che ha portato nei nostri film ma anche in quelli di altri registi di primo piano, da Luigi Comencini a Marco Bellocchio».

(Le serate nelle osterie e l’amore fraterno per Pupi Avati: qui il profilo del Corriere di Bologna)

Gli esordi

Dopo gli esordi a teatro, allo Stabile di Bologna (si forma con gli insegnamenti di Franco Parenti), nel 1968 Cavina debutta al cinema con Flashback di Raffaele Andreassi. Sfiora anche la commedia sexy all’italiana con ruoli da comprimario, ma è l’incontro con Pupi Avati che gli cambia la carriera, un sodalizio artistico che lo porta ad avere un ruolo quasi fisso nei film del regista, di cui in alcuni casi è stato anche sceneggiatore a metà degli anni Settanta. Succede per La mazurka del barone della santa e del fico fiorone, con Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio, con La casa dalle finestre che ridono, Bordella, Tutti defunti... tranne i morti. Attore dai mille volti, nel 1986 è uno dei giocatori di poker di Regalo di Natale che segna la svolta di Abatantuono in attore drammatico, mentre undici anni dopo ottiene il riconoscimento più alto con il Nastro d’argento al migliore attore non protagonista per Festival. Di mezzo c’è sempre lui, ovvio, Pupi Avati. Al cinema Gianni Cavina ha sempre alternato i ruoli televisivi: tra i più recenti, la serie corale Una grande famiglia per Rai1. A settembre sarà ancora una volta, l’ultima volta, al cinema, interprete dell’inedito Dante. Il regista del film? Inutile dirlo. «Con grande coraggio Gianni aveva deciso di partecipare al mio ultimo progetto cinematografico — spiega Pupi Avati — e avevo scritto per lui un personaggio che stesse a letto così da non farlo muovere. Lui voleva esserci ad ogni costo».

VERGOGNA! Di PIETRANGELO BUTTAFUOCO. Il Quotidiano del Sud il 30 marzo 2022.

In terra sconsacrata, un tempo, si seppellivano gli attori. Un gesto perfino più degno della vergognosa scelta della municipalità di Bologna di disertare i funerali di Gianni Cavina. E ha avuto tutte le ragioni, Pupi Avati, a dichiarare tutto il suo disprezzo e “l’odio” verso chi, venendo meno a un dovere – farsi carico dell’identità della città – ha, come al solito, scelto l’appartenenza. Ma si sa. Non se ne poteva cavare retorica dalla innocente e straziata maschera di Cavina, neppure una goccia del liquame ideologico potevano prendersi lor signori sempre illuminati e impegnati, titolari dello status quo. E dunque l’hanno lasciato solo. Nella sua bara. Senza la città a far cornice. Vergogna.

Fernando Pellerano per corriere.it il 30 marzo 2022.

Ieri, l’ultimo saluto a Gianni Cavina nella Chiesa del Sacro Cuore, nella sua Bolognina, vicino a casa. Una messa intima officiata da Don Massimo, alla presenza della moglie Giovanna e del figlio Fabrizio, avuto dalla prima consorte Mary France, e di pochi, pochissimi amici e conoscenti. 

Sono seguite le parole di Pupi e Antonio Avati, suoi grandi amici da sempre e compagni di cinematografiche avventure: il vero, affettuoso e sentito ultimo ciak. Loro due, in prima fila in questi giorni successivi alla scomparsa dell’attore bolognese, prima felicemente colpiti per la grande «e meritata» copertura mediatica da parte dei giornali, delle tv e dei social, ma ieri affranti e delusi dalla scarsa partecipazione dei bolognesi. 

«Siamo rimasti sorpresi di questo vuoto, reso ancora più evidente dalla grandezza della chiesa», dice Antonio. Ugualmente esplicito il fratello, Pupi, che non trattiene la sua amarezza. «Pensa, siamo arrivati un’ora prima pensando di trovare la folla e quindi per assicurarci un posto vicino al suo bianco feretro, e invece non c’era nessuno», racconta mentre torna a Roma in treno. «Non riesco a fare finta di niente, a stare zitto, anche perché ho rivissuto il funerale di Carlo Dalle Piane a Roma: poca gente anche lì, cui seguirono le mie rimostranze. Oggi devo farlo purtroppo con la mia città, i miei concittadini e le istituzioni incredibilmente assenti: il nulla».

Il ricordo in consiglio comunale e il silenzio in chiesa

Così è andata, proprio mentre negli stessi minuti in consiglio comunale il consigliere Maurizio Gaigher ricordava la brillante carriera di Cavina, «dai suoi esordi come attore teatrale e cabarettista, insieme a Lucio Dalla e Nino Mangano», e poi la serie dell’ispettore Sarti di Macchiavelli girata a Bologna, i tanti film, ben venti con Avati, fino all’ultima partecipazione in Dante, nonostante le precarie condizioni fisiche, dove potremo rivederlo appena la pellicola arriverà in sala, e a seguire il minuto di silenzio in aula. Più fragoroso il silenzio ai Salesiani. Con dolorosa sincerità Pupi racconta come ieri non abbia fatto la comunione. «L’ho detto a Don Massimo, “non posso perché sono in peccato, perché in questo momento sto odiando la mia città che ha dimostrato disamore”».

«Ammetto di aver sofferto perché dopo tutti quei riconoscimenti letti sui giornali e visti in tv, mi aspettavo altrettanto per questo ultimo saluto. Gianni lo meritava, per quello che ha fatto sempre pensando alla nostra città, lui che la bolognesità l’ha portata ovunque. Le autorità, le istituzioni avrebbero dovuto tenerne conto, coglierne l’importanza e quindi esserci. Purtroppo così non è stato». Un ritorno a Roma amaro, con un finale però senza maschere né infingimenti, quindi vero e di carne, e col pensiero, magari, che Gianni Cavina ci sarà comunque coi suoi mille volti, ora drammatici ora comici, nelle tante pellicole a cui ha lavorato, fino alla fine. 

Il sindaco di Bologna: «Un disguido, ci siamo scusati con Avati»

«Ho sentito Pupi Avati. Ci siamo scusati con lui». Così il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, dopo lo sfogo del regista ai funerali dell’attore Gianni Cavina. «Chiamerò in queste ore anche la famiglia- informa oggi Lepore a margine di una conferenza stampa- Abbiamo onorato Cavina in Consiglio comunale, portando il cordoglio della città. Ci dispiace che per un disguido organizzativo nessun consigliere comunale o assessore sia stato presente alle esequie». «Sicuramente per noi Cavina- aggiunge il sindaco- rappresenta una delle personalità del mondo della cultura più importanti degli ultimi decenni. Lo omaggeremo come merita».

Estratto dell'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” il 5 giugno 2022.

Quattro marzo 2022, una data che con l’occhio del poi assume significati, ritornelli e suoni chiari. 

Quel giorno chiamiamo Gianni Cavina, e anche lui era un bell’uomo e magari veniva dal mare. Risponde. [...] 

Già stava molto male, ma non ne parlava. Anzi cercava di sorridere tra un affanno e un colpo di tosse. A un certo punto avevamo deciso di lasciar perdere, fino a quando sua moglie Giovanna ha intrapreso un percorso ostinato e contrario: è stata lei a contattarci di nascosto dal marito, “perché Gianni ci tiene a completarla”, “perché Gianni – ci ha confidato in un’altra occasione – era felice che qualcuno si occupasse di lui. Mesi prima voleva buttare il cellulare ‘tanto non mi chiama più nessuno’”. Poi all’alba del 26 marzo è morto. È morto un bravissimo attore, un vero interprete fino all’ultimo fotogramma della sua esistenza. Quindi, eccola qua.

La sua carriera è iniziata nel 1968.

Credo di sì; in realtà, da sempre, cancello le date, non trattengo i ricordi; comunque al cinema ci sono arrivato grazie a Pupi Avati: è stato lui a coinvolgermi all’inizio con il teatro e poi con il resto. 

Quindi prima di quell’incontro non recitava...

(Sorride) Diciamo che ci provavo.

Non era il suo obiettivo nella vita.

Assolutamente! Io volevo giocare a pallone. 

[...] Pupi Avati come lo ha conosciuto?

Grazie al teatro; da lì è iniziato un meccanismo di amicizia, di condivisione, di fiducia. Con lui ho recitato pure nell’ultimo film su Dante; recitare mi dà un piacere incredibile, avverto dei brividi assoluti, una gioia infinita. 

[...] Anche Lucio Dalla, bolognese come lei, manifestava un certo gusto per la bugia.

Lo so benissimo, era un mio amico intimo.

Com’era?

Ogni tanto veniva a mangiare a casa mia e quando aveva finito sparecchiava il tavolo e ci si sdraiava sopra solo per risolvere i problemi allo stomaco. 

E voi?

Indifferenti continuavamo a parlare; era molto divertente. 

Uscivate insieme?

Più che altro mantenevamo un rapporto confidenziale con le cantine; le cantine erano veramente importanti.

Perché?

Lì incontravamo tutti, e dico tutti, persone come Guccini... (silenzio). 

[...] Guccini secondo lei.

Un ragazzo serio, poco ironico, eppure quelle serate erano un grande successo di ironia: per noi il divertimento era una droga. 

[...] 

(Dopo qualche ora) In tv spesso trasmettono un film diventato cult, “Cornetti alla crema”.

È un continuo... 

Con Edwige Fenech.

Eccezionale come donna e come amica; una persona molto preparata ad affrontare quel tipo di meccanismi. 

Bella donna.

Bella? Era un pezzo di... meglio che sto zitto. Da non credere, era impressionante. 

Fuori dal set manteneva il suo sex appeal.

Molto di più, come nessun’altra; non mi sento di andare avanti, ci risentiamo un’altra volta? (giorni dopo) Dove eravamo rimasti? 

[...] 

Da attore è stato trattato come credeva di meritare?

No, e questa domanda mi spiazza e mi dà pure un po’di problemi; non sono un grande attore, ma uno normale, con una classica carriera composta da momenti belli e meno belli. 

Tra i belli?

Sicuramente Regalo di Natale e La via degli angeli di Pupi Avati e ultimamente La grande famiglia di Riccardo Milani con Stefania Sandrelli e Alessandro Gassmann.

[...] 

Un film che non le è piaciuto...

Allora mi deve offrire molto tempo, la lista è veramente lunga. 

La locandiera.

Beh, insomma, lì non c’è male. 

[...]

C’era Paolo Villaggio.

Lasciamo perdere, un uomo molto egoista, cattivo: in quei giorni, sul set, nevicava, un freddo clamoroso, eppure non consentiva a nessuno di entrare nella sua roulotte per bere almeno un caffè. 

Mentre giravate Regalo di Natale si rendeva conto di partecipare a un capolavoro?

Neanche un po’. Credevamo di girare solo un filmino delicato e a basso costo. 

E con Abatantuono...

No, non è un fenomeno. Le rispondo prima che finisca la domanda. 

Quindi?

Un attore sopravvalutato con molta fortuna. Meglio per lui. 

E Carlo Delle Piane?

Una persona adorabile, un rompicoglioni da morire. 

[...] 

In generale chi considera un amico?

Non sempre, ma spesso Pupi Avati. 

Avete litigato?

Mai, purtroppo; (ride) in realtà lo amo da morire e lui ama me. Poi non ci sentiamo tanto, ma per non romperci i coglioni, così quando ci incontriamo siamo molto sereni. 

Gli attori più bravi con i quali ha lavorato.

Bah, nessuno in particolare. 

Neanche la Sandrelli?

Lasciamo perdere. 

Ornella Muti?

Idem. (pausa) Guardi che posso diventare antipatico. 

Qual è il suo pensiero fisso?

Tutti i giorni sogno il set, però non me lo consentono più.

·        E’ morto il batterista Taylor Hawkins.

Taylor Hawkins morto a 50 anni: addio al batterista dei Foo Fighters. Debora Faravelli il 26/03/2022 su Notizie.it.

Il batterista dei Foo Fighters Taylor Hawkins è morto all'età di 50 anni: avrebbe dovuto esibirsi in un concerto in Sudamerica. 

Lutto nel mondo musicale per la scomparsa di Taylor Hawkins, batterista dei Foo Fighters morto all’età di 50 anni in un hotel di Bogotà. La band si trovava nella capitale colombiana per suonare al Festival Estero Picnic, tappa del loro tour in America Latina che il giorno seguente li avrebbe visti in Brasile.

Taylor Hawkins morto

A dare il triste annuncio è stato lo stesso gruppo sui suoi profili social: “La famiglia Foo Fighters è devastata dalla tragica e prematura perdita del nostro amato Taylor Hawkins“.

Il suo spirito musicale e la sua risata contagiosa, si legge ancora nel messaggio, “vivranno con tutti noi per sempre“. Dopo aver espresso vicinanza a moglie, figli e all’intera famiglia, “chiediamo che la loro privacy sia trattata con il massimo rispetto in questo momento inimmaginabilmente difficile“.

Ancora ignota la causa esatta del decesso, con alcune fonti che parlano di infarto mentre altre di assunzione di sostanze stupefacenti. A confermarlo sarà soltanto l’autopsia.

Taylor Hawkins morto: chi era

Reclutato nel 1997 da Dave Grohl per sostituire il batterista William Goldsmith nei Foo Fighters, con il gruppo si è accinto anche alla voce solista: nel 1999 per la cover di Have a Cigar dei Pink Floyd, inserita come lato B del singolo Learn to Fly, nel 2005 nel singolo Cold Day in the Sun, nell’album In Your Honor, e nel 2017 nel brano Sunday Rain dell’album Concrete and Gold.

Durante un periodo di pausa dei Foo Fighters, ha suonato cover heavy metal anni Settanta nel trio Chevy Metal. Nel 2007 ha eseguito tutte le parti di batteria dell’album Good Apollo, I’m Burning Star IV, Volume Two: No World for Tomorrow del gruppo Coheed and Cambria mentre l’anno seguente ha collaborato con i Queen + Paul Rodgers per la registrazione di The Cosmos Rocks.

Nel 2010 ha cantato i cori nel brano Crucify the Dead, dall’album Slash del chitarrista omonimo, mentre l’anno successivo ha registrato per Vasco Rossi la batteria del brano L’uomo più semplice, pubblicato come singolo nel mese di gennaio 2013.

Taylor Hawkins dei Foo Fighters morto a 50 anni: dramma nel mondo del rock. Libero Quotidiano il 26 marzo 2022.

Lutto nel mondo della musica rock: Taylor Hawkins, batterista dei Foo Fighters, è morto a soli 50 anni a Bogotà, dove si trovava con la band americana per un concerto. A stroncare il musicista un attacco di cuore, a soli 50 anni. Considerato tra i batteristi più talentuosi e riconoscibili della sua generazione, istrionico e versatile (non di rado si esibiva anche come cantante), dopo aver suonato con la cantante canadese Alanis Morissette a metà anni Novanta, nel 1997 viene scelto dall'ex Nirvana Dave Grohl, anche lui batterista passato a chitarra e microfono, per sedere dietro le pelli della sua band formata nel 1994, pochi mesi dopo la morte di Kurt Cobain. Con Grohl, Hawkins forma un sodalizio umano e artistico solidissimo. L'intesa tra i due è totale, a cominciare dai divertenti video "en travesti" che vedano il gruppo tra i più amati su dal pubblico alternativo di Mtv. 

A dare l'annuncio della morte è stata la stessa band, sui social: "La famiglia Foo Fighters è devastata dalla tragica e prematura perdita del nostro amato Taylor Hawkins", ha twittato alle 4 ora italiana il gruppo di Seattle, insieme ai Peral Jam di fatto l'unico rimasto attivo dell'era grunge, sia pur nato dalle ceneri di quel movimento. "Il suo spirito musicale e la sua risata contagiosa - continua il messaggio - vivranno con tutti noi per sempre. I nostri cuori vanno a sua moglie, ai suoi figli e alla sua famiglia, e chiediamo che la loro privacy sia trattata con il massimo rispetto in questo momento inimmaginabilmente difficile". Secondo fonti non confermate, Hawkins sarebbe stato colpito da infarto e trovato morto nella sua stanza di hotel. I Foo Fighters si trovavano nella capitale colombiana per suonare al Festival Estero Picnic, tappa del loro tour in America Latina che domani li avrebbe visti esibirsi in Brasile.

Da tgcom24.mediaset.it il 26 marzo 2022.

E' morto a 50 anni Taylor Hawkins, batterista dei Foo Fighters. Ne ha dato l'annuncio la rock band americana sui suoi profili social.

"La famiglia Foo Fighters è devastata dalla tragica e prematura perdita del nostro amato Taylor Hawkins", ha twittato alle 4, ora italiana, il gruppo fondato nel 1994 a Seattle dall'ex batterista dei Nirvana, Dave Grohl. Hawkins lascia la moglie Alison e tre bambini. 

L'annuncio della morte improvvisa - La band avrebbe dovuto suonare a un festival a Bogotà, in Colombia, nel corso di un tour sudamericano. 

L'ultimo concerto di Hawkins è stato domenica in un altro festival a San Isidro, nella provincia di Buenos Aires, in Argentina. 

Non ci sono, al momento, dettagli sulle cause del decesso. 

Auto della polizia, un'ambulanza e fan si sono radunati fuori da un hotel nel nord di Bogotà, dove dovrebbe trovarsi Hawkins. 

"Il suo spirito musicale e la sua risata contagiosa vivranno con tutti noi per sempre", si legge sull'account Twitter ufficiale della band. "I nostri cuori sono con sua moglie, i suoi figli e la sua famiglia", continua il messaggio. 

Le autorità in Colombia non hanno commentato la morte di Hawkins. L'ambasciata americana a Bogotà ha espresso le proprie condoglianze in un tweet. 

La carriera - Nato nel 1972 in Texas, a Fort Worth, e cresciuto in California, a Laguna Beach, Oliver Taylor Hawkins, questo il suo nome completo, ha suonato la batteria per i Foo Fighters per 25 dei 28 anni di esistenza della band. Insieme al cantante e chitarrista Dave Grohl, Hawkins ha interpretato ruoli di primo piano nei video della band e nella recente commedia horror "Studio 666".

I suoi esordi in una piccola band della California meridionale prima di ottenere il suo primo concerto importante come batterista per il cantante canadese Sass Jordan. 

Hawkins era stato anche il batterista in tournée di Alanis Morrissette; si era unito ai Foo Fighters nel 1997. Con Grohl si era incontrato proprio nel backstage di uno spettacolo di Morrissette. Ha suonato nei più grandi album della band, tra cui "One by One" e "On Your Honor" e in singoli di successo tra cui "My Hero" e "Best of You".

Hawkins è apparso per la prima volta con la band nel video del 1997 della canzone più popolare dei Foo Fighters, "Everlong", anche se non si era ancora unito al gruppo quando la canzone è stata registrata. 

Nel suo libro del 2021, "The Storyteller", Grohl ha definito Hawkins il "fratello di un'altra madre, il mio migliore amico, un uomo per il quale prenderei una pallottola".

"Al primo incontro, - ricordava il frontman nel volume, - il nostro legame è stato immediato e ci siamo avvicinati ogni giorno, ogni canzone, ogni nota che abbiamo suonato insieme. Sono grato di esserci trovati in questa vita".

All'agenzia di stampa Associated Press nel 2019 Hawkins aveva riferito di essere stato influenzato da Stewart Copeland dei Police, Roger Taylor dei Queen e Phil Collins, che secondo lui era "uno dei miei batteristi preferiti in assoluto. Sai, la gente dimentica che era un grande batterista e anche un bravo ragazzo".

Il cordoglio del mondo del rock - "Dio ti benedica, Taylor Hawkins", ha scritto su Twitter il chitarrista dei Rage Against The Machine Tom Morello, pubblicando una foto insieme al collega.

Musica: Taylor Hawkins aveva assunto cocktail stupefacenti. (ANSA il 27 marzo 2022) - La Procura generale della Colombia ha reso noto che il batterista dei Foo Fighters Taylor Hawkins, morto a Bogotà, aveva assunto "dieci diverse sostanze" stupefacenti nelle ore precedenti la sua morte. 

In un comunicato, redatto insieme all'Istituto di medicina legale colombiano, la Procura ha precisato che nel corpo del musicista sono state rinvenute numerose sostanze, fra cui marijuana, antidepressivi triciclici, benzodiazepine e oppiacei. Nel comunicato non si afferma che il decesso sia stato provocato da queste sostanze.

L'Istituto nazionale di medicina legale, si dice infine, "continua gli studi medici per ottenere un chiarimento totale sulle cause della morte di Taylor Hawkins".

Matteo Cruccu per il “Corriere della Sera” il 27 marzo 2022.

Rivivere un lutto, a un'altra età, in un'altra fase della vita, quando non te l'aspettavi più. 

Sì, deve essere un incubo per Dave Grohl, monumento dei Foo Fighters oggi, coi Nirvana in gioventù, il film che gli si è riproposto a Bogotà, quando gli è stato detto della morte improvvisa, a 50 anni, di Taylor Hawkins, suo batterista nei Foo, ma soprattutto suo «gemello acquisito», come tante volte ha avuto modo di dire.

Mancava infatti un'ora al concerto del festival «Estereo Picnic» in cui i Foo si sarebbero dovuti esibire nella capitale colombiana, quando il batterista è stato trovato senza vita nella sua camera d'albergo. 

Un infarto a quanto pare, anche se sulle cause della scomparsa permane il mistero: la polizia colombiana avanza però il sospetto che la morte sia dovuta ad «abuso di sostanze stupefacenti».

Comunque un incubo per Dave Grohl, perché gli si saranno riappalesati i fantasmi di quel 5 aprile 1994, quando Kurt Cobain si sparò in testa, Kurt con cui Grohl aveva condiviso la vetta del mondo con i Nirvana. 

Non erano fratelli gemelli in questo caso Dave e Kurt, troppo problematico il secondo per poter avere relazioni di empatia assoluta con chicchessia, ma la stima tra i due era in ogni caso profondissima: Grohl, cresciuto da solo con la madre, ma solido nei suoi principi (le droghe solo ai suoi vent' anni e poi mai più) era una sorta di roccioso appiglio per il difficile vissuto di Cobain, una disastrata situazione famigliare in questo caso che l'avrebbe condizionato per tutta la sua breve vita. Appiglio non sufficiente, ahinoi, per trattenerlo di qua, travolto dalla sua fragilità.

Dopo la scomparsa di Kurt, Dave aveva pensato di smettere, prima di decidere di riprendere a volare con i Foo Fighters, sua creatura esclusiva a differenza dei Nirvana, dove era arrivato di sguincio, anche se poi inamovibile, ad aggiungersi agli altri due. 

E in questa avventura, Hawkins, arrivato nei pressi del terzo album, era stato decisivo, silenzioso ma decisivo: nato in Texas, suonava per Alanis Morissette, al massimo del suo splendore allora, quando i due si incontrarono: «Fu una questione di secondi - ha ricordato una volta Grohl -, capimmo subito di essere fatti l'uno per l'altro». 

E Hawkins di rimando: «Amavo il rock, i Nirvana erano la mia band preferita, ero certo che la Morissette avrebbe potuto fare a meno di me». 

Da quel momento i due sarebbero diventati inseparabili per gli otto album successivi con Hawkins che avrebbe contribuito a forgiare alcuni capolavori dei Foo Fighters come Learn to Fly , Times Like These , The Pretender , All My Life e Best of You . 

E anche Taylor avrebbe avuto i suoi cedimenti, un'overdose nel 2001, ma a differenza di Cobain, non sembravano figli di malesseri esistenziali, ma più di una fascinazione all'eccesso della sua gioventù rocknroll, come lui ebbe più volte modo di rimarcare. 

«Avevo esagerato con le mie attitudini festaiole, l'overdose mi fece capire di dover voltare pagina». Per quello suona un po' stonata l'ombra che si allunga sulla sua morte, avanzata dai colombiani.

Sia come sia, se Grohl era il deus ex machina dei Foo, Hawkins era sicuramente parte integrante del motore. Musicalmente, con quell'energico, vitalissimo piglio alla batteria, ma anche spiritualmente. 

E a questo secondo colpo che la vita sottopone a Grohl (che intanto ha annullato tutte le successive date sudamericane) sarà più difficile resistere.

Perché se la morte di Cobain fu un film con un finale da tempo annunciato, questa arriva all'improvviso, come uno knock out . E, sì, non sarà facile ripartire, questa volta.

Morto il batterista dei Foo Fighters, ipotesi overdose. Il Tempo il  26 marzo 2022.

È morto all’età di 50 anni Taylor Hawkins, batterista di lunga data dei Foo Fighters. La rock band in una dichiarazione ha definito la sua morte una "perdita tragica e prematura". Il decesso è giunto durante un tour in Sudamerica: il gruppo avrebbe dovuto suonare venerdì sera a un festival a Bogotà, in Colombia. L’ultimo concerto del batterista è stato domenica a un altro festival a San Isidro, in Argentina. Al momento non si hanno dettagli su come Hawkins sia morto. Lascia la moglie Alison e tre figli. Nato in Texas e cresciuto in California, Non si esclude che possa essere deceduto per overdose. Hawkins ha suonato la batteria per i Foo Fighters per 25 dei 28 anni di vita della band. Insieme al cantante e chitarrista Dave Grohl, Hawkins ha ricoperto ruoli di primo piano nei video del gruppo e nel recente film horror ’Studio 666’. "Il suo spirito musicale e la sua risata contagiosa vivranno per sempre con tutti noi", si legge in un messaggio pubblicato sull’account Twitter ufficiale dei Foo Fighters. "I nostri cuori sono con la moglie, i figli e la famiglia". Veicoli della polizia, un’ambulanza e fan del gruppo si sono raccolti davanti all’hotel nel nord di Bogotà in cui si ritiene che Hawkins stesse soggiornando. Nessun commento dalle autorità colombiane, mentre l’ambasciata Usa a Bogotà ha porto le condoglianze in un tweet. Per Grohl è la seconda volta che affronta la morte di un compagno di band: era il batterista dei Nirvana quando Kurt Cobain morì nel 1994...

Morte Taylor Hawkins, fatale un cocktail di oppiacei e antidepressivi. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 27 Marzo 2022.

I test tossicologici sul corpo del batterista hanno rilevato 10 sostanze psicoattive e medicinali, tra cui marijuana, oppioidi, antidepressivi triciclici e benzodiazepine. 

Antidepressivi, benzodiazepine e oppiacei. È il micidiale cocktail di sostanze che Taylor Hawkins, il batterista della band rock Foo Fighters, ha consumato prima di morire venerdì sera in un hotel a Bogotà. Lo ha annunciato ieri, sabato, l’ufficio del procuratore colombiano. «L’analisi tossicologica riporta dieci sostanze finora trovate nel corpo di Taylor Hawkins, tra cui THC (cannabis), antidepressivi, benzodiazepine e oppiacei», hanno scritto i pubblici ministeri in una nota. Aggiungendo che i medici legali continuano a lavorare «per chiarire completamente i fatti che hanno portato al decesso» di Hawkins. Poco prima di morire, il batterista, 50 anni, si è lamentato per un «dolore al petto». Al telefono ha chiesto aiuto al personale dell’hotel. Un medico generico ha tentato di rianimarlo ma ogni tentativo è stato inutile. Hawkins era già morto.

I Foo Fighters, uno dei più famosi gruppi rock della scena americana, acclamati dalla critica, vincitori di 12 Grammy Award e autori di grandi successi, entrati nella Rock & Roll Hall of Fame nel 2021, avrebbero dovuto suonare venerdì 26 marzo a Bogotà in occasione del Festival Estéreo Picnic. Il concerto è stato annullato e le migliaia di persone in attesa dell’inizio dello spettacolo hanno osservato un minuto di silenzio. La band ha anche annullato concerto previsto per oggi, sabato 27 marzo, a San Paolo, in Brasile.

Taylor Hawkins faceva parte dei Foo Fighters dal 1997, ha suonato la batteria in alcuni dei loro più grandi successi, tra cui «Learn to Fly» e «Best of You». In precedenza era stato il batterista della cantante indie canadese Alanis Morissette. I Foo Fighters, band fondata nel 1994 da Dave Grohl, ex batterista dei Nirvana dopo la morte tragica del cantante Kurt Cobain , hanno celebrato il loro 25° anniversario l’anno scorso e hanno recentemente prodotto «Studio 666», un film horror rock. I tributi sono arrivati da tutto il mondo della musica, con il leggendario Ozzy Osbourne che ha reso omaggio a Taylor definendolo «una persona eccezionale e un musicista incredibile». «Una notizia tragica» ha twittato il rocker Billy Idol mentre Tom Morello, chitarrista dei Rage Against The Machine, ha elogiato «l’inarrestabile potere rock» di Taylor Hawkins. «Assolutamente increduli alla notizia della morte di Taylor Hawkins», il post della rock band Nickelback. Anche Gene Simmons e Paul Stanley, membri dei Kiss, hanno pianto la morte di Hawkins, insieme a Guns N’ Roses, Slash e molti altri musicisti.

In una intervista rilasciata l’anno scorso alla radio californiana 95.5 KLOS, Dave Grohl ha raccontato il suo primo incontro con il batterista scomparso. «Ho detto: beh, tu sei il mio gemello o il mio spirito animale, o il mio migliore amico, e ci conosciamo da appena dieci secondi! Ovviamente l’ho visto suonare la batteria e ho pensato che fosse un batterista straordinario». «Quando l’ho chiamato e gli ho detto: “Ascolta, sto cercando un batterista”, ha risposto: “Sai che sono il tuo uomo”, penso che avesse più a che fare con il nostro rapporto personale che con qualcosa di musicale», aveva concluso l’ex batterista dei Nirvana. Nel libro che Grohl ha scritto nel 2021, «The Storyteller. Storie di vita e di musica», ha definito Hawkins suo «fratello di un’altra madre, il mio migliore amico, un uomo per il quale prenderei una pallottola». 

Aveva 50 anni: lascia moglie e tre figli. E’ morto Taylor Hawkins, il batterista dei Foo Fighters era in albergo a Bogotà: “L’ombra della droga”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 26 Marzo 2022. 

E’ morto in hotel a Bogotà, in Colombia, durante un tour in Sudamerica dei Foo Fighters. Lutto nel mondo della musica per la prematura scomparsa a 50 anni di Taylor Hawkins, storico batterista della rock band che in una nota ha definito la sua morte una “perdita tragica e prematura”. Il gruppo avrebbe dovuto suonare venerdì sera a un festival a Bogotà. L’ultimo concerto del batterista è stato domenica a un altro festival a San Isidro, in Argentina.

Hawkins sarebbe stato stroncato da un infarto nella sua camera d’albergo. Inutile l’arrivo dell’ambulanza. Al momento non si hanno dettagli su come sia morto. Lascia la moglie Alison e tre figli. Nato in Texas e cresciuto in California, Hawkins ha suonato la batteria per i Foo Fighters per 25 dei 28 anni di vita della band. Insieme al cantante e chitarrista Dave Grohl, Hawkins ha ricoperto ruoli di primo piano nei video del gruppo e nel recente film horror ‘Studio 666’.

Per Grohl è la seconda volta che affronta la morte di un compagno di band: era il batterista dei Nirvana quando Kurt Cobain morì nel 1994.

Come è morto Taylor Hawkins

Al momento non sono note le cause del decesso avvenuto probabilmente per un arresto cardiaco. Secondo quanto riferisce l’agenzia Agi, ci sarebbe l’ombra della droga dietro la sua morte. “Il suo spirito musicale e la sua risata contagiosa vivranno con tutti noi per sempre”, hanno scritto i suoi compagni.

La polizia per ora non si sbilancia sulla causa del decesso ma fonti vicine a Hawkins hanno riferito che sarebbe legata al consumo di droga. I dipendenti dell’albergo hanno chiamato l’ambulanza dopo che il batterista ha accusato un malore, provocato da un forte dolore al petto. Ma quando i sanitari sono arrivati il 50enne era già morto. Sarà l’autopsia a chiarire tutto.

Nel 2001 il musicista era sopravvissuto a Londra a un’overdose di eroina che lo aveva lasciato in coma per due settimane e negli ultimi anni aveva parlato apertamente dei suoi problemi di droga.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

"Taylor Hawkins aveva assunto dieci diverse sostanze stupefacenti". la versione della procura colombiana. La Repubblica il 27 Marzo 2022.

Gli investigatori di Bogotà hanno diffuso un comunicato scritto con l'istituto di medicina legale. Il batterista dei Foo Fighters è morto un'ora prima del concerto.

Aveva assunto un cocktail di farmaci e sostanze stupefacenti Taylor Hawkins, il batterista dei Foo Fighters morto a Bogotà, a 50 anni, un'ora prima del concerto della band. A dirlo è la procura generale della Colombia. In un comunicato, scritto insieme all'Istituto di medicina legale, gli investigatori sostengono che il batterista aveva assunto "dieci diverse sostanze" stupefacenti nelle ore precedenti la sua morte. Tra le sostanze trovate, marijuana, antidepressivi triciclici, benzodiazepine e oppiacei. Anche se nel comunicato non si attribuisce direttamente la morte a queste sostanze.

Taylor Hawkins è stato trovato senza vita nella sua stanza d'albergo. I funzionari locali hanno spiegato che un'ambulanza era stata inviata all'hotel dopo che un uomo aveva segnalato dolori al petto. Ma, al momento, la causa della morte rimane sconosciuta. 

Gli investigatori non hanno detto se il mix di droghe possa aver causato il decesso. Hanno detto, invece, che gli inquirenti sono al lavoro "per ottenere la piena chiarezza dei fatti che hanno portato alla morte" del musicista che nel 2001 aveva avuto un'overdose: "Avevo esagerato", disse allora, "l'overdose mi fece capire di dover voltare pagina".

Nato in Texas nel 1972 e cresciuto in California, Hawkins iniziò a suonare molto presto in vari gruppi, anche con Alanis Morissette. Nel 1997 l'incontro con Dave Grohl che lo scelse per sostituire William Goldsmith nel nuovo gruppo da lui fondato dopo lo scioglimento dei Nirvana in seguito alla morte di Kurt Cobain. Da allora nacque l'intesa totale con Grohl e con il chitarrista Pat Smear. E i Foo Fighters divennero superstar del rock in grado di riempire gli stadi di tutto il mondo. Hawkins ha registrato otto dei dieci album in studio dei Foo Fighters da There is nothing left to lose (1999) a Medicine at midnight fino al disco di cover dei Bee Gees Hail satin, nel 2021.

DAGONEWS il 27 marzo 2022.

Taylor Hawkins è morto per un “collasso cardiocircolatorio”. A rivelarlo sono i risultati della prima autopsia, effettuata sul corpo del batterista dei Foo Fighters, deceduto nella notte tra venerdì e sabato, un’ora prima del concerto della band, a Bogotà. Un dettaglio da non trascurare è che il suo cuore pesava 600 grammi, più del doppio della media per gli uomini della sua età (50 anni).

Secondo la procura della capitale colombiana, Hawkins prima del concerto ha assunto un cocktail di droghe, composto da almeno “dieci sostanze”, tra cui marijuana, antidepressivi triciclici, benzodiazepine e oppiacei. 

Il giornalista colombiano Luis Carlos Velez, direttore della stazione radio FM di Bogotà, ha detto che un ufficiale di polizia che è entrato nella stanza di Hawkins al Four Seasons Hotel Casa Medina, avrebbe visto una polvere bianca "simile alla cocaina". Tuttavia, la procura non ha menzionato quel tipo di droga.

Da repubblica.it il 27 marzo 2022.  

Aveva assunto un cocktail di farmaci e sostanze stupefacenti Taylor Hawkins, il batterista dei Foo Fighters morto a Bogotà, a 50 anni, un'ora prima del concerto della band. A dirlo è la procura generale della Colombia. In un comunicato, scritto insieme all'Istituto di medicina legale, gli investigatori sostengono che il batterista aveva assunto "dieci diverse sostanze" stupefacenti nelle ore precedenti la sua morte. Tra le sostanze trovate, marijuana, antidepressivi triciclici, benzodiazepine e oppiacei. Anche se nel comunicato non si attribuisce direttamente la morte a queste sostanze.

Taylor Hawkins è stato trovato senza vita nella sua stanza d'albergo. I funzionari locali hanno spiegato che un'ambulanza era stata inviata all'hotel dopo che un uomo aveva segnalato dolori al petto. Ma, al momento, la causa della morte rimane sconosciuta.

Gli investigatori non hanno detto se il mix di droghe possa aver causato il decesso. Hanno detto, invece, che gli inquirenti sono al lavoro "per ottenere la piena chiarezza dei fatti che hanno portato alla morte" del musicista che nel 2001 aveva avuto un'overdose: "Avevo esagerato", disse allora, "l'overdose mi fece capire di dover voltare pagina".

Nato in Texas nel 1972 e cresciuto in California, Hawkins iniziò a suonare molto presto in vari gruppi, anche con Alanis Morissette. Nel 1997 l'incontro con Dave Grohl che lo scelse per sostituire William Goldsmith nel nuovo gruppo da lui fondato dopo lo scioglimento dei Nirvana in seguito alla morte di Kurt Cobain. 

Da allora nacque l'intesa totale con Grohl e con il chitarrista Pat Smear. E i Foo Fighters divennero superstar del rock in grado di riempire gli stadi di tutto il mondo. 

Hawkins ha registrato otto dei dieci album in studio dei Foo Fighters da There is nothing left to lose (1999) a Medicine at midnight fino al disco di cover dei Bee Gees Hail satin, nel 2021.

Da repubblica.it il 30 marzo 2022.

Troppo dolore. Così i Foo Fighters hanno annunciato con un comunicato la cancellazione di tutti i concerti programmati nei prossimi mesi, inclusa la data di Milano del 12 giugno dove il gruppo era l'evento più atteso dell'I-Days festival. Una nota di poche righe è comparsa sul sito della band, interamente nero, per comunicare lo stop al tour "per la morte sconvolgente del nostro fratello Taylor Hawkins".

Taylor Hawkins, il "fratello di una madre diversa" come lo chiamava il frontman Dave Grohl, è stato trovato morto il 26 marzo scorso nella camera di un albergo di Bogotà, alla vigilia di un concerto che la band avrebbe dovuto tenere nella capitale colombiana. Hawkins aveva 50 anni e secondo la polizia colombiana sarebbe stato ucciso dagli effetti di un cocktail di sostanze stupefacenti. Nella sua stanza gli agenti avrebbero repertato dieci diversi tipi di droghe e farmaci. Taylor Hawkins si era disintossicato dopo un passato di dipendenze.

"Prendiamoci il tempo per il dolore - scrive la band rivolgendosi ai fan - , per guarire, star vicino alle persone che amiamo, per ricordare la musica e i ricorsi che abbiamo condiviso".

Hawkins suonava la batteria nella band della cantautrice canadese Alanis Morrisette quando si unì ai Foo Fighters. Era il 1997.

·        Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.

Morto Stephen Wilhite, l’uomo che inventò le Gif (ma lui voleva creare un formato ad alta qualità e a colori). Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 24 Marzo 2022.

Malato di Covid, l’ex dipendente dell’americana CompuServe aveva 74 anni. Nel 2014 tolse ogni dubbio sulla corretta pronuncia della sua invenzione. 

Probabilmente a molti non dirà nulla il nome di Stephen Wilhite, ex tecnico informatico scomparso lo scorso 14 marzo, ma con la notizia che si è diffusa solo nelle ultime ore. A dispetto della sua scarsa notorietà, a 74 anni è venuto però a mancare il padre del formato grafico Gif, un elemento che domina il web ormai da diversi anni, soprattutto nella versione animata, condizionando la comunicazione di tantissimi utenti nelle chat e nelle piattaforme digitali. Morto di Covid, la sua vita professionale come impiegato della società statunitense CompuServe era stata interrotta da altri motivi di salute, ma fino a quel momento Wilhite ha sempre partecipato attivamente, in qualità di tecnico informatico, a vari gruppi di lavoro in molte avanguardie del Web fino a inizio millennio. Tra le sue passioni, anche in tarda età, quella di realizzare modellini di treni e ferrovie, ormai moltissimi nel seminterrato di casa sua. La moglie Kathaleen, dando la notizia della morte, ha espresso queste parole: «Anche con tutti i suoi successi, è rimasto un uomo molto umile, gentile e buono».

Invenzione di successo

Il cosiddetto Graphics Interchange Format, conosciuto più semplicemente come Gif, non fu creato per rendere possibili mini-animazioni di bebé che danzano (la gif preferita di Wilhite) o di Homer Simpson che scompare in una siepe arretrando. La gif in origine serviva ad avere un formato di immagini di alta qualità, alta risoluzione e a colori, in un’epoca in cui la velocità delle reti era incomparabilmente più lenta rispetto a quella di oggi. Con il passare degli anni l’idea di Wilhite non è stato corrosa dal tempo (dinamica molto frequente nell’ambito tecnologico), ma ha scoperto nuove fortune. Al tempo dei primi blog, le Gif non risultavano altro che animazioni un po’ kitsch per i siti Internet personalizzati, ma la definitiva consacrazione è avvenuta con la diffusione degli smartphone. A quel punto le animazioni sono piombate al centro della scena, con riferimenti a modelli culturali ed esempi ben riconosciuti dagli utenti, da diffondere nelle applicazioni di messaggistica istantanea e sui social network di tutto il mondo.

Come si pronuncia Gif?

Difficile immaginare oggi cosa ne potesse pensare lo stesso Wilhite del successo che avrebbe riscosso la sua creatura. Nel 2014, nel prendere parte a una cerimonia nella quale sarebbe stato premiato per la sua idea, ha inoltre dissipato una volta per tutte un dubbio che era un suo cruccio da tempo, e quello di molti altri: dare una risposta e conoscere la corretta pronuncia di “Gif”. A parole sue quella giusta è con la G dolce (“gif” e non “ghif”).

·        E' morto il giornalista Sergio Canciani.

Giornale di Puglia il 16/3/2022.

Scompare a 76 anni il giornalista e storico corrispondente Rai da Mosca. Aveva lavorato per diversi quotidiani e scritto numerosi saggi. Era nato a Trieste nel 1946.  

Canciani si è spento nella sua casa, a Trieste. Entrato alla Rai Fvg, prima nella redazione slovena e poi in quella italiana, raccontò i funerali di Tito, la caduta di Ceausescu in Romania, la guerra nell'ex Jugoslavia, l'assedio di Sarajevo, l'evolversi del conflitto nei Balcani. 

Innumerevoli i suoi servizi per Tg1, Tg2 e Tg3. Alla fine degli anni '90 divenne corrispondente Rai da Mosca; in Russia rimase fino al 2011, da Eltsin all'arrivo di Putin. 

In alcuni suoi libri come "Roulette Russia" e "Putin e il neo-zarismo. Dal crollo dell'URSS alla conquista della Crimea", Canciani aveva analizzato la situazione politica in Russia e il ruolo di Putin in maniera quasi profetica.

·        E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.

Giuseppe Di Giovanni per gazzetta.it il 15 marzo 2022.  

È stato fonte di ispirazione per Stone Cold Steve Austin, la D-X e tutti i personaggi sopra le righe della storia della Wwe e del wrestling. Scott Hall, o se preferite Razor Ramon (il nome con cui è entrato nella Hall of Fame nel 2014), è morto a 63 anni. Tre attacchi cardiaci consecutivi avevano portato all’intubazione dell’ex campione e alla decisione da parte della famiglia di staccare le macchine che lo hanno tenuto in vita nelle ultime ore vista l’irreversibilità della situazione.

Tutto sembra essere nato da un intervento mal riuscito all’anca (uno degli storici problemi fisici di Hall) che avrebbe creato un grumo di sangue, causa degli attacchi cardiaci. Una vita, quella di Hall, che rappresenta 10 esistenze di una persona “normale”, per l’uomo che ha reso divertente e “Cool” dentro e fuori dal wrestling il concetto di “Heel”, il cattivo. Un ruolo che da lui in poi ha cominciato a essere osannato anche dalle folle. 'El Jefe' – 'Il Capo' – era il suo soprannome ai tempi in cui faceva Razor Ramon, suo personaggio storico.

Il compagno di mille avventure, Kevin Nash, ha annunciato su Instagram la decisione dei familiari con un post toccante: "Scott è attaccato alle macchine che lo tengono in vita. Una volta che la sua famiglia sarà sul posto, le spegneranno. Perderò la persona su questo pianeta con cui ho passato più tempo della mia vita di chiunque altro. Ho il cuore spezzato e sono molto triste. Amo Scott con tutto il mio cuore, e devo prepararmi alla mia vita senza di lui. Ricordiamoci solo che c’è un ragazzo grandioso e non ne vedremo un altro come lui. Ci vediamo lungo la strada amico. Non avrei mai potuto amare un essere umano più di quanto io abbia fatto con te".

Scott Hall sapeva essere tanto grandioso sul ring quanto problematico fuori. Dopo un primo periodo in Wcw alla fine degli anni 80, esperienza terminata in pochissimo tempo per vari problemi di droga, il suo exploit arrivò all’inizio degli anni 90 in Wwe, con il personaggio di Razor Ramon.

Il personaggio dell’esule cubano cattivo, coi capelli pieni di gel e la ciocca unta sulla fronte, lo stuzzicadenti in bocca e il fisico statuario (Hall era alto 2.01, definito ma non gonfio) coperto dal gilet e dalle catene dorate lo portò a essere uno dei migliori campioni Intercontinentali della storia. Il suo match a WrestleMania X contro Shawn Michaels, primo Ladder Match della storia, rimane scolpito nella leggenda della disciplina.

Nel 1996, però, arrivò la svolta della sua carriera: accettando un’offerta multimilionaria della Wcw abbandono la Wwe e in rotta con Vince McMahon (capo della federazione di Stamford) fu uno dei protagonisti dell’episodio del Madison Square Garden Incident. Nell’arena più famosa del mondo Hall abbracciò Kevin Nash (che andò con lui in Wcw) e i suoi nemici Shawn Michaels e Triple H, ma che fuori dal ring erano i suoi amici più cari, coloro che formavano la cosiddetta Kliq. La cosa guastò il modo in cui venivano visti i personaggi dai fan e fece infuriare McMahon.

Per Triple H fu rimandato di un anno il suo lancio nel Main Event e ne approfittò Steve Austin, vincitore del King of the Ring e in poco tempo star numero 1 della federazione di Stamford. Tornati in Wcw, Hall e Nash diventarono subito fondamentali, visto che spalleggiarono Hulk Hogan in un altro momento leggendario: a Bash of the Beach 1996, evento in pay-per-view, Hogan tradì i fan per la prima volta in carriera, fondando il New World Order, fazione passata alla storia e poi tornata in blocco in Wwe nel 2002, in un’esperienza durata pochissimo per Hall. In un viaggio di ritorno da un tour europeo Scott ne combinò di tutti i colori, ubriacandosi e abusando di droghe. Il giorno dopo fu licenziato.

Ancora prima di diventare un personaggio chiave nel wrestling, nel 1983 Hall fu accusato di omicidio di secondo grado dopo una lite in discoteca. Venne assolto per mancanza di prove ma in una lunga intervista a Espn, nel 2011, ammise di non aver mai dimenticato il fatto. Hall è stato arrestato numerose volte durante la sua vita turbolenta: nel 1990 devastò una limousine fuori da una discoteca, nel 1998 molestò una donna di 56 anni all’esterno di un hotel a Baton Rouge.

Ma l’episodio che ha fatto più scalpore risale al 2008, quando il comico Gimmy Graham disse su un palco che Hall sniffava cocaina e che la sua carriera stava precipitando come quella di Owen Hart (altro campione scomparso nel 1999 per un incidente durante un pirotecnico ingresso sul ring). Scott impazzì e gettò l’attore giù dal palco. Arrestato ancora nel 2010 per resistenza a un pubblico ufficiale e nel 2012 per violenza domestica alla sua allora fidanzata Lisa Howell, nel 2013 l’amico Diamond Dallas Page lo aiutò a disintossicarsi, avviando una raccolta fondi per consentirgli diversi interventi all’anca e ai denti.

Hall, tornato lucido, fu riaccolto dalla Wwe che non solo lo inserì nella Hall of Fame nel 2014, ma lo fece anche nel 2020 come membro dell’Nwo. A 63 anni Scott stava ben lontano dagli eccessi che gli hanno distrutto la vita, poi le complicazioni fatali. Due nomi, tanti errori, una vita up-and-down. Questo è stato Scott Hall.

·        Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.

Morto Gianluca Ferraris, dalle inchieste ai thriller. ALESSANDRO BERETTA Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

Scomparso a 45 anni a Milano il giornalista investigativo e scrittore. Indagò su sanità e scommesse illegali. Un amico concluderà il giallo incompiuto che uscirà per Piemme 

Gianluca Ferraris, reporter e scrittore (1976-2022)

Amato autore di thriller e giornalista investigativo, Gianluca Ferraris, genovese di nascita e milanese d’adozione, è mancato a 45 anni per una malattia incurabile a Milano nella notte di domenica 13 marzo. Una malattia vissuta con riserbo, anche rispetto ai più cari, e a darne la notizia su Facebook è stato lo scrittore Paolo Roversi che l’aveva coinvolto nella recente antologia per Piemme Indaga, detective: «Oggi è davvero un giorno triste perché è mancato un caro amico, grande scrittore ed eccellente giornalista. Ciao Gianluca Ferraris ci mancherai moltissimo. RIP».

Ferraris, dopo al laurea in Scienze e Politiche, si era trasferito a Milano nel 2002 per un master in giornalismo, iniziando a lavorare da cronista per periodici e firmando inchieste come Ladri di salute, per «Panorama» nel 2010 con Ilaria Molinari, vincitrice del premio giornalistico europeo sulla salute della Commissione Ue, e Pallone criminale (Ponte alle Grazie 2012), scritto con Simone Di Meo sul mondo del calcio scommesse. Nel 2014, inizia l’attività narrativa con personaggi scomodi, non scontati e milanesi: il primo è il giornalista tossico e maldestro Gabriele Sarfatti, protagonista per Novecento editore che raccoglie A Milano nessuno è innocente (2015), Piombo su Milano (2016) e Shaboo (2017).

Il secondo è l’avvocato Lorenzo Ligas, alcolista dalla famiglia distrutta, al centro di Perdenti. La prima indagine dell’avvocato Ligas (Piemme, 2021), avvio di un ciclo di legal thriller rimasto interrotto. L’autore, comunque, stava lavorando a una seconda indagine, ne aveva scritti due terzi e lasciato appunti scritti e vocali per concluderla: La mantide, titolo provvisorio scelto da Ferraris, che Piemme conta di pubblicare a metà giugno. Al centro della vicenda, una donna bella e troppo libera per i pregiudizi correnti, colpevole perfetta di una serie di delitti legati a incontri nati su Tinder. A compiere l’opera sarà un suo amico, giornalista e scrittore.

Lasciando a dicembre il suo posto da giornalista, su Instagram Ferraris aveva salutato il mestiere, e segretamente i lettori, citando L’avvelenata (1976) di Francesco Guccini: «Quello di cui sono sicuro è che, in altre forme e in altri luoghi, continuerò comunque a fare la cosa che più amo: scrivere. E già questo lo considero un privilegio. Visto che c’è sempre una canzone in cui Guccini lo aveva detto meglio, lascio a lui la parola: “Ho tante cose ancora da fare, tante da raccontare per chi vuole ascoltare, e a c**o tutto il resto”».

·        Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.

Morto Tomaso Bracco, l'imprenditore era rimasto ustionato nell'incendio a via della Spiga a Milano. Il Tempo il 13 marzo 2022.

Era ricoverato in gravi condizioni dopo l'inceendio di venerdì scorso in un palazzo di via della Spiga, a Milano. Tomaso Bracco Renoldi, imprenditore, è morto domenica 13 marzo all’ospedale Niguarda di Milano. L'uomo, che aveva 52 anni, era nel reparto di terapia intensiva del dopo un’intossicazione da fumo ed ustioni. Il rogo era scoppiato in un palazzo di  via della Spiga, nel cuore della città.

Bracco, nipote dell’imprenditrice Diana Bracco e membro del Consiglio di indirizzo della Fondazione Bracco, era stato trovato dai soccorritori in arresto cardiocircolatorio e con ustioni multiple, ed era stato trasportato all’ospedale Niguarda. Nell'incendio erano scappati illesi il cuoco, di 65 anni, il cane, e la domestica, di 30, a servizio in casa di Tomaso Bracco. La colf, peruviana, ha riferito ai giornalisti di aver sentito un forte rumore e subito dopo aver visto "molto fumo" provenire dalle due camere da letto. La donna si trovava in mansarda a svolgere le pulizie ed è subito fuggita dall’immobile.

Il nipote dell’imprenditrice farmaceutica Diana Bracco era stato portato via a spalla con un’autoscala dai vigili del fuoco che riferiscono di averlo trovato nella sua camera, incosciente. Oggi il drammatico epicologo. 

Da repubblica.it il 13 marzo 2022.

Nel tardo pomeriggio di domenica l'ospedale Niguarda ha comunicato il decesso di Tomaso Renoldi Bracco, nipote di Diana Bracco titolare del gruppo farmaceutico che porta il nome di famiglia. L'uomo era rimasto gravemente ustionato nell'incendio scoppiato venerdì nel suo appartamento di via della Spiga, nel Quadrilatero della moda. A dare l'allarme erano stati i due domestici che si trovavano nell'abitazione dopo aver visto il fumo uscire dalla camera da letto del padrone di casa.

I due avevano tentato di trascinare Bracco fuori dall'appartamento senza riuscirci. Solo grazie all'intervento dei vigili del fuoco era stato possibile farlo arrivare all'ambulanza che lo aveva poi trasferito al Niguarda. Le sue condizioni erano apparse subito disperate per le gravi ustioni provocate dalle fiamme e per la forte intossicazione provocata dal funmo che aveva invaso l'intero stabile.

Le indagini per accertare la causa del rogo sono ancora in corso ma l'ipotesi più probabile è che si sia trattato di un incidente domestico. Bracco era un forte fumatore e non si esclude che le fiamme siano state provocate da una sigaretta. 

Nato il 14 ottobre del 1970, Tomaso Renoldi Bracco era membro del Consiglio d'indirizzo della Fondazione Bracco. Esperto d'arte contemporanea, il 51enne aveva curato diverse mostre al Pac di Milano, tra cui nel 2011 la personale dell'artista macedone Robert Gligorov.

Incendio a Milano, morto Tomaso Bracco per intossicazione e ustioni. Francesca Galici il 13 Marzo 2022 su Il Giornale.

Troppo gravi le ustioni e l'intossicazione: Tomaso Bracco è deceduto dopo due giorni trascorsi in terapia intensiva all'ospedale Niguarda.  

Tomaso Bracco, nipote di Diana Bracco, non ce l'ha fatta. Troppo gravi le ustioni riportate dall'uomo nell'incendio della sua abitazione a Milano, nella centralissima via della Spiga, lo scorso venerdì. Il 51enne si trovava nella sua camera quando, per cause ancora accertare, il lussuoso immobile è stato avvolto dalle fiamme. Tomaso Bracco è stato trasportato fuori a braccia dai vigili del fuoco e, come riferito da fonti sanitarie, quando è stato portato via era già in arresto cardio-circolatorio. Presentava gravi e ampie ustioni e un'acuta intossicazione.

L'erede nella nota casa farmaceutica è stato l'unico ferito di quell'incendio. Il personale di servizio che in quel momento si trovava all'interno dell'abitazione, infatti, è riuscito a scappare prima che le fiamme divampassero e rendessero impraticabili le vie di fuga. Con loro è riuscito a mettersi in salvo anche il cane di Tomaso Bracco. L'imprenditore è stato immediatamente soccorso e trasportato d'urgenza all'ospedale Niguarda di Milano, dove è rimasto ricoverato per due giorni in rianimazione, finché non è deceduto.

Tomaso Renoldi Bracco morto per intossicazione e ustioni 2 giorni dopo l’incendio in via della Spiga a Milano. Francesca Bonazzoli e Cesare Giuzzi su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

Tomaso Bracco, il nipote dell’imprenditrice farmaceutica Diana Bracco, morto a 51 anni. Le fiamme partite dalla camera da letto, in corso le indagini sulle cause. Aveva in progetto di aprire una galleria d’arte a Londra. 

Morto dopo due giorni di ricovero in terapia intensiva al Niguarda Tomaso Renoldi Bracco, 51 anni, erede della famiglia di imprenditori farmaceutici e nipote dell’ex presidente di Expo 2015 Diana Bracco. Era rimasto gravemente ferito venerdì 11 marzo nell’incendio del suo appartamento al secondo piano dello stabile di via della Spiga 36. Il 51enne, che era membro del comitato di indirizzo della fondazione Bracco, era stato estratto dai vigili del fuoco già incosciente e aveva ustioni su diverse parti del corpo e dopo aver inalato moltissimo fumo. Il cuoco e la domestica erano invece riusciti a mettersi in salvo perché si trovavano in un’altra ala dell’appartamento. Le indagini affidate ai carabinieri della compagnia Duomo e del comando provinciale di Milano, con l’aiuto degli esperti dei vigili del fuoco, puntano su un evento accidentale. Probabilmente una sigaretta fumata a letto dalla vittima. Le fiamme, in attesa della prima relazione tecnica dei pompieri in procura, sembra siano partite proprio dalla camera da letto in cui si trovava il 51enne.

L’incidente domestico

Tomaso Renoldi Bracco, esperto e appassionato d’arte, era sposato e aveva due figli. Al momento dell’incendio – poco prima delle 10 di venerdì mattina – i figli erano a scuola e la moglie fuori casa. I familiari hanno parlato con gli inquirenti di uno stato di malessere che in passato aveva colpito l’uomo ma parenti e amici hanno escluso che attualmente vi fossero problemi. Anzi, aveva in progetto di aprire nei prossimi mesi una galleria d’arte a Londra.

Gallerista d’arte, mecenate e collezionista

Dinamico, curioso, intelligente. Renoldi Bracco si sapeva muovere nel mondo dell’arte contemporanea con i balzi e le antenne di chi ha accesso ai luoghi e alle persone giuste. Ma per farlo non bastano i soldi che, certo, Tomaso aveva. Bisogna anche possedere la visionarietà e l’energia di portare a termine progetti come quello della mostra dell’artista macedone Robert Gligorov organizzata nel 2011 al Pac, il Padiglione di arte contemporanea, a lungo bloccata dalle autorità perché l’opera il «Muro del pianto», una parete di 15 metri per 5 interamente coperta di bistecche, fu considerata inopportuna e alla fine cancellata dalla lista dei lavori da esporre. Bisogna inoltre disporre di affabilità e capacità di saper stare al mondo. Tomaso aveva di più: possedeva la dolcezza. «Era un uomo molto sensibile, a tratti sembrava persino vulnerabile. Mi piaceva perché, pur avendo accesso al gotha del contemporaneo, era totalmente diverso dai ricchi rampolli dell’art system», lo ricorda Massimiliano Finazzer Flory, che all’epoca di quell’esposizione controversa era assessore alla cultura della giunta Moratti. I due comunque si divertirono e fu proprio Tomaso a sostenere contro tutti la mostra di Gligorov.

Le grandi mostre

Del resto, amava proprio quel genere di arte e già durante l’assessorato di Vittorio Sgarbi era stato sempre lui ad organizzare le personali di altri artisti scandalosi: Andres Serrano, al Pac; e David LaChapelle a Palazzo Reale. Erano i nomi che rappresentava nella sua galleria BND in via Pietro Calvi: un misto di giovani trasgressivi come la turca Sukran Moral e altri talenti già di rilievo internazionale. Negli ultimi anni aveva lasciato la galleria e pensava di aprire uno spazio all’estero, ma intanto continuava ad essere attivo per esempio con la grande esposizione di Gligorov alla Fondazione Masieri a Venezia in occasione della Biennale del 2019, oppure in Turchia a Izmir. Era anche editore della rivista Hystery e stava preparando, ancora con Gligorov, una grande mostra a Milano. «Come promotore, mecenate, collezionista, cercava sempre qualcosa di originale», racconta l’artista macedone suo sodale dal 2006. «Lavorava mettendo in gioco se stesso senza pronunciare il cognome Bracco. Anzi, io penso che attraverso l’arte si voleva conquistare un’autonomia dalla sua storia. Era il suo spazio di libertà in cui gli piaceva anche vestirsi come una rock star». 

·        E' morto l’attore William Hurt.

La causa della morte di William Hurt è un tumore alla prostata: i segni della malattia nei suoi ultimi film. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

L’attore, che avrebbe compiuto 72 anni tra una settimana, aveva un tumore alla prostata molto aggressivo. La famiglia però ha parlato di morte per cause naturali.  

Nel suo ultimo film, Black Widow, uscito nel 2021, William Hurt — nei rigidi panni del Generale Thaddeus «Thunderbolt» Ross — appariva con il volto un po’ stanco, segnato. Per molti è la prova che l’attore stava decisamente male da tempo, nonostante la famiglia abbia comunicato che la sua morte — arrivata una settimana prima del suo 72esimo compleanno — sia dovuta a cause naturali. Di certo, nel 2018 all’attore premio Oscar era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Aggressivo, al punto di aver già generato metastasi alle ossa. La morte dell’attore sarebbe dovuta in realtà a complicanze legate al tumore. Un male terribile e doloroso, che l’attore premio Oscar ha curato fino a che aveva potuto farlo, non rinunciando però a lavorare. Fino alla fine.

Il ruolo da doppiatore

Il suo ultimo impegno era stato quello di doppiatore nella serie animata Pantheon, basata sui racconti fantascientifici di Ken Liu, in cui vita e morte si confondono. Un progetto che dovrebbe uscire a breve. Stravolto ora da questa morte, che ha scosso mezzo mondo, a partire da Hollywood. Russell Crowe nel ricordare il collega su Twitter, ha scritto: «William Hurt è morto. Quando stavamo per girare Robin Hood, ero consapevole fosse famoso per fare domande basate sui personaggi, quindi avevo compilato un file sulla vita di William Marshall. Quando è arrivato sul set gli ho dato la pila. Non sono sicuro di aver mai visto un sorriso più grande del suo in quel momento». Anche Mark Ruffalo ha parlato della scomparsa di «uno dei giganti della recitazione».

 Simona Marchetti per corriere.it il 17 marzo 2022.   

Per settimane ha rifiutato gli oppiacei, perché era pulito da decenni e, anche se il dolore era ormai diventato lancinante, non voleva ricaderci. Ma alla fine William Hurt si è lasciato convincere ad andare all’hospice, dove la morfina lo ha aiutato a lenire gli ultimi momenti di sofferenza e a scivolare nella morte.

«La sua morte non è stata tragica quanto piuttosto un dono - ha raccontato una fonte vicina all’attore, scomparso domenica 13 marzo, a una settimana dal suo 72° compleanno, dopo una lunga lotta contro il tumore, al Daily Mail -. Stava soffrendo così tanto e se n’è andato in pace. Era totalmente contrario all’assunzione di oppiacei, perché era sobrio da decenni. Ecco perché ha cercato delle cure alternative e se l’è cavata bene per tanto tempo, al punto che ha perfino fatto un paio di film mentre stava passando tutto questo. Ma il cancro ha avuto la meglio e solo nell’ultima settimana ha ceduto alla morfina».

La metastasi alle ossa

Nel maggio del 2018 il premio Oscar aveva annunciato di soffrire di cancro alla prostata, che si era metastizzato alle ossa e di essere ormai terminale. «Abbiamo parlato molto nell’ultimo anno - ha concluso l’insider - ed era ancora in sé. Sul letto di morte era un pochino confuso, ma era ancora sveglio. Penso avesse i suoi demoni ed era questo a renderlo un attore così straordinario. Voleva essere ricordato per il suo lavoro e si risentiva del fatto che gli attori venissero fatti a volte sentire come delle prostitute.

Non voleva passare per uno che avesse venduto la propria anima per soldi e una volta ha rinunciato a un compenso di un milione di dollari per fare la voce fuori campo in uno spot della Mercedes». Per volere dell’attore, la famiglia ha deciso di non fare alcuna cerimonia funebre. «Mio padre voleva mantenere le cose private», ha spiegato il figlio Alex, nato dalla sua relazione con Sandra Jennings. Hurt aveva anche altri tre figli: Sam e Will (frutto del suo matrimonio con Heidi Henderson, durato sei anni) e Jeanne (avuta dall’attrice francese Sandrine Bonnaire).

William Hurt, l'attore premio Oscar stroncato da un tumore. Aveva 71 anni. Il Tempo il 13 marzo 2022.

È stato il volto indimenticabile del Grande freddo, di Figlio di un dio minore, Turista per caso, ma anche il premio Oscar per il Bacio della donna ragno. Ma William Hurt, scomparso oggi a 71 anni (lottava con un cancro alla prostata dal maggio 2018) resterà l’attore americano capace di passare da registri drammatici a ironici, dalla commedia al noir, mantenendo sempre un’aria misteriosa da agente della cortina di ferro.

Sex symbol cerebrale e star del cinema, Hurt dagli anni ’90 diede una svolta alla sua carriera alternando partecipazioni sul grande schermo a progetti televisivi come il fortunato personaggio della gola profonda nella serie tv Damages. Ma elencare i suoi lavori è esercizio impegnativo: ha partecipato a più di settanta film, dal primo, Stati di allucinazione, regia di Ken Russell, del 1980, all’ultimo, del 2021, Black Widow, di Cate Shortland, storia di spionaggio in cui Hurt aveva recitato assieme a Scarlett Johansson. In mezzo, mise la firma su film culto come Brivido caldo, Dentro la notizia, Lost in Space e l’ipnotico The Village, di Night Shyamalan. 

E' morto William Hurt, addio al divo timido e seducente. 71 anni, Oscar per Il bacio della donna ragno. Da Kasdan agli Avengers. Giorgio Gosetti su ANSA il 13 marzo 2022.

Divo timido e seducente, interprete versatile e camaleontico, William Hurt è morto una settimana prima del 72/o compleanno, "serenamente in famiglia, per cause naturali", ha annunciato uno dei suoi figli.

Premio Oscar per "Il bacio della donna ragno" nel 1986, era stato candidato di nuovo alla statuetta nel 1987 per Figli di un dio minore di Randa Haines, nel 1988 per Dentro la notizia di James L.

Brooks e nel 2006 per A History of violence di David Cronenberg. Era stato candidato anche ai Tony Award nel 1985 per Hurlyburly e due volte agli Emmy Nel 2009 per la serie Damages e nel 2011 per il film tv Too Big to Fail - Il crollo dei giganti. Un'infanzia segnata dal divorzio dei genitori, un'adolescenza toccata dalla prematura morte della madre, una vita matrimoniale turbolenta, una vita professionale turbata da abusi fisici, l'uso di droga non hanno impedito all'attore, nato a Washington nel 1950, una carriera folgorante, baciata dal successo fin dalla prima interpretazione, "Stati di allucinazione" del 1980. In lui il regista Ken Russell colse l'espressione stupita e profonda dei grandi occhi azzurri, il fuoco trattenuto dello spingersi sempre all'estremo, la dicotomia tra una recitazione così naturale da apparire invisibile e un'incoercibile dolore interiore. Non a caso il protagonista della storia (scritta e poi sconfessata da Paddy Chayefsky) segue le ricerche scientifiche, poi travolte da un delirio onirico, di Eddie Jesuyp che prova su se stesso la vasca di deprivazione sensoriale (usata anche dagli astronauti) e le droghe naturali degli sciamani. 

E' morto William Hurt, grande attore vincitore dell'Oscar nel 1986 per “Il bacio della donna ragno” è morto oggi, a 71 anni, per cause naturali. Lo conferma a Variety l'amico Gerry Byrne.    

Subito candidato al Golden Globe come miglior attore emergente, Hurt deve l'immediata conferma un anno dopo a un altro regista inglese, Peter Yates che in "Uno scomodo testimone" lo trasforma nel guardiano notturno Darryl Deever, trascinato in un losco intrigo internazionale per amore dell'anchorwoman Sigourney Weaver. Nello stesso 1981 il giovane attore fa l'incontro della vita (professionale) e si ritrova, in una sola notte, eletto a sex symbol per il pubblico mondiale e star di Hollywood. E' infatti Lawrence Kasdan a volerlo come protagonista del noir "Brivido caldo" dal racconto di James C. Cain. Hurt è il giovane avvocato Ned Racine che cerca l'occasione della vita più nei letti di facoltose amanti che nelle aule di tribunale. Perde la testa per la bella Matty (Kathleen Turner), moglie di un ricco affarista da cui vorrebbe divorziare senza perderne la fortuna economica. Amanti maledetti, i due progettano il delitto perfetto. Sul set attore e regista sviluppano un'intesa artistica che è anche autentica amicizia tanto che faranno "coppia fissa" altre quattro volte, da "Il grande freddo" dell'83 a "figli di un dio minore" (1986), da "Turista per caso" (1988) a "T'amerò fino ad ammazzarti" (1990).

 Intanto però la carriera del nuovo divo ha preso anche altre strade: ha rinnovato il suo successo nel thriller con "Gorky Park" di Michael Apted (193), è stata coronata dall'Oscar come miglior attore per "Il bacio della donna ragno" di Hector Babenco (1985) dal claustrofobico romanzo di Manuel Puig. Negli anni '90 William Hurt coglie i frutti di una carriera sempre molto attenta nelle scelte e spesso costruita sulla sensibilità di autori dall'indole europea. E' il caso di Woody Allen in "Alice" (1990) e Wim Wenders ("Fino alla fine del mondo" del '91), ancora di Luis Puenzo ("La peste") o Chris Menges ("Un padre in prestito") fino a "Smoke" di Wayne Wang del 1995 in cui incarna lo scrittore Paul Benjamin che racconta le storie del suo amico Auggie, gestore di una tabaccheria, uomo semplice dal cuor d'oro. Nel 1996 William Hurt viene scelto da Franco Zeffirelli per uno dei suoi più ambiziosi progetti internazionali: è il disperato Signor Rochester di "Jane Eyre" dal romanzo di Charlotte Bronte: anche grazie alla sua prova maiuscola quel testo, spesso visto come tanti melodrammi vittoriani nell'ottica di vuoti ed eleganti ritratti in costume, trova la forza originale della scrittrice e il crudo realismo di un'epoca tra luci e ombre. 

Ma è anche l'inizio di una nuova fase nella carriera dell'attore, talvolta tentato da incursioni nel più classico cinema autoriale ("Un divano a New York" di Chantal Akerman), talaltra piegato a partecipazioni di maniera ("Lost in Space" di Stephen Hopkins). Finché nel 2001 si ricorda di lui Steven Spielberg per uno dei suoi film più ambiziosi e meno considerati, "A.I. - Intelligenza artificiale". Seguiranno alcune collaborazioni maiuscole come "History of Violence" di David Cronenberg (2005), "The Good Shepherd" di Robert De Niro (2006), "Into the Wild" di Sean Penn. Sempre più spesso però si tratta di una scintilla in un mare di interpretazioni ormai di routine in cui talvolta si coglie il guizzo dell'autoironia. Qualche esempio: "The Village" di M. Night Shyamalan, "L'incredibile Hulk" di Louis Letterier, "La contessa" di Julie Delpy, "Robin Hood" di Ridley Scott, "The Host" di Andrew Niccol, "Captain America: Civil War" di Anthony e Joe Russo così come la serie degli "Avengers" e molte delle sue più recenti apparizioni televisive.  

Gli ultimi fuochi della sua luminosa carriera coincidono con la disponibilità a vestire i panni del comprimario in più di un "giocattolone" alimentato dal mito dei supereroi dentro e fuori dal mondo Marvel. Così è stato anche di recente per "Black Widow" o il militaresco "Era mio figlio" di Todd Robinson in cui ha diviso il set con Peter Fonda al suo "ultimo hurrah". Tra pochi mesi avrebbe dovuto opporsi all'incredibile Hulk in una ennesima variante del fumetto fatto cinema, ma la sua ultima interpretazione resterà quella del Pere La Chaise ne "La figlia del re", drammone storico con Pierce Brosnan nei panni de Re Sole. Resta quindi il rimpianto per un interprete veramente multiforme, ma che da troppo tempo aveva mandato in soffitta il fuoco segreto del suo talento.

Morto William Hurt, l’attore premio Oscar per «Il bacio della donna ragno» aveva 71 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2022.

L’attore, nato a Washington nel 1950, è deceduto per cause naturali. 

Se ne è andato a 71 anni, per cause naturali, l’attore William Hurt, nato nel 1950 a Washington, noto per aver vinto nell’86 l’Oscar per Il bacio della donna ragno ed essere stato poi candidato con Figli di un dio minore nel ruolo di un insegnante per non udenti dai metodi non convenzionali, al fianco di Marlee Matlin, attrice davvero sordomuta, deb che prese subito l’Oscar. Era il nipote del fondatore del gruppo editoriale «Time-Life», quindi adolescenza ricca, studi classici e Shakespeare all’orizzonte.

Inizia con un regista inglese di fama estroversa come il caleidoscopico Ken Russell con Stati di allucinazione, passando poi a gialli più accomodanti ma non di routine (Uno scomodo testimone e Gorky Park). Biondo e con un fisico da cow boy, la sua specialità fu quella contraria, mostrare inquietudini interiori e con Lawrence Kasdan centra il bersaglio in Il grande freddo, film cult e racconto di alti e bassi di una generazione. Poi in Brivido caldo si accontenterà di fare il sex symbol dividendo il peso con Kathleen Turner. Lavorerà ancora con Kasdan (Turista per caso il titolo migliore) ma l’anno d’oro è l’85 con l’Oscar e il premio a Cannes per l’omosessuale prigioniero del film di Babenco dal romanzo di Puig, al fianco di Raul Julia.

In questa direzione sceglie personaggi scomodi e off limits, come il professore che s’innamora dell’allieva sordomuta o il giornalista tv di Dentro la notizia, di Brooks che denuncia i mass media con l’ardore degli anni 80 del quinto potere televisivo. Non è un attore facile né comodo, sceglie sempre vie traverse pur avendo un fisico da eroe, ma la sirena culturale lo porta fino allo spiritualismo di Wenders (Fino alla fine del mondo) e poi nella Peste di Puenzo, dove duplica un ruolo di medico già sostenuto in Un medico, un uomo.

Rappresentò in un cinema verso l’omologazione, la seduzione della coscienza, qualcosa che sfugge a una visione superficiale, ma è come una presenza invisibile in film come Smoke di Wayne Wang, Orso d’oro a Berlino. È un divo reticente, timido, ma seducente in modo alternativo e anche Zeffirelli lo mette alla prova romantica nel suo Jane Eyre prima di entrare brillante in Michael di Nora Ephron. L’ultima parte della carriera lo vede inevitabilmente, lui anche affermato attore di teatro, implicato in kolossal come A.I. intelligenza artificiale di Spielberg ma anche nel disturbante, profetico History of violence di Cronenberg, allenando la sua espressività a esprimere i molti modi della violenza contemporanea.

Into the wild con Penn e Robin Hood e infine l’ingresso nel pianeta fantasy con Captain America, Black Widow e Avengers: Infinity War dei Russo. Sempre in azione anche nella vita sentimentale privata: un matrimonio, la relazione con una sceneggiatrice e una con la sua partner Matlin sul set di Figli di un Dio minore, un rapporto finito malamente per accusa di abusi e droga. Dal 1989 al 1993 è stato sposato con Heidi Henderson da cui ha avuto due figli, mentre una terza è nata dalla relazione con l’attrice francese Sandrine Bonnaire conosciuta sul set della Peste, sfortunata riduzione del romanzo di Camus. In teatro è stato una star, frequenta i versi scespiriani e i suoi eroi (Enrico IV, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate), ma piace per Hurlyburly di Rabe con la regìa di Mike Nichols, mentre le ultime prove sono le più acclamate, nel cecoviano Ivanov diretto da Branagh e in Lunga giornata verso la notte, 2010, capolavoro di O’Neill.

È morto William Hurt, il brivido caldo di Hollywood. Arianna Finos La Repubblica il 13 Marzo 2022.

Aveva 71 anni. Premio Oscar per 'Il bacio della donna ragno', ha partecipato al cult corale 'Il grande freddo'. Ha lavorato con grandi autori come Lawrence Kasdan e Wim Wenders ma anche in tanti blockbuster come Hulk e Avengers.

Addio a Willam Hurt, attore dal carattere schivo, scomparso a 71 anni per una malattia. La sua interpretazione sensibile e delicata aveva reso indimenticabile il personaggio di Il bacio della donna ragno, l’omosessuale che condivideva la cella con un prigioniero politico in un carcere sudamericano, che gli era valso un Oscar nel 1986.

'Il bacio della donna ragno' 

Nella sua lunga carriera l’attore, nato a Washington il 20 marzo 1950, aveva ricevuto quattro candidature. Cresciuto in un ambiente benestante, aveva studiato teologia, prima di traferirsi alla scuola Juilliard per studiare recitazione. Si era fatto notare nel primo film, Stati di allucinazione di Ken Russell, in cui interpretava uno scienziato inquieto, per diventare uno degli artisti più interessanti di quel decennio. Tanti titoli con autori diversissimi, un fascino che lo catalogava, riluttante, tra i sex symbol, anche grazie a Brivido caldo, torbido noir girato al fianco di Kathleen Turner. Come, riluttante, è stato rispetto a una carriera da star, capace di trainare al botteghino il grande pubblico. Fruttuoso il sodalizio con Lawrence Kasdan, con cui oltre a Brivido caldo del 1981 aveva girato l’affresco generazionale Il grande freddo nel 1983. Negli anni Novanta aveva affiancato alla carriera nel cinema una serie di lavori in televisione. Nel 1996 era stato il protagonista di una versione di Jane Eyre firmata da Franco Zeffirelli.

Con la moglie Heidi

La vita privata era stata non semplice, anche per i problemi di droga che aveva avuto nel tempo. La prima moglie era stata la collega Mary Beth Hurt, poi aveva avuto una relazione con la sceneggiatrice Sandra Jennings e una relazione con la collega Marlee Matlin, che lo aveva affiancato in Figli di un dio minore. Le nuove generazioni lo conoscono grazie ai cinefumetti, come il generale Thaddeus Ross nel 2008 di L’incredibile Hulk, ruolo ripreso in Captain America: Civil War, Avengers: Infinity War, Avengers: Endgame e Black Widow, il suo ultimo titolo da grande schermo.

La causa della morte di William Hurt è un tumore alla prostata: i segni della malattia nei suoi ultimi film. Chiara Maffioletti Il Corriere della Sera il 14 Marzo 2022.

L’attore, che avrebbe compiuto 72 anni tra una settimana, aveva un tumore alla prostata molto aggressivo. La famiglia però ha parlato di morte per cause naturali.  

Nel suo ultimo film, Black Widow, uscito nel 2021, William Hurt — nei rigidi panni del Generale Thaddeus «Thunderbolt» Ross — appariva con il volto un po’ stanco, segnato. Per molti è la prova che l’attore stava decisamente male da tempo, nonostante la famiglia abbia comunicato che la sua morte — arrivata una settimana prima del suo 72esimo compleanno — sia dovuta a cause naturali. Di certo, nel 2018 all’attore premio Oscar era stato diagnosticato un cancro alla prostata. Aggressivo, al punto di aver già generato metastasi alle ossa. La morte dell’attore sarebbe dovuta in realtà a complicanze legate al tumore. Un male terribile e doloroso, che l’attore premio Oscar ha curato fino a che aveva potuto farlo, non rinunciando però a lavorare. Fino alla fine.

Il ruolo da doppiatore

Il suo ultimo impegno era stato quello di doppiatore nella serie animata Pantheon, basata sui racconti fantascientifici di Ken Liu, in cui vita e morte si confondono. Un progetto che dovrebbe uscire a breve. Stravolto ora da questa morte, che ha scosso mezzo mondo, a partire da Hollywood. Russell Crowe nel ricordare il collega su Twitter, ha scritto: «William Hurt è morto. Quando stavamo per girare Robin Hood, ero consapevole fosse famoso per fare domande basate sui personaggi, quindi avevo compilato un file sulla vita di William Marshall. Quando è arrivato sul set gli ho dato la pila. Non sono sicuro di aver mai visto un sorriso più grande del suo in quel momento». Anche Mark Ruffalo ha parlato della scomparsa di «uno dei giganti della recitazione».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 marzo 2022.

Durante i Critics Choice Awards l’attrice affetta da sordità Marlee Matlin è stata intervistata sulla scomparsa dell’attore Wiliam Hurt, con cui ha avuto una relazione di due anni a metà degli anni 80. Ma a sorpresa la donna, che 13 anni fa lo aveva accusato di averla picchiata e violentata durante la loro storia, lo ha dipinto come un «grande attore» e un uomo «unico nel suo genere». 

«Abbiamo perso un attore davvero eccezionale e ricordo con molto affetto quando abbiamo lavorato insieme sul set di “Figli di un Dio minore”. Mi ha insegnato molto come attore ed era unico nel suo genere» ha detto Matlin, 56 anni.

Eppure ancora nel 2009, quando pubblicò il suo libro “I’ll Scream Later”, l’attrice l’avevo accusato di aver abusato costantemente di lei durante i due anni della loro storia d’amore, iniziata proprio sul set del film “Figli di un Dio minore” quando lei aveva 19 anni e lui 35. 

In particolare nel libro l’attrice ha raccontato che Hurt l’avrebbe violentata brutalmente una notte che era tornato a casa completamente ubriaco alle 4.30 del mattino. «Mi ha tirata fuori dal letto, urlando e scuotendomi» ha scritto. «Ero spaventata, stavo singhiozzando. Poi mi ha buttata sul letto e ha iniziato a strappare i suoi vestiti e i miei. Piangevo. Gli dicevo: ‘No, no no. Per favore Bill, no’. E poi ricordo che è entrato dentro di me mentre singhiozzavo». 

Matlin ha raccontato che durante quel periodo «avevo sempre paura»: «avevo sempre lividi freschi, ogni giorno… Sono successe molte cose che non erano piacevoli». Ma non ha mai pensato di denunciarlo perché in quel momento aveva a che fare con una dipendenza da marijuana e cocaina che «aveva preso il controllo del mio cervello».

L’attore non ha mai negato le accuse, ma ha spiegato che lui e Matlin si erano «scusati» l’un l’altro e avevano «fatto molto per guarire le nostre vite».

William Hurt. Marco Giusti per Dagospia il 14 marzo 2022.

C’è stato un periodo, diciamo all’inizio degli anni ’80, da “Brivido caldo” a “Il grande freddo” da “Il bacio della donna ragno”, il suo unico Oscar vinto su quattro nominations, a “Turista per caso” che William Hurt, morto ieri a 71 anni dopo una lunga malattia, non sbagliava un film. Ne eravamo tutti totalmente innamorati.

Stava nascendo tutta una nuova generazione di attori, a cominciare dalle sue e dai suoi partner, Kathleen Turner, Sigourney Weaver, Jeff Goldblum, Kevin Kline, Raul Julia, ma era evidente che in quel periodo William Hurt ci sembrasse il massimo che ci stava proponendo la Hollywood più colta e aperta di registi come Lawrence Kasdan, James L. Brooks, in grado di allargarsi ai talenti non americani di Hector Babenco, Ken Russell o Wim Wenders.

Alto, elegante, intelligente, generoso, di famiglia alto-borghese, nato a Washington, figlio di un alto funzionario di stato, un patrigno figlio di Henry Luce, il fondatore del “Time”, università alla Juillard School, cresciuto a teatro tra “Henry V” e “Zio Vanya”, capace di parlare perfettamente il francese, in grado di scegliere solo quello che gli piaceva, magari rifiutando “Jurassic Park” e girare gratis “Il bacio della donna ragno” di Hector Babenco per aiutare il film scritto da Manuel Puig, che stava morendo di aids mentre giravano, Hurt era un’anomalia a Hollywood.

Ma aveva lo sguardo delle grandi star dei grandi western, aveva l’intelligenza per piegarsi alle imprese più difficili, come “Stati di allucinazione” di Ken Russell o per reiventarsi il noir degli anni’40 con Kathleen Turner in “Brivido caldo”, che vedemmo tutti più volte e ci sembrò un capolavoro. 

Anche quando non sarà più una sorpresa, e quando avrà fama di psicopatico sul set, trovarlo protagonista di “Fino alla fine del mondo” di Wenders o coprotagonista di Viggo Mortensen in “A History of Violence” di David Cronenberg, ma anche le sue apparizioni ormai invecchiato in “Intelligenza artificiale” di Steven Spielberg o “The Village” di M. Night Shyamalian, perfino in “L’incredibile Hulk” illuminano improvvisamente la scena. La sua presenza non è mai banale. Il pubblico, il pubblico cresciuto negli anni ’80 coi suoi film lo sa.

Persona difficile, ebbe, come molti attori celebri, una valanga di mogli e di fidanzate e di figli. A cominciare da Mary Beth Hurt (1971-1982), la prima moglie, attrice, poi Sandra Jennings (1981-84), sceneggiatrice, che gli dette il primo figlio, Marlee Maitlin, sua partner in “Figli di un dio minore”, Heidi Henderson (1989-1993), seconda moglie, che gli dette due figli, e Sandrine Bonnaire, sua partner in “La peste” di Luis Puenzo, che gli dette una figlia, la quarta. William Hurt, da anni malato, è morto in Oregon, nella casa di due dei suoi figli.

·        E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.

Marco Giusti per Dagospia il 12 marzo 2022.

Se ne va il maestro del giallo all’italiana, Biagio Proietti, 82 anni, autore, regista, ma soprattutto ideatore e sceneggiatore, oggi si direbbe “showrunner”, di incredibili successi del primissimo seriale televisivo come “Dov’è Anna?”, scritto assieme alla moglie Dina Crispo, diretto da Piero Schivazapa con Scilla Gabel e Mariano Rigillo, che ebbe picchi d’ascolto, per l’ultima attesissima puntata, di 28 milioni di spettatori. Record ancora imbattuto. 

Nato a Roma nel 1940, dopo aver frequentato il cinema come assistente negli anni ’60, un percorso che da “Gli indifferenti” di Francesco Maselli a “Il diario segreto di una minorenne” di Oscar Brazzi, e aver scritto qualche film, il western “Quanto costa morire” di Sergio Merolle e il divertente “Fai in fretta ad uccidermi ho freddo” di Maselli,  il giallo “La morte risale a ieri sera” di Duccio Tessari, si specializzò, in coppia con la moglie, nella scrittura di gialli per la tv, di solito diretti da Daniele D’Anza, come “Coralba” con Rossana Brazzi, “Un certo Harry Brent”, lo spettacolare “Lungo il fiume e sull’acqua” con Sergio Fantoni e Laura Belli, “Ho incontrato un’ombra” con Giancarlo Zanetti, Beba Loncar e Laura Belli, “L’ultimo aereo per Venezia”, alternandoli con qualche giallo cinematografico, come “L’assassino ha riservato nove poltrone”(1974) di Giuseppe Bennati con Rosanna Schiaffino e Chris Avram. 

Proietti domina di fatto la fiction giallo o di mistero degli anni ’70 della Rai imponendo un nuovo modello di miniserie o seriale che è poi quello che seguiamo oggi sia in chiaro che sulle piattaforme. Scrive anche sceneggiati più tradizionali, come una “Madame Bovary” con Carla Gravina e Paolo Bonacelli nel 1978, “Racconti fantastici” nel 1979 con Philippe Leroy e Janet Agren. Fa il suo esordio nella regia nel 1979 dirigendo film-tv come “Storia senza parole” sceneggiati, “L’armadio”, La mezzatinta”, “Miriam”, “La casa della follia”. Per Ciro Ippolito scrive nel 1980 “Alien 2 – Sulla terra”, che in parte dirige, mentre per Angelo Pannacciò scrive l’erotico “Peccati di giovani mogli” con Elizabeth Tulin (1981). Più interessante la sua collaborazione con Lucio Fulci, per il quale scrive soggetto e sceneggiatura del notevole horror psicologico “Gatto nero”, ispirato a Edgar Allan Poe, con Patrick Magee, Mimsy Farmer e David Warbeck.  

Torna alla regia di film per la sala con le commedie giovanili popolari “Chewingum” (1984) con Mauro Di Francesco Massimo Ciavarro e Isabella Ferrari, e “Puro cachemire” (1986) con Mauro Di Francesco Paola Onofri, Anna Galiena. Il suo ultimo film è il fantascientifico con alieni “Sound” (1988) con Peter Fonda, Ana Obregon, Mattia Sbragia, Elena Sofia Ricci. 

Morto Biagio Proietti, sceneggiatore e regista. Firmò «Dov’è Anna?» la fiction più vista della storia della tv. Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 12 marzo 2022. 

A dare la notizia della morte la famiglia sul profilo Facebook. L’ispirazione, raccontava, nacque da bambino nella casa del nonno sull’Appia Antica immersa nel buio.

È stato un re della tv, nell’epoca in cui le fiction si chiamavano sceneggiati e avevano pochi rivali nella programmazione quotidiana: si è spento a Roma a 81 anni Biagio Proietti, sceneggiatore per il cinema, il teatro e tanta televisione degli anni 70 e 80. Il suo primo successo è stato Coralba, ha poi firmato, creato e sceneggiato tutti gli episodi della serie televisiva Dov’è Anna? e della miniserie Philo Vance, l’investigatore portato sul piccolo schermo da Giorgio Albertazzi.

A dare la notizia della morte la famiglia, sul suo profilo Facebook: «Cari tutti, non potendo avvisarvi personalmente lo facciamo in questo modo, per cercare di raggiungere le persone che hanno voluto bene a Biagio. Chi lo conosceva personalmente, e chi solo attraverso le sue pagine, le sue parole, le sue immagini. Purtroppo questa mattina Biagio ci ha lasciato». I funerali si terranno lunedì alle 15 nella parrocchia di Santa Caterina da Siena, nel quartiere Appio Latino, a Roma.

Tante scritture per il cinema (Fai in fretta a uccidermi… ho freddo, La morte risale a ieri sera, The Black Cat di Lucio Fulci, Chewingum e Puro cashmere, questi anche da lui diretti) , e quel pallino per il thriller che lo ha reso popolare anche fra i cinefili anche più giovani: Come un uragano, Lungo il fiume e sull’acqua, Un certo Harry Brent, Ho incontrato un’ombra, Philo Vance, La mia vita con Daniela, Doppia indagine, Un uomo curioso. E Dov’è Anna? , record d’ascolti nel ’76 . La serie tv più vista in assoluto, un successo che Biagio si aspettava, tanto da identificarne già al debutto la ragione nell’’emergere «puntata dopo puntata, del ritratto del Paese». Intuizione geniale, oltre all’affondo nell’attualità, l’ affidare le indagini non a un commissario ma a un comune cittadino, il marito della scomparsa, che «nella ricerca della moglie scopre segreti sulla sua vita che forse non avrebbe mai saputo se non fosse sparita nel nulla». Erano gli anni del terrorismo e delle bombe. La realtà si faceva racconto.

Poi la radio, e i romanzi, ultimo Black Cat - Il gatto nero, tratto dal film; nel consiglio di gestione della Siae e nel direttivo di Writers directors worldwide. Un mestiere nato quasi per caso: «Ho cominciato con il cinema facendo nel 1964 l’assistente alla regia di Francesco Maselli per Gli indifferenti, forse il suo film più bello, dove ho avuto il piacere di vedere al lavoro attori eccezionali come Rod Steiger, Shelley Winters, Paulette Goddard e due giovani stelle del cinema italiano come Claudia Cardinale e Tomas Milian. Da lì ho continuato a fare l’aiuto a Maselli fin quando nel ‘67 non abbiamo scritto insieme il soggetto e poi la sceneggiatura di un film commedia Fai in fretta ad uccidermi… ho freddo! che non ebbe molto successo ma si parlò bene della sceneggiatura...quindi cominciai a lavorare come sceneggiatore per il cinema».

Attenzione maniacale per la costruzione dei personaggi, sprofondati in storie a sfondo psicologico: «Io credo che per avere paura basti la nostra fantasia — ha spiegato in un’intervista, ospite della rassegna Paura sotto la pelle —. Alla fine penso che il vero mostro, di cui temiamo di vedere le orrende sembianze, non è altro che l’immagine di noi stessi. Non a caso la leggenda racconta che si muore quando ci si trova di fronte al proprio doppio. Il demone della perversità è un elemento fondamentale nella vita di ognuno di noi». Legato a Roma da sempre, raccontava di avere un debito con la città per la sua propensione al giallo: «Avevo dieci, undici anni quando in radio Ubaldo Lay leggeva I Racconti del terrore di Edgar Allan Poe su radio Rai. Io ero in campagna, a pochi chilometri da Roma, ma allora era ancora campagna, nella casa di mio nonno che si trovava sull’Appia Antica. La corrente elettrica era nelle case ma non poteva stare sulla strada, considerata un monumento inviolabile. Ecco, io ero dentro un buio che più nero non poteva essere ed ero incantato dalla voce dell’attore, che mi faceva nascere, sotto la pelle e dentro il mio animo, paure profonde, amplificate dal fatto che intorno a me potevano essere in agguato mostri indescrivibili, fantasmi che navigavano su vascelli fantasma, donne destinate a morire esangui ed eteree».

Tante vite, pochi rimpianti: «Avrei voluto fare più cinema, forse, perché alcune sceneggiature che ho scritto non sono riuscito a realizzarle, e secondo me erano piuttosto belle. Ma succede a ogni autore, immagino...».

·        Addio al giornalista Stefano Vespa. 

Addio all'amico Stefano Vespa. Il Tempo l'08 marzo 2022.

È morto a Roma a 64 anni il giornalista Stefano Vespa, fratello minore di Bruno. Aveva lavorato per anni a Panorama e al Tempo. Dopo 23 anni a «Il Tempo», dove entrò come collaboratore e divenne caporedattore, nel 2003 passò a Panorama, diventando il capo della redazione romana. Si è sempre occupato di politica e cronaca e, da oltre vent’anni, anche di difesa e sicurezza. Una volta in pensione, aveva iniziato una collaborazione con Formiche.net.

«L’ultimo scambio di messaggi con Stefano è di pochi giorni fa. Mi chiedeva alcune precisazioni sul decreto legge sull’Ucraina. Nonostante l’età e l’esperienza il suo approccio era sempre quello del cronista: scrupoloso, attento al dettaglio. Era precisissimo, Stefano», è il ricordo del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè. «La notizia della sua scomparsa mi raggela e rimanda la memoria al tempo in cui conobbi quel cronista prima di ritrovarlo a Panorama durante la mia direzione nella quale lo volli capo della redazione romana. Stefano era un gentiluomo nei modi e un galantuomo nella professione. Era dolce, sensibile, riservato. Lo piango e mi stringo nel dolore ai suoi familiari e a chi gli volle bene», aggiunge Mulè.

Bruno Vespa in lutto, morto il fratello Stefano a soli 64 anni fa: "Pochi giorni fa il suo messaggio". Libero Quotidiano l'08 marzo 2022.

Gravissimo lutto per Bruno Vespa, conduttore di Porta a porta su Rai1: è morto nella notte a Roma suo fratello, Stefano Vespa, a soli 64 anni. Anche lui giornalista, aveva lavorato per anni a Panorama e al Tempo. "L’ultimo scambio di messaggi con Stefano è di pochi giorni fa. Mi chiedeva alcune precisazioni sul decreto legge sull’Ucraina. Nonostante l’età e l’esperienza il suo approccio era sempre quello del cronista: scrupoloso, attento al dettaglio. Era precisissimo, Stefano", è il ricordo del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè., di Forza Italia, ed ex direttore di Panorama e Studio Aperto. 

"La notizia della sua scomparsa mi raggela e rimanda la memoria al tempo in cui conobbi quel cronista prima di ritrovarlo a Panorama durante la mia direzione nella quale lo volli capo della redazione romana. Stefano era un gentiluomo nei modi e un galantuomo nella professione. Era dolce, sensibile, riservato. Lo piango e mi stringo nel dolore ai suoi familiari e a chi gli volle bene”, aggiunge Mulè. 

Dopo 23 anni nella redazione romana del Tempo, dove entrò come collaboratore e divenne caporedattore, nel 2003 passò a Panorama, diventando il capo della redazione romana. Si è sempre occupato di politica e cronaca e, da oltre vent'anni, anche di difesa e sicurezza. Una volta in pensione, aveva iniziato una collaborazione con Formiche.net.

Alberto Francavilla per blitzquotidiano.it il 9 marzo 2022.

Stefano Vespa è morto per un malore improvviso. Il delirio dei No Vax li ha portati a ipotizzare, sui social, che possa essere deceduto per effetto del vaccino anti Covid. Ormai anche se leggessero di un incidente mortale, sarebbero capaci di twittare frasi come “eh, stranamente aveva fatto la terza dose”. Come se il Covid non esistesse, non uccidesse, o non peggiorasse altre patologie. 

Tra i commenti vergognosi apparsi sui social, eccone alcuni: “Una strage di malori improvvisi, cercateli tutti su Google: fa paura…”, “C’è chi ha creduto al siero magico, qualcuno non ha avuto il tempo di pentirsene”, fino al sarcastico “Nessuna correlazione” e all’emoticon della siringa accanto all’espressione “malore fatale”. 

Chi era Stefano Vespa, fratello di Bruno Vespa

Stefano Vespa era il fratello minore di Bruno Vespa, giornalista, conduttore televisivo, autore televisivo, conduttore radiofonico e scrittore italiano. Già direttore del TG1, è ideatore e conduttore del programma televisivo Porta a Porta, trasmesso da Rai 1 a partire dal 1996.

Come scrive AdnKronos, è morto improvvisamente, colpito da un malore. Aveva 64 anni. Dopo 23 anni a Il Tempo, dove entrò come collaboratore e divenne caporedattore, nel 2003 passò a Panorama, diventando il capo della redazione romana. Si è sempre occupato di politica e cronaca e, da oltre vent’anni, anche di difesa e sicurezza. Una volta in pensione, aveva iniziato una collaborazione con Formiche.net.

·        E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.

La leggerezza di Wilson, il capitano baronetto che teneva unita la Lazio. Angelo Carotenuto su La Repubblica il 6 marzo 2022.

Pino Wilson, insieme al presidente laziale Umberto Lenzini, mostra all’Olimpico il trofeo dello scudetto vinto nella stagione 1973-1974 (ansa)

Addio al leader del primo scudetto biancoceleste del 1974. Incarnazione della lazialità, era la coscienza di quella squadra irragionevole e irripetibile. 

Successe a Sunderland, a Doncaster, a Wolverhampton, a Londra per una partita contro l'Arsenal nel vecchio stadio di Highbury e pure davanti al mare di Ipswich. Ogni volta che la Lazio volava in Inghilterra, Pino Wilson si trovava a fissare l'orizzonte e a fare i conti con una tentazione, scappare, salire su un treno, esplorare. Desiderava vedere finalmente Darlington, almeno una volta, su al nord, dove tra carbone e acciaio erano diventati famosi per la lana e per la prima ferrovia al mondo.

Addio a Pino Wilson: è stato il capitano della Lazio dello scudetto di Chinaglia e Maestrelli. Guido Liberati su Il Secolo d'Italia il 6 marzo 2022.

Giuseppe “Pino” Wilson, morto stanotte a Roma a 76 anni, per tutti i tifosi laziali era semplicemente “Il capitano”. Negli anni ’70 aveva legato il suo nome alla straordinaria avventura della Lazio di Tommaso Maestrelli. Inglese di nascita trasferitosi a Napoli fin da bambino, fu acquistato dalla società capitolina nel 1969 dall’Internapoli insieme a Giorgio Chinaglia. Considerato uno dei difensori più forti della sua generazione, giocò 324 partite con la maglia biancoceleste detenendo a lungo il primato di presenze con la Lazio.

Era uno dei leader della “banda Maestrelli”

Difensore elegante e allo stesso tempo grintoso, giocò un ruolo da leader nella cosiddetta ‘banda Maestrelli’ che negli anni ’70 si impose prepotentemente all’attenzione del calcio italiano e arrivò alla conquista del sospirato primo scudetto della Lazio, al termine della stagione 1973-1974. Fu tra i calciatori che riuscirono a gestire i drammatici momenti di caos seguiti alla morte, il 28 ottobre del 1979, del tifoso laziale Vincenzo Paparelli, colpito da un razzo esploso dalla curva sud romanista prima di un derby. Fu proprio Wilson, in quella fase concitata, ad andare sotto la curva nord a parlare con i tifosi per ristabilire la calma ed evitare che la situazione potesse ulteriormente degenerare.

Pino Wilson: dieci anni con la casacca della Lazio

Coinvolto nel 1980 nella vicenda del Totonero insieme ai compagni di squadra Cacciatori, Giordano e Manfredonia, fu squalificato dalla giustizia sportiva per tre anni e riabilitato nel 1982. Prima del ritiro Wilson disputò nel 1983 un ultimo campionato da professionista con i canadesi dell’Inter Montréal.

Trancassini: “Piango la sua scomparsa a nome del Lazio club Montecitorio”

“Il Lazio Club Montecitorio esprime il proprio dolore per la scomparsa di Pino Wilson. Figura leggendaria e condottiero della squadra che conquistò il tricolore nel 1974, a lui sono legati i ricordi più belli di una stagione unica per la storia biancoceleste e per il calcio italiano. Alla sua famiglia giunga il nostro più cordiale affetto”. Lo dichiara Paolo Trancassini, deputato di Fratelli d’Italia e presidente del Lazio club Montecitorio 1900 che unisce parlamentari di diversi partiti, dipendenti di Montecitorio e giornalisti parlamentari di fede biancoceleste.

Nicola Berardino per gazzetta.it il 6 marzo 2022.

Un dolore tremendo per la Lazio. Nella notte è morto Pino Wilson. Il capitano della squadra che nel 1974 vinse il primo scudetto nella storia biancoceleste. Aveva 76 anni, è stato colpito da un malore, probabilmente un ictus. Viveva a Roma, era rimasto un simbolo del mondo biancoceleste. Ancora in campo quotidianamente come opinionista. Per tutti era ancora “il capitano”.

Nato a Darlington in Inghilterra, dopo pochi mesi la sua famiglia si trasferì a Napoli, la citta di origine della madre. Cominciò a giocare nell’Internapoli, dove in attacco c’era Giorgio Chinaglia. 

Nel 1969 il passaggio in biancoceleste con Chinaglia. Nel 1971 con l’arrivo di Tommaso Maestrelli in panchina diventò uno dei pilastri della formazione che prima salì in A e poi in due anni arrivò a vincere uno strepitoso scudetto. Giocava da libero, ma interpretava il ruolo in chiave moderna, contribuendo all’impostazione del gioco. 

Fece parte della spedizione azzurra al Mondiale in Germania nel 1974. Giocò con la Lazio fino al 1980: 392 gare e 6 gol. Poi una parentesi ai Cosmos nella scia di Chinaglia e al Montreal. Profondo cordoglio sui social biancocelesti per la sua scomparsa. 

CON MAESTRELLI PER SEMPRE—   La salma di Wilson verrà tumulata nella cappella della famiglia Maestrelli, al cimitero di Prima Porta a Roma. Al fianco di Tommaso e Giorgio Chinaglia, per sempre. 

Addio a Pino Wilson, leggenda della Lazio. Il capitano del primo scudetto stroncato da un ictus. Il Tempo il 06 marzo 2022.

La Lazio perde un suo storico capitano e un uomo simbolo del club biancoceleste. È morto a Roma nella notte tra sabato 5 e domenica 6 marzo Pino Wilson, capitano della Lazio campione d’Italia nella stagione 1973-74. Il decesso sarebbe avvenuto in conseguenza di un ictus. L'ex calciatore, bandiera della "banda Maestrelli", aveva 76 anni.  

La camera ardente di Wilson sarà aperta in Campidoglio presso la Sala della Protomoteca lunedì 7 marzo dalle ore 10 alle ore 18. Lo rende noto il Comune di Roma. L`ingresso dalla scalinata del Vignola sarà consentito ai soggetti muniti di Green Pass e nel rispetto della vigente normativa sulle misure riguardanti il contrasto e il contenimento del virus. Si richiede l'uso di mascherina Ffp2.

Addio Pino, leggenda Lazio.  

Si è spento a 76 anni Wilson, bandiera dello scudetto 1974. Domani alle 11 i funerali. Luigi Salomone Il Tempo il 7 marzo 2022.

Giornalista per passione, Lazio, pollo arrosto con tante patate al forno, tradizione Roma Nord Ponte Milvio, Gesù e Maria al Fleming

Pulici, Petrelli, Martini, Wilson, Oddi, Nanni, Garlaschelli, Re Cecconi, Chinaglia, Frustalupi, D’Amico: la Lazio, quella più amata. La fantastica banda di pazzi guidati da Tommaso Maestrelli che nessun tifoso della squadra più antica della Capitale non conosce a memoria. Un gruppo fantastico, seppe vincere il primo storico scudetto del club nella stagione 1973-74 ma deve avere un conto aperto col destino perché ieri si è spento il capitano, 76 anni, Pino Wilson. Un ictus se l’è preso nella notte, senza preavviso lasciando increduli tutti quelli che lo ascoltavano ogni giorno in radio o in tv. 

La morte se li sta portando via tutti, a cominciare dal condottiero Tommaso, il primo ad andarsene proprio in quei magici anni. E poi Luciano (Re Cecconi), ammazzato dalla follia di un gioielliere per uno scherzo del fato, Mario (Frustalupi), caduto in un incidente stradale senza dimenticare Padre Lisandrini, il prete che seguiva la squadra oltre all’accompagnatore Gigi Bezzi e al medico Renato Ziaco. E ancora il sor Umberto (Lenzini, il presidente a lungo trascurato quando invece insieme con Sbardella fu uno degli artefici principali di quel trionfo), Giorgio (Chinaglia) ucciso dal suo cuore a soli 65 anni, il grande Mario (Facco) e Felice (Pulici), il portiere e bandiera di quel gruppo. Ora pure Pino, anche lui che aveva accompagnato gli amici più cari fino agli ultimi momenti di vita. Sarà seppellito nella cappella a Prima Porta dove riposano già Tommaso e Giorgio: parleranno insieme, discuteranno come in quei pomeriggi a Tor di Quinto quando quella squadra si confrontava e divideva per poi ritrovarsi la domenica per abbattere qualsiasi avversario. Uno spogliatoio nel cielo, nel paradiso delle leggende del calcio, nel cuore di tutti i laziali.

Wilson era figlio della seconda guerra, madre napoletana, il padre era un ufficiale inglese che lavorava in Italia nell’ultima parte del conflitto mondiale. Nasce a Darlington ma ben presto torna a Napoli dove inizia a giocare nella Cirio e, dopo la trafila nelle giovanili, fa il suo esordio in serie D nel 1965, giocando 18 partite. Nel ’65-’66 va all’Internapoli, in C e, due anni dopo, la sua strada si incrocia con quella di Giorgio Chinaglia, di cui diventa amico inseparabile. Nel 1969 il duo viene acquistato dalla Lazio, Juan Carlos Lorenzo li voleva a Roma per rilanciare una squadra che arrancava sulle montagne russe tra campionati di serie A e cocenti retrocessioni in B. Il 14 settembre entra subito da leader nella squadra facendo il suo esordio contro il Torino sostituendo Massa che, poi, grazie all’intuizione di Sbardella fu ceduto all’Inter acquistando il cervello di quella squadra, Mario Frustalupi. La fascia al braccio in quelle fantastiche stagioni con quel Lazio-Foggia che ha reso immortale quel gruppo. La prematura morte di Maestrelli, l’esperienza nel 1978 ai New York Cosmos, chiamato da Chinaglia, con i quali giocò un solo campionato Nasl, vincendo un Soccer Bowl come miglior giocatore<WC> del torneo. Dopo il tentativo di contribuire al lancio del calcio negli Usa, il rientro in Italia e la pagina più oscura, il calcio scommesse del 1980, lo scandalo del totonero culminato con l’arresto a Pescara. Viene radiato, la Lazio va in B, una colpa che ha sempre sentito sulle sue spalle pur essendosi sempre dichiarato innocente per quella torbida vicenda di cui si è capito davvero poco. Rifiuta l’amnistia post mondiale ’82 e torna a giocare l’anno dopo <WC1>con i canadesi dell’Inter Montreal.. Giocò anche tre partite con la Nazionale, due nei mondiali del 1974. Poi un lento riavvicinamento al mondo biancoceleste culminato con l’intuizione geniale di organizzare «Di padre in figlio» che riuscì a riempire l’Olimpico senza un motivo vero se non quello di tramettere la lazialità che in quel periodo stava pericolosamente sparendo. 

Oggi dalle 10 alle 18 sarà aperta in Campidoglio presso la Sala della Protomoteca la camera ardente per dare l’ultimo saluto a un personaggio che ha fatto la storia del calcio della Capitale (ingresso dalla scalinata del Vignola.. Dolore per la scomparsa dal Lazio Club Montecitorio, dal presidente Lotito («Pino Wilson è stato una leggenda, il suo ricordo unisce intere generazioni di tifosi biancocelesti»).. I funerali sono in programma domattina alle 11 nella parrocchia del Cristo Re a viale Mazzini, dove saranno sicuramente presenti il ds Tare, Immobile, Lazzari, Zaccagni e i ragazzi del settore giovanile per l’ultimo omaggio del club di cui ha fatto la storia. E la città gli dedicherà presto anche un parco giochi.. Adesso, solo silenzio e applausi per un altro pezzo di quella squadra decimata da un destino crudele anche se il mito resisterà per sempre 

Pino Wilson per sempre insieme. La maledizione della banda Maestrelli. Daniele Rocca su Il Tempo il 06 marzo 2022.

No Pino, anche tu no. Allora è vero che quella squadra è maledetta. Tommaso, Luciano, Mario, Giorgio, Mario, Felice. E adesso anche il Capitano. Chi scrive non ti ha visto giocare, solo immagini in bianco e nero. Neanche troppo chiare. I racconti invece, quelli sì, tanti. Il più significativo (e ripetitivo), quello di mio padre. Parlando dei difensori di oggi della Lazio, la constatazione era sempre la stessa: “Con Wilson non passavi. Se non prendeva la palla, l’attaccante non andava oltre”.

Ma in questo caso il calcio non c’entra niente. Qui si parla di qualcosa che va oltre. Sentirsi in radio tutti i giorni, chiacchierate che in alcuni casi si trasformavano in discussioni che non finivano mai. E che ancora non sono finite. “Pino, Daniele ha detto che non capisci niente di calcio”. La provocazione era sempre la stessa. Qualche volta hai sbagliato anche tu la disamina, ma ne uscivi sempre alla grande, con quell’eleganza che a noi non è dato avere.

Ogni tanto scherzavamo anche sull’età e sugli acciacchi. I nostri, mica i tuoi. “Come stai oggi Pino?”, il saluto quotidiano. “Sempre bene ragazzi, voi come state?”, la risposta era scontata. Ancora risuona. Negli ultimi due anni ci siamo sentiti tutti i giorni. Tutti. Purtroppo anche ieri, solo per messaggio. E poi c’è quella cena. Ce l’avevi promessa Pino. Ce l’avevi promessa. Ma quella maledizione, ancora una volta, è stata più forte di tutto.

·        E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.

Vito Artioli, morto il «re delle scarpe» made in Italy: tra i suoi clienti Papa Wojtyła, Obama e Putin. Andrea Camurani su Il Corriere della Sera il 05 marzo 2022.

Era il re delle calzature di qualità, e ha sempre difeso a spada tratta i prodotti dell’artigianato italiano dalla concorrenza sleale, nel suo caso scarpe indossate da personalità del calibro di Papa Wojtyła, Gary Cooper, Barack Obama o Vladimir Putin: è morto sabato a Tradate (Varese) Vito Artioli, imprenditore della provincia di Varese che avrebbe compiuto 86 anni a luglio.

Da tutti conosciuto come il «signore delle scarpe di lusso», aveva ereditato il calzaturificio dal padre Severino che lo fondò nel 1912, e ora l’azienda di famiglia viene portata avanti dal figlio Andrea. Artioli, originario di Tradate, è stato anche presidente della Camera di Commercio di Varese e dell’associazione artigiani e ha realizzato calzature per i grandi della terra: anche le star planetarie della musica come Michael Jackson, Prince ed Elton John hanno apprezzato lo stile e la qualità delle calzature made in Varese.

Nel 2005 partecipò con la delegazione di rappresentanti europei del settore ad un incontro a Bruxelles col commissario europeo al Commercio Peter Mandelson per la difesa del made in Italy e contro la contraffazione da parte dei mercati stranieri: «Concorrenza s^, ma leale», amava dire. Anche per questi meriti nel 2008 salì in cattedra all’università dell’Insubria come ospite speciale in un ciclo di incontri sul made in Italy per tenere una lezione proprio sul «caso» Artioli dal titolo «Le calzature di qualità». Ha ricoperto incarichi importanti nell’ambito delle associazioni di categoria: è stato presidente dell’Anci Milano (Associazione nazionale Calzaturieri italiani). I funerali si svolgeranno a Tradate l’8 marzo nella chiesa di Santo Stefano alle 15:30.

·        E’ morto Antonio Martino.

(ANSA il 5 marzo 2022) - Antonio Martino, economista e ex ministro della Difesa e degli Esteri nei governi Berlusconi, è morto. Lo apprende l'ANSA da fonti parlamentari vicine all'economista. Aveva 79 anni ed è stato la tessera numero 2 di Forza Italia.

Da cinquantamila.it di Giorgio Dell’Arti

Messina 22 dicembre 1942. Politico. Eletto alla Camera nel 1994, 1996, 2001, 2006, 2008 (Forza Italia), 2013 (PdL, FI). Ministro degli Esteri nel Berlusconi I (1994-1995), della Difesa nel Berlusconi II e III (2001-2006). Economista, è laureato in Giurisprudenza. «I politici sono come i pannolini: vanno cambiati spesso e per la stessa ragione».

Tessera numero 2 di Fi. Tra i principali promotori della fine della leva obbligatoria. È segretario scientifico della Fondazione Italia-Usa. Ha insegnato Economia all’Università Luiss di Confindustria.

Figlio di Gaetano (1900-1967), autorevolissimo esponente del Partito liberale che fu ministro della Pubblica istruzione e degli Esteri negli anni Cinquanta, presidente del Parlamento europeo, rettore dell’Università di Messina e della Sapienza di Roma ecc. «Sono decenni che siamo accusati di slittare a destra. Mio nonno era repubblicano, mio padre liberale, io sono liberista, mia figlia anarco-capitalista».

«Se la gode come un matto a fare il provocatore. Ha mandato a memoria più aforismi, aneddoti e giochi di parole lui di quanti elogi e insulti abbiano accumulato Milton Friedman e i suoi amici della scuola monetarista. Gli unici coi quali non ha mai litigato. Inguaribile bastian contrario» (Gian Antonio Stella).

Tra i fondatori di Forza Italia. «Quanto c’è di Martino nel primo programma di Forza Italia del 1994? “Delle undici videocassette presenti nel kit del candidato azzurro, nove erano mie. Disegnai una delle riforme liberali più radicali della storia europea”» (Vittorio Zincone).

«Tutti dicono che l’estremismo è una forma di parassitismo mentale. Io credo che sia il contrario. Che sia parassita la moderazione. Chi è il moderato in Italia? Chi fa la media ponderata dell’opinione degli altri per non urtare nessuno. Ma se una cosa è sbagliata va combattuta fino in fondo. Tengo molto alle mie idee. Non sono disposto ad accettare compromessi su tutto. Quando Berlusconi mi chiese di entrare nel suo governo come ministro degli Esteri chiamai per un consiglio il mio amico Friedman: cosa devo fare? Mi disse: accetta i compromessi sui dettagli, ma mai sui principi. Io ero contentissimo. Solo che si era dimenticato di dirmi quali erano i dettagli e quali i principi».

Sposato con l’americana Carol, due figli.

È morto Antonio Martino: ex ministro degli Esteri e della Difesa, l’anima liberale di Forza Italia. Cesare Zapperi su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.

È morto Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa: aveva 79 anni.  

È morto Antonio Martino, 79 anni, tra i fondatori di Forza Italia (aveva la tessera n. 2). È stato ministro degli Esteri e ministro della Difesa rispettivamente nel governo Berlusconi I e nei governi Berlusconi II (1994-1995) e III (2001-2006. È stato anche deputato di Forza Italia dal 1994 al 2018. È stato uno dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi all’inizio della sua esperienza in politica. Il Cavaliere ha infatti ricordato Martino con queste parole: «Fu uno dei primi in assoluto a credere in quella sfida difficilissima. Partecipò alla fondazione di Forza Italia, scrivendo con me il nostro programma economico. Con lui, perdo un amico leale, colto, garbato, discreto. L’Italia perde un intellettuale, un galantuomo, un uomo libero».

Figlio di Gaetano Martino,esponente liberale già ministro degli Esteri e presidente del Parlamento europeo (fu tra i padri dell’Unione europea), si laureò in Giurisprudenza nel 1964 ma la sua vita è stata dedicata all’economia politica (è stato docente di economia politica dell’Università LUISS di Roma e preside dal 1992 al 1994). Dal maggio del 2021 era anche presidente onorario dell’Istituto Milton Friedman (dello stesso Milton Friedman era stato amico ed allievo all’Università di Chicago).

In politica ha seguito il padre nell’esperienza nel Partito liberale. Poi ha contribuito a far nascere, dando il suo apporto anche nella costruzione del programma, alla nascita di Forza Italia insieme ad un ristretto gruppo di intellettuali che ha aiutato Silvio Berlusconi a costruire la sua creatura. Più atlantista che europeista, al governo e nella lunga esperienza parlamentare ha cercato di rappresentare l’anima liberale degli azzurri. Aveva detto addio alla Camera nel 2018 dopo sei legislature. Ma ancora era un personaggio molto ascoltato per la sua cultura profonda e per i rapporti internazionali sempre coltivati con passione. Martino si definiva «semplicemente liberale», e riteneva che il fallimento delle politiche stataliste è dovuto a ragioni non solo tecnico-economiche, ma ancor prima etiche e filosofiche. Memorabili le sue divergenze, per la sua posizione liberista in economia, con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti: più volte Martino lo accusò, anche in interventi a Montecitorio, di avere posizioni illiberali e anti-mercato.

Silvio Berlusconi ha ricordato Martino con una lunga nota: Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero. Con lui ho condiviso l’idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due. Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa. Figlio di Gaetano Martino, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, allievo e amico del premio Nobel Milton Friedman, liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994. Con lui elaborai fra l’altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax - aggiunge - Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l’ironia tagliente, la discrezione. Quella con qui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà. Anche in questo eravamo profondamente affini». E poi, ricorda ancora il Cavaliere intervistato dal Tg2: «Quando nel 1994 decisi di scendere in politica, Martino fu uno dei primi in assoluto a credere in quella sfida difficilissima. Da liberale intransigente, da uomo libero, volle essere uno dei protagonisti della nostra grande battaglia di libertà.

Questo il messaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Esprimo il mio profondo cordoglio per la scomparsa di Antonio Martino, economista di valore, uomo delle istituzioni e più volte ministro, coerente e determinato assertore dei valori dell’Occidente e della democrazia liberale».

Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso il suo più sentito cordoglio per la morte di Martino. «Profondo conoscitore del pensiero liberale, ha portato i suoi valori e la sua visione del mondo al centro della vita intellettuale, politica e istituzionale italiana. Ministro degli Affari Esteri e della Difesa, si è speso incessantemente per rafforzare i legami transatlantici dell’Italia e per anticipare l’abolizione della leva militare. Ai suoi cari le condoglianze mie e del Governo».

«È morto Antonio Martino. Un grande dolore. Ci incontrammo da avversari distanti, lo piango da amico fraterno — è il ricordo commosso dell’ex ministro della Difesa Arturo Parisi — . Pur dentro un tempo segnato da un trasparente confronto tra scelte alternative, la fede comune nella libertà e nella democrazia ci impedì di pensarci in alcun modo nemici. Il testimone che raccolsi da lui al servizio della Difesa della Repubblica ci legò sempre più con lo stesso legame che unisce la guardia montante a quella che smonta».

Numerosi i messaggi di ricordo e di cordoglio per la scomparsa dell’ex ministro. Tra i primissimi quello di Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia: «Se ne è andato Antonio Martino, uno dei fondatori di Forza Italia, ministro, protagonista della vita politica italiana, amico schietto e leale. Con lui ho condiviso tante battaglie. Un abbraccio alla sua famiglia. Ciao Antonio!». Partecipe al lutto anche il segretario del Pd Enrico Letta: «È con vera tristezza che partecipo al lutto per la scomparsa di Antonio Martino. Siamo stati spesso in disaccordo e anche per questo forse ho potuto apprezzarne ancora più in profondità la signorilità, la coerenza e la competenza. Una voce libera che ci mancherà». Paolo Gentiloni, commissario europeo: «Ricordo Antonio Martino. Politico e parlamentare. Uomo di cultura e di spirito. Esempio autentico di una destra liberale». Giorgia Meloni, presidente di Fratelli d’Italia: «Cordoglio di Fratelli d’Italia per la scomparsa del professor Antonio Martino, fine intellettuale e politico di spessore, tra i migliori interpreti del pensiero liberale. Un galantuomo apprezzato trasversalmente per la sua intelligenza e le sue capacità. Alla sua famiglia e ai suoi cari la nostra vicinanza».

Il ricordo dell'economista. Chi era Antonio Martino, un libertario antiproibizionista ‘rivale’ di Tremonti. Tiziana Maiolo su Il Riformista l'8 Marzo 2022. 

Chi ha conosciuto Antonio Martino, che da pochi giorni non c’è più, ricorda l’economista, il Chicago boy allievo del Nobel Milton Friedman, il ministro degli esteri che parlava l’inglese, o meglio l’americano, come se fosse nato e cresciuto là invece che nella languida Sicilia dei sonnellini pomeridiani con il pigiama di seta, o ancora il docente di scienze politiche. Il liberale, soprattutto, figlio del liberale Gaetano, uno di quelli che inventarono e costruirono l’Europa. Per me, che ho avuto l’onore di sentire la prima volta la sua voce in una telefonata imprevista e sorprendente almeno un anno prima della nascita di Forza Italia, il suo essere liberale era la sua parte libertaria e antiproibizionista. Per me il professor Martino allora era un maestro, un puntino luminoso lontano e sconosciuto, ma prezioso. Anche se lui non lo sapeva. E non mi conosceva.

Era il 1993 e avevo deciso di rompere con la sinistra. Non ne potevo più delle ipocrisie, della mancanza di progetto, della burocrazia che uccideva i sogni, dell’incapacità di credere davvero nello Stato di diritto con garanzie uguali per tutti, dai “compagni che sbagliano” fino agli imputati di mafia. Ero in Parlamento a combattere a mani nude, in solitudine contro quelle leggi sciagurate che hanno prodotto gli articoli 4-bis e 41-bis dell’ordinamento penitenziario e il famoso ergastolo ostativo. Sola nell’universo della sinistra, delle sinistre. Così un giorno ho chiesto ospitalità al Giornale e ho scritto una lettera intitolata “Perché io compagna abbandono i compagni”. Avevo chiuso. Quel giorno ho ricevuto due imprevedibili sbalorditive telefonate, che probabilmente hanno contribuito a cambiare il corso della mia vita politica. La prima era di Antonio Martino (l’altra era di un pubblico ministero di Milano che non conoscevo personalmente, una certa Tiziana Parenti), e sono quasi svenuta per l’emozione che lui, proprio lui, il mio mito, il mio puntino che brillava, chiamasse me, sconosciuta parlamentare ormai senza patria. Lui: liberista, certo, liberale, ovviamente.

Ma soprattutto libertario e antiproibizionista. Dell’Antonio Martino antiproibizionista non parlerà nessuno in questi giorni. Pure questa sua parte neanche tanto nascosta è quella che disegna di più un modello di società che mal tollera l’invasività dello Stato e il controllo dei comportamenti individuali. Dalla politica sulla droga, quella incapace di combattere il narcotraffico ma molto brava a reprimere le libertà individuali, nasce l’intera visione della società. Anche da lì ha origine il populismo giudiziario che governa l’Italia da trent’anni. Se sei proibizionista nella politica sulle droghe, probabilmente lo sei anche nel resto della tua vita. In Forza Italia purtroppo non hanno vinto quelli che la pensavano come Antonio Martino e come me e pochi altri, ma quelli come Maurizio Gasparri, molti dei quali non si rendono neanche conto di quanto siano angusti i loro orizzonti. Non sanno che è il desiderio voluttuoso di Stato etico, prima dei processi contro Berlusconi, a fare la differenza.

Antonio Martino sapeva bene quanto fosse minoritario il suo pensiero, e ne ha presto preso coscienza. I suoi duelli con il keynesiano Giulio Tremonti non erano sfumature, erano distanze siderali. Tra statalismo e liberalismo, certo, ma essenzialmente tra una società con poche regole chiare e applicate o al contrario un mondo in cui lo Stato-padrone, lo Stato-padre, ha il potere di mettere il naso nella tua vita. E te lo ritrovi nel caffè della colazione del mattino fino alle lenzuola della sera. Sempre lì con il ditino alzato a giudicare e proibire. Non si costruisce un movimento liberale se non si è anche libertari, Antonio lo aveva ben chiaro, e a un certo punto ha mollato la presa, come molti di noi. Avrebbe potuto scrivere una lettera, parafrasando la mia di tanti anni prima, “perché io liberale abbandono i liberali”. Ciao Antonio, sei sempre un puntino che brilla, per me.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Morto Antonio Martino, due volte ministro nei governi di Berlusconi. Il Cav: "Perdo un amico leale". La Repubblica il 5 Marzo 2022.  

L'economista e politico di Forza Italia aveva 79 anni. Il ricordo di Mattarella, Draghi e del fondatore di FI.

È morto l'ex ministro Antonio Martino. Aveva settantanove anni. Economista, aveva guidato il ministero degli Esteri del primo governo Berlusconi e quello della Difesa nel secondo e terzo esecutivo formato dal leader di Forza Italia. È stato deputato per sei legislature, dal 1994 al 2018. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, lo ricorda come "economista di valore, uomo delle istituzioni e più volte ministro, coerente e  determinato assertore dei valori dell'Occidente e della democrazia liberale".

 "Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero - scrive Berlusconi -. Fu uno dei più apprezzati ministri dei nostri governi, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa. Liberale intransigente, liberista convinto - aggiunge il Cavaliere - con lui elaborai fra l'altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax. Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l'ironia tagliente, la discrezione. Quella con cui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà".

Anche il premier, Mario Draghi, ricorda Martino come "profondo conoscitore del pensiero liberale. Ha portato i suoi valori e la sua visione del mondo al centro della vita intellettuale, politica e istituzionale italiana. Si è speso incessantemente per rafforzare i legami transatlantici dell'Italia e per anticipare l'abolizione della leva militare".

"È con vera tristezza che partecipo al lutto per la scomparsa di Antonio Martino - scrive in un tweet il segretario del Pd, Enrico Letta -. Siamo stati spesso in disaccordo e anche per questo forse ho potuto apprezzarne ancora più in profondità la signorilità, la coerenza e la competenza. Una voce libera che ci mancherà".

"Se ne è andato Antonio Martino - scrive sempre su Twitter Antonio Tajani, cordinatore di Forza Italia - uno dei fondatori di FI,  ministro, protagonista della vita politica italiana, amico schietto e leale. Con lui ho condiviso tante battaglie. Un abbraccio alla sua famiglia. Ciao Antonio". Tra le prime reazioni alla notizia della morte di Martino, anche quella della ministrae di Forza Italia al governo. "Antonio Martino - prosegue - amava per gli Affari Regionali, Mariastella Gelmini: "Perdiamo un intellettuale di altissimo profilo, un uomo che ha contribuito alla nascita e al successo di Forza Italia. Un liberale vero, che ha fatto emergere l'identità moderata ed europeista del nostro movimento".

E la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, ricorda Martino come "fine intellettuale e politico di spessore, tra i migliori interpreti del pensiero liberale. Un galantuomo apprezzato trasversalmente per la sua intelligenza e le sue capacità".

È morto Antonio Martino, ex ministro del governo Berlusconi. Il ricordo del lucano Giuseppe Moles, Sottosegretario all’Editoria e Vice Presidente dei Senatori di Forza Italia. La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Marzo 2022.

Lutto nel mondo della politica. Si è spento all'età di 79 anni Antonio Martino, ex ministro degli Esteri e della Difesa durante i governi Berlusconi. Martino era stato anche uno dei fondatori di Forza Italia e deteneva la tessera n° 2. Immediati i messaggi di cordoglio da parte dell'intero scacchiere politico, in primis quello di Silvio Berlusconi: "Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero. Con lui ho condiviso l'idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due. Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa".

«Il Professore mi ha lasciato. La morte di Antonio Martino, del mio Professore e maestro di vita, è per me un dolore indescrivibile, ed è una grave perdita per tutti coloro che hanno avuto modo di conoscerlo e di apprezzarlo». Lo afferma Giuseppe Moles, Sottosegretario all’Editoria e Vice Presidente dei Senatori di Forza Italia.

«Era un uomo di altri tempi, di una straordinaria umanità, coerenza, signorilità e autorevolezza; grande intellettuale e uomo delle istituzioni, illuminato politico e grande autentico liberale di nome e di fatto. Mi mancherà tutto di lui: le sue battute, i suoi aforismi, il suo sorriso, i suoi consigli come i suoi rimproveri. Sono e sarò per sempre grato ed onorato degli insegnamenti, dell’affetto e dell’amicizia che mi ha donato. È stato per me un immenso privilegio essere al suo fianco per tanti anni. Un abbraccio di cuore alla Signora Carol ed alle figlie Alberta ed Erika. Ciao Prof ti voglio bene», conclude.

È morto l'ex ministro Antonio Martino. Fu la tessera numero 2 di Forza Italia, il cordoglio di Brunetta. Il Tempo il 05 marzo 2022.

È morto questa notte l’ex ministro Antonio Martino. Aveva 79 anni. Economista, era stato ministro degli Esteri del primo governo guidato da Silvio Berlusconi e ministro della Difesa nel secondo e terzo esecutivo con a capo il leader di Forza Italia. È stato deputato per sei legislature, dal 1994 al 2018. Martino è stato la tessera numero 2 di Forza Italia, appartenendo quindi alla cerchia dei fondatori del partito azzurro.  

“Addio ad Antonio Martino, eccellente economista, liberale vero, tra i fondatori di Forza Italia, già ministro degli Esteri e della Difesa, presidente onorario dell'Istituto Milton Friedman. Una persona perbene, sempre presente nelle nostre battaglie. Con lui perdiamo un grande italiano, riconosciuto a livello internazionale, che credeva nell’Europa dei popoli. Ciao Antonio, mi mancheranno i nostri colloqui, le nostre discussioni, i nostri progetti” il cordoglio social di Renato Brunetta, ministro della Pubblica Amministrazione.

Un liberale tutto d’un pezzo: è morto Antonio Martino. Fu ministro in tre governi Berlusconi. Michele Pezza sabato 5 Marzo 2022 su Il Secolo d'Italia.   

Centrodestra in lutto: è morto Antonio Martino. Aveva 79 anni. Economista e politico, è stato ministro degli Esteri e della Difesa in tre dei quattro governi a guida Berlusconi. Tra i fondatori di Forza Italia, aveva la tessera n.2 del movimento “azzurro”. Figlio di Gaetano, rettore dell’Università di Messina (sua città natale) e più volte ministro del Pli, Antonio ha ereditato dal padre la passione per l’insegnamento (era docente di Economia politica) e per l’ideale liberale che lui intese in modalità assolutamente dura, pura persino radicale. Prima allievo e poi amico di Milton Friedman, si specializzò alla Scuola di Chicago, tempio del liberalismo mondiale. Proprio lì maturò i tratti che avrebbero caratterizzato il suo percorso. Chi lo ha conosciuto ne ricorderà l’inflessibilità nell’affermazione dei principi della libertà individuale, di quella  economica e dell’uguaglianza come base di partenza e non come destino egualitario.

Antonio Martino aveva 79 anni

Pilastri dottrinari che lo portarono spesso a sostenere dispute accese anche nel centrodestra e nel suo stesso partito. In Forza Italia, infatti, Antonio Martino fu il più convinto sostenitore della necessità di portare fino in fondo la “rivoluzione liberale“. Fu lui a lanciare la flat tax, intesa come motore della ripresa economica e della crescita del Pil. Coerentemente con la sua impostazione, Martino fu assertore dello “Stato minimo“, cioè leggero, non invasivo e rispettoso delle libertà e dei bisogni dei cittadini. Ma fattivo. Di certo non indifferente, se non assente, di fronte alla necessità di orientare la forza del mercato a realizzare una maggiore giustizia sociale. Nella sua visione lo Stato non era un dispensatore di elemosine o di prebende, bensì un regolatore il cui obiettivo finale consisteva nel creare le migliori condizioni di contesto per lo sviluppo dell’intrapresa individuale.

Assecondare i talenti per aiutare chi restava indietro. Il merito come leva per arginare il bisogno. Da liberale, come si direbbe oggi, “senza e senza ma“, Antonio Martino credette senza riserve nella funzione strategica del centrodestra. Ne fu esponente ascoltato e rispettato. A cominciare dal suo fondatore Silvio Berlusconi, che lo volle sempre accanto a sé affidandogli – nei suoi governi – deleghe delicatissime come quelle della politica estera e della difesa. Con la sua improvvisa scomparsa, se ne va uno dei maggiori e migliori protagonisti della Seconda Repubblica. Alla politica tutta e al centrodestra in particolare mancheranno non solo le sue idee e le sue lezioni, ma il suo esempio di uomo libero. E soprattutto di politico che mai piegò le proprie convinzioni alle proprie convenienze.

È morto Antonio Martino anima liberale di Forza Italia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 5 Marzo 2022.  

Antonio Martino è stato ministro degli Esteri e ministro della Difesa rispettivamente nel governo Berlusconi I e nei governi Berlusconi II (1994-1995) e III (2001-2006). È stato anche deputato di Forza Italia dal 1994 al 2018. Dal maggio del 2021 era anche presidente onorario dell’Istituto Milton Friedman (di Milton Friedman era stato amico ed allievo all’Università di Chicago).

Antonio Martino tra i fondatori di Forza Italia di cui aveva la tessera n. 2, è morto. È stato uno dei più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi all’inizio della sua esperienza in politica. Il Cavaliere lo ha ricordato Martino con queste parole: “Fu uno dei primi in assoluto a credere in quella sfida difficilissima. Partecipò alla fondazione di Forza Italia, scrivendo con me il nostro programma economico. Con lui, perdo un amico leale, colto, garbato, discreto. L’Italia perde un intellettuale, un galantuomo, un uomo libero”.

Silvio Berlusconi ha voluto ricordare Martino con una lunga nota: “Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero. Con lui ho condiviso l’idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due. Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa. Figlio di Gaetano Martino, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, allievo e amico del premio Nobel Milton Friedman, liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994. Con lui elaborai fra l’altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax – aggiunge Berlusconi – Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l’ironia tagliente, la discrezione. Quella con qui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà. Anche in questo eravamo profondamente affini“. Il presidente di Forza Italia intervistato dal Tg2 ha ricordato Martino tributandogli un grande onore e ringraziamento: “Quando nel 1994 decisi di scendere in politica, Martino fu uno dei primi in assoluto a credere in quella sfida difficilissima. Da liberale intransigente, da uomo libero, volle essere uno dei protagonisti della nostra grande battaglia di libertà“. 

Antonio Martino è stato ministro degli Esteri e ministro della Difesa rispettivamente nel governo Berlusconi I e nei governi Berlusconi II (1994-1995) e III (2001-2006). È stato anche deputato di Forza Italia dal 1994 al 2018. Figlio di Gaetano Martino, esponente liberale tra i padri dell’Unione europea, ministro degli Esteri e presidente del Parlamento europeo, si laureò in Giurisprudenza nel 1964 ma la sua intera vita è stata dedicata all’economia politica, iniziando come docente di economia politica dell’Università LUISS di Roma di cui è stato preside dal 1992 al 1994. Dal maggio del 2021 era anche presidente onorario dell’Istituto Milton Friedman (di Milton Friedman era stato amico ed allievo all’Università di Chicago).

Ha seguito il padre nell’esperienza politica nel Partito liberale. Successivamente ha contribuito a far nascere Forza Italia insieme ad un ristretto gruppo di intellettuali, offrendo a Silvio Berlusconi il suo apporto anche nella costruzione del programma, ed a costruire la sua creatura politica. Più atlantista che europeista, ha cercato di rappresentare l’anima liberale degli azzurri sia al governo che nella lunga esperienza parlamentare. Dopo sei legislature parlamentari ha abbandonato la politica e la Camera dei Deputati nel 2018, rimanendo però una “voce” molto ascoltata per la sua cultura profonda e per i rapporti internazionali sempre coltivati con passione. 

Martino si definiva “semplicemente liberale” ritenendo che il fallimento delle politiche stataliste è dovuto a ragioni non solo tecnico-economiche, ma ancor prima etiche e filosofiche. Memorabili le sue divergenze, per la sua posizione liberista in economia, con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti, accusandolo, anche in interventi parlamentari in aula a Montecitorio, di avere posizioni illiberali e anti-mercato.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Martino con un messaggio: “Esprimo il mio profondo cordoglio per la scomparsa di Antonio Martino, economista di valore, uomo delle istituzioni e più volte ministro, coerente e determinato assertore dei valori dell’Occidente e della democrazia liberale”. anche il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha espresso il suo più sentito cordoglio per la morte di Martino. “Profondo conoscitore del pensiero liberale, ha portato i suoi valori e la sua visione del mondo al centro della vita intellettuale, politica e istituzionale italiana. Ministro degli Affari Esteri e della Difesa, si è speso incessantemente per rafforzare i legami transatlantici dell’Italia e per anticipare l’abolizione della leva militare. Ai suoi cari le condoglianze mie e del Governo“. Redazione CdG 1947

Addio all'ex ministro Antonio Martino. Francesco Curridori il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Economista di ispirazione liberale, era stato tra i fondatori di Forza Italia e più volte ministro, è morto questa notte a 79 anni a Roma.

L'ex ministro Antonio Martino è morto questa notte a 79 anni a Roma. Economista di ispirazione liberale, era stato tra i fondatori di Forza Italia e più volte ministro.

Martino, nato a Messina nel 1942, aveva un passato nel Partito Liberale, di cui suo padre Gaetano, presidente del Parlamento europeo negli anni '60, era stato uno dei protagonisti principali. "Sono decenni che siamo accusati di slittare a destra. Mio nonno era repubblicano, mio padre liberale, io sono liberista, mia figlia anarco-capitalista", in una delle tante interviste rilasciate nel corso della sua carriera.

Laureatosi in Giurisprudenza nel '64, si dedica all'economia politica insegnando anche alla Luiss di Roma, di cui fu preside nei primi anni '90. Nel '93 diventa la tessera numero 2 di Forza Italia e, l'anno seguente, dopo la vittoria del centrodestra alle Politiche, assume l'incarico di ministro degli Esteri. “Delle undici videocassette presenti nel kit del candidato azzurro, nove erano mie. Disegnai una delle riforme liberali più radicali della storia europea”, dichiarerà a Vittorio Zincone, parlando del programma politico scritto per Forza Italia. Deputato azzurro dal '94 al 2018, nel secondo e terzo governo Berlusconi è titolare del dicastero della Difesa. In quegli anni è tra i principali sostenitori della fine della leva obbligatoria. Nel maggio dello scorso anno era diventato presidente onorario dell'Istituto Milton Friedman.

"Il Cav, la Thatcher e la Ue: cosa significa essere liberale"

Dal mondo della politica sono subito arrivati i messaggi di cordoglio dei principali leader. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi ha espresso il suo più sentito cordoglio per la morte del Prof. Antonio Martino definendolo un "profondo conoscitore del pensiero liberale, ha portato i suoi valori e la sua visione del mondo al centro della vita intellettuale, politica e istituzionale italiana". Il presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni ha ricordato Martino come "un fine intellettuale e politico di spessore, tra i migliori interpreti del pensiero liberale. Un galantuomo apprezzato trasversalmente per la sua intelligenza e le sue capacità. Alla sua famiglia e ai suoi cari la nostra vicinanza". E ha aggiunto: "Ministro degli Affari Esteri e della Difesa, si è speso incessantemente per rafforzare i legami transatlantici dell'Italia e per anticipare l'abolizione della leva militare. Ai suoi cari le condoglianze mie e del Governo". Lo si legge in un comunicato della presidenza del Consiglio. Il segretario del Pd, Enrico Letta, twitta: "È con vera tristezza che partecipo al lutto per la scomparsa di #AntonioMartino. Siamo stati spesso in disaccordo e anche per questo forse ho potuto apprezzarne ancora più in profondità la signorilità, la coerenza e la competenza. Una #vocelibera che ci mancherà". Gli fa eco il commissario europeo per l'economia, Paolo Gentiloni: ​ "Ricordo Antonio Martino. Politico e parlamentare. Uomo di cultura e di spirito. Esempio autentico di una destra liberale". 

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 6 marzo 2022.

Una malattia incurabile s' è portato via Antonio Martino, 79 anni, economista, già ministro degli Esteri e della Difesa nei governi Berlusconi, co-fondatore di Forza Italia. Un pensatore senza padroni, liberale senza se e senza ma, emblema di quella stagione primigenia del berlusconismo che fece incetta di professori e immediatamente dopo li deluse. Martino, per dire, professore di Economia politica prima alla Sapienza, poi alla Luiss, rara mescolanza di galanteria siciliana e ultraliberismo della scuola di Chicago, in quanto allievo di Milton Friedman avrebbe tanto voluto fare il ministro dell'Economia.

Nel 1994 sognava di rovesciare davvero l'Italia e farla finita con lo statalismo. Poiché aveva in tasca la tessera n. 2 di Forza Italia e parlava tutti i giorni con Berlusconi, voleva fare la rivoluzione liberale. Figurarsi. Finì alla Farnesina, tra 1994 e 1995, e non fu certo un ripiego di lusso, anzi. Seguiva le orme del padre, il liberale Gaetano Martino, che era stato ministro degli Esteri dal 1954 al 1957 e in quella veste può essere considerato uno dei padri dell'Europa unita. 

Di come era cresciuta l'Europa, però, Martino figlio non era entusiasta, per usare un eufemismo. Passò all'epoca per euro-scettico, ma la verità è che Antonio Martino era uno scettico blu e lo rivendicava: «Il meglio del pensiero umano viene dagli scettici. Guardate chi sono i dogmatici: Pol Pot, Stalin, Hitler, Mao».

Qualche anno dopo, tornato Berlusconi al governo, fu ministro della Difesa nell'immediatezza dell'11 Settembre, tra 2001 e 2006. Ciò significa che condivise le scelte di mandare i soldati in Afghanistan e Iraq, ma lo fece nascondendo un forte tormento interiore. Una volta raccontò: «Quando squilla il telefono, la sera o la notte, ho il terrore che sia il capo di Stato maggiore che mi comunica di qualche morto o ferito tra i nostri. Non ci dormo». A quel tempo gli offrirono anche di diventare segretario generale della Nato, ma disse di no. Sull'Afghanistan non si illuse mai.

«Dissi subito che ci saremmo rimasti vent' anni, e la sinistra mi sbeffeggiò. Ma così è stato, come doveva essere, perché bastava conoscere quel Paese, e quel popolo, per non farsi illusioni». Ecco, illusioni non se ne fece mai. Quando spiegava la sua visione del mondo, come tanti suoi allievi oggi ricordano, su tutti Giuseppe Moles che è sottosegretario all'Editoria, diceva con aria combattiva: «Il liberale sia conservatore per difendere le libertà acquisite, radicale per conquistarne di nuove, reazionario per recuperare le smarrite, rivoluzionario se non ha alternative».

Ma in privato mostrava splendida autoironia: «Con ambasciatori e generali ho conosciuto ottimi servitori dello Stato. L'unica differenza è che i primi mi dicevano sempre di sì, poi facevano come volevano. I militari, meno». Già, l'ironia. Una battuta, Antonio Martino non se la negava mai. Una delle sue preferite: «Mio nonno era repubblicano, mio padre liberale, io liberista, mia figlia anarco-capitalista».

Alla notizia della morte, giunta inaspettata, infiniti sono stati i messaggi di cordoglio. Berlusconi rievoca così: «Liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994». «Ha portato i suoi valori e la sua visione del mondo al centro della vita intellettuale, politica e istituzionale italiana» e «si è speso incessantemente per rafforzare i legami transatlantici dell'Italia» è il saluto del premier Mario Draghi. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, lo ricorda come «coerente e determinato assertore dei valori dell'Occidente e della democrazia liberale».

Di certo amava l'America, anche se non i suoi ultimi presidenti democratici Obama o Biden. Non meraviglia che abbia sposato un'americana, la signora Carol. Era integralmente liberale e democratico, anche e soprattutto con gli avversari. Toccante è quel che ne scrive Arturo Parisi, il professore ulivista che gli subentrò alla Difesa nel 2006: «Ci incontrammo da avversari distanti, lo piango da amico fraterno. Pur dentro un tempo segnato da un trasparente confronto, la fede comune nella libertà e nella democrazia ci impedì di pensarci in alcun modo nemici. Il testimone che raccolsi da lui al servizio della Difesa ci legò sempre più, con lo stesso legame che unisce la guardia montante a quella che smonta».

Nel 2018, dopo quasi un quarto di secolo trascorso in Parlamento, rinunciò a ricandidarsi con una motivazione urticante come sempre: «Una volta in Parlamento c'erano persone di grande valore, ora è in mano alle masse, ai mediocri». Quanto alla mediocrità, resta impresso a lettere di fuoco il suo giudizio sul centrodestra d'oggi: «Dobbiamo prendere atto che né Giorgia Meloni né Matteo Salvini hanno la stoffa del leader». 

Martino profeta inascoltato. Così l'Italia affonda nei guai. Carlo Lottieri il 7 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex ministro era contro le tasse e la spesa assistenziale. Ma in economia fu considerato un eretico. Purtroppo.

Se nelle scorse ore si è doverosamente reso onore all'Antonio Martino uomo politico, interprete del thatcherismo e del reaganismo, galantuomo e liberale, oltre che formidabile oratore, è giusto pure ricordare come egli sia stato un economista controcorrente e per questo assai isolato nel contesto italiano, dove accademia e mondo culturale hanno quasi sempre mostrato ostilità verso le sue tesi: giudicate estremiste e inattuabili.

L'Italia e l'Europa, però, si troverebbero ora in una situazione assai migliore se si fosse prestata attenzione ai suoi insegnamenti.

Quale economista monetario, Martino fu sempre fedele alla lezione del maestro, Milton Friedman, avverso a ogni arbitraria e illimitata espansione della quantità di valuta. Di conseguenza, se negli anni in cui fu alla guida della Bce Mario Draghi avesse ascoltato le tesi monetariste difese da Friedman e da Martino stesso oggi non ci troveremmo di fronte a questa inflazione che sta producendo un deciso innalzamento dei prezzi e sta generando il progressivo impoverimento di larga parte della società.

Oltre a chiedere rigore sul fronte monetario, egli avversò sempre quella che il suo amico Pascal Salin ebbe a chiamare la «tirannia fiscale» che caratterizza l'epoca contemporanea, ma al tempo stesso vide nel debito pubblico lo strumento di uno Stato invadente e clientelare, in grado di comprare il voto degli elettori di oggi con un debito scaricato sui lavoratori di domani. Oggi l'Italia non sarebbe «un Paese per vecchi», che costringe tanti giovani laureati e no a trasferirsi a Londra oppure in Germania, se il ceto dirigente italiano avesse compreso la lezione del professore.

Da siciliano innamorato della sua terra, inoltre, egli ebbe sempre parole di fuoco contro quella redistribuzione assistenziale che in linea teorica sarebbe «a favore del Sud» e che da decenni penalizza le aree più produttive con un prelievo spropositato e quelle più povere con una crescente politicizzazione dell'economia e della società. E se da un lato egli pensava che Roma stesse sbagliando tutto con le sue politiche meridionaliste, d'altro lato era pure assai scettico dinanzi al progetto di Bruxelles, volta a creare un potere centrale sempre più forte e tale da indebolire nazioni, regioni e città. Il suo spiccato amore per l'America (aveva studiato a Chicago), lo portava inoltre a comprendere l'importanza dell'autogoverno, che tende a responsabilizzare tutti, e di quella concorrenza federale che crea una sorta di mercato tra governi locali.

Su quasi ogni dossier, purtroppo, Martino è rimasto inascoltato. Il nostro sistema educativo sarebbe ben diverso se si fosse adottato come egli suggerì per anni, assieme a Dario Antiseri e Lorenzo Infantino quello strumento del buono-scuola che permetterebbe a chiunque di scegliere tra scuola pubblica e privata. E non avremmo pensioni al collasso se si fosse compresa la sua proposta di favorire accumulazioni individuali: come s'è fatto in Cile.

Per giunta, Martino veniva da studi di diritto e in questo senso fu sempre ben consapevole della necessità di provare a vincolare la rapacità, la spregiudicatezza e l'irresponsabilità dei politici con regole costituzionali. Riprendendo alcune tesi del premio Nobel per l'economia James Buchanan, egli suggerì infatti d'inserire in Costituzione ben precisi vincoli alla possibilità di spendere e tassare: in sostanza, di disporre delle risorse e della vita dei cittadini.

Nessuna di queste sue idee, purtroppo, è stata accolta dalla classe politica. E se oggi le nostre prospettive appaiono tanto cupe, molto si deve proprio a questo.

Un uomo senza padroni una spanna avanti a tutti. Nicola Porro il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

Al congresso Pli, spiegava la libertà con le ghette ai piedi. Ricordi di un signore senza compromessi.

Mi sono presentato a casa sua una decina di giorni fa. È l'ultima volta che ho visto Antonio Martino. C'era sua moglie Carol, una delle sue due figlie. Un paio di ore di discussione fitta fitta sugli intellettuali, i liberali, cosa era rimasto della Forza Italia della prima ora, come si era ridotta la sua università, la Luiss. Dovevamo fare un libro insieme. Seduto sulla poltrona che fu di suo nonno e di suo padre e senza che il Prof si fumasse una delle sue contingentate Winston: non più di una dozzina al giorno conservate in un portasigarette.

Qualcuno pensa che Martino sia stato abbandonato dal partito che aveva contribuito a fondare, da quegli amici che gli gironzolavano intorno quando era in auge, da ministro degli Esteri e poi della Difesa. Forse sì. Ma Martino se ne è sempre «fregato». Era superiore. Fu lui a chiedere a Berlusconi di non essere più candidato in Parlamento. Mi confessò un giorno: «Rischiavo di sedermi accanto a persone che non avrei frequentato neanche al terzo whisky». Il Prof aveva frequentato da studente Milton Friedman, discuteva con Hayek, sfotteva Montanelli, aveva conosciuto i grandi della Terra, tenuto il discorso in perfetto inglese davanti all'assemblea dell'Onu per rivendicare la partecipazione al Consiglio di sicurezza: questo Parlamento non gli piaceva.

Alla fine del 1988 si presentò al congresso del Partito liberale con indosso un paio scicchissimo di ghette. Lo conobbi là: tenne un discorso contro l'obbligo del casco, si candidava alla segreteria del partito. Dissero che si trattava di provocazioni. Non lo erano: ne l'una né l'altra. Pensava veramente ad un partito di liberali che non fossero lab e credeva veramente che all'inferno si scenda a piccoli passi: prima l'obbligo del casco, poi i lasciapassare. Nessuno ebbe più applausi di lui e nel contempo meno voti per la segreteria.

Un signore e un uomo libero. Proprio nel nostro ultimo incontro gli chiesi cosa pensasse di Berlusconi. «C'è un filtro, non me lo passano al telefono. Anche se non ho nulla da chiedergli. Non possiamo negare che nel suo animo sia un liberale, è un uomo che rischia e convince». Mi stupì inoltre questa sua ultima affermazione: «L'Italia oggi è piena di liberali, altro che quando ero giovane io, non siamo più quattro gatti».

Quando lo accompagnavo come portavoce (si tratta del 1994) nei viaggi di Stato come ministro degli Esteri era circondato da alti diplomatici, alcuni di loro erano anche siciliani e in parte suoi parenti. E quello che notavi era che il ministro, dunque la personalità più importante della delegazione, fosse anche quella meno legata all'establishment. È una cosa difficile da spiegare. Era come se Martino fosse sempre un passo indietro, e una spanna avanti. Prima di atterrare si concedeva sempre un'oretta di Wodehouse. Uno scrittore che adorava. Storie in cui financo il mitico castello di Blandings sembrava una barzelletta. Ecco Martino rispettava le tradizioni, veniva da quel mondo che le ha costruite, ma al tempo stesso ne era superiore, le sbertucciava quando c'era da farlo, le onorava quando se lo meritavano.

Fu lui in quegli anni a spiegare a israeliani e americani, con i quali aveva rapporti consolidati, che il primo governo Berlusconi, nonostante avesse imbarcato Gianfranco Fini, non era un esecutivo di post fascisti. In una sola giornata incontrò Shimon Peres e Arafat: al primo spiegò l'essenza del nuovo governo italiano e il secondo gli chiese di far aprire alcune catene di negozi di abbigliamento (citò Benetton) nei Territori. Fu lui a spiegare agli italiani perché le tasse non sono belle e che la flat tax è utile. «Berlusconi mi ha detto era anche più radicale di me, sull'adozione della flat tax». E fu lui ad insegnare ad una generazione di studenti che la spesa pubblica fatta in deficit non è altro che una tassa sotto mentite spoglie.

Appena nominato ministro, Martino ricevette una telefonata di congratulazioni da Friedman, al quale chiese un consiglio su come comportarsi da politico: «Compromessi sui dettagli sono accettabili gli disse il premio Nobel - mai sui principi». Una piccola grande lezione che Martino già conosceva e che bene rappresenta la sua vita.

«Come sta professore?», retoricamente gli chiedevo ogni volta che lo sentivo. E da anni rispondeva: «Compatibilmente».

Quel figlio d'arte inflessibile sull'atlantismo e contro il fisco. Francesco Perfetti il 6 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'avvenuta scomparsa di Antonio Martino, avvenuta nella notte tra venerdì e sabato, lascia un profondo vuoto nel mondo della politica e della cultura. Per quanto da tempo si fosse ritirato dall'attività pubblica, era sempre considerato un maestro. È difficile parlarne per chi, come me, lo ha conosciuto e frequentato come l'amico di una vita: collega universitario, interlocutore raffinatissimo, punto di riferimento politico e intellettuale. Estati trascorse insieme all'Elba, pomeriggi domenicali nella sua casa romana discutendo di politica, cultura e liberalismo, impegni pubblici comuni come la celebrazione alla Nato di Manlio Brosio che di quell'organismo era stato segretario generale o come la giornata organizzata alla Camera per ricordare Gaetano Martino, il papà suo ed anche, non dimentichiamolo, di quell'Europa che senza la Conferenza di Messina probabilmente non sarebbe stata più realizzata.

Nato a Messina alla fine del 1942 dove aveva studiato e si era laureato, Martino aveva intrapreso la carriera accademica insegnando in varie università per poi approdare alla Luiss-Guido Carli. Qui insegnò economia politica e le sue lezioni erano seguitissime perché aveva il dono di rendere accessibili, con una battuta o un aneddoto, anche i concetti più difficili. Era un docente così amato che, quando si mise in aspettativa dopo essere stato eletto in Parlamento nelle file di Forza Italia, molti suoi studenti erano commossi, alcuni con le lacrime agli occhi.

Come economista, Martino apparteneva alla cosiddetta scuola «classica», quella che passando per Vilfredo Pareto, Maffeo Pantaleoni e Luigi Einaudi giungeva fino a Sergio Ricossa: una «scuola» liberale e liberista. A questa scuola egli aveva aggiunto il «sale» della sua esperienza americana: a Chicago, aveva potuto studiare, per un biennio, a diretto contatto con due futuri premi Nobel, Milton Friedman e George Stiegler. Il rapporto con Friedman fu strettissimo e i due rimasero legati da una amicizia profonda. Quando fu nominato ministro degli Esteri nel primo governo Berlusconi, il grande economista di Chicago gli mandò un biglietto che cominciava con queste parole: «Caro Antonio, congratulazioni e condoglianze. Congratulazioni per la vittoria e condoglianze per le difficoltà che incontrerete nel realizzare i vostri programmi». ». Poi, poco dopo, aggiunse per telefono una frase che Martino non dimenticò mai: «Caro Antonio, ricordati una cosa: nei dettagli puoi anche scendere a compromessi, sui principi mai».

Per tradizione familiare Martino si era sempre interessato alla politica e aveva militato nelle file del partito liberale. Nel 1986 era stato, insieme a Sergio Ricossa e Gianni Marongiu, fra i promotori della storica marcia contro il fisco. Tuttavia aveva sempre diffidato dei «politici di professione» e decise di impegnarsi attivamente dopo l'incontro con Berlusconi nella convinzione di poter realizzare le sue idee liberali: fu lui, la storica tessera numero 2 di Forza Italia, a scrivere gran parte del programma del nuovo movimento politico, soprattutto nei suoi aspetti economici. La sua idea di fondo era quella di una società liberale nella quale l'ambito dell'azione pubblica fosse delimitato e nella quale venisse garantito il massimo spazio possibile alle iniziative private, individuali, volontarie. Era convinto, insomma, che il liberismo economico fosse premessa ineludibile del liberalismo politico. Non a caso a chi gli chiedeva se si sentisse un liberale europeo o americano, continentale o insulare, progressista o conservatore rispondeva di essere «semplicemente liberale» senza aggettivi perché, aggiungeva, o si è liberali o non lo si è. Precisava: «essere liberale oggi significa saper essere conservatore, quando si tratta di difendere libertà già acquisite, e radicale, quando si tratta di conquistare spazi di libertà ancora negati. Reazionario per recuperare libertà che sono andate smarrite, rivoluzionario quando la conquista della libertà non lascia spazio ad altrettante alternative. E progressista sempre, perché senza libertà non c'è progresso».

L'attività politico-governativa di Antonio Martino si sviluppò soprattutto nei campi della politica internazionale: fu ministro degli Esteri (1994-1995) e ministro della Difesa (2001-2006) in periodi molto delicati, che videro fra l'altro lo scoppio della guerra in Iraq e l'esplosione del terrorismo internazionale. Percepito come garante e portabandiera di un atlantismo inflessibile, Martino fu indicato come possibile Segretario Generale della Nato, ma la sua candidatura venne meno perché egli si dichiarò indisponibile per motivi personali. Il suo prestigio internazionale, al di là del campo degli studi, è testimoniato dalle manifestazioni di stima e dai rapporti di amicizia con i «grandi della terra», da George Bush a Ronald Reagan fino a Margaret Thatcher, della quale diceva scherzando con una battuta ironica, che sarebbe stata ricordata dalla storia come «statalista moderata». Ci mancherà, Antonio Martino, che per tanti anni fu anche un prestigioso editorialista di Il Giornale, e, soprattutto, mancherà agli amici.

Martino, il cordoglio di Berlusconi: “Se ne va un amico”. Francesco Curridori il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Antonio Martino, tessera numero 2 di Forza Italia ed ex ministro degli Esteri e della Difesa, è morto oggi a 79 anni. Ecco il cordoglio di Silvio Berlusconi e degli altri big del partito.

"Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero". Con queste parole, Silvio Berlusconi, ricorda l'economista con cui ha condiviso "l’idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due".

"Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa", aggiunge Silvio Berlusconi. Martino, da titolare del dicastero della Farnesina, rappresentò l'Italia a Vienna alla Conferenza sulla sicurezza e sulla cooperazione in Europa e, in politica estera, ebbe sicuramente un approccio più filo-atlantista che filo-europeista. Da ministro della Difesa, invece, si adoperò per l'abolizione della leva militare, una scelta che era frutto anche della sua educazione liberale. A tal proposito, Berlusconi ricorda anche le origini:"Figlio di Gaetano Martino, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, allievo e amico del premio Nobel Milton Friedman, liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994. Con lui elaborai fra l’altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax". Il leader di Forza Italia chiosa: "Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l’ironia tagliente, la discrezione. Quella con qui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà Anche in questo eravamo profondamente affini".

Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, su Twitter scrive:"Se ne è andato Antonio Martino, uno dei fondatori di Forza Italia, ministro, protagonista della vita politica italiana, amico schietto e leale. Con lui ho condiviso tante battaglie. Un abbraccio alla sua famiglia. Ciao Antonio!". Il il ministro della Pubblica amministrazione, Renato Brunetta, in una nota, sottolinea: "Addio ad Antonio Martino, eccellente economista, liberale vero, tra i fondatori di Forza Italia, già ministro degli Esteri e della Difesa, presidente onorario dell'Istituto Milton Friedman. Una persona perbene, sempre presente nelle nostre battaglie. Con lui perdiamo un grande italiano, riconosciuto a livello internazionale, che credeva nell'Europa dei popoli. Ciao Antonio, mi mancheranno i nostri colloqui, le nostre discussioni, i nostri progetti".

Antonio Martino morto, lo strazio di Arturo Parisi: "Piango un amico fraterno". Da sinistra, quello che pochi sapevano. Libero Quotidiano il 05 marzo 2022

"Coerente e determinato assertore dei valori dell'Occidente". Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella commenta così la scomparsa di Antonio Martino, tessera numero 2 di Forza Italia ed ex ministro di Esteri e Difesa in 3 dei 4 governi presieduti da Silvio Berlusconi tra 1994 e 2006. "Esprimo il mio profondo cordoglio per la scomparsa di Antonio Martino, economista di valore, uomo delle istituzioni e più volte ministro, coerente e determinato assertore dei valori dell’Occidente e della democrazia liberale", sono le parole del Capo dello Stato. 

Immediato, ovviamente, il messaggio di cordoglio di Berlusconi: "Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero. Con lui ho condiviso l’idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due. Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa. Figlio di Gaetano Martino, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, allievo e amico del premio Nobel Milton Friedman, liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994. Con lui elaborai fra l’altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax. Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l’ironia tagliente, la discrezione. Quella con qui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà. Anche in questo eravamo profondamente affini".  

Significativo anche il ricordo che di Martino, scomparso a 79 anni, ha dato Marcello Pera: "Insuperabile, e inimitabile, per arguzia, per rigore di pensiero e serietà intellettuale, Antonio Martino è stato un autentico liberale e uomo politico serio. Atlantista amico degli Stati Uniti, euroscettico, ha avuto in Forza Italia la funzione del pioniere". L'ex presidente del Senato aggiunge un ricordo: "'Se c'è Antonio deve essere una cosa buona', dicevamo noi che siamo arrivati dopo di lui. E poi una battuta di spirito che voleva dire prendere sul serio il lavoro assai più che noi stessi...". Da sinistra, commosse le parole di Arturo Parisi, ex leader della Margherita e storico collaboratore di Romano Prodi: "Un grande dolore. Ci incontrammo da avversari distanti, lo piango da amico fraterno. Pur dentro un tempo segnato da un trasparente confronto tra scelte alternative, la fede comune nella libertà e nella democrazia ci impedì di pensarci in alcun modo nemici. Il testimone che raccolsi da lui al servizio della Difesa della Repubblica ci legò sempre più con lo stesso legame che unisce la guardia montante a quella che smonta". "Nel periodo condiviso in Parlamento - conclude - seppure in banchi lontani cercammo spesso nella comunanza del voto la prova dei valori comuni oltre le appartenenze di parte. Sicuro di trovarlo continuerò a cercarlo. Addio Antonio. A Dio".

L'economista aveva 79 anni. È morto Antonio Martino, ex ministro nei governi Berlusconi: aveva la tessera numero 2 di Forza Italia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Marzo 2022.

È morto a 79 anni l’economista ed ex ministro della Difesa e degli Esteri nei governi Berlusconi Antonio Martino. “Se ne è andato Antonio Martino, uno dei fondatori di Forza Italia, ministro, protagonista della vita politica italiana, amico schietto e leale. Con lui ho condiviso tante battaglie. Un abbraccio alla sua famiglia. Ciao Antonio!”, ha scritto su Twitter il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. Martino aveva avuto la tessera numero 2 di Forza Italia.

Martino era nato a Messina. Figlio di Gaetano Martino, padre dell’Unione Europea, è stato docente di storia e politica monetaria e Preside della facoltà di Scienze politiche della Luiss di Roma ed era stato deputato per sei legislature, dal 1994 al 2018. Aderì a Forza Italia nel 1994. I primi passi in politica li aveva compiuti con i liberali: nel dicembre del 1988 era stato candidato di minoranza alla segreteria del Pli. A Chicago era stato allievo del premio Nobel per l’Economia Milton Friedman, il principale esponente della teoria economia del monetarismo, che su di lui ebbe una grandissima influenza.

Martino si definiva “semplicemente liberale”, e riteneva che il fallimento delle politiche stataliste è dovuto a ragioni non solo tecnico-economiche, ma ancor prima etiche e filosofiche. Memorabili come riporta l’Ansa, le sue divergenze, per la sua posizione liberista in economia, con l’ex ministro dell’Economia Giulio Tremonti: più volte Martino lo accusò, anche in interventi a Montecitorio, di avere posizioni illiberali e anti-mercato.

Silvio Berlusconi ripeteva spesso che Antonio Martino aveva la tessere numero 2 del partito Forza Italia. “È con vera tristezza che partecipo al lutto per la scomparsa di Antonio Martino. Siamo stati spesso in disaccordo e anche per questo forse ho potuto apprezzarne ancora più in profondità la signorilità, la coerenza e la competenza. Una voce libera che ci mancherà”, il cordoglio espresso su twitter il segretario del Partito Democratico Enrico Letta.

Il cordoglio di Silvio Berlusconi espresso in un post sui social: “Con Antonio Martino se ne va un amico carissimo, uno studioso illustre, un uomo libero. Con lui ho condiviso l’idea della nascita di Forza Italia, della quale ebbe la tessera numero due. Fu uno dei più apprezzati Ministri dei nostri governi, agli Esteri e alla Difesa, stimatissimo in tutti i contesti internazionali e soprattutto negli Stati Uniti, dove si era formato e dove era di casa. Figlio di Gaetano Martino, uno dei padri fondatori dell’Unione Europea, allievo e amico del premio Nobel Milton Friedman, liberale intransigente, liberista convinto, con il suo pensiero orientò e caratterizzò il programma di Forza Italia fin dal 1994. Con lui elaborai fra l’altro il nostro progetto di riforma fiscale, basato sulla flat tax”.

Me ne mancheranno i modi squisiti, le citazioni colte, l’ironia tagliente, la discrezione. Quella con cui scelse di farsi da parte da una politica attiva che in fondo non aveva mai amato, che intendeva come un dovere civile e morale, al servizio della libertà. Anche in questo eravamo profondamente affini. Ciao Antonio, vedrai che ti chiederanno consiglio anche in paradiso”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Morto l’attore John Stahl.

Morto John Stahl, era il Richard Karstark de «Il Trono di Spade». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.

L’attore scozzese è morto il 2 marzo ma la notizia è stata diffusa solo adesso.  

L’attore scozzese John Stahl, celebre per il suo ruolo di Rickard Karstark nella popolare serie fantasy «Il Trono di Spade», è morto all’età di 68 anni. La notizia è stata confermata dal suo agente, Amanda Fitzalan Howard, che lo ha descritto come «un attore di notevole abilità e un sostenitore del teatro scozzese». Stahl, originario di Sauchie nel Clackmannanshire, è apparso anche in numerose produzioni teatrali durante la sua carriera, tra cui spettacoli alla Royal Shakespeare Company e al National Theatre. L’attore è morto il 2 marzo sull’isola di Lewis, in Scozia, ma la notizia è stata diffusa solo adesso.

Morto John Stahl, il Richard Karstark del Trono di Spade. Novella Toloni il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'attore è deceduto il 2 marzo ma la notizia è stata diffusa solo oggi. Stahl si era spostato di recente con la compagna Jane Paton.

Si è spento all'età di 69 anni l'attore scozzese John Stahl diventato popolare per avere interpretato il ruolo di Lord Rickard Karstark nella saga fantasy "Il Trono di Spade". Stahl, originario di Sauchie nel Clackmannanshire, è deceduto il 2 marzo scorso nella sua casa situata sull'isola di Lewis, in Scozia, ma la notizia è stata resa nota solo ora.

La conferma è arrivata da Amanda Fitzalan Howard, agente dell'attore, che attraverso i social network ha comunicato la morte di John Stahl, descritto come "un attore di notevole abilità e un sostenitore del teatro scozzese". Le cause del decesso dell'artista non sono state rese note, ma la notizia della sua scomparsa ha sorpreso e scosso amici e colleghi del mondo dello spettacolo britannico e internazionale.

Stahl si era sposato da poco con la compagna, l'attrice Jane Paton. All'evento - avvenuto online a causa del Covid - aveva partecipato anche l'attore e sceneggiatore Peter May, che su Twitter ha ricordato il collega così: "È terribilmente triste sapere che il mio vecchio amico, John Stahl, è morto. Ho scritto così tante scene per il personaggio di Inverdarroch che ha interpretato in Take The High Road. Solo di recente ha partecipato al suo matrimonio online. L'ho visto l'ultima volta ad Adelaide, in Australia, per una divertente rimpatriata".

Il Trono di Spade: cancellato il prequel

Nato nel 1953, John Stahl ha esordito in televisione negli anni '70, raggiungendo la fama con il ruolo di Tom "Inverdarroch" Kerr protagonista della soap opera inglese "Take the high road", di cui fu star dal 1987 al 2003. L'artista ha calcato anche i palchi dei teatri più famosi d'Europa recitando negli spettacoli della Royal Shakespeare Company e del National Theatre. Negli ultimi dieci anni Stahl è stato volto di numerose serie come "Doctor", "Being Human" e "Shetland", ultimo set nel quale ha recitato l'attore. Il suo nome è noto al grande pubblico italiano per avere interpretato il ruolo di Rickard Karstark - Lord Stark - nella popolare saga "Il trono di spade". L'attore inglese era entrato nel cast della serie nella seconda stagione nel 2012, sostituendo l'attore Steven Blount, e uscendo di scena alla fine della terza stagione con la morte del suo personaggio. Dopo l'annuncio della sua scomparsa colleghi e amici hanno affidato ai social network messaggi di cordoglio e stima.

·        E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.

Marco Giusti per Dagospia il 26 febbraio 2022.

Se ne va anche Sally Kellerman, 84 anni, attrice e cantante molto amata da Robert Altman, che la scelse per il ruolo del Maggiore Margaret “Hot Lips” Houlihan in “M.A.S.H” nel 1970, ma la volle anche come angelo con tanto di ali nel successivo “Brewster McCloud” e la ritrovò negli anni ’90 per “Pret-à-porter” come la direttrice di una rivista di moda e per “I protagonisti” come se stessa. 

Fu grazie al ruolo di “Hot Lips”, bollente maggiore dell’esercito americano nella guerra di Corea a fianco di Donald Sutherland e Elliot Gould, allora sconosciuti, dove era sia assolutamente comica che molto sexy, aveva una notevole scena di nudo che verrà ripresa perfino nella saga delle soldatesse di Edwige Fenech, che diventò una star e venne nominata agli Oscar. Non vinse, perché quell’anno l’Oscar andò, un po’ inutilmente, a Helen Hayes per “Airport”. Ma tutti tifavamo per lei.  

Bionda, elegante, molto alta (1,80) e per questo difficile da inserire nei film della New Hollywood tra un Al Pacino e un Dustin Hoffman, Sally Kellerman era nata nel 1937 a Long Beach, figlia di una pianista e di un dirigente della Shell. 

Aveva sempre sognato di fare il cinema, anche se intraprese contemporaneamente anche la professione di cantante. Studiò prima con Jeff Corey e poi con l’Actor’s Studios di Los Angeles.

Stava per debuttare come protagonista di “Santa Giovanna” di Otto Preminger nel 1957 quando, all’ultimo istante, il regista preferì l’altrettanto inedita e altrettanto bionda Jean Seberg. La Kellerman ripiegò su un ruolino in un film di cattive ragazze di serie B prodotto da Samuel Z. Arkoff, “Reform School Girls” di Edward Bernds interpretato anche da Edd Byrnes. 

Tra la fine degli anni ’50 e i primi anni ’60, lavorò moltissimo nelle serie televisiva. La troviamo al cinema nell’horror “Le mani dell’assassino” del 1962, nel poliziesco “Il terzo giorno” di Jack Smight con George Peppard. Ebbe anche un buon ruolo nel thriller di Richard Fleischer “Lo strangolatore di Boston” con Tony Curtis nel 1968 e nella commedia “Sento che mi sta succedendo qualcosa” nel 1969. 

La svolta arrivò grazie a Robert Altman e al ruolo di “Hot Lips” in “M.A.S.H” e alla nomination all’Oscar. Arrivarono così ruoli maggiori nel già citato “Brewster McCloud” dove è l’angelo che protegge Bud Cort, “Amiamoci così, belle signore” di Gene Saks dalla commedia di Neil Simon con Alan Arkin, “Rafferty and the Gold Twins” di Dick Richards con Alan Arkin e MacKenzie Phillips, “L’inseguito” di Howard Zieff con James Caan, il thriller “A Reflection of Fear” di William A. Fraker con Robert Shaw, il musical superflop “Orizzonte perduto” di Charles Jarrot con Peter Finch e Liv Ullman.

Negli anni ’70 Sally Kellerman fu di fatto una delle grandi protagoniste della New Hollywood rivoluzionando il ruolo della bella ragazza anni ’60, facendone qualcosa di veramente più grintoso, ironico e esplosivo. 

Rifiutò, magari sbagliando, prima il ruolo da protagonista in “Bob&Carol&Ted&Alice” di Paul Mazursky, poi il ruolo poi andato a Karen Black in “Nashville” di Altman, ma la troviamo tra i protagonisti dell’innovativo “Welcome to Los Angeles” di Alan Rudolph, collaboratore e pupillo di Altman. 

E’ la madre di Diane Lane in “Una piccola storia d’amore”, ma la troviamo anche in “Foxes” di Adrian Lyne e nel bellissimo “Così è la vita” di Blake Edwards con Jack Lemmon e Julie Andrews e nel divertentissimo “A scuola con papà” di Alan Metter col comico televisivo Rodney Dangerfield. Ripete ancora il suo ruolo di commediante sexy protagonista come Roxy Dujour in “Meatballs” di George Mendeluk nel 1986 e ritrova Donald Sutherland nel bel film di Percy Adlon “Younger and Younger”. 

Ha avuto due mariti, Rick Hedelstein e Jonathan D. Krane, sposato nel 1980, col quale ebbe una serie di problemi quando si innamorò di Nastassja Kinski. Poi tornò a casa. Ha lavorato moltissimo, si calcola qualcosa come 147 titoli tra film e telefilm. 

Un’attività continuativa dalla fine degli anni ’50 a due anni fa. Tra i titoli più trash leggiamo “Lussuria”, scritto e diretto da Zalman King nel 2011 con la modella Shawnee Free Jones e Seymour Cassel. “The Remake”, un curioso film diretto da Lynn Alana Delaney che la vede protagonista assieme a Robert Romanus e a Larry King è del 2016.

·        E’ morto il cantante Gary Brooker. 

Matteo Cruccu per il “Corriere della Sera” il 23 febbraio 2022.

Quel giro d'organo al sapore di Bach è una delle sicure colonne sonore della Summer of Love del 1967: «A Whiter Shade of Pale» dei britannici Procol Harum è una delle canzoni più ascoltate della storia. Come da noi fu popolarissima la versione «Senza Luce» ad opera dei Dik Dik. 

Brano che non ci sarebbe stato senza il timbro inimitabile di Gary Brooker, dei Procol Harum anima prima, scomparso ieri a 76 anni, malato da tempo di cancro. Fu lui a dare dunque la voce a «A Whiter Shade of Pale» mentre per l'organo si avvalse della collaborazione di Mark Fisher. Dopo il successo incredibile del singolo, 10 milioni di copie vendute, Brooker e la band, non si sarebbero più ripetuti, sciogliendosi una prima volta nel 1977. Per tornare nel 1991 e trasformarsi in un gruppo «testimoniale» di quel, leggendario, pezzo.

·        Addio al cantante Mark Lanegan.

È morto Mark Lanegan, pioniere del grunge con gli Screaming Trees: aveva 57 anni. Matteo Cruccu  su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2022.

Ignote le cause del decesso: segnò la storia del genere ai primordi e poi si consacrò da solista con la sua voce roca e gutturale. 

È stato uno dei pionieri assoluti del grunge con gli Screaming Trees e poi solista apprezzato con la sua voce roca e gutturale: si è spento a 57 anni Mark Lanegan, ignote per ora le cause del decesso, secondo quanto si è appreso dalla famiglia. Si era ammalato gravemente di Covid, Lanegan, nel 2021, al punto da finire in terapia intensiva, un’esperienza talmente drammatica che lo aveva spinto a scrivere un memoir lo scorso dicembre: «Devil in a coma».

Era l’ultimo scoglio di un’esistenza sempre al limite, tra abusi vari di droghe e alcol che gli avevano consegnato l’etichetta di «ultimo sopravvissuto del grunge»: già, frequentatore e sodale in gioventù di Kurt Cobain e Layne Staley degli Alice in Chains, due che non ce l’avrebbero fatta a superare i propri incubi, proveniente anche lui, come loro, dallo stato di Washington e, come loro, artefice primo degli elementi costitutivi del grunge, con gli Screaming Trees, senza però aver toccato i vertici commerciali degli altri due.

Ma, con gli Screaming, fondamentale nel traghettare le esperienze del rock psichedelico di marca anni’80 nella temperie dei nuovi suoni di Seattle a cavallo col decennio successivo. Anche se poi, da solista, avrebbe raccolto molte soddisfazioni: il cantautorato personale e sofferto, il timbro rauco e rabbioso per certi versi vicino a Tom Waits, anche se di altra generazione, gli avrebbero regalato una nuova carriera con album memorabili come «I’ll Take Care of You» o «Bubblegum», sempre nel cuore dell’underground, mai patinato. E molto apprezzati anche da noi, visto che tante sarebbero state le volte in cui Lanegan si sarebbe esibito in club e sotterranei del nostro Paese. Stringendo amicizia e collaborazioni con i pari grado della nostra scena, vedi Manuel Agnelli.

La vita di band comunque lo avrebbe sempre attratto. E, per questo sarebbe entrato a far parte di un altro combo decisivo per il rock degli ultimi trent’anni, i Queens of the Stone Age dell’amico Josh Homme, forgiando il capolavoro assoluto «Songs for the Deaf» e issandosi Lanegan a quel punto come riferimento assoluto nella scena per le due decadi successive. E per una storia di discese agli inferi e faticose risalite con cui i fan, numerosi e quasi fedeli al limite della confraternita, si sarebbero sempre identificati. E non smetteranno di farlo.

Andrea Andrei per "il Messaggero" il 24 febbraio 2022.  

Non si esce vivi dal grunge. O perlomeno così verrebbe da dire, con amarezza, dopo aver appreso della scomparsa di Mark Lanegan, ex leader degli Screaming Trees, morto martedì a 57 anni, per cause ancora ignote, nella sua casa a Killarney, in Irlanda.  

Voce inconfondibile, ruvida e profonda, Lanegan era una nobile espressione di quella branca del grunge che si ispira al blues, ma soprattutto è stato una delle espressioni più complete, nel bene e nel male, di quel movimento che partì dalla West Coast (non quella assolata della California, ma quella ombrosa di Seattle) alla fine degli Anni 80 per incendiare il mondo intero e poi esaurirsi nel giro di poco più di un lustro. 

La frase È meglio bruciare in un attimo che svanire lentamente, trovata scritta su un foglio accanto al corpo esanime di Kurt Cobain (morto suicida nel 1994), sembra descrivere così il destino del grunge, che con Lanegan perde uno dei suoi ultimi grandi protagonisti.  

Andrew Wood dei Mother Love Bone (morto nel 1990), Kurt Cobain dei Nirvana (1994), Layne Staley degli Alice in Chains (2002), Scott Weiland degli Stone Temple Pilots (2015), Chris Cornell dei Soundgarden (2017): tutti i frontman delle band più rappresentative di quel periodo, nate ed esplose nello stato di Washington, hanno ceduto negli anni a tossicodipendenza e depressione, incubo distintivo della Generazione X.

Un incubo che Lanegan conosceva bene e che, come i suoi amici, provò a esorcizzare con la musica, vera arma di ribellione che permise a quei giovani problematici di emergere dall'isolamento cronico in cui erano cresciuti e diventare (spesso loro malgrado) icone di un rock maledetto ma remunerativo. 

 Quando, nel 1991, i Nirvana e i Pearl Jam entrarono di prepotenza nelle classifiche in tutto il mondo, Lanegan si era già conquistato un posto di rispetto nell'ambiente di Seattle, sia da solo (incise nell'87 The Winding Sheet per Sub Pop, l'etichetta che inventò il grunge) che insieme ai suoi Screaming Trees. 

Per la band però l'affermazione arrivò solo l'anno seguente con Sweet Oblivion, album che conteneva perle come More or Less e Nearly Lost You. Lanegan non ebbe mai il successo commerciale dei suoi colleghi, ma restò comunque una delle voci-simbolo del grunge, a cui i fan erano particolarmente affezionati, e non solo loro: ieri sui social decine di artisti, da Iggy Pop a Slash, gli hanno dedicato messaggi e ricordi sui social. 

Lo restò anche quando la sua carriera riprese quota con i Queens of The Stone Age (fu coautore della potentissima No One Knows) e con l'album solista Bubblegum del 2004, in cui univa all'hard rock la sua naturale vocazione alle sonorità blues. Un po' come ha fatto Eddie Vedder, leader dei Pearl Jam che lo scorso 11 febbraio ha pubblicato il suo terzo album solista, Earthling. Lui però, per fortuna, sembra essere emerso incolume e anzi più forte dal periodo turbolento del grunge. 

Nell'ultimo anno, Lanegan aveva lottato contro una forma aggressiva di Covid, che lo aveva, diceva lui, «colpito lì dove c'è stato un trauma in passato. E io ho avuto un bel po' di incidenti nel corso della mia vita». Ora l'oscurità che aveva dentro e che la sua voce rendeva così struggente si è finalmente dissolta. Resta solo la musica, quella sì, davvero immortale.

Addio a Mark Lanegan, voce degli Screaming Trees. Carmine Saviano, Valeria Rusconi su La Repubblica il 22 febbraio 2022.   

Il cantante aveva appena 57 anni ed era stato il frontman di una delle band fondamentali della scena alternativa americana, tra stoner e grunge.

Mark Lanegan, il tormentato, turbolento uomo che aveva inventato, nel 1984, gli Screaming Trees, uno dei gruppi fondamentali del rock alternativo psichedelico americano, anello di congiunzione tra quella che sarebbe stata la scena stoner e grunge, è morto a soli 57 anni.

Un portavoce dell'artista ha confermato la notizia affermando che Lanegan è deceduto nella propria abitazione di Killarney, in Irlanda. “Nessun'altra informazione è disponibile al momento", si legge nella nota, "la famiglia chiede a tutti di rispettare la loro privacy in questo momento".

Lo scorso 14 dicembre Devil in a coma, il libro autobiografico scritto da Lanegan durante la convalescenza resa particolarmente dura dagli effetti del long Covid, era uscito nelle librerie quasi fosse un estremo tentativo di esorcizzare la sua difficile esistenza su questa terra. Lanegan era rimasto appeso a un filo, in bilico verso la morte per oltre tre settimane, ma probabilmente non era la prima volta che accadeva nella sua sregolata vita. Questa volta, però, era entrato e uscito dal coma numerose volte, a tal punto da perdere, anche se solo temporaneamente, l’udito. Nel libro, Lanegan non raccontava solo la malattia ma la utilizzava come fosse filo rosso utile a ripercorrere la sua storia, a ritroso nel tempo.

Mark Lanegan In una recente intervista aveva spiegato di sentirsi "molto meglio" e di aver "finalmente girato l’angolo" nella sua lotta contro il Cornavirus. Continuava: "Ma ci è voluto davvero tanto tempo. È stato pazzesco. Ho ancora alcuni strascichi. Qualunque cosa avessi, attacca i luoghi in cui c’è stato un trauma nel corpo in passato. E io ho avuto un bel po’ di incidenti nel corso della mia vita. Ho un ginocchio cronicamente fottuto che mi dà ancora un po’ di dolore. Questo è stato uno degli aspetti più strani della cosa: andava ad annidarsi in qualsiasi posto in cui eri ferito o in cui era successo qualcosa prima".

La sua voce ha segnato gli ultimi trent’anni del rock alternativo. Roca, profonda, un addensante per tutto ciò che compone il lato oscuro dell’esistenza. Agli albori del grunge, a metà degli anni Ottanta, quando era Lanegan è stato la voce degli Screaming Trees, band nata a Ellensuburg, Washington, da un gruppo di ragazzini difficili. Poi la carriera solista, i suoi indimenticabili, recenti dischi di cover nei quali mostrava quanto ancora ci fosse da scavare negli standard della canzone americana. E poi le collaborazioni. Dai Queens of the Stone Age fino a Greg Dulli degli Afghan Wings. 

Era il 1992 quando la voce di Lanegan risuona per la prima volta al di là del cerchio magico di Seattle. Nearly lost you è un condensato della poetica grunge. E gli Screaming Trees si prendono un posto al fianco di Soundgarden, Nirvana e Pearl Jam. In testa alle classifiche e dentro la vita e il cuore di milioni di fan. Sin da quegli anni Lanegan coltiva anche la carriera solista. Un completamento: alla sua immagine di rockstar 'maledetta' si affianca quella di interprete e compositore di prim’ordine. Dopo lo scioglimento del gruppo si dedica a tempo pieno alle sue canzoni. Whiskey for the holy ghost è un piccolo capolavoro.

Nel 1999 pubblica I’ll take care of you. Un intero disco di cover, distante anni luce dal suono delle band di Seattle. È qui che la magia di Lanegan viene fuori: le parole di quelle canzoni, pronunciate migliaia di volte, risuonano come se fossero lì per la prima volta. Diventano parte del suo stesso respiro, assumono un nuovo, oscuro, senso. Perché diventano parte della sua biografia: fatta di piccole oasi di tranquillità sparse in una vita schiava, purtroppo, di ogni forma di dipendenza. Quelle parole e quelle melodie come l’appiglio in un’esistenza allo sbando.

Sul palco. Gli anni zero si aprono con la collaborazione con i Queens of the Stone Age. Su disco e sul palco con Josh Homme – e con Dave Grohl alla batteria – Mark Lanegan costruisce una delle più potenti macchine rock apparse sulle scene negli ultimi vent’anni. Co-autore di No one knows, Lanegan sprigiona tutta la sua potenza oscura nelle esibizioni dal vivo. Indimenticabile – e da andare subito a riprendere – quella al Werchter Festival del 2002. Dopo la parentesi Quotsa altre collaborazioni: dai Dinosaur Jr. a Greg Dulli. Nel 2013 un altro disco di cover, Imitations. E la sua Autumn leaves scavalca i recinti dei generi musicali, si pone all’altezza dei classici.

“Un film sulla mia vita? Gli spettatori uscirebbero spaccando tutto dopo cinque minuti”, disse in un’intervista a Repubblica del 2015. Era in Italia dopo aver dopo aver collaborato con Manuel Agnelli, avevano inciso insieme una nuova versione di Pelle. Ridendo confessò di “non ho mai provato tanto una canzone in vita mia”. Poi i grandi affreschi degli ultimi anni, l’ingresso ai vertici del cantautorato americano. Riverberi di Tom Waits e Leonard Cohen negli ultimi dischi: Somebody’s knocking e Straight songs of sorrow. Una vita in bilico. Scivolata via oggi in una grigia mattina irlandese che sarebbe stata un contenitore perfetto per la sua voce.

Mark Lanegan, cinquant'anni, è in Italia con tre date del suo tour. Il vocalist virtuoso ha legato il suo nome alla parabola grunge degli Screaming Trees, più volte accostata alla scena di Seattle, e accanto all'attività con il gruppo ha avviato nel 1990 la sua carriera solista con "The Winding Sheet". Il suo secondo album da titolare è "Whiskey for the Holy Ghost" del 1994, probabilmente l'apice della sua produzione solista. Tormentato dalla dipendenza da droghe e alcol, nel 1997 si ricovera in una clinica per disintossicarsi. Da lì a poco, gli Screaming Trees si sciolgono. Ripulito dalle dipendenzne, nel 1998 Lanegan riprende a lavorare e il suo terzo album da solista è "Scraps at Midnight". Nel 1999 interpreta un intero album di cover, "I'll Take Care of You". Nello stesso anno si riunisce agli Screaming Trees per un nuovo album e due concerti a Los Angeles, l'epilogo della band. Da allora, Mark Lanegan si concentra sulla carriera da solista  (nel 2001 dà alle stampe "Field Songs") e sulle collaborazioni di livello, Queens of the Stone Age e l'altra con l'ex leader degli Afghan Whigs, Greg Dulli. Nel 2003, dopo un lungo tour con i QOTSA, Lanegan si mette al lavoro per il sesto album a suo nome, "Bubblegum", che ospita Josh Homme, Nick Oliveri, Greg Dulli e PJ Harvey. Poi però esce soltanto un EP, "Here Comes That Weird Chill", che viene pubblicato nel novembre del 2003 e "Bubblegum" arriva finalmente nell'estate del 2004. A quel punto, nasce la Mark Lanegan Band. Poi, l'anno successivo, la prima uscita ufficiale della coppia Lanegan-Dulli con il progetto Gutter Twins. Le collaborazioni si infittiscono. Nel 2006 pubblica, in coppia con Isobel Campbell dei Belle and Sebastian l'album "Ballad of the Broken Seas". Due anni più tardu arriva il debutto su disco dei Gutter Twins, "Saturnalia". Nel 2010, ancora con Isobel Campbell, pubblica "Hawk", terzo disco della sua collaborazione con la cantante scozzese dopo "Sunday at Devil Dirt". Tornato a pieno titolo nel'attività da solista, Lanegan pubblica poi "Blues Funeral"e "Phantom Radio"

Una voce che non accettava compromessi. Addio al ribelle alternativo Mark Lanegan. Andrea Dusio il 24 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dagli Screaming Trees alle profondità inesplorate di "Saturnalia".

È sorprendente la partecipazione con cui media e social hanno ripreso la notizia della morte di Mark Lanegan, cantante che sembrava incarnare una figura di rocker marginale e tenebroso, distonico persino agli ambiti marginali che lo avevano visto condividere la stagione di successo del grunge con Nirvana, Pearl Jam, Alice in Chains e Soundgarden, allorché militava negli Screaming Trees, irrimediabilmente quinti di un quartetto irripetibile di band. Lanegan è morto a 57 anni, a Killarney, nella regione irlandese dei parchi, dove si era rifugiato a vivere, e dove stava cercando di smaltire le scorie dell'esperienza vissuta col Covid, in terapia intensiva per settimane, tra allucinazioni e visioni strangosciate, che aveva raccontato in un libro pubblicato da poco: Devil in a coma. La tossicodipendenza che ha falcidiato le star di Seattle era diventata in Lanegan una misura dell'esistenza, una dannazione di lungo periodo, così come l'alcolismo, con cui conviveva sin da ragazzo, quando sistemava i televisori portatili abbandonati nei parcheggi per ruolotte dalle parti di Ellensburg, Washington. Allora si divideva tra la scuola e una videoteca, dove lavorava la sera, e aveva cominciato a bere a dodici anni, quando un insegnante gli disse che non avrebbe superato i vent'anni.

È a Ellensburg che aveva incontrato i paffuti fratelli Van Conner, dando vita a una formazione che suonava un rock basilare e scarnificato, venato di influenze psichedeliche. Mark possedeva un timbro baritonale alla Jim Morrison, e la sua voce sembrava immancabilmente troppo grave e profonda per le canzoni che gli toccava interpretare. Era questo in fondo il segreto degli Screaming Trees, che in album come Uncle Anesthesia e Sweet Oblivion, licenziati per la SST, mescolavano un boogie tutto sommato ancorato alla tradizione degli anni Settanta (dai Cream ai Creedence), potentemente elettrificato, che Lanegan trasfigurava con il suo cantato scabro e antiretorico, caldo e distante. Se Nick Cave dopo gli esordi post-punk si è evoluto in un sofisticato, messianico crooner, Mark Lanegan sin dagli esordi grunge ha solo pensato a cantare nella maniera più credibile, senza indulgere in un ruolo, o incappare nella teatralizzazione della sua sofferenza. La distanza siderale che le sue dipendenze ponevano tra lui e la normalità faceva il resto.

La sua carriera solista è costellata di capolavori che lasciarono attoniti gli stessi fan della prima ora, dai dischi prevalentemente acustici che costituiscono un impressionante songbook di ballatone introverse e notturne, da The Winding Sheet a Whiskey for the holy ghost, sino all'album più importante della sua discografia, Scraps at Midnight, che definisce una specie di anticlimax per il genere country-rock, dall'epico al lunatico, dal dimesso al fragile, sino a quando non restano che pochi accordi di piano e chitarra, solitari e spettrali. Austero e magniloquente, il lavoro successivo, Field Songs, è un lungo blues rurale, punteggiato di suggestioni morriconiane, grandi spazi e incolmabili desolazioni.

Mark acquisì in seguito grande popolarità dalla sua collaborazione con i Queens of the Stone Age, ma in realtà il suo contributo a quel progetto è di minor peso specifico. Con grande generosità artistica si è speso in mille collaborazioni, come nei dischi di pop sinfonico con Isobel Campbell, che riecheggiano i modi di Nancy Sinatra e Lee Hazlewood. Ma il lascito più alto è il progetto Gutter Twins, condiviso con Greg Dulli. Ne nacque Saturnalia, un album che scende a profondità inesplorate, come un film di vampiri ambientato tra l'aia di un ranch occupata da narcotrafficanti e il palco di uno striptease, tra ululati di coyote e abusi di sostanze psicotrope.

·        E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.

Da modenatoday.it il 20 febbraio 2022.

E' scomparso alla veneranda età di 101 anni Marino Golinelli. Originario di San Felice, viveva da tempo a Bologna, dove è deceduto. Ci lascia una figura di primissimo piano nel mondo dell'imprenditoria, capace di dare vita ad un colosso dell'industria farmaceutica, per poi dedicarsi ad attività filantropiche rivolte in particolare ai giovani.

Il presidente della Regione, Stefano Bonaccini, lo ricorda così: "Filantropo è una parola di cui spesso si abusa, ma Marino Golinelli lo è stato veramente: una figura straordinaria, senza tempo, innamorata del futuro e profondamente convinta che lo scopo dell'essere umano sia lavorare insieme per lasciare una società migliore ai nostri figli e nipoti.

È stato un esempio non solo per l'Emilia-Romagna, ma per l'Italia intera: il nostro impegno per onorarne la memoria sarà continuare a sostenerne i progetti per far in modo che possano germogliare i tantissimi semi che Marino ha piantato. Grazie per tutto quello che hai fatto, un abbraccio sincero alla moglie Paola e a tutta la famiglia, a nome mio personale, della Giunta regionale e dell'intera comunità emiliano-romagnola".

Chi è Marino Golinelli

Marino Golinelli nasce a San Felice sul Panaro l’11 ottobre 1920. Nel 1943 si laurea in Farmacia all’Università di Bologna. Il 24 gennaio 1948 rileva un piccolo laboratorio a Bologna e intraprende un’attività indipendente per la produzione di farmaci.

Fonda Biochimici A.L.F.A., poi Alfa Wasserman, colosso dell’industria farmaceutica; nel 2015 si fonde con il ramo italiano di Sigma-Tau, dando vita ad Alfasigma, di cui è presidente onorario.

Nel 1988 nasce a Bologna la Fondazione che porta il suo nome, con l’obiettivo di promuovere l’educazione e la formazione, di diffondere la cultura, di favorire la crescita intellettuale, responsabile ed etica dei giovani.

Oggi Fondazione Golinelli è l’unico esempio italiano di fondazione privata ispirata al modello delle grandi fondazioni filantropiche americane. Grazie a un importante intervento di riqualificazione urbana, nel  2015 realizza Opificio Golinelli, nel 2017 il Centro Arti e Scienze Golinelli, mentre nel 2018 è in corso la costruzione dell’Incubatore per nuove realtà imprenditoriali. 

Nel 2001 riceve la laurea honoris causa in Conservazione dei Beni culturali dall’Alma Mater, nel 2010 viene insignito del Nettuno d’Oro da parte del Comune di Bologna. Nel 2018 riceve la laurea honoris causa in Biotecnologie Mediche dall’Università di Modena e Reggio Emilia. 

Golinelli è stato fondatore e presidente onorario di Fondazione Golinelli, nella quale ha investito oltre 80 milioni di euro, realizzando una vera e propria cittadella della conoscenza e della cultura. 

Gabriele Beccaria per “La Stampa” il 21 Febbraio 2022.  

È scomparso a Bologna a 101 anni. Si chiamava Marino Golinelli. E questo è solo uno dei record di una vita che sembrava infinita e molti passi più in là rispetto a tutti gli altri. Golinelli è stato uno degli italiani più singolari del secolo. 

Ed è più facile dire che cosa non è stato rispetto a ciò che è stato. Inventore-imprenditore, collezionista e filantropo, ha rappresentato l'incarnazione del sogno rinascimentale che continua a provocarci nel XXI secolo: fondere scienza e arte in un unico sapere globale e far cortocircuitare la creatività individuale con il bene collettivo.

Ripeteva che al centro di tutto c'è sempre - e solo - l'essere umano e il suo benessere, inteso nel senso olistico del termine: benessere biologico e benessere intellettuale. Ecco perché credeva che tutti i saperi finissero per legarsi insieme e dovessero tradursi in un'instancabile sequenza di azioni e di attività. Golinelli è simile a un universo. Per ricordarlo si può cominciare dai due caposaldi che l'hanno reso famoso e rispettato. La creazione, dal nulla, di un colosso farmaceutico, che oggi si chiama AlfaSigma, fattura oltre un miliardo e dà lavoro a quasi 4 mila persone. 

E la creazione, anche questa dal nulla, di una formidabile collezione d'arte contemporanea, raccolta nelle case-museo di Bologna e di Venezia. Intorno alle due realtà, in costante espansione, se ne sono aggiunte molte altre, fino a comporre un arazzo di iniziative rivolte a chiunque volesse farsi catturare dall'energia delle sue idee. Prima di tutto, però, c'erano i giovani, «dai 18 mesi ai 35 anni», come diceva, scherzando un po'. A loro ha pensato, nei decenni, considerandoli compagni di un viaggio senza fine e come la risorsa per il mondo che verrà.

«Nel futuro ci aspetta un mondo imprevedibile», era un'altra delle sue frasi ricorrenti: si è sempre sentito l'abitante di un domani da inventare e come tale si era comportato. Nato a San Felice sul Panaro l'11 ottobre 1920, laureato in farmacia, aveva iniziato con gli sciroppi, sviluppando poi diversi tipi di prodotti, dai farmaci anti-trombosi a quelli oncologici. 

Confessava una persistente passione per la scienza e l'arte. La prima, nata da ragazzo, quando aveva scoperto alcuni scritti di Niels Bohr, il fisico danese che è stato uno dei padri della fisica quantistica e che per questo vinse il Nobel nel 1922. Il gusto per l'indagine e per lo stupore l'aveva ereditato dalle letture sul mondo delle particelle e l'aveva trasferito alla propria esistenza.

La seconda passione, per l'arte, era più tarda ma non meno travolgente: collezionista eclettico, si era innamorato, tra le altre, delle opere di Feng Zhengje e di Gilbert&George, di Anish Kapoor e di Daniel Richter. Mentre l'azienda si trasformava, si è intensificato anche l'impulso alla comunicazione e al coinvolgimento. Così sono nati il Life Learning Center per avvicinare i giovani alle scienze della vita, l'Opificio Golinelli per far sperimentare ai bambini le tecnologie emergenti, il G-factor per allevare start-up. 

Il tutto dal grembo della Fondazione, ispirata al modello anglosassone del mecenatismo privato (con un investimento di 80 milioni di euro). L'obiettivo: diffondere una cultura a tutto tondo, pronta a cogliere le opportunità della ricerca avanzata e attenta ai valori artistici ed etici. Non a caso il sindaco di Bologna, Matteo Lepore, lo definisce «un umanista». «La sua Fondazione - racconta - è stata la prima a investire nella formazione digitale dei giovani. E prima della pandemia. Ancora di recente mi aveva detto che gli sarebbe piaciuto organizzare degli incontri online con gli studenti per spiegare l'importanza della scienza». 

Quanto al virus, da centenario che pensa al futuro (altra frase sua), «credeva nella ricerca. Scienza, economia e politica, per lui, dovevano pensare in grande, per il progresso della società». Centouno anni dopo la nascita, Golinelli continua a vivere. Nella multiforme Fondazione, appunto, «che - aggiunge Lepore - lui voleva durasse fino al 2065», e nello spirito che anima Bologna, città del sapere.

L'imprenditore-filantropo era felice che stia diventando una «Data Valley», italiana ed europea. Con il 70% della potenza di calcolo del Paese, attira una scia di progetti d'avanguardia: dal Centro Meteo europeo al supercomputer Euro Hpc che si addenseranno nel Tecnopolo. «Per Golinelli era importante donare questa enorme quantità di dati - ricorda ora Lepore -: se per Usa e Cina sono prima di tutto una forma di dominio geopolitico, per l'Europa, nella sua visione, dovranno essere democratizzati». Golinelli, un visionario buono, che credeva (poco ascoltato) nella responsabilità sociale di ogni imprenditore.

Marino Golinelli è morto: l’industriale e filantropo aveva 101 anni. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

È morto ieri sera a Bologna l’industriale e filantropo Marino Golinelli. Aveva 101 anni. Imprenditore farmaceutico, fondatore del colosso Alfasigma, negli ultimi anni si era dedicato a iniziative filantropiche, come la costruzione dell’Opificio Golinelli, una cittadella della scienza dedicata soprattutto ai più giovani. In una delle sue ultime interviste, concessa a ottobre a Corriere di Bologna, aveva spiegato di essere convinto da sempre che «l’imprenditore abbia il dovere di restituire alla società parte delle sue fortune».

Le origini

Nato a San Felice sul Panaro in provincia di Modena l’11 ottobre 1920, nel 1943, dopo una formazione in chimica, si è laureato in Farmacia a Bologna. «I miei genitori erano agricoltori», ha raccontato più volte l’imprenditore, «hanno lavorato sodo per far studiare noi quattro fratelli». A meno di 30 anni, il 24 gennaio 1948, costituisce la sua prima azienda, sotto le Due Torri, rilevando il piccolo laboratorio Biochimici AL.F.A. Nel giro di pochi decenni, lo ha trasformato in un’azienda affermata, l’Alfasigma, che oggi è tra i leader mondiali della farmaceutica e ha 2.800 dipendenti in 18 Paesi.

Il primo sciroppo

«La mia formazione è stata anomala», ha riconosciuto in un’intervista recente lo stesso imprenditore, «perché fino a quindici anni non ero niente. Poi, da solo, ho iniziato a leggere testi sulla chimica: ero affascinato da Niels Bohr». Ma ad aprirgli la mente fu un professore, all’università: «Mi parlava di universo». In quella stessa Università di Bologna in cui si laurea a 23 anni in Farmacia. E che gli apre la strada dell’imprenditoria. All’inizio il piccolo laboratorio ha un solo dipendente e tre piccoli locali ubicati in via Galliera. Quanto basta per iniziare a produrre uno sciroppo.

Il vaccino antitubercolare

Quello stesso dipendente se ne va in giro tra le nebbie della Bassa a vendere le boccette. All’università va in cerca dei professori. Collaborando con Gaetano Salvioli, produce il vaccino antitubercolare italiano. Negli anni la società cambia diversi nomi, fino a che diventa l’Alfasigma: oggi, oltre 1 miliardo di fatturato.

La Fondazione

Nel 1979 è stato nominato Cavaliere del Lavoro. Nel 1988 ha dato vita alla Fondazione che porta il suo nome, ispirata al modello delle grandi fondazioni filantropiche americane, con l’obiettivo di promuovere l’educazione e la formazione, di diffondere la cultura, di favorire la crescita intellettuale, responsabile ed etica dei giovani, i cittadini del futuro in un mondo globale. All’Opificio Golinelli, cittadella del sapere di 9 mila metri quadri alle porte di Bologna, Golinelli con la sua Fondazione da oltre 30 anni si occupa di educazione, formazione e cultura con l’intento di aiutare la crescita professionale, la ricerca creativa e la capacità imprenditoriale dei giovani.

L’investimento filantropico

Si tratta di un investimento filantropico di decine di milioni di euro. Del resto Golinelli, che è morto ricchissimo ma ricco non è nato, conosceva il valore del denaro e anche l’assenza: «Ci sono ricchi che nascono pensando di avere solo diritti e invece avrebbero più di molti altri il dovere di restituire, aiutare. La cultura è un’azione verso gli altri, non verso se stessi». Sono sue parole, che per primo ha messo in pratica. «Devo rendere qualcosa di ciò che ho avuto». Se ne è andato così, ripetendo sempre e ovunque queste parole.

·        E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli. 

L’ambasciatrice italiana in Australia morta a Foligno: Francesca Tardioli è caduta dal balcone. Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

Francesca Tardioli, 57 anni, era nella sua città natale per un periodo di vacanza. Avrebbe perso l’equilibrio sporgendosi troppo dal terrazzo. Con il passare delle ore è emerso che si è trattato di un gesto volontario. 

Dopo una caduta dal balcone, è morta Francesca Tardioli, 57 anni, ambasciatrice italiana a Canberra, in Australia. La diplomatica si trovava a Foligno, sua città natale, per trascorrere alcuni giorni di ferie. L’episodio è avvenuto nel pomeriggio di sabato. 

Il ricordo più toccante di Francesca Tardioli, ambasciatrice italiana in Australia morta nella serata di sabato cadendo da un balcone a casa sua, a Foligno, in provincia di Perugia, arriva dal tweet della Farnesina. 

«La ricorderemo con affetto per le sue ammirevoli qualità professionali e umane — sono le parole condivise da tutti i colleghi — una grande diplomatica e servitrice dello Stato». 

L’incidente è avvenuto nel pomeriggio. La rappresentante diplomatica, che aveva 56 anni e un curriculum sterminato, era da sola nella sua abitazione e a dare l’allarme chiamando i soccorsi è stato un familiare che abita nello stesso palazzo. Ma non c’è stato nulla da fare. 

Saranno ora gli accertamenti dei carabinieri, coordinati dalla Procura di Spoleto, a cercare di chiarire cosa sia accaduto anche se il quadro è già chiaro: quel volo nel vuoto sarebbe stato un gesto volontario, dovuto a un momento di difficoltà nella vita. 

Tardioli, che lascia due figli di 27 e 24 anni, era a Foligno da qualche giorno dopo avere tra l’altro partecipato all’incontro del presidente della Repubblica Mattarella con gli ambasciatori in chiusura del suo primo settennato. A breve sarebbe dovuta tornare a Canberra, dove guidava la rappresentanza diplomatica italiana dal settembre 2019. 

Laureata in Scienze politiche all’Università di Perugia nel 1989, aveva poi conseguito un master in Relazioni internazionali presso la «Società italiana per l’organizzazione internazionale» a Roma. Dopo l’ingresso nella carriera diplomatica nel 1991, era stata assegnata alla Direzione generale per l’Emigrazione e gli Affari sociali, dove aveva seguito, tra l’altro, il negoziato di adesione all’accordo di Schengen. Dal 1992 aveva prestato servizio all’ambasciata a Tirana e venne nominata console a Norimberga nel 1995. Dal 1998 fu all’ambasciata a Riad e nel 2004 venne delegata alla Rappresentanza permanente presso la Nato a Bruxelles, dove seguì a lungo i dossier relativi alle operazioni e alle missioni e la gestione delle crisi. Nel 2016 venne nominata vice direttrice generale per gli Affari politici e di sicurezza e poi direttrice centrale per le Nazioni Unite e i Diritti umani. «Sono orgogliosa e onorata di rappresentare l’Italia» disse Tardioli quando venne nominata rappresentante diplomatica in Australia. «Mi impegnerò a portare avanti - aveva aggiunto - un partenariato a tutto campo tra i due Paesi amici, che condividono valori fondamentali, tradizioni democratiche e radici culturali in un mondo in continuo cambiamento». 

Tweet di cordoglio sono giunti da tutte le ambasciate italiane e parlano di «persona squisita e promotrice dei diritti umani».

·        E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.

Francisco 'Paco' Gento. Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 18 gennaio 2022.

È morto Francisco 'Paco' Gento, presidente d’onore del Real Madrid e unico calciatore al mondo capace di vincere 6 Coppe dei Campioni. Le prime cinque edizioni della competizione, tra il 1955 e il 1960, e quella del 1966, quando tutti i suoi compagni della prima grande epopea blanca, Di Stefano in primis, avevano già lasciato il Real Madrid. Perse anche le finali del 1962 e del 1964. 

Gento aveva 88 anni e ne aveva passati 18 giocando per i blancos, dal 1953 al 1971, vincendo, oltre alle citate 6 Coppe Campioni, anche 12 Liga, due coppe di Spagna e una Coppa Intercontinentale. In totale 23 trofei, più di tutti al Madrid fino a domenica sera, quando è stato raggiunto da Marcelo, 600 partite e 182 gol. Oltre a 43 presenze in nazionale con la quale vinse, senza giocare però, l’Europeo del 1964. Sono stati calciatori anche i suoi fratelli Julio e Toñin, i nipoti Julio e Paco Llorente, padre dell’Atletico Marcos Llorente. Altri membri della famiglia hanno giocato con successo a basket. 

SIMBOLO DEL MADRIDISMO—   Nato in Cantabria il 21 ottobre del 1933 come Francisco Gento Lopez, padre camionista, l’atletica e il calcio lo strapparono alla carriera di pastore. Il primo sport gli aveva garantito la velocità che lo caratterizzava nelle sue corse sulla fascia sinistra. Approdato al Racing Santander, il club che tifava, dopo appena 10 partite fu portato al Madrid. Aveva 19 anni e debuttò contro il Barça. Inizio di una carriera meravigliosa che l’ha trasformato in un mito del madridismo.

Vinse subito la Liga, campionato che il Madrid non conquistava da 20 anni, e fu chiave nel dominio europeo del club trasformato in potenza internazionale da Santiago Bernabeu: in attacco con Gento giocavano Di Stefano, Puskas e Kopa. Passato in panchina, ha iniziato nel Castilla, il ‘filial’ del Madrid, e dopo brevi passaggi a Castellon, Palencia e Granada tornò alla ‘Fabrica’, la cantera blanca. Nel dicembre del 2015 era diventato Presidente d’Onore del Real Madrid, carica che ha rivestito fino alla morte.

·        E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.

Morto Dörner, leggenda del calcio della Germania Est: aveva 70 anni. Ilaria Minucci il 19/01/2022 su Notizie.it. 

La leggenda del calcio della Germania Est, Hans-Jürgen Dörner, è morto all’età di 70 anni, dopo aver lottato a lungo contro una grave malattia.

La leggenda del calcio della Germania Est, Hans-Jürgen Dörner, è morto all’età di 70 anni, dopo aver lottato contro una lunga malattia.

Morto Dörner, leggenda del calcio della Germania Est: aveva 70 anni

Nella giornata di mercoledì 19 gennaio 2022, si è spento all’età di 70 anni la leggenda del calcio della Germania Est, Hans-Jürgen Dörner, a Dresden.

Sulla base delle informazioni sinora diffuse, è stato rivelato che l’ex calciatore era affetto da tempo da una grave malattia che ne ha, infine, decretato la morte.

Morto Dörner, leggenda del calcio della Germania Est: carriera

Nel corso della sua carriera, Hans-Jürgen Dörner ha giocato 100 partite con la Germania dell’Est: la squadra vinse la medaglia d’oro ai Giochi del 1976 che si tennero a Montreal.

Per quanto riguarda la sua partecipazione ai club, Hans-Jürgen Dörner ha giocato esclusivamente in un unico club nel periodo di tempo compreso tra il 1969 e il 1985.

In questo arco temporale, vinse cinque campionati e cinque coppe nazionali nella Germania Est. Inoltre, è considerato come il calciatore dei record con i gialloneri in quanto, durante la sua carriera calcistica, collezionò 558 presenze e una nomina a capitano onorario.

Dopo il ritiro dal ruolo di giocatore, Dörner ha allenato per un breve periodo alcune squadre tra le quali figura il Werder Brema in Bundesliga e altri club.

Morto Dörner, leggenda del calcio della Germania Est: il ricordo di Holger Scholze

La notizia legata all’improvvisa scomparsa di Dörner è stata commentata dal presidente della Dynamo Dresda, HolgerScholze, che ha dichiarato: “È incomprensibile, scioccante e molto, molto triste. Non riusciamo ancora a capire che ‘Dixie’ Dörner non sia più con noi. La sua morte fa precipitare il nostro club sportivo in un profondo lutto. Con ‘Dixie’ Dörner, non solo abbiamo perso il più grande giocatore nella storia del club, ma abbiamo anche perso una persona che aveva catturato il cuore di tutti noi”.

·        E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.

Da gazzetta.it il 20 febbraio 2022.

Ci ha lasciato oggi, 20 febbraio, Pierluigi Frosio. Nato a Monza, classe 1948, gioca da libero e nel 1972 fa il suo esordio nel Cesena in B contribuendo alla prima storica promozione del club in A.

Dopo una stagione nella massima serie, torna nella serie cadetta, a Perugia, per contribuire a scriverne la pagina di storia più gloriosa. In Umbria ci resta 10 anni (dal 1974 al 1984) e da capitano vince il campionato di B e nel 1978-1979, in A, sfiora lo scudetto.

Il suo Perugia si piazza al secondo posto senza subire sconfitte in tutto il campionato, guadagnando partecipazione alla Coppa Uefa. Chiude la sua carriera nel Rimini (in C2) nel 1985 con Arrigo Sacchi in panchina.

Smesso di giocare, riparte come allenatore dalla giovanili del Perugia. Nel 1987 eccolo a Monza con cui strappa la promozione in B e poi nel 1990 passa all'Atalanta, in A. Tecnico dalla mentalità offensiva e innovativa, tra le tante squadre che ha guidato nelle serie minori anche Como, Modena e Ravenna, Novara, Padova e Ancona.

Volto noto delle trasmissioni calcistiche, Pierluigi era papà di Alex, collega della Gazzetta dello Sport. E a lui e a tutta la sua famiglia vanno le condoglianze di tutta la redazione.

Pierluigi Frosio è morto: addio al capitano del Perugia che sfiorò lo scudetto. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 20 febbraio 2022.

Aveva 73 anni ed è deceduto dopo aver lottato per un lungo periodo con una grave malattia. Da allenatore aveva guidato anche l’Atalanta. 

Il mondo del calcio è in lutto per la scomparsa di Pierluigi Frosio, libero e capitano del Perugia dei miracoli, quello dell’imbattibilità in serie A e capace di sfiorare la vittoria dello scudetto. Frosio aveva 73 anni ed è deceduto dopo aver lottato per un lungo periodo con una grave malattia. «Sei stato e sarai sempre il mio eroe. Ciao papà», è il ricordo, su Twitter, del figlio Alex, giornalista della «Gazzetta dello Sport».

Frosio era ricoverato da alcune settimane all’ospedale di Monza, le sue condizioni si erano aggravate proprio negli ultimi giorni. Soprannominato «Il Colonnello», Pierluigi rappresenta la storia del Perugia. Ha indossato la maglia del club umbro per 10 stagioni, secondo calciatore di tutti i tempi come presenze (323). Come detto, è stato il capitano e leader della squadra che – dopo la vittoria della serie B nel 1975 – nella stagione 1978-1979 fece tremare le big del calcio italiano andando a un passo dal tricolore, arrivando seconda (e qualificandosi in Coppa Uefa), a tre punti dal Milan (che vinse lo scudetto della stella), ma davanti a Juventus e Inter.

Frosio era nato a Monza nel 1948, fece il suo debutto nel Cesena, nel 1972, in B, conquistando la promozione in A. Sbarcò al Perugia nel 1974, giocando fino al 1984 (dal 1975 al 1981 in A): 323 presenze e otto gol. Chiuse la sua carriera nel Rimini (in C2) nel 1985, con Arrigo Sacchi in panchina. Nel mondo del calcio ripartì da allenatore con le giovanili del Perugia. Tra le tante squadre, allenò anche Atalanta, Como, Modena e Ravenna, Novara, Padova e Ancona. E fu anche opinionista televisivo, volto noto delle trasmissioni calcistiche.

Morto Pierluigi Frosio, fu capitano del Perugia dei miracoli. Pierluigi Frosio su La Repubblica il 20 febbraio 2022. 

Aveva 73 anni, fu protagonista della promozione in serie A degli umbri nella stagione 1974-75 e del secondo posto nel 1978-79. Il club lo saluta così: "Ciao Lord Piero, sei stato un capitano ma soprattutto un uomo dal grande carisma e forza".

Lutto per il calcio e in particolare per quello perugino. E' morto nella notte a 74 anni l'ex calciatore, allenatore e capitano del Perugia Pierluigi Frosio. Era stato colpito da una malattia e ricoverato all'ospedale di Monza. A Perugia Frosio ha giocato, nel ruolo di libero, per 10 stagioni ed è stato tra i grandi protagonisti della storica promozione in serie A nella stagione 1974-75 e del secondo posto in campionato alle spalle del Milan nella stagione 1978-79, quella che il Perugia ha chiuso imbattuto. "Ciao Lord Piero: sei stato un capitano ma soprattutto un uomo dal grande carisma e forza, un punto di riferimento per compagni e tifosi", ha scritto il club umbro sul proprio sito ufficiale. "Sei stato e sarai sempre il mio eroe. Ciao papà", ha aggiunto il figlio Alex su twitter. Commovente il ricordo di Ilario Castagner, tecnico del Perugia dei miracoli: "Mio carissimo Piero, oggi il mio cuore piange per il dolore della tua scomparsa e con me piangono tutti coloro che ti hanno conosciuto e voluto bene" scrive in una lettera. "Sei stato un trascinatore e un esempio per tutti i tuoi compagni di squadra, per i tifosi che ti hanno applaudito dagli spalti dello stadio, per la città di Perugia che ti ha spalancato le braccia con sincero affetto, per Nadia e i tuoi figli che ti hanno amato incondizionatamente. Per me sei stato 'Il Capitano' saggio e fedele, colonna del Perugia dei miracoli. È una beffa che i miei ragazzi se ne vadano prima di me, ma nel mio cuore ci starete sempre tutti.

Oggi a te vadano le miei preghiere e il mio saluto. Addio mio Capitano. Tuo Ilario".

Finita la carriera da calciatore, a 37 anni a Rimini in C2 nel 1985 con Arrigo Sacchi in panchina, ha iniziato quella da allenatore nelle giovanili del Perugia. Tra le tante squadre che ha guidato ci sono state il Monza, trascinato alla promozione in B nel 1987, l'Atalanta in serie A nel 1990, poi Como, Modena e Ravenna, Novara, Ancona e Padova prima di chiudere l'ultima esperienza a Lecco nel 2006.

E' il recordman di presenze in A nel Perugia

Frosio è stato un piccolo Scirea, libero intelligente, elegante nei gesti. Brianzolo, classe 1948, si era fatto tutta la trafila passando dalla D (Pro Sesto) alla C (Legnano e Rovereto) fino ad arrivare in B nel Cesena con cui, nel 1973, aveva conquistato la prima storica promozione in A del club romagnolo. Dopo sole 5 apparizioni in A decise di accettare la sfida di Ilario Castagner che lo volle in B per il suo ambizioso Perugia, promosso in A nel '75. Il tecnico veneto lo inventò libero dando vita a una straordinaria carriera tra le file dei grifoni: 323 presenze (secondo giocatore per numero di partite nella storia della squadra alle spalle di Dante Fortini) in 10 stagioni e recordman assoluto in serie A con 170 apparizioni, corredate da 8 gol. A Perugia, assieme a nomi epici come Casarsa, Speggiorin, Dal Fiume, Bagni e Malizia, aveva sfiorato lo scudetto nel 1978-79, chiudendo il campionato da imbattuto dietro al Milan che quell’anno vinse la Stella. 

Trascinò l'Atalanta di Stromberg ai quarti Uefa

Appesi gli scarpini al chiodo iniziò ad allenare proprio a Perugia, raggiungendo già un ottimo risultato alla prima vera esperienza, al Monza, in C. Lanciando i giovani Casiraghi e Stroppa, e facendo crescere gente che poi avrebbe fatto una buona carriera in serie A (Antonioli, Robbiati, Verdelli e Stefano Pellegrini) conquistò una promozione in B e una Coppa Italia di categoria. La sua esperienza in Brianza terminò amaramente, con una retrocessione in C nel 1990. Malgrado ciò venne chiamato dall'Atalanta che guidò in A per 18 giornate prima di essere esonerato. Non prima, però, di essersi tolto la soddisfazione di approdare nei quarti di Coppa Uefa, eliminato solo dall'Inter che poi vinse il trofeo. Era l'Atalanta di Stromberg che lo stesso Frosio definì "il giocatore più forte e completo che ho allenato". Chiusa l’esperienza di Bergamo ripartì dalla C1 guidando il Como. Poi tornò in B al Modena e poi al Novara, trascinato alla promozione dalla C2 alla C1 nel '96. Tornò di nuovo a Modena e poi ancora a Monza con cui disputò tre campionati di B dal 1997 al 2000. Nell'ultima annata allenò un giovanissimo Patrice Evra a cui però concesse poco spazio, solo 3 presenze. Gli ultimi anni di carriera li spese tra C1 e C2 con Padova, Ancona e Lecco.

Addio grande libero, in campo e fuori. Tony Damascelli il 21 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Carisma, senza mai alzare la voce. Signore di un calcio che non c'è più. «Ho visto un lungagnone svedese che mette paura. Fidati è uno che verrà fuori». Piero Frosio sapeva di football e andava come un trifolau a scoprire i pezzi migliori. Il lungagnone svedese era Zlatan Ibrahimovic, giocava nel Malmoe e aveva diciassette anni, Piero era sicuro nella scommessa. Se ne è andato presto, maledetta vita che ci toglie i compagni di viaggio e di bisbigli e di nozioni di questo sport meraviglioso e imprevedibile.

Fu capitano del Perugia di Ilario Castagner, si diceva e si scriveva che fosse lui il vero allenatore in campo, la sua saggezza e la sua personalità, detta carisma, aveva la prevalenza sulle chiacchiere tattiche e sulla palla che fa la barba al palo. Un ragazzo di Monza di parole pensate, mai saccente, mai polemico ma con il gusto dell'analisi veloce e completa. Giocava da libero, quando questo ruolo significava il libero pensiero, come un osservatore dell'Onu che stabiliva il tempo in cui intervenire. L'eleganza di stile pareggiava l'astuzia nell'ultimo tackle, scoprì Perugia, dopo la prima avventura a Cesena e si innamorò di quel posto tortuoso che sembra un po' fuori dal mondo ma ne conserva la storia, la cultura, il fascino misterioso. C'è una fotografia che ritrae Piero, prima di una partita, mentre tiene in braccio un pupo di nome Alex. Era una istantanea normale di quel Perugia, di quel football, di una famiglia cresciuta sotto la presidenza di Franco D'Attoma, astuto pugliese di Conversano, e con i baffi di Silvano Ramaccioni un dirigente vero che sapeva accarezzare la stampa.

Frosio visse quell'epoca bella, sfiorando il titolo portato via infine dal Milan. Fu il tempo delle sorprese belle e della tragedia di Renato Curi, sotto il cielo di nero fumo dello stadio che stava e si chiamava Pian di Massiano. Quando tornava a quel giorno, a quel fotogramma, alla barella che portava via il suo sodale e amico, gli occhi di Piero cambiavano luce, il tono della voce si abbassava nel rispetto e nel dolore tenuto a freno da allenatore provò a portare le idee di campo, senza mai spacciare un calcio radicale e perfetto, andò in giro per l'Italia, trovando fiducia e abbandoni da repertorio in questo mestiere strano. Da opinionista in tivvù mai lo vidi e lo udii alzare la voce, sapeva giocare da libero anche davanti alle telecamere, ogni parola era una riflessione, il fisico austero suggeriva rispetto massimo e insieme l'ascolto attento. Il pupo che portava in braccio oggi narra le cronache di football e saprà onorare Piero con la lealtà e l'onestà che sempre lo ha contraddistinto. So che lo farà e Pierluigi Frosio sarà infine di felice di avere vissuto. Tony Damascelli

·        Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.

Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman, aveva recitato anche in General Hospital. La Repubblica il 19 Febbraio 2022.  

La sua scomparsa era stata denunciata nei giorni scorsi. Il corpo ritrovato in un quartiere residenziale di Hollywood. L'attrice Lindsey Erin Pearlman, 43 anni, che ha recitato anche nella famosa serie General Hospital, e poi in American Housewife e altre fiction, è stata trovata morta pochi giorni dopo la denuncia della sua scomparsa a Los Angeles. La polizia aveva diffuso pubblicamente le foto di Pearlman nel tentativo di trovare l'attrice che era stata vista l'ultima volta intorno a mezzogiorno di domenica scorsa. 

La polizia ha affermato che il corpo dell'attrice è stato trovato venerdì mattina in un quartiere residenziale di Hollywood. La polizia al momento sta indagando sulle cause della morte e sulle circostanze della scomparsa di Lindsey Erin Pearlman che era originaria di Chicago.

Giallo sulla morte dell’attrice Erin Pearlman: era scomparsa da giorni. Roberta Damiata il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Ritrovato il corpo della Pearlman: aveva fatto perdere le sue tracce una settimana fa. L'ultimo avvistamento in una zona lontana dalla sua abitazione di Los Angeles.

Pochi giorni fa era stata denunciata la sua scomparsa. L’attrice Lindsey Erin Pearlman, molto conosciuta in America per aver recitato nella serie General Hospital e American Housewife, aveva fatto perdere le sue tracce, e nessuno della famiglia aveva più avuto sue notizie. Una scomparsa misteriosa, insolita, che aveva portato la polizia a chiedere aiuto alla popolazione. "Amici e famiglia temono per la sua sicurezza" era stato il messaggio diramato dagli agenti.

Nella speranza di trovarla più rapidamente, sua cugina Savannah Pearlman aveva condiviso molti particolari su Twitter: "Guida una Honda Fit 2015 argento scuro e il suo telefono ha agganciato l'ultima volta la cella su Sunset blvd". L’ultimo avvistamento dell’attrice 43enne, era stato domenica scorsa intorno all’ora di pranzo, come riportato dall’emittente ABC7. Da quel momento in poi di lei nessuna traccia, fino a venerdì quando la polizia ha ricevuto una telefonata da un quartiere residenziale di Hollywood, per il ritrovamento di un cadavere.

Il coroner della contea di Los Angeles chiamato sul posto dagli agenti intervenuti, ha confermato che il corpo era quello dell’attrice senza rilasciare ulteriori informazioni. È stata la cugina dell’attrice a dare la notizia su Twitter: "Aggiornamento: sono profondamente triste di riferire che hanno trovato Lindsey ed era troppo tardi. Non ho altre informazioni sulla posizione o sulle circostanze". Anche il marito dell’attrice, ha pubblicato un messaggio sul suo profilo Instagram: "La polizia ha trovato Lindsey. Se n'è andata. Sono devastato”.

Il giallo nasce proprio da qui. Dalla mancanza di notizie sia sulla scomparsa che su come sia avvenuta la morte. La zona dove il corpo è stato trovato si trova tra la Franklin Avenue e North Sierra Bonita Avenue a sud del Runyon Canyon Park, un luogo malfamato dove in passato sono avvenuti molti omicidi. Sul caso è stata aperta un’indagine. L’attrice nativa di Chicago, aveva anche lavorato a Empire, Seaky Pete, la serie TV Purge e Selena: The Series.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

·        Morto il pugile Bepi Ros.

Covid, morto il pugile Bepi Ros: la “roccia del Piave” vinse il bronzo alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964. Ilaria Minucci il 17/02/2022 su Notizie.it.

Il pugile Bepi Ros, medaglia olimpica di boxe a Tokyo 1964, è morto al Covid Hospital di Vittorio Veneto dopo essere risultato positivo al coronavirus.

Carriera della “roccia del Piave” Bepi Ros

Il pugile Bepi Ros, medaglia olimpica di boxe a Tokyo 1964, è morto al Covid Hospital di Vittorio Veneto dopo essere risultato positivo al coronavirus.

Covid, morto il pugile Bepi Ros: la “roccia del Piave” vinse il bronzo alle Olimpiadi di Tokyo nel 1964

Nella mattinata di giovedì 17 febbraio, il pugile Giuseppe “Bepi” Ros è deceduto presso il Covid Hospital di Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, dopo aver contratto il SARS-CoV-2. L’uomo, soprannominato “la roccia del Piave”, è scomparso a soli sei giorni di distanza dal fratello Ernesto, ucciso dal virus al pari del pugile. A quanto si apprende, il corpo dell’atleta che aveva vinto la medaglia olimpica di boxe a Tokyo 1964 era gravato da anni dall’Alzheimer, malattia di cui soffriva da tempo.

Il prossimo settembre, Bepi Ros avrebbe compiuto 80 anni. L’uomo lascia le figlie Maria e Patrizia e la moglie Maria.

Il ricordo della figlia Mary e del sindaco di Susegana

In seguito alla scomparsa del pugile, la figlia Mary ha deciso di ricordarlo con le seguenti parole: “Mio padre era un uomo solare che nell’anima è rimasto sempre un pugile. Forte e determinato. Nonostante la malattia non ha mai dimenticato quel mondo e spesso ricordava aneddoti delle competizioni o degli allenamenti”.

Il sindaco di Susegana, Vincenza Scarpa, invece, ha dichiarato: “Non avevo avuto modo di conoscerlo ma da quello che mi raccontano le persone che lo hanno conosciuto e lo stimavano, Bepi Ros era il classico ‘gigante buono’, dotato di una forza fisica pari alla sua bontà”.

I funerali di Bepi Ros si terranno nella giornata di lunedì 21 febbraio, alle ore 10:30, nella chiesa di Santa Maria del Piave.

Carriera della “roccia del Piave” Bepi Ros

Bepi Ros era stato soprannominato la “roccia del Piave” per sottolineare la sua potenza fisica che gli permise di portare a termine la sua carriera nella box con un solo incontro perso per ko tecnico. Da dilettante, partecipò alle Olimpiadi di Tokyo, vincendo la medaglia di bronzo nei pesi massimi.

Nel 1963, è stato campione mondiale dei militari mentre, nel 1964, riuscì a ottenere il suo primo titolo italiano che conservò tra il 1970 e il 1973.

Nel corso della sua carriera, il pugile ha disputato 60 incontri, vincendo 42 incontri. Di questi, 24 vennero vinti per ko.

Dopo aver lasciato la boxe, Bepi Ros ha svolto diversi lavori come carrozziere oppure operatore ecologico in comune. Con la pensione, infine, aveva cominciato ad aiutare la moglie Maria presso il “Bar ai Casoni” che la donna gestisce.

·        Addio al cantante Fausto Cigliano.

Marco Giusti per Dagospia il 18 febbraio 2022.

“Sarrà chi sa. Sarrà 'sta luna chiena, 'na mùseca luntana…”. Per chi è cresciuto con la prima televisione è un durissimo colpo la scomparsa di Fausto Cigliano, 85 anni, grande maestro della canzone napoletana, sofisticato interprete di classici vecchi e nuovi. Una sorta di Joao Gilberto napoletano. Guardatelo, già anziano, con che eleganza canta “Catarì” nel film di John Turturro “Passione”, sotto addirittura al capolavoro di Caravaggio “Le sette opere di Misercordia” al Pio Monte della Misericordia. Da commuoversi. 

Il fatto, poi, di essere arrivato al successo da giovanissimo, andava ancora a scuola, e di presentarsi sempre elegante, sempre sorridente, coi capelli ben tagliati, la giacca e la cravatta, negli anni degli urlatori, di Joe Sentieri, Tony Dallara, Celentano, Mina, lo rese una sorta di ponte tra urlo e melodia. Al punto da poter dividere il successo di “E se domani” di Carlo Alberto Rossi e Giorgio Calabrese, da lui cantata in accoppiata già con Gene Pitney nel 1964 a Sanremo, con Mina, che l’anno ne fece una versione più urlata e, certo, ancor più popolare. 

Nato a Napoli nel 1937, figlio di un comandante dei vigili urbani, penultimo di sette figli, pure malato d’asma in gioventù, incominciò a cantare e a suonare la chitarra fin da ragazzino. Nel 1956 fa il suo esordio al Festival di napoli come “riassuntore” delle canzoni in gara. Nel 1959 vince il Festival di Napoli con “Sarrà chi sa” in coppia con Teddy Reno e diventa popolarissimo. Ma già aveva esordito nel cinema con il buffo “Classe di ferro” diretto da Turi Vasile con Totò protagonista accanto ai giovani virgulti della commedia all’italiana come Paolo Ferrari.

Eccolo poi coprotagonista, nel ruolo di Amerigo Zappitelli, del divertente “Guardia, ladro e caneriera” diretto da Steno, scritto da Lucio Fulci e Alessandro Continenza a fianco di Nino Manfredi e Gabriella Pallotta. O ne “I ragazzi della marina” del comandante De Robertis. Il successo della sua partecipazione a Sanremo lo porta a interpretare “Destinazione Sanremo” di Domenico Paolella con Claudio Villa, betty Curtis, Domenico Modugno e il più scatenato “Sanremo la grande sfida” di Piero Vivarelli con Teddy Reno, Sergio Bruni, Celentano, Mina. 

Ma appare anche in “La duchessa di Santa Lucia” di Roberto Bianchi Montero con Tina Pica. E’ se stesso nel bellissimo “Cerasella” diretto da Raffaello Matarazzo con una giovanissima Claudia Mori e Mario Girotti alias Terence Hill, dove canta ovviamente “Cerasella”, celebre motivo che vanta i testi di Ugo Pirro, lo sceneggiatore, che si firma col suo vero nome, Mattone. 

Tra i pochi cantanti napoletani legati alla tradizione e in grado di piacere anche ai giovani, ai giovanissimi e ai non-napoletani, lo vuole la Nestlé in ben sei anni di Caroselli Nestlé sotto la direzione creativa e registica di Luigi Giachino per reclamizzare prodotti nuovi come il Nescafé, il cioccolato Kismi, il latte in polvere nell’Italia del boom. Nel 1959 lo troviamo da solo nella serie “In gran forma”, l’anno dopo ha come partner un king degli urlatori come il ligure, simpatico, vitalissimo, Joe Sentieri per lanciare il Nescafé. 

Nel 1961 la serie prende il nome di “Ué Ué Ué quant’è buono… il cioccolato Nestlé”, sempre con Joe Sentieri, poi nel 1962 diventa “E’ un urlo, un brivido”. Solo nel 1964 al posto di Sentieri troviamo una star della prima tv come Paolo Poli. Assieme avranno una loro serie assolutamente deliziosa, “Anche in sogno”, dove i due cantanti-attori appaiono a un bambino mentre dorma e cantano una serie di canzoncine più o meno buffe. 

In qualche modo con la fine degli anni ’60, si conclude anche la carriera cinematografica e televisiva di Fausto Cigliano, che negli anni ’70 e ’80 diventa un cantante più di ricerca, esibendosi sempre in coppia col chitarrista Mario Gangi. Il suo modello rimane un po’ quella dei grandi cantanti come Roberto Murolo, anche se ogni tanto prova qualche testo più scapricciato come la buffa, calcistica, “Ossessione 70” (“Albertosi, Burgnich, Facchetti, con Bertini, Rosato e Cera, c’era un goal…”). 

A Carosello riappare solo in una sparuta serie del 1976, mentre al cinema ricompare molti anni dopo con la sua chitarra come colonna sonora, elegantissima, di “Identificazione di una donna” di Michelangelo Antonioni. Di anno in anno era diventato un vero grande maestro della tradizione napoletana, molto amato e venerato da tutti gli appassionati. 

Purtroppo negli ultimi tempi aveva perso la memoria, anche se ancora riusciva a cantare i suoi classici. Lo ricordo a Napoli per una trasmissione di Rai Due che organizzammo in memoria di Totò un po’ offuscato, ma ancora in grado di cantare, dove aveva ritrovato Teddy Reno. Non mi ricordo però cosa cantasse… 

Addio a Fausto Cigliano, maestro della canzone napoletana. Matteo Sacchi il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Grande chitarrista ha lanciato successi come "E se domani".

La musica napoletana piange l'ultimo dei suoi grandi maestri, Fausto Cigliano, chitarrista di vaglia, con vocalità morbida e precisa, capace di affrontare tutti i classici della canzone partenopea. Ma Cigliano rimarrà nella storia della musica anche per aver lanciato, Sanremo del 1964, E se domani di Carlo Alberto Rossi e Giorgio Calabrese, diventato poi un grande successo di Mina.

L'artista è morto ieri a Roma dove viveva da tempo, all'ospedale Gemelli, a 85 anni. Aveva coltivato, sin da bambino, la passione per il canto. Era però soggetto a crisi asmatiche e dovette accontentarsi di seguire le performance canore dei suoi fratelli maggiori che facevano parte del coro del San Carlo. Intrapresi gli studi di ragioneria, però, un compagno di classe gli regalò la prima chitarra. Guarito dall'asma debuttò nell'orchestra di Lello Greco specializzata negli «slow» della nuova canzone napoletana del dopoguerra. Nel 1955 dopo una stagione estiva a Ischia superò un'audizione Rai e iniziò a partecipare frequentemente trasmissioni radio televisive. Nel 1956 debuttò come cantante-chitarrista al Festival di Napoli dove fu chiamato con Amedeo Pariante e Sergio Centi per «riassumere» i motivi in gara. Esperienza ripetuta l'anno successivo con Armando Romeo e Ugo Calise. Nel 1959 invece è in gara e vince il Festival di Napoli, in coppia con Teddy Reno, con il brano Sarra' chi sa, scritto da Roberto Murolo. Sempre quell'anno balzo nazionale, approdando al Festival di Sanremo, e portando in finale con Nilla Pizzi la canzone Sempre con te, composta nuovamente da Roberto Murolo. Nel 64 un altro Sanremo, dove lanciò E se domani. Negli anni Cinquanta si conquistò anche una visibilità da grande schermo partecipando anche a numerosi film: Classe di ferro di Turi Vasile, Guardia, ladro e cameriera diretto da Steno, Ragazzi della marina di Francesco De Robertis e il precursore dei musicarelli: Cerasella di Raffaello Matarazzo.

Dopo lottò contro il declino della canzone napoletana, per trent'anni divise con la chitarra di Mario Gangi il compito di preservare un'arte antica. John Turturro lo aveva voluto nel 2009 interprete di Marzo ai piedi del Caravaggio al Pio Monte della Misericordia. Poi il gentleman della melodia aveva abbandonato a un concerto sul palco del teatro Trianon. Si era accorto di faticare con la chitarra, di essere tradito dalla memoria. Maestro anche nel fermarsi.

Matteo Sacchi. Classe 1973, sono un giornalista della redazione Cultura e Spettacoli del Giornale e tenente del Corpo degli Alpini,  in congedo. Ho un dottorato in Storia delle Istituzioni politico-giuridiche medievali e moderne  e una laurea in Lettere a indirizzo Storico conseguita alla Statale di Milano. Il passato, gli archivi, e le serie televisive sono la mia passione. Tra i miei libri e le mie curatele gli ultimi sono: “Crudele morbo. Breve storia delle malattie che hanno plasmato il destino dell’uomo” e “La guerra delle macchine. Hacker, droni e androidi: perché i conflitti ad alta tecnologia potrebbero essere ingannevoli è terribilmente fatali”. Quando non scrivo è facile mi troviate su una ferrata, su una moto o a tirare con l’arco.  

Morto Fausto Cigliano, addio all’ultimo maestro della musica napoletana. Si è spento mercoledì a Roma, all’ospedale Gemelli, a 85 anni, compiuti solo due giorni fa. Il Fatto Quotidiano il 17 febbraio 2022.

La musica napoletana piange l’ultimo maestro, Fausto Cigliano, capace di affrontare con chitarra e voce tutti i classici della canzone partenopea ma rimasto nella storia anche per aver lanciato nel Sanremo del 1964 ‘E se domani’ di Carlo Alberto Rossi e Giorgio Calabrese, diventato poi un grande successo di Mina. Si è spento mercoledì a Roma, all’ospedale Gemelli, a 85 anni, compiuti solo due giorni fa.

Nato il 15 Febbraio 1937 a Napoli, penultimo di sette fratelli Cigliano aveva coltivato sin da bambino la passione per il canto. Soggetto purtroppo a frequenti crisi asmatiche dovette però accontentarsi di seguire le performance canore dei suoi quattro fratelli maggiori che facevano parte del coro del San Carlo. Intraprese dunque gli studi di ragioneria e proprio un compagno di classe gli regalò la sua prima chitarra. Guarito completamente dall’asma debuttò nell’orchestra di Lello Greco specializzata negli slow della nuova canzone napoletana del dopoguerra. Nel 1955 dopo una entusiasmante stagione estiva in un importante Hotel di Ischia superò brillantemente una audizione Rai tenuta presso la locale sede dell’emittente di stato e da allora partecipò frequentemente a diverse trasmissioni radio televisive.

Nel 1956 debuttò come cantante-chitarrista al Festival di Napoli dove fu chiamato con Amedeo Pariante e Sergio Centi per riassumere i motivi in gara. L’esperienza si ripetette l’anno successivo con Armando Romeo e Ugo Calise. Nel 1959 approdò al Festival di Sanremo portando in finale con Nilla Pizzi la canzone ‘Sempre con tè, composta da Roberto Murolo. Qualche mese più tardi, sempre nel ’59, vinse il Festival di Napoli con ‘Sarrà chi sa?’, cantata assieme a Teddy Reno.

Negli anni ’50 partecipò pure a numerosi film: ‘Classe di ferrò di Turi Vasile, ‘Guardia, ladro e cameriera’ diretto da Steno, ‘Ragazzi della marina’ di Francesco De Robertis e il precursore dei musicarelli ‘Cerasellà di Raffaello Matarazzo. Con minor fortuna partecipò ancora alle edizioni del Festival di Sanremo del 1959, 1960, 1961 e 1962 e si ripresentò nel 1964 interpretando il brano “E se domani”, che diverrà un grosso successo nella versione di Mina. Fu anche autore di molte canzoni tra le quali: ‘Ossessione ’70’, ‘Napule mia’, ‘Nella mia città’, ‘Ventata nova’ e ‘Scena muta’. Nel 1992 compose la colonna sonora dello sceneggiato in 60 puntate di Canale 5 ‘Senza Fine’. La sua esperienza cinematografica più blasonata è la partecipazione con musiche originali eseguite alla chitarra al film ‘Identificazione di una donna’ di Michelangelo Antonioni.

·        Morto il cantante Amedeo Grisi. 

Morto a Sanremo il cantante Grisi, malato di Sla decise di interrompere le cure: "Non voglio restare inchiodato a letto". Aveva 49 anni, duettò con Baglioni nel 2018 su La Repubblica il 16 febbraio 2022.

Proprio in queste ore successive alla decisione della Corte Costituzionale di bocciare il referendum sulla eutanasia, arriva dal ponente ligure la notizia della morte del cantante sanremese Amedeo Grisi, 49 anni, dal luglio del 2015 malato di Sla. Lo scorso mese di agosto, in un lungo post pubblicato su Facebook aveva annunciato la volontà di interrompere le cure e di chiudere il proprio account una volta terminata la raccolta fondi per la ricerca sulla Sclerosi Laterale Amiotrofica.

Il suo post era stato scambiato da alcuni con l’annuncio di aver deciso una data per l’eutanasia. Grisi in un successivo post spiegò meglio cosa intendeva dire: “non ho programmato ne giorno ne mese per sottopormi a l'eutanasia.. Ho detto che il giorno che sarò costretto perché sarò colto da una crisi respiratoria e per questo dovrò prendere una decisione se andare avanti con una tracheotomia tubi nello stomaco per alimentarni inchiodato in un letto con un comunicatore vocale ottico ecc ecc.. O decidere di fermarmi.. A quel punto mi fermerò.. Semplicemente perché sarò costretto.. Il tempo massimo potrebbe essere un mese 2 o da un momento all'altro. Ma finché ce la farò andrò avanti fino alla fine.. E quel giorno non sarà perché mi sarò arreso.. Ma l'unico modo per sconfiggere la malattia.. E non permettergli di non portarmi via più nient”.

Nel gennaio 2018, nell'ex oratorio di Santa Brigida del centro storico di Sanremo, Grisi, che era già malato, riuscì a duettare con Claudio Baglioni, all'epoca direttore artistico del 68/mo Festival di Sanremo, coronando un suo grande sogno. 

Tuttavia, restò amareggiato per non aver potuto esibirsi sul palcoscenico dell'Ariston. "Mi scuso con tutte le persone più sensibili per aver espresso questa mia volontà - scriveva a conclusione del post -. Detto questo, il mio tempo ormai è terminato. Sarà un mese, due, una settimana? Io sono pronto.

Sono sicuro che per qualcuno più di uno non andrò mai via veramente. Il potere della musica e dell'amore ci rende immortali". Nei giorni scorsi è riuscito a pubblicare un  volume dal titolo: "Dentro le mie poesie": una raccolta di cinquantuno poesie e brevi racconti scritti in questi anni di sofferenza, ma anche di speranza.

·        E’ morto il doppiatore Tony Fuochi. 

Da ilmessaggero.it il 15 febbraio 2022.

Tony Fuochi, ex speaker di Radio Padova e doppiatore di Super Mario e Phoenix di "I Cavalieri dello Zodiaco", è morto ieri sera a 67 anni nella terapia intensiva dell’ospedale di via Giustiniani a Padova. Era malato di Covid e ricoverato dal 12 gennaio. Negli anni Ottanta fu famoso come la voce della notte di Radio Padova. 

Tony Fuochi aveva dato la voce a tantissimi personaggi del mondo dell’animazione tra cui ricordiamo Lo Stregone del Toro (il pare di Chichi) in Dragon Ball, Z e Dragon Ball GT, House di Scuola di Polizia, Giovanni il malvagio capo del Team Rocket nella serie Pokémon, Zodd nella prima trasposizione animata di Berserk, Gol D. Roger e tanti altri personaggi in One Piece, e si potrebbe andare avanti all’infinito con una lista lunghissima di personaggi doppiati. 

Anche il mondo dei videogiochi era un territorio in cui la sua voce è stata prestata molte volte, anche in produzioni celebri, come per esempio “God of War 3″ dove è stata la voce di Efesto, Master Yi nel gioco free-to-play della Riot “League of Legend“, Kleiver in “Jak 3”, Samael e Arso Consiglio in “Darksiders” e successivamente sempre Samael e Padre Corvo in “Darksiders 2”. E anche qui la lista potrebbe andare avanti ancora a lungo per i suoi ruoli in The Elder Scrolls 5: Skyrim, Infamous 1 e 2, Alan Wake, Dante’s Inferno, Destiny, Call of Duty: Black Ops 2, Killzone e tanti altri ancora.

·        E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman. 

Marco Giusti per Dagospia il 14 febbraio 2022.

Il film più famoso? “Ghostbusters”? E già basterebbe. Ma ci sono anche “I gemelli”, “Polpette”, “Stripes”, “Dave – presidente per un giorno”, “Un poliziotto alle elementari”. 

Per non parlare dei tanti film che ha prodotto, ben 75, a cominciare da “Il demone sotto la pelle” di David Cronenberg a “Animal House” di John Landis, da “Space Jam” di Joe Pytka a “Beethoven” a ”Heavy Metal”.

E gli attori che ha lanciato? Bill Murray, John Belushi, Dan Aykroyd, Rick Moranis, John Candy, tutti legati al “Saturady Night Live”, ma ce ne sono decine e decine di altri. 

E quelli che ha riscritto comicamente, come Arnold Schwarzenegger e Sigourney Weaver. 

Lo avevamo appena visto come produttore esecutivo, ma fa anche una piccola apparizione, in “Ghostbusters: Legacy”, diretto dal figlio Jason, ricco omaggio, magari non così riuscito ma di cuore a quel film divertente e scanzonato che abbiamo tutti amato quando uscì e a quel gruppo di pazzi che lo realizzò, quasi alla pari, attori regista sceneggiatori. Perché il suo metodo era quello di un cinema e di una commedia costruita quasi sul set, tutta assieme. Insomma. 

Ci lascia, a 75 anni, Ivan Reitman, produttore, regista, sceneggiatore, grande uomo di cinema che ha passato una vita a costruire film irrispettosi ma divertenti, commedie, fantasy, sempre con una marcia in più rispetto alla massa di commedie più o meno fortunate che ci proponeva Hollywood.

Di Hollywood e del cinema medio americano, Reitman non aveva nulla, anche se è grazie a lui che si sviluppò nel cinema americano un nuovo tipo di commedia legata alle esperienze di improvvisazione comica teatrale e televisiva a cavallo tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80. Sembra che Bill Murray per “Polpette – Meatballs” recitasse senza aver letto il copione. E così molti altri suoi attori.

Nato a Komarno, in Cecoslovacchia, da famiglia ebrea e arrivato a quattro anni in Canada coi genitori. Studia alla McMaster University di Hamilton, nell’Ontario, è assistente di un genio come David Cronenberg e diventa regista con piccoli cortometraggi, come “Freak Film” e “Orientation” nel 1968. Viene arrestato assieme a Dan Goldberg per aver prodotto "Columbus of Sex" alla scuola McMaster nel 1970, un film tratto dal romanzo vittoriano "My Secret Life".

Proprio durante il processo, la MGM offrì ai due 175.000 dollari per realizzare "Foxy Lady", che sarà il suo primo lungometraggio. Non solo furono i primi cittadini canadesi condannati in base alle nuove leggi sulla decenza, e multati con 300 dollari e a libertà vigilata per un anno. Dopo “Foxy Lady” (1971), gira “Cannibal Girls” (1973) con Eugene Levy e Andrea Martin, un horror, certo, ma abbastanza ironico già nel manifesto (“Quelle ragazze stanno facendo proprio quello che tu pensi che facciano”), che fece vincere ai suoi protagonisti il primo premio al Festival dell’Horror di Sitges.

Ma “Polpette” (1979) e “Stripes” (1981), due commedie giovanili che di horror non hanno nulla, fanno di lui e del suo giovane protagonista, Bill Murray, due star della commedia. Con il successivo “Ghostbusters” (1983), dove si uniscono al gruppo Dan Aykroyd, Rick Moranis, Sigourney Weaver e Harold Ramis, già apparso in “Stripes”, si capisce che nel cinema americano può fare quello che vuole. 

E’ il film che unisce la sua grande vena comica con quella horror e dove il sistema di scrittura creativa funziona al meglio grazie alla qualità degli interpreti, che non sono solo attori. Cerca di mettere in piedi un “Batman” nei primi anni’80 sulla sceneggiatura di Tom Mankiewicz con Bill Murray come Batman, David Niven come Alfred, William Holden come ispettore Gordon, David Bowie come Joker.

Tenta altre strade, tutte di successo, come il non così personale “Pericolosamente insieme” con Robert Redford, Daryl Hannah e Debra Winger, il divertentissimo “I gemelli” con Arnold Schwarzenegger e Danny De Vito, “Ghostbusters II”, impossibile non farlo, “Dave”, “Junior”, Due padri di troppo” con Robin Williams e Billy Crystal, fino a “Sei giorni, sette notti” con Harrison Ford e Anne Heche. Tutto il suo cinema migliore è racchiuso tra gli anni ’80 e ’90 con perfette macchine di cinema popolare. 

Lui stesso si è sempre sentito legato alla baby-boom generation, quella dell’amore libero e non a quella successiva. Troppo moderna. Il cinema che gira dopo il 2000 è oggettivamente meno fresco e meno divertente, “Evolution”, “La mia super ex-ragazza”, “Amici, amanti e…”.

E’ più interessante e curioso come produttore, “Killing Me Softly” di Chen Kaige con Heather Graham e Joseph Fiennes, “Chloe” di Atom Egoyan, “Hitchcock” di Sascha Gervasi con Anthony Hopkins e Helen Mirren, e soprattutto “Tra le nuvole” del figlio Jason con George Clooney. Attivissimo, lascia un numero imprecisato di produzioni anche molto interessanti che non si sa bene a che punto siano, come “Juliet” di James Mangold, “Besties” di Gail Mancuso, ma anche film che avrebbe dovuto dirigere, come “Summer of Love”, “Triplets”, il sequel de “I gemelli”, nuovo “Ghostbusters”.

·        E’ morto l’artista John Wesley.  

Barbara Costa per Dagospia il 14 febbraio 2022.

Parliamo di Morte? Non si fa altro, da due anni, ma la Morte com’è, dove sta, che faccia ha, la vediamo sul viso e nel corpo altrui ma non nel nostro se non nel momento in cui accadrà, e però c’è chi della Morte ne fa pensiero fisso, perenne, e di tutta una vita. E ne fa arte, come lui, come ha fatto lui, John Wesley, JW per chi ne è cultore… John Wesley non ha dipinto altro, non ha pensato ad altro fino a che la Morte ha raggiunto lui, pochi giorni fa, a 93 anni.

John Wesley è l’autore dei quadri che vedi, di quei corpi, ritagli di membra nude, esposte, senza pudore, il più delle volte nei loro gesti più intimi. Gambe che si doppiano, e vagine e peni turgidi, in azione. A far che? La pornografia non è solo stimolo sessuale, non è solo rappresentazione di fantasie più o meno dicibili… può essere – ed è – mezzo, causa, ragione per materializzare altre strade, percorsi, altre idee. Pornografia che pensa e sposa la Morte.

I soggetti scelti e lavorati da Wesley sono foto, sono scatti, resi eterni. Cioè, resi morti. Resi sadicamente morti. Tutte le foto, le montagne di selfie scattati ogni giorno… realizzano nient’altro che arresti. Morte. Si è fissi, nello scatto. Morti. Sono morti le donne e gli uomini sospesi ritratti da John Wesley, e sono alterazioni allucinate di sessi carnosi accoppiati nell’attimo in cui la Vita si fa Morte. Quando non sono morti, gli uomini e le donne di John Wesley sono vecchi, sono stanchi, e si voltano alla gioventù con astio, consci della fine. Ineluttabile, e vicina. Dietro l’angolo.

Come fuggirne? Se non sono morti, donne e uomini di Wesley sono zooerastici, o concretano la parte più bruta, intollerante e intollerabile, di noi vivi esseri umani. Siamo mostri, nell’occhio di Wesley, che è il nostro che mostri vediamo e mostri nei suoi quadri ci riconosciamo, mostri che parlano l’uno sull’altro, uccidendosi di parole, insensate, e che nessuno ascolta.

Uomini con donne, e uomini con uomini, e donne con donne, che in Wesley sc*pano, godono, si masturbano… sono ritratti in un orgasmo che li uccide (orgasmo piccola morte…). In Wesley non c’è uomo, non c’è donna, che possa dirsi al sicuro. Ogni sguardo è sotto minaccia – concreta – di violenza. Mortale. Non c’è amore, in Wesley, ogni romanticismo è escluso: c’è lotta, c’è la guerra, a due, che tra due amanti è la norma. Il sesso (ma pure un bacio) è animalesco, è brutale, lo governa l’istinto, e per uno dei due – se non per entrambi – finisce male. Se in un quadro la protagonista è sola… sogna, e sogna incubi, pericoli.

A che si immolano quelle spose se non a una purezza che per Wesley è colpa, senza scuse, è ignoranza, è senza attenuanti. È ciò che si isterilirà, coito dopo coito, di volta in volta groviglio a cui soccombi, o fai soccombere.

E quanta saccente sciatteria, nell’affermare che John Wesley è stato un Pop Artist! “Quanto è (era) Pop questo Wesley”, mi tocca leggere, quando Wesley ha sempre riso, irriso, e rifiutato, se non sputato su ogni etichetta. Compresa questa. Compreso il “Cole Porter, maestro jazz, della pittura”. Wesley detestava parlare di sé: ha sfiorato una prima visibilità con le sue opere esposte con quelle di Andy Warhol e co.

(JW stimava Jasper Johns, la fissità, mortifera, delle sue bandiere), ma John Wesley ha per 5 decenni fatto vita a sé (credo abbia rilasciato una manciata di interviste, e Wesley era uno che aborriva la minima gloria e, se lo chiamavi al telefono, se ti rispondeva era un evento), e fatto arte, a sé, e la sua ossessione per la Morte si spiega così: figlio di genitori che dopo la sua nascita si sono lasciati, è vissuto col padre Ner fino all’età di 5 anni. Fino al giorno in cui il padre è tornato a casa ed è entrato in bagno, e lì è morto, a terra, stecchito da un ictus.

Il piccolo John lo ha visto morire. È stato poi portato in orfanotrofio fino a che la madre s’è risposata riprendendolo con sé. La visione del padre morto si è saldata nella psiche di Wesley, scavandone un tunnel di orrore, forato e stilizzato, quadro dopo quadro. John Wesley ha avuto tre mogli, e da due – le scrittrici Hannah Green e Pat Broderick (madre dell’attore Matthew) è rimasto vedovo. 

·        E’ morto il musicista Ian McDonald.

Da lastampa.it il 12 febbraio 2022.

Il musicista britannico Ian McDonald, co-fondatore del leggendario gruppo rock progressivo degli anni '70 King Crimson, è morto a New York, di cancro, all'età di 75 anni. Lo ha reso noto il figlio su Facebook. «Sono profondamente rattristato nell'annunciare che mio padre è morto di cancro. ? stato incredibilmente coraggioso, non ha mai perso la sua gentilezza e il suo senso dell'umorismo, anche quando è diventata dura», ha scritto suo figlio Max in un post pubblicato sul sito web di Discipline Global Mobile (DGM), l'etichetta musicale dei King Crimson. 

Cantante, sassofonista e polistrumentista, McDonald è stato una figura chiave nella scena progressive degli anni 60 e 70. Dopo l'esperienza come collaboratore nel progetto Giles, Giles & Fripp, fondò insieme allo stesso Fripp e a Mike Giles, Greg Lake e Pete Sinfield, i King Crimson. Il suo contributo al clamoroso disco d'esordio della band, In the court of the crimson king, fu decisivo: oltre a essere autore della title track e di I talk to the wind aveva partecipato alla scrittura di tutti i brani del disco, diventando di fatto uno degli artisti che definirono i canoni della scena progressive.

La sua permanenza nella band durò comunque un anno: dopo un tour americano, McDonald lasciò la band insieme a Mike Giles a causa dei difficili rapporti con Fripp. I due lanciarono il progetto McDonald and Giles, dove ricoprì anche il ruolo di cantante. Anche questa avventura non durò a lungo: iniziò una collaborazione con i T.Rex di Marc Bolan, idoli della scena glam rock. Come accaduto a diversi musicisti coinvolti nei King Crimson, anche McDonald tornò a lavorare con Robert Fripp suonando il sax in due brani dell'album del 1974 Red (Starless e One more red nightmare).

Nel 1976 fu tra i fondatori dei Foreigner, gruppo rock “adult oriented” americano che ottenne un enorme successo commerciale tra la fine degli anni 70 e i primi anni Ottanta. Abbandonò poi il gruppo nel 1980, dopo aver inciso tre dischi, e subito dopo formò la 21st Century Schizoid Band con membri dei King Crimson del periodo 1969-72. Musicista di grande talento, aveva portato all'interno dei King Crimson una sensibilità jazz che si rivelò fondamentale per il sound rivoluzionare della band. 

·        Addio a Betty Davis, la regina del Funk.

Da leggo.it il 10 febbraio 2022.

Addio a Betty Davis, cosiddetta regina del Funk. Aveva 77 anni e, secondo quanto scrive la rivista Rolling Stone, la morte è avvenuta per cause naturali. La Davis era nota anche per essere stata la seconda moglie di Miles Davis oltre che per essere considerata «la donna che inventò la Fusion», un genere musicale che combina elementi di jazz, rock e funk.

Il mondo della musica piange Betty Davis, la regina dimenticata del Funk. Aveva 77 anni e da tempo aveva abbandonato le scene della musica. All'anagrafe Betty Mabry era originaria della Carolina del Nord e modella di professione, la Davis cominciò a fare musica negli anni '60 con il nome di nascita Betty Mabry. 

Anche se la maggior parte del suo catalogo musicale fu registrato durante un periodo di poco più di dieci anni, tra il 1964 e 1975, la sua influenza fu significativa anche negli anni successivi. Alla fine degli anni '60 divenne una figura prominente nel panorama musicale di New York e scrisse anche il brano dei Chambers Brothers, 'Uptown (to Harlem)'and. 

Nel 1968 sposò Miles Davis e anche se il matrimonio durò solo un anno, nella sua autobiografia il trombettista statunitense affermò che la Mabry contribuì significativamente nelle sue successive esplorazioni musicali. Fu lei infatti che lo introdusse al chitarrista di rock psichedelico, Jimi Hendrix, e all'artista Funk, Sly Stone.

·        E’ morta Donatella Raffai.

(ANSA il 10 febbraio 2022) - Addio a Donatella Raffai, la conduttrice volto storico della trasmissione di maggior successo di Rai3, "Chi l'ha visto?" e dell'antesignano "Telefono Giallo" (con Corrado Augias), sempre sulla terza rete pubblica - lontana dagli schermi per sua scelta dal 2000 - si è spenta dopo una lunga malattia a 78 anni. 

A darne notizia, il marito Sergio Maestranzi, ex regista Rai, che aveva sposato dopo una lunga convivenza di oltre 30 anni solo un anno fa, e due precedenti matrimoni. I funerali annuncia si svolgeranno domani a Roma alle ore 12,30 nella chiesa parrocchiale di via Flaminia vecchia (al civico 732) "la bara sarà esposta al pubblico in chiesa per mezz'ora prima della funzione".

"Il nostro è stato un grande e meraviglioso amore, Donatella una donna generosa, riservata, che aveva deciso a un certo punto di allontanarsi dalla tv e di dedicarsi alla vita privata, sono state dette date cose, ma è tutto molto semplice". Donatella Raffai, marchigiana di origine (è nata a Fabriano, in provincia di Ancona), ha vissuto gran parte della sua vita a Roma ma con il marito si spostava ogni per un periodo dell'anno nella sua casa in costa azzurra. Lascia due figli gemelli adulti, e i nipoti.

«Rigore e nessuna volgarità»: con Donatella Raffai se ne va un pezzo di storia della Rai. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Morta la prima conduttrice della trasmissione «Chi l’ha visto?». Federica Sciarelli: «Addio al volto indimenticabile e motore del programma nelle sue prime storiche edizioni». 

È morta Donatella Raffai. Stavolta non è un logoro modo di dire ma con lei se ne va veramente un pezzo di storia della Rai, della tv pubblica più legata all’identità generalista del network televisivo più importante per la storia del nostro Paese. Donatella Raffai è scomparsa a 78 anni dopo essere rimasta a lungo, e per scelta personale, lontana dai teleschermi.

La sua storia comincia nel 1971 ed è legata alla radio con alcune radiotrasmissioni di successo. La sua voce diventa subito un marchio Rai con «Voi e io», soprattutto con «Radio anch’io>» grande rotocalco popolare di storie quotidiane. E poi «Chiamate Roma 3131» dopo il 1996, altro appuntamento che cambia il rapporto tra i radioascoltatori e la radio pubblica. Infine l’approdo in TV come autrice e conduttrice di varie trasmissioni di approfondimento giornalistico e di cronaca. Si tratta della Rai 3 diretta da Angelo Guglielmi, laboratorio di sperimentazione tra «alto e basso», con trasmissioni di qualità culturale alternate ad appuntamenti di grande richiamo. Ed ecco Raffai impegnata in «Telefono giallo», «Filò», «Posto pubblico nel verde» e «Camice bianco».

Nel 1989 arriva il grandissimo successo personale di Donatella Raffai con la conduzione del programma «Chi l’ha visto?». Il programma diventa il marchio di Rai 3 e tutti riconoscono la capacità di Donatella Raffai di seguire le storie delle persone scomparse senza eccessive intrusioni nelle vite private, col rispetto dovuto al dolore personale. Nell’autunno del 1991 accetta una nuova sfida con «Parte civile» in prima serata su Rai 3, denunce di ingiustizie verso i cittadini. Nell’autunno 1992 un insuccesso, il traino preserale «8262», sempre su Rai 3: nelle intenzioni avrebbe dovuto sostenere il Tg3 di prima serata ma non andò secondo le previsioni. E anche qui Raffai reagisce con professionalità e forza.

Poi il ritorno a «Chi l’ha visto?» fino all’aprile 1994 quando viene sostituita da Giovanna Milella. Nel gennaio 1995 l’arrivo su Rai 1 col talk show di seconda serata «Anni d’infanzia». Le sue ultime apparizioni risalgono alla stagione 1997-1998 come inviata ad alcune puntate di «Domenica in», nell’edizione diretta da Michele Guardì e condotta da Fabrizio Frizzi. Alla fine degli anni ‘90, il trasloco a Mediaset, come conduttrice di «Giallo 4», su Rete4. Ma non arriva il successo sperato, così Raffai decide di chiudere la sua carriera televisiva.

Lascia due figli e l’attuale compagno Silvio Maestranzi, ex regista Rai. Federica Sciarelli, che oggi conduce con successo «Chi l’ha visto?», la saluta così : «Addio al volto indimenticabile e motore del programma nelle sue prime storiche ed izioni». Nelle sue conduzioni c’era molto rigore, attenzione al dettaglio, eleganza, rispetto del ruolo del servizio pubblico, nessuna concessione alla volgarità». Un modello di Rai amatissimo dal pubblico, e oggi molto in crisi.

Morta Donatella Raffai: la testardaggine e gli «artigli», inventò una nuova forma di romanzo popolare. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.  

Era il 1989 quando con Paolo Guzzanti cominciò a dedicarsi alle persone scomparse: un piglio deciso che creò polemiche, ma che ha segnato il modello «Chi l’ha visto?» 

Il 10 febbraio 2022 è morta Donatella Raffai, conduttrice e volto storico del programma «Chi l'ha visto?». 

Il nome di Donatella Raffai è soprattutto legato a una trasmissione che va ancora in onda, «Chi l’ha visto?». Era il 1989 quando la Raffai e Paolo Guzzanti cominciarono a dedicarsi alle persone scomparse, ma anche ai rapimenti, alle sparizioni volontarie, alle fughe preparate. Si contattavano i familiari, si cercava la collaborazione con il pubblico, si lanciavano appelli per ritrovare gli scomparsi. Né più né meno di come si fa ancora oggi. Ma allora era una novità assoluta e la Raffai, con quel suo piglio deciso, con quella sua voglia di mettere tutto a posto, con quella testardaggine a restaurare l’ordine stabilito, creò subito un vortice di polemiche.

Da una parte (ricordo un divertito articolo di Beniamino Placido) c’erano quelli che accusavano la Raffai di ledere i più fondamentali diritti della privacy e di sfruttare il disagio dei «poveri cristi», indifesi e disperati (proprio in quegli anni, in Francia la messa in onda di un analogo programma fu vietata). E poi se uno scappa volontariamente di casa, ha tutto il diritto di non essere disturbato. Antonio Ricci riassunse la situazione in una battuta: «La Raffai gronda umanità da ogni artiglio». Dall’altra c’era il direttore di Raitre, Angelo Guglielmi, criticato per aver voluto gonfiare con «snobismo culturale» le storie degli scomparsi da casa. Guglielmi, infatti, sosteneva che la Raffai non era una semplice conduttrice ma paragonabile a una grande scrittrice. A suo dire, «Chi l’ha visto?» era la nuova forma di romanzo popolare.

Se un tempo quel tipo di letteratura traeva spunto dalle storie vere della gente comune e di esse forniva una copia abilmente manipolata, oggi, la televisione offriva in diretta quelle stesse storie «al di là di ogni mediazione o manipolazione». Forse era una disputa che ha finito per congelare in un ruolo senza vie d’uscita la «conduttrice/scrittrice» che non è riuscita più a trovare nei programmi successivi quello stile incisivo, energico, rigoroso che aveva caratterizzato la stagione iniziale di «Chi l’ha visto?».

Il Personaggio. Addio a Donatella Raffai, volto storico di "Chi l'ha visto?" Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

Addio a Donatella Raffai, la conduttrice volto storico della trasmissione di maggior successo di Rai3, “Chi l’ha visto?” e dell’antesignano “Telefono Giallo” (con Corrado Augias), sempre sulla terza rete pubblica – lontana dagli schermi per sua scelta dal 2000 – si è spenta dopo una lunga malattia a 78 anni.

A darne notizia, il marito Sergio Maestranzi, ex regista Rai, che aveva sposato dopo una lunga convivenza di oltre 30 anni solo un anno fa, e due precedenti matrimoni.

I funerali si svolgeranno domani a Roma alle ore 12,30 nella chiesa parrocchiale di via Flaminia vecchia (al civico 732).

“Il nostro è stato un grande e meraviglioso amore – ha detto Maestranzi – Donatella una donna generosa, riservata, che aveva deciso a un certo punto di allontanarsi dalla tv e di dedicarsi alla vita privata. Sono state dette date cose, ma è tutto molto semplice”.

Donatella Raffai, marchigiana di origine (è nata a Fabriano, in provincia di Ancona), ha vissuto gran parte della sua vita a Roma ma con il marito si spostava ogni per un periodo dell’anno nella sua casa in costa azzurra. Lascia due figli e i nipoti. 

Donatella Raffai, il ricordo del collega: «Volle togliersi un'etichetta ingombrante». PINO NAZIO, collega e amico di Donatella Raffai, su Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

DONATELLA Raffai ci ha lasciato. Stavolta per davvero. Per anni il suo allontanamento volontario dalla tv e dai rotocalchi è stato scambiato per la sua morte, per anni si è detto che avesse lasciato “Chi l’ha visto?” -all’apice di un successo senza precedenti- perché doveva sottoporsi a un delicato intervento chirurgico.

Per anni le leggende metropolitane sul suo nome si si sono inseguite, per anni le fake-news sulla Raffai hanno tenuto banco. Tutto questo perché lo star system della Penisola non tollera chi si chiama fuori, chi non vuole finire – li dici con rispettosa ironia – tra famosi sfigati o bolliti raccomandati.

Invece la Raffai, data per morta per decenni, era viva, invece che un intervento chirurgico a farle lasciare il programma di maggior successo della Tv della realtà è stata la voglia di togliersi di dosso una etichetta diventata ingombrante. Tv della realtà made in Guglielmi, il direttore con cui amava disquisire sulle straordinarie potenzialità della televisione. “Quando passo per strada quelli che non ricordano il mio nome mi chiamano ‘Chi l’ha visto?’”, mi diceva con disappunto.

Il successo era diventato un peso, mettere milioni di persone davanti a Rai3 era un fardello diventato troppo ingombrante. Di qui la decisione di lasciare, di provare a confermare le proprie doti anche sotto un titolo diverso.

Ero in vacanza in barca quando mi chiamò per dirmi che sarebbe passata alla Fininvest con un altro programma, mi chiese se avessi voluto seguirla. Io mi ero sempre trovato bene con lei, con quel carattere burbero solo all’apparenza, risposi di sì. Era una donna piena di umanità che la voce roca e il piglio deciso finivano per nascondere. Ogni volta che gli presentavi un caso la solita domanda: “Ma c’è ciccia?”. Poi, se decideva di farlo, ti seguiva anche di notte e nei festivi. Potevi chiamarla a qualsiasi ora per raccontargli gli sviluppi di una scomparsa, per confidargli un dubbio su un delitto che non era mai scortese: era sempre pronta all’ascolto e al confronto. Una rarità che avrei apprezzato solo in seguito lavorando con altri conduttori meno qualificati e molto più egocentrici.

Beninteso, Donatella non disdegnava il successo, non disprezzava sentirsi al centro della scena, ma lo faceva con la dote naturale di chi sa di bucare lo schermo, che ha una voce inconfondibile come un marchio di fabbrica irriproducibile. Sempre pronta a polemizzare con l’autore che le concedeva nel copione poco spazio. “E che faccio il vigile che dirige il traffico?”, diceva lui, rivendicando dei lanci più lunghi.

Non aveva la precisione metodica di Giovanna Milella, nemmeno la passione travolgente di Marcella De Palma, neppure la navigata recitazione di Daniela Poggi o la diligente indagine di Federica Sciarelli, Donatella Raffai era semplicemente lei. Era personaggio che non aveva bisogno di sgomitare, che non aveva bisogno di decenni per essere ricordata. Pur in poche edizioni, lontane ormai un quarto di secolo, la Raffai viene ancora ricordata dal pubblico di “Chi l’ha visto?”, come una Monica Vitti del piccolo schermo. Era una diva non diva, in un’epoca in la Tv non era certo favorevole alle donne, soprattutto in ruoli impegnati e non di spettacolo.

Aveva dei lati umani inaspettati, orgogliosa di farti assaggiare una prelibata pietanza fatta con gli avanzi del giorno prima o di invitarti a casa per un pokerino in cui – al massimo – si vinceva l’equivalente di una pizza con birra. Nelle rarissime occasioni in cui ci siamo rivisti dopo il suo abbandono era stata sempre affettuosa e cordiale. Adesso che non c’è più posso solo abbracciare quel ragazzino che quando la madre non poteva lasciarlo solo, lo trascinava con se in redazione. E lui spesso si infilava nella saletta dove io montavo i servizi. Forse perché mi sentiva ragazzino come lui, forse perché ci piaceva ridere e scherzare come dei collegiali.

Oggi che non avrà voglia di ridere sono sicuro che gli saranno d’aiuto due inconfondibili qualità della mamma, un sorriso sempre pronto e una profonda ironia. Ciao Donatella, che la terra ti sia lieve.

Raffai, gentilezza e rigore. Un'icona della tv più vera. Paolo Scotti l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Addio a 78 anni al primo volto di "Chi l'ha visto?". Diceva: "Non so vivere con i dolori che racconto".

Donatella Raffai è morta ieri a Roma a 78 anni. Era malata da tempo. Nata a Fabriano l’8 settembre del 1943, era figlia di Antonio Raffai e di Maria Jelardi, entrambi nobili. Aveva esordito 16enne nel film «Dolci Inganni» di Lattuada per poi lavorare in discografia anche con Claudio Baglioni per la Rca. Dopo alcuni programmi radio, il successo arriva nel 1989 con «Chi l’ha visto» condotto nella prima edizione con Paolo Guzzanti. Dopo la Rai, passò a Mediaset per Giallo4 su Rete4. È stato il suo ultimo programma prima del ritiro definitivo.

C'era sempre una domanda, sempre la stessa, che i giornalisti ponevano a Donatella Raffai. Quando torna a casa dopo una puntata di Chi l'ha visto?, come riesce a dimenticare l'angoscia con cui ha dovuto convivere durante il programma, a contatto col dolore di tante persone? Anche la risposta era sempre la stessa: «Non ci riesco». Forse sta proprio in questa disarmante ammissione d'umanità unita alla laconica stringatezza della risposta - lo stile della giornalista marchigiana scomparsa ieri a 78 anni, dopo una lunga malattia, e giustamente ricordata come colei che (assieme a Paolo Guzzanti) conducendo per quattro stagioni il programma «investigativo» della Raitre di Guglielmi, dette prova, nel maneggiare una materia tanto inedita e insidiosa, di sobria asciuttezza, d'inattaccabile rigore. Erano gli anni in cui furoreggiava la «tv del dolore» e sarebbe stato facile, per un programma così, far scivolare il tutto verso le derive dello spettacolo più becero. Ma lo scabro stile senza fronzoli della Raffai era lì, a tenere la barra diritta; e la sua umanità, ben mascherata da un professionismo impeccabile, stemperava le inevitabili implicazioni morbose.

Non è un caso che un turbine di polemiche avvolgesse, da subito, il rivoluzionario programma. «Se uno vuol sparire senza spiegazioni, perché tampinarlo?», ci si chiedeva. Col diritto dello spettacolo, avrebbero risposto (avendone il fegato) i dirigenti di Raitre, che avevano subito intuito le enormi implicazioni emotive e i conseguenti, ragguardevoli risultati d'ascolto promessi dal format. E gli ascolti ci furono, subito, raggiungendo e attestandosi sui tre milioni anche nelle stagioni successive. Fortuna che con i primi ritrovamenti, e proprio grazie alla limpidezza a tutta prova della conduttrice, l'obbiettivo civico di Chi l'ha visto? bilanciò i rischi di una facile strumentalizzazione.

Grazie alla Raffai il pubblico partecipava e si emozionava, si, ma cercava anche di dare una mano. E spesso ci riusciva. Perfino la Polizia di Stato elogiò pubblicamente il format, per la collaborazione che forniva nel rintracciare persone scomparse, precisando di avvalersi spesso (come continua a fare tutt'oggi, che il testimone è passato a Federica Sciarelli) di indizi e segnalazioni forniti dai suoi telespettatori. Del resto era proprio nel campo della tv «utile», che la Raffai s'era fatta le ossa: un lontano esordio nel cinema (fece la comparsa in Dolci inganni, di Lattuada), qualche breve esperienza nel mondo della canzone (curatrice d'immagine per gli ancora giovani Nada e Claudio Baglioni) aveva infatti preceduto alcuni programmi radiofonici che già mettevano a fuoco la sua vocazione «sociale», come Radio anch'io o Chiamate Roma 3131, e un significativo debutto tv nel Telefono giallo di Corrado Augias. In seguito ci furono altri titoli, tutti targati Raitre e tutti variazioni sullo stesso tema dell'impegno civile: Filò, Camice bianco, Posto pubblico nel verde. A ulteriore prova della serietà della persona, anche dopo la vasta popolarità raggiunta fra il 1989 e il 1994 con le quattro edizioni di Chi l'ha visto? l'obiettivo rimase sempre quello: prima in Parte civile (dedicato alla denuncia di ingiustizie patite dai cittadini) e poi con Giallo 4 (prodotto da Retequattro, quando la giornalista si trasferì a Mediaset) la Raffai continuò a fare una tv di alto profilo civico, sempre dribblando le insidie di un banale sfruttamento morboso ai fini dell'Auditel.

In fondo anche nell'inattesa decisione che prese vent'anni fa, quando si allontanò dal video per ritirarsi nella sua casa di Morlupo, alle porte di Roma, per dedicarsi solo alla famiglia e senza mai cedere alle lusinghe d'un possibile (e forse sollecitato) rientro, c'è molto del suo modo d'intendere la tv, fatto più di sostanza che di apparenza. Tanto più in un ambiente come quello televisivo, che del presenzialismo ad ogni costo fa una delle sue leggi irrinunciabili, quella della Raffai fu una scelta anomala. Come anomalo era stato il suo professionismo. E forse chissà - anche condizionato dal logorìo emotivo che un lavoro bello ma difficilissimo come il suo inevitabilmente - doveva aver prodotto. Paolo Scotti

Marco Giusti per Dagospia il 10 febbraio 2022.

Tutti avevano paura di Donatella Raffai. Era il meraviglioso prototipo della grande “superjena” televisiva che fino allora esisteva solo nei film americani. Amata dai telespettatori, odiata da critici e rosiconi. 

Un modello e una maestra indiscussa, anche se il suo periodo di gloria, 1990-1992, è davvero limitato nel tempo, per tutte le conduttrici che la seguiranno. 

Non tanto le altre conduttrici di “Chi l’ha visto?”, il suo programma, quello con cui l’abbiamo sempre identificata e nato con lei, cioè le Sciarelli-Milella-ecc., ma anche tutte le Gruber-Berlinguer-Bignardi-D’Urso che verranno, senza scordare Maria De Filippi, Maria la Sanguinaria, che ne riprende i toni e la freddezza e il saper unire il dolore allo spettacolo televisivo.

Tutti agnellini a confronto con la Raffai. Attrice in gioventù per Alberto Lattuada in “I dolci inganni” (è una studentessa), discografica nell’RCA e addirittura comparsa in un video di Claudio Baglioni nel 1970 (“Una favola blu”), mezza proprietaria del Piper, era entrata in Rai nel 1974, ma solo dopo lunga gavetta alla radio era arrivata alla conduzione televisiva.

Riscoperta, progettata, “pettinata” da Lio Beghin e Angelo Guglielmi nella Rai Tre gloriosamente comunista e superaziendalista, dopo essere apparsa nei primi programmi in diretta sulla realtà, “Telefono giallo” e “Posto pubblico nel verde”, approda gloriosamente a “Chi l’ha visto?”, geniale invenzione di Lio Beghin, che esordì il 30 aprile del 1989 su Rai Tre, più o meno quando nasce sulla stessa rete Blob di Giusti-Ghezzi e il suo gemello di Canale 5, “Striscia la notizia” di Antonio Ricci. 

Tra i primissimi servizi di “Chi l’ha visto?”, allora presentato dalla Raffai in coppia con Paolo Guzzanti, ma venne stritolato presto come quasi tutti i maschi che avrà a suo fianco, il caso di Jennifer Muir, ragazza americana di 22 anni, ausiliaria dell’esercito americano, scomparsa dalla base militare di Bagnoli nel 1988, quello di Salute Boscolo, casalinga di 53 anni scomparsa da Sottomano di Chioggia.

Da subito è una star. Grazie al piglio, ai capelli biondi, agli occhialetti, all’occhio cattivo, alla totale padronanza scenica, alla sapienza da conduttrice radiofonica. 

Il suo successo è clamoroso e immediato. Magari un po’ grazie anche all’appoggio di Blob, allora programma bandiera delle rete e supermilitante sull’orrore della tv, che, col mio particolare interesse, dava grande spazio ai mostri delle famiglie italiane da dove scappavano i personaggi ricercati dalla Raffai e dai suoi segugi.

E molto, certo, grazie allo spazio e all’appoggio che le davano Angelo Guglielmi e il suo autore Lio Beghin, al punto da fondersi completamente col programma. Un po’ come la Leosini con “Storie maledette”, diciamo, o la Petrelluzzi, altra perla della Rete e di Guglielmi, con “Un giorno un pretura”. 

Nel 1990, dopo solo una stagione di “Chi l’ha visto?”, la Raffai vince ben due Telegatti, come “Personaggio dell’anno” e come “TV utile”.

Sul palco se ne uscirà con un “Credo che il pubblico mi abbia votato perché apprezza la mia semplicità” e con un “Credo che l’Italia fosse più sconosciuta prima dell’arrivo di Chi l’ha visto”. Possibile. 

Antonio Ricci, simpaticamente, un po’ a nome di tutti, la definì come “quella che emana una grande umanità da tutti gli artigli, è la versione turbo di Raffaella Carrà (Raffai=Raffa+Intercool), un po’ Monaca di Monza, un po’ Helga, la belva delle SS, indossa solo lingerie di cuoio nero e i ben informati dicono che non incomincia la trasmissione se prima non ha morsicato due doberman”.

Anche Blob, ricordo, giocava sul suo personaggio da zarina. Una volta cercò anche di farci causa per un accostamento che non le piacque per niente. Poi Guglielmi riuscì a calmarla. 

Ma è con lei che, indubbiamente, nascerà la piaga della tv del dolore, un percorso che coinvolgerà decine e decine di altri conduttori e programmi, da “La vita in diretta” ai folli collegamenti di Emilio Fede sul tg di rete 4. 

Impossibile non ironizzare sulla Raffai e sul suo serraglio di fuggiaschi. Dicemmo tutti che la commedia all’italiana di Risi e Monicelli era finita a “Chi l’ha visto?”. Ricordo un Carlo Freccero, appena tornato dalla Francia, che era letteralmente impazzito per “Chi l’ha visto?” della Raffai e ce ne spiegò importanza e funzionamento in una serata in piedi davanti alla tv di casa mia. 

Quando la Raffai, il 13 maggio del 1990, lascerà una prima volta il programma, si sposta immediatamente, il 27 maggio del 1990, su “Camice bianco”, del quale sarà conduttrice e regista, dove, nota Oreste Del Buono, allora critico del Corriere, “dedica cinque minuti di camera vorace alla ricucitura di un polpaccio. Questa sì che è televisione-verità”. 

Ma nel marzo del 1991, una sua puntata domenicale di “Chi l’ha visto?” su Rai Tre, con la bellezza di 5 milioni e 153 mila spettatori batte contemporaneamente “Indiana Jones” su Canale 5 e “Francesco” di Liliana Cavani con Mickey Rourke su Rai Uno.

La sua popolarità è tale che “se venisse proposta come presidente della Repubblica”, scrive Del Buono, “e il popolo televisivo potesse votare direttamente, arriverebbe anche a scalzare Cossiga al vertice con estrema facilità”. Boom! 

Nel novembre del 1991 diventa addirittura una sorta di Signora Marlowe per il suo nuovo programma “Parte civile”, dove dice che aiuterà il cittadino a difendersi dai soprusi e dagli intoppi burocratici. 

Gli attacchi, da parte dei critici, non diminuiscono, anzi. Si moltiplicano. 

Aldo Grasso, che ha preso il posto di critico televisivo che aveva il malizioso Oreste Del Buono, la punta da subito scovando, per sua stessa ammissione, l’infame Franti che è dentro di sé.

“Donatella Raffai è come Maurizio Costanzo, sono i primi della classe del dolore-spettacolo, i Derossi dello spot sociale. Ma credono davvero che con messaggi del tipo ‘Pagare il pizzo non sconfigge la paura’ i ‘Non diventare azionista della mafia’, la suddetta associazione mafiosa arretri?”. 

Ma intanto la tv del dolore è così sviluppata che un ospite, dice la stessa Raffai ai giornalisti, può prendere un gettone di 250 mila lire a puntata. Ospiti che oltre al dolore e ai guai non hanno tanto altra da mettere in mostra. Quello che realmente non so spiegare è il suo eclissarsi da “Chi l’ha visto?”, con un lento allontanamento da quella che era stata la sua trasmissione di maggior successo che avrebbe potuto condurre per anni.

Con nessuna delle sue altre trasmissioni riuscì a compiere lo stesso miracolo. Ma in quei due anni, fidatevi, non solo vinse qualsiasi battaglia, ma impose un tipo di conduzione al femminile che non avevamo mai visto e che arriverà fino ad oggi. 

Michela Tamburrino per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.  

Angelo Guglielmi la ricorda bene Donatella Raffai. E non è un ricordo che parte dal successo improvviso e stupefacente di un programma che lei condusse con grazia e pugno fermo come «Chi l'ha visto?». 

Le loro strade si incontrarono prima che lui diventasse il mitico direttore della terza rete. Guglielmi, quando conobbe la Raffai?

«La sua nascita professionale avvenne nella sede Rai del Lazio della quale ero responsabile. Mi parve una brava e bella signora, era moglie di un impresario di night club e lavorava sodo». 

Poi come proseguì la vostra conoscenza?

«Io diventai direttore di Rai3. Nel ricordo, la chiamai a lavorare da me alla rete e per saggiare le sue capacità le affidai una piccola serie di inchieste sugli ospedali romani. Mi piacque e pensai fosse in grado di assumere impegni più importanti».

Poi arrivò Telefono Giallo di Corrado Augias con Raffai?

«Telefono giallo nasce nella mia prima settimana da direttore. Siamo nell'ottobre 1987, Telefono giallo e Linea rovente con Giuliano Ferrara erano i miei primi due programmi. Poi, visto che quel genere di ricerca di persone scomparse appena sperimentato con Telefono giallo aveva molto colpito il pubblico, pensammo di creare un programma tutto dedicato».

Ci voleva il conduttore.

«Augias non lo volevamo distogliere dalla sua trasmissione e mi venne naturale pensare a Raffai che avevo già sperimentato e che era in grado di condurre. Al suo fianco c'era Paolo Guzzanti. Lei si dimostrò subito molto brava e la sua efficacia innervosì i competitor delle altre reti Rai. Soprattutto quando, visto il successo, decidemmo di doppiare le puntate settimanali». 

Guzzanti poi andò via.

«Sì, alla fine dell'anno mi disse che aveva dato il suo contributo ma voleva fare altro. Lei continuò a incarnare la trasmissione, fin dalla prima puntata quel mix di compassione e durezza, le famose unghie insanguinate che grondavano umanità, si disse, avevano conquistato il telespettatore». 

Quando capì che quel programma sarebbe stato un successo che sopravvive ancora oggi con Federica Sciarelli?

«Dal primo caso affrontato. Si trattava della scomparsa di una giovane marines del contingente americano di stanza a Napoli. Gli investigatori americani avevano supposto che un collega marines l'avesse uccisa ed erano pronti a processarlo. Rischiava la vita. Dopo la puntata la supposta donna scomparsa chiamò il Tg3 dicendo che 3 mesi prima si era innamorata e aveva seguito l'uomo senza pensarci due volte, ignara di tutto quello che era accaduto. Significava la forza della rubrica che appunto partì a livelli altissimi. Una grande conduttrice». 

Poi anche Raffai avrebbe voluto provarsi in altri programmi ma ebbe poche possibilità di farlo. Quando Chi l'ha visto? iniziò a perdere ascolti, voi la richiamaste a condurlo.

«Certo che la richiamammo, era perfetta in quel ruolo. Ma dopo 12 anni ci aveva detto che era stanca, che avrebbe voluto occuparsi di politica, voleva qualcosa che la gratificasse». Non era possibile accontentarla? 

«Avevamo Michele Santoro che copriva esattamente quel segmento e non potevamo prevedere doppioni. Allora fu lei a capire che non aveva più nulla da darci che noi non sapessimo già, era renitente e si ritirò».

Più che ritirarsi fece come le persone di cui si occupava a Chi l'ha visto?. Cambiò i numeri di telefono e sparì. Si ritirò in Francia con il suo compagno, un regista Rai in pensione. Lei che ne ha pensato?

«Apprezzai la sua signorilità. Andare via così, senza parlare, recriminare, lamentare. Aveva una sua poesia. Lei lontano per non interrompere la magia che aveva creato». 

Dunque non l'ha più sentita?

«Una volta la chiamai, qualche anno fa. Ero riuscito non so come a trovare il suo recapito. Facevano un evento che riguardava la rete e la mia direzione. Pensai che sarebbe stato giusto chiamarla. Ci parlammo affettuosamente, mi disse che non era tanto intenzionata a tornare in Italia ma che mi avrebbe dato una risposta precisa dopo qualche giorno. Non l'ho mai più sentita».

·        E’ morto l’attore Bob Saget.

Bob Saget, la verità sulla morte un mese dopo: sconcertante, cos'ha ucciso l'attore a soli 65 anni. Libero Quotidiano il 10 febbraio 2022.

Una sconcertante verità dietro la morte di Bob Saget, popolare attore comico americano morto il 9 gennaio scorso a Orlando, in Florida. Saget, 66 anni, diventato famoso come protagonista della sitcom Gli amici di papà andata in onda tra 1987 e 1995, è stato stroncato da un trauma cranico sottovalutato. L'interprete, conduttore e regista aveva infatti sbattuto la testa accidentalmente ma aveva ignorato il colpo ed era andato a dormire senza recarsi in ospedale. Dopo poco, è morto. 

A rivelarlo, un mese dopo, è stata la sua famiglia una volta raccolto il refertto dell'indagine condotta dalla polizia. L'incidente fatale è avvenuto nella sua stanza d'hotel a Orlando. Secondo gli inquirenti, nella camera non c'era traccia di droga o alcol, e nessun residuo di sostanza stupefacente è stato rinvenuto durante l'autopsia. Una morte drammaticamente banale, che a un mese di distanza ha commosso ancora di più i fan di Saget, l'indimenticabile Danny Tanner di Full House.

"Ha sbattuto il retro della testa contro qualcosa", spiegano i familiari dell'attore, senza fornire ulteriori dettagli. Il 65enne, tra l'altro voce narrante nella versione americana di How I Met Your Mother (una delle più amate e importanti serie tv degli ultimi 20 anni), era stato ritrovato senza vita la mattina dopo al Ritz Hotel di Orlando, dove aveva portato in scena il suo spettacolo comico I don't do negative Comedy Tour. "Sono tornato alla comicità come quando avevo 26 anni", aveva commentato sui social con entusiasmo, poche ore prima della sua tragica fine.

Bob Saget è morto per un trauma cranico: dopo il colpo era andato a dormire. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

L’attore e comico era stato trovato morto lo scorso gennaio nella sua stanza d’albergo. Era in viaggio per il suo tour teatrale. Nessuna traccia di alcol o droghe dall’autopsia. 

Bob Saget è morto per un trauma cranico. La famiglia dell’attore, popolarissimo negli Stati Uniti, ha fatto sapere che l’attore è mancato dopo aver sbattuto accidentalmente la testa. Un colpo, tra l’altro, ignorato dall’attore che è andato a dormire ed è morto poco dopo. Questo, al termine dell’indagine condotta dalla polizia dopo che il corpo di Saget era stato trovato senza vita lo scorso dieci gennaio, in una stanza di albergo a Orlando, in Florida. Era lì per una tappa del suo spettacolo, «I Don’t Do Negative Comedy Tour»: si era esibito la sera prima della sua morte, riscuotendo un grande successo. Nessuna traccia di droga o alcol è stata rivenuta durante l’autopsia.

La carriera

L’attore e comico, che aveva 65 anni, era conosciuto all’estero soprattutto per il suo ruolo nella sitcom «Gli amici di papà», ma era un volto estremamente popolare negli Stati Uniti dove ha condotto per anni «America’s Funniest Home Videos». Saget, inoltre, era il narratore di un’altra serie di successo come «How I Met Your Mother».

·        E’ morto Luc Montagnier.

Il sito francese France Soir annuncia la morte del virologo Montagnier, ma non ci sono conferme. La Repubblica il 10 febbraio 2022.

Il Nobel per la medicina nel 2008 negli ultimi tempi aveva abbracciato posizioni anti-vacciniste. Sui social si moltiplicano i messaggi di cordoglio, ma finora nessuna fonte ufficiale ha diffuso notizie certe sulle sue condizioni.  

Che sorte è toccata a Luc Montagnier? Sul virologo diventato icona No Vax circolano notizie contrastanti ed è diventato un caso in francia. Il sito France Soir mercoledì sera ha annunciato la morte del virologo Nobel per la medicina nel 2008 che negli ultimi tempi aveva abbracciato posizioni anti-vacciniste. Ma la notizia non ha al momento trovato altre conferme.

"All'età di 89 anni (18 agosto 1932 - 8 febbraio 2022), il professor Luc Montagnier si è spento all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine. Il dottor Gérard Guillaume, uno dei suoi più fedeli collaboratori, ci ha confidato che se ne è andato in pace, circondato dai suoi figli", si legge su France Soir.

Sui social si moltiplicano i messaggi di cordoglio, ma finora nessuna fonte ufficiale né altri media francesi e internazionali hanno confermato la morte del virologo.

"Morto Montagnier". Giallo sul Nobel idolo negazionista. Francesco De Remigis il 10 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Tutto è iniziato con un messaggio fin troppo asciutto su Twitter: «Luc Montagnier ci ha appena lasciato. Rip», ha scritto il quotidiano France Soir ieri mattina. «È morto serenamente l'8 febbraio 2022 alla presenza dei suoi figli. 18 agosto 19328 febbraio 2022. Pace all'anima di questo grande uomo». Nessuno riprende la notizia per ore: parte la corsa alle verifiche. Non ci sono dalla famiglia, ma neppure arrivano smentite. Dato il personaggio, Nobel per la Medicina nel 2008, biologo e virologo, da mesi attorniato non solo dalla compagna-assistente Suzanne ma pure da gruppi No Vax o No Pass che lo hanno invitato in giro per l'Europa e pure in Italia, la «voce» della sua morte segue canali paralleli per un intero giorno, senza conferme che non fossero quelle del quotidiano francese: secondo cui, Montagnier, sarebbe morto all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine. Social in fibrillazione: tra teorie del complotto globale azionato da governi pro-Big Pharma, che avrebbero ignorato la morte dello scienziato e accuse i familiari del virologo di non voler «pubblicizzare» il decesso a causa delle sue controverse posizioni sui vaccini anti-Covid. Neppure i grandi giornali transalpini hanno preso sul serio la notizia, carente di dettagli. Zero titoli su France24, BfmTv o altre emittenti nazionali. Tanto è bastato a innescare il giallo, cresciuto a dismisura, fin quando France Soir non aggiunge che «Gérard Guillaume, uno dei suoi più fedeli collaboratori» conferma la morte, avvolta nel mistero; risolto (forse) solo nella serata di ieri, quando Sergio Flores, segretario milanese di Italexit, avvalora la dipartita avvenuta martedì. Prima di Flores, solo una collega francese di Montagnier, Alexandra Henrion-Caude: «Addio caro professore», scrive senza citare il nome di Montagnier e parlando di lutto nazionale per uno scienziato. Mentre l'emittente Byoblu conferma la morte dedicando un maxi speciale all'amico «Luc». Francesco De Remigis

Luc Montagnier è morto? Solo due giorni fa... vaccino, terza dose e Aids: il caso si complica. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Continuano ad essere avvolte nel mistero le condizioni di Luc Montagnier. Il premio Nobel per la medicina non è intervenuto direttamente per smentire le voci che lo riguardano, e questo non è un buon segnale, ma al momento non vi è certezza che sia effettivamente morto. A dare la notizia è stato France Soir, secondo cui il decesso sarebbe avvenuto nella giornata di ieri, martedì 8 febbraio, davanti ai suoi figli.

Grande caos nell’universo no-vax, per il quale Montagnier è diventato un punto di riferimento per le sue posizioni e per la diffusione di alcune notizie scientificamente infondate sulla pandemia di Covid e soprattutto sui vaccini. A riguardo, soltanto lo scorso 4 febbraio erano arrivate segnalazioni alla redazione di Facta affinché venissero verificate le informazioni contenute in un post divenuto virale sui social, in particolare su Facebook. 

Il post in oggetto mostrava in primo piano una foto di Montagnier, accompagnata da una frase a lui attribuita: “Coloro che hanno preso la terza dose dovrebbero andare in un laboratorio e fare un test per l’Aids. Il risultato potrebbe sorprendervi. Dopodiché fate causa al vostro governo”. Si tratta però di una clamorosa fake news, dato che Montagnier non ha mai dichiarato nulla di simile. Resta invece il mistero ancora da risolvere sulla sua presunta morte. 

Luc Montagnier "è morto". Poi la smentita e un'altra conferma: mistero fitto e caos tra i no-vax, girano voci pazzesche. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Un mistero su Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008, il massimo punto di riferimento per l'universo no-vax globale. Il punto è: Montagnier è morto? Procediamo con ordine: la notizia del decesso è stata rilanciata su Twitter da France Soir, la morte sarebbe avvenuta nella giornata di ieri, martedì 8 febbraio, davanti ai suoi figli.

Peccato però che a stretto giro di posta sia arrivata una smentita da parte dei suoi famigliari. Finita? Nemmeno per idea: quindi una nuova conferma sul decesso da parte di Alexandra Henrion-Caude, una scienziata e ricercatrice.

Nel dettaglio, su Twitter, France Soir scriveva: "Le e professeur Luc Montagnier – scrive su Twitter France Soir – prix Nobel de médecine 2008, s’est éteint paisiblement le 8 février 2022 en présence de ses enfants. 18 août 1932 – 8 février 2022″. Ovvero, in italiano: il professor Luc Montagnier, Premio Nobel per la Medicina 2008, è morto pacificamente l’8 febbraio 2022 alla presenza dei suoi figli. 18 agosto 1932 – 8 febbraio 2022”.

Fake-news? Balle? Oppure è morto. Di conferme non ne sono arrivate, anzi le smentite. Ma immaginatevi cosa sta succedendo nella galassia no-vax, dove subito hanno iniziato a rimbalzare alla velocità della luce teorie del complotto e deliri assortiti. Montagnier, per inciso, lo scorso 15 gennaio ha preso parte a un raduno no pass a Milano.

Come detto, dopo le smentite, è arrivata per una conferma, quella della Henrion-Caude, scienziata e ricercatrice dell'Arn, Agence national de la recherch francese. Su Twitter ha scritto: "LUTTO NAZIONALE Si è semplicemente sacrificato al compito di salvare ciò che poteva ancora essere salvato. Un uomo di rara intelligenza, curioso di tutto. Il significato di servire fino alla fine Fedele alla scienza fino alla fine. Dolore intenso e immensa gratitudine GRAZIE CARO PROFESSORE!". Il sospetto, però, è che semplicemente commentasse le notizie uscite poco prima (anche se il suo legame con Montagnier sarebbe strettissimo).

Luc Montagnier morto, l'orrore. "Matteo Bassetti minacciato ma scompaiono lui e Di Donno". Libero Quotidiano il 10 febbraio 2022.

La morte di Luc Montagnier scatena il lutto tra i no vax italiani e la vergogna degli stessi contro Matteo Bassetti e i virologi italiani. Il premio Nobel francese è morto a 89 anni in Francia, anche se la notizia è stata confermata solo da France Soir e, in Italia, dal sito Byoblu, punto di riferimento della galassia degli anti-siero e dei No Green pass. Su Twitter, il cordoglio (e il complottismo) è stata un'onda prevedibile e impressionante. Tra i commenti di personaggi pubblici da segnalare quelli di Francesca Donato, europarlamentare uscita dalla Lega lo scorso settembre e ora "voce politica" del movimento. "Un pensiero colmo di gratitudine e profondo rispetto per un uomo straordinariamente capace, retto, indipendente e trasparente. Le sue parole acquistano oggi ancora più valore".  

Montagnier era stato a Milano poche settimana fa, già fisicamente provato, per scendere in piazza con i No Green pass. Anche Paolo Becchi, filosofo, su Twitter lo ha ricordato commosso: "Un importante scienziato, che  non ha rinunciato ad essere controcorrente, ci ha lasciato. Una notizia tristissima per tutti gli uomini liberi".

Ma sono le parole dei "semplici" utenti a colpire di più. "Sarai ricordato da tanti per aver cercato di smascherare un sistema di corrotti. Sarai ricordato per il tuo buon cuore, la tua lealtà e la tua intelligenza. Fai buon viaggio NOBEL", scrive Elena. La pagina "ufficiale" Covidiots sottolinea: "È stato un faro di ragionevolezza e lucidità nella notte più buia della ragione e della falsa scienza. Grazie prof Montagnier. La nostra battaglia di libertà continuerà anche nel tuo solco: di verità e vera scienza. Riposi nella pace eterna l'anima tua".

Quindi, spazio alle parole più velenose. Minerva osserva: "Chiedo un attimo di raccoglimento per ricordare un uomo che il 15 di gennaio, a 90 anni, ha scelto di fare il suo ultimo viaggio in Italia in difesa del popolo italiano…grazie Prof. Montagnier!". "A parte l'età - scrive Massimiliano Mirto - non vi pare che negli ultimi tempi alcuni personaggi, diciamo fastidiosi, muoiano sempre al momento giusto? Così tanto per dire". Gli fa eco l'utente atnedesyo: "Come mai milioni di minacce arrivano sempre a Burioni e Bassetti ma poi alla fine muoiono Montagnier e De Donno?". 

Luc Montagnier, "ecco chi lo ha ammazzato": dopo la conferma sulla morte, l'accusa più infame. Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

In attesa di conferme ufficiali sulla presunta morte di Luc Montagnier, in rete l’universo no-vax si è già scatenato alla ricerca di un colpevole. Quest’ultimo sarebbe da ricercare nel “sistema” che rifiuta “voci fuori dal coro” come quella del professore 89enne, che però negli ultimi tempi ha propagato una serie di acclarate fake news sulla pandemia di Covid e soprattutto sul vaccino. 

Il premio Nobel per la medicina è stato dato per morto da France Soir: la conferma sarebbe arrivata dal dottor Gerard Guillarme, uno de più fedele collaboratori del professore, che si sarebbe spento “in pace e circondato dai suoi figli” all’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, a noi di Parigi. Spesso criticato dalla comunità scientifica per le sue posizioni no-vax, Montagnier era stato a Milano lo scorso gennaio per partecipare alla manifestazione organizzata da Gianluigi Paragone.

Quest’ultimo su Facebook si è espresso sulle notizie diffuse in Francia ma non ancora confermate sulla morte del professore: “Noi non abbiamo la conferma, ma non riusciamo neanche a stabilire un contatto con il suo entourage. Stavamo parlando di un progetto, ma da qualche giorno non riuscivamo ad avere un feedback.  Nessuno al momento ha la certezza, mi è difficile riuscire a dire qualcosa di più e di diverso”.

Luc Montagnier è morto, "si è spento in pace". La conferma del collaboratore scatena il caos: l'agghiacciante teoria del complotto. Cos'è successo? Libero Quotidiano il 09 febbraio 2022.

Oramai sembra proprio ufficiale. Luc Montagnier è morto. Nonostante in molti abbiano bollato da subito la notizia lanciata questa mattina da France Soir come una "fake news", ora lo stesso portale transalpino ha pubblicato un articolo che non lascerebbe più spazio a dubbi. Il dottor Gerard Guillaume, uno dei più fedeli collaboratori del Premio Nobel, avrebbe infatti confermato il decesso, aggiungendo che Montagnier si sarebbe "spento in pace, circondato dai suoi figli" all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, a nord di Parigi.

La notizia della sua morte ha scatenato il popolo no vax che si è a sua volta spaccato su due diverse teorie complottistiche. Una parte di essi infatti ritiene che il premio Nobel sia vivo mentre altri sostengono addirittura che sia stato ucciso. Montagnier, biologo e virologo francese, è stato "Ricercatore Emerito" al Cnrs (il centro nazionale di ricerca scientifica in Francia), nonché professore all'Institute Pasteur di Parigi e direttore del centro di biologia molecolare del Queens College di New York.

Dopo lo scoppio della pandemia da Covid Montagnier si è poi schierato contro i vaccini diventando il simbolo e una icona per i no vax. Lo scienziato ha vinto il Premio Nobel per la Medicina nel 2008 per i suoi studi sull'HIV. Spesso criticato dalla comunità scientifica, Montagnier si è sempre battuto per una "scienza libera".

Luc Montagnier morto, il video di Gianluigi Paragone: "Quello che sappiamo sul professore". Il Tempo il 09 febbraio 2022.

Quando la notizia sulla morte di Luc Montagnier sembra ufficiale e non più una fake news, il leader di Italexit Gianluigi Paragone irrompe sui social con una diretta. "Cosa sappiamo sul professore... Perdonatemi - spiega Paragone in un video - se non riesco a dire molto e a esprimere quello che sento. Il nostro era un progetto nato dopo l'incontro a Milano prevedeva di mettere in piedi un coordinamento di cui Montagnier sarebbe stato il presidente".

Il giallo sul decesso del prof non è stato ancora chiarito nonostante in molti abbiano bollato da subito la notizia lanciata questa mattina da France Soir come una bufala: ora però lo stesso Paragone teme il peggio perché "da giorni anche noi non riusciamo più a metterci in contatto con lui" spiega il parlamentare.

A Milano lo scorso 15 gennaio il virologo francese insignito del premio Nobel per la Medicina nel 2008 era presente alla manifestazione promossa da Italexit di Paragone. Lo scienziato si era scagliato contro i vaccini che "non proteggono - diceva -ma favoriscono altre infezioni". Secondo Montaigner "la proteina utilizzata nei vaccini in realtà è tossica" e somministrarli ai bambini è "un crimine assoluto" mentre "saranno i non vaccinati a salvare l'umanità".

Abbiamo tentato di verificare la notizia della morte di Luc Montagnier, ecco il risultato. Rec News dir. Zaira Bartucca il 10 Febbraio 2022.

Tutto è iniziato con un articolo di France Soire, poi ripreso da alcuni siti italiani senza verifiche dirette. Tanto che è iniziato a circolare il dubbio che lo scienziato in realtà sia vivo. Abbiamo tentato di saperne di più interrogando due contatti francesi

A circa 24 ore circola l’affermazione che Luc Montagnier – il Nobel francese per la Medicina che nel 1983 ha isolato il virus dell’HIV e che negli ultimi anni ha espresso delle riserve sui vaccini anti-covid – è morto.

Tutto è iniziato con un articolo di France Soir, poi ripreso da alcuni siti italiani senza verifiche dirette. Tanto che è iniziato a circolare il dubbio che lo scienziato in realtà fosse vivo. Abbiamo tentato di saperne di più interrogando due contatti francesi, Jean Moucheboeuf – consigliere municipale di Rassemblement National e della Destra Popolare – e Jerome Riviere, eurodeputato e vicepresidente del movimento Reconquete! Chiediamo a Moucheboeuf se conferma la notizia della morte e risponde “Oui a priori”, ma quando domandiamo il motivo della conferma il riferimento è sempre a France Soir e a un altro sito, Sud Radio. Riviere ci rimanda invece al tweet di addio del microbiologo Didier Raoult.

In attesa di altre conferme o mancate conferme, si può sicuramente dire che l’articolo di France Soir è un po’ poco per giungere alla conclusione certa che Montagnier sia deceduto, tanto più che ormai da tempo è iniziata la corsa a imbastire storie su presunti decessi di medici critici e per così dire anti-sistema. Un’abitudine che di sicuro ha solo il tentativo di scoraggiare chi vuole esprimere pareri dubbiosi o critici sui vaccini e su tutta la narrazione ufficiale sul covid. Nel caso di Montagnier, fa riflettere che per il momento nessuna parola di ricordo e di compianto sia giunta dall’Istituto Pasteur di Parigi (dove negli anni ’80 ha isolato il virus dell’HIV) né dal CNRS, il Centro Nazionale di Ricerche Scientifiche dove lo scienziato ricopriva la qualifica di direttore emerito delle ricerche. Silenzio per ora anche dall’ospedale dove si dice Montagnier fosse ricoverato, dalla moglie Dorothea Ackerman e dai figli Jean Luc e Anne-Marie e dai conoscenti e dai colleghi, sia fatta eccezione per i collaboratori che però sono intervenuti sulla scia di quanto pubblicato da France Soir. Lasciamo fuori i grandi media che non brillano per attendibilità, ma anche da parte loro il silenzio è stato assoluto, completo, e nel caso di uno scienziato da sempre così in vista è abbastanza strano.

“Stanno tentando di nascondere la morte di Montagnier”

Sui social e su molti siti a chiacchiera libera sta dunque proliferando l’idea che esista un tentativo da parte dei mass media di nascondere la morte dello scienziato. I contenuti – dai commenti ai profili dello “Staff Montagnier” che sono sbucati a ridosso dell’annuncio del decesso – vanno a sicuro vantaggio di chi ha scritto che il medico sia morto, ma che c’è di vero? Le Figaro e Le Monde e le agenzie di stampa francesi continuano a non scrivere nulla sull’argomento, e anche i tg francesi stanno ignorando bellamente la questione. Pur ammettendo le colpe e i limiti innegabili dei media commerciali, “bucare” una notizia del genere – se davvero fosse tale – non sarebbe una grande idea. Anche se si tratta di una personalità che è stata critica verso il vaccino e verso la narrazione covid dominante. Vista l’età di Montagnier, poi, sarebbe bastato poco per dare la notizia con un sottotitolo, attribuendo le cause del decesso all’età o alla malattia. Anche allora si sarebbe dato il fianco ai “no-vax” che il mainstream non vuole mai ascoltare, se non per travisarne le ragioni? Possibile, e in ogni caso il tutto verrà chiarito non appena arriverà conferma o smentita dal nucleo ristretto di Montagnier.

(ANSA il 10 febbraio 2022) - È morto a Neuilly-sur-Seine, alle porte di Parigi, il professor Luc Montagnier, premio Nobel per i suoi studi sull'Aids, diventato negli ultimi anni un riferimento dei no vax. La notizia circolava da ieri sera sui social. Oggi l'ha confermata il quotidiano Liberation: Montagnier aveva 89 anni.

Morto Luc Montagnier, i social no vax si scatenano: «È stato ucciso da Big Pharma». Leonard Berberi su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

Su Facebook e Twitter spuntano le teorie più strampalate sul decesso del Nobel no vax. Per qualcuno è «stato ucciso perché doveva testimoniare a Norimberga 2» 

Il professore Luc Montagnier? Dopo un giorno intero nel dubbio, con voci che si sono rincorse e il silenzio dei media francesi — al netto del giornale France Soir, il primo a scriverlo — il mondo social è apparso disorientato, diviso com’è da mesi tra «no vax», «nì vax» e «sì vax». «È morto di Covid», è una prima ipotesi che sa di beffa, rigorosamente confinata in un post su Facebook o cinguettio su Twitter. «No, è morto proprio dopo aver fatto il vaccino anti-Covid», replica parte della platea che arriva a negare l’esistenza del virus. «Macché, l’hanno ucciso i governi pro-pharma», è la spiegazione degli anti-vaccino.

L’annuncio

Il mistero inizia la mattina del 9 febbraio. «Luc Montagnier ci ha appena lasciato. Rip», scrive sul suo sito France Soir. «È morto serenamente l’8 febbraio 2022 alla presenza dei suoi figli», specifica l’articolo. Solo che passano i minuti, trascorrono le ore e nessun altro grande media transalpino riprende la notizia, per confermarla o smentirla. Silenzio da Le Monde e Le Figaro. Silenzio pure dalle tv all news francesi che pure non sono poche. La famiglia dello scienziato 89enne — premio Nobel per la Medicina poi rinnegato dai suoi colleghi per le sue posizioni antiscientifiche su Hiv, vaccini e le origini del coronavirus — non conferma. E nemmeno smentisce.

La conferma

Il 9 febbraio passa così, tra molto rumore social e poco sui giornali e sulle tv. Fino a quando, ma ormai è il pomeriggio del 10 febbraio, la conferma del decesso arriva dal quotidiano francese Liberation, che accerta la veridicità dell’articolo di France Soir . «Vogliamo sapere se è morto e come è morto», chiedono in diversi. «Il “silenzio complice” che sta avvolgendo la scomparsa di Montagnier, che fa seguito al semi silenzio per la morte di De Donno (il medico suicida l’estate passata, “padre” della terapia col plasma iperimmune, ndr), la dicono lunga sul fatto che il regime apolide ufficiale si sia tolto di mezzo due figure scomodissime e ingombranti!», cinguetta un altro.

Gli hashtag

Sui social con gli hashtag #Montagnier e #LucMontagnier spuntano le ipotesi più particolari, tirando in ballo simboli di questo Paese e ferendo gravemente pure la lingua italiana. «Se verrebbe (sic) confermata la morte di #Montagnier, sarebbe spontaneo pensare ad un omicidio mirato, il cui mandante andrebbe cercato tra quelle che Falcone definiva “menti raffinatissime”», scrive @MartinKeufaver con un account che si mostra come «Gatto Thunberg» con tanto di emoji del mattone e della bandiera italiana di fianco.

Spunta la Norimberga 2

Non che, fuori dai confini nazionali, le cose vadano meglio. Anzi. Perché a leggere @SylvieGelinet Montagnier rientra nel filone di morti di scienziati tutti presunti appartenenti ai team di lavoro sull’Aids. «Avete capito ora come hanno annientato il vostro sistema immunitario? — twitta — Vi hanno iniettato i retrovirus Hiv 1 e 2». «#LucMontagnier il 12 febbraio doveva testimoniare a Norimberga 2», scrive @marco_malanga, rivelando al mondo un fantomatico processo contro non si sa chi allestito non si capisce dove. «La pagheranno tutti al processo non avranno nessun posto dove nascondersi». Non mancano, però, anche gli interventi ironici. «La coerenza di Luc Montagnier: persino della sua morte non ci sono prove a supporto», cinguetta Spinoza, forse il più famoso profilo satirico italiano. Per arrivare alla chiosa di un altro, non senza polemica con gli anti-scienza: «Gli sia piatta la terra».

Luc Montagnier? C'è morte e morte, per un personaggio scomodo solo parole di circostanza. Marco Cosmai, Psicoanalista-Sessuologo, su Libero Quotidiano il 22 febbraio 2022.

Tempo fa la morte di un calciatore della massima serie comportò commemorazioni (con tutto il rispetto per una brava persona) oltre ogni misura. Sarebbe stato lo stesso per un giocatore di rugby? Piccola premessa per un'analisi obiettiva, quindi impietosa, delle tracimazioni massmediologiche riguardo certe morti e le cortine fumogene per altre di persone che hanno fornito contributi più concreti per migliorare la qualità della vita e che alla fine sono risultati scomodi in quanto avversi ai poteri forti, specie se le tante primavere permettevano lussi che i più giovani in carriera, specie politica, non si potrebbero mai permettere (né tantomeno prenderebbero in considerazione).

Ancora tempo fa il sequestro di una piagnucolosa giornalista di un quotidiano di sinistra che si diceva rischiasse una giustizia sommaria; la sua (prevedibile) liberazione ebbe il potere di far interrompere i programmi televisivi per comunicare una gioia che avrebbe dovuto essere condivisa da tutti (come avvenne più di mezzo secolo fa per la difficile ma riuscita gravidanza di una famosissima attrice nostrana). Questa è l'Italia mediatica. Stesse modulazioni negli stiracchiati ditirambi per un musicista definito dopo morte sublime maestro se non sorta di padre dell'intera musica contemporanea. La recente scomparsa di un europarlamentare nostrano ha contemplato celebrazioni elevate a una sintesi di almeno una decina dei maggiori statisti di quest'epoca. C'era un genio della politica e restava confinato all'Europarlamento sia pure con una carica di prestigio? Con tutto il rispetto per una persona comunque garbata e misurata, si sono oltrepassati anche stavolta certi limiti. Lodi sperticate anche da parte di chi sapeva molto poco del personaggio.

La fine altrettanto recente di un'attrice, certamente brava e brillante ma circoscritta per lo più ai ruoli tipici della commedia italiana ha dilatato a sua volta gli spazi massmediologici. Si deve però tristemente concludere stigmatizzando la morte ovattata di uno scienziato ormai novantenne che (lasciando da parte il suo Nobel, premio sempre più discusso) ha dato molto all'umanità con le sue ricerche e scoperte. Ma da tempo, con ostinazione e coraggio, remava contro una certa politica sanitaria. D'accordo, gli scienziati sono meno noti dei personaggi dello spettacolo (in senso lato) meritava però, torti o ragioni, qualcosa di più di spezzettate parole di circostanza. 

Marco Cosmai, Psicoanalista-Sessuologo.

È morto Luc Montagnier. Dal Nobel per gli studi sull'Aids a idolo No Vax. Anais Ginori su La Repubblica il 10 febbraio 2022.  

Il virologo francese aveva 89 anni. La notizia del suo decesso si era diffusa ieri ed è stata confermata oggi. Negli ultimi anni era stato emarginato dalla comunità scientifica per le sue posizioni sempre più controverse, dai vaccini al Parkinson all'Hiv stesso. È morto Luc Montagnier, premio Nobel diventato icona del movimento No Vax. La notizia, rivelata da France Soir ieri sera, è rimasta a lungo senza conferme ufficiali. È il quotidiano Libération che ha avuto accesso al certificato di morte depositato presso il comune di Neuilly in cui c'è l'ospedale dove era ricoverato lo scienziato di 89 anni. "Se n'è andato in pace, circondato dai suoi figli", ha detto il dottor Gérard Guillaume, uno dei suoi più stretti collaboratori, parlando con France Soir, diventato uno dei media di riferimento della galassia No Vax. La scomparsa del virologo, noto per aver scoperto il virus dell'Hiv, resta avvolta dal riserbo assoluto e non si conoscono le cause del decesso.

In prima linea nella contestazione contro la vaccinzione anti-Covid, Montagnier era stato invitato a metà gennaio nella manifestazione organizzata a Milano dal senatore Gianluigi Paragone. "Saranno i non vaccinati a salvare l'umanità", aveva detto dal palco lo scienziato accolto da un'ovazione del migliaio di presenti. "All'interno dei vaccini - aveva proseguito - è contenuta una proteina tossica. Ci sono tanti morti e numerosi giovani sportivi hanno problemi cardiaci importanti".

Le polemiche sui vaccini e sul Parkinson

Montagnier era stato emarginato dalla comunità scientifica francese negli ultimi anni. Ancora prima della pandemia, nel 2017, era stata lanciata una petizione firmata da centinaia di esperti indignati dalla sua crociata contro la legge francese che aumentava i vaccini obbligatori per i bambini. Il grande scienziato che girava il mondo per conferenze, con una lunga lista di premi e onorificienze, invitato all'Eliseo da Nicolas Sarkozy, era diventato un infrequentabile Oltralpe. Marc Gentilini, membro dell'Accademia di Medicina, aveva denunciato una "patetica deriva". Nel 2009, un anno dopo aver ricevuto il massimo riconoscimento dall'accademia svedese, Montagnier aveva sostenuto che un buon sistema immunitario poteva bastare a proteggersi dall'Aids. Poi aveva proposto di curare l'autismo con gli antibiotici, di combattere il Parkinson di Papa Wojtyla con il succo di papaya. 

L'"esilio" in Cina

Nato nella Loira, figlio di un commercialista, con una militanza comunista in gioventù, aveva scelto di accompagnarsi negli ultimi anni a personaggi controversi, come il paladino anti-vaccini, il medico ultraconservatore Henri Joyeux. È stato amico di Jacques Benveniste, l'autore di una presunta "memoria dell'acqua" per dimostrare l'efficacia dell'omeopatia. Ogni volta che veniva attaccato, Montagnier si difendeva presentandosi come una vittima del "sistema". E spesso rifiutava di parlare ai giornalisti accusati di "deformare il suo pensiero". Dopo aver denunciato un "clima di terrore intellettuale" in Francia, aveva scelto di "esiliarsi" in Cina, creando una fondazione di ricerca nell'Università Jiao Tong di Shanghai. Il suo obiettivo, spiegava allora, era costruire un "approccio pluridisciplinare". Nella terra del Dragone, diceva, c'era più "apertura e dinamismo" che in Francia. 

Alla fine anche il sogno cinese era finito. Nel frattempo le varie società che gestivano i suoi brevetti in Francia sono quasi tutte chiuse o fallite. L'Unesco ha tolto gli stanziamenti alla fondazione mondiale per la ricerca e la prevenzione dell'Aids creata nel 1993 e di cui era presidente. Montagnier viveva in una dimora ottocentesca a Plessis-Robinson, placida campagna a sud di Parigi. All'Institut Pasteur, dove Montagnier ha lavorato alla scoperta dell'Hiv ed era ancora professore emerito, non era più il benvenuto. L'imbarazzo più forte era quello di Françoise Barré-Sinoussi con cui Montagnier ha scoperto il virus dell'Aids al Pasteur e poi ha condiviso il riconoscimento del Nobel. La virologa non ha più voluto avere rapporti con il suo collega. Ed è stata chiamata da Emmanuel Macron a presiedere uno dei comitati scientifici consultati regolarmente sull'emergenza sanitaria.

Fine del giallo, Luc Montagnier è morto. Spuntano le prove del decesso: "Se n'è andato in pace". Il Tempo il 10 febbraio 2022.

Dalla Francia mettono fine al giallo e alle voci che da ieri si rincorrono dopo l'annuncio di FranceSoire, finalmente confermato dalla stampa transalpina: Luc Montagnier è morto. Il decesso all'età di 89 anni dello scienziato, premio Nobel per la Medicina nel 2008 in virtù dei suoi studi sul virus dell'Hiv, risale a martedì 8 febbraio, nell’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, alle porte di Parigi.

Diversi media francesi danno ormai la notizia come certa e sembra che non ci siano più dubbi. Il quotidiano Libération ha avuto accesso al certificato di morte depositato presso il comune di Neuilly. Il giornale cattolico La Croix’ ha avuto conferma dal sindaco della cittadina francese. “Se n'è andato in pace, circondato dai suoi figli”, ha detto il dottor Gérard Guillaume, uno dei suoi più stretti collaboratori, parlando con FranceSoir,

Montagnier, luminare degli studi in virologia, era diventato negli ultimi due anni una figura controversa e "pesante": i gravi dubbi espressi sui vaccini anti-Covid e su vari aspetti della pandemia e il "peso" del Nobel conquistato sul campo lo avevano trasformato in un idolo dei no vax mentre molti studiosi "ortodossi" lo avevano screditato.  Negli anni le sue posizioni sono state sempre più controverse rispetto alla comunità scientifica anche se Montagnier, direttore emerito del Centre national de la recherche scientifique e dell’Unità di oncologia virale dell’Istituto Pasteur di Parigi, fu pioniere nella ricerca del virus responsabile dell’Aids, insieme a Françoise Barré-Sinoussi e Jean-Claude Chermann, studi che gli valsero il premio Nobel per la Medicina. Una scoperta, però, accompagnata da forti polemiche con lo scienziato americano Robert Gallo, che scatenò un’accesa disputa internazionale su chi dei due potesse fregiarsi della paternità della ricerca. Non mancarono poi, all’epoca del Nobel nel 2008, rivalità anche ’interne' con i colleghi del suo stesso istituto che parteciparono alla scoperta premiata con il Nobel.

Negli anni, però, le posizioni di Montagnier si sono fatte sempre più critiche rispettomedicina ufficiale: da quelle sulla relazione tra vaccini e autismo, a quelle sullo stesso Aids, a quelle sulla cosidetta ’memoria dell’acqua' principio alla base dell’omeopatia, fino al passato recente su Covid-19, infezione rispetto al quale ha sempre sostenuto, riguardo all’origine e alla diffusione del virus Sars-CoV-2, l’ipotesi di un complotto ad hoc. Il 5 Gennaio 2022 Montagnier aveva presenziato a Milano alla manifestazione 'no green pass' organizzata da Italexit di Gianluigi Paragone. 

Solo Giorgia Meloni ricorda Montagnier, così conquista il popolo no-vax. Il Tempo il 10 febbraio 2022.

Alla fine del giorno in cui la notizia della scomparsa di Luc Montagnier è stata confermata, dopo 24 ore di voci incontrollate, nessun politico di peso ha commentato. Tranne Giorgia Meloni che con un post su Facebook ha scritto: "Ci ha lasciati Luc Montagnier, uno dei più grandi scienziati del nostro tempo, un premio Nobel e un uomo libero che ha fatto della ricerca scientifica una missione di vita. Riposa in pace".

Un messaggio di cordoglio che farà discutere, quello per lo studioso premio Nobel famoso per le sue scoperte sul virus dell'Hiv e diventato recentemente un punto di riferimento per gli scettici del vaccino anti-Covid in virtù delle prese di posizione, contrastate da grana parte della comunità scientifica, sulla pandemia. In queste ore la leader di Fratelli d'Italia è tornata spesso a parlare del vaccino soprattutto per la sua dichiarazione sulla figlia. Intervistata dal direttore della Stampa, Massimo Giannini, aveva detto: "Stiamo facendo delle cose surreali che non hanno alcuna base scientifica. Io non vaccino mia figlia, il vaccino non è una religione, è una medicina, uno strumento. La possibilità per un minore di morire di Covid è pari allo zero virgola. Il vaccino non ferma il contagio, io mi vaccino per me stessa". Parole per le quali è stata attaccata a tutto spiano. 

Tanto che sempre giovedì 10 febbraio la presidente di FdI ha postato un video al fulmicotone: "Ci sono discussioni che servono a distogliere l’attenzione. Sono cinque giorni che la stampa italiana parla della Meloni se vaccina o non vaccina la figlia. Non è un tema che appassiona gli italiani che sono preoccupati da altre questioni. Abbiamo un caro energia, un caro materie prima e affronteremo un caro grano che porterà a un aumento del pane. Da parte del governo dei migliori non c’è uno straccio di strategia, si parla al massimo di come tamponare". 

Tra i pochi a dare solidarietà alla Meloni c'è Matteo Salvini. "Queste sono scelte che spettano a mamma e papà e pediatri, che non sono oggetto di dibattito politico per quello che mi riguarda" ha detto il leader della Lega a Radio Capital dichiarando che non vaccinerà contro il Covid-19 la figlia che frequenta la scuola elementare. Sulla scomparsa di Montagnier, Salvini non ha commentato. 

Da Premio Nobel a guru di ogni complottismo. Il vero mistero è stata la vita di Montagnier. Maria Sorbi l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Sposando verità antiscientifiche aveva un seguito enorme. E molte ombre

Verrà ricordato come il pioniere delle ricerche contro l'Aids o come l'idolo dei no vax? Sarà il tempo a dirlo, a conferma del fatto che non siamo mai una sola cosa. Luc Montagnier è stato sia il premio Nobel illuminato degli anni Ottanta, sia il suo opposto, cioè un uomo che a un certo punto della sua vita ha fatto dell'irrazionalità e dell'anti scienza la sua bandiera. A poche ore dalla sua morte, i social e le chat degli anti vaccinisti lo stanno consacrando come «colui che ha cercato di smascherare un sistema di corrotti» e promettono di «continuare la battaglia nel suo solco». «Voi non vaccinati salverete l'umanità» li aveva «benedetti» lui meno di un mese fa in piazza a Milano, sentenziando (tra gli applausi) che è «un crimine vaccinare i bambini».

L'uomo - anziano, fragile, contraddittorio - non c'è più. Ma le sue parole - senza alcuna fondatezza scientifica - restano, pesanti come pietre. Anzi, rischiano di venir consacrate a vangelo dal popolo di chi vede nella campagna delle vaccinazioni e nel green pass una dittatura sanitaria.

Per ore la morte di Montagnier, 89 anni, avvenuta martedì nell'ospedale di Neuilly-sur-Seine, alle porte di Parigi, è stata avvolta dal mistero. E un po' di mistero resta anche su tutta la carriera dell'ex premio Nobel, screditato dalla comunità scientifica, già nel 2017, prima della pandemia per la sua deriva «alternativa». Degna più del guru di un centro olistico che di un uomo di scienza. Montagnier aveva teorizzato, ovviamente senza tesi scientifiche a supporto, una correlazione tra autismo e vaccini. Aveva raccontato alle mamme dei bambini autistici che potevano curare i loro figli con l'antibiotico. Sosteneva che il Parkinson si poteva combattere con la papaya e appoggiava il principio dell'omeopatia e della memoria dell'acqua. Già ai tempi delle scoperte sull'Hiv, fu al centro di forti polemiche con lo scienziato americano Robert Gallo, e si scatenò un'accesa disputa internazionale su chi dei due potesse fregiarsi della paternità della ricerca. Non mancarono poi, all'epoca del Nobel nel 2008, rivalità anche «interne» con i colleghi del suo stesso istituto che parteciparono alla scoperta premiata con il Nobel. L'anno dopo Montagnier negò perfino l'origine virale dell'Aids, sostenendo che «un buon sistema immunitario» è in grado di lottare contro l'Hiv. Di fatto contestò se stesso, come se non fosse stato lui a scrivere l'articolo pubblicato sulla rivista Science nel maggio del 1983, in cui descriveva per la prima volta un retrovirus umano trovato in tutti i malati di Aids. Nel 2010, a circa 80 anni, Montagnier, trasferitosi a Shanghai, in un colloquio con la stessa rivista riferiva di essere impegnato in studi sulle «onde elettromagnetiche prodotte dal Dna a contatto con l'acqua». Lavori da molti ritenuti folli, che hanno finito per screditare il virologo agli occhi della comunità scientifica, consegnandolo nelle mani della folla no vax. Maria Sorbi

Luc Montagnier morto, "non posso confermare": indiscrezioni clamorose sulla causa del decesso. Libero Quotidiano l'11 febbraio 2022.

La notizia della morte di Luc Montagnier, avvenuta l'8 febbraio, dopo due giorni di indiscrezioni e mancate conferme, è stata ufficializzata soltanto ieri, giovedì 10 febbraio. Non dalla famiglia ma dal quotidiano Liberation, che nella sua versione online ha scovato il certificato di morte del premio Nobel, lo scopritore del virus dell'Hiv.

Montagnier, come è noto, negli ultimi anni - è morto a 89 primavere - era diventato il punto di riferimento del complottismo-Covid mondiale, così come già da tempo era il punto di riferimento della galassia no-vax pre-coronavirus. Il virologo, inoltre, era stato ripudiato dalla comunità scientifica francese ed europea. La morte è avvenuta all'ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, una clinica privata alle porte di Parigi: la prima indiscrezione era arrivata da France Soir, ormai organo "ufficiale" delle posizioni alternative sulla pandemia in Francia.

Il decesso, unito al fatto che sono mancate per due giorni, ha ovviamente scatenato l'armata complottista: è stato ucciso, lo hanno eliminato e via dicendo, in un crescendo di deliri e nefandezze. A tal proposito, il professore di filosofia René Chiche, molto popolare in Francia, ha commentato: "È stato il suo ultimo colpo da maestro, ha voluto che fosse avvertito soltanto France-Soir, è stato il suo ultimo calcio all'establishment".

Ma non è tutto. Il punto è che resta il mistero fitto sulle cause di morte. E, ancor più clamoroso, inizia a filtrare il sospetto che a uccidere Montegnier sia stato proprio il Covid. "Non spetta a me comunicare informazioni di questo tipo - ha dichiarato il dottor Guillame -, spetta alla famiglia decidere cosa dire. Io posso solo dire che se n'è andato in pace, con dignità, accanto ai suoi cari. Era molto anziano, malato da tempo, questa volta il suo cuore ha ceduto", ha concluso. Per inciso, Montagnier sosteneva che i vaccini anti-Covid fossero "veleno". E il mistero, sempre più fitto, continua....

È morto Luc Montagnier, il Nobel divenuto paladino dei no vax. Confermata da altri media francesi la notizia che circolava da giorni. Lo scienziato premiato per le scoperte sull'Hiv aveva 89 anni. Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

È morto martedì 8 febbraio, nell’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine, alle porte di Parigi, lo scienziato francese Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008 per i suoi studi sull’Aids. Aveva 89 anni. Lo riportano diversi media francesi, tra cui i quotidiani Liberation e La Croix che ha avuto conferma dal sindaco della cittadina. La notizia morte di Montagnier era stata diffusa da Francesoir, ma era stata smentita dallo staff dello scienziato.

Noto per le posizioni contrarie alla vaccinazione contro il Covid-19, il suo progressivo logoramento dei rapporti con la comunità scientifica iniziò negli anni 2000, quando Montagnier propose la papaia fermentata come trattamento per il Parkinson. Nel 2009- l’anno dopo aver ricevuto il Nobel – sostenne che un buon sistema immunitario permette di sbarazzarsi dell’Hiv «in poche settimane» e che una buona dieta ricca di antiossidanti rende possibile l’esposizione al virus senza venire contagiati in modo cronico. In seguito affermò altre tesi screditate come l’origine batterica dell’autismo e il legame tra i vaccini e le morti improvvise di infanti. Queste posizioni eterodosse hanno reso Montagnier un paladino dei no vax in seguito all’esplosione della pandemia.

Proprio lo scorso gennaio, Montagnier si erano unito alle proteste a Milano, parlando di una «proteina tossica» che, secondo lui, sarebbe contenuta nei vaccini contro il Covid. «La salvezza dell’umanità e la fine di questa emergenza sarà nelle mani dei non vaccinati. Saranno i non vaccinati a salvare l’umanità», aveva aggiunto il Nobel, accolto dall’ovazione dei manifestanti.

Il professore aveva 89 anni. Luc Montagnier è morto, fine del giallo: il Nobel per la Medicina era il leader mondiale dei No-Vax. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Fine del mistero: è morto Luc Montagnier. Il Premio Nobel per la Medicina per i suoi studi sull’Aids aveva 89 anni. La conferma è arrivata oggi pomeriggio dopo un giorno almeno di giallo, un caso: la notizia era stata scritta ieri sera da FranceSoir ma non confermata dalla famiglia né dall’entourage del professore francese diventato negli ultimi anni un riferimento dei No Vax, contrario senza mezzi termini ai farmaci anti-coronavirus e sostenitore di tesi complottiste e non riconosciute dalla comunità scientifica sull’esplosione della pandemia da covid-19.

La conferma del decesso è arrivata oggi pomeriggio dal quotidiano Liberation: il giornale ha citato il certificato di decesso del professore, morto martedì scorso all’Ospedale americano di Neuilly-sur-Seine a Parigi, depositato in Comune. E la testimonianza della dottoressa Béatrice Milbert, con la quale il professore avrebbe dovuto organizzare una tavola rotonda a Ginevra nel gennaio 2021. Nel pomeriggio era arrivata la conferma anche del controverso professore Didier Raoult, il “padre” della clorochina, con la quale curava i suoi pazienti contagiati dal covid-19 a Marsiglia – il cui uso è stato bocciato sia dall’Oms che dall’Ema che dall’Aifa.

“Luc Montagnier è morto. Perdiamo un uomo la cui originalità, l’indipendenza e le scoperte sull’Rna hanno permesso la creazione del laboratorio che ha isolato e identificato il virus dell’Aids”, ha scritto su Twitter Raoult. Nessun media aveva dato credito alla notizia scritta da FranceSoir. “All’età di 89 anni (18 agosto 1932 – 8 febbraio 2022), il professor Luc Montagnier si è spento all’ospedale americano di Neuilly-sur-Seine. Il dottor Gérard Guillaume, uno dei suoi più fedeli collaboratori, ci ha confidato che se ne è andato in pace, circondato dai suoi figli”, si leggeva nell’articolo.

A confermare erano arrivati il sito italiano Byoblu, la genetista francese Henrion-Caude e la youtuber Chloé Frammery. Nessuna conferma neanche da Gianluigi Paragone, fondatore del partito Italexit, che aveva recentemente invitato a Milano Montagnier a una manifestazione contro il Green Pass, ha confermato. “Ad un certo punto oggi è arrivata la notizia che parla della morte del professor Luc Montagnier. Noi non abbiamo la conferma, ma non riusciamo neanche a stabilire un contatto con l’entourage del professore – ha scritto su Facebook – Stavamo parlando di un progetto, ma da qualche giorno non riuscivamo ad avere un feedback. Non riuscivamo a contattare il professore. Questa notizia è stata diffusa da France Soir, poi si parla di un tweet di una ricercatrice. Nessuno al momento ha la certezza, mi è difficile riuscire a dire qualcosa di più e di diverso”.

Alla manifestazione dello scorso 22 gennaio in Italia Montagnier aveva arringato la folla: “Chiedo a tutti i miei colleghi di fermare le vaccinazioni contro il Covid con questo tipo di vaccini. Ne va del futuro dell’umanità. Il dopo dipende da voi, soprattutto dai non vaccinati che un domani potranno salvare l’umanità, mentre i vaccinati dovranno essere salvati dai centri medici”. Da anni, e nonostante il Nobel, l’Institut Pasteur di Parigi aveva interrotto qualsiasi tipo di collaborazione con il professore.

Chi è Montaigner

Classe 1932, il virologo francese, professore emerito dell’Istituto Pasteur, aveva cominciato la sua carriera scientifica alla Facoltà di Scienze di Parigi. I suoi primi lavori in campo virologico hanno condotto alla dimostrazione della presenza di una forma di RNA infettivo a doppia elica in cellule infettate dall’EMC (virus dell’encefalomiocardite). I suoi studi hanno contribuito in maniera decisiva ed essenziale a identificare e isolare il virus dell’HIV, responsabile della sindrome da immunodeficienza acquisita (AIDS). Proprio per tali ricerche è stato insignito, con Françise Barré-Sinoussi, del Premio Nobel per la Medicina o la Fisiologia nel 2008.

Montagnier da anni sostiene teorie che trovano credito nella galassia dei complottisti. Un suo video sul covid-19 è diventato virale a inizio 2020. Lo scienziato diceva che il virus era stato manipolato da un professionista: al virus classico proveniente dal pipistrello era stata aggiunta una sequenza del virus dell’HIV. E aveva anche suggerito di curare il contagio con le onde elettromagnetiche. La teoria è stata smontata da scienziati e ricercatori di tutto il mondo. Alcune teorie sull’HIV di Montagnier sono state giudicate infondate perfino da Françoise Barré Sinoussi. A novembre 2017 un gruppo di oltre 100 scienziati aveva firmato una lettera aperta contro le posizioni di Montagnier che suggerivano un legame tra vaccini e autismo. Anni fa il Premio Nobel aveva fatto parlare di sé anche per la proposta di curare il Parkinson e altre malattie degenerative con il succo di papaya.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Leonard Berberi per il "Corriere della Sera" l'11 febbraio 2022.

Il professore Luc Montagnier? «È morto di Covid». No, «è morto proprio dopo aver fatto il vaccino contro il coronavirus». Macché, «l'hanno ucciso i governi pro Pharma». Dopo un giorno intero nel dubbio, con voci che si sono rincorse e il silenzio dei media francesi il mondo social è apparso disorientato, diviso com' è da mesi tra no, nì e sì vax. Il mistero inizia la mattina del 9 febbraio. «Luc Montagnier ci ha appena lasciato. Rip», scrive sul sito France Soir . Solo che passano i minuti, trascorrono le ore e nessun altro grande media transalpino ne parla. Silenzio da Le Monde e Le Figaro . Silenzio pure dalle tv all francesi.

La famiglia dello scienziato 89enne non conferma. E nemmeno smentisce. Bisogna aspettare il pomeriggio di ieri per avere la conferma del decesso da Libération . Ma ormai è troppo tardi. «Vogliamo sapere se è morto e come è morto», si ostina a chiedere più di qualcuno. «Il "silenzio complice" che sta avvolgendo la scomparsa di Montagnier, che fa seguito al semi silenzio per la morte di De Donno (il medico suicida l'estate passata, «padre» della terapia col plasma iperimmune, ndr ), la dicono lunga sul fatto che il regime apolide ufficiale si sia tolto di mezzo due figure scomodissime e ingombranti!», cinguetta un altro.

Cercando sui social con gli hashtag #Montagnier e #LucMontagnier si trovano le ipotesi più particolari, tirando in ballo simboli di questo Paese e ferendo pure la lingua italiana. «Se verrebbe ( sic ) confermata la morte di Montagnier, sarebbe spontaneo pensare ad un omicidio mirato, il cui mandante andrebbe cercato tra quelle che Falcone definiva "menti raffinatissime"», scrive @MartinKeufaver con un account che si mostra come «Gatto Thunberg» con tanto di emoji del mattone e della bandiera italiana. Non che fuori dai confini nazionali le cose vadano meglio.

Anzi. Perché a leggere @SylvieGelinet Montagnier rientrerebbe nel filone di scienziati deceduti e che, guarda caso, avevano fatto tutti parte dei team di lavoro sull'Aids. «Avete capito ora come hanno annientato il vostro sistema immunitario? - twitta - Vi hanno iniettato i retrovirus Hiv 1 e 2». 

«LucMontagnier il 12 febbraio doveva testimoniare a Norimberga 2», scrive un altro profilo, italiano, rivelando al mondo un fantomatico processo contro non si sa chi allestito non si capisce dove. «La pagheranno tutti al processo non avranno nessun posto dove nascondersi». Non mancano gli interventi ironici. «La coerenza di Luc Montagnier: persino della sua morte non ci sono prove a supporto», cinguetta Spinoza, il più famoso profilo satirico italiano. Per arrivare alla chiosa di un altro, non senza polemica con gli anti-scienza: «Gli sia piatta la terra». 

Piergiorgio Odifreddi per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

Luc Montagnier è morto ieri a Parigi, a 89 anni. Io l'ho conosciuto nel 2015, a un meeting quinquennale che si tiene a Lindau, sul lago di Costanza. Vi sono invitati tutti i premi Nobel scientifici, e quella volta ce n'erano sessanta: una compagnia in cui una persona normale si trova ovviamente a disagio e in imbarazzo, anche se in realtà fa più impressione un premio Nobel isolato, che tanti messi assieme. Infatti Jim Watson, che è il più famoso scienziato vivente, non c'era: lui evita ogni meeting con più di due o tre premiati, perché sa che la sua luce brillante ne risulterebbe un po' offuscata.

C'era invece Montagnier, e confesso di aver provato tenerezza per lui. Il meeting era organizzato in modo che a ogni grande tavola si sedesse un solo Nobel, così da impedir loro di fare comunella, e permettere invece un contatto con i fortunati invitati, che consistevano in massima parte di dottorandi e ricercatori selezionati in tutto il mondo. Ebbene, la tavola a cui si sedeva Montagnier rimaneva inesorabilmente e invariabilmente vuota, e nessuno andava mai a sedersi vicino a lui e alla moglie!

Un giorno ci sono andato io, e gli ho chiesto se aveva voglia di darmi un'intervista sulle sue posizioni eccentriche, soprattutto sulla religione. Mi ha chiesto chi ero, da dove venivo, perché volevo parlargli, e gli ho spiegato che non ero un giornalista, ma un matematico, e che avevo firmato un libro con un papa: forse poteva fidarsi, o almeno poteva provare. Ha voluto consultarsi con la moglie, e dopo averlo fatto mentre io mi ero allontanato, mi ha risposto di no. Evidentemente non voleva mettere in discussione le proprie idee, e faceva benissimo, tanto queste erano balzane.

Nel 1983 Montagnier aveva però scoperto a Parigi, insieme a Françoise Barré-Sinoussi, il virus dell'Aids, e l'aveva chiamato LAV (Virus Associato alla Linfoadenopatia). Più o meno simultaneamente, lo stesso virus era stato scoperto negli Stati Uniti da Robert Gallo, che dimostrò il suo legame con l'Aids e lo chiamò HTLV (Virus T-Linfotropico Umano). Ne nacque una feroce disputa di priorità ai due lati dell'Atlantico, che fu sanata soltanto qualche anno dopo grazie a un intervento diretto dei presidenti francese Mitterand e americano Reagan, nel quale fu anche deciso di usare per il virus il nuovo nome HIV (Virus dell'Immunodeficienza Umana).

Nel 2008 Montagnier e Barré-Sinoussi (pure lei presente a Lindau) ricevettero il premio Nobel per la medicina per la loro scoperta, ma Gallo fu lasciato fuori. Cavallerescamente, Montagnier riconobbe che anche Gallo avrebbe avuto diritto a vincerlo, perché la scoperta del virus era altrettanto importante della dimostrazione del suo legame con l'Aids. Ma così vanno le cose a Stoccolma, dove le scelte e le motivazioni dei premi Nobel sono spesso imperscrutabili, e sempre insindacabili.

Una cosa però è sicura: un Nobel scientifico premia una particolare scoperta in fisica, chimica o medicina, e non certifica per niente la validità di tutto ciò che i vincitori possono dire o pensare nel resto della loro vita, soprattutto al di fuori del proprio campo di studi. E poiché uno scienziato è un uomo come tutti gli altri, e non un oracolo, il fatto che una volta gli sia andata bene e abbia detto qualcosa di intelligente, o scoperto qualcosa di geniale, non gli impedisce altre volte di dire stupidaggini o prendere cantonate.

In genere non ce ne accorgiamo, perché gli scienziati sono di solito tenuti fuori dai dibattiti televisivi e mediatici, ma quando vincono un premio Nobel ci sono tirati dentro per i capelli, e spesso fanno figuracce. Su Wikipedia inglese c'è addirittura una pagina intitolata Nobel disease (non tradotta in italiano), dedicata a un florilegio delle scemenze che sono uscite dalla bocca dei Nobel. 

La più lunga citazione in quella pagina è dedicata a Montagnier, a causa delle sue affermazioni sui vaccini che causano l'autismo, sulla memoria dell'acqua, sulla validità dell'omeopatia, sulla verità dei miracoli di Lourdes, e così via. Queste cose, oltre a non fare onore allo scienziato e alle sue ricerche sull'HIV, dimostrano che fidarsi delle sue ultime prese di posizione a proposito del Covid-19, in particolare sulla cancerosità e tossicità dei vaccini a m-RNA, non è altro che un appello all'autorità mal riposto, effettuato da parte di chi non ha idea di come funzioni la scienza.

Luc Montagnier da Nobel a no vax: le sue teorie più discusse. Daniele Banfi su La Repubblica il 10 febbraio 2022.

Dalla papaya alla memoria dell'acqua, fino alle posizioni no vax. Una vicenda la sua, che ci ricorda come la scienza sia un'opera collettiva e il Nobel non sia una garanzia di infallibilità.

Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina 2008 insieme a Françoise Barré-Sinoussi per la scoperta del virus Hiv, è deceduto all'età di 89 anni. Una delle sue ultime apparizioni pubbliche è avvenuta a Milano lo scorso 15 gennaio in occasione di una manifestazione No Green Pass.

Una carriera, quella di Montagnier, segnata dal più grande riconoscimento in campo medico per poi concludersi nell'ultimo decennio con una serie di bizzarrie scientifiche - dalla papaya fermentata per la cura del Parkinson sino alla dichiarazione shock: "Si salveranno soltanto i non vaccinati"- che lo hanno progressivamente auto-escluso dalla comunità scientifica.

Luc Montagnier "non è morto di Covid, basta balle no vax". Parla l'amica italiana: "L'ho sentito due settimane fa, era disperato".  Brunella Bolloli su Libero Quotidiano l'11 febbraio 2022

È stata la prima a postare sui social la notizia della morte di Luc Montagnier, quando ancora non c’erano conferme ufficiali e la famiglia del premio Nobel era sotto choc e incapace di affrontare il dramma. Lei, Margherita Enrico, giornalista, divulgatrice  scientifica e scrittrice, e lui, lo scopritore del vaccino anti-Hiv diventato paladino dei No Vax, sorridenti e insieme quando il professore stava ancora bene. 

Margherita, come hai saputo della morte di Montagnier?

"Lo conoscevo da vent’anni, ci sentivamo spesso, ha fatto la prefazione di molti dei miei libri, sono in contatto con i suoi collaboratori francesi, con la famiglia, con l’amica Suzanne McDonnell, che era con lui a Parigi quando non è stato bene".

Perché tanto mistero sulla sua morte? È stata causata dal Covid?

" Ma no, non è morto di Covid! Assurde le sparate dei No Vax che accusano Big Pharma. Montagnier aveva quasi 90 anni, un cuore affaticato e una salute incerta. In Italia avevo organizzato di farlo visitare dal professor Massetti del Policlinico Gemelli di Roma, un luminare nel campo della cardiochirurgia. Non c’è stato tempo".

Il suo cuore ha ceduto prima. 

"Sì. Montagnier si è sentito male ed è stato portato all’ospedale americano di Parigi dove si è spento l’8 febbraio. Accanto aveva i figli, era sereno, se n’è andato in pace, anche se due settimane mi aveva telefonato disperato". 

Perché era disperato?

"Si sentiva abbandonato dal suo Paese, dalla comunità scientifica, strumentalizzato da questi gruppi di No Vax e No Pass che lo portavano in giro e lo esibivano alle manifestazioni. Non si capacitava di come tutto il suo lavoro di una vita fosse di colpo cancellato sotto l’etichetta di No Vax".

Le sue esternazioni contro i vaccini anti-Covid sono state molto chiare e gravissime, però. Aveva definito il vaccino “un crimine contro l’umanità”…

"Montagnier non era contro i vaccini. Era contro questo vaccino. Da uomo di scienza, che aveva studiato per una vita i vaccini e scoperto quello contro l’Hiv non sarebbe mai stato contro i vaccini. Riteneva però che questo non fosse stato studiato a lungo ed era assolutamente contrario al siero ai bambini. Fra l’altro, lui diceva che con questo vaccino i contagi non sarebbero calati e che la terza dose non avrebbe protetto dal virus".  

Tu però sei vaccinata, lui non lo era. Non vi siete scontrati su questo?

"Io sono vaccinata con tre dosi e questo argomento era forse l’unico che ci vedeva distanti. Lui mi ha detto: “rispetto la tua libertà di scelta”. Era comunque impegnato a trovare una cura contro il Covid, più che un vaccino".

In che modo?

" Montagnier aveva un laboratorio in Italia e un suo staff di ricercatori. Il suo cruccio era la mancanza di finanziatori. Fare ricerca costa, ma anche su questo non aveva aiuti. Era stato trattato male, sia in Francia che in Italia". 

È vero che l’hai convertito tu?

"Non so se sia vero, la sua conversione è avvenuta nel tempo, ma io ho organizzato, anni fa, a Lourdes un convegno internazionale su miracoli e scienza, cui hanno partecipato scienziati da tutto il mondo, e da convinto ateo qual era, l’ho trovato a pregare di fronte alla grotta della Madonna. Citava spesso una frase di Carl Sagan: 'L’assenza di evidenza non è l’evidenza dell’assenza'. Significa che quando un fenomeno è inspiegabile, come un miracolo, è inutile negarlo. Poi da quando il figlio si era ammalato, si era molto accostato alla fede e l’ultima volta che ci siamo visti mi ha detto: 'Avevi ragione tu. Dio esiste davvero'. Mi ha impressionato".

L’ultima sua apparizione in Italia è stata a un comizio di No Vax a Milano, organizzato dal senatore Paragone e altri il 15 gennaio.

"Sì, io non c’ero perché non ero d’accordo e provai a convincerlo di non andare. Ma è stato inutile. Qualche giorno dopo, al telefono, mi ha dato ragione: 'Mi sono esposto troppo e sono stato strumentalizzato'. Ora spero riposi in pace, i complottisti la smettano di scrivere falsità sulla sua morte". 

Bassetti: “Ricordo il Montagnier anti Aids, non quello anti vaccini”. Veronica Caliandro il 10/02/2022 su Notizie.it.

È arrivata la conferma della morte del professore Luc Montagnier. Tra i commenti di personaggi pubblici da segnalare quello di Matteo Bassetti. 

È arrivata la conferma della morte del professore Luc Montagnier che si è spento all’età di 89 anni in Francia. In molti hanno voluto esprimere il proprio cordoglio tramite diversi messaggi pubblicati sui social. Tra i commenti di personaggi pubblici da segnalare quello di Matteo Bassetti.

Montagnier, le parole di Matteo Bassetti

All’Adnkronos Salute Matteo Bassetti ha commentato la notizia della morte di Luc Montagnier, premio Nobel per la Medicina nel 2008 per i suoi studi sull’Aids. A tal proposito il direttore della Clinica di Malattie infettive del Policlinico San Martino di Genova ha dichiarato: “Il Montagnier impegnato nelle ricerche sull’Hiv ha contribuito alla lotta a questa malattia così impegnativa. Del Montagnier anti vaccini e fautore di un grande complotto Covid mondiale, preferisco non commentare. I risultati della scienza impegnata su vaccini e cure mi sembrano talmente evidenti che non possono essere confutati“.

Morte Montagnier, il saluto di Gianluigi Paragone

“Addio professor Montagnier! Oggi piangiamo un grande scienziato, un uomo coraggioso e libero, maestro di vita“. Sono queste le parole utilizzate da Paragone per salutare attraverso un messaggio sui social il compianto Premio Nobel a corredo di una foto che lo ritrae proprio con il professore durante la manifestazione dello scorso 15 gennaio a Milano.

Luc Montagnier, diverse centinaia di persone presenti al funerale del Premio Nobel. Valentina Mericio il 22/02/2022 su Notizie.it.

Diverse centinaia di persone si sarebbero recate al funerale del Premio Nobel Luc Montagnier che è stato celebrato a Parigi. 

La salma del Premio Nobel per la Medicina Luc Montagnier ,in questa giornata di martedì 22 febbraio, è stata accolta da diverse centinaia di persone. Il funerale, stando a quanto si legge dalla testata “Ouest-France” è stato celebrato nel cimitero di Père-Lachaise a Parigi.

Nel frattempo sono moltissimi gli utenti che, con video e foto, hanno documentato quanto è avvenuto in queste ultime ore.

Luc Montagnier, l’accoglienza dei presenti durante il funerale

Anche la testata France Soir che, per prima aveva annunciato la morte dello scienziato, ha fornito un racconto dettagliato delle esequie del Premio Nobel: “Più di mille persone, ma nessun ministro presente”, si legge dalla testata d’oltralpe.

Molti inoltre i presenti che hanno parlato di ciò che li ha spinti fin là: “Sono molto commosso di essere qui, era un gigante, era un umanista, qualcuno con integrità e generosità. Era una persona semplice, quando ho potuto parlare con lui era assolutamente splendido per gentilezza e generosità”, sono le parole di Jean Dominique Michel e ancora: “Aveva capito tutto. Ma come sempre quando capisci prima degli altri, disturba e la maggior parte dei politici e dei media mainstream ci sono cascati”, ha affermato Cathérine.

Il cordoglio del presidente francese Emmanuel Macron

Ad ogni modo il presidente francese Emmanuel Macron lo scorso 10 febbraio aveva ricordato in una nota “il maggior contributo di Luc Montagnier alla lotta contro l’AIDS, che resta una delle grandi sfide medico-scientifiche del 21° secolo.”.

·        E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.

Marco Giusti per Dagospia l'8 febbraio 2022.

Se c’è un uomo che è responsabile dell’immagine dello spazio e del nostro futuro fin dalla fine degli anni ’60, non può che essere Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali di capolavori del cinema come “2001: Odissea nello spazio” di Stanley Kubrick, di “Incontri ravvicinati del quarto tipo” di Steven Spielberg, di “Star Trek” di Robertg Wise e di “Blade Runner” di Ridley Scott, che se ne è andato a 79 anni, ormai un po’ lontano dal cinema, ma mai dalla sperimentazione visiva.

Nato a Los Angeles nel 1942, figlio di un ingegnere meccanico molto attivo anche nel cinema negli effetti speciali, e da una madre artista, Douglas Trumbull si occupa da subito di grafica e di effetti speciali sulle orme del padre. Quando Stanley Kubrick, che stava preparando “2001: Odissea nello spazio” vede un documentario in Cinerama prodotto dalla Graphic Film di Los Angeles per la World’s Fair di Los Angeles del 1964, “To The Moon and Beyond” diretto da Con Anderson, si innamora di quel tipo di effetti speciali e chiama gran parte della crew della Graphic Films a lavorare al suo film a Londra.

E’ lì che Douglas Trumbull, ancora giovanissimo si mette in mostra sotto il controllo di Kubrick e cresce, al punto da controllare e firmare gran parte degli effetti visivi del film. Sulla scia del successo planetario di “2001” e dei suoi effetti visivi innovativi, collabora in Italia, su indicazione dello stesso Kubrick al produttore Roberto Haggiag, alle sequenze di apertura e chiusura dello stravagante “Candy” di Christian Marquand, poi lo chiama Robert Wise per gli effetti visivi di “Andromeda”, grande film di fantascienza tratto da un romanzo di Michael Crichton. Nel 1972 ha l’occasione di dirigere il suo primo film da regista, la space-opera “Silent Running”, che in Italia si chiamerà “2002: la seconda Odissea”, sceneggiata da Michael Cimino, Steve Bochco e Deric Washburn, con Bruce Dern protagonista insieme a minuscoli robot.

Un film particolare di grande fascino visivo, ma che non ebbeun particolare successo. Verranno poi le incredibili collaborazioni con Spielberg per “Incontri ravvicinati del quarto tipo”, con Ridley Scott per “Blade Runner” e nuovamente con Robert Wise per la prima versione cinamtografica di “Star Trek” nel 1979, per il quale dirige anche la seconda unità. Dirige nel 1982 un secondo film, “Brainstorm”, che intende girare con un nuovo sistema visivo di sua invenzione, lo Showscan, 60 frame al secondo con una pellicola da 70 mm. Troppo caro per i produttori della MGM. Lo utilizzerà soltanto per le sequenze oniriche.

"Nei film le persone spesso hanno dei flashback e dei cambiamenti di punto di vista segnalati da un tipo di immagine confusa, misteriosa e distante", diceva Trumbull, "E io volevo fare esattamente l'opposto, ovvero rendere il materiale prodotto dalla mente ancora più reale e di grande impatto rispetto alla stessa realtà”. Ma il problema vero del film fu la morte misteriosa e non ancora chiarita, a riprese non ancora terminate, della sua protagonista Natalie Wood annegata in mare dopo un weekend col marito Robert Wagner e il co-protagonista Christopher Walken, col quale sembra che avesse una relazione. La MGM, già in difficoltà economica pensa di chiudere il film e farsi rimborsare l’assicurazione dai Lloyd’s di Londra. Ma Trumbull ha un contratto che gli lascia l’ultima decisione sul film.

Così decide di terminarlo in barba alla MGM, mentre altre società lo vogliono rilevare. Lo finirà con l’aiuto della sorella di Natalie Wood, Lana, molto somigliante. Ma l'esperienza sarà devastante per il futuro da regista e non solo di Trumbull che se ne andò sbattendo la porta. "Non ho alcun interesse... a fare un altro lungometraggio hollywoodiano... Assolutamente nessuno”, dichiarò. “Il mondo del cinema è così totalmente incasinato che non ho l'energia per investire tre o quattro anni in un lungometraggio. E’ come fare la guerra. Distrugge anche la tua vita personale. Le persone che possono sopravvivere al processo di realizzazione dei film hanno in gran parte rinunciato alla propria vita personale per farlo.

E’ così facendo che si sono isolati dal pubblico stesso che stanno cercando di raggiungere". A Trumbull non resterà che chiudersi nel suo studio in Massachusetts, seguitare i suoi studi e le sue ricerce sugli effetti visivi e su particolari tipi di pellicola. Lavorerà sull’Imax, sui parchi a tema. Collaborerà a cortometraggi, anche agli effetti speciali di film, come “The Tree of Life” di Terrence Malick, sua è tutta la parte coi dinosauri e fantascientifica. Produce e dirige gli effetti speciali di un curioso film del 2018, “L’uomo che uccise Hitler e poi il Bigfoot” diretto da Robert D. Krzykowski.

·        Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.

Morto Giuseppe Ballarini, il patron mantovano delle pentole. L'imprenditore, alla guida dell'azienda di Rivarolo Mantovano attiva da oltre un secolo, avrebbe compiuto tra poco 75 anni. La Repubblica l'8 Febbraio 2022.     

Morto l'imprenditore mantovano Giuseppe Ballarini, presidente dell'omonima azienda di Rivarolo Mantovano, da oltre un secolo marchio nella produzione di pentole e accessori professionali per la cucina. Ballarini, che avrebbe compiuto tra poco 75 anni, era ricoverato da una settimana nella clinica Humanitas di Rozzano, in provincia di Milano, dove gli sarebbe stata diagnostica una malattia autoimmune, che lo ha portato via rapidamente.

Quella di Giuseppe Ballarini e dell'azienda Ballarini è una storia di lavoro e innovazione che incrocia economia e tradizioni familiari e che affonda le radici alla fine dell'Ottocento. L'origine di questa impresa, infatti, che nel 2015 è stata ceduta alla multinazionale tedesca Zwilling con la famiglia rimasta però sempre saldamente al timone, risale al 1889. E' allora che il capostipite - chiamato Giuseppe come l'imprenditore scomparso - aprì a Rivarolo Mantovano una bottega artigiana di utensili. Qui, si racconta, sarebbero stati lavorati oggetti diversi, come gabbie per uccelli e articoli per uso casalingo. Nel primo decennio del Novecento, l'attività si allargò così come la gamma dei prodotti: dalle caffettiere napoletane alle vasche da bagno. Di generazione in generazione, però, i Ballarini hanno sempre innovato. Come accadde nel 1967, quando l'azienda produsse il primo esemplare di pentola 'teflonata' che rivoluzionò il mercato. Solo un esempio di come, investendo sulla tecnologia, l'impresa si aprì sempre di più ai mercati esteri fino, appunto, a interessare una multinazionale tedesca. 

I funerali di Giuseppe Ballarini si svolgeranno domani, 9 febbraio, nella chiesa di Rivarolo Mantovano.

 Chi è Giuseppe Ballarini, il «re delle pentole» morto in otto giorni per una malattia fulminante. Giovanni Bernardi su Il Corriere della Sera il 9 Febbraio 2022.  

Il presidente dell’omonima azienda di Rivarolo Mantovano morto all’Humanitas. La storia dell’impero Ballarini nasce nel 1889 con una voliera per uccelli realizzata a mano dal fondatore Paolo. Nel 2015 l’acquisto da parte della multinazionale tedesca Zwilling. 

Scoperta solamente otto giorni fa, una malattia rara e fulminante si è portata via Giuseppe Ballarini, presidente dell’omonima azienda di Rivarolo Mantovano, rinomato marchio che da oltre un secolo produce pentole, padelle e accessori da cucina. Ballarini, sposato con Maria Grazia e padre di Alessandro e Luca, era ricoverato alla clinica Humanitas di Rozzano, dove è stata scoperta la malattia. «Pensavamo che ce l’avrebbe fatta — dicono i figli Alessandro e Luca — e avevamo forti speranze, ma è stato tutto inutile».

La storia dell’impresa

Ballarini, nato il 23 febbraio del 1947, era presidente dell’omonima azienda, un marchio storico mantovano, che da sempre produce pentole e accessori per la cucina sia di livello professionale che per le famiglie. Tutto iniziò nel 1889 da una elegante voliera per uccelli che venne realizzata interamente a mano dal fondatore Paolo Ballarini. Il quale, nel giro di poco tempo, iniziò poi a dedicarsi alla produzione di pentole e accessori per la cucina in lamiera opportunamente lavorata, comprese le caffettiere. Già negli anni Trenta del secolo scorso l’azienda poteva contare su oltre 2 mila prodotti, in continua espansione fino ai giorni nostri. Da sempre la Ballarini ha la propria sede principale vicino all’ingresso del paese, dove si trovano le due torri cinquecentesche simbolo di Rivarolo: nel tempo, le due caratteristiche torri sono state inglobate nel logo della società, a sottolineare, una volta di più, il legame della Ballarini con il territorio dove è nata e dove ha sempre operato. Giuseppe Ballarini era presidente di questo piccolo impero, una delle più longeve aziende a conduzione familiare, da sempre legata alle proprie radici.

La vendita ai tedeschi

Nel 2015 la società, che fatturava 80 milioni di euro l’anno, è stata ceduta alla multinazionale tedesca Zwilling: al momento dell’operazione finanziaria, nonostante fosse sempre rimasta in mano alla famiglia mantovana, l’azienda contava 350 dipendenti e una filiale proprio in Germania. Del board della Ballarini fanno parte i figli di Giuseppe, Alessandro e Luca, oltre ai cugini Angelo, Guido e Roberto. I funerali si svolgeranno giovedì 10 febbraio alle 15 nella chiesa di Rivarolo Mantovano.

·        Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema. 

Morto Luigi De Pedys, l'uomo che accese le 'luci rosse' del cinema: "Tutto nacque come una provocazione". Distributore e co-produttore di film, installò nel 1977 un lampeggiante dei pompieri fuori dal Majestic in zona Porta Venezia. La Repubblica l'8 Febbraio 2022.

Fu lui, nel 1977, ad accendere per primo le 'luci rosse'. E, con il primo cinema d'Italia in cui venivano proiettati esclusivamente titoli 'hard', il Majestic di Milano in zona Porta Venezia, Luigi De Pedys ha cambiato la storia del costume di una città e di un Paese. Una "provocazione", l'ha però definita lui stesso negli anni. Perché questo gestore di un piccolo impero di sale, che è scomparso a Milano all'età di 94 anni, nella sua vita è stato anche un distributore e co-produttore di film: da Lo chiamavano Trinità con Terence Hill e Bud Spencer a Il federale di Ugo Tognazzi fino a Ecce Bombo di Nanni Moretti. "Io volevo dedicarmi solo al vero cinema", diceva. 

Fino agli anni Novanta, De Pedys a Milano ha gestito diverse sala: Manzoni, Apollo, Pasquirolo, Orfeo, Arti, Splendor. Anche se in molti lo ricordavano per il Majestic. Era il 15 novembre 1977 quando De Pedys, titolare della Arco Film e poi della Arco Programm, trasformò questo cinema in via Lambro, zona Porta Venezia, sino ad allora destinato alla programmazione per bambini, nella prima sala a luci rosse d'Italia. Rosse come il colore di un lampeggiante dei pompieri montato all'ingresso, che segnalava in modo incontrovertibile la sua presenza. D'altronde, lui stesso ha raccontato come gli venne l'idea: suo figlio stava finendo il servizio militare come pompiere e, nel giorno del suo congedo, lo accompagnò nella caserma dove scoprì un'autopompa distrutta dopo un incidente. Da lì, l'illuminazione: chiese al comandante di poter prendere il lampeggiante e lo installò fuori dal Majestic.

Il successo fu immediato: il cinema vide lievitare gli incassi già nelle prime settimane dalle 26mila lire al giorno dei film per i più piccoli fino anche a 4 milioni. Ma De Pedys non si è mai definito un pornografo. E non solo perché all'esterno della sala non affiggeva locandine, ma un avviso: "Immagini non adatte a un pubblico sensibile". Un'altra epoca, certo. Un altro mondo, adesso che, prima con l'arrivo delle videocassette poi di Internet, l'epoca dei cinema porno è finita. Ma nel 1978, un anno dopo quell''invenzione', a Milano c'erano già 21 sale dedicate alla proiezione di film pornografici. De Pedys, però, aveva mollato dopo circa quattro mesi: "Era solo una provocazione", appunto. E così tornò a gestire le sue altre molte sale.

Nel 2007, Luigi De Pedys dichiarò al "Giornale dello Spettacolo": "I cinema possono aprirsi a tante iniziative che accompagnano la proiezione e invitano gli spettatori a fermarsi in un luogo che sempre più dovrebbe caratterizzarsi per punto di socializzazione per il tempo libero". E con la sua Arco Program firmò un accordo con la Rainbow di Iginio Straffi per portare il merchandising delle Winx direttamente nelle sale cinematografiche che proiettavano in quel periodo il film "Winx Club - Il segreto del regno perduto". Un innovatore. 

·        Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".

Musica: morto Mario Guido, il calabrese autore di "Lisa dagli occhi blu". ERMANNO ARCURI su Il Quotidiano del Sud l'8 Febbraio 2022.

Tanti conoscono la canzone “Lisa dagli occhi blu”, che Mario Tessuto ha portato al successo o meglio dire è stata la canzone a dare grande successo al cantante nato a Pignataro Maggiore.

Nel 1969 a “Un disco per l’estate”, questa melodia ha spopolato. Musicata da Claudio Cavallaro come riportano le cronache, e scritta da Giancarlo Bigazzi. Pochi però sanno che il testo iniziale è stato scritto da un bisignanese, Mario Guido, deceduto nella giornata di lunedì 7 febbraio, i funerali si terranno martedì 8 presso la chiesa di San Domenico.

Mario Guido, poeta e scrittore, professore di latino, un personaggio che non si è mai vantato, ma con il quale si dialogava culturalmente, negli ultimi tempi circolava accompagnato dall’inseparabile cagnolino di piccola taglia al quale era molto affezionato che assicurava compagnia e tanto affetto. Forse il titolo iniziale della canzone era “Marisa dagli occhi blu”, individuando anche la ragazza dell’epoca, comunque, in città tutti sanno che l’autore di questa splendida canzone che si ascolta ancora oggi, che sembra senza tempo, ricordano le strofe: “Lisa dagli occhi blu senza le trecce, la stessa non sei più. Piove il silenzio tra noi vorrei parlarti, ma te ne vai…”.

L’ispirazione di questa canzone è sicuramente scaturita da una conoscenza, una ragazza che con la sua bellezza e i lineamenti, ha suscitato interesse, visto la proverbiale capacità del professore, le strofe sono venute da se in modo quasi normale di getto, perché raccontano di una storia vera. Il professore Guido ha insegnato al nord, poi ha fatto rientro nella sua Bisignano, personaggio noto, anche se lui preferiva che la gente lo apprezzasse principalmente per la sua cultura non tanto per la canzone. Infatti, dialogare con lui era sempre come se i discorsi fossero tutti impregnati di spiritualità, di filosofia, di cantori e poeti antichi.

“Classe seconda B il nostro amore è cominciato lì…. – oppure la strofa seguente – La primavera è finita ma forse la vita comincia lì…”, non sono che alcune parti di un successo targato Bisignano, che questa persona sensibile ha saputo cesellare riuscendo a creare qualcosa che non passerà mai di moda e sarà ricordata tra le canzoni più conosciute in Italia se ancora oggi si canticchia per ingannare il tempo che scorre inesorabile.

L’artista Rosario Turco ha voluto ricordare Mario Guido con un suo disegno, facendo riferimento a Lisa, anche perché per un periodo di tempo è stato molto vicino alle manifestazioni del Palio e con lo stesso Turco quale direttore artistico. Ma c’erano anche rapporti personali, un’amicizia consolidata nel tempo ed una stima reciproca.

Con la sua scomparsa non calerà il sipario su Lisa dagli occhi blu che continuerà ad esistere nel panorama musicale italiano, e questo si deve proprio a Mario Guido che nel raccontare attraverso la canzone la sua esperienza, per un periodo è diventata una vera ossessione, poi è svanita continuando gli studi, ma che il successo ha reso immortale una storia che sarebbe stata molto bella approfondire, limitata ai confini comunali, ma che amore e successo hanno reso senza confini. Ermanno Arcuri

·        E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.

Dal “Corriere della Sera” il 5 Febbraio 2022.  

E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste. L'amministratore delegato della storica azienda di famiglia, diventata famosa nel mondo per le carte da gioco e per i tarocchi, si è spento il 3 febbraio all'età di 89 anni. A darne notizia sono stati i familiari. La storia di Crechici e della Modiano comincia nel 1988 quando l'imprenditore rileva l'impresa, insieme ad altri soci, dagli eredi del fondatore

L'azienda, specializzata nella produzione di carte, tarocchi e prodotti cartotecnici, cresce poi di anno in anno diventando un emblema del made in Italy. La Modiano riesce anche a superare un'importante crisi nel 2013 legata alla concorrenza cinese nel settore e alla diffusione del gioco online. Crechici, nonostante il successo del marchio, non ha mai voluto vendere, mantenendo la produzione a Trieste dove lavorano ancora oggi i 70 dipendenti.

Sotto la guida dell'ad, la Modiano ha conosciuto un enorme sviluppo internazionale e negli ultimi la crescita è stata sostenuta soprattutto dal boom delle esportazioni. L'impresa di famiglia è passata da un fatturato di circa 8 milioni di euro a 11,5 nel 2021. Oggi, oltre che in Italia, le sue carte e i suoi tarocchi si vendono in Europa, Stati Uniti e Cina. I funerali di Guido Crechici, fa sapere la famiglia, si terranno nella sua Trieste sabato 12 febbraio.

·        E’ morta Monica Vitti.

(ANSA il 2 febbraio 2022) E' morta Monica Vitti. Lo scrive Walter Veltroni su twitter. ''Roberto Russo, il suo compagno di questi anni, mi chiede di comunicare che Monica Vitti non c'è più. Lo faccio con grande dolre, affetto, rimpianto''. Nata Maria Luisa Ceciarelli a Roma, il 3 novembre del 1931, aveva compiuto da qualche mese 90 anni. 

Attrice icona del cinema italiano, era assente dalle scene dal 2001,quando fu ricevuta al Quirinale per i David di Donatello. Musa di Michelangelo Antonioni, regina della commedia all'italiana al fianco di Alberto Sordi. (ANSA).

Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Monica Vitti (Maria Luisa Ceciarelli), nata a Roma il 3 novembre 1931 (87 anni). Attrice. «Nella sua straordinaria carriera, oltre cinquanta film e tanti premi: 5 David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), 3 Nastri d’argento, 12 Globi d’oro (di cui due alla carriera) e un Ciak d’oro alla carriera, un Leone d’oro alla carriera a Venezia, un Orso d’argento alla Berlinale, una Concha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio Bafta» (Arianna Finos). «Sono un’attrice, poi anche una donna»

«Mio padre era romano, quello delle famose sette generazioni, e mia madre era bolognese. […] Mio padre era ispettore del Commercio estero e ci portava ovunque, perché doveva spostarsi per lavoro» (a Gianfranco Gramola). «Monica è la terzogenita di una famiglia borghese, la “femminuccia” come viene chiamata, oppure “smemoratella” o “sette sottane”, dato che, per via della sua freddolosità, si veste a strati. Nasce a Roma e poi vive i suoi primi anni in Sicilia, durante la guerra. 

La sua non è un’infanzia felice: è testimone dei conflitti familiari, dei silenzi e del ruolo che le viene assegnato in qualità di figlia femmina, una condizione che la costringe a seguire regole rigide e rinunciare alla sua naturale vitalità. A casa non si fanno domande. […] “Ho cercato di sostituire questa mancanza di storia con l’invenzione: non con una bugia, solo con la sostituzione di un fatto con un altro, così almeno mi restava qualcosa”. Una condizione che le trasmette insicurezza e che amplifica il desiderio di attenzione. Recitare si rivela subito “un istinto proprio. Credo che recitare sia una necessità, un bisogno”. “Stavo con i miei fratelli in Sicilia e c’erano i bombardamenti, e noi andavamo nello scantinato. Nello scantinato non si sapeva cosa fare: gente parlava della vita, gente piangeva…

Noi avevamo costruito un teatrino: avevamo messo una coperta, poi facevamo i pupazzi, disegnavamo gli occhi, il naso, la bocca e facevamo, parlavamo. Quello è stato il primo spettacolo che io ho fatto”» (Silvia Bottani). «Ho fatto la prima cosa a 14 anni e mezzo perché servivano dei soldi per un orfanotrofio di bambine sordomute. Una mia amica venne a chiedermi se volevo fare una parte in una recita; io non avevo mai visto un teatro, la mia famiglia era molto severa e pensava che il teatro già a vederlo fosse corruzione. 

Così feci per caso La nemica di Dario Niccodemi. Avevo già questa voce, che mi ha molto aiutata. Dissero subito che ero uno strano fenomeno, una bambina destinata a grandi cose. Io mi ero trovata benissimo e capii che recitare era quello che volevo fare per il resto della vita. I miei genitori dissero di no: dovresti studiare, trovare un marito, avere dei bambini. E io: non voglio fare niente di tutto questo. È stata una lotta dura». «“Mia madre mi disse: la polvere del palcoscenico corrode l’anima e il corpo”. Troppo tardi: Monica Vitti […] aveva imboccato la sua strada e, a poco a poco, una dopo l’altra, aveva iniziato a fare tutte le cose che le erano state proibite: scrivere, “recitare davanti allo specchio, andare a vedere i quadri”. “‘Cosa c’entri tu con quelle cose là?’, mi diceva mia madre: e io, più lei parlava, più mi ostinavo a cercarle”» (Fulvia Caprara).

«Da adolescente passa spesso davanti all’Accademia d’arte drammatica di Silvio D’Amico, in piazza della Croce Rossa, e rimane rapita dall’ambiente che spia dalle finestre: “Dal cancello vedevo gesticolare, urlare, ridere, piangere. Vedevo rifare, esagerando, la vita. E volevo far parte di quei pazzi felici rinchiusi nella villa, fuori dalla quotidianità”, racconterà. […] Respinta la prima volta, viene ammessa l’anno successivo, nel 1951. 

Ma gli esami clinici sono impietosi. Le sue corde vocali non possono reggere alle fatiche del teatro, sentenzia un dottore. In un misto di bluff, rabbia e sapienza drammaturgica, la ragazza avverte che in quel caso scenderà immediatamente in strada a buttarsi sotto una macchina. Il certificato medico negativo viene cestinato» (Andrea Lo Bello). «Così, a ottobre – l’ottobre del ’51 – Maria Luisa varca per la prima volta la soglia dell’Accademia “da studentessa”. […] Per un anno segue le lezioni di D’Amico. Ma è Sergio Tofano il suo vero maestro.

È Tofano che guida i suoi primi passi sulle scene dell’Accademia, Tofano che le insegna a non insistere troppo sulla corda drammatica (“Sei un talento… Un talento comico!”). E ancora Tofano che la convince a cambiarsi nome. “Cecia, così non va. Ceciarelli è un nome che non suona bene in cartellone. Cambialo”. In un bar di viale di Villa Massimo, montando e smontando sillabe e sillabe, Maria Luisa diventa Monica. Mo-ni-ca, Monica! Come l’eroina di quel romanzo che ha letto e che sogna di interpretare. “Vitti” invece nasce da Vittiglia, il cognome di sua madre. In cartellone suona bene. Molto bene. […] 

Nell’autunno del ’52, al Teatro Eliseo c’è il primo saggio: Il cappello di paglia di Firenze. Sei mesi dopo arriva il diploma. È luglio, il luglio del 1953. Insieme a Davide Montemurri, Monica si laurea attrice recitando Delitto e castigo» (Laura Delli Colli). «Dopo l’Accademia, ho fatto subito teatro classico, comico, borghese, e ho scoperto così il più bel gioco del mondo. Avevo capito che recitare era l’unico modo per prolungare l’infanzia». 

«Entra nel ’53 nella compagnia di Sergio Tofano. […] Non rientra nei canoni femminili del momento, dunque il cinema importante le è precluso. Entra dalla porta di servizio, con piccole parti non accreditate ma soprattutto come doppiatrice. Sia Antonioni che Monicelli utilizzano, prima del suo volto, la sua voce, rispettivamente ne Il grido e I soliti ignoti» (Lo Bello). 

«Come nelle favole, un bel giorno Antonioni cercava la voce della benzinaia del Grido. Serviva perciò una voce un po’ sfiatata, e la mia era l’ideale. Durante il doppiaggio mi arrivò un suo commento dalla regia che era alle mie spalle. “Ha una bella nuca: potrebbe fare il cinema”. Le sue storie mi somigliavano: così cominciò la mia grande avventura». «È un colpo di fulmine artistico e sentimentale. […]

Negli anni Sessanta, il loro cinema dell’incomunicabilità, della nevrosi della coppia, delle inquietudini della donna moderna: ecco L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962) e Deserto rosso (1964): altrettante variazioni di donna. La tormentata Claudia che cerca l’amica tra le isole delle Eolie, la tentatrice Valentina che "ruba" Mastroianni a Jeanne Moreau, la misteriosa e scontenta Vittoria che si fa corteggiare senza entusiasmo dall’agente di cambio Alain Delon e la depressa e tormentata Giuliana, moglie di un imprenditore insoddisfatta della vita» (Finos). 

«Durante il periodo dei miei quattro film con Michelangelo, ho trovato molto più di un regista. Per me è stato tutto: un padre, un fratello, un amico. Era tutta la mia vita, perché mi sentivo estremamente sicura vicino a lui, poi mi guardava con degli occhi che erano talmente pieni di attenzione…». «Devo agli sguardi di Michelangelo il mio coraggio. Devo alla sua fiducia la mia forza». «Premi su premi, critici estasiati, anche all’estero un trionfo, del resto allargato a tutto il cinema italiano di quegli anni. Regista e attrice vivevano quasi insieme, in due appartamenti uno sopra l’altro con scaletta interna: persone squisitamente private, in tempi in cui i gossip si chiamavano pettegolezzi e parevano molto ordinari, tanto che, quando il sodalizio si estinse, non si seppe davvero perché. Oppure non se lo ricorda più nessuno. Forse tutta quella cinenevrosi li aveva nevrotizzati, forse i tempi erano cambiati, la cineincomunicabilità si era insinuata anche nelle loro vite reali e tutti e due l’avevano finalmente giudicata barbosissima.

Di fatto Monica aveva conosciuto, proprio con Il deserto rosso, il direttore della fotografia Carlo Di Palma, che, uscita lei indenne dall’aver lavorato con Mastroianni e con l´allora bellissimo Alain Delon, divenne il suo nuovo compagno» (Natalia Aspesi). «Franco Zeffirelli decide di riportare la sua potenza drammatica sul palcoscenico, dandole il ruolo di Marilyn Monroe nel dramma Dopo la caduta di Arthur Miller, sulla vita e la morte della diva di Los Angeles, al fianco di Giorgio Albertazzi. Nel 1964, un altro incontro artistico fondamentale, quello con Alberto Sordi, ne Il disco volante, storia di un atterraggio alieno in una retriva e poco accogliente cittadina del Nord Italia. Feroce satira di costume diretta da un Tinto Brass ancora lontano dalle scelte che lo emargineranno dal cinema che conta. […] Per paura dell’aereo, rinuncia senza pensarci due volte a importanti contratti all’estero.

Ma nel 1966 si lascia convincere ad arrivare fino a Londra per interpretare Modesty Blaise – La bellissima che uccide, tratto dal fumetto di Peter O’Donnell su una ladra passata dalla parte della legge. Alla regia c’è Joseph Losey, celebre autore americano rifugiatosi in Inghilterra per sfuggire al maccartismo. Il film non può dirsi riuscitissimo, ma Monica Vitti ha così l’occasione di cimentarsi, dopo molte figure fragili e problematiche, con un personaggio ultra-emancipato, sia pure fumettistico. È ancora l’emancipazione il tema di fondo della commedia più importante della sua filmografia, che Monicelli le fa interpretare nel 1968, al fianco di uno dei più sottostimati attori italiani: Carlo Giuffrè. Ironia della sorte, per La ragazza con la pistola l’attrice deve tornare a Londra. Assunta Patanè, giovane siciliana, viene disonorata. Non avendo uomini in casa, la madre le ordina di salvaguardare l’onore della famiglia uccidendo personalmente il seduttore, fuggito oltremanica. A contatto con uno stile di vita lontano anni luce dall’arcaico ambiente di provenienza, la ragazza beneficia di una radicale trasformazione. E l’immaginario femminile del nostro cinema si modernizza in un attimo» (Lo Bello).

«Accanto ad Alberto Sordi (che soffre molto per lei in Amore mio aiutami) cominciò un sodalizio che li porterà al grande successo di Polvere di stelle del 1973. In mezzo ci sono le collaborazioni con i nostri più grandi registi: Ettore Scola (Dramma della gelosia, accanto a Giannini e Mastroianni), Dino Risi (Noi donne siamo fatte così), Luciano Salce (L’anatra all’arancia), Nanni Loy e Luigi Comencini (due degli episodi di Basta che non si sappia in giro). Negli anni Settanta l’attrice fu diretta per tre volte dal compagno di allora, il direttore della fotografia di Antonioni Carlo Di Palma, passato alla regia. È lei Teresa la ladra, il film di debutto di Di Palma (1973); poi verrà Qui comincia l’avventura (1975), motociclista tuta in pelle e casco integrale nel film a due con Claudia Cardinale (sorta di Thelma & Louise ante litteram); infine la farà diventare una regina di tabarin (Mimì Bluette… fiore del mio giardino, 1976). […]

Negli anni Settanta Monica Vitti fa anche alcune incursioni televisive, mentre continua a frequentare il teatro: nel ’74 si misura con due stelle del piccolo schermo come Raffaella Carrà e Mina cantando con loro Bellezze al bagno nel varietà Milleluci, quattro anni dopo recita per la televisione nella commedia Il cilindro di Eduardo De Filippo. Monica Vitti inizia, con gli anni Ottanta, a distillare le apparizioni sul grande schermo, figurando soprattutto nei film diretti dal suo nuovo compagno, il fotografo di scena poi diventato regista Roberto Russo (Flirt, 1983; Francesca è mia, 1986), che dopo 27 anni di fidanzamento sposa nel 2000 in Campidoglio.

Di dieci anni prima il suo debutto come regista per il film Scandalo segreto, da lei scritto e interpretato, che le regalò un’ultima grande soddisfazione, il David di Donatello per il miglior esordio. È la storia di Margherita, la stessa Vitti, che riceve in regalo da un amico regista una telecamera molto moderna, automatica, completa di telecomando; la sua vita cambierà radicalmente, e la macchina le rivelerà non solo il tradimento del marito con la sua migliore amica (Catherine Spaak), ma anche la desolazione della propria esistenza» (Finos). Il 14 marzo 2002, a Roma, la sua ultima apparizione pubblica, in occasione della prima teatrale italiana del Notre-Dame de Paris musicato da Riccardo Cocciante: da allora si è ritirata a vita privata, a causa di una malattia neurodegenerativa che ne starebbe obliando la memoria. Vive tuttora a Roma, assistita in casa dal marito e da una badante

«Nella sua vita ha scritto due libri: nel ’93 Sette sottane, autobiografia che prendeva il titolo dal soprannome che aveva da bambina, […] e poi, nel ’95, Il letto è una rosa: “Oggi scrivo non per ricordare, ma per reinventarmi tutto, per cancellare e ricostruire visi e fatti che mi girano intorno e ridono insieme a me; non di me”, dice in quel volume, che è una raccolta di pensieri e ricordi e sogni. […] Un libro in cui rivela segreti: “Quando a 14 anni e mezzo avevo quasi deciso di smettere di vivere, ho capito che potevo farcela, a continuare, solo fingendo di essere un’altra, e facendo ridere il più possibile. Ci sono riuscita in teatro e nel cinema, nella vita molto meno"» (Finos)

Celeberrima, in Deserto rosso di Antonioni, la sua «ormai mitologica battuta “Mi fanno male i capelli”, frase della poetessa Amelia Rosselli, diventata – suo malgrado – una citazione comica. Una battuta che Monica ricorda bene: “Mentre facevo Deserto rosso di Antonioni, mi domandavano: ‘Ma è vero che le fanno male i capelli, come nel film?’. ‘Sì’, rispondevo ‘ma solo il mercoledì e il giovedì’. Loro ridevano e poi smettevano di colpo, senza capire se era uno scherzo o la verità. Che i capelli mi abbiano sempre fatto male, a me sembra molto naturale, cioè mi stupisco che non abbiano fatto male anche agli altri. 

È una parte del corpo, ha diritto al dolore. Ma intanto qualcuno ha approfittato per etichettarmi: ‘Le fanno male i capelli, poverina: che ci vuoi fare, è alienata’”. “Deserto rosso, come forse qualche lettore sa, è stato ispirato da una mia depressione. Certo, se non ci fosse stato Michelangelo accanto a me, ‘Mi fanno male i capelli’ sarebbe stata solo una frase ridicola. Invece l’artista ci inventa sopra Deserto rosso. Qualunque inezia può essere degna di attenzione. Per un artista, intendo dire: gli altri possono anche giocare a carte”» (Bottani)

«Arriva all’appuntamento con il successo senza ascoltare nessuno, tirando dritto su tutte le sue convinzioni. Rifiuta di modificare la chioma bionda che si è scelta; esclude categoricamente un intervento a quel naso che convince tanto poco i produttori (“Alla fine abbiamo vinto noi, io e il mio naso”, dirà anni dopo). Accetta un solo consiglio, in teatro: cambiarsi il nome» (Lo Bello).

«In 35 anni di cinema, un tempo lunghissimo per un’attrice, Monica ha lavorato in 55 film; certe volte ne ha girati anche tre in un anno. E, dal momento in cui ha abbandonato la seriosità (definita da Oreste del Buono “la nefasta ombra di Antonioni”) che lei pareva comunque non prendere sul serio, è diventata grande. Andavamo a vedere i film con lei e Sordi, o Tognazzi, o Proietti, o Manfredi, o Mastroianni (e persino Benigni), perché era allora la sola donna bella cui era concessa quella comicità con cui rivelava alle donne come si poteva ridere di se stesse senza farla tanto lunga, e agli uomini come non prendersi troppo sul serio perché le donne potevano inchiodarli alla loro presunzione virile con il fascino dell’ironia.

Spia dei servizi segreti, fata inseguita da un bruto, sposa medioevale, ragazza con la pistola, popolana tra due amori, stella del varietà, Tosca, Ninì Tirabusciò, Mimì Bluette, moglie svitata, moglie cornificata, moglie cornificante, moglie pazza, Monica Vitti non è mai stata una diva, ma una attrice di grande talento, forse la più grande, davvero, del cinema italiano. I registi andavano con lei sul sicuro, Monicelli e Zampa, Loy e Scola, ma anche gli stranieri, da Cayatte a Buñuel a Losey, incapaci però di capirne la leggerezza raffinata con cui ci ha divertito tanto» (Natalia Aspesi)

«Monica ha un’intelligenza professionale che sento affine. È l’attrice ideale per lavorare in coppia. Anzi, direi che è la più brava del mondo: riuscire ad affermarsi in Italia nel genere comico, che è patrimonio maschile, è impresa rara» (Alberto Sordi). «Monica Vitti […] era di un’avarizia mostruosa. Una volta venne a casa con una tortina piccola, ma così piccola, che sembrava la definizione stessa di avarizia» (Franca Valeri)

«Mi sono accorta di avere un talento comico quando davanti ai compagni d’Accademia recitavo ruoli disperati e li facevo ridere. Ho capito solo dopo che era una straordinaria fortuna». «C’era per i comici uomini una tradizione cui rifarsi, dei modelli, anche se rivissuti con grande autonomia. Come attrice comica io non avrei potuto imitare nessuno. In Italia c’erano soltanto le bellissime e le caratteriste (Titina De Filippo, Ave Ninchi, Tina Pica). Un’attrice che fosse fisicamente normale e che sapesse recitare e far ridere non esisteva».

«Il segreto della mia comicità? La ribellione di fronte all’angoscia, alla tristezza, alla malinconia della vita». «A un certo punto della vita, a mia insaputa, devo aver deciso di dimenticare. Non dimenticare i dolori o gli errori, ma dimenticare fatti, persone, forse solo confondere tutto». «Lasciatemi l’emozione e tenetevi pure la memoria. Io non la voglio, perché è una truffa, e non la si può nemmeno portare in tribunale perché vincerebbe lei. La memoria non è con me, è contro di me. Sono anni che provo ad allontanarla, cancellarla, l’ho anche presa a schiaffi, a spintoni, e lei subisce tutto pur di restarmi in testa come un cappello di carta velina. Io non la voglio, e lei lo sa. Ma qualche volta mi cade in braccio, e mi tocca cullarla. L’ho sentita anche ridere, ieri».

Rodolfo di Giammarco per “la Repubblica” il 26 febbraio 2022.

Quali erano gli ambienti culturali più frequentati, e gli usi e costumi amichevoli più condivisi da Monica Vitti? Ne parliamo con Masolino d’Amico, un critico che la conosceva, a contatto con le sue abitudini. 

«Pur mettendo sempre più piede a teatro, Monica rimaneva timida e vulnerabile, e la mia amica Bice Valori scoprì che in un diario aveva giudicato Bice stessa, Bonucci e Tedeschi "colleghi cattivi ma diabolicamente spiritosi". Poi Antonioni s'innamorò di lei, e mise in luce la sua faccia in quattro film sull'incomunicabilità, facendone una creatura di successo per l'élite.

Ma Monica in privato non somigliava a quell'icona, il suo temperamento era diverso, fragile. Voleva restare libera d'essere se stessa, un po' preda delle paure, sempre col timore di impegnarsi, disposta solo ad appoggiarsi a uomini pigmalioni come appunto Michelangelo, poi Di Palma e infine Roberto Russo».

Provvista ovunque e sempre di una doppia personalità, in arte e nella vita quotidiana. «Esattamente. Sul lavoro era maniacale, rompiscatole, preoccupata dalla carriera, capace di bruciare le foto sgradite, forzata a un'aura intellettuale, ma nell'esistenza di tutti i giorni non si dava mai arie, aveva l'umore di una liceale, le piaceva scappare a cinema, teatri e mostre, rannicchiarsi nei sedili di piccole macchine, si mescolava nella folla o con pochi intimi, campava in una casa normalissima. E però era curiosa, voleva conoscere, leggere libri giusti, imparare dalle persone».

Monica Vitti organizzava anche raid a sorpresa. «Nei primi anni '70 mi telefonò per coinvolgermi in una trasferta verso il frusinate, per andare a trovare il santone dei Beatles, Maharishi Mahesh Yogi, che conduceva seminari di meditazione in campagna. Guidava Sergio Amidei, c'era Di Palma. Fummo ammessi, il guru era a gambe accoccolate. 'Che volete da me?' Imbarazzo.

Andammo via, a caccia di trote. Passavamo i capodanni in una tenuta di Franco Cristaldi vicino Volterra. C'erano Age e Scarpelli, Risi, Rosi e signora, passavano Tognazzi e Gassman. Monica di divertiva molto, era spiritosissima, e Monicelli, che la prendeva in giro stupendamente, scherzava con Antonioni dicendogli che con "Blow Up" era stato in anticipo di dieci anni e tra un po' sarebbe stato in ritardo.

Poi non ci si vide più la domenica. Finì la storia tra Cristaldi, stressato da "Amarcord" di Fellini, e la Cardinale sedotta da Squitieri». In mezzo a tanti film, il ritorno di Monica al teatro costò a d'Amico anche una notte in bianco. «Nel 1964 arrivò a Zeffirelli il copione di "Dopo la caduta" di Miller, e lui, dovendolo far leggere a Monica prima d'una sua partenza l'indomani, mi chiese di tradurglielo entro l'alba. Lo feci. Lei lesse e accettò».

Donne straordinarie. "Una donna semplicissima". I mille talenti di Monica Vitti. Attrice dell'incomunicabilità, ma anche regina della commedia e volto di un femminismo positivo: le mille vite dell'attrice romana, scomparsa nel febbraio 2022. Massimo Balsamo il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La voce roca, un'adattabilità senza pari, una bellezza particolare e ammaliante. Quarant'anni da protagonista tra dramma e commedia, tra grande e piccolo schermo, tra teatro e scrittura. Monica Vitti è stata e continua a rappresentare un simbolo, una diva senza tempo in grado di incarnare epoche e stili.

Il palmares è come lei, unico: cinque David di Donatello come migliore attrice protagonista, tre Nastri d'argento, dodici Globi d'oro, un Ciak d'oro alla carriera, un Leone d'oro alla carriera, un Orso d'argento alla Berlinale, una Concha de Plata a San Sebastián e così via. Un'interprete dalla bravura raggelante, ma anche una donna fuori da ogni schema, in grado di essere tutto e il contrario di tutto.

Una bellezza particolare, carisma e sensualità, ma anche grazia e ironia. Monica Vitti non ha mai preparato nulla a tavolino e anche questa è stata una delle ragioni del suo successo. Da un certo punto di vista, proprio con lei inizia una sorta di femminismo nel cinema. Un femminismo positivo, legato ai fatti concreti e non a improbabili hashtag, quasi sempre ispirati all'immarcescibile politicamente corretto: l'attrice capitolina ha messo da parte il femminismo dogmatico, preferendo una linea gentile, che si imponeva attraverso il talento.

Monica Vitti è stata l'attrice dell'incomunicabilità ma anche la regina della commedia. Amata da uomini e donne senza distinzioni, ha fatto piangere e ridere diverse generazioni.“Una donna semplicissima, non colta, comunque non intellettuale, che cerca in tutti i modi di legare con la realtà”, così si definiva. E la realtà è sempre stata centrale nel suo percorso artistico, tanto da vivere la recitazione come una necessità, un bisogno. Un'icona che continua a rappresentare un esempio enorme per chi si avvicina al mestiere: i suoi oltre 50 film rappresentano un pezzo di storia importante del cinema nostrano, ma anche una testimonianza che mantiene viva la sua presenza.

Il debutto e il cambiamento

Sia chiaro: anche Monica Vitti ha dovuto fare i conti con diversi ostacoli prima di conoscere il successo. L'esordio risale al 1954, una piccola parte nel film a episodi "Ridere! Ridere! Ridere!" di Edoardo Anton. Sono anni di cambiamento per il movimento, destinato a lasciarsi alle spalle il Neorealismo. Mutano abitudini e interessi, così come lo stile di vita e il ruolo della donna.

La meta è la commedia all'italiana, una delle stagioni più fortunate: pellicole divertenti, spensierate, satiriche, di costume e (anche) politiche. Quasi sempre relegate a ruoli secondari in precedenza, le donne diventano centrali. In particolare, la bellezza femminile. Monica Vitti, però, non ha mai fatto parte della categoria delle maggiorate. La sua bellezza era particolare, a tratti straniera. Nonostante ciò, il successo è arrivato. Il talento ha avuto la meglio su tutto, fino a diventare il "quinto colonnello" della commedia all’italiana assieme ad Alberto Sordi, Nino Manfredi, Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman.

Il successo con Antonioni

Gli anni Sessanta hanno consacrato Monica Vitti sia sul piccolo che sul grande schermo, confermando le sue eccellenti qualità interpretative. Sì, perché il decennio inizia con le magnifiche interpretazioni drammatiche nella "tetralogia dell'incomunicabilità" di Michelangelo Antonioni: "L'avventura", "La notte", "L'eclisse" e "Deserto rosso". Opere intellettuali, complicate, essenziali, fatte di silenzi più che di parole.

Un rapporto artistico e sentimentale, quello con Antonioni, che ha regalato una Vitti inedita, sorprendente, ammaliante. Un'interprete totale, a suo agio anche in un mondo drammatico e intimo. "Deserto rosso" rappresenta il capolinea del sodalizio artistico della coppia Antonioni-Vitti, insieme sullo stesso set solo diciotto anni dopo per il film tv "Il mistero di Oberwald".

La regina della commedia

Lontana dall'ideale di diva del tempo, Monica Vitti è riuscita a occupare una casella da sempre vuota nel cinema italiano: quella dell'attrice comica protagonista. La prima apparizione nel mondo della commedia "Il disco volante" di Tinto Brass - poi diventato il maestro del cinema erotico italiano - ma a valorizzare questo lato della Vitti ci ha pensato Mario Monicelli, che già aveva messo in rilievo il lato comico di Gassman.

Il 1968 è stato l'anno della svolta, complice "La ragazza con la pistola", film che racconta la storia di una donna del Sud che parte per l'Inghilterra decisa ad ammazzare l’uomo che l’ha disonorata. Un'opera perfetta nel pieno delle rivendicazioni femministe, un'opera che ribadisce ancora una volta il talento senza precedenti della Vitti.

“È sicuro che io con la mia vita, quello che penso e quello che sono lo porto nei miei personaggi, non potrei farne a meno. Cioè, devo assolutamente portare quello che c’è di buono, di non risolto, di curiosità, di interesse, di desideri in tutto il mio lavoro”, questo il Monica Vitti-pensiero, riportato nel libro dedicatole da Chiara Ricci.

Questo aspetto è risultato fondamentale nel suo percorso: il suo volto è diventato universale, attraverso la sua faccia qualsiasi donna può riconoscersi e ritrovarsi. Nonostante le tendenze del tempo, l'attrice capitolina ha rifiutato qualsiasi etichetta snob e non si è snaturata, non ha alterato nulla della sua recitazione. E sono tanti i personaggi femminili incarnati con successo, con trasformazioni anche all'interno dello stesso film: basti pensare a "Noi donne siamo fatte così" di Dino Risi, dove la Vitti interpreta dodici donne diverse (la suonatrice di piatti, Zoe, Annunziata, Teresa, Alberta, Eliana, Katherine, Erika, Palmira, Agata, Laura, Fulvia). Una prova da manuale dell'attore, semplicemente.

Gli anni Ottanta

Non sono mancati i momenti delicati, nonostante il successo. Monica Vitti infatti si è anche sentita bistrattata, incompresa dal cinema, soprattutto con l'arrivo degli anni Ottanta. Le offerte non sono mai mancate, anzi: ma l'attrice ha percepito di non poter esprimere se stessa nel pieno della sua forza. Fortunatamente, l'amore per la settima arte ha spazzato via qualsivoglia amarezza e ci ha regalato la coppia Vitti-Sordi (lei è stata l'unica in grado di tenere testa ad "Albertone"), il duo Vitti-Dorelli, senza dimenticare le collaborazioni Steno (il bellissimo "Tango della gelosia" con un giovane Diego Abatantuono).

L'ultimo film

L'ultima interpretazione di Monica Vitti risale al 1992, nel film tv "Ma tu mi vuoi bene?", ma l'ultimo film per il grande schermo è del 1990. E lì ritroviamo tutto il suo cinema: "Scandalo segreto" infatti è il suo primo e ultimo film da regista. Una storia drammatica piuttosto semplice, ma raccontata con la passione di chi ha amato il cinema più di ogni altra cosa.

Poi solo l'esordio da scrittrice, prima con "Sette sottane" (1993) e poi con "Il letto è una rosa" (1995), entrambi autobiografici. La sua ultima apparizione pubblica è del marzo 2002 alla prima di Notre Dame de Paris. Il lungo silenzio, fino al 2 febbraio 2022, giorno della sua scomparsa.

Biografia Monica Vitti chi è: età, carriera, morte, malattia, figli e marito.  Redazione il 6 Febbraio 6, 2022 su newsitaliane.it. 

Da oltre due decadi lontana dalle scene a causa di una malattia, l’attrice musa di Michelangelo Antonioni è stata, con identico talento, interprete comica e drammatica. Ma la vera popolarità arrivò grazie ad Alberto Sordi con il quale creò un duo irripetibile

La notizia è arrivata da Walter Veltroni via Twitter: “Roberto Russo, il suo compagno di questi anni, mi chiede di comunicare che Monica Vitti non c’è più. Lo faccio con grande dolore, affetto, rimpianto”. Nonostante l’attrice vivesse da anni lontana dalle luci della ribalta, l’annuncio lascia sgomenti perché con lei va via un pezzo della storia del cinema e del nostro Paese.

Nata Maria Luisa Ceciarelli a Roma, il 3 novembre del 1931, l’attrice aveva compiuto da qualche mese 90 anni, ma da molto tempo non si mostrava più in pubblico: a causa di una malattia degenerativa era scivolata in una dimensione nascosta e protetta.

Tra le ultime apparizioni in pubblico, quella del 2001, quando fu ricevuta al Palazzo del Quirinale per la serata dei David di Donatello. Dopo due amori importanti con il regista Michelangelo Antonioni e con il direttore della fotografia e regista Carlo Di Palma, dal 1974 la Vitti era legata al fotografo di scena e poi regista Roberto Russo, che aveva anche sposato.

È stato lui a starle vicino con amore in tutti questi anni di malattia degenerativa che le aveva fatto perdere la memoria della sua vita e della favolosa carriera. Il desiderio era quello che il pubblico, che tanto l’aveva amata, potesse ricordarla unicamente al meglio: bellissima, frizzante, spiritosa e malinconica, con quella voce inconfondibile e musa di tanti registi per quasi quarant’anni, dal 1954 al 1990, data del suo ultimo film, di cui era anche regista.

Nata in una famiglia borghese, i suoi genitori non apprezzarono la scelta di fare il cinema. «Un giorno mia madre mi disse che la polvere del palcoscenico corrode l’anima e il corpo», aveva raccontato. Si era diplomata nel 1953 a pieni voti all’Accademia di arte drammatica, aveva cominciato con il palcoscenico e il doppiaggio diventando poi una grande attrice del cinema d’autore.

L’incontro fondamentale fu con il regista Michelangelo Antonioni, con cui visse un’intensa storia d’amore e che la diresse nella famosa tetralogia dell’incomunicabilità: L’avventura (che si aggiudicò il premio della giuria al Festival di Cannes), La notte e L’eclisse nei quali l’attrice recitava rispettivamente con Gabriele Ferzetti, Marcello Mastroianni e Alain Delon. Uscite dal 1960 al ’63 le pellicole la resero celebre in tutto il mondo e il successo fu poi coronato dal quarto film della serie, Deserto Rosso, che vinse il Leone d’Oro a Venezia nel 1964.

Vitti e Antonioni erano celebri anche per il loro anticonformismo, per esempio perché vivevano nello stesso stabile, ma non nello stesso appartamento, finché si lasciarono nel 1966. Il regista Mario Monicelli invece seppe mettere in luce la verve umoristica di Monica. Nel 1968 la diresse ne La ragazza con la pistola pensato apposta per farne emergere il talento comico con la storia una fanciulla rapita per errore da un don Giovanni siciliano interpretato da Carlo Giuffré.

Successivamente formò una strepitosa coppia comica nazional popolare con Alberto Sordi diventando l’indiscussa regina della commedia all’italiana. Con Sordi, che riceverà assieme a lei il Leone d’Oro alla carriera nel 1995, girò da Amore mio aiutami! a Polvere di stelle, nel quale lei era l’adorabile soubrette anni 40 che cantava “ma n’do vai…se la banana non ce l’hai?”, diventata una delle più celebri battute cinematografiche di sempre. E poi ancora Io so che tu sai che io so.

Contro tutti i luoghi comuni che bellezza e umorismo non potessero stare insieme, la Vitti è stata un campionessa della comicità al femminile. Pur essendo bellissima, Monica non corrispondeva ai canoni estetici di quegli anni, incarnati da attrici come Sophia Loren o Silvana Mangano: era alta, con un fisico atletico, aveva poco seno e oltretutto si rifiutò di sottoporsi a un intervento di riduzione del naso un po’ grosso. La sua personalità strabordante univa fragilità e fermezza, ansia e leggerezza. Anche quando rideva o cantava una canzoncina in Tv, lo sguardo rimaneva profondo e malinconico. Prima di tutti i contemporanei proclami sulla diversità, Monica Vitti ha portato in scena le donne vere, tridimensionali e sfaccettate. E per questo non smetteremo mai di ringraziarla.

Il cinema uscito di scena. Se n’è andata Monica Vitti e questo tempo. L'Inkiesta il 2 Febbraio 2022.

Il cinema uscito di scena. Se n’è andata Monica Vitti e questo tempo scemo non ha né aneddoti né selfie per ricordarla. La più grande attrice comica italiana viveva reclusa e malata da 20 anni, lontana da immagini e fotografi. Non abbiamo l’ormai consueto autoscatto da esibire, ma almeno ci sono film stupendi da vedere e rivedere, emblema di un mondo e di una mentalità che sta scomparendo

Come la piangiamo, Monica Vitti, nell’epoca in cui col morto devi avere una foto, e lei era reclusa con la sua malattia da vent’anni? Nell’epoca in cui tutto va scaldato, avvicinato, personalizzato, e non funziona dire la più grande attrice comica (quindi: la più grande attrice tout court) italiana di tutti i tempi: devi avere un aneddoto, un ricordo, un qualcosa.

(Sì, ho detto più grande attrice comica. No, non mi verrebbe mai in mente di definire Franca Valeri “attrice”).

Come si elaborano i lutti nell’epoca in cui siamo così abituati alla reazione instant che, mezz’ora dopo l’uscita della notizia della morte della Vitti, hanno chiesto al povero Amadeus come la omaggeranno stasera a Sanremo? (Avrei voluto rispondesse: non lo so, sono qui a parlare con voi idioti invece di cercare di capire come ricordarla).

Aneddoti sulla Vitti non ce ne sono, e nessuno lo sa meglio di me che sei anni fa ho provato a fare un documentario su di lei, e già allora erano praticamente tutti morti, da Scola a Monicelli, e mentre ci lavoravo hanno iniziato a morire le poche amiche sue reduci, come Marta Marzotto, e a un certo punto qualcuno ci disse che dovevamo assolutamente intervistare Gian Luigi Rondi, «ma sbrigatevi, perché l’estate per i vecchi è letale», e Rondi pur di smentirlo morì il primo giorno d’autunno.

Già allora era praticamente impossibile ricordare Monica Vitti. Chi l’aveva conosciuta e frequentata (Gianni Morandi, Furio Colombo) non ne voleva parlare: in che termini parli d’un’amica che non si ricorda più il tuo nome, in che termini parli della più brillante delle attrici cui è successa la cosa più terrorizzante per qualunque persona brillante (ma forse anche per quelle ottuse), l’annebbiamento della consapevolezza?

(Una persona che avremmo dovuto intervistare per il documentario mi disse di sé che giocava a burraco perché era, come molti coevi, terrorizzata dall’Alzheimer e le avevano detto che teneva svegli i neuroni, «ma forse non funziona, anche la povera Vitti giocava sempre a burraco». C’è una cosa peggiore, forse, che essere morta, ed è essere viva e «la povera»).

Non riesco neanche a chiedermi come possa essere vivere in stato d’incoscienza così a lungo, mentre attorno a te la gente vive ma soprattutto muore: l’anno scorso è morta Isabella De Bernardi, che citavo ieri sera a proposito del suo accento romano in “Un sacco bello”, e che era stata la figlia della Vitti e di Sordi in Io so che tu sai che io so.

Forse persino più atroce mi pare la domanda: com’è avere un’amica che non è morta ma è come se lo fosse? È accaduto più o meno a tutti noi, avere amici con diagnosi terminali, e assistere allo strazio dell’agonia, o immaginarla senza avere il coraggio d’avvicinarsi. Però sono cose che durano sei mesi, un anno, due. Le immagini pubbliche più recenti che avevo visto, sei anni fa, negli archivi, sono quelle di Monica Vitti al funerale di Vittorio Gassman. Era il 2000, ventidue anni fa. Cosa fai, per ventidue anni: chiami il marito della tua amica chiedendo «novità»?

In “Vitti d’arte, Vitti d’amore”, documentario diretto l’anno scorso da Fabrizio Corallo, Barbara Alberti dice che quello di Roberto Russo, il marito che ha custodito il corpo della Vitti finché è stato tecnicamente vivo, è stato un atto d’amore e di intelligenza politica. Sei anni fa telefonai a Russo per chiedergli il permesso di fare un documentario sulla moglie. Fu molto gentile e disse che però non avrebbe potuto partecipare, perché di lei avrebbe potuto dire solo cose eccessivamente positive. Pensai, e penso ancora, che non ci siano amore o intelligenza politica che bastino, per un ruolo che non c’è neanche una parola per dire – sei vedovo, ma non lo sei – e per portarlo avanti per tutti quegli anni. È un ruolo tra l’eroismo e la santità, una cosa che ci vorrebbe un grande romanziere per raccontare.

Della Vitti bisogna parlare da viva, è l’unica soluzione. Da viva nei termini in cui ne avremmo parlato in faccia a lei, o alle sue spalle ma sapendo che se poi lo veniva a sapere s’incazzava. Prendo dai diari di Gian Luigi Rondi, sublime pettegolo, 22 gennaio 1963: «Mi sono accorto che, dopo “La notte”, Mastroianni e Monica non si salutano più; comunque Michelangelo, in mezzo, sembrava far da paciere».

Era la Monica di “Michele”, così lei chiamava Antonioni in una famosa intervista a Oriana Fallaci, in cui si chiedeva perché lui se la fosse presa brutta com’era. Il che fa ridere – era bellissima – ma è interessante. Una cosa di cui mi accorsi in quell’estate di documentario mancato è che la Vitti non somiglia mai alla Vitti. Le sue foto sono tutte diversissime, e non è per le ragioni di chirurgia o altri ritocchi per cui cambiano le attrici di oggi: c’è qualcosa nella sua faccia che è mutevole in modo persino più destabilizzante di quanto lo fu la sua carriera.

La Vitti ha fatto il contrario di quello che fanno in genere i comici e le belle donne, due categorie che invecchiando virano sul drammatico per esser presi sul serio. Lei era partita da «Mi fanno male i capelli» e diventò Assunta Patanè e Adelaide Ciafrocchi, cioè “La ragazza con la pistola” e “Dramma della gelosia”. Aveva quasi quarant’anni, e cominciava la sua seconda vita, e diventava quel che era sempre stata.

“La ragazza con la pistola” (è su Prime, andatevelo a guardare, invece di perdere tempo con me; Dramma della gelosia è su Prime e anche su RaiPlay) fu un’ossessione della mia adolescenza, e oggi non lo girerebbero mai: mettere in burletta il rapimento, la violenza, il matrimonio riparatore, tre anni prima di Franca Viola, le donne non hanno diritti e voi ridete, ma non vi vergognate. Che fortuna che sia esistito un tempo meno scemo in cui i Monicelli e le Vitti avevano voglia di fare ciò che è più necessario e utile fare delle cose orrende: riderne.

Di Monica Vitti bisognerebbe parlare da viva, ma certo per farlo bisogna conoscerla. Poco fa un grande giornale, con la fretta d’occuparsi delle notizie finché sono calde, di fare i clic finché il morto è in tendenza, ha pubblicato come «interpretazione più celebre di Monica Vitti» una scena di “Travolti da un insolito destino”.

Sarà stato contentissimo Giancarlo Giannini, coprotagonista di Mariangela Melato nel film della Wertmüller, e tra gli ultimi coprotagonisti dei grandi film della Vitti a essere vivo. «Contentissimo» un’antifrasi, ma forse no: in fondo, l’intercambiabilità della comica bionda è una cialtronata perfetta per un copione comico interpretato dalla Vitti. È il cinema che esce dal cinema, come accade sempre più spesso da quando il cinema del Novecento è quasi tutto uscito di scena, e a noi restano solo morti con cui abbiamo almeno un autoscatto.

Michele Placido: «Monica Vitti fu la mia salvezza, non solo artistica: all’epoca facevo la fame». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 03 febbraio 2022.

Il ricordo dell’attore: «Volevo recitare a teatro: una sera dopo lo spettacolo mi avvisarono che c’erano Dacia Maraini e lei per parlarmi di un progetto».

«Recitavo nel Barone rampante di Italo Calvino con la regia di Armando Pugliese, una sera dopo lo spettacolo mi avvisarono che c’erano Dacia Maraini e Monica Vitti venute parlarmi di un progetto. Era Teresa la ladra». Michele Placido aveva ventisei anni, era fresco di esperienze importanti, come l’Orlando furioso con Luca Ronconi, dopo l’abbandono della carriera in polizia e gli studi all’Accademia. «Non volevo fare il cinema, forte di convinzioni eroiche giovanili».

Come andò quel primo incontro?

«Ero confuso. Vorrei proseguire con il palcoscenico, dicevo e Monica: ma che dici? Anch’io vengo dal teatro. Mi fece telefonare da Ronconi che aveva lavorato con lei. Mi disse fallo, è Monica Vitti c’è il romanzo di Dacia. Fu la mia salvezza».

Artistica?

«Non solo. All’epoca facevo la fame, vivevo in una stanzetta in affitto in via dei Serpenti. Il film ebbe grande successo, passai a una bella pensioncina. Alla fine delle riprese fece una cena in cui invitò Monicelli, Comencini, Age, Scarpelli, mi aprì le porte del cinema. Ricordo che il primo giorno di set mi invitò a pranzo nella sua roulotte con Stefano Satta Flores, ma lei era a dieta e ci diede insalata e cicoria ripassata in padella. Ci facemmo molte risate. E mi promise una amatriciana».

Antonioni e la grande commedia, Brecht e la tv. Come lei nessuno mai.

«È vero. Una filmografia memorabile la sua. E una grande sapienza tecnica. Mi spiegò cosa era la macchina da presa, la varietà degli obiettivi, lei sapeva tutto. Il fim era l’esordio di Carlo Di Palma, allora suo compagno, grande direttore della fotografia poi con Woody Allen. Ma curò la regia anche lei».

In che modo?

«Diceva: Carlo, facciamo prima i miei primi piani, così Michele li guarda. Una delicatezza verso di me. Non solo, mi dava dritte per le battute. Io recitavo la parte di Tonino con la voce impostata, volevo mostare il mio talento. Lei mi chiese: ma di dove sei? Pugliese. Allora parla pugliese. Sentirla ridere dietro la macchina da presa mi ha fatto capire che ce l’avevo fatta. Mi ha insegnato a essere spontaneo, non imitare i grandi, cercare la verità dentro di te non nel copione. Impara e metti da parte».

E poi lavoraste in «Letti selvaggi».

«L’ultimo film di Luigi Zampa. La scena della seduzione tra me frate e lei suora fa molto ridere. E anni dopo mi presentò Antonioni, aveva pensato a me per Il mistero di Oberwald. Ero occupato, non se ne fece nulla. Le devo tanto. Con Anna Magnani e Mariangela Melato, la più grande di tutte. Grazie Monica».

Morte Monica Vitti, da piazza Cavour a Collina Fleming, a Sabaudia: storia di un amore ricambiato. Laura Martellini su Il Corriere della Sera il 02 febbraio 2022.

Roma fa da sfondo e da protagonista nella vita e nei film dell’interprete scomparsa a 90 anni. «È una città che può anche non stupirti, perché in fondo è pigra — disse —. Talmente sicura di sé, che non ha paura di niente. È lei che è eterna, mica noi».

Nata Maria Luisa Ceciarelli: un cognome che già la caratterizza come figlia della Capitale (vide la luce il 3 novembre 1931 a piazza Cavour), con ben poco di caratteriale del ramo bolognese innervato dalla madre, Adele Vittiglia. Monica Vitti è morta a 90 anni, e, come sono stati gli ultimi anni della sua vita, anche la fine è circondata da un mistero che però riporta sempre a Roma. Il marito Roberto Russo, regista e sceneggiatore, ha più volte smentito le voci di un trasferimento definitivo in una clinica svizzera per curare una patologia legata all’Alzheimer. La malattia che sbriciola la memoria. Anche quella di chi ha vissuto momenti indimenticabili. «Io e una badante, bastiamo noi a darle tutto il bene del mondo» ha detto Russo in recenti interviste.

Romana, vagabonda per formazione e necessità di vita: Polvere di stelle è il film forse più affine alla sua esistenza, con quel perenne percorrere l’Italia a bordo del carrozzone di una compagnia di giro al fianco di uno squinternato Alberto Sordi capocomico. L’avanspettacolo degli anni della Seconda Guerra. Ecco, piccolissima si trasferisce a Messina dove suo padre è ispettore del commercio estero. Da Messina a Napoli: una casa al Vomero affacciata sul sole del golfo. Poi, ancora bambina, il battesimo di una Roma di guerra e sofferenza: il palazzo dove è ospite per qualche giorno cade sotto le bombe del conflitto di cui lei ha spesso ricordato gli aspetti personali e grotteschi: «Mi chiamavano settesottane. Le infilavo una sopra l’altra per non patire il freddo, visto che non ce n’erano, all’epoca, di termosifoni».

I suoi fratelli prendono la via del mondo — Brasile, America — lei invece fa la sua scelta per sempre: la Capitale diventa la sua Roma. Anche se per vivere ha solo una stanza di due metri per quattro, e alla parete la riproduzione dell’altrettanto sbilenca camera da letto con quadri di Van Gogh. Allo spettacolo s’affaccia passando per il teatro, non per il cinema, come si supporrebbe: «La nemica» di Dario Niccodemi, a via Piacenza. Un palcoscenico piccolo e con le sedie sgualcite dalle parti del Quirinale che però le toglie ogni dubbio, su quale dovrà essere la sua strada.

Quel che segue è una vita da romanzo a cui la Roma dei vicoli storici, delle Accademie, dei circoli letterari, di quelli che vanno e vengono a cercar fortuna, e magari s’arrendono, dà sicuramente manforte. Più di uno sfondo. Piazza della Croce Rossa, per esempio: vi incontra studenti dell’Accademia d’arte drammatica Silvio d’Amico e decide che vuole essere come loro. Ma solo al secondo tentativo viene ammessa nella scuola: a penalizzarla, ironia del destino, quella voce roca che l’avrebbe contraddistinta come una delle più originali e passionali e versatili attrici italiane. E un naso considerato troppo importante, su cui ha spesso scherzato: «È il mio bagaglio: mi devono prendere con lui, o niente».

Monica e Roma. Dov’è che decide di cambiare il nome, stemperando Ceciarelli che sentiva stretto ora che coltivava ambizioni d’attrice? In un bar in viale di Villa Massimo, dove leggendo un romanzo che ha come protagonista tale Monica decide che è quella, l’identità che assumerà. Il cognome è la metà del Vittiglia di sua mamma. Così, leggera e determinata, trasvola dal teatro al cinema . Sono i primi anni 50. Ridere! Ridere! Ridere! di Edoardo Anton sdogana quel volto inconsapevolmente tragicomico nella Hollywood sul Tevere. E chi sul Tevere ci sta già ha dalla sua spirito, cinismo per non farsi abbattere e conoscenze. Doppiatrice per Monicelli; interprete per Antonioni che ne diviene il compagno di vita e s’ispira a un episodio realmente accaduto per il film del 1960 L’avventura. Le quinte stavolta sono le onde dell’isola di Ventotene: Monica si allontana dalla barca a nuoto, esplora le viuzze dove approda, poi non riesce a tornare indietro. Devono andarsela a cercare.

La casa di Michelangelo è un cenacolo dove incontra da Tonino Guerra a altri intellettuali, a Collina Fleming. Una dimora divisa in due da una botola: se mi cerchi, ti vedo. Da allora, anni Sessanta, una filmografia sterminata che la porta a essere riconosciuta come giurata a Cannes proprio quando la protesta studentesca infuria e lei si dimette dal ruolo di giudice, per solidarietà. Curiosità: la sua strada incontra anche quella di una quindicenne Fiorella Mannoia che per pagarsi gli studi fa la stunt girl e la sostituirà in tanti film di schiaffi (veri) dati e ricevuti. «Ho paura che resterò famosa per le botte» disse sorridendo durante un’intervista televisiva.

Eccola negli studi Rai del Teatro delle Vittorie, esibirsi spiritosamente a Canzonissima , e - sono gli anni 70 — al fianco del suo compagno, romanissimo , noto direttore della fotografia, Carlo Di Palma in Teresa la ladra. Set anche fra i vicoli di Anzio, mentre un altro litorale frequentato da interprete e da turista è stato da lei reso iconografico. Le dune di Sabaudia in Amore mio aiutami, film da regista di Alberto Sordi, devono anche alla scena dei due che si acciuffano e si respingono come cani rabbiosi l’upgrade a paesaggio nazionale. E a Sabaudia verrà ritratta, anni dopo, dai giornali patinati. Selvaggio come lei, un luogo dell’anima.

I primi anni Ottanta sono segnati dall’incontro con Roberto Russo. Recita per lui in Flirt, e non lo lascerà più. Tanto teatro, ancora cinema, ma anche una vita privata che vorrebbe forse prendere una forma familiare, dopo il matrimonio con il regista e sceneggiatore — il 28 settembre 2000 in Campidoglio - ma viene negata: «Andai dal giudice a chiedere cosa dovessi fare per tenere con me una bimba orfana cui ero molto affezionata. Ricordo ancora la sua risposta: “Pensa che potrei affidare una bambina a una donna come lei, che fa l’attrice ed è così bionda?”».

L’ultima apparizione pubblica la vede ancora per mano alla sua Roma: la prima del musical Notre-Dame de Paris di Riccardo Cocciante al Teatro Tor di Quinto. Il resto è una storia in controluce, vie e passanti perlustrati dall’attrice dalle finestre di via Brunetti, a due passi da piazza del Popolo. Storia di ricoveri in Svizzera ventilati dai media e sempre smentiti dal compagno. Ma in fondo poco importa. Da qua, in fondo, non si è mai allontanata: «La Capitale è una città che può anche non stupirti, perché è pigra — ebbe a commentare —. Talmente sicura di sé, che non ha paura di niente. È lei che è eterna. Mica noi!».

Da iltempo.it il 2 febbraio 2022.

Quando muore un grande personaggio la corsa dei media online a pubblicare news e contenuti che lo riguardano è nell’ordine delle cose. E talvolta non tutto va come dovrebbe. 

Come è noto mercoledì 2 febbraio è venuta a mancare Monica Vitti, leggenda del cinema italiano, ma sul sito del Corriere della sera è comparso un video che riguardava un'altra regina del grande schermo, Mariangela Melato, scomparsa l'11 gennaio 2013. 

Su Corriere.it è apparso un titolo che ha campeggiato a lungo nella copertina della sezione Spettacoli del sito: “Travolti da un insolito destino: l’interpretazione più celebre di Monica Vitti”, modificato dopo che molti utenti dei social hanno fatto notare l'errore. 

“Mentre stavamo preparando lo speciale per rendere omaggio alla grande Monica Vitti, abbiamo pubblicato per errore lo spezzone di un film con Mariangela Melato. Ci scusiamo con i lettori e con la famiglia dell’attrice”, ha scritto il sito scusandosi con i lettori.

Una svista contagiosa, visto che anche il sito dell'Ansa ha inserito un video su "Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”, film del 1974 di Lina Wertmüller con protagonisti Mariangela Melato e Giancarlo Giannini, all'interno di un articolo sulla Vitti.

Carlo Verdone: «La mia Monica Vitti: i film, le risate, l’amicizia». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 4 febbraio 2022.

Il regista ricorda Monica Vitti, la grande attrice scomparsa a Roma. «Convinse Sergio Leone, mio produttore a farmi fare il secondo film, a lei devo molto. Patrimonio nazionale» 

«Le devo tanto. Se il Furio di Bianco rosso e Verdone è diventata un’icona è merito suo e di Alberto Sordi». Carlo Verdone è tra i tantissimi — colleghi, amici, semplici spettatori — che fa i conti con la tristezza provocata dalla notizia della scomparsa, mercoledì mattina, di Monica Vitti , dopo una lunga malattia l’aveva tenuta lontana per vent’anni dalla scena. Il primo sentimento, dice il regista romano, è la gratitudine. «Era il mio secondo film. Ma il mio produttore, Sergio Leone, era convinto solo fino a un certo punto del personaggio di Furio. Lo trovava insopportabile, era convinto che il pubblico lo avrebbe odiato. Fece venire mille dubbi anche a me. Organizzò una proiezione privata a casa sua all’Eur. Invitò Sordi, Monica con Roberto Russo e pure Falcao, appena arrivato alla Roma».

Come andò?

«Applausi e risate di Monica e Alberto. Lei mi volle abbracciare. Sordi parlò tutta la sera con la voce di Furio, e voleva che io pure gli rispondessi così. Leone era ancora incredulo ma gli diede retta. E il tempo ha dimostrato che avevano ragione loro».

Anche molto fiuto, Vitti, oltre al talento formidabile.

«Era molto eclettica, era la sua forza. Ricordo una donna piena di vita e curiosità. Se si sentiva capita, se entrava in empatia si buttava e dava il meglio. Come con Antonioni. Lei voleva fare teatro anche leggero, quando è stata scelta da lui per la trilogia dell’incomunicabilità, si misurò con una prova drammatica molto impegnativa. E la superò alla grande. Straordinaria. Ero piccolino, i miei genitori erano impazziti per lei, mia madre la adorava. Quella bellezza non convenzionale. Addirittura il difetto della raucedine che lei rese un pregio. In mezzo a attrici perfette con voce impeccabile, lei era fuori dalla norma, lontana dagli standard. Ne ha imposto un altro, il suo. Con le sue risate, i suoi scatti di euforia e anche d’ira. Comunque simpatica».

L’ha mai vista arrabbiata?

«Ricordo una sera a Ischia, eravamo lì per ricevere un premio. A cena eravamo seduti vicini. Un paparazzo le fece una foto mentre masticava, lei andò su tutte le furie: “Lei è un gran maleducato, butti il rullino”. Lui non ne voleva sapere, gli ha fatto giurare che non avrebbe usato lo scatto e si rifiutò di farsi fare un’altra foto da lui. Non sopportava mancanze di rispetto».

A proposito di rispetto, anche il presidente Mattarella ha voluto renderle omaggio nel discorso di insediamento. Oggi e domani alla camera ardente in Campidoglio saranno di certo in tantissimi.

«Giusto così, lei è un patrimonio nazionale, anzi internazionale. Era attrice unica. E le va riconosciuto un merito».

Quale?

«È diventata grande in un periodo in cui il cinema era maschilista, il cinema dei Sordi, Tognazzi, Gassman, Mastroianni. Le donne stavano un passo indietro, a parte Valeri, Melato. Però lei aveva uno scatto in più, apparteneva alla gente, ha sempre raccontato donne reali in cui potersi riconoscere».

La malattia, lo ha ricordato anche lei, è stata protetta dalla sensibilità del marito.

«Russo è stato un marito fantastico, premuroso, ha dedicato la vita nell’assisterla con un amore che ha colpito tutti. Nel 2002 scrivevo un film con Piero de Bernardi, che abitava vicino a loro. Lei stava già male, dall’attico vedevamo Roberto che ogni giorno la faceva passeggiare in terrazzo. Commovente. E ricordo con affetto quando capitava di incontrarci. Prendevamo un caffè, mi chiedeva di mia mamma, che sapeva malata di una malattia neurovegetativa, mi raccomandava di farle tanti auguri».

La sua Vitti più amata?

«Tanti ruoli magnifici, L’avventura, Deserto rosso, la grande commedia. Non l’abbiano vista invecchiare. Meno male che esiste il cinema, che ci regala questa illusione di immortalità».

Monica Vitti, bellissima, intelligente e ironica. La ricordiamo con dieci foto (e look) iconici. Di solito la comicità non è associata alla bellezza. Monica Vitti è stata la splendida eccezione a questa regola dello spettacolo. Un'icona di bellezza, di femminilità, ma anche di empowerment femminile. Anna Lupini su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

E' scomparsa oggi Monica Vitti. L'icona del cinema italiano, assente da diversi anni dalla scena pubblica perché ammalata, aveva compiuto da poco 90 anni.

Monica Vitti in completo Galitzine 

Capelli biondi, occhi da gatta sottolineati dall'eyeliner nero, l'inconfondibile voce roca, Monica Vitti, nata Maria Luisa Ceciarelli, è stata un'interprete poliedrica del cinema italiana, musa di Mario Monicelli e di Michelangelo Antonioni.

Nell'epoca di Sophia Loren e Claudia Cardinale, Monica Vitti aveva trovato il suo posto e il suo stile, fatto di semplicità e di gusto per l'eccentricità, in puro mood anni 70, ma interpretato con ironia e autoironia. In fatto di stile era raffinata ed elegantissima, e sapeva portare qualsiasi cosa con nonchalance.

L'abbinamento capelli biondi e cappotto bianco doppiopetto: un classico dello stile 

Un'icona e un punto di riferimento per moltissime donne, che si sono rispecchiate in lei, e nella sua capacità senza pari di uscire dagli schemi, primo tra tutti quello che detta che l'attrice comica non sia bella. Monica non solo era bellissima, ma faceva ridere più di tutte. La ricordiamo con dieci look che oltrepassano il tempo. 

Monica Vitti nel 1965 con un cappotto animalier: un classico dello stile sempre attuale 

Monica Vitti nel 1965, con un abito da sposa creato da Beatrice Dawson per il film Modesty Blaise - La bellissima che uccide  

Blazer di taglio maschile, camicia bianca, pantaloni e mocassini con tacco basso 

Monica Vitti a Cannes: al completo pantaloni flare e camicia a righe, con cardigan lungo, abbina la collana a fiori e il fiore appuntato e gli occhiali oversize: attualissima   

Cappottino a trapezio bianco  

Look black & white con dettagli optical In stile seventy: cintura a catena, camicia fantasia, jeans a vita bassa 

Blazer bianco over, cappello nero e gonna midi  

È morta Monica Vitti, talento smisurato del cinema italiano. Chiara Ugolini su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Aveva 90 anni, da anni ritirata dalla vita pubblica per la malattia che l'aveva colpita. Ha lavorato con i più grandi: musa di Michelangelo Antonioni, compagna di avventure di Alberto Sordi. Autrice e regista. La notizia data dal marito Roberto Russo. 

È morta Monica Vitti, talento smisurato del cinema italiano. Aveva compiuto 90 anni a novembre, da anni si era ritirata dalla vita pubblica per la malattia che l'aveva colpita. Ha lavorato con i più grandi: musa di Michelangelo Antonioni, compagna di avventure di Alberto Sordi ma anche autrice e regista. La notizia è stata data dal marito Roberto Russo attraverso Walter Veltroni che su Twitter ha scritto: "Roberto Russo, il suo compagno di tutti questi anni, mi chiede di comunicare che Monica Vitti non c’è più. Lo faccio con dolore, affetto, rimpianto".

La grandezza di Monica Vitti si misura sulla distanza tra due battute cinematografiche: "Mi fanno male i capelli" e "Ma 'ndo hawaii se la banana non ce l'hai". Lei è stata capace - unica nella sua generazione - a coprire tutta la gamma di espressioni del cinema italiano. La donna borghese, nevrotica, dolente dell'incomunicabilità di Michelangelo Antonioni. La popolana, sguaiata, di un'allegria contagiosa, con Alberto Sordi. Punto di riferimento imprescindibile per tutte le attrici venute dopo di lei, Monica Vitti è stata tutto: profonda, enigmatica, sensuale, spiritosa. Intellettuale, popolare, malinconica, intelligente. Bellissima.

Negli ultimi anni, a causa di una malattia degenerativa, non è più apparsa in pubblico ma la sua eredità è rimasta fortissima nel mondo del cinema che, in occasione di anniversari e compleanni, non ha mancato di tributarle affetto con mostre fotografiche e rassegne dei suoi più di cinquanta film. Una carriera straordinaria e molti riconoscimenti: 5 David di Donatello come migliore attrice protagonista (più altri quattro riconoscimenti speciali), 3 Nastri d'Argento, 12 Globi d'oro (di cui due alla carriera) e un Ciak d'oro alla carriera, un Leone d'oro alla carriera a Venezia, un Orso d'argento alla Berlinale, una Cocha de Plata a San Sebastián, una candidatura al premio BAFTA.

Monica Vitti, incomunicabilità, commedie e polvere di stelle

Quella nuca bellissima: dal teatro al cinema

E pensare che al cinema Monica Vitti non aveva nessuna intenzione di dedicarsi. La sua passione era il teatro, scoperto ancora bambina durante la guerra (era nata a Roma il 3 novembre del 1931 con il nome di Maria Luisa Ceciarelli) quando giocava con i fratelli mettendo in scena spettacoli con i burattini per distrarli dalla realtà che li circondava.

Il debutto, ancora ragazza, con La nemica di Dario Niccodemi, poi l'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica (dove si diplomò nel '53), e una breve ma intensa attività teatrale, da Shakespeare a Molière, da Brecht a Sei storie da ridere di Luciano Mondolfo. Poi arrivò il doppiaggio e fu proprio lì, dalla cabina di regia, mentre Monica stava prestando la sua voce a Dorian Gray ne Il grido che Antonioni disse quella frase destinata a cambiare la sua carriera e la sua vita: "Ha una bella nuca, potrebbe fare del cinema".

Antonioni e il cinema dell'incomunicabilità

L'incontro con Antonioni fece saltare tutti i progetti dell'attrice che stava per sposarsi con un fidanzato architetto. Via il fidanzato, via la carriera teatrale Vitti divenne la musa del regista e di quella pagina del suo cinema dedicata alla nevrosi della coppia, alle inquietudini della donna moderna. Uno dietro l'altro arrivarono L'avventura (1960), La notte (1961), L'eclisse (1962) e Deserto rosso (1964): quattro donne diverse ma simili, quattro variazioni sullo stesso tema, la tormentata Claudia che cerca l'amica tra le isole delle Eolie, la tentatrice Valentina che "ruba" Mastroianni a Jeanne Moreau, la misteriosa e scontenta Vittoria che si fa corteggiare senza entusiasmo dall'agente di cambio Alain Delon e la depressa e tormentata Giuliana, moglie di un imprenditore insoddisfatta della vita.

Monica Vitti, l'Accademia e la polvere del palcoscenico

Benvenuta commedia da Monicelli a Sordi

Nella seconda metà degli anni '60, archiviato il cinema di Antonioni e lo stesso regista da cui si era separata (ma rimasero a vivere uno sopra l'altro per anni), Monica Vitti passò al genere della commedia che aveva ben frequentato a teatro. Con Mario Monicelli (La ragazza con la pistola, 1968) potè finalmente liberare la sua vis comica, già lucidamente preannunciato dal suo maestro di Accademia Sergio Tofano. Essendo bella ed elegante fu tra le prime attrici a saper dimostrare che per far ridere sul grande schermo non bisognava essere per forza bruttine o poco desiderabili. Accanto ad Alberto Sordi (che soffre molto per lei in Amore mio aiutami) cominciò un sodalizio che li porterà al grande successo di Polvere di stelle del 1973. In mezzo ci sono le collaborazioni con i nostri più grandi registi: Ettore Scola (Dramma della gelosia accanto a Giannini e Mastroianni), Dino Risi (Noi donne siamo fatte così), Luciano Salce (L'anatra all'arancia), Nanni Loy, Luigi Comencini (due degli episodi di Basta che non si sappia in giro).

Con Alberto Sordi 

L'amore con Di Palma, i suoi film e un po' di tv

Negli anni Settanta l'attrice fu diretta per tre volte dal compagno di allora, il direttore della fotografia di Antonioni, Carlo Di Palma, passato alla regia. È lei Teresa la ladra, il film di debutto di Di Palma (1973), poi verrà Qui comincia l'avventura (1975), motociclista tuta in pelle e casco integrale nel film a due con Claudia Cardinale (sorta di Thelma e Louise ante litteram) e infine la farà diventare una regina di tabarin (Mimì Bluette...fiore del mio giardino,1976). Negli anni Settanta ecco anche alcune incursioni televisive, mentre continua a frequentare il teatro, nel '74 si misura con due stelle del piccolo schermo come Raffaella Carrà e Mina cantando con loro Bellezze al bagno nel varietà Milleluci, quattro anni dopo recitò per la televisione nella commedia Il cilindro, di Eduardo De Filippo. 

Anni Ottanta e debutto alla regia

Dagli anni Ottanta Monica Vitti cominciò a diradare le apparizioni sul grande schermo, figurando soprattutto nei film diretti dal suo nuovo compagno, il fotografo di scena poi diventato regista Roberto Russo, (Flirt, 1983; Francesca è mia, 1986) che dopo 27 anni di fidanzamento sposò nel 2000 in Campidoglio. Di dieci anni prima il suo debutto come regista per il film Scandalo segreto da lei scritto e interpretato che le regalò un'ultima grande soddisfazione, il David di Donatello per il miglior esordio. È la storia di Margherita, la stessa Vitti, che riceve in regalo da un amico regista una telecamera molto moderna, automatica, completa di telecomando; la sua vita cambierà radicalmente e la macchina le rivelerà non solo il tradimento del marito con la sua migliore amica (Catherine Spaak) ma anche la desolazione della propria esistenza. Nella sua vita ha scritto due libri: nel '93 Sette sottane, autobiografia che prendeva il titolo dal soprannome che aveva da bambina "sette vestiti" dal momento che, se andava di fretta, era capace di mettersi un abito addosso all'altro e poi, nel '95, Il letto è una rosa in cui scriveva "Lo smarrimento mi stringe alla gola come un boa trasparente. Non posso dimostrare che ci sia, ma lui mi avvolge e mi striscia sul viso, promettendo orrori...".

55 donne in una sola

In 35 anni di cinema ha realizzato 55 film. Dando l'addio a Monica Vitti possiamo dare l'arrivederci alle tante donne che ha raccontato con grazia, femminilità e coraggio. Alle donne tormentate di Antonioni, alla spia Modesty Blaise di Joseph Losey, alla siciliana sedotta e tradita che vola a Londra per vendicarsi e scopre la libertà, alla Giuliana di Natalia Ginzburg portata sullo schermo da Luciano Salce in Ti ho sposato per allegria, alla donna che inventò la mossa: Mimì Tirabusciò. E ancora alla fioraia Adelaide divisa tra il muratore Mastroianni e il pizzaiolo Giannini, alla Tosca di Gigi Magni, alla soubrette Dea Dani nella Roma occupata dai nazisti, alla Mimì Bluette di Di Palma... tantissime donne in una sola, Monica: una nessuna e centomila.

Funerali e camera ardente

Venerdì in Campidoglio la camera ardente dell'attrice scomparsa all'età di 90 anni. L'apertura al pubblico, che vorrà darle l'ultimo saluto, dalle 10 alle 18. I funerali invece si terranno sabato 5 nella Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo alle ore 15. 

Monica Vitti, una presenza rivoluzionaria nel cinema italiano. Emiliano Morreale su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Dal dramma all'ironica, fu la prima attrice comica italiana protagonista, capace di reggere alla pari la sfida con i grandi interpreti della commedia.

È stata a suo modo una presenza rivoluzionaria nel nostro cinema, Monica Vitti. Per il percorso, per la duttilità, per le facce che ha cambiato e le strade che ha inaugurato. Il suo ingresso nel cinema italiano era possibile solo nel cinema degli anni 60, con un pubblico nuovo che si affacciava, nuove generazioni e nuove sensibilità, disponibili ad accogliere quella presenza così strana, quella voce roca, quel volto da bassorilievo romanico.

Paola Cortellesi: "Con Monica Vitti ho imparato a far uscire la mia parte comica". Arianna Finos su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

'A mia figlia, nove anni', spiega l'attrice ricordando la grande interprete del cinema, 'farei vedere Dramma della gelosia, Polvere di stelle. E prima ancora La ragazza con la pistola. Questi tre film li ho nel cuore'. 

"Monica Vitti è stata la guida per generazioni di attori e attrici", spiega Paola Cortellesi. "È stata capace di fare la differenza: oltre al talento e alla bravura, oltre all’incanto per la personalità artistica, Monica è stata spartiacque per il ruolo della donna al cinema".

Monica Vitti, quel muro di silenzio con cui il marito ha protetto il suo amore fragile. Arianna Finos su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Riservatezza assoluta e isolamento dal resto del mondo: così Roberto Russo ha tutelato per decenni l'attrice malata

Quando Monica Vitti ha capito che la memoria avrebbe cancellato i ricordi e la coscienza di sé, si è fatta promettere dall’uomo che amava, sposato un anno prima dopo tanto tempo vissuto insieme, che avrebbe protetto dal mondo quello che lei sarebbe diventata. Lo avremmo fatto tutti noi, a maggior ragione per un’attrice come lei, che aveva curato, controllato la sua immagine per tutta la carriera, che nelle interviste degli ultimi anni spesso si nascondeva dietro gli occhiali sfumati, la folta chioma, il sorriso bellissimo.

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Monica Vitti, Giancarlo Giannini: "Sapeva usare corpo e voce e aveva coraggio". Arianna Finos su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Con l'attrice ha girato due film l'indimenticabile 'Dramma della gelosia' di Scola e 'A mezzanotte va la ronda del piacere'.

Giancarlo Giannini con Monica Vitti ha girato due film, In Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) di Ettore Scola, nel 1970, è l’amante della fioraia Vitti, rivale del muratore Mastroianni. E poi, cinque anni dopo, A mezzanotte va la ronda del piacere, di Marcello Fondato, in cui è il marito donnaiolo ucciso dall’attrice, donna delle pulizie a processo.

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Monica Vitti, il ricordo di Diego Abatantuono: "Mi ha lanciato. Abitavamo in due case vicine, poi di colpo non ho più saputo niente di lei". Arianna Finos su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Insieme nel film 'Il tango della gelosia' di Steno: "Ho fatto il primo ruolo da coprotagonista con lei".

Uno dei treni che sono passati nella carriera di Diego Abatantuono si chiama Monica Vitti, che a vent’anni lo ha voluto co-protagonista al cinema di Il tango della gelosia. "Sono cresciuto al Derby, da giovanissimo andavo molto al cinema e Monica Vitti era tra gli attori che sentivo più vicini, con Gassman, Tognazzi, Sordi, Volonté, Mastroianni.

Monica Vitti ha risolto il grande dilemma dell’essere umano: sfuggire all’anonimato. EMANUELA FANELLI, attrice, su Il Domani il 02 febbraio 2022.

Io ho trentacinque anni. Appartengo alla generazione a cui durante l’infanzia veniva rinfacciato il gran numero di canali televisivi a disposizione e di merendine. Ho quindi conosciuto Monica Vitti quando era già la Vitti.

Dopo pranzo mia nonna voleva riposare ma io no, guardare un film a letto era il compromesso ideale. Amore mio aiutami, Io so che tu sai che io so, Il dramma della gelosia li ho visti così e quando entrava in scena lei, nonna ci teneva a dirmi “lei è la Vitti, eh”. Dovevo fare attenzione.

Faccio l’attrice anche io e lei mi fa bene. Mi mette davanti ai miei limiti ed è un regalo enorme,

EMANUELA FANELLI, attrice. Attrice e comica italiana, ha esordito al cinema nel 2015 con Non essere cattivo di Claudio Caligari. Dal 2020 è nel cast del programma Una pezza di Lundini.

Monica Vitti, grande e coraggiosa più del suo stesso cinema. Fabio Ferzetti su La Repubblica il 02 febbraio 2022.

Da diva dell’alienazione a prima vera maschera femminile della trionfante commedia all’italiana, è stata un’attrice unica, europea, libera

Non si era mai vista un’italiana così. In un paese di dive-mamme, dive-maggiorate, dive-amanti, dive-lolite, Monica Vitti era qualcosa di più complesso, inatteso e per molti versi addirittura inquietante: una donna. Punto e a capo. Una donna moderna, con la sua libertà, i suoi umori e magari le sue nevrosi. Una donna improvvisamente europea, che anticipava (e avrebbe interpretato a lungo) i cambiamenti del nostro paese esplorando i registri più diversi, prima musa del cinema d’autore, poi regina della commedia.

Marco Giusti per Dagospia il 2 febbraio 2022.

Certo che la Vitti è un mistero. E’ l’unica attrice italiana paragonabile, per successo e popolarità, ai colonnelli della nostra commedia, Gassmam-Tognazzi-Sordi-Manfredi. 

Forse l’unica donna comica che abbiamo avuto, almeno prima di Paola Cortellesi e poco dopo Franca Valeri. 

La prima nel cinema italiano in grado di affrontare temi socialmente importanti per le prime lotte femministe, a cominciare dalla sua Assunta Patané in “La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli, che cerca vendetta su chi l’ha disonorata in quel di Londra.

Ma è anche e soprattutto l’icona più importante del cinema più impegnato, più snob, e più da festival che abbiamo mai avuto, quello cioè di Michelangelo Antonioni, protagonista di “L’avventura”, “La notte”, L’eclisse”, “Deserto rosso”, dove costruisce un modello di donna completamente diverso da quello delle maggiorate alla Sophia Loren. 

E l’unica che sia riuscita a passare incredibilmente indenne dal cinema supersnob di Antonioni, dagli applausi di Cannes ai terribili fischi a Venezia, a quello di Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Luciano Salce e Alberto Sordi, che è forse quello che attore l’ha capita meglio.

Ma come ha fatto? Si dice, anzi si diceva, che il regista che per primo rivelò il suo gran talento comico fosse stato Alessandro Blasetti con l’episodio “La lepre e la tartaruga” nel film “Le quattro verità”, girato nel 1962 a metà strada tra “L’eclisse” e “Deserto rosso” di Antonioni. 

E’ vero che in quell’episodio, dove è una moglie che lotta con l’amante Sylva Koscina alla riconquista del marito Rossano Brazzi, c’è già tutta la Vitti divertente, intelligente, affascinante che conosciamo e che verrà fuori dopo, ma è vero pure che, malgrado tutta l’incomunicabilità di Antonioni, la Vitti era già comica, ma proprio comico, nel suo primissimo film, il mitico “Ridere! Ridere Ridere!”, proto-barzelletta movie girato da Edoardo Anton del 1954 che vide nascere anche la coppia Tognazzi-Vianello. Un film oggi vedibile solo su qualche privata in una pessima copia che andrebbe sicuramente restaurato. Non solo. 

A teatro aveva addirittura avuto il ruolo del bassotto Otto, come già ebbe in gioventù Franca Valeri, in una versione del Signor Bonaventura diretta proprio da Sergio Tofano, suo insegnante all’Accademia, che le impose anche di cambiar nome, e da Maria Luisa Ceciarelli divenne la più intrigante Monica Vitti (Vittiglia era il cognome materno). 

Anche per Luigi Magni, che la diresse in “Tosca” e molto ci litigò al punto di non guardarsi più in faccia per anni, la Vitti era nata comica. “La sua comicità non è affatto costruita.

Lei è una buffa di natura, nasce proprio attrice comica, commediante, secondo me era finta quando faceva quella a cui davano fastidio i capelli”. Per Vittorio Cottafavi, che la diresse in una celebre edizione televisiva, oggi temo invisibile, di “Le notti bianche”, tra un film di Antonioni e l’altro, era invece “Un’attrice molto sensibile, molto fine, forse più sensibile che professionale. Il personaggio era di una sensibilità eccessiva e Monica lo ha interpretato amorevolmente. Sembrava un filo d’erba scosso dal vento della sua sete di libertà, di amore e dalla paura che il suo amore fosse soltanto un’illusione”.

Accidenti… non è facile pensare alla stessa attrice così sensibile nel ruolo di superjena di “L’anatra all’arancia” di Luciano Salce in guerra con l’ex-marito Ugo Tognazzi o con Sordi nel fondamentale “Polvere di stelle”. Dino Risi, che la diresse in “Noi donne siamo fatte così”, un film ad episodi interamente costruito su di lei, ma scappò dalla regia di “L’anatra all’arancia”, la vedeva in modo diverso.

Partendo dal fatto che la commedia italiana era un genere di cinema fatto da uomini per un pubblico di uomini, diceva: “Il cinema italiano nel suo complesso ha impedito alle donne di crescere, di imporsi. Allora la Vitti ha dovuto diventare comica per sfondare, la Melato lo stesso”. Quindi per lei il film comico sarà solo un ripiego. 

Almeno rispetto al cinema di Antonioni che l’aveva lanciata in tutto il mondo. Mah… Eppure quando inizia a girare “L’avventura”, il primo dei film che girerà con Antonioni, l’avevamo vista da poco in due commedie. 

“Una pelliccia di visone” di Glauco Pellegrini nel 1956 con Tina Pica e Roberto Risso e “Le dritte” di Mario Amendola con Sandra Mondaini, Franco Fabrizi e Paolo Panelli. E’ Antonioni che la scopre attrice drammatiche, imponendola in capolavori come “La notte”, “L’eclisse”, fino a “Deserto rosso” e facendone l’immagine della donna borghese moderna, inquieta e sensibile, né madre né fatalona.

Ma l’istinto comico, in realtà, non scompare mai. E se Blasetti le costruirà il primo prototipo di personaggio adatto alla commedia all’italiana maggiore, senza per questa perdere il suo status nel cinema di Antonioni divisa tra Cannes e Venezia, saranno i tanti titoli successivi negli anni ’60 a farne una sorta di supercomica. 

A cominciare dal “Dimme porca che me piase de più!” che dice a Alberto Sordi in un episodio di “Il disco volante” di Tinto Brass ai personaggi dei suoi primi film a episodi, “Le bambole”, “Le fate”, alla sua versione di “Ti ho sposato per allegria” diretta da Luciano Salce, fino ai suoi primi grandi successo nella commedia all’italiana fine anni’60, in coppia con Alberto Sordi in “Amore mio aiutami”, nel 1969, dove tradisce il suo uomo e viene massacrata di botte, da sola, pronta all’omicidio per vendicarsi del disonore in La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli e al centro di un triangolo amoroso popolare in “Dramma della gelosia” a fianco di Marcello Mastroianni e Giancarlo Giannini. 

E’ con questi tre film, firmato Sordi, Monicelli, Scola, che la Vitti diventa di fatto uno dei colonnelli del cinema italiano e il nome che anche da sola fa botteghino.

Funzionano meno i tentativi per farne una star internazionale, come lo stravagante ma disastroso “Modesty Blaise” di Joseph Losey con Dirk Bogarde e Terence Stamp, il suo primo film in inglese, tratto da un celebre fumetto, o “La cintura di castità” di Pasquale Festa Campanile, dove recita in inglese con Tony Curtis. Losey muore d’imbarazzo quando si ritrova sul set la sua diva accompagnata dal fidanzato Michelangelo Antonioni con una faccia poco adatta all’operazione pop. 

Alla fine glielo disse, se, insomma, per piacere… poteva stare lontano dal set… Dirk Bogarde, anni dopo, disse che era stata la peggiore di tutte le sue partner, la definì “beastly”. Ma per Losey fu complicatissimo anche solo imporle delle riprese di profilo, cosa che non aveva mai accettato di fare prima.

A ben vedere, però, non era una passeggiata girare un film con lei. “Come attrice”, diceva Marcello Mastroianni a proposito di “Dramma della gelosia” di Scola, “tanto di cappello. 

Quello che semmai di lei mi lascia perplesso sul lavoro sono certe sue ansie, certe sue preoccupazioni, il suo perenne chiedere la complicità di tutti quelli che si trovano sul set – dall’operaio al macchinista all’elettricista al truccatore – tutti – nel suo eterno timore che possa sfuggirle qualcosa”. 

Franco Giraldi che, in “Gli ordini sono ordini”, tratto da un racconto di Moravia, cercava di farne una femminista, una che si libera dal ruolo di moglie borghese pronta a scopare come un uomo, si stupì del suo no, “una scena così proprio non l’accetto”, del suo non voler accettare le novità. Per Magni “la Vitti è la più difficile di tutte. Schiava di un teatro e di un cinema dove avevano importanza cose diverse.

Insomma lei viene da quel cinema dove quando diceva, come in Deserto rosso, Mi fanno male i capelli, era vero. 

Su questa cosa dei capelli l’abbiamo sfottuta per anni e Monica si incazzava se uno le chiedeva: Ti fanno male i capelli?”. Curiosamente il mondo del cinema italiano si trovò fra le mani una star, anzi una star comica e una star internazionale, che non sempre sapeva come gestire. 

I registi della commedia si trovavano in difficoltà con l’ombra di un uomo pesante e impegnato come Antonioni.

Risi raccontava di quando fece vedere alla coppia Vitti-Antonioni il suo “Venezia, la luna e tu” e incassò complimenti da lei, ma un durissimo “Credevo che tu fossi interessato a altro cinema da lui”. Ma per certi versi non era neanche così esportabile in film diversi da quelli che faceva. 

Quando girò con Miklos Jancso il musical-rivoluzionario sul 68 e dintorni “La pacifista”, una totale pazzia che amo molto, il produttore italiano fece rimontare e ridoppiare il film dal trucissimo Guido Leoni come fosse una commedia pecoreccia con risultati orripilanti.

Solo Luis Bunuel le offrì un buon ruolo in “Il fantasma della libertà”. Ma in generale quelli che sapevano come prenderla furono Alberto Sordi, con cui girò “Polvere le stelle”, il film a episodi “Le coppie”, “Io so che tu sai che lei sa”, o registi meno autoriali, come Marcello Fondato, che la diresse in “Ninì Tirabusciò”. 

“A mezzanotte va la ronda del piacere”, perfino nel suo ultimo film, “Ma tu mi vuoi bene?” nel 1992. Senza contare i film dei suoi fidanzati, come Carlo Di Palma, che la diresse nell’interessante “Teresa la ladra”, tratto da un romanzo di Dacia Maraini, che la Vitti fece vedere anche a Pertini al Quirinale, o come lo stesso Roberto Russo, il suo ultimo compagno, che la diresse in “Flirt”, che le fece vincere un premio al Festival di Berlino.

Curiosamente non funzionò affatto nella folle operazione de “Il mistero di Oberwald”, primo film girato in elettronica nel 1981 con mille sforzi e supporti produttivi da Michelangelo Antonioni tratto da “L’aigle à deux tetes” di Jean Cocteau, dove nel ruolo della regina, un tempo appartenuto a Edwige Feuillère, se ne esce con dei romanissimi “Sebbastian!” con troppe b dedicate a Franco Branciaroli che fecero ridere la platea dei critici in quel di Venezia. In fondo, l’aver per troppo tempo bazzicato il cinema comica l’aveva fatta diventare solo un’attrice comica. Inesorabilmente. 

Meglio vederla e rivederla nei suoi classici anni ’60 diretta da Antonioni o nelle sue commedie storiche, perfino nei più tardi “L’anatra all’arancia” o in “Amori miei”, film di grande successo dove fa morir dal ridere, che in operazioni dove non riusciva più a passare da un mondo all’altra.

Masolino D'Amico per "la Stampa" il 3 febbraio 2022.

Vidi per la prima volta Monica Vitti negli Anni 50, all'allora teatro Arlecchino. Lo spettacolo era Sei storie da ridere, atti unici molto divertenti coordinati da Luciano Mondolfo, con tre vecchie volpi - Alberto Bonucci, Gianrico Tedeschi e la mia grande amica Bice Valori. Monica, da non molto diplomata all'Accademia, non era ancora ufficialmente comica, anzi veniva da classici seri, e di carattere era timida (tale sarebbe rimasta: molti attori dopotutto lo sono, recitano per quello) e riservata. 

Spiando nel suo diario lasciato in camerino per vedere cosa diceva di loro, Bice trovò quanto segue: «Sono cattivi, cattivi, cattivi... ma sono anche terribilmente, diabolicamente spiritosi». Benché tutt' altro che sprovvista di senso dell'umorismo, e anche se inizialmente utilizzata, al cinema, anche in particine brillanti, sul grande schermo fu inizialmente identificata come la nuova musa di Michelangelo Antonioni e della sua tetralogia dell'incomunicabilità: L'avventura, 1960, «La notte, 1961, L'eclissi, 1962 e Deserto rosso, 1964 - qui Monica pronunciava la memorabile battuta «mi fanno male i capelli».

Quando Antonioni aveva portato il progetto dell'Avventura a mia madre, con cui aveva già scritto sceneggiature di film non banali, mia madre aveva alzato le braccia: «A questo punto devi fare da te». Il consiglio era saggio, e fu seguito. Ammiratissima nel circuito internazionale del cinema impegnato, Monica diventò così l'icona di un cinema nuovo e assai particolare, il che probabilmente scoraggiò altri registi dal proporla in ruoli altrettanto impegnativi, ma di matrice diversa. 

Al teatro tornò sporadicamente, diretta da Antonioni senza grandi esiti, ma con ottimo riscontro quando Franco Zeffirelli la affiancò a Giorgio Albertazzi in Dopo la caduta, dove Arthur Miller faceva i conti del proprio rapporto con Marilyn Monroe. Il cinema comunque si era accorto della sua fotogenia, e quando Antonioni passò a nuovi argomenti le fornì qualche occasione non trascurabile. 

La grande svolta e il vero successo arrivarono comunque solo con La ragazza con la pistola (1968), dove Mario Monicelli replicò il salto mortale che aveva effettuato più di dieci anni prima con I soliti ignoti e Vittorio Gassman, ossia un film comico senza comici di richiamo, con un protagonista già noto come attore serio anzi serissimo, cui per l'occasione vennero cambiati connotati (naso finto) e voce (balbuziente). Il risultato come ognun sa fu per Gassman una strepitosa nuova carriera di attore brillante.

Alla biondo-rossa Monica fu imposta una parrucca nera e una parlata dialettale. Il pubblico gradì enormemente l'ironia sui tabù sessuali e sul delitto d'onore, secondo la nota prassi che gli italiani adorano ridere di quello su cui si è cercato di farli indignare (la commedia all'italiana nata dal neorealismo). Anche per Monica fu l'inizio di una nuova carriera non meno sgargiante di quella di Gassman. Lo stesso Sordi fu veloce a sfruttarla, affiancandosela nel film che diresse subito dopo quello - Amore mio aiutami - e mettendola al centro del capolavoro Polvere di stelle (1973), epopea dell'avanspettacolo dove Monica fu impagabilmente ingenua e volgare («Ando' vai - se la banana nun ce l'hai»), e ancheggiando sul palco mostrò come non aveva mai fatto prima, non avendone avuto bisogno, due bellissime gambe. 

Nella lista dei film dove campeggiò tra quelli da ricordare sono certamente Dramma della gelosia (1970) di Scola e Io so che tu sai che io so (1982) di Sordi, ma i titoli sono molteplici, e ci furono anche escursioni all'estero, con registi come Bunuel, Cayatte, Michel Ritchie; fu diretta anche, con risultati non spregevoli, dai suoi nuovi compagni, prima Carlo Di Palma e poi Roberto Russo, quest' ultimo suo prezioso, affettuosissimo sostegno negli ultimi anni bui, quando noialtri compagni di viaggio non la vedevamo più.

Perché Monica, che non ebbe mai o non volle avere una sua famiglia sul modello tradizionale, fu sempre una deliziosa presenza nelle piccole comitive di sodali. Come pochissimi colleghi maschi (Sordi, Mastroianni, per esempio) e nessuna donna, almeno nessuna star di grandezza a lei paragonabile, non solo non si diede mai arie, ma si comportò sempre, nella vita come si dice, da persona qualunque. Sì, sul lavoro era esigente, talvolta addirittura insopportabile; ma lasciato il set o il palco era, con chi la conosceva, simpaticissima: allegra, avventurosa, curiosa, semplice, divertente, la persona ideale in una gita. 

Non fumava e non guidava la macchina, ma mangiava e beveva di gusto, senza alterarsi e senza mettere su peso. Sissignori, anche nel periodo dell'incomunicabilità. Monicelli amava scherzarci sopra, e Monica (e Michelangelo, che era austero solo nei film) ridevano volentieri. Beati anni. Certo, non torneranno. Ma li si ricorda volentieri. 

Gloria Satta per "il Messaggero" il 3 febbraio 2022.

A casa di Giancarlo Giannini, sulla parete dello studio, c'è una foto incorniciata di Monica Vitti, scattata negli anni Settanta. «È appesa là da un pezzo», rivela il grande attore, 79 anni, «il suo sorriso luminoso e la sua bellezza non convenzionale mi trasmettono allegria». Con l'attrice appena scomparsa Giannini ha girato due film: nel 1970 Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) diretto da Ettore Scola e, nel 1975, A mezzanotte va la ronda del piacere di Marcello Fondato. 

Vi eravate conosciuti sul set?

«Sì, mai visti prima. Nel film Dramma della gelosia fui scritturato per interpretare il pizzettaro che contende la fidanzata fioraia Vitti al muratore Marcello Mastroianni. All'epoca facevo Romeo in teatro mentre gli altri due erano delle star del cinema, così fui pagato pochissimo... ma accettai senza pensarci un attimo, sapevo che avrei avuto tanto da imparare».

Quale fu la sua prima impressione di Monica?

«Rimasi piacevolmente spiazzato. Tutti mi avevano detto che era esageratamente perfezionista, competitiva, rompiscatole e invece scoprii una donna simpaticissima, aperta, giocosa che aveva la mia stessa concezione del mestiere, inteso innanzitutto come divertimento. Sul set infatti ce la siamo spassata anche grazie a quel burlone di Scola che durante le scene più drammatiche ci gettava addosso le sigarette accese». 

E sul talento di Vitti cosa ha scoperto?

«Che aveva dei tempi scenici straordinari, non a caso si era formata all'Accademia con i giganti del teatro. Mi piaceva anche la sua voce roca: un tempo veniva considerata come un handicap, ma Monica la rese un suo punto di forza insieme alla bellezza non convenzionale».

Sapeva di essere una donna affascinante, dotata di un indiscusso sex appeal?

«Tutt' altro. Era insicura del proprio corpo, aveva molta resistenza a mostrarlo perché lo riteneva imperfetto. Non sarei un gentiluomo se rivelassi nei dettagli le sue ansie in questo senso... Insomma, era attentissima alla sua immagine, se ne preoccupava costantemente». 

In che modo?

«Voleva il controllo totale sulle sue foto. Non soltanto pretendeva di approvare gli scatti che sarebbero stati pubblicati, ma per sicurezza arrivava a tagliare con le forbici i negativi di quelli scartati. Credo glielo avesse insegnato Michelangelo Antonioni». 

È vero che sul set voleva il controllo dei primi piani per evitare che il suo profilo venisse male?

«Proprio così. Prima di ogni inquadratura faceva un lungo studio con il direttore della fotografia che in Dramma della gelosia era il suo compagno di allora, il grande Carlo Di Palma. Che io ricordi, soltanto Anna Magnani aveva la stessa ossessione di voler mostrare il suo lato migliore».

E sul set di A mezzanotte va la ronda del piacere come andò?

«Ricordo ancora tante risate, c'erano anche Vittorio Gassman e Claudia Cardinale. Ma la mia posizione era cambiata: non ero più schiacciato dai mostri sacri, questa volta facevo un farabutto e trattavo malissimo Monica, bravissima anche nell'interpretare la donna vessata». 

Finite le riprese, avete continuato a frequentarvi?

«Tanti anni fa, Monica mi invitò nella sua casa sulla collina Fleming dove viveva con Roberto Russo e mi intervistò per un documentario che volevano girare sulla sua vita. Mi colpì l'affiatamento tra i due, si vedeva che si amavano molto. Poi, si sa, nel nostro mestiere le strade si dividono con facilità. Non ci siamo più visti, quindi Monica si è ritirata dalle scene ma io continuavo a pensare a lei con affetto e riconoscenza per le mille cose che, come attore, mi aveva insegnato».

Prima attrice comica in un cinema dominato dai mattatori: secondo lei era consapevole di incarnare una rivoluzione?

«Se fosse consapevole non l'ho mai capito. Ma un fatto è sicuro: la rivoluzione l'ha fatta davvero».

L'unica "mattatrice" con la sua bellezza buffa. Stenio Solinas il 3 Febbraio 2022 -su Il Giornale. 

Affabulatrice ma ingenua, spericolata ma insicura. Per questo stava alla pari dei grandi come Sordi. 

Nel 1967, uno dei pochi motivi che potessero spingere un ragazzo sedicenne e non conformista ad accarezzare l'idea del matrimonio, era la possibilità di ritrovarsi in casa e in camera da letto la Giuliana-Monica Vitti di Ti ho sposato per allegria... Era un film delizioso, girato in una Roma poetica e geometrica, diretto da un regista che ha dato al cinema più di quanto si voglia ammettere, Luciano Salce, e con protagonista maschile un grande attore teatrale che il cinema non ha mai saputo veramente sfruttare, Giorgio Albertazzi, l'avvocato Pietro, compassato e con la pipa, marito appunto di Giuliana.

La Vitti aveva allora 36 anni, ma non li dimostrava per niente, aveva esordito un decennio prima e in questo arco di tempo aveva fatto in tempo a incarnare l'esistenzialismo in bianco e nero di Michelangelo Antonioni, da Avventura a Deserto rosso, la prima spia al femminile, Modesty Blaise, a prestare il suo volto a film a episodi, allora di gran moda, che non a caso si intitolavano Le bambole, Le fate, e vedevano alternarsi Virna Lisi, Gina Lollobrigida, Claudia Cardinale, Raquel Welch. Fra di loro la Vitti teneva il passo, con una bellezza tutta sua, né classica, né estrema, una bellezza buffa, su cui torneremo, il che vuol dire che era altrettanto brava e magari qualcosa di più.

Quel qualcosa di più Ti ho sposato per allegria lo illustrava benissimo, ed era un misto di indolenza e simpatica cialtroneria, lo stare fra le nuvole e il saper all'improvviso scenderne, il non dare peso alle cose serie e prendere sul serio quelle futili. Sposa giovane e incapace, nella nuova casa ancora non del tutto arredata Giuliana attendeva la visita della suocera come gli studenti impreparati attendono l'interrogazione che ne svelerà l'ignoranza... En attendant, ripitturava a suo modo le pareti, sognava flirt impossibili, tradimenti suoi e del marito raccontati a quest'ultimo con brio e grazia e sempre accolti da una risata liberatoria. Raramente, come in quella pellicola, la Vitti ha interpretato sé stessa, affabulatrice ingenua, spericolata e però insicura, sempre e comunque bisognosa di sognare.

Una bellezza buffa, abbiamo detto. Il fatto è che prima della Vitti c'erano state sì le attrici comiche, così come le attrici ironiche, ma da Titina de Filippo a Franca Valeri, due nomi a indicare i due generi, l'elemento estetico non faceva parte, come dire, del ruolo, e anzi era vivamente sconsigliato, a meno che non si trattasse di un certo teatro di rivista, dove però i canoni venivano mischiati e alla soubrettina, si chiamasse Delia Scala o la Lauretta Masiero immortalata dal Testori di La Gilda del Mac Mahon, si chiedevano oltre le belle gambe e il bel canto quel certo non so che dove la spigliatezza faceva sorridere. E va da sé che dal teatro di rivista al set cinematografico il salto per le soubrettine in questione era un salto mortale.

Monica Vitti, invece, faceva ridere nonostante fosse bella e restava bella per quanto facesse ridere. Ciò la metteva alla pari con i mattatori della Commedia all'italiana che nella seconda metà di quel decennio andavano ridisegnando i canoni con cui quel genere era stato tenuto a battesimo, in primis Alberto Sordi, di cui sarà non tanto spalla, ma controparte di identico peso. Uno degli elementi di questa bellezza buffa era la voce, una voce roca che faceva da contrasto con l'azzurro degli occhi e il biondo dei capelli e quindi ne faceva una bionda con la voce di una bruna, leggermente strascicata inoltre nella sua romanità.

Monica Vitti se n'è andata a novant'anni, anche se da almeno venti la nebbia della malattia l'aveva allontanata da sé stessa e dagli altri. Superati i settant'anni, c'è come un vento improvviso che si mette a scuotere l'albero della vita e rapidamente lo dirada delle foglie che erano lì come da sempre e che così a lungo ci avevano accompagnato. Un ventenne di oggi non ha mai visto un film della Vitti al cinema, con tutto quello che negli anni a cui prima abbiamo accennato andare al cinema significava, un rito e un mito che sempre più stancamente ha retto fino all'ultimo decennio novecentesco, e oggi fatica a ritrovare e a capire quella magia. Prima della pandemia, a Parigi, un paio di cinema d'essai del Quartiere latino proiettavano instancabilmente la prima Vitti, quella di Antonioni, dell'incomunicabilità. In un'altra sala sulla stessa via, altrettanto instancabilmente era la volta di Drame de la jalousie, dove il pizzaiolo Giancarlo Giannini sfornava per lei, fioraia appassionata di fotoromanzi, pizze a forma di cuore... Esistenzialista eppure vitalista, che si vuole di più? Stenio Solinas

Ridere, piangere, recitare. Addio cara Monica, antidiva del cinema italiano. La meno italiana delle nostre dive, la meno diva delle nostre attrici, se ne va a 90 anni. Nessuna, tre le rivali di quella generazione, poteva vantare il suo eclettismo. Daniele Zaccaria Il Dubbio il 2 febbraio 2022.

Da una parte c’erano Sofia Loren, Anna Magnani, Silvana Mangano, attrici intense e popolari, icone prosperose del boom economico. Dall’altra c’era lei, Monica Vitti, bionda, longilinea e senza curve, piedi lunghissimi, il naso dritto e lungo da statua greco-romana, le gote screziate dalle lentiggini, uno sguardo perturbante e “astigmatico”, la voce “di sabbia”, quasi a far frusciare le parole, che la rendeva unica.

Nessun’altra rivale di quella generazione poteva vantare il suo eclettismo; dalle pellicole colte ed ermetiche dei primi sessanta alle commedie ridanciane dei settanta attraversando le gloriose stagioni del nostro cinema, Monica Vitti ha intrecciato una ieraticità, scandinava, quasi “bergmaniana”, con un talento speciale per i tempi comici, anche nei loro tratti e nelle loro varianti più grossolane, senza snobismi. Poteva pronunciare battute sofisticate come il celebre «mi fanno male i capelli» de L’eclisse, all’altrettanto celebre «ma ’ndo vai se la banana nun ce l’hai!» di Polvere di stelle perché sapeva fare entrambe le cose senza sforzo e le sapeva fare benissimo per istinto naturale.

La meno italiana delle nostre dive, la meno diva delle nostre attrici, è scomparsa ieri a 90 anni nella sua abitazione a Roma, da oltre trenta si era completamente ritirata dalla vita pubblica perché colpita da una malattia degenerativa simile al morbo di Alzheimer. Attorno alla sua salute nel corso del tempo si erano alimentate leggende metropolitane e sgradevoli fake news, la più celebre da parte del quotidiano francese Le Monde che nel 1988 ne aveva annunciato la morte prematura.

Non è stato facile imporsi nel mondo dello spettacolo per quella ragazzina romana che nel secondo dopoguerra sognava di recitare come tante sue coetanee; per entrare all’accademia d’arte drammatica diretta da Silvio D’amico ha dovuto infatti sudare, passando anche per una brutta bocciatura. Poi, in breve tempo, tra qualche Shakespeare e Molière a teatro e qualche apparizione sul grande schermo, si è fatta notare e ha conquistato tutti. Certo, i produttori le chiedevano di cambiare la forma del naso con interventi di chirurgia estetica per conformarla allo stereotipo di bellezza in voga quegli anni, ma lei si è sempre rifiutata con orgoglio: «Alla fine abbiamo vinto noi, io e il mio naso».

La prima svolta artistica è l’incontro con Michelangelo Antonioni, con cui avrà anche una relazione sentimentale in cui il regista uscirà . Il cineasta dell’incomunicabilità e dello smarrimento esistenziale della piccola borghesia, anche lui così atipico e poco “italiano”, la mette al centro della scena in quattro film che sono quattro capolavori: L’Avventura (1960), La Notte (1961). L’eclisse (1962) e Deserto Rosso (1964), accanto a lei Gabriele Ferzetti, Alain Delon, Marcello Mastroianni.Finito il sodalizio con Antonioni arriva la seconda svolta della carriera: la chiama infatti un mostro sacro della commedia all’italiana, Mario Monicelli che la vuole come protagonista de La ragazza con la pistola, in cui interpreta Assunta Patanè, una donna lasciata sull’altare dal promesso sposo che decide di vendicarsi: è il ruolo con cui diventa famosa tra il grande pubblico recitando da lì in po in decine di film brillanti più volte accanto all’amico Alberto Sordi, con registi importanti come Ettore Scola, Steno, Luigi Magni, Nanni Loy, Luigi Comencini Sergio Corbucci.

Senza disdegnare qualche “ritorno” al cinema impegnato come accade ne Il fantasma della libertà dello spagnolo Luis Bunuel, in Ragione di Stato del francese André Cayatte, ne La pacifista dell’ungherese Miklós Jancsó e Un amore perfetto o quasi dello statunitense Michael Ritchie. Negli anni 90, quando iniziano a manifestarsi i sintomi della malattia le smette di fatto di recitare; nel frattempo si è unita artisticamente e sentimentalmente al fotografo Roberto Russo, di 16 anni più giovane, che sposerà solamente nel 2000. È stato proprio Russo ad annunciare ieri mattina la scomparsa dell’amata Monica. Che vogliamo ricordare con le parole con cui lei stessa parlava di sé: «Sono una vera bionda, una vera astigmatica, una vera passionale, una vera mangiona, una vera amica, davvero curiosa e non sono interessata ai pettegolezzi perché me ne dimentico».

La scomparsa della grande attrice. Chi era Monica Vitti, icona del cinema di Michelangelo Antonioni. Federico Fumagalli su Il Riformista il 3 Febbraio 2022. 

La dolce Vitti (come il bel titolo di una esposizione romana a lei dedicata nel 2018, giocata sul filo della memoria e della suggestione cinefila) è morta ieri, 90enne, dopo lunghissima malattia degenerativa. Che già da vent’anni aveva imperdonabilmente e irrimediabilmente tenuto distante la grande attrice romana, dal pubblico che tanto le voleva bene. E dai registi con cui, in maniera osmotica, si era scambiata talento e suggestioni artistiche in una carriera che ha segnato la seconda metà del novecento cinematografico, non solo italiano.

Per il suo forzato chiamarsi fuori, si può dire che Michelangelo Antonioni (scomparso nel 2007) e Alberto Sordi (nel 2003), due dei suoi migliori partner, in qualche modo le siano sopravvissuti. Il tempo perduto a questo mondo però – vale per tutti i grandissimi – non può dirsi perso del tutto. Se ci si immerge nella imponente filmografia, ricca di preziosissime gemme, che l’ha resa intramontabile. E che continuerà a mantenerla tale soltanto se, al di là degli ovvi proclami, le istituzioni si impegneranno a rendere partecipi le nuove generazioni di chi e quanto sia stata Maria Luisa Ceciarelli, in arte Monica Vitti. Perché la memoria, che lei aveva del tutto perduto a causa della malattia, non giochi altri scherzi, diversissimi ma comunque terribili.

Di famiglia borghese, nata nella capitale il tre novembre 1931, inizia la carriera come tanti. Si diploma attrice all’Accademia d’Arte Drammatica nel 1953. E come per tanti, i suoi inizi non sono un granché. Il debutto al cinema, negli anni di transizione (anche filmica) tra il dopoguerra e il boom, avviene in Ridere, ridere, ridere di Edoardo Anton. Le sarebbe servito al suo fianco un regista dal cognome simile, ma dalla poetica ben diversa, per farsi conoscere. Antonioni però, arrivò secondo a scoprirla. Il primato tocca a Sergio Tofano, che la diresse più volte in palcoscenico (da Machiavelli a Brecht) e a cui si deve l’idea di un cambio di nome, che le fece bene. Rispetto a Maria Luisa Ceciarelli, chiamarsi Monica Vitti suona più facile e più sobrio. E all’insegna della sobrietà emotiva, e con una vena esistenziale di clamoroso spessore, è il sodalizio forte con l’autorialità antonioniana. I cui proclami, le si leggevano sul viso sensuale e spigoloso, si interpretavano negli occhi malinconici e ascoltavano dalla voce roca, inconfondibile.

E allora, all’inizio degli anni Sessanta, bene arrivata Monica nel cinema nuovo del maestro ferrarese. Per Antonioni è protagonista della tetralogia dell’incomunicabilità. Il triangolo da brividi e tanti premi (insieme fanno due riconoscimenti a Cannes e l’Orso d’oro a Berlino): L’avventura (1960), La notte (1961), L’eclisse (1962). Cui si aggiunge, con un po’ di ritardo nel 1964, Deserto rosso. È qui che la Vitti pronuncia la battuta cult, scelta dallo sceneggiatore Tonino Guerra che la scova in una poesia di Amelia Roselli: «Mi fanno male i capelli». E dalle immagini d’archivio in bianco e nero si ricorda lei, bellissima in prima fila alla Mostra di Venezia, applaudire e sorridere al Leone d’oro che Antonioni vince per Deserto rosso. Poi cambia di umore ed è molto emozionata, quando il regista all’epoca suo compagno, la ringrazia con affetto: «In questa mia battaglia ho avuto vicino una persona che ha collaborato con me con molto coraggio e valore. Ringrazio pubblicamente Monica Vitti».

I due si ritroveranno solo un’altra volta, e parecchio tempo dopo. Nel 1980 per Il mistero di Oberwald. Anche perché Vitti, nel frattempo, scopre quella cosa chiamata commedia, che ad Antonioni davvero non apparteneva. Ma a lei sì.

E allora eccola tornare ai personaggi brillanti, divertenti e un poco scollacciati, che aveva sperimentato agli inizi. Stavolta però, li affronta giocando sul centrale della commedia all’italiana. Di cui dalla seconda metà dei Sessanta e per tutto il decennio successivo, diventa regina incontrastata. Si prende la scena, gli applausi e gli incassi al botteghino. È Assunta, la siciliana disonorata di La ragazza con la pistola di Mario Monicelli (1968); la fioraia di Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca di Ettore Scola (1970) in cui è la più brava in un terzetto di giganti (oltre a lei, Giancarlo Giannini e Marcello Mastroianni); la capocomica di Polvere di stelle (1973), avanspettacolo sotto le bombe nel miglior film di Sordi autore.

Come Teresa la ladra (1973) è la migliore prova da regista del grande autore della fotografia Carlo Di Palma, che fu suo compagno. Tutto e tutti al servizio della Vitti. Bravissima e mattatrice, ma mai bulimica. Adatta al lavoro in coppia. Come succede con Ugo Tognazzi, in L’anatra all’arancia di Luciano Salce (1975). Negli anni Ottanta, il cinema italiano fu meno generoso. Con lei e di conseguenza con gli spettatori. Ma è bene ricordare Flirt (1983), diretto da Roberto Russo, suo affettuoso marito nel lungo e triste finale di partita. Per questo film, alla Vitti giunge un tardivo Orso d’argento come migliore attrice, alla Berlinale. Nel 1995 invece, alla sua carriera già in cassaforte viene conferito il prestigioso Leone d’Oro. Su script di Russo (ma negli anni ha certo recitato sceneggiature meglio riuscite, scritte da Age & Scarpelli, Guerra e Scola), Vitti esordisce anche alla regia. Scandalo segreto (1990) è la sua unica prova dietro e la sua ultima davanti alla macchina da presa.

Prima del terribile silenzio, capitato con l’arrivo del nuovo secolo, ci sono stati impegni simpatici, all’insegna della leggerezza. La conduzione di Domenica In su Rai1, con Mara Venier. Il doppiaggio italiano del cane snob di Senti chi parla adesso, a scambiare battute di fuoco con il randagio che ha la voce di Renato Pozzetto. Lo scorso novembre, al compimento dei suoi novant’anni, in tanti le hanno reso omaggio. Come il Museo Nazionale del Cinema di Torino. «È stato per noi un tributo importante e necessario – dice il direttore Domenico De Gaetano – a una delle più grandi attrici del cinema internazionale del Novecento. Una diva inconsueta e anticonformista, grande interprete di film che hanno raccontato oltre quarant’anni di società e storia italiana. Vitti è radicata nel cuore delle persone». In mostra c’erano immagini scattate da Angelo Frontoni, il fotografo delle dive. Monica Vitti diva lo è stata. Eppure sempre molto umana. Protagonista di una vita favolosa e tragica. Comunque dolcissima. Federico Fumagalli

Da iltempo.it il 4 febbraio 2022.

Monica Vitti è appena scomparsa e tornano alla mente le tante interpretazioni che ha regalato alla storia del cinema. Come "Io so che tu sai che io so", film del 1982 in cui la Vitti recitava accanto a Alberto Sordi.

E in una delle scene più celebri della pellicola fa la sua comparsa anche Gianni Letta che interpreta la parte di se stesso, allora direttore de Il Tempo. Nel film si indaga sulla morte di un uomo, il vicino di casa della coppia Sordi-Vitti.

Monica Vitti, la camera ardente tra mimose, foto e video.  Il Quotidiano del Sud il 4 Febbraio 2022.

Mazzi di mimose e rose gialle, il suo colore preferito, e alle spalle del feretro lo stendardo della squadra del cuore, la SS Lazio. Dalle 10 di questa mattina, quando è stata aperta la camera ardente, il flusso di persone alla Sala della Protomoteca in Campidoglio per dare un ultimo saluto a Monica Vitti non si è interrotto.

LEGGI: È morta Monica Vitti, icona del cinema italiano: aveva 90 anni

Arrivano con piccoli mazzi di fiori, in gruppi o alla spicciolata, donne e uomini di ogni età per rendere omaggio all’attrice che con i suoi tanti volti ha accompagnato la vita di tantissimi italiani. Tra i primi ad arrivare, oltre al sindaco Gualtieri che ha accolto il feretro in Campidoglio, il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti che ha omaggiato l’artista con una corona di fiori deposta accanto a quella del Comune.

«Oggi è un giorno triste, è il giorno dove prendere atto che Monica Vitti non è poi tra noi», ha dichiarato Zingaretti. “Si avverte la sua assenza. Era un pezzetto di ciò che siamo stati fino a oggi, era una di noi”, ha aggiunto ricordandola come “una donna che, con i suoi sorrisi e la sua bravura, era presente comunque, anche se era fuori dalle scene da tanto tempo. Sapere che non c’è più è davvero la tristezza più profonda”.

“E” stata una delle grandissimi attrici del cinema italiano e una donna impegnata anche sul piano civico e politico: una figura grandissima, infatti la città la piange e la ricorda. Riusciva a interpretare ruoli di ogni tipo. Era romana, romanissima. Un grandissimo orgoglio”, ha ricordato il sindaco Gualtieri aggiungendo che presto verrà intitolato a Monica Vitti un luogo della città.

Ad abbracciare la famiglia in questo momento di dolore anche Walter Veltroni visibilmente commosso e le colleghe e amiche di una vita, Marisa Laurito e Dacia Maraini che ne hanno ricordato la grande vitalità che rende quasi incredibile che sia morta e la risata coinvolgente.

Un video alterna le sue foto e un ‘grazie Monicà con un sottofondo musicale di violini. Ai piedi della bara un mazzo di fiori raccolti dalla scritta “ma ‘ndo vai?”, domanda che sembrano rivolgerle i tanti ammiratori così increduli nel dirle addio. In collaborazione con Italpress

Morte Monica Vitti, la camera ardente. Sabato i funerali. Redazione Roma  su Il Corriere della Sera il 4 Febbraio 2022.

La camera ardente nella sala della Protomoteca aperta venerdì e sabato dalle 10 alle 13. Poi i funerali, previsti alle 15 nella Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo. L’omaggio di Franceschini, Maraini, Laurito. 

È arrivato in Campidoglio il feretro di Monica Vitti, morta martedì all’età di 90 anni. Ad attenderlo il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.

Per l’attrice è stata allestita la camera ardente nella sala della Protomoteca: è rimasta aperta venerdì e lo sarà anche sabato dalle 10 alle 13. Poi i funerali, previsti alle 15 nella Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo.

A rendere omaggio all’attrice alcuni volti noti della cultura, dello spettacolo e della politica, dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, al presidente della Regione Nicola Zingaretti, a Dacia Maraini e Marisa Laurito. «Ricordo la sua allegria incontenibile, unita all’intelligenza, che è un segno suo personale, ma anche di quel periodo storico e cinematografico in particolare» ha detto la Maraini, che con Monica trascorse «un’indimenticabile vacanza in Sicilia. La sua felicità a rotolarsi fra le onde, sembrava un tonnarello».

Monica Vitti, centinaia in Piazza del Popolo per il funerale. Giannini: "Una grande attrice. Stiamo perdendo troppe persone". Riccardo Caponetti La Repubblica il 5 febbraio 2022.  

La folla di fronte alla Chiesa degli Artisti, si è radunata già dalle 14. Tra i primi a entrare l'ex sindaco di Roma Walter Veltroni. Eleonora Giorgi: "Volevamo tutte essere lei".  

l maxischermo, davanti la Chiesa degli Artisti a Piazza del Popolo, proietta in diretta l'arrivo del feretro di Monica Vitti da via del Babuino. Un lungo applauso e un unico grido, "ciao Monica", lo accompagnano fino all'altare.

I fiori gialli, i suoi preferiti, sono ovunque, anche accanto al libro delle dediche all'ingresso dell'edificio. "Adorava soprattutto le mimose", ricordano i tanti fan (poco più di 500) che desiderano tributare un ultimo omaggio all'attrice italiana, scomparsa il 2 febbraio all'età di 90 anni.

Da corriere.it il 7 febbraio 2022.

Tanta la gente comune che si è raccolta in piazza del Popolo per l'ultimo saluto a Monica Vitti. Anche amici, e colleghi hanno voluto portare il loro saluto. Alle telecamere qualcuno si lascia andare ai ricordi.

Eleonora Giorgi confida che «volevamo tutte essere Monica. Era coraggiosa, ha inventato la comicità per una donna bella, che non era facile. Io sin da bambina la studiavo in tutto. È il momento di un addio vero, anche a un'epoca. Di lei rimane tutto l'insegnamento».

Walter Veltroni, in silenzio entra in chiesa. Zeudi Araya ricorda le tante serate passate con lei: «Era unica, giocava come una ragazzina, era sempre allegra». 

Giancarlo Giannini si fa largo tra le telecamere, solo una frase da dietro la mascherina, con la sua voce inconfondibile: «Era la più grande attrice del mondo».

DAGONEWS il 7 febbraio 2022.

La diretta del TG1 sui funerali di Monica Vitti sta facendo scalpore. Molti telespettatori sono rimasti indignati dalla “telecronaca” della giornalista Barbara Capponi e della sua ospite, Laura Delli Colli. Dopo i primi dieci minuti di messa, è stato un continuo parlare: durante il Salmo responsoriale, durante l’Alleluia, perfino durante l’inizio del Vangelo.

Praticamente, durante tutta la cerimonia, quando il prete stava un attimo zitto, Capponi riempiva il vuoto parlando dei film e dei personaggi interpretati dalla grande attrice. Il sacerdote pregava e loro parlavano di questo o di quel film. Del resto è lo stile Maggioni e Ansaldo: la notizia sono io che parlo, non quello che succede.

In Vaticano, la trasmissione non è passata inosservata: è stato chiesto alla Cei di protestare formalmente, ma il responsabile delle comunicazioni, il laico Vincenzo Corrado, non lo vuole fare per motivi personali. Ma se da Oltretevere insistono, forse sarà costretta a intervenire direttamente la dirigenza della Cei.

Monica Vitti, il marito Roberto Russo: «La amo ancora come un pazzo, in 20 anni di malattia non l'ho mai lasciata un istante». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 19 giugno 2022.

Le prime parole dopo anni di silenzio: «Ho difeso il suo desiderio di riservatezza fino alla fine, con lei è stata una vita stupenda». Uno degli ultimi biglietti dell’attrice scomparsa lo scorso 2 febbraio: «Niente è bello senza di te»

In questa casa, per venti anni, non è entrato mai nessuno. «A parte i medici, solo io, Cristina, la segretaria di Monica e Mirella, che badava a lei. Nessun altro, mai». Roberto Russo, l’uomo che ho di fronte, è stato per quarantanove anni il compagno della vita di Monica Vitti. Siamo nella stanza dove l’attrice più popolare del nostro Paese, amata ovunque nel mondo, ha trascorso gli anni del nuovo millennio, lontana dal frastuono di questo tempo, veloce e clamoroso. Seduta su quella poltrona in pelle nera, Monica ha visto lo scorrere dei giorni, delle stagioni, degli anni. In questa casa lei e Roberto sono venuti a vivere nel 1987. La sua precedente era andata a fuoco e lei comunque non ci stava bene «perché al piano di sopra abitava Michelangelo Antonioni, l’altro uomo importante della sua vita. Lei lo sentiva trascinare la gamba in casa, dopo che era stato colpito dall’ictus, e questo la faceva soffrire».

Come hai conosciuto Monica, chiedo a Roberto. «Eravamo sul set di Teresa la ladra. Avevo 25 anni, lei sedici più di me. Lei era l’attrice protagonista, io battevo il ciak. Insomma ero un macchinista. Nel cinema ho fatto ogni cosa. Vivevo a Torpignattara e un giorno vennero a girare un film. Gli servivano due bambini. Non mi feci mancare l’occasione. Poi sono stato macchinista, elettricista, attrezzista, arredatore. Mi piaceva tantissimo lavorare sul set. Non avevo orari. Mi pagavano di più perché lavoravo il doppio. Poi ho fatto anche il fotografo di scena, il regista, il produttore. I nsomma, durante quel film, tratto da un libro di Dacia Maraini, io persi completamente la testa. Da quando l’ho vista non ho capito più nulla. Ma io ero il ciakkista e lei la star. Lei era fidanzata. Non avevo mai visto una donna di quella intelligenza, di quella simpatia, di quella bellezza. Lei era come i film che ha fatto: sapeva far ridere, far piangere, far pensare. La nostra storia, durata quasi mezzo secolo, è stata l’avventura di una simbiosi. Tu l’hai conosciuta e lo sai: se stavi anche solo cinque minuti con Monica eri fregato, ti ammaliava, prendendoti da ogni parte, non volevi andar via. E io non sono mai andato via. Ti racconto questo: noi non ci siamo mai lasciati un secondo. Pensa che in cinquant’anni io ho dormito lontano da lei solo una notte, per un premio che dovevo ritirare. Monica ed io non abbiamo mai chiuso occhio quella notte».

Si può immaginare cosa i portici maliziosi del rutilante mondo dello spettacolo potessero dire di questa unione: la celebrità e il ciakkista, i sedici anni di differenza, Cannes e Torpignattara... «Io sono ancora innamorato come un pazzo» dice con la voce strozzata quest’uomo smagrito, con i bei lineamenti di sempre e un piccolo cerotto sul petto, residuo di una lieve operazione al cuore: «Da febbraio mi manca ogni istante un battito». Mi mostra una fotografia di Monica sulla poltrona che ho di fronte, in questo salone silenzioso, spazio grande di una casa di cento metri quadri. È Monica nell’ultimo periodo della sua vita, così come nessuno, salvo quelle tre persone, l’ha vista mai. Io l’ho incontrata per l’ultima volta, come tutti, più di venti anni fa. Poi lei, come un Salinger cagionevole, ha smesso di mostrarsi. E ora, mentre Roberto cerca l’immagine sul suo cellulare, io mi sforzo di ricordarla come era. Nella mente si sovrappongono tante immagini: quelle di Claudia del film di Antonioni — «L’Avventura era il preferito di Monica. E anche il mio», dice Roberto — La Tosca di Luigi Magni, Adelaide Ciafrocchi di Dramma della gelosia, Dea Dani di Polvere di stelle, Assunta Patanè di La ragazza con la pistola. Rivedo lei con quel volto sensuale e colto, irriverente e ironico. Lei, con una bellezza popolare, raffinata, inusuale. Ora Roberto l’ha trovata, la fotografia. Me la mostra. È Monica, con il suo meraviglioso casco di capelli biondi e il suo volto pieno di lentiggini e sole. Ma una fotografia non ha parole.

Allora chiedo a Roberto quando si è accorto che in Monica qualcosa non andava più. «Monica era una grande attrice, non dimenticarlo. Lei mascherava i vuoti che si andavano moltiplicando nella sua mente. Era bravissima. Faceva leva sul fatto che, in fondo, un po’ smemorata era sempre stata. Sapeva tutti i copioni a memoria, ma magari non ricordava dove aveva lasciato le chiavi di casa. È sempre stata così. Ma la nostra vita in simbiosi faceva sì che ogni piccolo slittamento dell’uno fosse avvertito dall’altro. Io mi ero accorto che qualcosa non andava come sempre. Che la memoria la stava abbandonando, lentamente ma, per me, visibilmente. La portai da un famoso medico. Lei sfoderò le sue doti di camuffamento e alla fine questo luminare mi investì dicendo che Monica stava benissimo e che ero io a dovermi far visitare. Un’altra volta la portai a fare analisi in clinica e lei si arrabbiò. Mi chiese come mi era venuto in mente, che lei stava benissimo e le analisi lo avevano confermato. Io mi scusai e le dissi che lo avevo fatto per togliermi la paura».

Chiedo a Roberto se lui ha mai avuto la sensazione che Monica si fosse resa conto che le stava accadendo qualcosa di simile alla perdita di memoria del computer di 2001 Odissea nello spazio. Roberto deglutisce e dice che «Sì, una volta mi disse: “Roberto non mi ricordo questa cosa, è una cosa facile. Come mai? Cosa mi sta succedendo?”». Monica non ha avuto l’Alzheimer, ma una malattia degenerativa che si chiama «Demenza a corpi di Lewy» data da un accumulo di proteine nel cervello che provoca disturbi gravi dell’attenzione, della parola, delle facoltà motorie e induce apatia. Ma Monica fino alla fine si è sforzata di reagire. Non stava a letto, si alzava, sostenuta dai tre compagni di tutti quei giorni, si faceva lavare e vestire — Roberto dice che «a novant’anni aveva delle gambe bellissime» — e si metteva su quella poltrona nera. Quella di fronte ai miei occhi, quella della fotografia. Sia Cristina che Roberto ci tengono a dire che lei, pur nelle facoltà ridotte di relazione che aveva, si faceva capire benissimo. Cristina Loss, segretaria dell’attrice dal 1988, ricorda che se per caso lei e Mirella avevano qualcosa da rimproverare a Roberto, Monica prorompeva in un sonoro «Noooo», come a difenderlo. E poi che se lui era in un’altra stanza lei lo cercava, lo chiamava. «Come faceva?» chiedo. Cristina risponde sorridendo che Monica lo faceva dicendo una sola parola: «Papà...».

Roberto racconta che Monica l’ha chiamato così dal primo momento, come reazione ironica a chi diceva che lui era più giovane di lei. «La sera prima che morisse ci siamo accorti che qualcosa non andava. Monica non era come sempre. La mattina dopo ho chiamato l’ambulanza ma non c’è stato nulla da fare, ci siamo fermati all’ospedale più vicino... Da lì ti ho telefonato per dirti di dare la notizia. Monica mi ha fatto vivere una vita bellissima, ogni giorno pieno di felicità e di amore. Tutto è cominciato su quel set. Non ti ho detto che a un certo punto io, che non ce la facevo a vederla e non poterle dire che la amavo, ho abbandonato le riprese. Ma dopo qualche giorno mi hanno richiamato per dirmi che volevano tornassi sul set. Ho capito in quel momento, il più bello della mia vita, che era stata Monica a volermi vicino a lei». Vicino... E tu quanto sei stato con lei, da quando la malattia è diventata più dura? Io lo so, ma è importante che lo dica questa persona bella. E lo dice come se non volesse farlo, ma in fondo è orgoglioso delle parole che sta per pronunciare: «Per venti anni. Venti anni qui con lei. Per non farla mai stare sola, per non farle mai mancare nulla. Venti anni senza mai uscire di casa se non per la spesa o per fare due passi qui intorno. Ho difeso Monica, il suo desiderio di riservatezza fino alla fine, ho cercato di farla ridere quando poteva, e di tenerle sempre la mano. E lo rifarei, rifarei ogni giorno di questi venti anni che non separo dagli altri trenta. Sono stati tutti meravigliosi, perché sono stati tutti con lei».

Chiedo se Monica, prima del grande silenzio, avesse scritto qualcosa. Cristina — una donna che assomiglia un po’ a Monica, ha vissuto con loro tutti questi trentacinque anni e chiama Roberto ancora con il «lei» — dice, osservando lo schermo del computer: «Signor Roberto guardi qui...». Roberto legge, si commuove e poi mi fa vedere le parole scritte da Monica poco prima di ritirarsi nel suo mondo: «Amore mio grande, amore mio bello, amore amore amore, come è bello vivere con te, lavorare con te, litigare con te, fare pace con te, costruire con te, aver paura e piangere e ridere. Niente è bello senza te».

Oriana Fallaci da Monica Vitti «L’incomunicabilità? L’alienazione? Macché, se sono triste è per la pressione bassa». Oriana Fallaci su Il Corriere della Sera il 19 Febbraio 2022.

La grande giornalista nel salotto romano dell’attrice dopo il successo “intellettuale” nei film di Antonioni, suo compagno di vita da sette anni. «Io e lui non usiamo queste parolacce grottesche inventate da dieci signori che vogliono fare i colti...» 

Aprile 1963: Monica Vitti (32 anni) nella sua casa romana, intervistata da Oriana Fallaci (34). La giornalista è scomparsa nel 2006, l’attrice il 2 febbraio 2022

Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dal numero di «7» in edicola il 18 febbraio, vi proponiamo questa intervista di Oriana Fallaci a Monica Vitti, che apparve sul settimanale «l’Europeo» nell’aprile 1963 e poi su «Intervista con il mito» (Rizzoli) nel 2010. Buona lettura

Aprile 1963

Come sono contenta, signorina Vitti, di parlarle a quattr’occhi. Se non altro ciò mi permette di soddisfare una piccola curiosità: saper finalmente cosa significa quella parola... quella parola... Signorina Vitti, non ci crederà, ma son più di tre anni che questa parola mi tormenta, mi perseguita, mi esaspera, ed io chiedo agli amici: «Cos’è?». Me l’hanno spiegata in termini medici. Me l’hanno spiegata in senso filologico. Me l’hanno spiegata in chiave marxista... Sì, sì sembra derivi direttamente dalla teoria del plusvalore: sa quello del «Capitale» di Marx. Ma io non l’ho capita lo stesso e così vado in giro, come Diogene col suo lumicino, come Caino con la sua colpa, insieme alla mia curiosità inappagata, la mia ignoranza mortificata, mentre questa parola cresce, si dilata, si gonfia: ed io ne ho tale complesso che non riesco più a pronunciarla. Signorina Vitti, lei che è il simbolo stesso di questa parola, sia buona, sia gentile, mi dica: ma l’alienazione, cos’è?!?

«A me lo chiede? Io che ne so? In casa mia questa parola non si è mai pronunciata; se lei ne ha il complesso, io la odio a tal punto che al solo udirla mi raggrinzo tutta come se udissi una parolaccia. Non mi sono mai posta neppure il problema di domandarmi da dove venisse, se dal Capitale o dagli Evangeli: e lei chiede a me cosa è. Insomma! Non l’ho mica inventata io. Siete voi giornalisti che l’avete inventata».

Guardi: io no di sicuro. Se è per questo, vo in Paradiso.

«Se non è stata lei, sarà stato un altro. Comunque, non io e nemmeno Antonioni che ne subiamo le barzellette più idiote. “Allora, signor Antonioni, lei è un alienato? Alienato mentale o alienato sociale?”. “Guarda la Vitti, fa l’alienata. Che vuoi farci, quella è alienata”. Dico: ma perché ve la prendete con me? Io sono un’attrice: che partecipa caldamente alle storie che interpreta, d’accordo, che fa volentieri i film di Antonioni, d’accordo, che è nota per quel personaggio, d’accordo. Ma un’attrice e basta. Perché volete confondermi con quel personaggio?».

Via, via, signorina. Non son io che rispondo ai giornalisti frasi del genere: «La mattina, quando mi alzo, mi sento in fondo a un abisso ed ho un gran terrore di ricominciare da capo». Signorina, di grazia, cosa vuol dire?

«Vuol dire che ho la pressione bassa e poiché ho la pressione bassa mi sveglio male e poiché mi sveglio male a volte son triste: la tristezza è un fatto biologico. Lo dice anche Rostand nel suo libro L’uomo artificiale ... Oddio, non vorrei insultare nessuno, mi si scusi se ho letto Rostand, leggere e istruirsi sta diventando una tal colpa, oggigiorno... Dunque lo dice anche Rostand che allo stesso modo in cui un criminale non ha colpa di uccider qualcuno in quanto la criminalità è malattia, così un fiacco non ha colpa d’essere fiacco in quanto si sveglia con la pressione bassa. Questo è un discorso da intellettuali? Ma io i giochi intellettuali non son capace di farli, io son piuttosto ignorante, di cosa crede che parli con Michelangelo? Di incomunicabilità? L’incomunicabilità...».

Oddio, signorina, l’ha detta. L’ha detta lei quest’altra parola che io non riesco a pronunciare nemmeno. E, visto che l’ha detta, risponda: non le pare che questo vocabolario sia un tantino ridicolo? O, per usare un linguaggio “appropriato”, fuori della realtà? Non so, ma ogniqualvolta chiedo a qualcuno cosa ne pensi dell’incomunicabilità, quello si mette a ridere e dice: «Guardi, io comunico benissimo».

«E io no? Io comunico meglio degli altri. Sicché, scusi, le sembra giusto farmi subire il grottesco di una parola che dieci signori inventarono per sembrar più intelligenti o più colti? Dieci signori che un giorno videro un film, due film, tre film, e dopo aver sfogliato chissà quali libri scrissero: “L’alienazione, l’incomunicabilità...”. Dico: analizziamo L’eclisse che è il più difficile. Che storia racconta? Quella di una ragazza che non ama più un uomo e lo pianta. Quando lo ha piantato, ne trova un altro. I due si piacciono, vanno a dormire, credono alla possibilità di un amore, e si danno un appuntamento. A questo punto però gli piglia paura, quella di impegnarsi troppo, chissà, quella di farsi imbrogliare, chissà, quella di subire una delusione, chissà, e non vanno all’appuntamento. Stop. Ma siccome Antonioni è un intellettuale, ci deve essere il sottofondo».

Senta, signorina Vitti, ma a lei i film senza sottofondo non piacciono? Voglio dire: per esempio, i western le piacciono?

«Da morire, io divento matta con i western. Quei saloons, quelle sparatorie, quelle cavalcate: matta divento. E i film comici? Quelli sì che mi piacciono. Totò, Alberto Sordi. Lo sa quante volte ho rivisto Totò nella Casbah? Cinque volte. Quando io lo guardo, mi agito, urlo, sghignazzo: perché al cinema ci sto come un ragazzino, oddio vengono, oddio che fanno, e chi sta con me non fa che raccomandarsi. “Stai zitta, per favore”. “Stai ferma, per favore”. Quando poi c’è Speedy Gonzales: sa il topo dei cartoni animati...».

E «Otto e mezzo» l’ha visto? Le è piaciuto?

«...dunque dicevo che, siccome Antonioni è un intellettuale, nei suoi film vogliono trovarci il sottofondo per forza. Bene, ammettiamo che il sottofondo ci sia, che ci sia un problemino: aiutatelo a capirlo, perbacco, non a complicare le cose».

«ANTONIONI VIENE FRAINTESO, ATTACCATO, FERITO. VEDESTE QUANTO SOFFRE AD OGNI MINUSCOLO ATTACCO. E IO CON LUI. EPPURE DICONO CHE CI STO INSIEME PER AMBIZIONE...» 

Per quello, guardi, non è che voi due e soprattutto Antonioni aiutate gran che. Complicatini lo siete abbastanza quando parlate di... come si dice?... microrealismo, di... come si dice?... lirismo semantico... E comunque sia non mi pare che abbiate da lamentarvi del prossimo: di successo ne avete avuto parecchio, col benestare del prossimo. E il successo, naturalmente, ha sempre due facce: le pernacchie e gli applausi. Insomma, si paga.

«Microrealismo io? Lirismo semantico io? Ma vogliamo scherzare? Quando mai io e Antonioni abbiamo detto queste parolacce? Antonioni ha un tale pudore del suo mestiere che quando ne parla lo fa sempre con immenso disagio: certe cose però non sono mai uscite dalla sua bocca. E il successo che ha avuto, perché dovrebbe pagarlo? Se il cinema italiano è conosciuto nel mondo si deve anche a lui: ringraziarlo, dovrebbero, telefonargli ogni giorno e dirgli “Grazie, Antonioni, grazie di esistere”. Invece non fanno che fraintenderlo, attaccarlo, ferirlo. Dovrebbe vedere quello che soffre ad ogni minuscolo attacco: io soffro con lui».

Signorina Vitti, via quei lucciconi: sennò mi manca la forza di continuare. Ho il cuore tenero, signorina Vitti, lo sa. Coraggio! È passata? Sta meglio? Allora continuo. Signorina Vitti: lei sa, lei si rende conto, di non essere simpatica a molti?

«No. Non lo so. E mi stupisco di saperlo ora. Non mi è mai arrivata una lettera o un articolo che mi definisse antipatica. All’estero scrivono cose su me che mi fanno arrossire tanto son belle, quelli che tornan dall’estero non fanno che raccontarmi quanto si parla di noi. “Ma li conoscete Antonioni e la Vitti? Come sono?”. In Italia mi trattano bene. E allora a chi sono antipatica? A quelli di via Veneto? A quelli, guardi, preferisco essere antipatica. Comunque: perché dicono che sono antipatica? Perché? Me lo spieghi. No, non me lo spieghi. Non lo voglio sapere».

«CON LOREN, LOLLOBRIGIDA E CARDINALE SONO TRA LE PRIME ATTRICI ITALIANE E NON LO DICO IO. MA A DIFFERENZA LORO NON HO PELLICCE, GIOIELLI, NÉ UNA CASA MIA» 

Lo deve sapere, invece. Non siamo mica qui per farci complimenti. Dicono che lei è antipatica perché è troppo ambiziosa...

«Grazie».

...perché a scopo di ambizione e carriera ha sacrificato la sua vera natura che è quella di una donna estroversa, entusiasta, appassionata...

«Grazie».

...perché pur di esser la Vitti si farebbe monaca di clausura e soffocherebbe ogni sentimento, ogni istinto. La gente dice tutto questo e altro.

«Grazie. Per oggi sto bene. Ma come?! Ma le sembro una donna che ha sacrificato all’ambizione la propria natura?! Ma le sembro una donna falsa, falsata? Le sembro una cerebrale suo malgrado, una fredda? La Vittoria di L’eclisse? Ma quando mai io mi sono sognata di dire “In fondo non è necessario conoscersi per volersi bene, in fondo non è necessario volersi bene”? Siamo matti? Ma io sono una violenta, una sincera, e se mi levano l’amore mi impicco. Mi levate il pane, se mi levate l’amore. Io vivo per queste cose, per i sentimenti più semplici: se fossi ambiziosa, a quest’ora sarei miliardaria o almeno milionaria. In cinque mesi ho rifiutato sei film con cui avrei guadagnato un bel mucchio di soldi. Ambiziosa perché? Perché mi rifiuto di far porcherie ad alto prezzo e preferisco fare i film di Antonioni per poco? Sono tra le prime attrici del cinema italiano, tra la Loren, la Lollobrigida, la Cardinale, lo dicono gli altri, non io, ma a differenza di loro non posseggo una pelliccia né un gioiello né una casa: a giugno devo traslocare da questa, in affitto, perché aumentano la pigione. Ambiziosa perché vivo vicino ad Antonioni? Ma volete ricordarvelo o no che quando conobbi Antonioni egli era nel periodo più nero di crisi? Che era appena uscito dalla amarezza procuratagli dalla cattiva accoglienza di II grido? Era un uomo importante, sì, ma perché lui era lui: non perché lo riconoscessero, allora, come uomo importante».

Signorina Vitti, senta che vento viene da quella finestra: come soffia. Peccato che questa non sia una registrazione radiofonica: l’effetto sarebbe bellissimo. Varrebbe un commento musicale: Monica, la tempesta dei sentimenti, e così via.

«Oh, lei troverà il modo di divertirsi lo stesso, lo so. Sembrava di leggere un romanzo della Brontë, scriverà, una voce nella bufera gridava “Monicaaa! Monicaaa!”. E che: è colpa mia se il vento soffia? Soffia perché gli va di soffiare e la finestra è rotta e io l’ho accomodata con lo scotch. L’alienata che accomoda la finestra con lo scotch: ma col merletto la dovrei accomodare se fossi alienata!».

Non scriverò proprio nulla di questo via i lucciconi. La ascolto. Sicché conobbe Antonioni...

«Ero fidanzata con un bravo e buon ragazzo, architetto di professione, quando conobbi Antonioni. Lo conobbi mentre doppiavo Dorian Gray in Il grido e mi difesi con tutte le forze dal momento in cui Michele mostrò interesse per me. Gli dicevo: “Signore, mi creda, ambizioni pel cinema io non ne ho. Signore, mi creda, non me ne importa nulla di fare il provino. Signore, mi creda, io sto per sposarmi e non devo pensare ad altro. Signore, mi creda, io amo l’uomo che sto per sposare”. Con tutte le forze: ero talmente convinta che il mio fidanzato fosse l’uomo della mia vita, ero così sicura di amarlo che, per anni, non ho perdonato a Michele d’avermi fatto capire questa cosa terribile: che l’amore finisce. Lui e le sue chiare, lucide teorie sull’amore che finisce. Tant’è vero che l’amore per Michele non è ancora finito».

Questa è una notizia simpatica. Mi avevano detto che lei sta per lasciare Antonioni, che questo amore era più che finito: soprattutto da parte di lei.

«Balle. Lo dicono ogni quattro mesi da che ci vedono insieme. Mi telefonano perfino: “Allora è vero che vi lasciate tu ed Antonioni?”. Ed io sempre la stessa risposta: “Mi dispiace, no”. Naturalmente non posso mica giurare sull’eternità, dico solo che succede questo: Michele continua ad amarmi ed io continuo ad amare Michele. Non so... Conosco da sette anni Michele, sette anni non sono tanti ma non sono nemmeno pochi, e in questi sette anni non mi sono annoiata un minuto. Amare Michele è stato come... come amare dieci uomini, o venti, o trenta. Perché ride? Ciò la delude?».

Un pochino: trattandosi di una ragazza che simboleggia la ragazza moderna. Mi viene in mente, ecco, quella mia amica che, intervistata da un giornalista spagnolo che le chiedeva «Ma lei, signorina, non concepisce l’idea di passare la vita accanto ad un uomo?», rispose candida: «Uno solo?!». Signorina Vitti: che ne pensa della fedeltà?

«Io non me lo pongo nemmeno il problema della fedeltà: né da un punto di vista morale né da un punto di vista religioso. Io mi pongo un problema di sentimenti e quando ci sono i sentimenti c’è la fedeltà. Del resto, sa, la mia vita sentimentale fin oggi è stata abbastanza monotona. Vuole che la deluda ancora? Ecco: ho avuto per cinque anni un fidanzato, quello che stavo per sposare, poi ho incontrato Michele. Nessun altro. Nient’altro».

Complimenti. Ma finché c’è vita c’è speranza, signorina Vitti. Insomma: se le capitasse un altro amore, se le succedesse ciò che le è successo sette anni fa, cosa farebbe?

«Non lo so. Non lo vedo quest’uomo capace di farmi dare un dolore a Michele. Non lo so. Dovrebbe prima mettermi davanti quest’uomo: come faccio a dare una risposta precisa su una cosa che non mi è mai successa? Non si può decidere la vita a priori, non si può. Certo è che mi difenderei, come l’altra volta, il più possibile. Mi difenderei come una tigre. E, se perdessi, vorrebbe dire... bè, insomma, vorrebbe dire che non ci sarebbe altra scelta».

E se quest’uomo le chiedesse di rinunciare alle sue ambizioni, alla sua preziosa carriera, all’essere Monica Vitti... Dio, questo vento!...

«Ma che devo dirle? lo ho sempre trovato uomini che anziché domandarmi di rinunciare mi hanno domandato il contrario: di continuare il mio lavoro di attrice e di crederci. Le giuro che quando ero fidanzata, Dio che parola antipatica, mi vien da ridere a pronunciarla, insomma quando ero fidanzata io ero pronta, prontissima ad abbandonare il teatro per lui, per la famiglia che avrei creato con lui, per il figlio che avremmo avuto se lo avessimo avuto. E lui invece no, neanche per idea. Faceva lo stesso ragionamento di Michele: “Più andrai avanti, più diverrai importante, più io ti amerò”. E così, fra tante donne cui si chiede soltanto di saper fare il minestrone, io mi trovo a dover lavorare di più, a dover essere più bella, più brava, più famosa, sennò mi amano meno. Boh! Il bello è che da me vogliono anche il minestrone perché “se-una-donna-in-casa-non-sa-far-niente-io-che-me-ne-faccio?”. Boh!».

Eh, sì. Ci vuole una gran pazienza ad essere donne, signorina Vitti. Ed è assai più difficile che essere uomini, assai più faticoso. Buongiorno, signor Antonioni. Come sta, signor Antonioni? Parlavamo di lei, signor Antonioni. A proposito, signor Antonioni, sia gentile, mi dica: ma l’alienazione cos’è?

«Non è certo una mia invenzione. Se legge quel meraviglioso libro che si chiama Acque di autunno del filosofo Zhuang-zi troverà ad un certo punto questa frase: “Non lasciate che le cose vi riducano a cosa”. Zhuang-zi fu maestro di Confucio, dicono, è certo comunque che Confucio andava spesso a chiedergli lumi. Visse dunque migliaia di anni avanti Cristo. Capito?».

No. Grazie lo stesso, signor Antonioni. Arrivederla, signor Antonioni.

Dunque, signorina Vitti: torniamo al minestrone. O meglio...

«Non ci torniamo affatto: ho parlato fin troppo di queste cose. Dio, non capisco, io sono così gelosa di certe cose e con lei... Il guaio è che comunico troppo. Lo diceva anche mia madre: “Maria Luisa...”. Sì, il mio vero nome è Maria Luisa Ceciarelli. Fino all’Accademia fui la Ceciarelli. Poi Tofano mi propose di diventare attrice giovane nella sua compagnia, di fare Brecht, Molière, e mi disse: “Guarda il nome che hai non è mica tanto da attrice, lo devi cambiare”. Allora io sedetti al tavolino di un bar e mi misi a studiare il nome. Volevo prendere mezzo cognome di mia madre che si chiama Vittiglia, e Vitti andava benissimo. Monica andava bene con Vitti e così, dopo averlo scritto due o tre volte, pronunciato cinque o sei, debuttai come Monica Vitti. Ora sono talmente Monica Vitti che mio padre e mia madre mi chiamano Monica anziché Maria Luisa ed io, quando devo firmare Ceciarelli, mi sento a disagio: quasi firmassi col nome di un’altra».

Questo mi sembra abbastanza significativo in una ragazza che si è costruita con tal decisione. Mi dica, signorina Vitti: mi sbaglio a dire che si è costruita con la stessa decisione con cui ha costruito il suo nome? E cos’altro ha cambiato? La voce? Il volto? La calligrafia?

«La voce, no. La calligrafia nemmeno. Il volto, sì. Io mi sono fatta fisicamente così perché volevo essere fisicamente così. Dovrebbe vedere le fotografie di sette anni fa per capire quanto sono cambiata. O meglio: la serietà con cui mi sono cambiata. Non sembro nemmeno la stessa persona. Dio com’ero brutta. A volte dico a Michele: “Ma come hai fatto ad interessarti a me se ero così brutta?”. E lui: “Ma io lo sapevo che eri così”. Vede: le donne belle invecchiando imbruttiscono. Le donne brutte invecchiando migliorano. È un gran sollievo. Non che faccia moltissimo per migliorarmi, intendiamoci. Non riesco a far diete, non riesco a fare ginnastica, e lo sport... Uh, lo sport! Quando mi provo mi stanco subito, oddio che fatica, oddio che male, io non amo lo sport, so nuotare e basta, non capisco chi fa lo sport, l’altro giorno ho conosciuto un ciclista, uno che va forte in salita, Taccone si chiama, e lo guardavo come si guarda un marziano. E poi non mi do cipria, non mi tingo le labbra perché col rossetto mi sembra d’essere sporca. Tuttavia...».

Tuttavia com’è ora si piace: ed ha ragione perché è una gran bella ragazza. Però l’estate scorsa, a Venezia, io ho assistito a una scena piuttosto bizzarra. Era entrata in mare per una nuotata e, poiché c’erano tanti fotografi ad aspettarla sulla spiaggia, non voleva più uscire. Dovemmo prendere un asciugamano, portarglielo nell’acqua, e con quello addosso, drappeggiata in modo che sembrava una mussulmana velata, uscì. Certo non lo fece per attirare attenzione: ricordo che era davvero sconvolta. Allora, perché?

«Mi vergognavo. Ma lo sa che fino a quattro anni fa, insomma fino a quando ho girato L’avventura, al mare io non camminavo mai davanti ai ragazzi? Sempre dietro: con certe vestaglie lunghette e l’ossessione che scoprissero chissà che. Insomma, mi vergogno: ma non per pudore, perché mi sento brutta. Non so... vorrei essere più magra, avere la vita più lunga, le gambe più sottili, e così... Ecco, io in bikini non mi ci sono mai messa e non mi ci metto nemmeno se mi ammazzano. Del mio corpo mi va bene soltanto il volto: a parte il naso che è un po’ troppo lungo, le mascelle che sono un po’ troppo pronunciate, gli occhi che sono un po’ troppo chiusi. Il resto... Ma che importanza ha? La bellezza fisica non ha che la minima parte nella vita di una creatura. Prenda un uomo bello: dopo un anno si è già abituate alla sua bellezza, e ci si annoia. Un uomo non bello invece dopo tre mesi piace di più e dopo un anno lo si adora perché, per superare la sua mancanza di bellezza, ci si è messe a osservarlo e si è scoperto cose sensazionali di lui. Dio mio: datemi un uomo bello che sia anche intelligente, che sia anche interessante, e me lo sposo subito, ci metto trenta firme in municipio: ma è così difficile che un uomo bello abbia altre virtù!».

Sicché, se le chiedessi di dirmi i nomi di tre uomini belli che le piacciono molto... Oh, non si offenda per carità. Capisco che la domanda è frivola, indegna della sua saggezza, ma fu posta perfino a Laureen Bacall che, come sa, è una egghead.

«E che è questo egghead? Egghead non me lo aveva mai detto nessuno. Egghead?! Boh! Tre uomini belli... vediamo. Quand’ero ragazzina mi piacevano Glenn Ford e Gregory Peck ma ora, sarò una egghead, gli attori non mi piacciono più. Quando uno è attore, chissà perché... Boh! Sarò una egghead, ma lo sa chi mi piace da morire? Oppenheimer. Ma ha visto che occhi, che testa, che eleganza? E poi, sarò una egghead, ma lo sa chi mi piace tanto? Ingmar Bergman. Lo conosce? Sì? Ho ragione? Sì? Vorrei conoscerlo anch’io. Peccato che lui stia in Svezia, e che io odi viaggiare».

Strano che una donna moderna come lei non ami viaggiare. Viaggiando si impara.

«Moderna io?! Ma se non so guidare l’automobile, se ho paura a salire in aereo! L’automobile, con quei bottoni, quelle leve, quelle ruote, spingi qua, solleva là, no, no! Che qualcuno mi porti, io guardo fuori. A parte il fatto che, se fosse per me, userei la carrozza. E l’aereo! Questa scatola orribile dove il tuo destino è legato al destino di cento altre persone, no, no! A parte il fatto che l’aereo uccide la fantasia, quella meravigliosa avventura che è lo spostamento, il paesaggio che cambia. C’è uno spazio tra Roma e Parigi, c’è un paesaggio che cambia, ma se vado in aereo vedi sempre le medesime nuvole: e sono le nuvole di quando vai a Tokyo o a New York. Meglio il treno: lo spazio e il tempo e il paesaggio esistono ed io non voglio perderli».

«E DAJE CO’ L’AMBIZIONE! NON AVETE ANCORA CAPITO CHE SONO FILM PER IL REGISTA, NON PER L’ATTRICE! IO, INVECE, MAI CHE ABBIA AVUTO UNA BELLA SCENA MADRE...»

Eppure appartiene ad una famiglia di viaggiatori. Se non sbaglio suo fratello Franco emigrò giovanissimo in Brasile, suo fratello Giorgio abita al Messico, e anche i suoi genitori vanno e vengono tra l’Europa e l’America.

«Loro sono diversi: hanno spirito di avventura, di curiosità, di evasione. Si divertono a stare tra gente diversa che parla una lingua diversa. Io no. Quando si trasferirono al Messico mi chiesero: “Vieni?”. E io: “Perché dovrei? Mi piace qui, sto bene qui”. A che serve scoprire l’India e il Giappone e l’Amazzonia quando ci sono tante cose da scoprire in Italia? Sono stata in Sardegna e ho scoperto un mare celeste come non esiste nemmeno alle Antille, scommetto, e rocce rosa come non ne esistono nemmeno alle Hawaii, scommetto. E ho scoperto altre cose interessantissime, ad esempio che le case dei pescatori sardi hanno una sola parete chiusa: ed è quella che guarda il mare. Forse perché i loro nemici sono sempre venuti dal mare ed ora hanno sete di terra. Sono stata a Verona ed ho scoperto qualcosa che vale tutti i minareti del mondo: quei fossili meravigliosi con l’impronta di un pesce, di una foglia, o di un’alga. No, tutte le volte che io mi allontano dall’Italia, ho un solo pensiero: tornarci».

A parte il fatto che in Italia c’è la carriera, ci sono i film di Antonioni, e c’è quello squisitissimo male che si chiama successo...

«E daje co’ l’ambizione! Ma non avete ancora capito che i film di Antonioni sono film per il regista, non per l’attrice? Non avete ancora notato che nei film di Antonioni non c’è mai una scena madre? Non vi siete ancora accorti che a veder sempre la mia faccia la gente si stanca? Ma lo sa cosa pretende Marlon Brando nelle sceneggiature? Che il pubblico si esasperi con gli altri attori, così, quando si è esasperato ben bene, arriva lui con la sua scena madre, col suo primo piano, e ci fa un figurone. Lei pensa davvero che star sempre sullo schermo, come si fa nei film di Antonioni, sia un vantaggio per l’attore? Ma a teatro la prima donna non giunge mai al primo atto, arriva al secondo! E ci arriva con la sua scena madre. Io, invece, mai che abbia avuto una bella scena madre».

Signorina Vitti: sta cercando di dirmi che recitare nei film, di Antonioni non è affatto un vantaggio per lei? Gli ingrati vanno all’Inferno.

«Ma è chiaro che a Michele devo tutto quello che sono. Qui si parla di ciò che serve a un attore e dico che è assai più difficile esprimere sentimenti con la faccia ferma che con le lacrime di glicerina. E poi, chi parla di piangere? Se c’è una cosa che io so far bene, è far ridere. Non dimentichi che di parti comiche in commedie comiche ne ho fatte molte in teatro: da Feydeau a Ionesco. Oh, Dio! Datemi una parte comica, che faccia ridere, ridere, ridere! Un’attrice com’era Kay Kendall, ecco cosa vorrei essere. Con la sua ironia, il suo spirito, il suo sottile umorismo... Pronto? Chi parla? Ma sì, caro amico, certo che fo il prossimo film di Antonioni, sì, quello a colori, si chiama Deserto, siamo qui ad aspettare, da quattro mesi siamo qui ad aspettare, non è straziante? È tutto pronto, siamo tutti pronti, pronta io, pronto Michele, pronto Hardy Kruger, il mio partner tedesco, non manca che un certo signore il quale deve dare i soldi ma non li dà! Non è orribile dover sempre ricominciare da capo, soffrire come se fossimo ancora ai tempi dell’Avventura? Mi fa impazzire, mi fa piangere, mi fa...»

Signorina Vitti, che parte avrà nel «Deserto»? Non certo comica, immagino.

«Ma che dice? Intende scherzare? Vuole offendere Michele? Una parte serissima, chiaro. La parte di una donna che, dopo uno choc depressivo, cerca di reinserirsi nella realtà. E non ci riesce».

Signorina Vitti, c’entra l’alienazione?

«Ma lei è venuta a intervistare me o l’alienazione?».

Signorina Vitti: sia gentile, sia buona, mi dica: ma l’alienazione cos’è?!?

(Intervista pubblicata su «Intervista con il mito» Rizzoli, 2010)

·        È morto l’attore Paolo Graziosi.

È morto Paolo Graziosi, l’attore di «Tre piani» e di Bellocchio ucciso dal Covid. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l'1 Febbraio 2022. 

Aveva lavorato a lungo anche a teatro e in tv. Aveva stretto un sodalizio con Marco Bellocchio. La sua ultima parte al cinema nel film di Nanni Moretti. 

È morto l’attore Paolo Graziosi. L’interprete si è spento questa mattina all’ospedale San Bortolo di Vicenza. Aveva 82 anni. La famiglia ha fatto sapere di voler «omaggiare l’artista insieme a tutte le persone che lo hanno conosciuto e amato». Attore di teatro, cinema e tv, aveva combattuto e vinto una lunga battaglia contro il cancro ma è stato infine ucciso dal Covid.

Graziosi lascia la moglie Elisabetta Arosio, la figlia Viola, attrice teatrale, e il figlio Davide. Molto amato dai grandi registi, in particolare da Marco Bellocchio, aveva recitato anche in «Pasolini, un delitto italiano» di Marco Tullio Giordana, ne «Il Divo» di Paolo Sorrentino e ne «Il giovane favoloso» di Mario Martone.

La sua ultima interpretazione era stata nel film «Tre piani» (2021) di Nanni Moretti, nei panni del marito di Anna Bonaiuto. Molto amato dai grandi registi per film autoriali, da Bellocchio, appunto, a Francesco Rosi, da Liliana Cavani a Luigi Comencini, ha prestato il volto ad Aldo Moro ne «Il divo» (2008) di Paolo Sorrentino; è stato Carlo Antici ne «Il giovane favoloso» (2014) di Mario Martone, biopic sul grande poeta Giacomo Leopardi; «Pinocchio» (2019) di Matteo Garrone. Nato il 25 gennaio 1940 a Rimini, Graziosi aveva debuttato sul grande schermo nel 1962 con il film «Gli arcangeli» di Enzo Battaglia ed era stato notato da Franco Zeffirelli, che lo scelse per il ruolo di Mercuzio nel suo adattamento teatrale di «Romeo e Giulietta» (1964).

Da allora la sua carriera si era legata in maniera particolare al teatro, amando i ruoli creati da William Shakespeare e Luigi Pirandello tra gli altri, che alternerà con il cinema e la televisione. Dopo aver preso parte al film a episodi «La vita provvisoria» (1962) di Hervé Bromberger e Vincenzo Gamma e al mediometraggio «Ginepro fatto uomo» (1962) di Marco Bellocchio, aveva messo a frutto la sua esperienza teatrale interpretando il cavaliere di Ripafratta nell’adattamento cinematografico de «La locandiera» (1966) di Franco Enriquez. Grazie al regista Bellocchio l’attore è coprotagonista di «La Cina è vicina» (1967), in cui incarna il factotum Carlo, giovane ragioniere militante del Partito Socialista Unificato, che aiuta il professore protagonista (Glauco Mauri) a tentare la scalata politica e nel frattempo gli mette incinta la sorella.

È morto Paolo Graziosi, attore di cinema e teatro. L'ultimo ruolo in 'Tre piani' di Moretti. La Repubblica l'1 febbraio 2022. Aveva 82 anni, malato di cancro, è stato ucciso dal Covid.  

È morto Paolo Graziosi, attore di teatro e cinema stroncato dal Covid. Aveva 82 anni e nella sua lunga carriera ha lavorato con grandi maestri da Marco Bellocchio a Nanni Moretti. La notizia è stata data dalla famiglia che ha comunicato che l'attore è morto questa mattina all'ospedale San Bortolo di Vicenza: "i famigliari vogliono omaggiare l'artista insieme a tutte le persone che lo hanno conosciuto e amato" hanno scritto. L'interprete ha combattuto e vinto una lunga battaglia contro il cancro ma è stato infine sconfitto dal Covid. Lascia la moglie Elisabetta Arosio, la figlia Viola, noto attrice teatrale, e il figlio Davide. 

Molto amato dai grandi registi autoriali, da Marco Bellocchio a Francesco Rosi, da Liliana Cavani a Luigi Comencini, la sua ultima interpretazione è stata nel film Tre piani (2021) di Nanni Moretti, con il ruolo del marito di Anna Bonaiuto, un personaggio delicato e difficile di anziano affetto da Alzheimer che viene accusato da un vicino (Riccardo Scamarcio) di aver avuto comportamenti inadeguati con la figlia.

Tra le sue più recenti apparizioni cinematografiche Nessuna qualità agli eroi (2007) di Paolo Franchi; Il papà di Giovanna (2008) di Pupi Avati; ha prestato il volto ad Aldo Moro ne Il divo (2008) di Paolo Sorrentino; è stato Carlo Antici ne Il giovane favoloso (2014) di Mario Martone, biopic sul grande poeta Giacomo Leopardi; Mastro Ciliegia in Pinocchio (2019) di Matteo Garrone.

Nato il 25 gennaio 1940 a Rimini, Graziosi debutta sul grande schermo nel 1962 con il film Gli arcangeli di Enzo Battaglia e viene notato da Franco Zeffirelli, che lo sceglie per il ruolo di Mercuzio nel suo adattamento teatrale di Romeo e Giulietta (1964). Da allora la sua carriera si lega in maniera particolare al teatro, amando i ruoli creati da William Shakespeare e Luigi Pirandello tra gli altri, che alternerà con il cinema e la televisione. Dopo aver preso parte al film a episodi La vita provvisoria (1962) di Hervé Bromberger e Vincenzo Gamma e al mediometraggio Ginepro fatto uomo (1962) di Marco Bellocchio, mette a frutto la sua esperienza teatrale interpretando il cavaliere di Ripafratta nell'adattamento cinematografico de La locandiera (1966) di Franco Enriquez. Grazie al regista Bellocchio l'attore è coprotagonista di La Cina è vicina (1967), in cui incarna il factotum Carlo, giovane ragioniere militante del Partito Socialista Unificato, che aiuta il professore protagonista (Glauco Mauri) a tentare la scalata politica e nel frattempo gli mette incinta la sorella.

Protagonista alla fine degli anni '60 di una serie di film tv su personaggi storici (come ad esempio Il complotto di luglio di Vittorio Cottafavi), Graziosi torna al cinema per interpretare lo scultore Gian Lorenzo Bernini alle prese con la realizzazione del baldacchino di San Pietro nel film Galileo (1968) di Liliana Cavani. L'anno dopo ha un ruolo secondario in Cuore di mamma (1969). È quindi apparso nel 1972 in Il tema di Marco di Massimo Antonelli e D'amore si muore di Carlo Carunchio. Graziosi incarna Galano in Cadaveri eccellenti (1976) di Francesco Rosi, tratto dal romanzo Il contesto di Leonardo Sciascia.

Molto attivo in televisione - recita in Le affinità elettive (1978), Il processo (1978), Trionfi e caduta dell'ultimo Faust (1980), Il giovane dottor Freud (1982), Nucleo zero (1984) - Graziosi dirada l'attività cinematografica per dedicarsi maggiormente al teatro, sua grande passione. Sul grande schermo continua a recitare in Buon Natale... buon anno (1989) di Luigi Comencini; nel 1991 appare ne La condanna di Marco Bellocchio, in cui interpreta il procuratore capo, e nella serie tv I ragazzi del muretto. Incarna un colonnello dei carabinieri in Una storia semplice (1991) di Emidio Greco, tratto dall'omonimo romanzo di Leonardo Sciascia, l'ultimo film interpretato in Italia da Gian Maria Volonté. Graziosi è Francesco Mancini ne Il lungo silenzio (1993) di Margarethe von Trotta, su un magistrato, alle prese con un'inchiesta delicatissima, che viene ucciso in un attentato, mentre veste i panni del colonnello dei carabinieri Tagliaferri in Ormai è fatta! (1999) di Enzo Monteleone.

Marco Giusti per Dagospia l'1 febbraio 2022.

Lo avevamo visto da poco in “Tre piani” di Nanni Moretti in un ruolo difficile e ambiguo, ne “Il divo” di Paolo Sorrentino come Aldo Moro, soprattutto in “Veloce come il vento” di Matteo Rovere come meccanico a fianco di Matilda De Angelis e Stefano Accorsi, ne “Il cattivo poeta” di Gianluca Jodice. Il cinema, che aveva visitato di sfuggito grazie all’amicizia con Marco Bellocchio fin da giovane, dai tempi del primo corto di Bellocchio, “Ginepro fatto uomo” del 1962 e di “La Cina è vicina”, 1967, lo aveva riscoperto davvero in questi ultimi vent’anni in un gioco di ruoli sempre diverso, fino a diventare il padre di Dante Alighieri nel suo ultimissimo film, non ancora uscito, il “Dante” di Pupi Avati.

Ma Paolo Graziosi, che se ne è andato per Covid a 82 anni, è stato soprattutto un grande finissimo attore teatrale, per Luca Ronconi, per Peter Stein, per Gianfranco De Bosio, Franco Enriquez, Eduardo, perfino per Toni Servillo in una memorabile e recente edizione di “Trilogia della villeggiatura”, 394 repliche in tutto il mondo, ma anche per Franco Zeffirelli, che lo volle come Mercuzio già nell’edizione del “Romeo e Giulietta” del 1966, per Carlo Cecchi, nel suo “Woyzec” del 1968, col quale fonda poi la cooperativa del GranTeatro.

A teatro fu pure regista, debuttando nel 1983 con tre testi di Cechov. Nato a Montescudo, Forlì, nel 1940, viene respinto nel 1961 agli esami di ammissione dell’Accademia d’Arte Drammatica di Roma. In qualche modo fu però un bene, visto che, iscrivendosi ai corsi di recitazione del Centro Sperimentale di Cinematografia, incontra lì Marco Bellocchio, diventandone uno dei suoi attori e amici storici, e Orazio Costa, che lo imposterà per il teatro.

Dopo aver interpretato il corto di diploma di Bellocchio, “Ginepro fatto uomo”, fa il suo vero esordio nel cinema con “La vita provvisoria” di Vincenzo Gamma e Hervé Bromberger e poi, assieme a Stefano Satta Flores e Roberto Bisacco, nel curioso “Gli Arcangeli” di Enzo Battaglia nel 1963. 

Lo troviamo anche nel film ad episodi diretti da giovani registi legati al Centro Sperimentale, “Gli eroi di ieri… oggi… domani”, diretto da Sergio Tau, Enzo Dell’Aquila, Fernando Di Leo, Franz Weisz. Lo stesso Weis lo dirige poi in “The Gangster Girl”. Ma è grazie al suo ruolo in “La Cina è vicina” di Bellocchio, dove interpreta Carlo, militante del Partito Socialista che aiuta nella scalata politica Glauco Mauri, che diventa uno degli attori del giovane cinema italiano più nouvelle-vaguista.

Eccolo così nello storico “Galileo” di Liliana Cavani, dove fa Lorenzo Bernini, nel più strampalato “Cuore di mamma” di Salvatore Samperi con carla Gravina, nel superpop “Necropolis” di Franco Brocani, in “D’amore si muore” di Carlo Carunchio con la supervisione di Giuseppe Patroni Griffi e in “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi. E’ attivo anche in tv, sia negli anni ’60, “Zoo di vetro”, Il complotto di luglio” con la regia di Vittorio Cottafavi, sia negli anni ’70-‘80, “Le affinità elettiva” diretto da Gianni Amelio.

Ma il cinema sembra davvero un ripiego rispetto alla sua lunga e continuativa attività teatrale, che lo vede impegnato in produzioni importanti, “Il mercante di Venezia” di Shakespeare, 1985, “La buona moglie” di Goldoni, 1989, “Glengarry Glenn Ross” di Mamet, 1985. Negli anni’80, così, gira solo un film, “Buon Natale, buon anno” di Luigi Comencini, nel 1989. Sarà ancora Bellocchio a riportalo sul grande schermo con “La condanna” nel 1991, dove interpreta il procuratore capo.

Lo troviamo poi a fianco di Gian Maria Volonté in “Una storia semplice” di Emidio Greco, in “Il lungo silenzio” di Margaretha Von Trotta, “Ambrogio” di Wilma Labate, “Louis, enfant roi” di Roger Planchon, in “Fiabe metropolitane” di Egidio Eronico, “ormai è fatta” di Enzo Monteleone. Il vero ritorno al cinema arriva dopo il 2000, “Il papà di Giovanna” di Avati, Il divo” di Sorrentino, “Nessuna pietà agli eroi” di Paolo Franchi, “Il giovane favoloso” di Mario Martone, il “Pinocchio” di Matteo Garrone, ma anche tanta tv, “Squadra antimafia”, “Il commissario Montalbano”, “Chiara Lubic”.

·        E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini. 

Maurizio Zamparini è morto: l’ex presidente del Palermo aveva 80 anni. Monica Colombo su Il Corriere della Sera l'1 febbraio 2022.

Lo storico ex patron del Venezia e del Palermo Calcio aveva subito un’operazione per peritonite nel mese di dicembre all’ospedale di Udine.

È morto l’1 febbraio Maurizio Zamparini, lo storico ex presidente e patron del Palermo Calcio, uno dei personaggi più rilevanti, originali e controversi della storia del calcio italiano. L’imprenditore friulano aveva 80 anni e aveva subito un’operazione per peritonite nel mese di dicembre all’ospedale di Udine. Dimesso e tornato a casa, Zamparini sembrava essersi ripreso ma le sue condizioni si erano di nuovo aggravate fino a rendere necessario qualche giorno fa un nuovo ricovero nella clinica di Cotignola, in provincia di Ravenna, dove si è spento nella notte.

Da quando aveva venduto il Palermo, il primo dicembre 2018, la vita lo aveva messo duramente alla prova: a inizio ottobre 2021 aveva perso il figlio Armando, 23 anni, morto nel sonno nella sua casa di Mayfair. Il ragazzo studiava a Londra e doveva iniziare a lavorare in una grande azienda: non ha mai risposto al messaggio di in bocca al lupo che gli aveva inviato il papà la sera prima. Armando era l’ultimo (di cinque) nato a casa Zamparini, l’unico figlio del secondo matrimonio di Maurizio con Laura Giordani. Qualcosa si è rotto dopo la sua morte. Zamparini, avvicinato qualche tempo fa al nome della Triestina per un possibile ritorno nel mondo del calcio, aveva declinato la proposta: «A ottant’anni e dopo aver appena perso un figlio, non intendo tornare nel calcio», aveva detto. 

NELL’OTTOBRE 2021

La morte di Armando Zamparini, il figlio di Maurizio

Il nome di Zamparini è legato al Venezia, ma soprattutto al Palermo di cui è stato al vertice per sedici anni, dal 2002 al 2018, portandolo nei piani alti della serie A, con le storiche qualificazioni alla Coppa Uefa e all’Europa League, fino a sfiorare la conquista della Coppa Italia persa contro l’Inter il 29 maggio 2011. Vette, ma anche abissi, con i guai giudiziari, il fallimento, la cessione e la ripartenza dalla serie D. Amato e contestato, Zamparini rimane una delle figure più importanti del calcio italiano.

Da palermo.gds.it l'1 febbraio 2022.

È morto a Udine, dove era ricoverato da poco più di un mese, Maurizio Zamparini. L’ex presidente, amatissimo e poi contestato del Palermo calcio, aveva 80 anni.

L'ex patron rosanero era stato operato d'urgenza all'addome, alla vigilia di Natale, nell'ospedale Santa Maria della Misericordia di Udine. Domenica 26 dicembre aveva lasciato il reparto di terapia intensiva dopo che le sue condizioni di salute si erano stabilizzate.

Zamparini aveva compiuto 80 anni lo scorso 9 giugno ed è stato il proprietario del club rosanero dal 21 luglio 2002 al primo dicembre 2018. 

Nell'ottobre scorso, per un malore improvviso, era morto a Londra dove si trovava per studiare Armando, il figlio 22enne dell'imprenditore. Fu ritrovato senza vita da una governante nella sua camera.

BIOGRAFIA DI MAURIZIO ZAMPARINI

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Sevigliana (Udine) 9 giugno 1941. Imprenditore. Dal 2002 proprietario del Palermo calcio (prima possedeva il Venezia, acquistato nel 1987). Ha fatto i soldi con la rete di supermercati Emmezeta. «Sono entrato nel Venezia su suggerimento di un amico. “Prendilo, costa poco, è un affare”, disse. Con il Venezia ci ho rimesso duecento miliardi di lire».

Il suo impero comprende «una quarantina di partecipate di società proprietarie di immobili a uso ufficio, commerciale, residenziale e agricolo, dislocate in Lombardia, Lazio, Sicilia, Puglia, Liguria, Calabria, Campania e Friuli oltre a controllate con sede operativa in Croazia, Lussemburgo e, a cascata, Austria e Brasile.

Un dedalo di società gestite in maniera differente dagli esponenti della famiglia Zamparini, il cui primo business fu la realizzazione all’inizio degli anni Settanta dei centri commerciali Emmezeta (dalle iniziali dell’imprenditore friulano) ceduti poi nel 2002 al gruppo francese Conforama per oltre 430 milioni di euro (Andrea Montanari) [Mfi 28/1/2014].

 «Mio nonno era il capostazione di Sevigliana. Passavano due treni locali al giorno e lui si sentiva importante. Mio padre, operaio specializzato in Venezuela, lavorava sui motori navali. 

Io sono nato su un campo di calcio e poi sono diventato perito meccanico e ho fatto il fabbro e il saldatore. Quando mio padre è tornato dal Venezuela, abbiamo comperato il cinquanta per cento di un’officina alla Bovisa. Si chiamava Canali & C. Quella C non piaceva a mio padre. “Che cosa vuol dire? Io sono Armando Zamparini, non C”. Sciolse la società. Ho costruito marmitte, termosifoni e apparecchi telefonici. Nel 2002 ho venduto ai francesi diciotto centri commerciali».

 Memorabili baruffe con gli allenatori. «Nei suoi 25-26 anni di calcio, spesi tra Venezia e Palermo, Maurizio Zamparini ha avuto 43 allenatori (oggi, dopo l’ultimo esonero di Gennaro Gattuso sono 44 - ndr): il primo è stato Ferruccio Mazzola, fratello del più noto Sandro, al Venezia in C2 nel 1987-88». Numero di esoneri nella sua carriera presidenziale: 53. «Gli allenatori sono come le angurie. Finché non le apri non puoi sapere quello che c’è dentro». «Pensano di aver inventato il calcio, ma sono solo onesti lavoratori strapagati».

«Volevo misurarmi con una piazza importante del Sud. Ce n’erano due: il Napoli e il Palermo. Ho trattato con Naldi per il Napoli. Voleva duecento miliardi di lire per il sessanta per cento. Gli ho detto: ciao e grazie».

«Al pallone servono personaggi come lui che stanno a metà tra il serio e il semiserio: mettono i soldi veri, costruiscono squadre vere, poi si comportano da attori della commedia all’italiana. Viva loro, viva lui. Perché lo ascolti e ti viene voglia di applaudirlo o fischiarlo. Mai ti lascia indifferente, mai (…). 

“Sono nato su un campo di calcio, ce l’ho nel sangue. Il primo pallone del paese l’ho avuto io. Me lo ha regalato il marito di mia zia, un capitano inglese. Il pallone era mio e quindi la squadra la facevo io”. Funziona così anche adesso. Il presidente ha collaboratori bravi e preparati, poi però decide. Così quando le cose non vanno bene, prende e comincia a fare come i ragazzini che devono comandare: tu dentro e tu fuori, ciao. In Lega, però, ci va soprattutto per parlare di cose serie.

Quando le luci si spengono e quando si chiudono le porte, Zamparini diventa serio. Aveva capito da tempo che i numeri fanno le offerte delle televisioni e le offerte delle televisioni fanno le squadre. Palermo era quello che voleva: una grande città affamata, pronta a portarlo in carrozza verso una popolarità sempre più grande. Quanto gli piace, a Zamparini: lo stadio pieno, i giornali che raccontano la magia di Palermo, le televisioni che raccontano la favola della squadra che ha cancellato la mafia. Gli piace tutto e di più: la Champions League, quella vuole. Ha bisogno dei soldi delle tv. Adesso lui è il capo della parte di Lega fatta dalle medio-piccole che lottano con le grandi per la ripartizione dei proventi che arrivano dai network.

Il Zampa ricorda il Donatone, marito di Stefania Sandrelli nella prima versione di Vacanze di Natale, quello che arriva in Mercedes e comincia così: “Via della Spiga-Hotel Cristallo di Cortina, 2 ore, 54 minuti e ventisette secondi. Alboreto is nothing”. E’ un ganassa: petto in fuori e orgoglio da uomo arrivato» (Beppe Di Corrado) [Fog 4/6/2011].

Nel 2011 scende in campo e fonda il Movimento per la gente, insieme all’esponente Udc torinese Alberto Goffi. Anti casta, anti tasse, anti politici.

La sua squadra, quella vera, quella per cui fa il tifo, è l’Udinese. Poi viene il Milan. “Ma se gioca Udinese-Milan, tengo all’Udinese” (Di Corrado, cit.).

Sposato, cinque figli. 

È morto Maurizio Zamparini, il miglior presidente da martedì alla domenica (il lunedì esonerava). Luca Valdiserri su Il Corriere della Sera l'1 febbraio 2022.  

C’è una sola cosa più importante di quello che fai ed è il ricordo di quello che hai fatto. Così è bello pensare a Maurizio Zamparini, scomparso martedì a 80 anni, con le parole di Paulo Dybala che, tra tanti campioni che aveva scoperto, è forse quello a cui Zamparini si era più affezionato (come Walter Sabatini per Javier Pastore): «Sei stato il primo a credere in me, sono arrivato in Italia che ero un bambino e con la tua famiglia mi hai accolto come se fosse casa mia. Presidente, mi hai aperto le porta di una città bellissima dove ho conosciuto tanta gente bella e dove ho avuto tanti e grandi amici. Mi hai dato la possibilità di continuare la mia carriera dove ho voluto, sempre con il massimo rispetto e sempre pensando al mio bene. Per questo e per tante altre cose ti sarò sempre grato, non ti dimenticherò mai Presidente. Grazie mille, di tutto. Il tuo Picciriddu».

Nella stagione 2014-15 Dybala segnò 13 gol e servì 10 assist in 34 partite. Il campionato seguente era alla Juventus. Zamparini sapeva che al Venezia (prima) e al Palermo (poi) non poteva trattenere i giovani talenti che aveva messo sotto contratto. Se li faceva pagare, certo, ma studiava insieme a loro la strada per il futuro. Dava i suoi consigli e poi, come ha scritto Dybala, «la possibilità di continuare altrove la carriera». Come diceva Sting: «If you love somebody, set them free» («se ami qualcuno lascialo libero»).

Nei «coccodrilli» ci sono tre errori da fuggire come la peste: far diventare tutti i morti dei santi; raccontare il passato come il paradiso che non era; trasformare le persone in caricature. Santo Zamparini non lo era: finì anche nei guai per reati societari, fiscali e finanziari. Il calcio in cui ha vissuto non era il Paradiso: tanti guai attuali sono nati allora. Una caricatura, però, non lo è mai stato. Chi lo disegnava così non aveva capito niente di lui. Recitava la parte del padre padrone ma in realtà aveva idee da Nba. A Venezia fuse la squadra con il Mestre («Ma feci una cavolata»), poi voleva costruire uno stadio nuovo e costruirci vicino uno dei suoi Mercatoni. In serie A, per capirci, decenni dopo si gioca ancora al «Penzo».

Maurizio Zamparini-Palermo: Dybala, Cavani Toni, Amauri, Pastore e gli altri talenti scoperti in rosanero

Propose a Pozzo uno scambio alla pari tra Venezia e Udinese, la squadra del suo cuore. Respinto con perdite. A Palermo, in C, promise la serie A e arrivò addirittura in Europa e in finale di Coppa Italia, persa contro l’Inter. Ha avuto sotto contratto Cavani, Dybala, Pastore, Toni, Balzaretti, Miccoli, Barzagli, Sirigu, Ilicic... Come pensare che non volesse fare anche la formazione? Francesco Guidolin, il suo allenatore preferito, diceva di lui: «È il miglior presidente del mondo dal martedì alla domenica». Il lunedì, spesso, esonerava. Chi li ha contati dice che sono stati 51. Ogni mese però — soprattutto ai tecnici esonerati — il bonifico bancario arrivava puntuale. È stato inutilmente cattivo solo con Luciano Spalletti, che esonerò come tutti gli altri ma che definì anche «lugubre», con una frase che l’allenatore toscano non meritava. A volte, per non perdere una battuta, si accetta il rischio di perdere una persona. A un certo punto vendette la sua rete di supermercati a compratori francesi e si dedicò anima e corpo al calcio. Forse fu questo l’errore più grande: il «lavoro serio» gli faceva vivere meglio la «passione del cuore». Perse lucidità, mai il sentimento. La cronaca dice che era malato da tempo e che sotto Natale era stato ricoverato d’urgenza in ospedale per una peritonite. Aveva iniziato ad allontanarsi dalla vita quando era morto, a 23 anni, l’ultimo dei suoi cinque figli, Armando. Perché il funerale di un figlio è sempre il funerale del padre.

Zamparini e gli esoneri: oltre 60 tra i pro, ben 35 a Palermo. Dalla sola giornata di Glerean a Tedino. Ma anche Spalletti, Zaccheroni e Ventura

Geniale, folle e appassionato. Molto più che mangia allenatori. Franco Ordine il 2 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Imprenditore, poi presidente a Venezia e Palermo. Record di esoneri, ma quanti talenti scoperti: da Toni e Ilicic a Dybala.

A dispetto o in perfetta sintonia con le sue origini, Sivigliano del Friuli, un paesino con due strade, bassa friulana, dov'era nato 80 anni prima, Maurizio Zamparini è stato un terremoto di uomo, nel lavoro e in particolare nel calcio dove ha lasciato tracce inconfondibili. Si è spento ieri, nella notte, in una clinica di Cotignola (Ravenna), dove era ricoverato in seguito a un intervento chirurgico di peritonite con complicazioni che avevano reso inevitabile il trasporto in terapia intensiva prima di un ritorno a casa. Geniale nell'imprenditoria (lanciò il marchio emmezeta nel settore della grande distribuzione), competente nel calcio dove ha collezionato memorabili successi prima a Venezia (due promozioni in serie A oltre allo storico abbinamento con Mestre) e poi a Palermo (dal 2002 al 2018 realizzando piazzamenti in coppa Uefa ed Europa league e finale di coppa Italia persa con l'Inter), imprevedibile nelle decisioni, spesso accelerate dall'ira funesta con cui ha licenziato e riassunto dirigenti (Walter Sabatini, Beppe Marotta, Rino Foschi) e allenatori (se ne contano addirittura 65 tra i due club). Strepitoso, in tal senso, l'omaggio di Francesco Guidolin, uno degli allenatori passati nel frullatore di Zamparini. Ha scritto in un post telegrafico: «Dal martedì alla domenica, il miglior presidente!».

Tutto questo è stato Maurizio Zamparini, spesso ospite polemico e disinvolto di talk sportivi e autore di scontri all'ultimo insulto con agenti, calciatori e giornalisti che ne hanno lodato i successi e scartavetrato la pelle in occasione del suo lento, malinconico declino, culminato con l'arresto prima, poi con il fallimento del Palermo costretto a ripartire dalla serie D. Anche nelle amicizie che contano, aveva avuto fiuto: ai tempi del Venezia promosso con Novellino e Prandelli allenatore, era diventato sodale del professor Cacciari, sindaco della città, quando si trasferì a Palermo (acquistandolo da Franco Sensi, presidente della Roma), divenne inseparabile con Pietro Grasso, magistrato e poi presidente del Senato, tifosissimo dei rosanero.

Indiscutibile il fiuto nello scegliere i calciatori dei quali diventava anche consigliere personale. Maurizio Zamparini debuttò a Venezia dando ospitalità e palcoscenico a Recoba, il gioiello di casa Moratti, completò la collezione di gioie a Palermo con una striscia di campioni che oggi potrebbero comporre uno squadrone in Champions league. Pensate soltanto ai portieri Sirigu e Sorrentino, ai difensori Zaccardo, Barzagli, Balzaretti, Kjaer, Grosso, ai centrocampisti Corini, Vasquez, Pastore, ai fantasisti Dybala e Ilicic, agli attaccanti Amauri, Belotti, Cavani, Toni. Probabilmente ne mancheranno molti altri. Quando si è esaurita la vena magica dello scopritore di talenti, con successive ricche plusvalenze, il Palermo è precipitato in una crisi finanziaria profonda che l'ha portato al fallimento e all'arresto.

Tra i tanti aneddoti se ne racconta uno in particolare che testimonia il temperamento dell'uomo, capace di bruciare sul tempo la concorrenza. Da un colloquio riservato con Carlo Ancelotti, aveva ricavato la notizia della presenza di un promettente attaccante argentino, tale Paulo Dybala, dalle caratteristiche «simili a quelle di Montella». Zamparini non perse tempo: prese il telefono, chiamò il suo ds e gli affidò l'incarico. «Se entro due giorni non lo portate a Palermo vi licenzio tutti» minacciò. Negli uffici del Palermo calcio sapevano che non erano soltanto parole. Appena vide all'opera, per la prima volta in allenamento, Javier Pastore, oggi 32 anni, emozionato dalla classe purissima dell'argentino, si sciolse in lacrime, episodio documentato da una foto scattata da Walter Sabatini, il ds dell'epoca. Oltre a capirne di calcio, lo amava proprio e godeva dei suoi successi, specie se abbinati a esibizioni stilistiche convincenti. Di qui spesso i dissidi con i suoi stessi allenatori, prima scelti, poi coccolati, quindi contestati e infine esonerati brutalmente. Tenne a battesimo il primo Rino Gattuso allenatore liquidandolo dopo poche domeniche, con Stefano Pioli addirittura centrò il record italiano, esonerandolo prim'ancora che cominciasse il campionato 2011.

Dalla prima moglie ha avuto quattro figli, dalla seconda, Laura Giordano, il figlio prediletto Armandino, spentosi all'età di 23 anni a Londra, dopo il primo giorno di lavoro, nell'ottobre scorso. È stata la pugnalata che ha spaccato il cuore di Maurizio Zamparini, ridotto da quel giorno terribile al silenzio più cupo e alla depressione. Lui che era un vulcano di idee, di progetti, di cambi d'umore e di furiose passioni. Franco Ordine

Lutto nel calcio: è morto Maurizio Zamparini. Francesco Curridori l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Maurizio Zamparini, ex presidente di Pordenone, Venezia e Palermo, è deceduto oggi all'età di 80 anni.

“Sono nato su un campo di calcio, ce l’ho nel sangue. Il primo pallone del paese l’ho avuto io. Me lo ha regalato il marito di mia zia, un capitano inglese. Il pallone era mio e quindi la squadra la facevo io”. Maurizio Zamparini, ex presidente di Pordenone, Venezia e Palermo, deceduto oggi all'età di 8X anni, ha sempre avuto la passione per il calcio.

“Ho disputato la mia prima gara a 17 anni nel campionato di prima categoria nella Trevigiana”,racconterà l'imprenditore friuliano nativo di Bagnaria Arsa che si ritira dal calcio giocato nel 1961, ad appena vent'anni, nonostante fosse arrivato a giocare anche nel campionato Interregionale.“In campo ero molto indisciplinato, me la prendevo sempre con i compagni quando sbagliavo i passaggi e, a fine partita, con gli arbitri che puntualmente mi squalificavano. Ero molto forte, potevo sfondare, ma decisi di fare l’imprenditore". I primissimi calci al pallone, però, Zamparini li ha dati col Sevegliano, la squadra del paesino dove il nonno Maurizio faceva il capostazione. Suo padre Armando, invece, era un operaio specializzato in materia di motori navali emigrato in Venezuela. All'età di cinque anni, lascia la casa dei nonni per trasferirsi, insieme alla madre, in una casa popolare composta da due stanzette un bagno in comune. Quando sua madre decide di raggiungerlo, il giovane Zamparini va a studiare al collegio Renati di Udine e, poi, a Palmanova. “Qui mi sono diplomato perito e tanti anni dopo ho fondato una impresa edile che oggi è la più grande del Friuli”, dirà con orgoglio il vulcanico imprenditore che inizia la sua carriera professionale a 21 anni, poco dopo aver appeso al chiodo gli scarpini da calcio. “Quando mio padre è tornato dal Venezuela, abbiamo comperato il cinquanta per cento di un’officina alla Bovisa”, ricorderà Zamparini, fiero di aver iniziato la sua attività imprenditoriale costruendo marmitte per auto e termosifoni.

Sebbene Zamparini abbia investito in tantissimi settori differenti, il core business dei suoi affari resta la catena di centri commerciali Mercatone Zeta, MZ (sigla che richiama le iniziali del suo nome). In quasi 30 anni, dal 1972 al 2001, l'imprenditore friulano ne crea una ventina che, poi, rivende alla francese Conforama per una cifra pari a 1000 miliardi di lire. Negli anni '80 entra nel mondo del calcio acquistando il Pordenone Calcio, squadra che milita in Serie C2 e che cede molto presto per rilevare le azioni del Venezia Calcio. Nel 1987 fonde la squadra del capoluogo veneto con il Mestre e, nel giro di quattro anni, porta il Venezia dalla serie C2 alla serie B. Nel 1998, dopo un decennio di presidenza Zamparini, arriva la tanto agognata promozione in serie A con Walter Novellino in panchina e Alvaro Recoba in attacco. “Sono entrato nel Venezia su suggerimento di un amico. 'Prendilo, costa poco, è un affare'", dirà Zamparini sottolineando l'aspetto economico dell'impresa: “Con il Venezia ci ho rimesso duecento miliardi di lire”. Tra i dirigenti del Venezia Calcio c'è Giuseppe Marotta che racconterà così quell'esperienza: “Era il 1986. Io ho 29 anni e faccio il d.s. a Varese, Zamparini ne ha 45 e a Vergiate e a Palmanova in Friuli ha già lanciato i Mercatone Zeta che rivoluzionano il sistema di vendita in Italia. I centri commerciali li ha inventati lui. Ci piace il calcio, tentiamo l’impossibile: andiamo a casa di Lamberto Mazza che ha da poco venduto Zico, e Zamparini chiede di acquistare l’Udinese. Mazza ci pensa, poi dice no. Ma ormai Maurizio ha il pallino del calcio e io lo aiuto ad acquistare il 50% del Venezia, in C2. Divento suo d.g. nel 1995. E in 2 anni andiamo dalla B alla A, restandoci per tre".

Nel 2002 Zamparini rileva il Palermo calcio da Franco Sensi per 15 milioni e, in 15 anni di presidenza, la squadra siciliana raggiunge risultati mai ottenuti prima. Non solo ritorna in serie A dopo 31 anni, ma si qualifica persino alle coppe europee diventando una vera e propria “fabbrica di campioni”: dai vincitori di Berlino 2006 Cristian Zaccardo, Fabio Grosso, Andrea Barzagli e Simone Barone al capocannoniere Luca Toni a Paulo Dybala ed Edison Cavani. Gli ottimi risultati ottenuti sono sempre stati accompagnati da un temperamento fumantino di Zamparini che in più occasioni è stato deferito dalla Lega e che in 32 anni di calcio ha esonerato una serie lunghissima di allenatori: ben 66. “Gli allenatori sono come le angurie. Finché non le apri non puoi sapere quello che c’è dentro”, dirà tra il serio e il faceto.

Zamparini, in quegli anni, investe parecchio in Sicilia dove desta scalpore l'apertura nel 2012 di un enorme centro commerciale ribattezzato Zampacenter. "Ero ricchissimo, tanti anni fa ho venduto tutto ai francesi per mille miliardi di vecchie lire. Li ho investiti e ora di liquidità non ho nulla, zero, e in banca nei conti non c'è un euro. Ho tante aziende, tutte intestate agli altri, ai miei figli, così Equitalia non viene a beccarmi niente", confesserà alla Zanzara l'allora presidente del Palermo che, parlando sempre in libertà nel corso della trasmissione radiofonica di Radio 24, si vanterà di aver avuto "più di mille donne" nella sua vita. Nel 2011 entra in politica fondando il Movimento per la gente con l'intento di partecipare alle Regionali siciliane dell'anno successivo. “Voglio solo far capire che nutro una seria preoccupazione per questo Paese. Io ho cinque figli e dei nipoti, non voglio che vivano in un Paese così”, dirà Zamparini all'inizio della sua avventura politica che avrà vita alquanto breve tant'è vero che del suo movimento si perderanno ben presto le tracce.

Fallito il vecchio Palermo: nuovi guai per Zamparini 

Nel 2019 Zamparini finisce agli arresti domiciliari con l'accusa di falso in bilancio e autoriciclaggio nell'ambito di un'inchiesta sulle presunte irregolarità nella gestione e nei bilanci del Palermo Calcio, mentre l'anno dopo viene rinviato a giudizio. “Io non ho mai fatto una fattura falsa, non ho mai fatto niente. Sono una persona onestissima, in quattro anni di intercettazioni telefoniche non hanno trovato niente, perché non possono trovare niente”, si difenderà, poi, l'imprenditore friulano. Nel dicembre 2021 Zamparini viene ricoverato d'urgenza a Udine e viene sottoposto a un intervento all'addome a causa di una brutta peritonite.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Morto Maurizio Zamparini, il dramma un mese dopo l'operazione per peritonite: aveva 80 anni. Libero Quotidiano l' 01 febbraio 2022.

Addio a Maurizio Zamparini, lo storico ex patron del Palermo, uno dei presidenti più vulcanici che la Serie A abbia mai conosciuto. Zamparini aveva 80 anni e aveva subito un'operazione per peritonite nel mese di dicembre all'ospedale di Udine. Una volta tornato a casa, però, le sue condizioni si sarebbero aggravate, fino alla morte avvenuta nelle ultime ore. Una morte che lascia sgomenti. Zamparini, si apprende, è morto all'ospedale di Cotignola, in provincia di Ravenna, dove era ricoverato. E ancora, l'ex patron del Palermo era già stato ricoverato nella medesima struttura prima dell'operazione per peritonite alla quale si era sottoposto presso l'ospedale di Udine. Il decesso è avvenuto intorno alle due della notte tra lunedì e martedì primo febbraio.  

"Adesso potrai allenare il tuo caro amato Diego". Lutto nel mondo del calcio: è morto Di Marzio, scopritore di Maradona

Dopo essere stato presidente del Venezia, che era riuscito a riportare nel massimo campionato, l'imprenditore friulano aveva acquistato il Palermo divenendo il dirigente più vincente della storia rosanero. Sotto la sua gestione il Palermo aveva parimenti conquistato la promozione in Serie A che per la squadra mancava dalla bellezza di trent'anni. Successivamente aveva ottenuto la storica qualificazione alla Coppa Uefa e successivamente all'Europa League.

Molti i campioni che negli anni hanno indossato la maglia del Palermo, alcuni dei quali scovati direttamente dallo stesso Zamparini. Giocatori del calibro di Edinson Cavani, Luca Toni, Amauri, Fabrizio Miccoli, Javier Pastore e, per ultimo, Paulo Dybala. Dopo gli anni d'oro era iniziato il declino, poi le vicende giudiziarie che avevano portato all'arresto dello stesso Zamparini e al fallimento della società rosanero poi ripartita dalla serie D. Negli ultimi mesi, per Zamparini, un altro durissimo colpo: la morte del figlio Armando, ritrovato senza vita nella sua abitazione di Londra. 

Addio Maurizio Zamparini, il grande mangia-allenatori che non si è mai fatto odiare: il ritratto e i segreti. Leonardo Iannacci su Libero Quotidiano il 02 febbraio 2022.

Passione, notevoli capacità imprenditoriali, un sano pragmatismo nella vita e l'irresistibile tentazione di indossare la maschera da cattivo hanno accompagnato l'esistenza di Maurizio Zamparini, friulano di Bagnaria Arsa, scomparso ieri a 80 anni. Un attacco di peritonite ha debilitato il fisico già malandato e la mente offuscata dall'improvviso malore che, nell'ottobre scorso, gli portò via il figlio Armando di soli 23 anni nella sua casa di Londra. L'ex caudillo del Palermo - prima era stato presidente anche di Pordenone e Venezia - lascia la moglie Laura Giordani e 4 figli: Silvana, Greta, Andrea e Diego. Z come Zamparini è stato il marchio che ha restituito Palermo al grande calcio del nuovo millennio, riaccendendo gli entusiasmi di un'intera città. 

Il presidente mangia-allenatori per eccellenza - più degli stessi Massimo Moratti e Massimo Cellino, dilettanti al confronto - vanta un record mondiale: dal 2002 al 2019, tanto è duratala sua reggenza del club palermitano, ha silurato qualcosa come 51 allenatori, una media di 3 per campionato. A Venezia, dove aveva guidato il club Venezia-Mestre dal 1987 al 2001, lanciando Recoba, si era limitato: 15 esoneri in 14 anni. In Sicilia, dove approdò in seguito alla vendita di 20 centri commerciali MZ (introitando 100 milioni), ha intensificato il ruolo di impallinatore: ne ha esonerati, ripresi e ricacciati con una voracità surreale. Nel 2013 è riuscito nell'impresa di mandar via e riprendere Gasperini. Nel 2015-2016 ha straripato: 9 in un solo anno. Un tourbillon quasi comico.  

Lo sapevano bene i mister che, su e giù dalla giostra, hanno sempre accettato di accomodarsi su quella panchina incandescente. Però, e questo è il fatto curioso, sono stati in pochi a riversare sentimenti avversi sul "pres". Tutti e 51 gli esonerati non hanno mai escluso il ritorno se ricevevano la mannaia del lunedì dopo una partita non necessariamente persa, visto che alcuni sono stati costretti a fare le valigie persino dopo un risultato positivo. Partita che magari non aveva neanche visto perché spesso non le guardava ma si faceva portare in giro attorno allo stadio dal suo autista e poi si faceva riferire. Riornavano, poi, alle sua dipendenze non per soldi ma per denaro? Non solo. Un fatto è certo: Zamparini è sempre stato perfetto nei pagamenti e diretto nei rapporti. A suo modo è stato un personaggio con la schiena diritta e con il quale anche noi giornalisti ci siamo alimentati, elzevirando non poco.  

"Adesso potrai allenare il tuo caro amato Diego". Lutto nel mondo del calcio: è morto Di Marzio, scopritore di Maradona

Forse perché aveva carattere e possedeva talento nel fiutare calciatori bravi, potenziali assi. Il suo intuito, ben supportato da diesse bravi come Rino Foschi o Walter Sabatini, portò in Sicilia giovani divenuti campioni come Ilicic, Cavani, Dybala, futuri azzurri campioni del mondo o d'Europa come Toni, Barzagli, Grosso, Zaccardo, Barone, Belotti e Sirigu, e altri giocatori bravi (vedi tabella). Molti suoi ex allenatori, ieri, hanno ricordato il loro Saturno con stima, inerpicandosi al limite dell'affetto. Guidolin: «Per 6 giorni su 7, dal martedì alla domenica, era il presidente ideale. L'uomo? Leale». Delio Rossi, cacciato e ripreso a furor di popolo: «Mi chiamava a cena, a casa sua, per sgridarmi. Ma lo ricordo come uno bravo». Baldini, attuale allenatore del Palermo in C: «Mi ferì qualche volta. Ma gli dedicheremo la vittoria nel prossimo derby contro il Messina». Mangia: «A lui devo molto». Iachini: «Un grande uomo, un grande presidente». 

Affetto e belle parole anche da tutto il mondo del calcio, dallo stesso Sabatini a Cairo, da Galliani a tutti gli altri club di serie A. In serata Dybala ha abbracciato Zamparini su Instagram: «Sei stato il primo a credere in me. Grazie dal tuo picciriddu». In questo calcio dominato da presidenti stranieri che vanno e vengono, da fondi misteriosi, da sinistri personaggi, da proprietari finti, uno vero come Zamparini mancherà. Eccome.

Morte del figlio di Zamparini, "quel messaggio il giorno prima...". Uno spaventoso mistero: cosa non torna. Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021.

"Una tragedia infinita". Maurizio Zamparini chiuso nel suo dolore racconta così la morte improvvisa del figlio Armando. Il ragazzo, 23enne, si trovava a Londra dove aveva concluso un Master. "Armandino è morto proprio il giorno prima che iniziasse a lavorare in una grande azienda, qui a Londra", spiega l'ex presidente del Palermo a Repubblica. "Gli avevo mandato un messaggio giovedì, il giorno prima: "In bocca al lupo!". Ma non ho mai ricevuto risposta. Perché Armandino l'altro ieri è morto", Armando, frutto del suo secondo matrimonio con Laura Giordani, è deceduto all'improvviso. A trovarlo ormai privo di vita nel suo appartamento nel quartiere di Mayfair, che condivideva con un amico, la governante. 

Una morte che rimane per tutti un mistero. Lo stesso Zamparini ammette che "non avevamo avuto alcun segnale e Armando era un ragazzo pulitissimo. Giovedì Thomas (il coinquilino) è uscito di casa presto, mentre mio figlio è rimasto in casa. Poi la governante alle due e mezza l'ha trovato inerme, immobile. Ha chiamato subito l'ambulanza, ma è stato tutto inutile. Armandino era già morto". 

Ignote ancora le cause del decesso anche se stando ai primi esami non è escluso un arresto cardiocircolatorio, o comunque un malore letale. False le notizie uscite sulle patologie pregresse di cui soffriva. Zamparini conferma solo una forte bronchite asmatica di cui ha sofferto in passato, "che gli ha dato vari problemi, ma nient'altro che io sappia". Da scartare per le autorità inglesi che hanno preso a carico il caso nessuna morte violenta. "Armando - dicono anche gli avvocati - si è spento serenamente". Per Zamparini si tratta di un'altra batosta dopo il processo sulla vendita della squadra siciliana che lui aveva acquistato e portato ai vertici della Serie A: "Ne ho passate tante nella vita, ora anche questa, non è giusto".

Matteo De Santis per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.  

Se ne raccontavano talmente tante di e su Maurizio Zamparini, scomparso ieri a 80 anni di vita e 31 trascorsi nel calcio da presidente-padrone prima del Venezia e poi del Palermo, che non si sapeva mai quali fossero vere e quali invenzioni. 

Il confine, nella sterminata aneddotica sul «Mangiallenatori» che si fece le ossa vendendo elettrodomestici porta a porta e si riscoprì imprenditore di successo tirando su le catene di supermercati dai prezzi concorrenziali Emmezeta e Mercatone, era sempre molto labile: l'impossibile, con un vulcano come lui, poteva sempre essere possibile. 

E così, raggiungendo il figlio Diego (morto, a soli 23 anni, lo scorso ottobre) e salutando la moglie Laura e altri quattro figli, Zamparini lascia tante storie senza un bollino di verità assoluta o di leggenda metropolitana. Raccontano che ai tempi del Venezia, sbrigando le pratiche per uno dei 51 esoneri ordinati, convocò lo staff dell'allenatore appena silurato nella sede delle sue aziende e lanciò dalle scale una borsa da palestra contenente la liquidazione in contanti. 

Al Palermo, dove gli sono riuscite le cose migliori, si mise a piangere come una fontana non appena vide il primo approccio con il pallone di Pastore, appena sbarcato dall'Argentina. Commosso, come poche altre volte, Zamparini entrò nello spogliatoio e disse al resto della squadra: «Dovete fare una sola cosa: dare la palla a Pastore».  

E quel Palermo, grazie alle intuizioni di due talent scout come Rino Foschi e Walter Sabatini e alle rivelazioni in campo di campioni ancora sconosciuti come Cavani, Kjaer, Pastore, Ilicic, Toni, Miccoli, Barzagli e Grosso, nel 2006 sbarcò in Europa, nel 2010 sfiorò per due punti l'utopia della Champions League e nel 2011 si arrese all'Inter solo in finale di Coppa Italia. 

Da quel momento, suggellato da un'invasione di massa del tifo rosanero a Roma, la parabola imboccò la via del declino. Lento, ma costante. Retrocessioni, promozioni, salvezze, ricadute in cadetteria, intuizioni geniali come Dybala, Belotti e Vazquez, cessioni della società ad acquirenti fumosi che puntualmente si tiravano indietro fino ad arrivare al fallimento e all'uscita dal mondo del nostro pallone. 

Amato dai giocatori, almeno da quelli che non andavano via a zero, molto meno degli allenatori. Nella lista delle 51 vittime zampariniane, impallinate tra Venezia e Palermo, ne compaiono di ogni tipo: Novellino, Ventura, Spalletti, Guidolin, Delneri, Zaccheroni, Delio Rossi, Pioli, Gattuso, De Zerbi, Prandelli, Gasperini. Non pensava tanto, ma agiva d'impulso. E non è sempre stato un pregio. «La fusione Venezia-Mestre fu la mia più grande cavolata», ammise.

 Ci avesse pensato, forse non avrebbe impacchettato una squadra intera in una notte per spedirla a Palermo e negli anni successivi si sarebbe pure risparmiato una trascurabile parentesi politica e qualche altro guaio. Ma non sarebbe stato Zamparini, uno che diceva quasi sempre quello che pensava. Come che non capiva i siciliani che andavano via dalla Sicilia. Detto da un friulano, cresciuto tra Milano e il Varesotto, faceva sempre un certo effetto.

·        E' morto Tito Stagno.

E' morto Tito Stagno. La Stampa l'1 Febbraio 2022. E' morto a 92 anni Tito Stagno, giornalista, telecronista sportivo e conduttore televisivo italiano. È stato uno dei più popolari conduttori del telegiornale negli anni sessanta e nei primi anni settanta. Nel 1961 fu il telecronista che commentò il primo volo di Jurij Gagarin intorno alla Terra. Il fervore e l'esattezza con cui parlò dell'impresa ebbero tali consensi da indurre i dirigenti Rai ad affidargli le trasmissioni in diretta e i servizi del telegiornale in occasione di tutti i lanci di sonde spaziali o astronavi pilotate.

Tito Stagno è morto: il giornalista che annunciò lo sbarco sulla Luna aveva 92 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera l'1 febbraio 2022.

Il giornalista aveva 92 anni. Celebre per aver fatto la cronaca dell’allunaggio, il 20 luglio 1969, poi ha diretto la Domenica Sportiva: fu per decenni uno dei volti più celebri della Rai. 

È morto il giornalista, telecronista sportivo e conduttore televisivo Tito Stagno: aveva 92 anni. Nel 1969, in una leggendaria diretta sulla Rai, raccontò agli italiani lo sbarco sulla Luna. In seguito, si è dedicato alla cronaca sportiva, sempre per la Rai, di cui è stato per anni uno dei volti più riconoscibili e apprezzati.

«Può vantare una carriera ricca di interviste, inchieste, reportage (fu lui a seguire Paolo VI nello storico viaggio in Terrasanta), eventi speciali di ogni genere, compresa la direzione della Domenica Sportiva», scriveva di lui Gian Antonio Stella nel 2019, in un’intervista realizzata in occasione dell’anniversario dello sbarco sulla Luna . Un evento storico, che lui raccontò in una diretta dalla durata impressionante: 28 ore e 20 minuti. «Il mondo intero, in quel momento, uscì alla finestra a vedere il cielo. Da Singapore a Cagliari: “Siamo andati sulla Luna”!», ricordava Stagno a 50 anni di distanza.

In una delle sue ultime interviste, pubblicata dal Corriere nella primavera del 2020, disse: «Credo che le persone mi guardino ancora oggi con simpatia perché sanno di essere state il mio unico punto di riferimento. Nel linguaggio conta la chiarezza, ma anche la scelta delle parole».

A proposito della sua lunga carriera di telecronista, nel 2019 ha dichiarato: «Seguii Kennedy a Napoli: sulla macchina scoperta, in piedi, guardava tutti negli occhi, magnetico, come se li conoscesse uno per uno. Ho fatto la cronaca del suo assassinio, non in diretta perché avevamo il satellite a disposizione solo in alcune ore. Feci invece la diretta dell’uccisione di Oswald. Poi Bob Kennedy, Martin Luther King. Anni senza tregua».

Morto Tito Stagno, raccontò l'allunaggio. La Repubblica l'1 febbraio 2022. Volto storico della Rai, aveva 92 anni. Il racconto tv dell'impresa americana rimase nella Storia.

E' morto a 92 anni Tito Stagno. Volto storico della Rai: raccontò l'allunaggio. Primo di otto fratelli, nato a Cagliari nel 1930, lavora alla radio giovanissimo: a 19 anni comincia una delle carriere più straordinarie della storia della televisione. A lungo responsabile dello Sport di Rai 1, ha curato 'La domenica sportiva' e ne è stato anche conduttore - insieme ad altri - dal 1979 al 1981 e nella stagione 1985-1986.

Tito Stagno, Helenio Herrera e Carlo Sassi a 'La domenica sportiva' nel 1985 Radiocronista, intervistatore e documentarista, negli anni ha prestato volto e voce al racconto di alcuni dei più straordinari momenti della Storia. Quella che tutti ricordano è soprattutto l'impresa americana sulla luna. Era il 1969, questo il racconto pubblicato in occasione dei 50 anni di quella avventura.

Allunaggio 1969-2019, Tito Stagno: "La mia telecronaca 'al buio' e quel doppio annuncio con Ruggero Orlando"

Lo sanno tutti, anche chi non era nato allora: Tito Stagno urlò che il modulo aveva toccato, Ruggero Orlando dall’America disse che non era vero, partì il battibecco live per dieci milioni di telespettatori italiani notturni (gli altri 990 milioni in giro per il mondo se ne disinteressarono parecchio). E mentre battibeccavano Orlando a un certo punto disse: ha toccato adesso. Nel senso che era successo alcuni secondi prima ma loro stavano litigando e la frase storica – come rievoca ancora oggi il novantenne Stagno – ovvero “Eagle has landed” lanciata a quelli di sotto col naso in su da Neil Armstrong semplicemente ce la perdemmo. È un po’ la metafora del paese (o di molte vite personali) magari. Stagno equivocò la messa in azione dal modulo di una sorta di antenna che doveva saggiare il terreno con richiami sonori (vagamente, par di capire, tipo il beep dal paraurti posteriore quando parcheggi a rischio) e la frittata andò in scena.

Questa è ovviamente la parte spassosa e che ci piace ricordare di più – e proprio tutti, se pensano a Tito Stagno, pensano a quello. Ma la faccenda dello sbarco in tv fu una storia pazzesca, meravigliosa per tutto il mondo: con una tv giovanissima, soprattutto da noi, un solo canale e per la prima volta in assoluto la sensazione di una comunità felice e curiosa assiepata per un singolo evento (uno dei rari precedenti, per dire, fu la Corea di Pak-Doo-Ik e non fu la stessa cosa). E valeva per il mondo intero, con l’Unione Sovietica che si rassegnò a dare vaghe notizie (mentre la Cina ignorò del tutto la cosa) e l’Occidente in festa. Margherita Hack disse un giorno che a occhio la missione di Colombo in America doveva essere stata assai più pericolosa e appassionante ma, come dire, l’assenza della tv ne condizionò assai la percezione nonché il ricordo, oggi. 

Da noi, fu quasi un giorno intero di diretta – una maratona come si dice, oggi, la prima – il meglio del meglio a raccontare, nomi da commuovere, da Stagno a Orlando, a Enzo Forcella a Gianni Bisiach, di qua e di là dell’oceano. Negli Usa un Piero Angela (ospite del figlio Alberto nello speciale di Rai 1 in onda sabato prossimo) che ha una grande intuizione e manda gli operatori in giro ordinando di ignorare le immagini della tv e riprendere solo i volti delle persone comuni che guardavano: ne venne fuori un servizio memorabile. E un sacco di altre storie così.

Magari non ha la rilevanza del valore assoluto della missione in sé e dei suoi contorni scientifici d’avanguardia, ma davvero, per la televisione, e per quello che avrebbe rappresentato in futuro per l’intera umanità, quel giorno dello sbarco fu una svolta epocale. Anche la tv aveva toccato, eccome: i cuori del mondo, e la vita di tutti che non sarebbe mai stata più la stessa.

La corsa nello spazio fu una sfida, si sa, tra l'America dei Kennedy e la Russia dei Soviet. Ma per l'Italia segnò, nel suo piccolo, pure il record della telecronaca più lunga. E di un cronista che qui racconta il suo allenamento: iniziato alla mensa di Houston 

Anche se siamo stati trenta ore in studio – la prima diretta così lunga della Rai – forse è stata la telecronaca più facile della mia vita. Faticosa, certo, ma facile. Quel 20 luglio faceva caldissimo, Roma era deserta, io e Andrea Barbato entrammo in studio alle due, cinque ore prima della trasmissione che sarebbe iniziata alle 19.

Da ilmessaggero.it l'1 febbraio 2022.  

È morto Tito Stagno, giornalista e storico volto della Rai: aveva 92 anni. A lui sono legati alcuni dei momenti più indimenticabili della storia del nostro Paese ma non solo. Il più celebre è quello dell'allunaggio nel luglio del 1969, ma è solo una delle tappe di una carriera straordinaria in televisione.

Nella notte in cui l'uomo toccò per la prima volta la luna, un battibecco poi passato alla storia con Ruggero Orlando, collegato da Houston. I due, alla fine della missione Apollo 11, non si trovarono d'accordo sul momento preciso dell'allunaggio degli astronauti. Nel corso degli anni è emerso che Tito Stagno annunciò l'allunaggio circa 56 secondi prima dell'effettivo allunaggio e Ruggero Orlando con circa 10 secondi di ritardo.

BIOGRAFIA DI TITO STAGNO

Da cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Cagliari 4 gennaio 1930. Giornalista tv. Della Rai. Entrato per concorso nel 1955, nel 1956 commentò la diretta dell’inaugurazione delle Olimpiadi invernali di Cortina. Dal 1961 voce delle imprese spaziali, nel 1969 condusse la trasmissione per lo sbarco del primo uomo sulla luna. Dal 1976 al 1979 fu capo dei servizi sportivi di Raiuno, nel 1979 e 1985 condusse La domenica sportiva (curatore fino al 1995). «Rispetto a oggi, i nostri mezzi erano quasi artigianali. Facevamo il possibile per trasmettere più volte un gol, al massimo avevamo due, tre telecamere» (da un’intervista di Guido Furbesco).

Nel 2009 ha scritto con Sergio Benoni il libro Mister Moonlight – Confessioni di un telecronista lunatico (Minimum fax).

Sposato con Edda Lavezzini, giornalista. Due figlie: Brigida e Caterina.

Il cantante Jovanotti, nel suo libro Quarantology (Rizzoli 2006), scrisse per errore che Tito Stagno era morto: «“Mi chiamò Lorenzo” svela la moglie Edda Lavezzini, “era abbastanza nervoso: Signora, signora – mi dice – è successo una cosa terribile a suo marito…”. 

Una lunga pausa poi la moglie di Stagno incalza Jovanotti: “Lorenzo mi dica?” e lui: “Ho scritto che suo marito era morto…” (pausa e risata). La voce narrante dello sbarco sulla luna stava facendo jogging a Roma. Da questo momento la coppia Jovanotti-Stagno è diventata inossidabile. Come la risposta di Stagno al telefono (“Pronto, sono Lazzaro”) allo stesso Lorenzo quando richiamò per spiegare l’equivoco» (Nicola Pisu) [Unionesarda.it 20/7/2013].

Morto Tito Stagno a 92 anni: raccontò lo sbarco sulla Luna. Ignazio Riccio l'1 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il popolare giornalista fece la telecronaca di uno dei momenti storici più importanti dell’umanità emozionandosi insieme a milioni di telespettatori.

Il suo volto rimarrà per sempre scolpito nella memoria di una generazione di italiani che visse insieme a lui, nel lontano 1969, l’evento dello sbarco dell’uomo sulla Luna. Il giornalista e telecronista sportivo Tito Stagno raccontò in Tv uno dei momenti storici più importanti dell’umanità emozionandosi insieme a milioni di telespettatori. Stanotte il popolarissimo volto storico della Rai è morto a 92 anni, dopo che già da tempo si era ritirato a vita privata. Stagno era originario di Cagliari, ma si trasferì già molto giovane, insieme alla famiglia, prima a Parma e poi a Pola. Sposato con la giornalista Edda Lavezzini, ha due figlie: Brigida, che è un medico, e Caterina.

Dopo alcune esperienze cinematografiche come comparsa, nel 1949, cominciò a lavorare alla radio come radiocronista e documentarista. Negli anni successivi affinò la sua formazione seguendo un importante corso di specializzazione al quale parteciparono anche Umberto Eco, Gianni Vattimo e Furio Colombo. Fu questa l’anticamera della Rai dove entrò nel 1955, nella redazione del primo telegiornale diretto da Vittorio Veltroni. Tito Stagno si cominciò ad occupare di sport, in particolare delle telecronache dei Giochi olimpici invernali di Cortina d'Ampezzo del 1956 e, negli anni a seguire, di pallacanestro.

La sua carriera in crescendo lo portò a diventare il narratore in Tv delle visite dei capi di Stato in Italia. Stagno ebbe l’opportunità di fare la telecronaca dell’arrivo nel Bel Paese anche dei reali di Inghilterra e del presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy. Poi fu inviato al seguito di Papa Giovanni XXIII e Papa Paolo VI, oltre e riporto le gesta dei presidenti della Repubblica Antonio Segni e Giuseppe Saragat. Negli anni Sessanta, invece, diventò un volto noto conducendo il Telegiornale. Nel 1961 commentò il primo volo di Jurij Gagarin intorno alla Terra, diventando il giornalista più affidabile per gli eventi in diretta televisiva.

Per questo motivo, il 20 luglio del 1969 toccò a lui condurre la diretta della missione dell’Apollo 11 sulla Luna insieme a Ruggero Orlando da Houston. Per molti anni è stato responsabile dello Sport su Rai Uno, con la storica trasmissione La Domenica Sportiva come programma principale. Esperto di comunicazione, fino a qualche tempo fa, ha tenuto lezioni in varie università e corsi privati per imprenditori, dirigenti d'azienda, uomini politici, professionisti. Il 15 dicembre 2014 è stato insignito della Stella d'Oro al Merito Sportivo.

Ignazio Riccio. Sono nato a Caserta il 5 aprile del 1970. Giornalista dal 1997, nel corso degli anni ho accumulato una notevole esperienza nel settore della comunicazione, del marketing e dell’editoria. Scrivo per ilGiornale.it dal 2018. Nel 2017 è uscito il mio primo libro, il memoir Senza maschere

Morto Tito Stagno, raccontò agli italiani la conquista della Luna: le sue lezioni di giornalismo. Libero Quotidiano l'01 febbraio 2022.

Addio a un pezzo di storia del nostro Paese: è morto Tito Stagno, il giornalista e telecronista sportivo, l'uomo che raccontò agli italiani lo sbarco sulla Luna, in diretta nel 1969. Tito Stagno aveva due anni. In seguito al racconto dell'allunaggio, si è dedicato alla cronaca sportiva, sempre per la Rai, di cui è stato per anni uno dei volti più riconoscibili e apprezzati.

Nella primavera del 2020, in un'intervista concessa al Corriere della Sera, affermò: "Credo che le persone mi guardino ancora oggi con simpatia perché sanno di essere state il mio unico punto di riferimento. Nel linguaggio conta la chiarezza, ma anche la scelta delle parole".

E ancora, le parole del 2019, quando parlò di uno dei momenti più indimenticabili della sua carriera: "Seguii Kennedy a Napoli: sulla macchina scoperta, in piedi, guardava tutti negli occhi, magnetico, come se li conoscesse uno per uno. Ho fatto la cronaca del suo assassinio, non in diretta perché avevamo il satellite a disposizione solo in alcune ore. Feci invece la diretta dell’uccisione di Oswald. Poi Bob Kennedy, Martin Luther King. Anni senza tregua".

Primo di otto fratelli, lavora alla radio giovanissimo: a 19 anni comincia una delle carriere più straordinarie della storia della televisione. A lungo responsabile dello Sport di Rai 1, ha curato La domenica sportiva e ne è stato anche conduttore - insieme ad altri - dal 1979 al 1981 e nella stagione 1985-1986. Radiocronista, intervistatore e documentarista, negli anni ha offerto il suo volto e soprattutto la sua voce al racconto di alcuni dei più straordinari momenti della Storia. Quella che tutti ricordano, come detto, è soprattutto l'impresa americana sulla luna. Era il 1969, un momento che gli italiano non potranno mai dimenticare.

E' morto all'età di 92 anni. Chi è Tito Stagno, lo storico giornalista che raccontò l’allunaggio. Redazione su Il Riformista l'1 Febbraio 2022. 

Il mondo del giornalismo e dello spettacolo saluta Tito Stagno. Lo storico volto della Rai, che raccontò agli italiani lo sbarco sulla Luna, è morto all’età di 92 anni.

“Ha toccato! Ha toccato in questo momento il suolo lunare”: la storia dell’allunaggio è tutta in quella frase che Tito Stagno pronunciò la sera del 20 luglio 1969. Per oltre 25 ore di trasmissione in diretta dagli studi Rai, collegato con Houston dove c’era Ruggero Orlando, Stagno fece vivere a 30 milioni di italiani il sogno dell’allunaggio.

Nel 2019, in occasione del cinquantesimo anniversario dallo sbarco sulla Luna di Apollo 11, il giornalista aveva ricordato con l’Ansa quel momento in cui la sua voce entrò nella case degli italiani. “Facile anche se indubbiamente faticoso. Tutto sommato ad oggi posso confessarlo con tutto quello che ho fatto nella mia carriera, anche se siamo stati 25 ore in diretta”, ha detto.

Ma quella veglia è rimasta nell’immaginario collettivo: il giornalista la ricordava spesso con nostalgia ma anche con una punta di amarezza, in quanto gli ricordava “una stagione di entusiasmi, di coraggio, di desiderio di conoscenza che si rivelò poi troppo breve”.

Classe 1930, primo di otto fratelli, Stagno è nato a Cagliari e dopo alcune brevi esperienze da attore per il cinema, iniziò a lavorare come telecronista in radio all’età di 19 anni. Nel 1955 venne assunto dal telegiornale della Rai e negli anni ’60 e ’70 diventò il mezzobusto tv ed entraò nelle case degli italiani.

Sin da subito, il giornalista si era appassionato alla vicenda dello Sputnik, lanciato nel 1957: “Me ne occupai io e da allora quel settore in ascesa divenne un po’ il mio”, raccontava. E definiva “leggenda” la storia del battibecco avuto con Ruggero Orlando proprio durante la storica telecronaca dell’allunaggio. ”Eravamo molto molto amici: comunque, anche per motivi tecnici, io diedi la notizia 20 secondi prima di lui”.

Radiocronista, intervistatore e documentarista, negli anni ha prestato volto e voce al racconto di alcuni dei più straordinari momenti della Storia. Poi la parentesi sportiva tra il 1976 e il 1995, diventando responsabile della Domenica Sportiva.

Il suo nome sarà sempre legato a quella lunga diretta, che resta una pagina storica ancora oggi indelebile.

Il ricordo. Tito Stagno, è morto l’uomo che ci fece sbarcare per primi sulla Luna. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 2 Febbraio 2022.

Il mondo e la televisione non erano solo in bianco nero, ma in grigio sgranato. Eravamo tutti immersi nel grigio sgranato alle due di notte da noi in Italia. Tito Stagno aveva degli occhiali dalla montatura assurda in gran voga, era molto curato e bell’uomo pettinato con buon taglio di capelli con riga in un mondo di capelloni sessantottini, completo chiaro, camicia immacolata cravatta di estiva eleganza e doveva solo cercare di capire e tradurre quel che stava accadendo a Houston Texas dove c’era quell’altro grande personaggio che era Ruggero Orlando le cui geniali improvvisazioni come inviato in America ce lo facevano apparire un privilegiato geniale e di successo.

Tito Stagno era un grande telecronista sportivo, quel giorno titolare della cronaca del più grande e finora ineguagliato traguardo dell’Umanità, ma diciamo pure dell’America in sidereo duello con l’Urss che aveva dominato la corse nello spazio lanciando il primo satellite, il primo cane, il primo uomo, la prima donna, si era presa per anni le prime pagine. Era la rimonta. L’America realizzava il sogno. La navicella stava scendendo lentamente sul suono lunare e Tito Stagno cercava di capire rumori falcidiati da una connessione pessima, sicché inventava a soggetto come ancora, a quei tempi, era possibile e necessario. “Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!”, orlò. Applauso in studio televisivo romano a via Teulada, attrezzato come una sala lancio di Houston, Texas.

“Signori – disse Stagno – sono le 22 Italia e un veicolo fabbricato dall’uomo ha appena toccato il suolo lunare…

Dall’altra parte del mondo si sente la voce di Ruggero Orlando che cerca di interromperlo inutilmente e che finalmente viene udito dire: “Qui pare che manchino ancora dieci metri”. Tito Stagno ha un gesto di stizza, si dà una manata sui capelli pettinati, sconvolgendoli. “No Ruggero. No Ruggero, no Ruggero – dice Stagno come se fosse ormai una questione d’onore – ormai ha toccato, e dunque ha toccato”. Orlando da Houston capisce benissimo il dramma del collega a Roma che doveva interpretare dei sinistri suoni gracchianti e fingere di capire tutto e di sapere un inglese perfetto e cerca di salvare l’amico sacrificando la storia: “Cedi, dieci secondo fa hanno “quasi” toccato perché prima di toccare, la nave deve mettere giù le zampe per stabilizzarsi, e sta adesso per toccare davvero”.

“No Ruggero! – dice stizzito l’elegante cronista italiano – la nave spaziale creata dall’uomo per atterrare su un altro corpo celeste, ha toccato la Luna. L’ho detto e non si va indietro” Ruggero Orlando perde la voglia di salvare il testardo collega da una gaffe dovuta alla fretta e a un pizzico di narcisismo, E senza enfasi, quasi annuncia compostamente: “Ecco, ora Apollo 11 ha toccato. Adesso”. Sbalordimento in studio. Tito Stagno capisce che è arrivato il momento di tornare a mantenere la palla della cronaca e con un secondo urlo di eccitazione dice sì, ha ritoccato e lancia un secondo applauso che contamina la piccola folla che riapplaude. Ruggero Orlando per la seconda volta va in suo soccorso: “In realtà quei pochi secondi servivano per dare il tempo agli astronauti di prepararsi perché mancavano ancora le lunghe zampe…”

Tito Stagno a questo punto ripeteva alcune auliche parole d’occasione sull’intelligenza e tenacia dell’uomo, intendo gli americani e si prepara alla seconda parte della cronaca che vedrà il piedone di Armstrong tentennare sulla scaletta, saggiare un terreno alieno e poi definitivamente scaricare il proprio baricentro sul terreno polveroso e non attraente del satellite e pronunciare la famosa frase prevista dal copione, quella del primo passo del primo uomo sulla Luna che ha cambiato la storia dell’umanità”. Ma queste parole Armstrong le pronuncerà sei ore dopo l’allunaggio quando tutti eravamo andati a dormire. Tito Stagno, che aveva sperato da poco i novant’anni, è morto due giorni fa e la sua morte ha acceso i ricordi e il ricordo più intenso è stato quello del piccolo umano incidente, e della piccola umana testardaggine. Aveva preso un. Abbaglio e non voleva tornare indietro.

Lo spiegò due anni fa a Porta a Porta quando rievocò l’episodio, spiegando che non si sentiva un accidente, non capiva un accidente, tutto era ronzio e gracchiare e lui interpretò un suo che gli sembrava suonare come touched e invece chissà che era e avidamente precedette tutti i cronisti del mondo intero facendo allunare Apollo 11 con almeno dieci di d’anticipo. Forse non è un peccato che un bravo giornalista sia passato alla storia per un errore, e per un piccolo capriccio, ma così è. Tito Stagno apparteneva alla lega dei volti noti e amici della Rai che era anche l’unica rete televisiva italiana. Esisteva solo l’Italia della Rai con dentro i suoi dèi eponimi, gli eroi di tutti, i volti sicuri e garantiti e Tito Stagno era fra di loro quello un po’ più giovane e retrò allo stesso tempo.

Era molto fermo e anche apodittico, incarnava la figura del cronista di lusso delle grandi occasioni, che so, come raccontare il primo viaggio dell’uomo sulla Luna dopo gli eroi di Jules Verne. E lui lì. Pronto a battere tutti e portare anche la bandiera italiana della cronaca più anticipata rispetto alle altre. Nessun altro telecronisti del mondo aveva interpretato ciò che per Tito Stagno era il segnale di allunaggio ed essendo un uomo onesto, simpatico e di fermi principi, una volta allunato non ne voleva sapere di tornare indietro e quando lo fece, con uno scatto di reni chiedendo al suo pubblico un secondo applauso, tutti erano con lui, come anche noi oggi che lo ricordiamo con nostalgia e simpatia.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Gabriele Beccaria per "la Stampa" il 2 febbraio 2022.

«Era stata organizzata una serata spettacolare. Negli studi Rai a Roma. Condotta da Andrea Barbato, ma la famosa frase dell'allunaggio fu quella di Tito Stagno. Ricordo che si era seccato del modo in cui Ruggero Orlando era intervenuto durante la diretta, ma a Tito dissi: "Guarda che questa è la tua fortuna! Sarà trasmessa nei secoli. E tu diventerai un personaggio, conosciuto da tutti"». 

Così Piero Angela ricorda la notte dell'Apollo 11, quando Tito Stagno pronunciò le parole che, come aveva previsto, l'avrebbero legato per sempre, nell'immaginario di noi italiani, all'impresa di Armstrong e Aldrin. «Ha toccato, ha toccato in questo momento il suolo lunare», disse Stagno, seguendo le ultime evoluzioni del Lem, il modulo di atterraggio, e battibeccando con Orlando.

Si scoprirà poi che il duplice annuncio era risuonato in tempi sfasati: 56 secondi di anticipo per Stagno da Roma, 10 secondi di ritardo per Orlando da Houston. In mezzo gli istanti fatali. Piero Angela, che cos' era successo?

«Che probabilmente Stagno diede l'annuncio quando i sensori sotto le zampe del Lem, quelli che fornivano i dati all'altimetro, sfiorarono il suolo della Luna». 

Lei quella sera del 20 luglio dov' era?

«Non ero in studio. Nell'anno e mezzo precedente ero stato inviato negli Stati Uniti, dove avevo seguito tutte le missioni a partire dall'Apollo 7 e là ero diventato un esperto. Avevo realizzato molte telecronache, diversi servizi per Tv7 e quattro documentari. Ma per il 20 luglio la Rai decise di fare tutto da Roma e fu proprio Tito a seguire l'allunaggio con la partecipazione di tanti esperti e professori».

La diretta diventò un pezzo di storia della tv: quanto era diversa la Rai di oltre mezzo secolo fa?

«Bisogna mettersi in mente che l'Italia di allora era diversa da quella di oggi e che la Rai era il riflesso del Paese». 

In che senso?

«Ricordo quando cominciai in Rai, nel '52: la tv non c'era ancora, perché sarebbe arrivata nel '54. Lo spirito era quello dell'Italia della ricostruzione e si guardava al futuro con fiducia. Il dibattito politico era acceso, ma non così conflittuale. La televisione aveva una missione educativa e il famoso maestro Manzi rappresentava il rapporto tra tv e italiani: in un Paese con tanti analfabeti la missione era far crescere il Paese dal punto di vista educativo. Di recente ho sfogliato un Radiocorriere di quegli anni e mi ha stupito il fatto che fossero recensiti così tanti programmi culturali e sceneggiati tratti da opere letterarie». 

È un universo che oggi appare perfino alieno: che cos' è successo?

«La tv è stata prima insidiata e poi dominata dalla concorrenza e dalla pubblicità. E oggi c'è meno fiducia: nel futuro e nelle istituzioni. La tv, adesso, cerca gli ascolti. Devo dire, però, che io continuo a fare la tv di allora: aggiornata, naturalmente, e con i mezzi tecnologici del presente, ma con lo stesso spirito di servizio pubblico».

Intanto anche lo spirito con cui si guarda allo spazio è cambiato: come, secondo lei? «L'Apollo l'ho vissuto da vicino e le condizioni erano diverse. C'era la competizione con l'Unione Sovietica e ogni missione aveva un grande prestigio: politico, tecnologico e militare. Era in gioco la supremazia. Il secondo elemento era lo spirito sportivo, tipicamente americano. La pressione era forte e il programma subì una continua accelerazione, tanto che l'Apollo 8, che inizialmente doveva orbitare intorno alla Terra, fu riprogrammato per orbitare intorno alla Luna. Poi quello spirito svanì di colpo, subito dopo l'Apollo 11».

Ci emozioneremo ancora per il prossimo sbarco lunare?

«Oggi la robotica è così avanzata che l'uomo non può fare molto di più: nel '69, invece, i robot non c'erano».

·        E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.

Gravemente ferito, è stato messo al riparo dal compagno di viaggio ma non ce l'ha fatta. Morto Corrado Pesce, l’alpinista disperso in Patagonia dopo la valanga: “Eri lo spiderman sul ghiaccio”. Redazione su Il Riformista il 30 Gennaio 2022. 

Ha provato a resistere al freddo, con diverse ferite (fratture) e senza viveri, in attesa dell’arrivo dei soccorsi ma è morto probabilmente per ipotermia. Non ce l’ha fatta Corrado ‘Korra’ Pesce, l’alpinista italiano travolto venerdì 27 gennaio da una valanga in Patagonia, in Argentina. Secondo quanto riferiscono i media locali, il corpo senza vita del 41enne originario di Novara, è stato individuato, 40 ore dopo, grazie a un drone sul Cerro Torre, nelle Ande argentine, a una altezza superiore ai 3mila metri. Ieri le ricerche erano state sospese a causa delle pessime condizioni meteo.

Contattata dall’Ansa, Carolina Codo, medico argentino e responsabile del Centro dei soccorsi alpini di El Chalte’n ha ricostruito quanto accaduto: “Abbiamo potuto solo oggi ingrandire le immagini di un drone volato venerdì mattina nella zona dell’incidente. Si vede il corpo di Pesce scivolato 50 metri sotto la piattaforma dove aveva passato la notte con un compagno argentino. A quell’altezza, e senza protezione adeguata, la morte per ipotermia arriva dopo massimo due ore”.

“Korra”, così come veniva soprannominato (lavorava come guida alpina a Chamonix, in Francia), era in compagnia di un altro alpinista, Tomás Aguiló, suo compagno di cordata, quando è stato travolto dalla valanga. Quest’ultimo è riuscito a scendere, Pesce invece si è fermato in attesa di soccorsi perché ferito. Prima di farlo, oltre ad aver allertato i soccorsi tramite il suo in Reach, ha sistemato il 41enne italiano in una rientranza della parete chiamata “box de los ingleses”.

Sui social la sorella Lidia commenta: “Non riesco a crederci. Hai portato via una parte di tutti noi. Tua Figlia, i tuoi nipoti: per loro eri e sei lo Spiderman sul ghiaccio. Sarà dura mandare giù tutto questo buoi che hai creato”. Poi in un secondo post ha aggiunto: “Ringrazio tutte le persone intervenute – scrive ancora su Facebook la sorella – e che stanno tutt’ora intervenendo per recuperare mio fratello…ringrazio gli amici e tutti per quello che avete fatto per lui e ringrazio Tomas Roy Aguilò per averti messo al sicuro nella sua difficoltà…che di Corra…veglia su Leia principalmente… E Veglia su Mamma e Papà….ho un nuovo Angelo in cielo Ti voglio bene e te ne vorrò per sempre…buon viaggio…. Arrivederci”.

Sin dal primo momento, è apparso assai difficile raggiungere il luogo dove era bloccato Corrado Pesce. “Le notizie che abbiamo avuto dall’Argentina confermano che le ferite di Corrado era gravissime. Le fratture impedivano di muoversi. Ci hanno detto che non poteva sopravvivere a lungo. La zona dove e’ avvenuto l’incidente è pericolosissima, soggetta a continue valanghe”, dicono le guide alpine di Chamonix, in contatto con delle persone in Argentina. “

«Abbiamo cercato di soccorrere Korra, gli dedichiamo la via aperta». Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 31 gennaio 2022.

L’alpinista Matteo Della Bordella racconta l’incontro con Corrado Pesce prima della tragedia in Patagonia. «Ho aspettato alle tre di notte al freddo e al vento sul nevaio triangolare in attesa di qualche segnale». 

«Abbiamo aperto una nuova via sul Cerro Torre, la montagna delle Ande Argentine su cui Korra ha perso la vita». Sono ancora in Patagonia Matteo Della Bordella che, con i compagni David Bacci e Matteo De Zaiacomo, gruppo di alpinisti di Varese che sul Cerro Torre era riuscito ad unirsi a Corrado Pesce e al compagno argentino Thomas Aguilò dopo aver completato la salita del diedro degli inglesi e traversato fino alla nord del Torre. Ma soprattutto sono stati tra i primi a provare a soccorrere Korra, quarant’anni, guida alpina e alpinista estremo di origini novaresi ma residente a Chamonix, travolto da una valanga che non gli ha dato scampo.

«Abbiamo provato a localizzarli attraverso il drone che avevamo con noi — racconta Della Bordella che ancora si trova in Patagonia dove ha aperto una nuova via di salita —. Conoscevamo bene quella parete e pur essendo provati dalla salita mi sono messo al comando della cordata di soccorso. In tre abbiamo ripercorso i sette tiri della via che avevamo aperto qualche ora prima e siamo riusciti a raggiungere Tomy. Ma di Korra invece non c’erano tracce. Secondo quanto ci ha raccontato il compagno era più in alto, almeno trecento metri più su di dove ci trovavamo noi, ma era impossibile da vedere e raggiungere».

Matteo però, da vero alpinista che sa che ogni tentativo è importante, decide di non darsi per vinto e, nonostante si fosse alzato un vento fortissimo e la temperatura fosse precipitata, e continuare a provare a raggiungere il collega. «Eravamo in due sulla montagna con una sola corda a disposizione — continua l’alpinista —. Ho aspettato alle tre di notte al freddo e al vento sul nevaio triangolare in attesa di qualche segnale. Quando ho iniziato ad avere alcuni svarioni, non sentire più i piedi dal freddo e sentire una musica nella mia testa ho capito che era il momento di scendere. Una decisione difficile. Ma eravamo già oltre i nostri limiti fisici». Insieme con Korra qualche ora prima il gruppo di alpinisti di Varese aveva conquistato la vetta del Cerro Torre. «Era il più fresco e il più forte, una “macchina” — dice ancora Della Bordella —. Li avevamo incontrati a trecento metri dalla cima. Dal punto di vista mentale seguire una “macchina” come Korra era un vantaggio enorme. Poi però ci siamo divisi».

Tomy e Korra hanno scelto di scendere al buio, lungo la parete Nord per riposarsi dove avevano i sacchi a pelo. La cordata di Bordella invece ha preso dall’altro lato. «Erano le 17 quando abbiamo saputo dell’incidente — spiega lo scalatore —. In quelle due ore, mentre stavano riposando, sono stati travolti da un’enorme scarica di ghiaccio e sassi. Quella che è poi risultata fatale per Korra». Per questo i tre alpinisti hanno deciso di intitolare la nuova via aperta da loro in Patagonia proprio a lui e chiamarla “Brothers in arms”. «Korra resterà per sempre su quella montagna — conclude Della Bordella —. Ma sarà impossibile dimenticarlo per le sue imprese».

·        E' morto l’attore Renato Cecchetto.

(ANSA il 24 gennaio 2022) - E' morto nella notte all'ospedale San Camillo di Roma, Renato Cecchetto, attore e doppiatore noto per essere la voce italiana del personaggio di Shrek. Si è spento a 70 anni ed era ricoverato a causa delle ferite riportate dopo un incidente in scooter. A darne notizia il sindaco di Adria, sua città natale, Omar Barbierato. 

"Ho appena appreso della scomparsa di Renato Cecchetto. Una notizia che lascia sgomento e dolore - scrive su facebook -. Esprimo il mio personale #cordoglio e quello di tutta la comunità adriese che rappresento, alla famiglia di Renato, alla moglie Miriam, al figlio, alla sorella Alice e a quanti gli erano vicini. Renato era legato alla sua #Adria, alla sua Baricetta, dove aveva vissuto con la famiglia fino all'età di vent'anni, per poi proseguire gli studi all'accademia nazionale d'arte drammatica "Silvio d'Amico" di Roma e intraprendere la carriera di attore di teatro, cinema e anche doppiatore". 

Cecchetto ha lavorato in più di 80 film con registi come Mario Monicelli, Steno, Marco Ferreri, Damiano Damiani, Florestano Vancini, Carlo Vanzina e Neri Parenti, in pellicole quali Amici miei - Atto II, Fracchia la belva umana, Parenti serpenti e Pierino colpisce ancora. Per la televisione è stato il giudice Bordonaro nelle prime due edizioni de La piovra. Come doppiatore, è stata la voce di John Ratzenberger in quasi tutti i film Disney/Pixar. 

Morto Renato Cecchetto, indimenticabile voce di Shrek. Roberta Damiata il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale.

È morto all'età di 70 anni per le gravi ferite riportante in un incidente in motorino, Renato Cecchetto. Grande caratterista e doppiatore, nella sua carriera aveva girato più di 80 film.

Se n’è andato all’età di 70 anni Renato Cecchetto, popolare attore e doppiatore di moltissimi film. È morto il 23 gennaio all’ospedale San Camillo di Roma per le ferite riportate in un grave incidente in motorino, che aveva avuto recentemente. A darne notizia il sindaco di Adria, Omar Barbierato, città in cui Cecchetto era nato nel 1951. Nella sua carriera aveva lavorato con i più grandi registi, come Mario Monicelli, Steno, Marco Ferreri, Damiano Damiani e Florestano Vancini.

Cecchetto iniziò la sua formazione all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico a Roma, e il teatro fu uno dei suoi grandi amori. È stato diretto fra gli altri, da Missiroli, Ronconi, Squarzina, Pressburger e Trionfo. L’amore per il palcoscenico non lo ha mai abbandonato per tutto il corso della sua vita. Nel 2012 ha portato in scena in prima nazionale al Teatro Spazio Uno di Roma La moglie del Fornaio di Marcel Pagnol interpretando il ruolo di Aimable e firmando traduzione e regia. Nel 2014 ha diretto la pièce Physique des rôles di Miriam Spera in prima nazionale al Teatro Trastevere di Roma. Sempre di Miriam Spera, nel 2016 La Recita di Lolek e nel 2018, Rear Wall - Il muro sul cortile, entrambi andati in scena al Teatro Petrolini di Roma.

Sul grande schermo sono più di 80 i film girati nella sua carriera di caratterista. Da Amici Miei Atto II a Fracchia la belva umana, da Fantozzi alla riscossa a Parenti serpenti. Indimenticabile nel fidanzato ricco abbandonato sull'altare dalla sorella di Diego Abatantuono ne I fichissimi o il comandante della Digos in Fracchia la belva umana, e nel marito della depressa Monica Scattini in Parenti serpenti.

Anche in tv aveva avuto una brillante carriera. Era stato il giudice Bordonaro nelle prime due edizioni della serie La piovra ed è apparso in I racconti del maresciallo. Conosciutissimo anche per aver prestato la sua voce a molti personaggi del mondo dell’animazione. Era sua la cavernosa voce di Shrek, ma anche di molti altri cartoni della Disney Pixar, come il porcellino Hamm di Tor Story o il trasportatore Mack in Cars-Motori ruggenti. Ha inoltre dato la voce a Cleveland Brown a partire dall'undicesima stagione de I Griffin.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

·        Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.

È morto Paolo Taggi, autore di «Stranamore», «Turisti per caso» e «Buona Domenica». Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2022. 

Lo scrittore era un instancabile creatore di narrazioni televisive ma anche di libri. Aveva detto: «Diventare personaggi televisivi non è difficile. Difficile è diventare persone televisive». 

Sono molto dispiaciuto per la morte di Paolo Taggi, scrittore e autore televisivo. Aveva solo 65 anni. Ha firmato programmi come Io confesso, Per un pugno di libri, Turisti per caso, La Talpa, oltre a diverse edizioni di Domenica In. Per Sat2000 (ora Tv200o) aveva creato Il Grande Talk, poi scippato dalla Rai, e ideato molte trasmissioni. Per Canale 5 aveva scritto Stranamore e Buona domenica. Ha lavorato anche per Mtv con Black Box e moto anche per RSI, la tv svizzera, per cui aveva inventato Il gioco del mondo. L’avevo incontrato non molto tempo fa, sorridente come sempre, agitato come sempre. Era venuto a trovarmi con Sandro Parenzo per descrivere l’enorme materiale di repertorio di Antenna 3 Lombardia e Telelombardia. Cosa farne? Come utilizzarlo? Taggi l’avevo conosciuto tanti anni fa, ai tempi dell’università, corso di cinema: lui studente, io alle prime armi come assistente. Poi ho sempre seguito la sua prolifica attività, sospesa fra libri e copioni. Paolo era insieme creatore di narrazioni televisive e teorico di questo narrare.

Per provocarlo, ogni volta gli dicevo che i suoi libri erano meglio dei suoi programmi e lui, di rimando, arruffando le parole, mi spiegava come fosse difficile lavorare in gruppo, conciliare le esigenze di tutti, mettere d’accordo le idee con gli ascolti. Era instancabile: una volta firmava un programma, un’altra scriveva un libro, un’altra ancora dirigeva il laboratorio creativo di Endemol o la scuola autori della Rai. Il suo film «Storia probabile di un angelo. Fernando Birri», realizzato con Domenico Lucchini, è stato presentato a molti festival internazionali. Voglio ricordarlo con una frase di un suo libro, «Kentucky va in tv» (2002): «Diventare personaggi televisivi non è difficile. Difficile è diventare persone televisive. Non sappiamo quando, come, e se la tv ha già incrociato i nostri caratteri e i nostri destini».

Morto Paolo Taggi, ideatore di alcuni dei più grandi format televisivi. Roberta Damiata il 24 Gennaio 2022 su Il Giornale.

È scomparso a 65 anni, per complicanze dovute al Covid, Paolo Taggi, amatissimo autore televisivo. A lui si devono programmi di grande successo come Buona Domenica e La Talpa.  

La tv italiana è in lutto. È scomparso per complicazioni dovute al Covid lo scrittore e autore tv Paolo Taggi. Era ricoverato all’ospedale Gemelli di Roma dall’inizio di gennaio. Fu uno degli autori più prolifici della tv. Nato a Novara nel 1956, aveva cominciato a lavorare prestissimo. A a 19 anni, nel 1975, aveva fondato l’emittente di Novara Tbn. Grande amante e conoscitore della tv italiana, Taggi era un autore dalla grandissima esperienza. Sempre dietro la fila era però lui il cuore delle trasmissioni più amate e seguite dagli italiani.

Tanti sono i programmi e i format che ha firmato. Da Io confesso a Il Grande Talk, da Stranamore a Turisti per caso. Ma ancora Dove ti porta il cuore, La Talpa e Vuoi ballare con me? La sua la Domenica in 1992-93 (condotta da Toto Cutugno e Alba Parietti) e Buona domenica della stagione successiva (Gabriella Carlucci e Gerry Scotti) furono successi eclatanti, che in molti hanno tentato di ripetere senza grande successo.

È stato anche direttore creativo di Endemol Italia e dell’area teorica della Scuola Autori Rai. L’insegnamento un’altra sua grande passione. Tra le tante docenze: all'Università Cattolica di Milano e Brescia, all'Università dell'Aquila. Era stato membro del comitato scientifico del Master di Scrittura Televisiva promosso dall'Area Studi Culturali dell'Università La Sapienza di Roma e da Sat 2000 per l'anno accademico 2003/2004, ha tenuto corsi e seminari presso il PoliDesign, l'Istituto Universitario di Lingue Moderne Iulm di Milano, l'Istituto Suor Orsola Benincasa di Napoli, la Fondazione Perseus, l'Università di Roma Tre, il DAMS di Torino e il Cisa di Locarno.

Grande amante della scrittura, a lui si devono molti libri, che raccontavano principalmente il suo lavoro. Un grande desiderio, di passare la sua esperienza alle giovani generazioni, ma anche quello di mostrare l’altra parte della tv, quella dalla costruzione, lontana dai lustrini del video. Per un pugno di libri scritto con Andrea Salerno, Morfologia dei format televisivi, La Tv nell'era del Grande Fratello del 2000, Andare al cinema tra le pagine dei romanzi del 2002​ Le idee, le tecniche, i programmi del 2003, Come si fabbricano i programmi di successo, nel 2007, sono solo alcuni dei volumi che portano la sua firma.

Tra i suoi ultimi lavori un documentario che aveva realizzato con la tv svizzera, con la quale stava collaborando per gli 80 anni di Mina, trasmesso poi a settembre a Rai 5. Tanti i messaggi di cordoglio da parte del mondo dello spettacolo, per quello che veniva definito in grande professionista e un uomo estremamente garbato e preparato, che mancherà moltissimo a tutti.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip.

·        È morto il faccendiere Flavio Carboni.

Flavio Carboni, addio all’uomo dei segreti: a 90 anni era ancora sotto processo. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.

Al giudice che ordinò il suo ultimo arresto — nell’estate del 2010, quando aveva 78 anni, per la presunta associazione segreta ribattezzata P3 — si presentò così: «Sono Carboni Flavio, nato a Sassari il 14 gennaio 1932». Titolo di studio? «La frequenza del liceo». Diploma di scuola media superiore? «No, la frequenza. Non ho conseguito il diploma». Ha beni patrimoniali? «Non dispongo». Automobile, abitazione, niente? «No, li ho in uso, ma non sono miei...». È sottoposto ad altri procedimenti penali? «Sì». Condanne? «Sì». Era così, Flavio Carboni: sempre in bilico tra millanterie e imbrogli, più di mezza vita spesa nelle aule di giustizia da imputato. Fino alla fine. Il 14 gennaio scorso, giorno del suo novantesimo compleanno, il tribunale di Cagliari gli ha regalato un’assoluzione (con moglie e figlio) dall’accusa di associazione per delinquere e trasferimento fraudolento di valori. Neanche il tempo di festeggiare e quattro giorni dopo, il 18 gennaio, il tribunale di Arezzo l’ha condannato (insieme alla moglie) a due anni e quattro mesi di pena per riciclaggio di proventi di false fatturazioni. L’altra notte è morto.

Le condanne

Per la P3 era stato condannato nel 2018 a sei anni e mezzo, la scorsa settimana il suo avvocato Renato Borzone ne aveva chiesto l’assoluzione in Appello, dopo che il pm aveva già chiesto di dichiarare il reato prescritto: anche quella vicenda si sarebbe chiusa con un nulla di fatto per la sua fedina penale. Dove, alla fine, risulta una sola condanna definitiva a 8 anni e mezzo per il fallimento del Banco Ambrosiano, l’istituto di credito guidato da Roberto Calvi trovato impiccato sotto un ponte di Londra nel giugno 1982. È la storia ancora oscura del «banchiere di Dio» divenuto il banchiere della P2, in un intreccio di enigmi e affari illeciti che ha coinvolto pure Carboni, il quale s’è sempre dichiarato estraneo a tutto: Gelli e la sua loggia segreta, la banda della Magliana e l’attentato al vicepresidente dell’Ambrosiano Roberto Rosone, Pippo Calò e la mafia, l’omicidio Calvi e il mistero della sua borsa scomparsa e ricomparsa in un programma televisivo. E tutti i verdetti definitivi tranne uno, sia pure dopo alterne conclusioni provvisorie, gli hanno dato ragione.

Indagini e segreti

Ad ogni tappa del suo slalom tra indagini e segreti mai svelati lui s’è presentato con quell’atteggiamento tra il sorpreso e l’indignato esibito davanti al giudice della P3, al quale contestò le prove a suo carico messe insieme dai carabinieri: «Quell’Arma alla quale mi rivolgevo tutte le volte che non mi fidavo della polizia... In questo caso, probabilmente per errore, hanno raccolto dati molto diversi da quella che è la realtà». E quando il giudice ha provato a frenarlo («Lei è persona acuta, ma io non sono un ingenuo»), è sbottato: «Ma neanche io, e lei non può condannare un innocente che non ha nulla a che fare con questi mascalzoni!». Tutti lo definivano «faccendiere», ma lui s’indispettiva: «Sono un imprenditore immobiliarista», e per ogni relazione pericolosa aveva pronta una giustificazione o un muro di omertà: «Per me la Magliana era solo un quartiere di Roma, mai saputo niente della famigerata banda», ci disse in un’intervista per smentire un presunto collegamento con la scomparsa di Emanuela Orlandi. Sui rapporti con la mafia: «Pippo Calò lo conoscevo come Mario Aglialoro, a dirmi che dietro quel nome si nascondeva un boss di Palermo fu il giudice Imposimato. Con lui feci un’unica operazione, di cui s’è chiarito». Su Calvi che aveva accompagnato all’estero, prima che venisse assassinato: «Voi parlate di omicidio ma per me quello resta un suicidio al mille per mille, se mai una persona può avere dei buoni motivi per uccidersi, quel giorno Calvi li aveva tutti, purtroppo». Per i magistrati invece fu un delitto mascherato ma Carboni, processato come complice dei killer mafiosi e camorristi, è stato assolto come tutti gli altri. Quanto agli intrecci con la finanza vaticana inquinata si schermiva: «Si dà il caso che io non abbia mai incontrato monsignor Marcinkus. Altri prelati e cardinali sì, Palazzini, Oddi, Angelo Rossi e altri ancora, ma Marcinkus no». Nessun intreccio criminale, sosteneva, ma relazioni importanti sì: «Io ho solo molte buone conoscenze. Compreso Silvio Berlusconi, al quale ho venduto la villa in Sardegna. Ma saranno vent’anni che non lo vedo», ci raccontò nel 2011, al termine della carcerazione preventiva. Né poteva negare gli affari con gli amici pregiudicati dell’ex premier, Marcello Dell’Utri e Denis Verdini: «Verdini me l’ha presentato Dell’Utri che conosco dai primi anni Settanta». Tra tante intemperie legate alla storia d’Italia, era sopravvissuto a tre infarti. Il quarto gli è stato fatale.

È morto Flavio Carboni, il faccendiere al centro dei grandi misteri italiani. La Repubblica il 24 gennaio 2022. Aveva compiuto 90 anni da poco. Dal crac del Banco Ambrosiano al delitto Calvi, una vita di sospetti, accuse e condanne.

È morto a Roma Flavio Carboni, l'uomo d'affari al centro di molti dei grandi misteri italiani. Carboni, che aveva compiuto 90 anni da pochi giorni, sarebbe stato colpito da un infarto nella notte, secondo quanto riferisce l'Adnkronos.

Caso Calvi, procura di Roma archivia l'indagine bis

Dal crac del Banco Ambrosiano all'omicidio di Roberto Calvi, fatti per i quali è stato assolto in via definitiva, Carboni era stato tirato in ballo in tutti i principali grandi gialli italiani, con alcuni dei quali però - come la Loggia P2 - aveva sempre negato di avere a che fare: "Non ho mai conosciuto Gelli, non ho mai fatto parte della P2". Anzi, "non ho mai fatto parte della massoneria in generale. Che poi abbia conosciuto tanti personaggi di primissimo piano - come tutti a quell'epoca del resto - che potessero avere simpatie o aderire a logge è un'altra storia", le sue parole in una recente intervista all'Adnkronos.

Piero Colaprico per "la Repubblica" il 25 gennaio 2022.  

Flavio Carboni è morto l'altro ieri a novant' anni, libero, con un'ultima condanna non ancora passata in giudicato. È stato indagato e imputato per fatti gravissimi, per decine di volte nel corso dei decenni, e lo si ricorda a Milano, aula del processo per il crac del Banco Ambrosiano. 

Seconda metà degli anni Ottanta. Flavio Carboni, basso e scattante nel doppiopetto grigio, occhi vivissimi sotto un elaborato e cotonato parrucchino, se la ride con i giornalisti: «Meglio imputato che morto», dice. Forse non immagina di aver vergato da solo la sintesi estrema della sua intera vita da "faccendiere". 

Appellativo con cui passa alla storia del Paese, ma che realisticamente gli va stretto. Era un "principe delle tenebre". E per capirlo, basta raccontare la prima parte della sua storia, indissolubilmente legata alla tragedia del banchiere Roberto Calvi, il re del (fu) banco Ambrosiano. La memoria collettiva è come smagnetizzata, il 1982 non fu solo l'anno del Mundial. Il milanesissimo banco Ambrosiano era nato grazie all'Istituto Opere Religiose del Vaticano, lo Ior.

Se ne servono in molti e non tutti sono clienti pii e specchiati. Anche i mafiosi di Cosa Nostra hanno messo i soldi all'Ambrosiano. E l'Ambrosiano è anche la fonte dei soldi che vanno in Svizzera, sul segretissimo conto Protezione, riconducibile al Partito socialista. Un appunto sul conto è stato trovato nella villa toscana di Licio Gelli, capo della Loggia P2. Lo stesso Calvi, legato al banchiere mafioso Michele Sindona, sta "dentro" le logiche del potere occulto.

Gelli l'ha affiliato sette anni prima e nella sua associazione segreta milita, insieme con industriali e imprenditori, generali e politici, anche Carboni. Il quale, in quel 1982, vuole recuperare da Calvi il denaro dei boss, ma un alto funzionario, Roberto Rosone, gli nega i rimborsi. E così una mattina d'aprile, mentre va al lavoro, Rosone nel pieno centro a Milano viene affiancato da una moto. Sul sedile posteriore c'è un killer, Danilo Abbruciati, detto Er Camaleonte. Una guardia giurata si accorge dell'agguato, spara a sua volta e uccide il killer. Chi l'aveva mandato?

Forse Pippo Calò, boss di Cosa Nostra che "cura" la piazza di Roma ed è amico di Carboni? Passano altri due mesi e Roberto Calvi sparisce dall'Italia e se ne va a Londra. Dove, il giorno dopo il suicidio a Milano della sua segretaria Teresa Corrocher, viene trovato morto. Il corpo penzola sotto il Ponte dei Frati Neri. In tasca ha alcuni sassi. Sotto le scarpe, nessuna traccia di polvere.

L'autopsia non dà risultati certi, solo recentemente viene stabilito, grazie a nuove tecniche, che è stato omicidio per strangolamento e la corda intorno al collo era simulazione. Calvi in Inghilterra s' era portato una borsa piena di documenti: chi riciclerà quella borsa facendola avere a un alto prelato? Carboni. E come finisce la complessa questione? Assolto. 

Un aneddoto merita: quando Carboni, che tutti cercavano, viene arrestato in Svizzera, i gendarmi gli trovano in tasca un appunto. C'è scritto: «Darida: attenzione a Milano e a Sica», cioè il giudice Domenico Sica. Darida? Cioè, Clelio Darida, ministro di Grazia e Giustizia, avverte il latitante? L'indagine si arena.

Qualcuno sostiene che sul biglietto si legge "Durida", non Darida. Sarà. Da quel momento il magistrato che segue l'indagine acquista, a sua insaputa, un soprannome: sarà chiamato il "procuratore generule". Uomo di ampie relazioni, il sassarese Carboni si vantava di poter giocare a poker con il principe Carlo Caracciolo, ma più che i salotti dei nobili, dei potenti e degli imprenditori le sue rotte quotidiane s' intrecciavano spesso con altre persone difficili da inquadrare.

Da Francesco Pazienza, agente dei servizi segreti italiani, a Umberto Ortolani, detto "baffetto", amicone di Gelli e con relazioni oltre Oceano. E va detto che prima della caduta del Muro di Berlino (1989), quando la contrapposizione Urss-Usa era tenace e letale, in un Paese strategico come il nostro crescevano, all'ombra dei partiti della Prima Repubblica, "spicciafaccende" di basso, medio e altissimo livello. Carboni, di questa schiera, può essere considerato un «numero uno». 

Lo troveremo in tarda età implicato a vario titolo in indagini sui dossier di diffamazione dei politici; in inchieste della guardia di Finanza su come il narcotraffico si trasforma in belle case in Costa Smeralda (lui ha venduto una villa a Silvio Berlusconi, socio della loggia P2); e viene condannato in primo grado per gli affari della Loggia P3.

Suo coimputato Denis Verdini, assolto. Lui s' è preso sei anni e mezzo in primo grado. Continuava a proclamarsi «estraneo ai fatti» e prima della Cassazione è stata la morte naturale a mettere la parola fine a una vita da imputato. Longeva e degna di un film: decisamente un noir.

Giacomo Amadori per "la Verità" il 25 gennaio 2022.  

Nonostante avesse compiuto da dieci giorni esatti 90 anni, la morte lo ha colto di sorpresa. Domenica il faccendiere sardo Flavio Carboni non aveva avuto avvisaglie, ma all'1 di ieri mattina, ha iniziato ad avere problemi di respirazione a causa di un infarto in corso. 

Un suo storico amico, l'ex discusso collaboratore dei servizi segreti Francesco Pazienza, anche lui in passato coinvolto in diverse vicende giudiziarie, ricorda che pochi giorni fa lo aveva chiamato parlando «a mitraglietta, da par suo»: «Mi ha detto: "Scusami, ti dovevo venire a trovare, giuro che lo farò"». 

Non gli sarà più possibile. «La sua compagna mi avvertito che era morto ieri mattina alle 5 con un messaggino». Carboni stava soggiornando in un'abitazione di Porto Rotondo.

La fidanzata Antonella, 54 anni, sarda, ha chiamato i soccorsi, ma quando sono arrivati l'uomo dei misteri aveva già perso i sensi e non si è più ripreso. La camera ardente è stata allestita ieri in un padiglione vicino all'hub vaccinale di Olbia, dove domani alle 11 si terranno le esequie. Dopo il rito funebre la salma proseguirà per il cimitero di Torralba, paese natale di Carboni. Il personaggio è uno dei più indecifrabili protagonisti degli anni Settanta e Ottanta. Ha iniziato la sua carriera come funzionario ministeriale e militante dc.

Legato a Francesco Cossiga e Giulio Andreotti, ha frequentato i piani alti del Vaticano e dei servizi segreti e ha sostenuto di aver fatto parte di fantomatiche organizzazioni anticomuniste. «Esiste un'intelligence del mondo cristiano che si chiama Entità e che è la più forte mai esistita», ci raccontò in un colloquio. Dagli anni Ottanta è accusato di essere custode di molti segreti italiani, di aver avuto rapporti con la mafia e la banda della Magliana e di essere stato coprotagonista di molti intrighi d'Oltretevere. 

Nel 2010 è stato sentito come teste per la scomparsa di Emanuela Orlandi e nel luglio scorso avrebbero dovuto testimoniare nel processo per la strage di Bologna, ma non si presentò. Era stato uno dei principali imputati per la morte del banchiere Roberto Calvi e per la ricettazione della sua valigia, ma poi è stato prosciolto da queste accuse. Alla fine è stato condannato in via definitiva a otto anni e sei mesi «solo» per il crac del Banco Ambrosiano.Nel 2010 è stato arrestato con l'accusa di aver costituito un'associazione segreta vietata dalla legge: la P3.

Per queste imputazioni nel 2018 ha incassato sei anni e sei mesi in primo grado. Il nome della presunta loggia scimmiottava quello della P2 di cui Carboni diceva di non aver mai fatto parte, sostenendo di non essere mai stato in buoni rapporti con Licio Gelli. Ha negato anche l'appartenenza alla massoneria. Il 18 gennaio il tribunale di Arezzo gli aveva dato l'ultimo dispiacere condannando a due anni e quattro mesi di reclusione lui e la settantaduenne moglie Maria Laura per la ricettazione di denaro proveniente da una frode fiscale fiscale. 

Lo avevano però assolto da alti cinque capi di imputazione, a partire dall'associazione per delinquere finalizzata al riciclaggio, perché «il fatto non sussiste». Il giorno del suo compleanno è stato assolto, insieme con la moglie e la compagna Antonella anche in un altro processo, a Cagliari: qui era accusato di associazione per delinquere e trasferimento fraudolento di valori. Ad Arezzo è stato, invece, condannato a tre anni e otto mesi per bancarotta e false fatture il braccio destro di Carboni, l'imprenditore Valeriano Mureddu (che però è stato assolto per altri dieci capi d'accusa e presenterà appello). È stato quest' ultimo il trait d'union tra Carboni e la famiglia dell'ex ministro Maria Elena Boschi.

Chi scrive ha scoperto che nel 2014 Pier Luigi Boschi, allora vicepresidente dei Banca Etruria si recò nell'ufficio romano di Carboni per trovare un direttore generale capace di portare fuori dalle secche l'istituto di credito e scovare eventuali finanziatori esteri. Durante questo tentativo comparvero sulla scena alcuni personaggi degni di un film di Totò e fu aperto un conto alla Popolare su cui transitarono soldi diretti a Carboni. Ma per quei bonifici i giudici aretini non hanno riscontrato reati. 

Carboni e Mureddu negli ultimi anni si muovevano per trovare finanziatori per un progetto legato al grafene, un super materiale per cui avevano cercato aiuti anche Oltretevere. Mureddu è originario di Rignano sull'Arno e conosce personalmente la famiglia Renzi, con cui ha realizzato anche un paio di affari immobiliari.

Per questo Carboni in un'intervista rilasciata a chi scrive aveva detto a proposito dei rapporti del fidato collaboratore con i genitori di Renzi e Boschi senior: «Mureddu ha nella sua mente fatti e misfatti [] ha avuto rapporti molto frequenti e molto affettuosi con tutti e due [] ha fatto grossissimi favori, si accontenti di questo, e a Boschi e a Renzi padre, ma grossissimi []. Comunque lui si è occupato più di me di dare una mano a Boschi, una mano proprio una mano forte». 

Chiedemmo: «Lei, invece, non gliel'ha data alla fine?». Carboni rispose sornione: «Questo non me lo deve chiedere []. Quante volte ho visto Boschi? Tante volte, non le direi mai quante». Su Renzi politico aveva detto: «Ha dei lati che francamente sono positivi. Non lo aiuta la sua figura fisica».

Per lui la storia di Banca Etruria era «una bomba atomica» che «se esplode è un casino e nientepopodimeno cadono tutti e due (Renzi e Boschi) e appresso a loro il governo». Ieri il suo storico legale Renato Borzone ha parlato di Carboni come di un uomo dalla personalità multiforme: «Non porterà con sé nessun segreto particolare». 

È morto Carboni, l'uomo dei misteri italiani. Dal Banco Ambrosiano, a Calvi, fino alla P2. Luca Fazzo il 25 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Non c'è storia buia in cui il "faccendiere" non sia stato evocato negli anni.

L'epiteto «faccendiere» non nasce certo con lui, visto che già il 24 febbraio 1877 il Corriere segnalava il rischio che la Camera dei deputati si riempisse «di faccendieri, d'invalidi, di scioperati». Ma è indubbio che Flavio Carboni, morto ieri all'età di novant'anni, ha incarnato questa figura dai confini incerti eppure precisi meglio di chiunque altro, nei quarant'anni in cui periodicamente le cronache politiche e giudiziarie hanno dovuto occuparsi di lui. Unico a potergli contendere il primato Francesco Pazienza, suo sodale nella loggia massonica P2, di cui però qualche traccia di attività limpida può essere individuata. La stella di Carboni invece sorge e tramonta in quel mondo un po' iniziatico dove si consumano affari - faccende, per l'appunto - che solo nell'oscurità divengono possibili.

Di questi, il più celebre fu indubbiamente l'assalto alle casse del Banco Ambrosiano, dove Carboni si ritagliò il suo ruolo in una compagnia straordinaria, tra cardinali e mafiosi, ed ebbe la sua apoteosi nel capitolo più cupo, la fuga a Londra del banchiere Calvi, accompagnato proprio da Carboni, e la sua impiccagione sotto un ponte: e l'ipotesi non peregrina che si sia trattato davvero di un suicidio non sminuisce la curiosità su che diavolo ci facesse il faccendiere sardo in quell'ultimo viaggio.

Proprio per il crac dell'Ambrosiano Carboni incassò l'unica condanna della sua vita: otto anni per bancarotta, scontati in piccola parte, e che non gli impediscono di restare a galla, continuando a tessere relazioni e affari con quel mondo di mezzo in cui lui - sbarcato a Roma dalla provincia sassarese negli anni Sessanta con pochi mezzi ma con autorevoli viatici massoni e democristiani - si muoveva con astuzia e confidenza crescente. Dalla sua, aveva un carattere che Pazienza, descrive così: «Di una simpatia pirotecnica», «con una parlantina velocissima e un'estrema estroversione, Carboni era un uomo indubbiamente intelligente»: ma anche vittima delle sue debolezze, «sempre a caccia di denaro, oggi per pagare i debiti di ieri e domani per ripianare quelli di oggi, era nelle mani della peggiore schiatta di strozzini e usurai».

Eppure Carboni resta a galla, per decenni, pronto a riapparire - come un brand di sicura attrattiva - ogni qual volta una indagine giudiziaria ha bisogno di un nome in grado di portarla in prima pagina: dalla inchiesta sulla immaginaria loggia P3 al processo in Vaticano al cardinale Becciu, non c'è storia misteriosa in cui Carboni in questi anni non sia stato evocato.

E a conti fatti, a lui probabilmente faceva piacere.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

È morto Flavio Carboni, chi era l'uomo dei misteri. Il faccendiere al centro della cronaca dagli Anni '70. Il Tempo il 24 gennaio 2022.

Morto a Roma, a 90 anni, Flavio Carboni, era nato a Torralba, in provincia di Sassari. Il suo nome è stato al centro di molti di quelli che sono considerati i 'misteri' dell'Italia a partire dagli Anni 70, da quando, cioè, si affacciò al mondo dell'alta finanza.

Indagini, accuse, processi e assoluzioni: dal 1982 è stato più volte arrestato, trascorrendo in carcere brevi periodi di detenzione. Carboni è stato imputato di numerose accuse: falso, truffa, bancarotta fraudolenta, riciclaggio. Ma l'unica sentenza di condanna definitiva è quella per il crack Ambrosiano Veneto, a 8 anni e 6 mesi di reclusione.

Il suo nome è legato alle vicende di cronaca che hanno fatto scalpore in Italia: come, per esempio, l'attentato a Roberto Rosone, all'epoca vicepresidente del Banco Ambrosiano Veneto, il crack della banca (unico caso in cui è stato condannato), la morte del banchiere Roberto Calvi (caso dal quale fu assolto).

Carboni ha intrattenuto rapporti con personaggi come l'agente segreto Francesco Pazienza, il capo della loggia massonica P2 Licio Gelli (ma lui ha sempre negato di averlo conosciuto), il boss mafioso Pippo Calò, l'ex gran maestro del Grande Oriente d'Italia, Armando Corona, e l'allora imprenditore Silvio Berlusconi, prima che scendesse in politica, di cui è stato socio in affari per il progetto 'Costa Turchese', noto anche come 'Olbia 2'.

Tra le inchieste che lo hanno coinvolto anche quella legata agli appalti dell'energia eolica in Sardegna, nata da un altro filone di indagine, legato alla cosiddetta P3. Nel 2010, Carboni è stato ascoltato anche come testimone per la scomparsa di Manuela Orlandi, per i rapporti che avrebbe avuto in Vaticano e con alcuni esponenti della banda della Magliana. Nell’agosto 2018 era stato indagato per trasferimento fraudolento di fondi. Una vicenda per la quale è stato assolto nei giorni scorsi.

Flavio Carboni, morto nella notte "l'uomo dei misteri": dalla Loggia P2 a Emanuela Orlandi. Libero Quotidiano il 24 gennaio 2022.

Un infarto nella notte ha stroncato Flavio Carboni. Lo riferisce l'agenzia Adnkronos: l'uomo d'affari è morto a 90 anni compiuti da pochi giorni, nella sua casa di Roma. Carboni ha legato il suo nome al mistero della Loggia P2 e a Licio Gelli, con conseguente inchiesta parlamentare e strascichi giudiziari. 

Coinvolto nelle vicende oscure del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi, Carboni è finito in tribunale ma è stato assolto in via definitiva, l'ultima volta appena 10 giorni fa. Sulla Loggia P2, l'organizzazione clandestina fondata dal "venerabile" Gelli, ha sempre negato però ogni coinvolgimento. "Non ho mai conosciuto Licio Gelli, non ho mai fatto parte della P2 - sottolineava Carboni in una recente intervista proprio all'agenzia Adnkronos-. Anzi, non ho mai fatto parte della massoneria in generale. Che poi abbia conosciuto tanti personaggi di primissimo piano - come tutti a quell'epoca del resto - che potessero avere simpatie o aderire a logge è un'altra storia", 

Chiacchierato fin dalla fine degli anni 70 perché "vicino" all'agente segreto Francesco Pazienza e al boss Pippo Calò, nonché socio di Silvio Berlusconi nella costruzione di Olbia 2, era tornato in primo piano qualche anno fa per l'inchiesta sulla loggia P3: indagato per corruzione, era stato condannato a 6 anni e 6 mesi di carcere. 

Pesante invece l'assoluzione dall'accusa di omicidio per il caso Calvi, il banchiere trovato impiccato sotto il ponte dei Frati Neri a Londra. Nel 2010 era stato anche ascoltato come testimone dalla procura di Roma in relazione alla scomparsa di Emanuela Orlandi, a testimonianza dei suoi rapporti con i vertici del Vaticano nonché con i boss della Banda della Magliana.

Morto a Roma Flavio Carboni, l’uomo dei grandi misteri italiani. Il Dubbio il 24 gennaio 2022.

E' deceduto Flavio Carboni, l'uomo coinvolto (ma sempre assolto) nei grandi misteri italiani. Dal crack del Banco Ambrosiano all'omicidio di Roberto Calvi.

A quanto apprende l’Adnkronos, è morto a Roma Flavio Carboni, l’uomo d’affari al centro di molti dei grandi misteri italiani. Carboni, che aveva compiuto 90 anni da pochi giorni, sarebbe stato colpito da un infarto nella notte. Dal crack del Banco Ambrosiano all’omicidio di Roberto Calvi, fatti per i quali è stato assolto in via definitiva, Carboni era stato tirato in ballo in tutti i principali grandi gialli italiani, con alcuni dei quali però – come la Loggia P2 – aveva sempre negato di avere a che fare: «Non ho mai conosciuto Gelli, non ho mai fatto parte della P2». Anzi, «non ho mai fatto parte della massoneria in generale. Che poi abbia conosciuto tanti personaggi di primissimo piano – come tutti a quell’epoca del resto – che potessero avere simpatie o aderire a logge è un’altra storia», le sue parole in una recente intervista all’Adnkronos.

Maria Antonietta Calabrò per Dagospia il 24 gennaio 2022.

Flavio Carboni è diventato noto alle cronache (giudiziarie) di questo Paese, quando emerse dalle indagini dell’ultimo viaggio che “portò” a Londra il presidente del Banco Ambrosiano Roberto Calvi che di lì a pochi giorni fu trovato impiccato sul Tamigi  sotto il ponte dei Frati neri. Quasi quarant’anni fa. 

Eppure Carboni, coinvolto in numerose inchieste della magistratura anche dopo il crack dell’Ambrosiano (e in alcuni casi assolto), è tornato di recente alla ribalta in relazione ad un altro caso finanziario che ha coinvolto (come il crack Ambrosiano) più di recente il Vaticano: quello per l’acquisto del palazzo di Sloane Ave. 

Cecilia Marogna, la consulente geostrategica di Angelo Becciu che Papa Francesco ha spogliato dai diritti del cardinalato nel settembre 2020, ha infatti dichiarato nell’ottobre 2020 al quotidiano La Verità di avere avuto tra i suoi maestri anche Francesco Pazienza (ex agente segreto del Supersismi) e  appunto Flavio Carboni (il faccendiere condannato per la loggia P3 e per il crack del Banco Ambrosiano). 

"L'ho voluto conoscere per avere informazioni sulla storia dell'Anonima sequestri", dice Marogna. La frequentazione tra i due, entrambi di origine sarda, è una circostanza confermata anche da Gioele Magaldi, alla guida del Grande oriente democratico e suo stretto conoscente. "Fui io – ha raccontato Magaldi - a metterla in contatto con Mario Ferramonti, primo segretario della Lega e amico di Carboni ma tutte cose abbastanza alla luce del sole. Cecilia aveva curiosità di quel mondo". 

La stessa Marogna figura anche tra i fondatori del movimento Roosevelt dello stesso Magaldi dove, nel 2016, è stata nominata segretaria particolare. Massoneria, politica e Chiesa. Per una di quelle coincidenze che sono assolutamente casuali, ma che farebbero impazzire Mrs. Marple, il palazzo ex Harrods di Londra (per cui domani riprende il processo in Vaticano) è sulla stessa strada Sloane Ave, a due passi dal Chelsea Cloisters, il residence ai quei tempi molto malandato, ”sistemazione" trovata da Flavio Carboni,  dove abitò negli ultimi giorni della sua vita Roberto Calvi prima di andare a morire.

Figlio di un’Italia in rovina, piena di ombre, fu infine assolto. Chi era Flavio Carboni, il “faccendiere” che morendo si porta via i misteri d’Italia. Otello Lupacchini su Il Riformista il 25 Gennaio 2022. 

Cercare di capire chi fosse Flavio Carboni, la cui parabola terrena si è conclusa nella notte fra domenica e lunedì, ci porta indietro nel tempo, all’indomani della Liberazione, quando nel corso stesso del suo risalire armato per tre anni dolorosi dal Sud al Nord, si era andato riannodando il coacervo di interessi interclassisti, scosso e reso disuguale, ma non dissolto, dalle vicende della guerra e alla costante ricerca di un’egemonia unificante, che avrebbe retto l’Italia dalla «ricostruzione» del 1943-1944 alla sconfitta, dieci anni dopo, nell’aprile del 1953, della legge elettorale maggioritaria, cosiddetta «legge truffa», a cui conseguì la fine della politica dei governi di centro, sancita al V Congresso nazionale della Dc, del 26-30 giugno 1954.

Una storia, quella della cosiddetta «prima Repubblica», segnata per la reiterazione di «scandali», connaturati all’occupazione del potere da parte della Dc, che non si può fare a meno di ricordare, se si vogliano capire i collegamenti tra il mondo politico italiano e le oscure complicità che agevolarono la resistibile ascesa dell’«impero» sindoniano, la cui rovinosa caduta coinvolse, alla fine, anche il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, oltre che una miriade di scandali e di crisi aziendali, aventi alla base un intreccio perverso tra finanza, violazione sistematica delle regole, corruzione e complicità o connivenza politica, in un Paese nel quale i partiti avevano colonizzato l’industria, le banche, i sindacati, la stampa e larghi settori della cultura. In simile contesto, l’identificazione con lo Stato di funzionari pubblici, inclusi i militari e i servizi segreti, delle stesse forze dell’ordine, delle associazioni di categoria e anche del semplice cittadino non poteva che affievolirsi se non venir meno del tutto; per altro verso, non va ignorato il rapporto organico e funzionale tra criminalità economica e criminalità politica, essendo la prima, in molti casi, a produrre le risorse finanziarie, non soggette a controlli, necessarie per alimentare la seconda.

Vicende come quelle di Roberto Calvi e di Michele Sindona, capaci e in condizione di movimentare enormi somme di denaro, morti nelle circostanze più romanzesche, il primo impiccato sotto un ponte a Londra, il secondo avvelenato in carcere da una tazzina di caffè al cianuro, o come quella dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, stimato professionista assassinato a colpi di pistola, in strada, da un sicario giunto dagli Stati Uniti, le quali se non fossero vere sarebbero giudicate affatto inverosimili, appariranno tutt’altro che eccezionali, sol che guardiamo agli intrecci di affari e agli intrighi di molti protagonisti del mondo della finanza tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Novanta. Anni nel corso dei quali l’economia italiana conquistò il diritto di sedere al tavolo delle nazioni più industrializzate del mondo. Flavio Carboni, insomma, è stato il figlio di questi tempi di disfacimento sociale, politico, economico e morale, nei quali si è trovato a vivere perfettamente a suo agio, avendo avuto la possibilità d’intessere una rete di relazioni. Nato a Sassari il 14 gennaio del 1932, cresciuto a Torralba, ancora giovanissimo diventò portaborse di Giovanni Battista Pitzalis, deputato democristiano di Torralba, figura di spicco al ministero della Pubblica istruzione, vicecapo di gabinetto del ministro Gonella, ottenendo anche un posto al ministero. Poiché quel ruolo gli stava stretto, si lanciò nel mondo degli affari, creando una casa discografica, con modesta fortuna.

Un fallimento fu anche il suo primo grande progetto: la costruzione di una mega-porcilaia a Suni, conclusosi, nonostante alcune potenti sponsorizzazioni, con la perdita di duecento milioni di lire. Per ingraziarsi i favori di alcuni politici democristiani, acquistò, allora, il giornale, che navigava in brutte acque, tanto da fallire nel luglio del 1976, Tuttoquotidiano, creato e abbandonato dall’Eni. Fu negli anni Settanta, tuttavia, che iniziò la sua revanche: intuito che le coste sarde potevano diventare uno straordinario campo d’investimento, cominciò ad acquistare per poche lire terreni agrari destinati a diventare un tesoro una volta trasformati in aree fabbricabili, attraverso le società Isola Rossa spa e Costa dei Corsi nella zona di Trinità d’Agultu e attraverso la Costa delle Ginestre spa a Porto Rotondo. Imprescindibili le buone conoscenze politiche e la reperibilità di adeguati finanziamenti. Definibile, senza tema di smentita, il più famoso tra gli assidui frequentatori di «finanziatori privati» e fruitori del «finanziamento privato» della seconda metà del Novecento, così descrisse nel 1994 la Weltanschauung di questo tipo antropologico: «(..) non ebbi mai a pormi il problema della provenienza del denaro che i “finanziatori privati” … mi erogavano sotto forma di prestito. Oggi, senz’altro, ci si può e deve porre il problema della provenienza dei denari che alimentano il settore del “finanziamento privato”, ma allora tale problema neppure si prospettava.

“Usuraio” era considerato soltanto chi erogava prestiti a persone bisognose, sicché tale non veniva considerato chi “vendeva soldi” a imprenditori i quali, come nel caso mio, ma di moltissime altre persone, ricorrevano ai prestiti per finanziare operazioni speculative. Certo, il “finanziatore privato” teneva in sudditanza chi a lui faceva ricorso, magari si tratteneva i titoli già onorati, esercitava le più svariate forme di pressione per rientrare nelle sue spettanze e di vessazione, ma se capitava che il “finanziatore privato” denunciasse per truffa il debitore, certamente non avveniva il contrario. D’altra parte, la moltiplicazione del denaro per effetto degli interessi era tale da indurre a non sospettare sulla provenienza del denaro che veniva investito nel “finanziamento privato”. Debbo anche aggiungere che il mio rapporto con i “finanziatori privati” non fu mai, all’epoca, particolarmente traumatico: fermo restando che non potevo sottrarmi alla restituzione di tutto il capitale in denaro, per quanto concerne gli interessi, di solito, dopo averne corrisposta una parte in denaro, bastava avere l’accortezza di arrivare al protesto, dimostrando così una situazione di illiquidità, in presenza della quale gli stessi “finanziatori” si risolvevano a ricevere la restante parte del credito in natura, cioè in quote di società immobiliari o proprietà immobiliari, anche perché in tal modo si sentivano imprenditori. Io, pertanto, conseguivo il duplice vantaggio di estinguere i miei debiti e di vendere, magari anche quando il mercato immobiliare era fermo».

Fu, peraltro, tra il marzo del 1980 e il luglio del 1981 che si sviluppò e consolidò il rapporto con Romano Comincioli e con Berlusconi che conobbe personalmente nel marzo del 1980 al Grand Hotel di Roma. L’impegno nel settore immobiliare, non lo distrasse, però, dall’interesse per l’editoria: acquistò il 37,3% delle azioni della Nuova Sardegna messo in vendita dopo il naufragio della Sir di Nino Rovelli; il pacchetto di maggioranza era andato al Gruppo l’Espresso-Repubblica che, con gli anni, avrebbe assorbito il 100% del capitale sociale. Si mosse anche per favorire Silvio Berlusconi. Riferirà, in proposito, al pubblico ministero milanese Dell’Osso l’onorevole Beppe Pisanu, all’epoca influente collaboratore di Benigno Zaccagnini: «Il Carboni si diceva interessato alle televisioni private in Sardegna: ciò in un’ottica di inserimento nella regione del circuito televisivo Canale 5, facente capo al signor Berlusconi di Milano. Il Carboni mi spiegò che il Berlusconi aveva interesse a espandere Canale 5 alla Sardegna, talché lo stesso Carboni si stava interessando per rilevare a tal fine la più importante rete televisiva sarda, Videolina».

Fu nell’estate del 1981 che conobbe il presidente del banco Ambrosiano Roberto Calvi, col quale intrattenne un rapporto molto intenso: Carboni era interessato a ottenere credito dalla banca di Calvi mentre questi aveva un bisogno disperato di tessere rapporti con il Vaticano per salvare la sua banca che rischiava di collassare dentro un buco nero. La situazione precipitò nel giugno del 1982: Calvi, disperato, fuggì e la sua fuga si concluse sotto il ponte dei Frati Neri, a Londra; Carboni lo accompagnò in quest’ultimo viaggio e sarà poi incriminato per omicidio: secondo la tesi dell’accusa, Calvi sarebbe stato ucciso per essersi impadronito di ingenti capitali appartenenti a Cosa Nostra e ad altre organizzazioni criminali. Dopo una lunghissima storia giudiziaria, Flavio Carboni fu assolto con sentenza definitiva. Sopravvissuto per quarant’anni alla morte del banchiere milanese, non sembra che Flavio Carboni sia rimasto con le mani in mano, ma non c’è lo spazio per illuminare questa sua seconda vita.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Fabio Amendolara e Giacomo Amadori per "La Verità" il 26 gennaio 2022.  

L'ultimo sberleffo ai giornalisti, tutti presi a estrarre i coccodrilli dai cassetti con l'elenco dei misteri dell'«uomo dei misteri», Flavio Carboni lo ha messo a segno dopo che è uscito di scena. Tutti i media (a parte La Verità) hanno raccontato che la sua dipartita era avvenuta a Roma, a causa di un infarto, anziché in Sardegna, come in effetti è avvenuto. 

Eppure, già nella mattinata di lunedì, a poche ore dal decesso, sul sito Olbianova era stato pubblicato un necrologio che annunciava, oltre al curioso divieto di «assembramenti e condoglianze», che la camera ardente sarebbe stata allestita «nel padiglione ex Audi vicino all'hub vaccinale di Olbia». 

Come poteva essere arrivata nell'isola dalla Capitale la salma di Carboni ancora calda? Era stata catapultata sopra al Tirreno? In più nell'annuncio funebre, c'era un importante indizio: a dare il triste annuncio della morte, oltre ai tre figli, una nuora e l'«adorato nipotino», era la compagna Antonella, la sua anima gemella in Sardegna e non Maria Laura, la consorte «romana». 

In realtà Carboni è morto nel suo regno, a pochi chilometri da Porto Rotondo, dove negli anni Ottanta faceva il bello e cattivo tempo, acquistando e vendendo terreni e immobili. Persino Villa Certosa, divenuta la residenza di Silvio Berlusconi, era stata sua. Per la precisione è deceduto nel villaggio di Marineledda, circondato dal verde dei giardini condominiali, in un'abitazione con un panorama che toglie il fiato, di fronte a una spiaggia di sabbia bianchissima, quella di Marinella. 

La casa è di proprietà di un settantaduenne avvocato originario di Ossi, Giovanni Maria Spanedda, magione che Carboni aveva in uso: «È morto tra le braccia della compagna Antonella, vivevano insieme da 28 anni. Le ha detto a un certo punto: "Mi sento male, mi sento male" bam! Morto!» ricostruisce con noi l'avvocato. Il quale è arrivato pochi istanti dopo: «Era ancora caldo», racconta in preda all'emozione. 

«Ci sono rimasto secco anche io. Era spirato da un minuto, all'una in punto». Carboni aveva problemi di cuore? «Assolutamente no... era di una vitalità che noi ce la sogniamo... prendeva l'aereo... andava destra e a sinistra... ci sono rimasto molto male quando ho saputo... era tranquillo... non aveva nessun problema e poi arriva questo maledetto ictus, vaffa caz morto».

È arrabbiato perché tutti i giornali hanno scritto che è spirato a Roma, creando problemi per l'organizzazione della cerimonia d'addio prevista per oggi a Olbia: «È stato uno sbaglio enorme anche perché domani (oggi per chi legge, ndr) al funerale dovrebbe essere presente anche il presidente Berlusconi, amicissimi erano». 

Ricordiamo sommessamente al nostro interlocutore che sono in corso le votazioni per il Quirinale, ma l'avvocato insiste: «Sì verranno Berlusconi e altri». Quali altri? «Non lo so perché molti stanno prenotando ora i voli perché sono cascati nell'errore di Roma». Spanedda conferma, se ce ne fosse ancora bisogno, che il suo amico è proprio deceduto a Olbia: «È morto a casa mia nel villaggio di Marineledda.

La mia abitazione è attaccata alla sua, io vivo nella casa a fianco». In effetti il legale possiede mezzo villaggio, una ventina di immobili tra bungalow (12), locali commerciali (3) e depositi. Quando parla del tempo trascorso insieme al faccendiere, la voce si increspa: «Mi telefonava tutte le mattine alle 7 "Come stai? Pronto?"». Lui dormiva poco, dalle 9-10 di sera fino alle 4 del mattino, poi si metteva a scrivere... è quella sua chiamata è una cosa che stamattina (ieri per chi legge, ndr) mi è mancata», ammette sempre più provato.

«Ho trascorso tre anni al suo fianco... sono stati tre anni turbolenti per il lavoro... però sono stati tre anni di grandi soddisfazioni...». Insieme hanno portato avanti due progetti: quello sul grafene, il super materiale in cui Carboni credeva moltissimo e che voleva utilizzare per depurare l'acqua e quello di un libro di memorie. «Doveva portarlo domani (oggi per chi legge, ndr) dall'editore». 

Non ha fatto in tempo. «Poveraccio», esclama l'avvocato. Quindi annuncia: «Lo pubblicheremo noi». Il professionista ricorda come sia nato il mémoire: «Lo ha scritto Flavio da solo, ci ha impiegato circa un anno. Io e la mia collega Luisella Corda lo leggevamo man mano che finiva un capitolo per vedere se ci fosse qualcosa di storto. Non si è fatto aiutare da nessun giornalista, ci ha messo tanto tempo, è stato un lavoraccio».

E quali sono gli argomenti al centro del volume? «Contiene la sua verità sul crac del Banco Ambrosiano, su Licio Gelli, sulla strage di Bologna, su tutto quello che ha vissuto in prima persona. È scottante quel libro, non è fatto tanto per fare, contiene la sua verità. Più di lui certe cose non le sa nessuno. Si parla anche delle guerre che sono state portate avanti in Polonia per far cadere il comunismo e il muro di Berlino».

La famosa intelligence cristiana, l'Entità «Lui ne è stato il protagonista», conferma il legale. Negli ultimi mesi il suo nome era tornato di moda perché Cecilia Marogna, la presunta esperta di intelligence ingaggiata dal cardinale Angelo Becciu, lo aveva citato come suo contatto e punto di riferimento. L'ennesimo link di Carboni con il Vaticano. 

Ma le rivelazioni di Spanedda non sono finite: «Stavamo ancora festeggiando, fino a quattro ore prima della sua morte, per il grafene, perché ormai aveva raggiunto un accordo con un'importantissima azienda per pubblicare i risultati di questa benedetta scoperta, anche il professor Petrik era contentissimo, stava per arrivare dalla Russia». Una storia che Carboni ripeteva a pappagallo da almeno sei anni.

Le ricerche erano state portate avanti con il controverso inventore russo Viktor Petrik, con un passato in politica (su Youtube lo si può vedere all'opera con i suoi esperimenti, mentre sfoggia una chioma degna dello scienziato di Ritorno al futuro). Per anni Carboni ha provato a ottenere finanziamenti pubblici soprattutto dall'Ue per commercializzare i suoi presunti brevetti registrati negli Stati Uniti d'America, in particolare quelli riguardanti il trattamento dell'acqua per renderla potabile. 

Per i suoi affari sul grafene era stato anche indagato, ma poi assolto. Il sospetto degli investigatori era che il denaro inviato negli Usa per i brevetti fosse un sistema di riciclaggio di denaro sporco. Le accuse, come detto, sono cadute. L'avvocato Spanedda è convinto che gli studi finanziati da Carboni siano utili per l'intero pianeta: «Il grafene permetterà di purificare l'acqua, anche quella marina. 

Si potranno bonificare tutte le spiagge. Le prove sono state già state fatte in Sicilia. Eravamo solo un po' in ritardo perché aspettavamo che Flavio concludesse il libro. Tenga presente che muoiono tante persone per l'arsenico nell'acqua e noi, in futuro, le salveremo». In attesa che gli scienziati leggano i risultati delle ricerche di Carboni e che il mondo sia un posto migliore, a noi, poveri profani, desta più curiosità la notizia del memoriale del faccendiere più famoso d'Italia. 

·        E’ morto lo stilista Thierry Mugler. 

Da rainews.it il 24 gennaio 2022.

Famoso per i suoi corsetti super sexy indossati da star del calibro di Madonna e Sharon Stone e Lady Gaga lo stilista francese Thierry Mugler è morto a 73 anni. L'annuncio arriva attraverso il suo profilo ufficiale Instagram. "Possa la sua anima riposare in pace", il testo di un post tutto listato a nero senza immagine. 

Mugler, che ha lanciato il suo marchio nel 1973, è diventato famoso per il suo stile caratterizzato da spalle larghe e una vita sottile. L'uso di un tessuto futuristico simile alla plastica nei suoi abiti scolpiti è diventato un suo marchio di fabbrica.

Ha definito l'haute couture per diversi decenni, vestendo star del calibro di Diana Ross e Beyonce in occasione di gala, sui red carpet e sulle passerelle di tutto il mondo. I suoi modelli non temevano di essere stravaganti, a volte somigliavano ad abiti robotici con forme coniche sporgenti. Mugler aveva anche una famosa linea di profumi, che ha avviato negli anni '90. 

Il coreografo Wayne McGregor,il ballerino Edward Watson, il designer Manfred Thierry Mugler e la ballerina Olga Smirnova, "McGregor And Mugler" London Coliseum

 Immediati i messaggi di cordoglio arrivati dal mondo della moda e non solo. La top model americana Bella Hadid ha esclamato sui social un "Nonononono", seguito dall'immagine di una faccia triste, mentre l'attrice americana January Jones ha risposto con un segno di cuore sempre attraverso il suo profilo Instagram.

Oltre ai vestiti, Mugler è stato anche un regista e un fotografo, ed è stato un ballerino, acrobata e un accanito bodybuilder, sottolineando che ha sempre voluto esplorare il corpo umano come arte. "Mi sono sempre sentito un regista e i vestiti che ho fatto erano una direzione del quotidiano", ha detto Mugler a Interview Magazine. Al momento non sono ancora stati resi noti dettagli suo funerale dello stilista.

 Morto lo stilista Thierry Mugler aveva 73 anni. L’annuncio dato sui social. Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2022.  

Lo stilista francese Manfred Thierry Mugler, questo il nome per intero è morto all’età di 73 anni per «cause naturali». Lo lo ha annunciato su Instagram e Facebook il suo agente Jean-Baptiste Rougeot. «Siamo devastati nell’annunciare la morte del signor Manfred Thierry Mugler domenica 23 gennaio 2022», si legge in un post ufficiale del marchio.

Un altro lutto colpisce il mondo della moda in questo periodo dopo quelli di Nino Cerruti e André Leon Talley avvenuti rispettivamente il 15 e il 18 gennaio 2022. Sul profilo Instagram dello stilista l’annuncio con un post total black per sottolineare la tragica notizia.

Casey Cadwallader, l’attuale direttore creativo del marchio ha postato un ritratto di Mugler e lo ringrazia per aver potuto lavorare con un grande creativo e portare avanti il suo universo creativo. Uno stile d’avanguardia quello di Mugler che ha segnato il corso della moda. Recentemente nel settembre 2021 a Parigi al Musée des Arts Décoratifs era stata inaugurata la mostra Thierry Mugler: Couturissime per celebrare il suo genio creativo. Couturissime, nata in Canada, dopo Paesi Bassi e Germania è approdata a Parigi, dove resterà aperta sino all’aprile 2022. In mostra 150 pezzi scelti nell’archivio del couturier e che coprono il periodo tra il 1977 e il 2014.

In occasione dell’apertura della mostra così ha commentato Thierry-Maxime Loirot, il curatore dell’esposizione, la figura dello stilista: «Quando Mugler ha iniziato a fare Haute Couture nel 1992, era estremamente innovativo: gli spettatori consideravano il suo lavoro come arte. Era progressista nel portare la couture a un livello così sperimentale. Ha usato molti materiali speciali come metallo e gomma - qualcosa che ha reso la sua maestria così unica nella storica moda parigina. Gli insetti, gli animali, i robot: nessun altro designer ha mai tentato di creare qualcosa del genere. Avevano paura di farlo!».

L’approccio di Mugler all moda può essere sintetizzato in questa sua dichiarazione  «Sono sempre stato affascinato dall’animale più bello della Terra: l’essere umano. Sono un architetto che reinventa completamente il corpo di una donna».

Mugler con il suo approccio innovativo, dall’unicità stravagante rivoluziona il mondo della moda, quello degli anni Ottanta e Novanta in cui regna il minimalismo androgino. Ottanta e Novanta, quando regna un minimalismo. Provocanti e seduttivi i capi che porta in passerella. le sue sono donne fatali in tailleur e pellicce, strass e lattice, corsetti e sovrastrutture architettoniche. Strizza il punto vita e rilancia la silhouette a clessidra.

Un creativo realmente a tutto tondo: fotografo, regista, stylist. Segna anche lo stile nel mondo del cinema: suo il tubino nero indossato da Demi Moore in Proposta Indecente; dirige negli anni Ottanta lo storico video Too Funky di George Michael, protagoniste Linda Evangelista, Eva Herzigova e Tyra Banks. I look di moltissime star sono frutto del suo estro: quelli di David Bowie e Diana Ross, Lady Gaga e Beyoncé. Senza dimenticare gli storici corsetti ideati per Madonna.

Manfred Thierry Mugler nasce a Strasburgo il 21 dicembre 1948 e la sua vita sembra segnata dall’amore per il disegno, il balletto e la danza. A nove anni inizia gli studi di danza classica, a 14 entra nella compagnia dell’Opera di Rhin e nel contempo studia interior design alla Scuola di arti Decorative di Strasburgo.

Poco più che ventenne, nel 1971 inizia la sua carriera di stilista presso Karim, mostrando il suo spirito ecclettico. A 24 anni il trasferimento a Parigi. E lavora come stilista freelance. Del 1973 la sua prima collezione intitolata «Café de Paris» Un lustro dopo l’apertura della prima boutique con il suo marchio sempre a Parigi in Places des Victoires. Lancia anche la linea uomo.

La notorietà continua a crescere e con i nomi di Claude Montana e Azzedine Alaïa viene considerato tra i grandi creativi innovatori del periodo. Nel 1991 invita Diana Ross di sfilare a Parigi e lei accetta: la prima volta che una cantante attrice sfila per un marchio fashion. Nel 1992 viene invitato dalla Chambre Syndacale Haute Couture di Parigi a sfilare la sua prima collezione di alta moda . Dello stesso anno il lancio della sua prima fragranza di enorme successo Angel, mix tra praline di cioccolato e patchouli. Nel 1997 il gruppo cosmetico Clarins, in un momento in cui il marchio sta declinando, acquisisce il marchio e le fragranze: queste ultime dal 2020 sono di proprietà di L’Oréal.

Nel 2002 l’ultima sfilata: Clarins sceglie di puntare sulle fragranze e non sulle collezioni di abbigliamento di Mugler. Il ritiro nel 2003. Lo stilista dichiara che preferisce mantenere la sua libertà creativa e proseguire su altre strade. Pur rimandeo legato al mondo della cosmetica e delle fragranze: Angel è ancora oggi tra i profumi più venduti nel mondo. Una di queste lo vede sempre nel 2002 collaborare con il Cirque du Soleil in «Extravaganza».

Nel 2010 il rilancio del marchio. La direzione creativa viene affidata a Nicola Formichetti : sceglie di cambiare il marchio e di chiamarlo solo Mugler. Tre anni dopo nel 2013 lascia l’incarico e va da Diesel. Il timone passa a David Koma. Nuovo cambio di stile nel 2017: viene nominato alla direzione creativa Casey Cadwallader, riportando il marchio sotto i riflettori.

Quirino Conti per Dagospia il 24 gennaio 2022.

Come poche altre attività creative, la Moda vive di antitesi; di contrapposizioni spesso addirittura drammatiche, come quelle senza esclusione di colpi tra Armani e Versace, Dolce & Gabbana e Gucci, ma precedentemente anche tra Chanel e Schiaparelli. Negli anni settanta, eroica e quasi mitica fu la contrapposizione tra l’apollineo di Montana e il dionisiaco di Mugler. E se il primo aggiungeva arbitrariamente l’oro agli abiti da giorno, come un nuovo Beato Angelico, l’altro su corpi da valchiria applicava niente di meno che il frontale (con annesso manubrio) di una scintillante motocicletta, completo di ogni più espressivo dettaglio. In un percorso che, partendo dal culto del corpo, era finito per trasfigurarlo in una sorta di robot estetizzante.

Thierry Mugler era abituato, infatti, a un “corpo” ulteriore, da ex danzatore, e portò alla Moda un’eroicità fisica che non aveva mai conosciuto (poi continuata nel lavoro di Nikos, ma anche in quello di Calvin Klein). Corpi, dunque, eroici ai quali la Moda aggiungeva una forma sempre più stilizzata. Uno stile selettivo che sfocerà nel grande successo di Azzedine Alaïa, prossimo di Mugler nella professione e nell’ideologia. Perché questo genere di stile corre spesso il rischio di selezionare per razza la corporalità dell’umano.  Come nell’Olympia di Leni Riefenstahl.  

Non bastava a Mugler la bellezza, la sua era una ricerca del superuomo tradotto in femmina. I dettagli del suo stile provenivano sempre da una macchina vittoriosa, da un corpo eroico ignaro del dolore. Ecco perché come mai, in questo caso, la morte non si addice alla Moda. E non solo perché ne fece una riflessione anche il giovane Leopardi, ma per il vitalismo incurante di tutto ciò che lo stile Mugler portò a questo mestiere. Senza un difetto – senza una piega, come si direbbe –, i corpi inventati da lui provenivano, più che dalla letteratura, da un fumetto erotico. Con maschi entronauti e femmine regine della giungla. Comunque disumani, o meglio superumani. 

Il massimo lo raggiunse nella promozione dei suoi profumi: dove creature fredde come iceberg e guerrieri provenienti da stelle lontane invadevano le pagine degli avidi magazine, nel disagio e nello scandalizzato smarrimento dei più fronzuti decoratori e addobbatori ancora in circolazione.

La Francia sa onorare la Moda come nessun altro paese: se indimenticabile e struggente fu l’addio a Saint Laurent, per Mugler, un condottiero che rientrò nell’ombra senza mai perdere l’aggressività del suo “nuovo mondo”, sarebbero più adatti gli onori militari. Insieme alla gratitudine per aver combattuto – più che disegnato – uno stile.

·        E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.

Da tgcom24.mediaset.it il 22 gennaio 2022.

Thich Nhat Hanh, un monaco buddhista vietnamita considerato il più popolare maestro Zen al mondo, per decenni costretto all'esilio per il suo impegno pacifista, è morto in un tempio nel suo Paese, dove aveva fatto ritorno tre anni fa. La notizia del decesso del religioso, che aveva 95 anni, è stata data da Plum Village, la sua organizzazione di monasteri diffusa a livello globale, specie in Occidente.

Colpito nel 2014 da un ictus che lo aveva lasciato semiparalizzato e incapace di parlare, Thich Nhat Hanh nel 2018 aveva fatto ritorno nel tempio vietnamita di Tu Hieu, dove a 16 anni aveva iniziato il suo percorso di studi. 

Negli anni '60 e '70 il suo impegno contro la guerra lo aveva posto in rotta di collisione con i governi sia del Vietnam del Nord sia del Vietnam del Sud, oltre che con gli Stati Uniti, ed era stato costretto a lasciare il suo Paese. Soltanto nel 2005 il governo del Paese riunificato gli aveva dato il permesso di rientrare in patria per una visita.

Il monaco buddhista ha passato 39 anni in esilio, fondando la rete dei monasteri di Plum Village. Il più grande, nel sud-ovest della Francia vicino a Bordeaux, conta circa 200 monaci e monache e prima della pandemia di Covid ospitava decine di migliaia di visitatori all'anno. Qui Thich Nhat Hanh passava la maggior parte del suo tempo, quando non era impegnato in conferenze e altri eventi pubblici in giro per il mondo. 

Altri monasteri della sua rete sono situati in Germania, Australia, Thailandia, Hong Kong e Stati Uniti. Thich Nhat Hanh è autore di circa 130 libri, un centinaio dei quali in inglese, dedicati in gran parte al concetto di "consapevolezza", sviluppata con la pratica della meditazione. Una condizione che non porta all'isolamento, ma al contrario ad un ruolo più attivo nel rapporto con il mondo. 

"La meditazione - diceva - non è una fuga dalla società, ma è un tornare a noi stessi e vedere quello che succede. Una volta che si vede, ci deve essere azione. Con la consapevolezza sappiamo cosa dobbiamo e non dobbiamo fare per aiutare". 

·        Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.

Addio a Gianni Di Marzio, allenatore storico di Cosenza e Catanzaro. ALESSANDRO CHIAPPETTA su Il Quotidiano del Sud il 22 gennaio 2022.

E’ morto nella notte Gianni Di Marzio. L’ex allenatore e dirigente di Cosenza e Catanzaro aveva 82 anni. L’annuncio è stato dato dal figlio Gianluca, noto giornalista sportivo, con un annuncio su Instagram. 

Gianni Di Marzio era nato a Napoli l’8 gennaio del 1940. Era soprannominato “Il seminatore d’oro”, per via del premio, conquistato due volte, e destinato al miglior allenatore di ogni categoria. Fu costretto ad interrompere l’attività da calciatore abbastanza presto a causa di un infortunio. Diventato allenatore, colse i primi successi della carriera proprio in Calabria, a Catanzaro dove nel 1974/75 perse lo spareggio per la promozione in Serie A che conquistò però nella stagione successiva.

Dopo due anni alla guida del Napoli (dal 1977 al 1979, con cui ottenne un quinto posto), negli anni Ottanta tornò in Calabria, questa volta alla guida del Cosenza: con la società rossoblù ha ottenuto la storica promozione in Serie B nella stagione 1987/1988 e ne diventò poi dirigente.

Tra le squadre allenate anche Nocerina, Lecce, Genoa, Catania, Padova e Palermo.

Da direttore sportivo ha lavorato anche con il Venezia del presidente Maurizio Zamparini dal 1996 al 1998, con il club veneto che riconquistava la Serie A dopo oltre trent’anni. Di Zamparini fu anche consulente personale al Palermo. È stato inoltre responsabile dell’area estera della Juventus dal 2001 al 2006 e consulente di mercato del Queens Park Rangers. Negli ultimi anni si era dedicato alla televisione, dove è apparso spesso come ospite in trasmissioni sportive.

Dal carattere sanguigno, autentico motivatore, riusciva sempre a caricare al massimo i suoi giocatori. Fu lui che intuì per primo che Diego Armando Maradona avrebbe potuto lasciare il Barcellona per trasferirsi al Napoli e sostenne l’operazione con la società partenopea.

Da fanpage.it il 22 gennaio 2022.

A dare la triste notizia è stata il figlio, Gianluca, con un tweet bellissimo dedicato al padre, Gianni Di Marzio, morto all'età di 82 anni. Gli appassionati di calcio, quelli coi capelli bianchi e quelli che divorano la storia del pallone nazionale, hanno conosciuto la sua figura a bordo campo, in TV nella veste di opinionista, dirigente (Cosenza, Venezia, Palermo) consigliere di mercato e "osservatore" speciale di talenti sparsi nel mondo (lo fu anche alla Juventus, con delega all'area estera). Due i nomi che aveva annotato sulla sua agenda con ottime referenze: Diego Armando Maradona e Cristiano Ronaldo.

Gli bastò un'occhiata per capire come l'uno mescolasse talento, genio e follia nelle sue giocate "non da uomo normale" mentre l'altro aveva dinanzi a sé un futuro luminoso e una carriera da top player. Entrambi –  sia pure nella diversità del loro tempo, delle loro doti, delle caratteristiche tecniche – avrebbero segnato un'epoca del calcio internazionale. E non si era sbagliato. 

"E adesso potrai finalmente allenarlo il tuo caro amato Diego – si legge nel messaggio condiviso sui social network dal giornalista, Gianluca Di Marzio -. Sei stato un grande papà, mi hai insegnato tutto e non sarò l’unico a non dimenticarti mai".

Catanzaro, Napoli e Catania le squadre che hanno visto Gianni Di Marzio in panchina in Serie A. Ma nella sua carriera di allenatore ha attraversato l'intera Penisola e le categorie del calcio professionistico con esperienze anche alla guida di Nocerina, Juve Stabia, Brindisi, Genoa, Lecce, Padova, Cosenza e Palermo. Brevissima, invece, la vita da calciatore indossando le maglie di Boys Caivanese e Ischia: il destino aveva in serbo per lui un ruolo diverso ma sempre "nel vivo dell'azione" e da una prospettiva diversa. Era uomo di campo, ne conosceva tutte le dinamiche dallo spogliatoio fino alle stanze della dirigenza.

Il calcio ha rappresentato parte integrante della sua vita. Fu lui, napoletano di origine, a consigliare alla fine degli Anni Settanta l'allora presidente del Napoli, Corrado Ferlaino, di prendere un ragazzo sudamericano che palleggiava con le arance e sapeva giocare da Dio toccando la sfera di gomma come le corde di un violino: inventava una musica che sul rettangolo verde avrebbe incantato il mondo intero. Quel ragazzo scapigliato era l'ex Pibe de Oro, Diego Armando Maradona, ma all'epoca non fu possibile formalizzare in tempo l'operazione perché le frontiere erano chiuse.

Napoli e Di Marzio, quel filo rosso che lo ha tenuto legato alla sua città non s'è mai spezzato. Il suo volto nelle trasmissioni che ragionavano di calcio ha accompagnato le opinioni in TV, in radio (nazionali e locali) e animato spesso i dibattiti nei programmi in onda sulle emittenti partenopee. A novembre dell'anno scorso la direzione dell'Eav (l'Ente trasporti campano) aveva incastonato la sua immagine nella galleria dei grandi personaggi del mondo del calcio che hanno fatto storia a Napoli e nel Napoli. All'interno della stazione della Cumana di Fuorigrotta, proprio nei pressi dello stadio "Maradona" c'è il suo viso. E adesso gli tirerà un pallone, sapendo che Diego lo stopperà alla sua maniera: sempre di petto.

Quando mio zio "Mister Sud" mi parlò del piccolo Maradona. Mimmo Di Marzio il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Talent scout amato da tutti, era un paladino del Meridione e del Sudamerica. I riti scaramantici da giocare in trasferta.

È scomparso a 82 anni Gianni Di Marzio. A dare l’annuncio sui social il figlio Gianluca: «E adesso potrai finalmente allenarlo il tuo caro Diego». Di Marzio infatti è anche noto per essere stato il primo scopritore di Maradona, quando le frontiere erano chiuse agli stranieri. In carriera ha allenato Nocerina, Juve Stabia, Brindisi, Catanzaro che portò in A. Poi il Napoli, Genoa, Lecce, Catania, Padova, Cosenza e infine il Palermo, diventando poi osservatore.

A noi nipotini, e anche al figlio Gianluca futuro guru del calciomercato, ripeteva come un mantra: «Da grandi dovete fare i giornalisti», categoria cercata e temuta dai protagonisti dello sport ma nei cui confronti zio Gianni nutriva un profondo rispetto misto ad ammirazione. Al punto da riuscire a prendersi, grazie alle innumerevoli collaborazioni televisive, il tesserino da pubblicista che ostentava con orgoglio. In realtà i motivi di orgoglio, non solo agli occhi di noi bambini affascinati dallo zio allenatore, erano ben altri.

Sono gli attestati di affetto che oggi piovono da ogni parte del mondo per il mister del Sud scomparso all'improvviso; ed è anche quel murales che in autunno è comparso a Napoli in un museo a cielo aperto dedicato a coloro che hanno fatto la storia del club azzurro e che lo ritrae, giovanissimo allenatore, col pallone in mano al fianco del «Petisso» Pesaola. Mi mandò quella foto prima di Natale e mi annunciò l'ingresso in quella galleria con una punta di commozione che avrebbe dovuto insospettirmi. Anche perché Gianni Di Marzio è stato l'ennesimo esempio che nessuno è profeta in patria e sulla panchina di Fuorigrotta non ci è rimasto molto tempo, appena quello di un'annata da quinto posto e una finale di Coppa Italia persa con l'Inter, per poi cedere il posto al rivale Vinicio. Ma quel tempo fu più che sufficiente per restare a vita nel cuore non solo dei tifosi partenopei come il primo scopritore del piccolo Maradona. Ero un ragazzino quando, in macchina con mio padre per la nativa Mergellina, raccontò di quell'enfant prodige scovato a Buenos Aires. «Ha solo 13 anni - disse - devo fare di tutto per portarlo qui a Napoli». Ma le frontiere erano chiuse e Ferlaino non fu lungimirante nell'ascoltare la sua proposta di fargli avere la cittadinanza italiana con qualche escamotage. Oggi non si scandalizzerebbe nessuno.

Con il Pibe de Oro, al di là della foto storica che li ritrae all'aeroporto, sarebbe nata per sempre un'amicizia e una stima reciproca profonde. Del resto, del Sudamerica e dei suoi talenti da scoprire, zio Gianni aveva un amore rimasto intatto fino a prima della pandemia, che lui sviscerava in continui viaggi dal Brasile all'Argentina. Ma gli anni della panchina, precedenti alla carriera di osservatore e commentatore, sono quelli che hanno segnato la mia infanzia e la mia passione calcistica, impregnandola di una vena campanilistica di cui lui divenne una specie di portabandiera. Le trasferte al Nord alla testa di compagini di quasi tutto il Mezzogiorno - dal Catanzaro al Catania, dal Napoli al Lecce, dal Palermo al Cosenza - assurgevano a una sorta di guerre puniche, epopee dove Davide sfidava Golia, e più di una volta faceva centro. Le accuse di catenacciaro non lo sfioravano; quando arrivavo in hotel mi abbracciava e mi presentava i giocatori che lo veneravano come un fratello maggiore, perdonandogli le volte che ne sfotteva qualcuno dicendogli che se la stava facendo addosso al pensiero di San Siro. Oppure quando «sfruttava» qualche riserva per andare a prendere un amico all'aeroporto. Ma i suoi ragazzi, quando scendevano in campo spesso sotto qualche coro razzista, per lui davano tutto e di palloni ne passavano pochi. Anche perché, mi ripeteva più volte, «noi allenatori ci possiamo inventare qualsiasi cosa, ma poi quelli che vanno in campo sono loro».

Era terribilmente scaramantico e se perdeva una trasferta, la volta successiva era attentissimo a non ripetere alcun dettaglio, a cominciare dalla scelta dell'albergo fino al menu della squadra. Di quei giocatori, ce ne sono alcuni rimasti amici per la vita. Come Claudio Ranieri, uno degli eroi del Catanzaro della promozione in A, con cui ha condiviso tante vacanze e che oggi dall'Inghilterra scrive: «Addio Gianni, sei stato il mio allenatore per 5 anni e mio grande amico per tutta la vita: se sono allenatore lo devo a te. Mi mancherai, tantissimo». L'altra promozione storica fu quella con il Catania del presidente Massimino (quello dell'«amalgama») evento che lo consacrò a vita nel cuore dei tifosi siciliani; la Trinacria divenne la sua seconda patria, con la casa ad Acitrezza a fare da quartier generale delle vacanze con l'adorata moglie Tucci, e l'amicizia con il presidente del Palermo Zamparini che per il matrimonio di Gianluca gli fece recapitare con un aereo privato un quintale di gamberi rossi di Mazara.

Gli aneddoti pittoreschi sulle sortite paracalcistiche si sprecano: dal campo di Catanzaro fatto allagare di notte alla vigilia con la partita con la Juve, ai sassolini contro l'Avellino ai tempi della panchina con la Juve Stabia. «Tutte chiacchiere» rideva facendo l'occhiolino e dandoti un pizzicotto. Dal mare magno di amici e parenti c'era sempre chi gli proponeva qualche presunto giovane talento; una volta gli presentarono per un provino il figlio di un'attrice, ragazzino biondo ed elegante, aspirante centravanti. Lui lo incoraggiò, lo congedò e poi, da consumato allenatore «del popolo» quale era, mi disse con una smorfia: «Sai qual è il problema? Quel ragazzo non ha fame». Mimmo Di Marzio

·        Addio al giornalista Sergio Lepri.

Addio a Sergio Lepri, storico direttore dell’Ansa: aveva 102 anni. Nato a Firenze nel 1919, per quasi trent’anni diresse la principale agenzia di stampa italiana. Il Quotidiano del Sud il 20 gennaio 2022.

È morto Sergio Lepri. Direttore dell’Ansa dal 1962 al 1990, aveva 102 anni. Era nato a Firenze il 24 settembre 1919.

Laureato in filosofia all’Università di Firenze, aveva insegnato nelle scuole statali come professore di storia e filosofia. Al giornalismo era arrivato attraverso la stampa clandestina, cioè dopo aver diretto, nell’inverno 1943-1944, durante l’occupazione tedesca, l’organo clandestino del Partito Liberale ”L’ opinione”.

Giornalista professionista dal 1946, lavorò prima alla ”Nazione del popolo” di Firenze, poi al ”Mattino dell’Italia centrale”. Quando il quotidiano cambiò la sua testata in ”Giornale del mattino”, ne divenne redattore capo, non tralasciando l’attività di editorialista e inviato speciale, particolarmente all’estero.

Le sue inchieste negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica – che furono pubblicate anche dal ”Gazzettino” di Venezia e dal ”Mattino” di Napoli, oltre che da altri quotidiani di cui era abituale collaboratore- gli valsero rispettivamente il premio giornalistico nazionale ”Marzotto” (1953) e il Premio ”Saint Vincent” (1956).

Articoli, servizi e corrispondenze vennero pubblicate, inoltre, dal ”Mondo”, dall”’Illustrazione italiana” dal ”Messaggero” e da altre testate.

Dopo essere stato corrispondente da Parigi del ”Giornale del mattino” e di altri giornali (1956 e 1957) e capo dell’ufficio stampa della presidenza del Consiglio (1958 e 1959), nel 1960 Sergio Lepri entrò all’Ansa, massima agenzia italiana di informazioni e società cooperativa tra i quotidiani italiani. Dell’Ansa fu nominato condirettore responsabile nel gennaio 1961 e direttore responsabile nel gennaio 1962. 

·        E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri.  

Lady Gavioli: bella, ricca e sognatrice. il mistero dell’ex modella (e imprenditrice) trovata morta in casa. Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 21 gennaio 2022.

Maria Chiara Gavioli, 47 anni, ex modella stroncata da un malore nella sua villa di Mogliano Veneto. Fra i suoi amori segreti quello con Massimiliano Allegri («Fu una storia importante»). La vita dorata e le fragilità: «Sono stata molto male...». Aveva due figli. 

La colf l’ha trovata in bagno, riversa a terra come una bambola rotta. Ha tirato un urlo ed è corsa a dare l’allarme ma il medico ha potuto solo scuotere la testa. Chiara era già morta. È successo mercoledì scorso, nella bella villa di Mogliano Veneto dove abitava ormai da diversi anni con i suoi due figli di 15 e 9 anni. Hanno chiamato anche i carabinieri, visto il nome e l’età: Maria Chiara Gavioli, 47 anni, ex modella, famiglia di imprenditori, molto ricca, molto bella e molto fragile. Il medico legale sembra non avere dubbi: «Morte naturale». C’erano vari farmaci nella stanza. Li prendeva abitualmente, perché ha sempre dovuto combattere contro un malessere di fondo, anche se l’avvenenza raccontava un’altra donna.

«Sono stata molto male»

«Sono stata molto male ma ora sto bene, anzi, benissimo», diceva lo scorso anno per darsi forza. Il suo umore era mutevole. Un costante up and down di gioie e abissi, di cadute e risalite. Si chiudeva in lunghi silenzi per poi riaprirsi improvvisamente agli amici, sempre disponibile e generosa. «Nessuno mi considera», diceva quando era giù di corda. «Cosa facciamo? Dove andiamo?», si lanciava nei momenti buoni. Fisico ancora da pin-up, Chiara amava raccontare del suo passato da modella e di certi amori. Come quello con Massimiliano Allegri, negli anni ‘90, quando era ancora calciatore e militava nel Padova. «Ero la sua fidanzata segreta - diceva -. È stata una storia importante, durata anni, l’ho anche seguito nei suoi spostamenti. Siamo andati insieme a Napoli, ma lui mi ha sempre tenuto fuori dall’ufficialità. Alla fine mi sono stancata e l’ho lasciato. Adesso lo detesto perché ho capito che mi ha usata».

Il mondo dorato

Dopo una giovinezza dorata, Chiara aveva preso a frequentare il mondo del calcio e dei suoi campioni. Una passione di famiglia. Ai tempi di Maurizio Zamparini presidente del Venezia, suo padre era stato a un passo dal comprare la società arancioneroverde. Poi è arrivato per lei un figlio da un’artista trevigiano, più avanti una figlia da un rugbysta, il matrimonio, il divorzio. E alcune grane giudiziarie. Con il fratello Stefano, imprenditore del settore dello smaltimento di rifiuti, per lei un secondo padre considerati i 18 anni di differenza, è rimasta coinvolta in alcune opache vicende. La Procura di Venezia aveva contestato a lei, al fratello e ad altri 17 una serie di operazioni di distrazione del patrimonio della loro azienda, Enerambiente, poi fallita, a danno dei creditori. Si parlava di oltre 100 milioni di passivo. Pareva che fossero stati utilizzati per spese personali. «Hanno scritto di tutto, tutte balle, hanno anche detto che li avrei utilizzati per interventi estetici, ma l’operazione al seno l’ho fatta per motivi di salute». 

«Non so nulla di finanza»

Da Catanzaro un’altra tegola: illeciti in materia fiscale e ambientale connessi alla gestione dell’impianto di smaltimento rifiuti di Alli. «Io non ne so nulla di finanza e di aziende - diceva lei raccontando di averlo dichiarato proprio in questi termini ai pm che l’avevano interrogata -. Lo so che è difficile da credere ma non sapevo nemmeno di far parte del consiglio di amministrazione, è stato mio fratello a inserirmi senza dirmi nulla, pensa che sia scema», precisò facendo infuriare Stefano. Successe una decina d’anni fa e quell’indagine costò al fratello qualche mese di carcere preventivo. I magistrati le avevano creduto, per quanto potesse apparire strana la ricostruzione. Il processo si è concluso di recente, lo scorso luglio, con la condanna a 4 anni e 6 mesi di carcere di Stefano. Non è mai stata una vera imprenditrice, Chiara Gavioli. Anche se negli ultimi anni si era dedicata di più al lavoro e le piaceva dirlo. «Sono single, faccio la mamma e sto lavorando su un terreno edificabile a Fiumicino», spiegò con orgoglio l’ultima volta in uno dei suoi momenti belli. Ma dietro le sue parole c’era sempre un velo di malinconia. Nonostante la famiglia, il benessere, la bellezza. Lady Gavioli viveva di sogni ma era fragile e insicura. È morta sola.

Denis Barea e Nicola Rotari per corriere.it il 21 gennaio 2022.

Villa Chiarle, in via Morandi a Mogliano Veneto. Una dimora storica, una villa veneta oggi decadente, quasi trasandata, trascurata. È tra queste nobili mura che nel primo pomeriggio di mercoledì si è conclusa tristemente la vicenda umana dell’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, stroncata ad appena 47 anni da un malore improvviso, probabilmente un infarto. 

La donna, conosciuta alle cronache per le vicende giudiziarie che hanno riguardato anche e soprattutto il fratello Stefano, era da tempo malata. Chi la conosceva bene la vedeva ormai poco in giro, era sempre più magra e provata: da tempo non era più la donna brillante che in tanti avevano conosciuto, amante della bella vita, immancabile nei salotti buoni della Marca e del Veneziano, spesso ammiccante sui profili social.

Maria Chiara Gavioli è nota anche nel mondo delle cronache mondane, la relazione più nota è stata senz’altro quella con l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, conosciuto dalla donna quando era ancora giocatore.

Il ritrovamento del corpo

A trovare il suo corpo privo di vita è stata la collaboratrice domestica che presta servizio nella villa. La 47enne era distesa a terra. A pochi passi da lei alcune confezioni di farmaci. La colf ha subito lanciato l’allarme ma per Maria Chiara Gavioli non c’era nulla da fare: il personale sanitario del Suem 118 non ha potuto far altro che constatarne la morte per arresto cardiocircolatorio.

Le circostanze inducono però prudenza, e per questo motivo sono intervenuti i carabinieri della stazione di Mogliano Veneto e il medico legale. Quest’ultimo non ha avuto dubbi circa le cause del decesso: è stata una morte naturale. 

Per questo motivo la procura di Treviso ha fin da subito messo a disposizione della famiglia la salma della donna, madre di due figli. Il funerale potrebbe già essere fissato nelle prossime ore.

Il crac Enerambiente

Maria Chiara Gavioli era finita invischiata nel 2012 nel crac della Enerambiente, la società gestita dal fratello Stefano che si occupò della raccolta e del trasporto dei rifiuti a Napoli tra il 2010 e il 2011. 

La Gavioli era accusata di bancarotta per distrazione, finendo anche in carcere, ma nel luglio del 2012 il ricorso presentato al tribunale del Riesame di Napoli da Fabio Crea, che era allora il suo avvocato, fu accolto e la donna riguadagnò la libertà.

«Ero nel Cda a mia insaputa. Non ero nemmeno a conoscenza dell’esistenza di Enerambiente» disse al gip del capoluogo partenopeo, sottolineando di non essersene mai occupata, di non aver mai utilizzato denaro della società e soprattutto di non aver mai distratto beni dalle casse dell’azienda di famiglia. 

In più, raccontando del rapporto conflittuale con il 64enne fratello Stefano, aveva sottolineato come il denaro da lei utilizzato era di proprietà personale derivante dalla sua attività di modella, e quando le spese da sostenere erano superiori alle sue possibilità chiedeva aiuto ai genitori.

Il rinvio a giudizio

Nel giugno del 2021 però il sostituto procuratore di Venezia (dove il processo venne trasferito per competenza) Roberto Terzo ha formulato la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti della ex modella. 

Con lei veniva chiesto il processo anche per venti persone, diciannove delle quali accusate di bancarotta fraudolenta, tra cui il fratello. Le accuse formulate dal pm lagunare erano di distrazione, occultamento, dissipazione del patrimonio aziendale a danno dei creditori.

Enerambiente fallì con un passivo di 106 milioni. L’attività criminosa sarebbe avvenuta attraverso l’emissione di false fatture e ingenti somme sarebbero state usate per spese personali e mutui di Stefano Gavioli, oppure per coprire debiti di altre società. 

A lanciare l'allarme la colf della villa. Maria Chiara Gavioli, trovata morta l’imprenditrice e modella: “Aveva avuto una relazione con Max Allegri”. Vito Califano su Il Riformista il 21 Gennaio 2022.  

È stata trovata morta in casa, mercoledì scorso, Maria Chiara Gavioli. L’imprenditrice e modella era stata trovata nella villa veneta, una dimora storica, a Mogliano Veneto. La donna aveva 47 anni e sarebbe stata stroncata da un malore improvviso, probabilmente un infarto secondo quanto scrive Il Corriere del Veneto. Era da tempo malata. Personaggio noto, per la sua attività di modella, figlia della borghesia trevigiana e veneziana diventata anche molto attiva sui social network, assidua della vita mondana.

Gavioli era madre di due figli di 15 a 11 anni. A trovare il suo corpo la collaboratrice domestica che prestava servizio nella villa di via Morandi. La 47enne era distesa a terra, a pochi passi da alcune confezioni di farmaci. Niente da fare per il personale sanitario del Suem 118 intervenuto sul posto. I soccorritori hanno constatato la morte per arresto cardiocircolatorio. Per il medico legale si tratta di morte naturale. Sul posto anche i carabinieri della stazione di Mogliano Veneto.

Dieci anni fa, nel 2012, Gavioli era rimasta coinvolta nel crac di Enerambiente, la società del fratello Stefano Gavioli, che si occupava della raccolta e del trasporto dei rifiuti a Napoli tra il 2010 e il 2011. Gavioli era finita agli arresti domiciliari, invischiata in quanto considerata la consigliera della società, accusata di bancarotta per distrazione. Si era sempre dichiarata estranea ai fatti: diceva di essere nel Cda della società a sua insaputa.  Dopo il ricorso al tribunale del Riesame venne liberata.

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Il sostituto procuratore di Venezia nel giugno 2021 aveva comunque chiesto il rinvio a giudizio per la donna e per altre venti persone, diciannove delle quali accusate di bancarotta fraudolenta. Le accuse erano di distrazione, occultamento, dissipazione del patrimonio immobiliare a danno dei creditori. Per l’accusa l’attività criminosa sarebbe stata messa in atto tramite l’emissione di false fatture e ingenti somme per spese personali e mutui di Stefano Gavioli. Enerambiente è fallita nel 2015 con un passivo di 106 milioni.

Maria Chiara Gavioli diceva non essere neanche a conoscenza dell’esistenza della società e di non aver mai utilizzato denaro della società. La donna era entrata anche nelle pagine del gossip: si era parlato molto della relazione di Gaviole con l’attuale allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. La relazione era cominciata quando il tecnico era ancora calciatore. Si era scritto anche della sua villa a Cortina, accanto a quella della famiglia Moratti. I funerali potrebbero essere fissati già oggi.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro. 

·                   E’ morto il cantante Meat Loaf.

Da ilmattino.it il 21 gennaio 2022.

Il cantante e attore statunitense Meat Loaf è morto all'età di 74 anni. La notizia viene data dal sito della Bbc. Meat Loaf, pseudonimo di Marvin Lee Aday, noto anche come Michael Lee Aday era nato a Dallas il 27 settembre 1947. Nel 2001 cambiò legalmente il proprio nome da Marvin a Michael. 

Meat Loaf è stato anche nome della band di cui era cantante. Nonostante alcuni inconvenienti (tra cui la bancarotta) raggiunse un successo notevole con la sua carriera di musicista e cantante, soprattutto grazie all'album 'Bat Out of Hell', uno dei dischi più venduti della storia del rock. 

Meat Loaf interpretò anche Eddie in The Rocky Horror Picture Show , è morto giovedì sera con sua moglie Deborah al suo fianco, ha detto a Deadline l'agente di lunga data di Meat Loaf, Michael Greene a nome della famiglia. Ha aggiunto che anche le figlie della cantante Pearl e Amanda e gli amici intimi hanno avuto la possibilità di trascorrere del tempo con lui e dirgli addio nelle ultime 24 ore. 

La causa della morte non è stata rivelata. «Sappiamo quanto ha significato per così tanti di voi e apprezziamo davvero tutto l'amore e il supporto mentre attraversiamo questo periodo di dolore per la perdita di un artista così stimolante e di un bell'uomo», ha detto la famiglia di Meat Loaf in una dichiarazione. "Dal suo cuore alle tue anime... non smettere mai di dondolare!"

DAGONEWS il 21 gennaio 2022.

«Se muoio, muoio, ma mi farò mai controllare». Meat Loaf, icona del rock morto a 74 anni, cinque mesi fa aveva dato un’intervista in cui si scagliava duramente contro le restrizioni e le mascherine. 

Pur dicendo di essere “terrorizzato dal Covid” aveva fatto un’intemerata contro i politici che imponevano le restrizioni, criticando duramente Biden: «Ho capito fermare la vita per un po', ma non per la politica. Se muoio, muoio, ma non mi farò mai controllare». Così parlava solo pochi mesi fa senza nemmeno immaginare che sarebbe stato proprio il Covid a ucciderlo. Il cantante, che viveva a Nashville con la sua famiglia, si è contagiato, ma non è chiaro se fosse vaccinato.

Aveva dei problemi di salute pregressi ed era in cura quando è stato raggiunto dal virus che non gli ha lasciato scampo. 

·                   E’ morto l’attore Hardy Kruger.

Marco Giusti per Dagospia il 20 gennaio 2022.

Con Hardy Kruger, scomparso nella sua casa di Palm Springs, Los Angeles, a 91 anni dopo quarant’anni o quasi di assenza dallo schermo, se ne va il più grande attore giovane tedesco del Dopoguerra. Sicuramente il più noto, grazie anche a film come “Il volo della Fenice” di Robert Aldrich, “Barry Lyndon” di Stanley Kubrick, “Hatari!” di Howard Hawks, “Quell’ultimo ponte” di Richard Attenborough, “La tenda rossa” di Mikhail Kalatozov, “I quattro dell’Oca Selvaggia” di Andrew McLaglen.

Biondo, bello, dal volto fiero, meno romantico del viennese Oskar Werner, rappresentò in tanti film di guerra e di coproduzione, il tedesco che non si arrende, che nessuna guerra avrebbe potuto umiliare. L’unico in grado di poter fare da antagonista a James Stewart o John Wayne nelle grosse produzioni americane. 

Lo ricorderete nel ruolo dell’ingegnere tedesco di aeroplanini giocattolo Heinrich Dorfmann che ri-costruisce l’aereo finito nel deserto in “Il volo della Fenice” e per questo pretende di bere più acqua di tutti. Nato nel 1928 a Wedding, in Germania, a 13 anni faceva parte della famigerata Hitler Jugend come tanti ragazzini tedeschi. A 15 anni inizia a far l’attore in “Junge Adler”, ma già a 16 anni viene spedito come soldato di fanteria nella SS-Grenadier-Division "Nibelungen", nel pieno di una guerra ormai persa. Catturato dagli inglesi, cerca di scappare per tre volte. 

Al terzo tentativo di evasione ci riesce. Col Dopoguerra, nel 1949 può riprendere la carriera cinematografica. I primi film sono “Diese Nacht Vergen ich nie” e “Genoveffa la racchia”. Bravissimo, in grado di parlare inglese e francese perfettamente, ben presto diventa protagonista a fianco di dive celebri come Hildegarde Knef, in “Illusion in Moll” di Rudolf Jugert o come Mara Schell in “Quando mi sei vicino” di Harald Braum. Fa una piccola apparizione nel film di Otto Preminger “La vergine sotto il tetto” con William Holden, David Niven e Maggie McNamara. E passa agilmente dalle produzione tedesche a quelle inglesi, grazie a un contratto per tre film che gli ha fatto J. Arthur Rank nel 1957. Il primo è “Sfida agli inglesi” di Roy Ward Baker con Colin Gordon, dove interpreta l’ufficiale tedesco. 

Lo troviamo poi nel più leggero “Uno straniero a Cambridge” di Wolf Rilla con la Bardot inglese, Sylvia Syms, e nel bellissimo giallo “L’inchiesta dell’ispettore Morgan” diretto dall’americano Joseph Losey, che si era rifugiato assieme agli sceneggiatori Ben Barzman e Millard Lampell in Inghilterra a causa della caccia alle streghe maccartista. Assieme a lui troviamo Stanley Baker e Micheline Presle. Torna in patria per una fortunata variazione dell’”Amleto di Shakespeare, “Il resto è silenzio” di Helmut Kautner, ma torna a intepretare l’ufficiale tedesco da coproduzione internazionale in “Un taxi per Tobruk” del francese Denys de la Patelliére con Charles Aznavour e Lino Ventura. Il grande successo arriva con il film di avventure in Africa “Hatari!” diretto da Howard Hawks e interpretato da John Wayne e Elsa Martinelli.

Si innamora così tanto della location in Tanganika, oggi si chiama Tanzania, che si compra la terra e il villaggio. Ci costruirà un hotel dove i turisti potranno vedere gli animali selvaggi del film in libertà. Quella dell’Africa e del rispetto per la natura e per gli animali sarà una passione che durerà per tutta la vita. Con “Hatari!” arriva il grande successo. Per tutti gli anni ’60 gira da una produzione all’altra e da paese a paese. “L’uomo senza passato” di Serge Bourguignon, “Le quattro verità” nell’episodio di Luis Garcia Berlanga, “Amori di una calda estate” di Juan Antonio Bardem, il fondamentale “Il volo della Fenice”, ma anche il curioso “L’Affare Goshenko” diretto dal produttore Raoul Levy con Montgmery Clift e addirittura Jean-Luc Godard. 

Lo troviamo nel francese “Femmina” di Georges Lautner con Mireille Darc, e nell’italiano “La monaca di Monza” di Eriprando Visconti con Anne Heywood, da “La battaglia della Neretva” di Veljko Bulajic a “Il segreto di Santa Vittoria” di Stanley Kramer con Anthony Quinn e Anna Magnani, dal drammatico erotico inglese “La tua presenza nuda” di James Kelly con Britt Ekland a “La tenda rossa” sulla spedizione Nobile, da “Barry Lyndon” di Kubrick al western tedesco “Massacro a Condor Pass” di Peter Schamoni a fianco di Stephen Boyd.

La coda degli anni ’70 lo vedono ripetersi nel ruolo di ufficiale tedesco che non ha mai amato, “Quell’ultimo ponte” dove è il maggiore generale Ludwig, “I quattro dell’Oca Selvaggia” con Richard Burton, Richard Harris, Roger Moore. Ma lo troviamo ancora in qualche buon film, come “Obiettivo mortale” di Richard Brooks con Sean Conney e “La talpa” di Tom Clegg con Dennis Hopper e Gosta Ekman. Si è sposato tre volte. Nel 1950, a 17 anni, con Renate Densow, con la quale faranno una figlia, nel 1964 fino al 1977 con l’italiana Francesca Camarazzi, con la quale avranno due figli, e dal 1978 fino a oggi con Anita Park. Prima di andare a vivere a Palm Springs era stati anni nel suo Hatari Lodge a Monte Meru in Tanzania. 

·        E’ morto l’attore Camillo Milli.

 Da leggo.it il 20 gennaio 2022.

E' morto a Genova a 92 anni l'attore Camillo Milli, il "mitico" presidente della Longobarda del film «L'allenatore nel Pallone». Ne dà notizia la famiglia. Milli, nato a Milano l'1 agosto 1929, ha debuttato sul grande schermo con «Ragazze d'oggi» di Luigi Zampa ma è stato uno dei protagonisti della commedia italiana degli anni '80, lavorando tra gli altri con Mario Monicelli nel «Il marchese del Grillo» e con Neri Parenti in «Fantozzi contro tutti». 

Da qualche tempo era ricoverato in una clinica di Genova per i postumi del Covid. Pochi giorni fa aveva perso la moglie.

Milli nome d'arte di Camillo Migliori debuttò nel 1951 sotto la direzione di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano. Ha lavorato con Dario Fo, affiancato Paolo Villaggio e Lino Banfi nel film cult «L'allenatore nel Pallone». Numerosi i ruoli di prelati che interpretò, «In nome del Papa Re di Luigi Magni e «Il marchese del Grillo. Noto anche per i ruoli televisivi, come «CentoVetrine» e «Un Medico in famiglia 9».Invia in email 

Marco Esposito per leggo.it il 20 gennaio 2022.

«Durante le riprese ogni tanto dovevamo sospendere tutto perché iniziavamo a ridere senza poterci più fermare. Mi dispiace tanto». E' commosso Lino Banfi. Con Camillo Milli, scomparso proprio oggi, hanno lavorato più volte insieme, anche se il grande pubblico li ricorda insieme soprattutto per "Un allenatore nel Pallone", film cult degli anni '80. 

Banfi era Oronzo Canà, allenatore perennemente esonerato e alla ricerca di una panchina, e Milli interpretava il presidente della Longobarda, la squadra neopromossa che - proprio tramite l'arrivo di Canà - puntava a ritornare subito in serie B. Un film che - a furia di passaggi televisivi - è entrato nel cuore degli italiani e degli appassionati di calcio, tanto da contagiarne anche il linguaggio. La "bizona" di Oronzo Canà è entrata in qualche modo nel "gergo" calcistico.

Lino Banfi era affezionato al "suo presidente": «Ho saputo della morte di Camillo solo qualche minuto fa, mi dispiace molto era un grande attore, abbiamo lavorato insieme anche in altri film. Era un po' più grande di me, anche se in quegli anni, ero io a sembrare un po' più anziano di lui».

Ha un ricordo particolare di Milli sul set dell'Allenatore del Pallone?

«Lui aveva preso molto a cuore il film e il ruolo di Presidente della Longobarda. A volte quando giravamo qualche scena insieme, io magari mi inventavo qualche battuta che non era nel copione e lui inizia a ridere; io gli andavo dietro e dovevamo fermare tutto e ricominciare da capo. Mi spiace molto, anche perché era un po' che non ci sentivamo. Mi rimangono un sacco di bei ricordi»

 È morto Camillo Milli, un grande della commedia: da 'Il marchese del Grillo' a 'L'allenatore nel pallone' con Banfi. La Repubblica il 20 gennaio 2022.

È stato tra protagonisti del nostro cinema negli anni Ottanta: ha lavorato anche con Mario Monicelli, Neri Parenti e con Nanni Moretti. In tv è stato Ugo Monti nella soap 'CentoVetrine'. Aveva 92 anni.

L'attore Camillo Milli, 92 anni, è morto oggi a Genova, dove viveva da anni. Ne dà notizia la famiglia. Da qualche tempo era ricoverato per i postumi del Covid.

Milli, nato a Milano il primo agosto 1929, si è formato come attore sotto la direzione di Giorgio Strehler al Piccolo Teatro di Milano, dove debuttò nel 1951 e dove fu stabilmente attivo sino al 1953.

Negli anni Sessanta e Settanta, al Teatro Stabile di Genova, fu diretto più volte da Luigi Squarzina, specializzandosi nel repertorio di Carlo Goldoni. Ha lavorato anche accanto a Dario Fo, sia in teatro che nella trasposizione televisiva delle sue commedie, come La signora è da buttare e Parliamo di donne.

Camillo Milli Sul grande schermo ha debuttato nel 1955 con Ragazze d'oggi di Luigi Zampa. È stato uno dei protagonisti della commedia italiana degli anni Ottanta, affiancando attori come Alberto Sordi ne Il marchese del Grillo di Mario Monicelli, Paolo Villaggio in Fantozzi contro tutti di Neri Parenti e Lino Banfi in L'allenatore nel pallone, di Sergio Martino. Tra i suoi molti film c'è anche Habemus Papam di Nanni Moretti.

In televisione iniziò a recitare dagli anni Sessanta: è maggiormente conosciuto per il ruolo di Ugo Monti nella soap opera CentoVetrine. Prese anche parte al famoso spot di Carosello della China Martini, insieme ad Ernesto Calindri e Franco Volpi dal 1957 al 1963.

Marco Giusti per Dagospia il 21 gennaio 2022.

Ci sembrava di averlo visto da sempre Camillo Milli, più noto come il mitico commendator Borlotti presidente della Longobarda nei due film della saga “L’allenatore nel pallone”, che se ne è andato ieri a 93 anni. 

Ci sembrava di averlo visto da sempre, perché lo avevamo visto proprio da sempre, almeno noi cresciuti con Carosello, dove faceva la sua figura vestito da cameriere in mezzo a due miti come Ernesto Calindri e Franco Volpi nelle scenette del “Dura Minga” del China Martini (“Fino dai tempi dei garibaldini….”). 

Prima ancora della riscoperta come Commendator Borlotti a fianco di Lino Banfi, Camillo Milli era da anni una delle colonne, assieme a Lina Volonghi e a Eros Pagni, del Teatro Stabile di Genova. 

Chi ha abitato per tanti anni a Genova come me lo sa bene. Era uno dei volti più simpatici e rassicuranti del teatro genovese. Anche se era nato a Milano, come Camillo Migliori, figlio di un avvocato nonché deputato della Democrazia Cristiana torinese, e anche se aveva studiato recitazione al Piccolo esordendo nel 1951 sotto la regia di Giorgio Strehler, i suoi cavalli di battaglia teatrali erano in gran parte legati al teatro veneziano di Carlo Goldoni rivisti a Genova. 

Era impareggiabile in “Una delle ultime sere di Carnevale” come Sior Zamaria a fianco, appunto di Lina Volonghi e Eros Pagni sotto la regia di Luigi Squarzina, ma lo ricordo anche ne “I due gemelli veneziani”, sempre nella versione di Squarzina a Genova a fianco di Alberto Lionello. Era totalmente realistico.

Ma era realistico anche al cinema nei ruoli di cardinale, basterebbe la sua apparizione già molto vecchio in “Habemus Papam” di Nanni Moretti, alto prelato nei film di Luigi Magni, “In nome del Papa re” e “In nome del popolo sovrano”, segretario particolare del papa, come in “Il Marchese del Grillo” di Mario Monicelli, ufficiale, grottesco, come nei geniali “Vogliamo i colonnelli” di Monicelli o nell’episodio “La bomba”, sempre diretto da Monicelli in “Signori e signore buona notte”, dove fa il suo esordio in scena con un clamoroso salto mortale. O direttore generale, Duca Conte Barambani nelle saghe fantozziane. 

Quando entrava in scena col suo faccione tondo ma gli occhi furbissimi, il suo fisico massiccio ma i movimenti lievi da grande attore goldoniano, erano risate sicure. Lo ricordo, credo nell’unica intervista televisiva che gli sia mai stata fatta, a Stracult, come un signore gentile, adorabile, umile, di grande tradizione teatrale, con un grandissimo e sincero rispetto per i suoi registi e i suoi colleghi.

Ha fatto il cinema nei momenti di pausa dal teatro, che era la sua vera passione. Scordo gli esordi nei primi anni ’50, “Ragazze d’oggi” di Luigi Zampa nel 1953, “La donna del giorno” del 1957, “Souvenir d’Italia” di Antonio Pietrangeli, riconoscibilissimo, perché ha avuto lo stesso fisico e lo stesso aspetto sia da giovane che da vecchio.

Lo troviamo anche in “Le bambole”. E negli stessi anni, tra la fine degli anni ’50 e la prima metà degli anni ’60 fece moltissima pubblicità e moltissimi sceneggiati tv. Lo troviamo fin da “I dialoghi delle Carmelitane” diretto da Tatiana Pavlova nel 1956, o ”Le fatiche di Arlecchino” con la regia di Alessandro Fersen, ma anche, più tardi, in “Pene d’amore perdute” con Franco Enriquez.

Poteva recitare di tutto, da Goldoni a Shakespeare a Molière fino a Dario Fo. Fu Mario Monicelli a capirne la grande forza comica e grottesca negli anni ’70 con “Vogliamo i colonnelli”, dove è uno dei golpisti di Ugo Tognazzi, mentre Luigi Magni ne capì l’aspetto da grande prete ambiguo. 

Con il ruolo del commendator Borlotti di “L’allenatore nel pallone” avrà fama eterna tra gli adoratori del cinema stracult, ma fu un grande piacere anche ritrovarlo in salute, divertente, ironico, in “Habemus Papam” di Nanni Moretti accanto a Peter Boom, Harold Bradley e altri campioni del nostro cinema. 

·        E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.

Gaspard Uillel rip. Marco Giusti per Dagospia il 19 gennaio 2022.

Se ne va, a Grenoble, in seguito a un incidente di sci sulla pista di Rosièree, la giovane stella del cinema francese, e non solo francese, Gaspard Uillel, 37.

Bellissimo, elegante, preparato, era stato l’Yves Saint-Laurent del “Saint Laurent” di Bertrand Bonello, ma anche un giovane Hannibal Lecter  in “Hannibal Lecter – Le origini del male” di Peter Webber, il protagonista di “E’ solo la fine del mondo” di Xavier Dolan, di “La princesse de Montpensier” di Bertrand Tavernier, di “Paris, je t’aime”, nell’episodio “Le Marais” di Gus Van Sant, di “Eva” di Benoit Jacquot, ma anche il coprotagonista assieme a Oscar Isaac, nel ruolo di Anton Bogart il Midnight Man, dell’attesissima serie Marvel “Moon Knight”.

Fidanzato di Cécile Cassel, di Charlotte Casiraghi, della modella Jordan Crasselle, aveva avuto un figlio nel 2016 da un’altra modella, Gaelle Pietri. Cresciuto tra moda e cinema, figlio di una famiglia di stilisti, Gaspard Uillel era nato nel 1984. 

Fin da giovanissimo, mentre studiava al liceo , si era mosso nel mondo delle serie televisive, “Une femme en blanc”, “Juliette”, “Julien l’apprenti”, prima di esordire nel cinema con “Alias” nel 1999.

Vince il premio César come migliore promessa maschile come protagonista, a fianco di Audrey Tatou, di “Una lunga domenica di passioni” diretto da Jean-Jacques Jeunet, che gli apre le porte del cinema maggiore. Lo troviamo con Isabelle Huppert nella versione di Rithy Pahn di “Una diga sul Pacifico”, Martin Scorsese lo dirige in uno spot per “Chanel”, “Bleu de Chanel”, ottiene poi una nomination ai Cèsar per “Saint Laurent”, presentato al Festival di Cannes.

In questi vent’anni è stato attivissimo nel cinema francese, lo troviamo in “The Vintner’s Luck” di Niki Caro, “Tu honoreras ta mère et ta mère” di Brigitte Rouan, in “Io danzerò” di Stéphanie di Giusto, “Un peuple er son roi” di Pierre Schoeller, fino ai più recenti “I confini del mondo” di Guillaume Nicloux e “Sybil” di Justine Triet, il suo ultimo film, nel 2019. Non è riuscito neppure a vedere, terminata, la sua nuova serie, “Moon Knight”, che uscirà a marzo su Disney+.

Da repubblica.it il 19 gennaio 2022.

È morto Gaspard Ulliel, attore francese di successo. Aveva solo 37 anni, è deceduto in seguito ad un incidente di sci. Il giovane si è scontrato con un altro sciatore nel primo pomeriggio di ieri all'incrocio tra due piste a La Rosiere, nella zona orientale della Francia. "È cresciuto con il cinema e il cinema è cresciuto con lui" ha scritto il primo ministro francese Jean Castex. 

Scoperto a 19 anni per l'interpretazione in Anime erranti di André Techiné al fianco di Emmanuelle Beart (ma prima c'era stata l'esperienza televisiva di Une femme en blanc), nel 2005 Ulliel ha conquistato il prestigioso Cesar per il ruolo di un soldato nella Prima Guerra Mondiale in Una lunga domenica di passioni di Jean-Pierre Jeunet.

Nel 2014 ha incarnato il celebre stilista Yves Saint-Laurent nella biografia realizzata da Bertrand Bonello. "C'è una parte di me in Yves - aveva detto al festival di Cannes presentando il film - e al tempo stesso sono riuscito a diventarlo durante le riprese, dopo aver preso ispirazione da tutta la sua vita e i suoi lavori". Tre anni più tardi, ha vinto di nuovo il Cesar per la sua interpretazione in È solo la fine del mondo scritto e diretto da Xavier Dolan. 

Il film, anch'esso presentato a Cannes dove aveva vinto il Grand Prix de la Jury, è un'indagine sui rapporti familiari attraverso lo sguardo di uno scrittore interpretato da Gaspard Ulliel che torna a casa dopo dodici anni per annunciare di essere in fin di vita alla madre, interpretata da Nathalie Baye, il fratello maggiore, Vincent Cassel, la cognata Marion Cotillard e la sorella minore, Léa Seydoux.

Non solo cinema francese però per il talentuoso attore, noto anche per la sua bellezza e protagonista di tantissimi spot commerciali e in particolare quello firmato da Martin Scorsese per Chanel, nel 2007 ha accettato di affrontare il difficile personaggio reso celebre da Anthony Hopkins di criminologo cannibale nel film Hannibal Lecter - Le origini del male, tratto dall'omonimo romanzo di Thomas Harris. Tra le sue ultime interpretazioni poi la serie Marvel Moon Knight con Oscar Isaac e Ethan Hawke, nella serie dedicata al mercenario antieroe Marc Spector Ulliel è il villain Anton Mogart alias Midnight Man.

Il lutto nel mondo del cinema. Chi era Gaspard Ulliel, l’attore e testimonial di Chanel morto a 37 anni per un incidente sugli sci. Fabio Calcagni su Il Riformista il 19 Gennaio 2022. 

In Italia il suo volto era associato in particolare alla campagna pubblicitaria di Chanel, ma Gaspard Ulliel era sicuramente uno degli attori francesi più noti e talentuosi dell’ultima generazione. Gaspard, nato a Boulogne-Billancourt, alle porte di Parigi, il 25 novembre 1984, è morto oggi all’età di 37 anni per le conseguenze di un grave incidente sugli sci.

L’attore si è infatti scontrato con un altro sciatore nel pomeriggio di ieri, 18 gennaio, all’incrocio tra due piste a La Rosiere, in Savoia, sulle Alpi francesi. Una vicenda sulla quale le autorità francesi hanno aperto un’inchiesta: Gaspard è morto presso il Centro Ospedaliero Universitario di Grenoble, dove era stato trasportato d’urgenza in elicottero.

“Gaspard Ulliel è cresciuto con il cinema e il cinema è cresciuto con lui. Si amavano perdutamente. Rivedremo le sue più belle interpretazioni con il cuore spezzato e incroceremo quel suo certo sguardo. Perdiamo un attore francese“, ha scritto il primo ministro francese Jean Castex ricordando l’attore.

Figlio di una famiglia di stilisti, aveva debuttato mentre studiava al liceo nella serie televisiva Une femme en blanc. Dopo aver studiato cinematografia presso l’Università di Saint Denis, viene lanciato nel cinema a soli 19 anni in “Anime erranti” di André Techiné.

In carriera è stato nominato più volte per il Premio César: come migliore promessa maschile, vinto nel 2005 col film “Una lunga domenica di passioni” di Jean-Pierre Jeunet, dove recita a fianco di Audrey Tautou; nel 2014 invece viene nominato come migliore attore protagonista per l’interpretazione dello stilista Yves Saint Laurent nel film “Saint Laurent”. Lo vince quindi una seconda volta per l’interpretazione in “È solo la fine del mondo”, scritto e diretto da Xavier Dolan.

Ulliel ha anche vestito i panni di Hannibal Lecter, il celebre criminologo cannibale, nel film “Hannibal Lecter – Le origini del male” tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Harris del 2007. In realtà in un primo momento l’attore transalpino aveva esitato ad accettare il ruolo a causa della popolarità raggiunta dal personaggio grazie ad Anthony Hopkins.

Ulliel era stato legato in relazioni con l’attrice Cécile Cassel, con Charlotte Casiraghi e con la modella Jordan Crasselle. Dal 2013 era legato alla modella Gaëlle Pietri, con la quale nel 2016 aveva avuto un figlio.

Sul piccolo schermo è stato invece protagonista della campagna pubblicitaria del profumo maschile Bleu de Chanel: il videoclip, della durata di circa due minuti, era stato diretto dal celebre regista Martin Scorsese.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket. 

·                    E’ morta  l’attrice Yvette Mimieux.  

Marco Giusti per Dagospia il 19 gennaio 2022.

Bella, bionda, gentile, dagli occhi azzurri adatti al Technicolor, anche un po’ enigmatica. Eravamo tutti pazzamente innamorati di Yvette Mimieux, scomparsa nel sonno a 80 anni appena compiuti a Bel Air, quando negli anni ’60 esordì giovanissima nel cinema.

L’abbiamo vista in meravigliosi fantasy a colori diretti da George Pal come “L’uomo che visse nel futuro”/”The Time Machine” tratto dal celebre racconto di H.G.Wells, o “Avventure nella fantasia”, nella commedia “La spiaggia del desiderio”/“Where The Boys Are” di Henry Levin a fianco di Connie Francis, Dolores Hart,

Paula Prentiss, o, più tardi, in folli action movie come il discutibile “Buio oltre il sole”/“Dark of the Sun” diretto da Jack Cardiff, con Rod Taylor e Jim Brown, o in fantascientifici più recenti come “The Black Hole”. 

Era nata a Los Angeles nel 1942, figlia di un immigrato francese con un passato di generico e di una mamma messicana.

Bella, ancora giovanissima, la sceglie Vincent Minnelli per un ruolo in “A casa dopo l’uragano” che verrà tagliato al montaggio. Ma tanto bastò per farle procurare un contratto di sette anni con la Metro Goldwym Mayer. 

Girerà così ben otto film prima di arrivare a 21 anni.

Tra questi “Un certo sorriso” di Jean Negulesco, ufficialmente il primo film, “I perduti dell’isola degli squali” di Charles Haas, “La spiaggia del desiderio”, “Platinum High School” con Micky Rooney” e “L’uomo che visse nel futuro”, film che la portarono sulla copertina di “Life”. 

Il primo matrimonio, che tenne segreto per due anni, fu con un psicologo dell’UCLA, Evan Engber. 

Cercò da subito di non farsi sommergere dai media e dal gossip. “Bardot, Monroe e Elizabeth Taylor, sono le tre più grandi star del cinema e sono tutte e tre infelici”, dichiarò in un’intervista del 1962. “Sarebbero state più felici se la loro vita privata non fosse stata travolta dai gossip e dalle chiacchiere”. 

Interpretò presto anche film di maggiore spessore, come i drammatici “I quattro cavalieri dell’Apocalisse” del suo scopritore Vincente Minnelli, “Luce nella Piazza” diretto da Guy Green con George Hamilton e Olivia de Havilland, dove interpreta una ragazza con forti problemi di instabilità mentale, o “La porta dei sogni”/“Toys in the Attic” di George Roy Hill tratto dalla commedia di Lilian Hellman, dove interpreta la sposa bambina di Dean Martin, il forte “La taglia” di Serge Bourguignon con Max Von Sydow, Henry Silva e il nostro Nino Castelnuovo, girato in Messico, il mai arrivato in Italia “The Picasso Summer” di Robert Sallim e Serge Bourguignon, a fianco di Albert Finney, “Tre femmine in soffitta” di Richard Wilson, o “Joy in the Morning” di Alex Singer, tratto da “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith.

In tv fece storia la sua apparizione come epilettica in due puntate della celebre serie del “Dottor Kildare”, a fianco di Richard Chamberlain. Non si era mai vista prima una storia di epilessia alla tv americana. 

Interpretò il ruolo di una criminologa assieme a George Maharis e Ralph Bellamy nella serie “The Most Deadly Game”. Scrisse anche un film per la tv il film “The Hit Lady” nel 1974, dove interpretava un’assassina. 

L’anno dopo ebbe un ruolo forte, di donna brutalizzata da un poliziotto sadico, interpretato da Tommy Lee Jones nel bellissimo “Jackson County Jail”, diretto da Michael Miller, prodotto da Roger Corman, che diventò un cult da subito. Mai si erano viste scene di violenze di poliziotti sadici contro una ragazza indifesa. Adorato da Tarantino.  

Arrivati agli anni ’80 Yvette Mimieux, incominciò seriamente a pensare di lasciare il mondo di Hollywood. 

Intelligente, colta, piena di interessi, scrittrice, esperta di archeologia, aveva da subito lottato per non dover interpretare i personaggi superficiali e senza alcuna personalità che le offriva Hollywood. “I personaggi femminili che ci scrivono”, disse, “non hanno alcuna complessità. 

E’ tutto apparenza. Non c’è nulla da interpretare. Sono oggetti sessuali o dolci alla vaniglia, vanilla pudding”. Non si era mai sentita un vanilla pudding.

Non a caso, dopo il primo matrimonio con lo psicologo, era stata sposata per tredici anni, dal 1972 al 1985, con un genio del cinema e profondo intellettuale come Stanley Donen, il regista di “Cantando sotto la pioggia”. E’ poco dopo la fine del suo secondo matrimonio, che prende la decisione di ritirarsi. 

La sua ultima apparizione è nella serie “Lady Boss” con Kim Delaney. Così, metterà in piedi prima un’attività di vendita di oggetti haitiani, poi farà l’immobiliarista. E sposerà Howard F. Ruby, potente chairman e fondatore dell’Oakwood Worldwide, società che vende appartamenti di ogni tipo.

Un matrimonio definitivo per lei, che durerà 36 anni. In una delle sue ultime interviste nel 1994 disse: “Ci sono tribù in Africa che pensano che una macchina da presa ti rubi parte dell’anima e in qualche modo penso che sia vero quando vivi la tua vita in pubblico”.

·                    E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.  

Francesca Reboli per vogue.it il 19 gennaio 2022.

Un pioniere assoluto. André Leon Talley, morto a 73 anni il 18 gennaio, è stato per molti anni l'unico giornalista di moda black in un mondo di bianchi. Nell'ambiente lo chiamavano “The Only One”, e non solo per la forza dirompente del suo ruolo e del suo lavoro: era unico e inconfondibile anche nell'aspetto - alto quasi due metri, vestito sempre in modo eccentrico. Cappe, mantelli, colori squillanti, copricapi e gioielli ingombranti: le sue tenute avevano un tocco teatrale, come teatrali, volutamente aforistiche, erano le sue dichiarazioni e le sue frasi a effetto sulla moda, che per lui era passione, lavoro, vita.

Diceva: I miei occhi hanno fame di bellezza. E non ha mai smesso di cercarla, fin da quando - giovanissimo - cominciò a lavorare come centralinista a Interview Magazine di Andy Warhol per poi debuttare nel giornalismo di moda prima a WWD e poi a Vogue. Al mondo del fashion era arrivato attraverso due ossessioni giovanili: i Kennedy (la famiglia, il potere, i vestiti, il gran mondo) e la Francia. Si era poi laureato in letteratura francese alla Brown University con una tesi sull'influenza delle donne nere in Baudelaire, Flaubert e Delacroix.  

Attraverso i suoi mentori, Diana Vreeland, all'epoca direttrice di Vogue, e Andy Warhol si fece strada nel mondo del giornalismo newyorchese per poi approdare a Parigi, come corrispondente di WWD. Qui strinse un legame con Karl Lagerfeld e con Yves Saint Laurent, tra pranzi in sontuosi hotel particulier e serate selvagge in discoteca. Poi l'incontro con Anna Wintour e l'inizio di un lungo percorso a Vogue: prima come fashion director, poi come creative director e infine come editor at large. 

Per lui la moda era lavoro, ma anche travestimento, armatura, un modo per sopravvivere: lo strumento per spiccare tra la folla e mettersi al riparo dagli assalti e dalle aggressioni razziste che tristemente lo hanno accompagnato per tutta la vita. Lo chiamavano: “Queen Kong”, con un chiaro riferimento alla sua omosessualità: “ho dovuto fingere di non vedere per sopportare tutto questo”, aveva detto non molto tempo fa. 

Molto successo e una vita entusiasmante, ma anche molto dolore: André Leon Talley non aveva nascosto le sue difficoltà nel memoir “The Chiffon Trenches”, in cui racconta amicizie, legami ma anche rotture. "Per il me stesso di 12 anni, cresciuto nel Sud segregazionista, l'idea di un uomo di colore che interpretasse qualsiasi tipo di ruolo in questo mondo sembrava impossibile", ha scritto nelle sue memorie. “Pensare da dove vengo, da dove veniamo, e dove siamo oggi, è fantastico. E, tuttavia, ovviamente, abbiamo ancora molta strada da fare".

Mancherà a molti, con cui aveva stretto amicizie e relazioni di lunga durata. Tra loro anche Naomi Campbell, Valentino, Marc Jacobs.

DAGONEWS il 19 gennaio 2022.

Vip, influencer e modelle piangono la morte di André Leon Talley. «Ti amo Andre», ha scritto Kim Kardashian in una storia su Instagram pubblicando una loro foto insieme ai CFDA Awards 2018. 

«Sono così rattristata di sapere della morte di André Leon Talley - ha scritto Kris Jenner sul suo Instagram - Abbiamo condiviso insieme momenti memorabili e ricorderò sempre quanto è stato gentile con me e la mia famiglia». 

«Mi dispiace dire che lo straordinario Andre Leon Talley è morto - ha twittato Bette Midler - Era una tale forza e credeva nella magia della moda e nelle sue illusioni con tutto il suo essere. La sua vita è stata una saga di grandi alti, grandi bassi, il drammatico, il ridicolo e l'incessante ricerca della bellezza. RIP». 

Zendaya ha ripubblicato una foto di Talley sulla sua Instagram Story mentre Leslie Jones ha twittato: «Stiamo perdendo i nostri idoli». 

Diane von Furstenberg ha detto addio al suo “caro” amico, scrivendo su Instagram: «Nessuno ha visto il mondo in un modo più elegante e glamour di te… nessuno era più pieno di sentimento e grandioso di te… il mondo sarà meno gioioso ora. Ti amo e rido con te da 45 anni…. Mi mancheranno le tue urla e la tua leale amicizia».

Gianluca Lo Vetro per “la Stampa” il 23 maggio 2020.  

Sarà davvero sbalorditiva come annuncia l' autore su Instagram, citando Jean Cocteau? Lo scopriremo da oggi con l' uscita dell' autobiografia The chiffon trenches: a Memoir (Ballantine Book) di André Leon Talley: giornalista e art director di Vogue America, trentennale braccio destro di Anna Wintour (direttrice a vita della rivista). Il libro si preannuncia ricco di rivelazioni taglienti sulla giornalista più potente della moda. Roba che ha già acceso la curiosità del settore. E le anticipazioni del giornalista al Daily Mail non sono dolci: «Anna si sceglie amici senza pietà, tra quelli che occupano i posti più alti nei loro ambiti di riferimento. Da Serena Williams a George Clooney. E' immune a chiunque non sia famoso e di potere.

Non è una donna capace di umana gentilezza». L' apprezzamento forse è stato rafforzato dalla brusca rottura tra Talley e Wintour nel 2018. Senza preavviso fu sostituito da Liza Koshy per il report dal red carpet del Met Gala: evento mondano super glamour al Metropolitan di New York . «Sono troppo vecchio, troppo grasso e troppo poco cool», sarebbero le cause dello strappo, presume il giornalista di grande statura anche fisica (2 metri).

Uno dei primi afro-americani entrato nel mondo di Vogue, Talley conosce bene l' ambiente della moda. Fuggito dal segregazionismo della North Carolina, nel 1975 lavora come telefonista alla Factory di Andy Warhol. Qui conosce Diana Vreeland mitica direttrice di Vogue America, divenendo il suo assistente. Lei lo presenta alla Wintour, non ancora a capo di Vogue Usa che nell' 83 lo farà scrivere per la «Bibbia dello stile». Nel 1988 ormai a capo della rivista, Wintour cede a Talley la sua precedente posizione di direttore artistico. Noto per i look eccentrici, Talley, detto il «Mandela della moda», ha sdoganato gli afro americani nel fashion, lanciando talenti e modelle di colore. E con la sua mole ha infranto l' ossessione delle taglie in un sistema dove l' anoressia era una regola e non una malattia. 

Carole Hallac per “la Stampa” il 24 luglio 2018.

L' insolita carriera di André Leon Talley, ex direttore creativo di Vogue, tra i primi afro-americani a sfondare nel mondo della moda, è il soggetto di un documentario che sta riscontrando successo nelle sale cinematografiche americane The Gospel According To André. 

Diretto dalla regista Kate Novack, racconta la sua ascesa grazie alle testimonianze dello stesso Talley e di amici e colleghi, come Tom Ford e Marc Jacobs.

Un influencer

Un gigante del mondo della moda in tutti i sensi, Talley è un uomo alto quasi due metri, noto per il suo stile e la personalità esuberante. 

Cresciuto nella segregazione dell' America del Sud, è una delle figure più influenti in materia di stile degli ultimi decenni, o come lo chiama il musicista Will.I.Am, the Nelson Mandela of Couture . 

Originario della cittadina di Durham, North Carolina, è cresciuto dalla nonna in un' ambiente modesto ma dignitoso, che gli trasmette il senso della responsabilità e l' importanza della cura del proprio aspetto. In particolare, nelle domeniche in chiesa, l' unico luogo dove gli afro-americani potevano affermare la loro identità e uomini e donne si vestivano con grande eleganza. 

Il primo acquisto

L' evasione nell' adolescenza era nelle pagine di Vogue, ammirando le modelle di colore come Pat Cleveland, o guardando in tv l' esperta di cucina francese Julia Child, che lo ispira a imparare la lingua che gli aprirà nel futuro le porte degli atelier di couture parigini. 

Acquista in un negozio di seconda mano la prima cappa, un elemento essenziale del suo leggendario guardaroba, arricchito nel tempo da pellicce da zar, caftani preziosi, e un capotto in pelle di coccodrillo su misura di Prada.

Dopo una borsa di studio alla Brown University, arriva a New York nel 1974 e si offre come volontario al Costume Institute del Metropolitan Museum. L' iconica Diana Vreeland, a capo del dipartimento, lo adotta come assistente personale. 

Affiancandola, Talley impara il linguaggio della moda e prende anche i suoi manierismi. Le rimane vicino fino ai suoi ultimi giorni, come rivela Valentino Garavani: «Quando era malata le leggeva il giornale per raccontarle quello che succedeva nel mondo. Questo è il grande cuore di André» 

Grazie alla Vreeland inizia la carriera giornalistica da Interview, la rivista fondata da Andy Warhol (chiusa di recente), ma anche un' intensa vita sociale, andando a ballare ogni sera al Studio 54, senza però farsi sedurre dagli eccessi di sesso, alcool e droga, e rimanendo fedele al suo background conservatore.

Le interviste famose

La prima intervista è con Karl Lagerfeld, con il quale stringe un' amicizia, e poco dopo, si reca a Parigi a seguire le sfilate per il giornale Woman' s Wear Daily. La più significativa è quella di Saint Laurent del 1978, ispirata a Porgy and Bess e allo stile del Sud americano in cui Talley si riconosce. 

La sua carriera spicca il volo da Vogue grazie a Anna Wintour, che nel documentario ammette che lui, in tema di stile, ne sa molto più di lei. Indimenticabile il suo servizio di moda per Vanity Fair , con Naomi Campbell nelle vesti di Scarlett O' Hara, e John Galliano e Manolo Blahnik in quelle di servitore e giardiniere di gentiluomini di colore in un Via con il Vento all' inverso.

Sacrifici e lacrime

Se Talley non è mai sceso in piazza contro il razzismo, la sua carriera ha abbattuto enormi barriere, perché, come spiega: «il successo è la migliore vendetta», anche se ottenuto con tanti sacrifici, e affrontando discriminazioni. 

Le accuse ingiuste di essersi fatto strada andando a letto con gli stilisti parigini, e il crudele soprannome «Queen Kong», affibbiatogli da una pr di Saint Laurent, lo portano ancora alle lacrime, in uno dei momenti più toccanti del film.

La dedizione alla moda è stata a scapito della sua vita personale. «Non mi sono mai innamorato», ammette, nel giardino della sua casa di White Plain a Nord di New York. 

Il documentario non racconta la dipartita da Vogue, dovuta a un taglio di stipendi, un fatto che ha incrinato il suo potere. In un' intervista recente con il New York Times , rivela la crudeltà del mondo della moda, da cui si è sentito abbandonato perché, come dichiara: «La moda non si prende cura della sua gente». Grazie al documentario, il suo contributo però non sarà dimenticato. 

DAGONEWS. Da "nytimes.com" il 28 febbraio 2021.

André Leon Talley, l'esuberante e pionieristico redattore di moda nero che ha scosso l'industria lo scorso maggio con il suo libro di memorie, "The Chiffon Trenches", in cui ha criticato Anna Wintour e Karl Lagerfeld, è tornato a esporre parti del ventre fangoso della moda, anche se inavvertitamente. 

Dal 2004, il signor Talley, 72 anni, vive in una villa coloniale di 11 stanze a White Plains, appena a nord di New York City. Anni fa, George Malkemus, l'ex capo di Manolo Blahnik USA, e Anthony Yurgaitis, suo socio in affari e marito, comprarono la casa per circa $ 1 milione, con la consapevolezza che il signor Talley ci avrebbe vissuto e avrebbe pagato Malkemus e Yurgaitis ogni mese.

Malkemus e suo marito lo chiamavano "affitto", e i tre uomini hanno firmato un contratto di locazione di due anni, rinnovabile per altri otto anni. Quel contratto di locazione è scaduto nel 2014 e non è mai stato rinnovato e la quantità di denaro che Talley ha pagato ogni mese variava ampiamente a seconda del suo flusso di reddito. 

E poi, nel novembre 2020,  Malkemus e Yurgaitis hanno presentato istanza per sfrattare Talley. Alla fine di gennaio, Talley ha presentato una domanda riconvenzionale, dicendo che credeva che questi pagamenti fossero un investimento azionario destinato all'acquisto dell'immobile. Ma non è tanto il caso nello specifico che ci interessa, ma quanto spesso nella moda lavoro, amicizia e favori siano intrecciati. 

Più in generale, il problema della casa mette in luce un modello di comportamento endemico nel mondo della moda, in cui regali, favori e influenze sono la moneta di scambio e spesso è difficile dire cosa sia un affare e cosa sia personale. 

Può sembrare un fatto minore, ma non lo è: una borsa gratuita, nella speranza che un giornalista possa essere fotografata mentre la mostra in prima fila a una sfilata, serve come pubblicità per un marchio così come un viaggio gratuito per uno show in un paese lontano, con un biglietto e un hotel di prima classe, in cambio di una recensione diventa funzionale. 

Un settore in cui "regalare" è un verbo

Un rapporto molto stretto Talley lo aveva anche con Lagerfeld, nelle cui tenute trascorreva spesso le vacanze e i cui doni includevano una spilla Fabergé e un baule gigante di Louis Vuitton. 

«Se eri nella vita di Karl, ti vestiva - scrive Talley nel suo libro - Paloma Picasso e Ines de la Fressange erano vestite gratuitamente da Chanel e Fendi. Come lo era Tina Chow». E così anche Talley.

Sebbene questo fosse un esempio estremo di scambio di favori nella moda, è tutt'altro che unico. Nel suo libro di memorie, "Clothes ... And Other Things That Matter", Alexandra Shulman, ex direttrice di British Vogue, scrive di essere stata «dotata di due giacche Chanel dall'ufficio stampa londinese dell'etichetta subito dopo il mio arrivo a Vogue, nel 1992. Costavano circa mille sterline l’una». 

Shulman parla anche di redattori che arrivano a Parigi per trovare "armadi pieni di borse Chanel".

Ancora oggi, i prodotti, comprese le ultime scarpe da ginnastica, cosmetici e borse, vengono regolarmente ricevuti da alcuni potenti attori del settore - generalmente editori di riviste di moda patinate o influencer dei social media - da marchi che sperano in una copertura favorevole. 

Ma nella moda, che era ed è un settore in cui i salari sono notoriamente bassi e la pressione per rappresentare il marchio è notoriamente alta, è stata a lungo considerata parte dell'economia di base del settore e uno strumento di costruzione di relazioni (che spesso, per i marchi, è considerata una spesa di marketing). 

A volte le modelle vengono pagate per la sfilata o il servizio fotografico con abiti o accessori piuttosto che in contanti, o perché sono agli inizi o perché stanno facendo un favore a uno stilista che altrimenti non potrebbe permettersi di pagarle. Tali pratiche promuovono un ambiente in cui tutte le persone coinvolte sono condizionate a fare affidamento non sulla gentilezza di estranei, ma sulla generosità di conoscenti che gravitano nel mondo del lavoro.

Il business dell'amicizia

Inoltre, spesso nel mondo delle riviste esistevano accordi e favori tra datori di lavoro e alcuni dipendenti famosi. A Condé Nast, Talley ha iniziato a lavorare nel 1988, gli stipendi erano spesso integrati da indennità per l'abbigliamento, servizi di auto e ingenti rimborsi spese. 

I confini sono ulteriormente offuscati dal fatto che nella moda i rapporti professionali sono spesso coltivati in contesti non professionali: su una spiaggia per un servizio fotografico, dove tutti alloggiano nella stessa località; a cena al Caviar Kaspia di Parigi, per vedere uno spettacolo. Era pratica comune, nelle riviste patinate, assumere alcuni "redattori " per i loro contatti in modo che potessero esortare i loro amici a diventare “sudditi”. E con questi metodi l'obiettività è solo un miraggio.  

DAGONEWS il 25 aprile 2020.

André Leon Talley, giornalista ed ex direttore artistico di Vogue, vuota il sacco e nel suo libro di memorie "The Chiffon Trenches" rivela i dettagli della fine della sua amicizia pluridecennale con Anna Wintour, definendola una “persona incapace di gentilezza che lo ha scaricato perché troppo vecchio, troppo in sovrappeso e poco cool”.

Talley, 70 anni, ha parlato di Wintour come di una persona spietata che ha smesso di parlargli di punto in bianco, preferendo l’amicizia di “A-listers” come George e Amal Clooney, Serena Williams e Roger Federer: «È immune a chiunque tranne ai potenti e ai famosi che popolano le pagine di Vogue». 

Talley è stato un ospite fisso della prima fila di Vogue fino al 2013 ed era il volto delle interviste dal tappeto rosso al Met Gala fino al 2018 quando è stato sostituito dall'allora 22enne YouTuber Liza Koshy.

«Questa è stata chiaramente una fredda decisione commerciale – ha scritto Talley - All'improvviso ero diventato troppo vecchio, troppo in sovrappeso, troppo poco cool per Anna Wintour. Dopo decenni di lealtà e amicizia, Anna avrebbe dovuto avere la decenza e la gentilezza di chiamarmi o mandarmi una e-mail dicendo: "André, penso che abbiamo avuto un’esperienza meravigliosa insieme sul red carpet, ma proveremo qualcosa di nuovo. Avrei accettato. Capisco. Niente dura per sempre. Semplice gentilezza umana. No, lei non ne è capace. Mi chiedo, quando torna a casa da sola di notte, è infelice? Si sente sola?». 

Fonti di Condé Nast hanno riferito che la Wintour è rimasta profondamente ferita dal libro, sottolineando che le persone che lavorano con lei da decenni, non la pensano allo stesso modo. E se anche condividessero l’idea di Talley si guardano bene dal condividerla per non essere defenestrati.

Celeste Ferrio per "lastampa.it" l'11 giugno 2020.

Anna Wintour si scusa con gli afroamericani che lavorano per Vogue: in un memo allo staff la regina della moda si è cosparsa il capo di cenere per non aver aver fatto quanto in suo potere a favore di giornalisti, fotografi e stilisti di colore. 

"Condivido le vostre emozioni ed esprimo la mia empatia per tutto quello che state provando. Lo dico soprattutto ai neri del nostro team: non riesco a immaginare come abbiate vissuto questi giorni", ha scritto la Wintour nel giorno che ha visto la nomina della prima donna di colore, Samira Nasr, al timone del rivale «Harper's Bazaar». 

Anna si è assunta "piena responsabilità" per "errori e offese" commessi da Vogue durante il suo mandato. "Lo dico chiaro e tondo. So che Vogue non ha trovato abbastanza modi di dare spazio a giornalisti, fotografi, stilisti e altri creativi. E abbiamo sbagliato pubblicando immagini o articoli che possono aver ferito o riflesso razzismo". 

Le scuse della Wintour seguono di pochi giorni l'uscita di "Trincee di Chiffon", il memoir di una delle ex star della rivista, Andre Leon Talley, che l'aveva accusata di intolleranza ed estrema mancanza di sensibilità. "Non è capace di umana gentilezza" si legge nella biografia "e si sceglie gli amici senza alcuna pietà, scegliendoli tra quelli che occupano i posti più alti: George Clooney, Serena Williams, Roger Federer. Io non faccio più parte di quel gruppo perché sono diventato troppo vecchio, troppo grasso, troppo poco cool. Anna è immune a tutto, tranne che al potere". 

Il mea culpa della Wintour arriva anche sulla scia di una serie di dimissioni eccellenti nel mondo dei media per passi falsi commessi sul tema delle relazioni razziali, dal capo della pagina degli editoriali del “New York Times”, James Bennet, al direttore del “Philadelphia Enquirer”, Stan Wischnowski.

·        E’ morto lo stilista Nino Cerruti.

Moda, morto Nino Cerruti: lo stilista aveva 91 anni. Redazione Tgcom24 il 15 gennaio 2022.

E' morto all'ospedale di Vercelli, dove era ricoverato per un intervento all'anca, Nino Cerruti. Lo stilista e imprenditore, molto amato dalle star, aveva 91 anni. Discendente di una famiglia biellese di industriali tessili, è stato uno dei grandi protagonisti della moda del secolo scorso e ha lanciato giovani designer poi diventati famosissimi come Giorgio Armani. 

A soli 20 anni ereditò l'attività alla morte del padre, avvenuta nel 1950. Cavaliere del Lavoro, le star sceglievano i suoi abiti per partecipare agli Oscar o al Festival di Cannes. E' stato anche designer ufficiale della scuderia di Formula 1 Ferrari.  Coco Chanel adorava i suoi pantaloni, ma famosa è anche la prima giacca decostruita realizzata negli anni Settanta.

Addio a Nino Cerruti: lo stilista e imprenditore biellese aveva 91 anni. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.

Era ricoverato in ospedale a Vercelli per problemi di salute. Aveva fatto della moda e dello stile la sua ragione di vita. Nino Cerruti, stilista e imprenditore biellese è morto a 91 anni. Era ricoverato in ospedale a Vercelli per problemi di salute. Era nato in una famiglia di industriali, in quella Biella che stava crescendo e facendosi spazio in tutto il mondo per i suoi tessuti e il suo essere all’avanguardia nel settore. Cerruti ereditò l’attività alla morte del padre, ad appena vent’anni, interrompendo così gli studi di filosofia e giornalismo. Nel corso degli anni investì nella ricerca e nello sviluppo dei materiali e del design, ottenendo risonanza mondiale nel 1957, alla presentazione della sua prima linea di vestiario, la Hitman a Milano. Nel 1962 fondò insieme con Osvaldo Testa il marchio Flying Cross, il primo «Designer Line». A metà degli anni sessanta nel suo Lanificio Fratelli Cerruti si avvalse della collaborazione di nuovi nomi della moda italiana, assumendo come designer l’esordiente Giorgio Armani.La sua prima boutique apre nel 1967: Cerruti 1881 si trova a Place de la Madeleine a Parigi.

Negli anni settanta nasce la prima giacca decostruita. Ma soprattutto è da una sua intuizione che viene stabilito l’accordo di licenza in Giappone e USA al fine di incrementare la visibilità del brand a livello internazionale e per mantenere i prezzi competitivi in più mercati. Così come l’idea di una linea donna che vent’anni dopo rappresenterà il 20% del fatturato complessivo dell’azienda. Nel 1975 la Hitman inizia la produzione e la distribuzione della maglieria, delle camicie e della linea casual: Cerruti 1881 Brothers. Creatore di Bran di profumi che portano il suo nome, stilista a tutto tondo crea anche una nuova linea di sportswear particolarmente apprezzata per l’abbigliamento dedicato al tennis e allo sci, sponsorizzando atleti di fama mondiale come il tennista statunitense Jimmy Connors e lo sciatore svedese Ingemar Stenmark. La popolarità del marchio aumenta decisamente nel 1994 quando il brand viene nominato designer ufficiale della squadra di Formula 1 della Ferrari.

Nel 2000 Nino Cerruti viene nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica. Nel 2001 Cerruti Holding vende il marchio Cerruti 1881 per concentrarsi sul Lanificio Fratelli Cerruti dove Nino Cerruti lavorava ricoprendo il ruolo di presidente.

È morto Nino Cerruti, aveva 91 anni. «Un innovatore e creativo visionario». Gian Luca Bauzano su Il Corriere della Sera il 15 Gennaio 2022.

Lo stilista e imprenditore, è morto oggi. Era ricoverato a Vercelli per un intervento all'anca. «Simbolo dello stile italiano», lo ricorda Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale Moda Italiana. «Un gigante dell’imprenditoria», per il viceministro Pichetto. 

Nino Cerruti, uno dei nomi più noti della moda italiana, è morto oggi all'età di 91 anni. Era ricoverato all'ospedale di Vercelli a causa di un intervento all'anca. 

Biellese, aveva ereditato giovanissimo l'impresa di famiglia, che aveva iniziato a guidare nel 1950, all'età di 20 anni. Nel corso di decenni di carriera, aveva lanciato giovani designer poi diventati famosissimi come Giorgio Armani. Coco Chanel adorava i suoi pantaloni, ma famosa è anche la prima giacca decostruita realizzata negli anni Settanta. Cavaliere del Lavoro, è stato anche designer ufficiale della scuderia di Formula 1 Ferrari.

Considerato maestro di stile ed eleganza, vero signore della moda, il suo nome ha identificato l’eccellenza dello stile nel jet set mondiale, da Hollywood alla Formula 1. Il suo nome è legato all’invenzione della giacca maschile decostruita. Nata proprio nel periodo, a metà degli anni Sessanta, in cui Cerruti aveva assunto tra i suoi collaboratori talenti come Giorgio Armani. Era nato a Biella il 25 settembre 1930, da una famiglia di industriali tessili. Giovanissimo, a soli 20 anni, perse suo padre ed ereditò l’attività. Evento che lo costrinse ad interrompere bruscamente gli studi di Filosofia e Giornalismo. Ma la vocazione per la moda era nel suo dna.

Nel 1957 comincia a ottenere un successo internazionale confermato con la presentazione a Milano della sua prima linea di abbigliamento: Hitman. Un lustro dopo, nel 1962 fonda con Osvaldo Testa il marchio «Flying Cross», la prima “designer line”. A Parigi nel 1967 inaugura la prima boutique «Cerruti 1881» a Place de la Madeleine. In quel periodo nel suo Lanificio Fratelli Cerruti inizia la sua folgorante carriera Giorgio Armani. La visione della moda di Nino Cerruti era internazionale: da creativo geniale e imprenditore lungimirante stringe accordi di licenza in Giappone e Stati Uniti per aumentare la visibilità del brand e mantenere i prezzi competitivi.

Sempre negli anni Sessanta nasce la linea donna. Nel 1975 la Hitman inizia produzione e distribuzione di maglieria, camicie e casual, con il marchio «Cerruti 1881 Brothers». Degli anni Settanta è il lancio del primo profumo maschile legato al marchio: Nino Cerruti. Nel successivo decennio il lancio della linea sportswear: abbigliamento dedicato a tennis e sci, due sport dove sponsorizza campioni come il tennista statunitense Jimmy Connors e lo sciatore svedese Ingemar Stenmark. Il marchio ha un successo globale e nel 1994 il brand diventa designer ufficiale della squadra di Formula 1 della Ferrari.

Sempre negli anni Novanta vengono lanciati due nuovi profumi, Cerruti 1881 Pour Homme e Cerruti 1881 Pour Femme, prodotti e distribuiti da Elizabeth Arden. Inoltre vengono aperti negozi monomarca in Cina, Hong Kong, Thailandia ed Indonesia. Nel 1995 comincia la produzione della linea femminile «Cerruti Arte». Nel 1998 viene presentato il nuovo profumo maschile Cerruti Image e nello stesso anno viene aperto il negozio Cerruti a Madison Avenue a New York.

Nel 2000 Cerruti apre un flagship store ad Hong Kong. Nello stesso anno viene lanciata la versione femminile del profumo Cerruti Image. Sempre nel 2000 Nino Cerruti viene nominato Cavaliere del Lavoro dal Presidente della Repubblica. Il marchio Cerruti 1881 viene venduto nel 2001 da Cerruti Holding, per concentrarsi sul Lanificio Fratelli Cerruti. Tra i premi ricevuti da Nino Cerruti, a testimonianza di una carriera dal successo mondiale, il Bath Museum of Costume Dress of the Year Award, nel 1978 in Gran Bretagna ed il Pitti Uomo Award, a Firenze nel 1986.

Immediate le reazioni di cordoglio, a partire da quelle delle istituzioni. «La morte del manager e stilista Nino Cerruti mi addolora molto: con lui va via un gigante dell’imprenditoria italiana e un pezzo significativo di storia biellese — ha commentato il viceministro dello Sviluppo economico, Gilberto Pichetto —. Lo ricorderò sempre con affetto e stima, per le sue intuizioni, la competenza e la lungimiranza con cui ha fatto grande la moda italiana, esportando il nostro made in Italy nel mondo».

«Un grande innovatore, un creativo visionario e precursore di molte realtà di oggi», lo definisce Carlo Capasa, presidente di Camera Nazionale Moda Italiana. «Ci legava un rapporto di tanti anni. Un uomo unico e spesso gli ripetevo che era l’uomo più chic d’Italia. Non solo per le sue scelte come creativo e imprenditore, ma anche personalmente. Aveva il perfetto phisique du role per rappresentare l’eleganza maschile e italiana».

«Lascia una grande eredità: il coraggio di investire e di credere nei giovani. Fu lui a credere in un giovanissimo Giorgio Armani di cui è stato maestro — continua Capasa —. Ha visto in maniera anticipatrice il potenziale della moda maschile e la necessità di focalizzarsi su questo universo di stile».

Alla notizia della scomparsa di Nino Cerruti, così ha commentato Giorgio Armani: «Apprendo con grande tristezza della scomparsa di Nino Cerruti. Nonostante negli anni i nostri contatti si fossero diradati, l’ho sempre considerato una delle persone che hanno avuto una reale e positiva influenza sulla mia vita — ha evidenziato lo stilista —. Da lui ho appreso non solo il gusto della morbidezza sartoriale, ma anche l’importanza di una visione a tutto tondo. Come stilista e come imprenditore. Il signor Nino aveva uno sguardo acuto, una curiosità vera, la capacità di osare. Mancherà quel suo modo gentile di essere autorevole e anche autoritario».

Profondo il dolore che giunge da Biella, città natale di Cerruti. Lo celebrano le parole del sindaco della città piemontese, Claudio Corradino: «Nino Cerruti non è stato solo un imprenditore illuminato ma è stata una persona che ha fatto conoscere Biella e il Biellese nel mondo nel migliore dei modi. Con classe, eleganza ma anche con quel suo modo di porsi che lo rendeva uno straordinario gentiluomo. Tra le sue tante nomine non poteva che esserci anche quella di Cittadino Onorario di Biella. La città è in lutto e non può fare altro che stringersi con calore attorno alla sua famiglia».

Ha poi continuato: «Nino Cerruti ha conquistato i mercati. E lo ha fatto da massimo esponente di quel sapere fare Biellese: eccellenza nel lavoro unita a una passione che ha saputo fare la differenza. Ha guadagnato la stima dei grandi della moda. Bella la sua frase in una delle ultime uscite pubbliche: “Abbiamo nelle mani delle risorse straordinarie ma siamo i primi a gestirle con timidezza. In questo mondo se non sei un po’ incosciente vieni messo in un angolo e noi in un angolo non ci dobbiamo andare”. Grazie Nino, per quello che sei stato e per l’immagine che hai dato di Biella nel mondo». 

Fabiana Giacomotti per il Foglio il 16 gennaio 2021.

Volendo, ci sarebbe anche un quarto aneddoto per ricordare Cerruti, morto sabato 15 gennaio a 91 anni all’ospedale di Vercelli dove era ricoverato, a pochi chilometri dal celeberrimo lanificio di famiglia, a Biella: il vezzo di farsi chiamare da tutti “il signor Nino”. 

Armani, che pochissimi chiamano Giorgio, e tutti “il signor Armani”, deve aver modellato anche questa piccola civetteria da quell’uomo altissimo, dai modi imperiosi ma anche sorprendentemente gentili: d’altronde, come si diceva nelle famiglie perbene di un tempo, di dottori è pieno il mondo, di signori no. 

Dunque, addio signor Nino: “Da lui ho appreso non solo il gusto della morbidezza sartoriale, ma anche l’importanza di una visione a tutto tondo, come stilista e come imprenditore”, ha scritto Armani pochi minuti fa sul suio profilo Instagram: “Aveva uno sguardo acuto, una curiosità vera, la capacità di osare”. Aveva anche uno stile personale inimitabile.

L’ultima volta che ci parlammo, circa un anno fa (“conosci per caso Nino Cerruti?”, mi domandarono da una redazione importante ma composta di giovanissimi, che non osavano scomodare il mostro sacro), indossava ancora le camicie avvolte sul corpo come Audrey Hepburn. Il signor Nino non le abbottonava: ne sovrapponeva i lembi, li infilava nei pantaloni, li stringeva con la cintura, quindi vi sovrapponeva una giacca, un maglione, quel che gli garbava in quel momento. L’effetto era leggermente distonico, dunque attraente per l’occhio, che tende ad annoiarsi per l’eccessiva simmetria: “Lo stile è equilibrio, con un colpo di teatro”, osservò compiaciuto.

Fu lui, e nessun altro, il primo stilista a destrutturare l’abito formale e a portare la sovrapposizione del genere vestimentario alle masse (per intenderci: già Orry Kelly vestiva Marlene Dietrich in giacca, cravatta e pantaloni con le pinces negli Anni Trenta del Novecento, ma è stato difficile vedere donne in tailleur pantalone fino a tutti i Settanta e molto grazie a Cerruti). Detestava gli abiti aderenti al corpo, che non lo accompagnano nei movimenti e ne accarezzano i pensieri. Quelli soprattutto, i pensieri, che per lui dovevano fluire liberi, senza preclusioni nemmeno nell’abito: la metà dei quarantenni che adesso vanno per la maggiore con l’agender forse nemmeno sanno quanto debbano al signor Nino.

Era fluido prima che il termine diventasse di moda, ma detestava la sciatteria. Le tute ubique del primo lockdown furono argomento di precisazione: “Il diritto di essere confortevoli ha un limite, ma anche un paio di pantaloni della tuta possono essere eleganti, magari indossati con un certo maglione: tutto dipende da chi li porta e da come si armonizzano con la sua personalità”.

Avrebbe voluto insegnare filosofia. Invece, la scomparsa prematura del padre lo costrinse a occuparsi del lanificio di famiglia: Cerruti, ufficialmente nata nel 1881, in realtà esistente alla voce “arti et negotij” degli archivi comunali di Biella già alla metà del Settecento. Aveva comunque la stoffa dell’imprenditore, e si vide subito, nel 1957, con la nascita della prima fabbrica di pret-à-porter elegante da uomo, la Hitman.

Alla fine degli Anni Sessanta, apriva la prima boutique di Parigi, a pochi passi dalla rue Cambon dove lo riceveva la terribile mademoiselle “anziana ma ancora molto sexy”: gli spazi erano stati disegnati da Vico Magistretti, suo grande cliente. Le donne in pantaloni, le donne “in abbigliamento maschile”, come si diceva quando questa definizione aveva ancora un senso, hanno continuato a essere le sue preferite. 

Come ovvio, metteva ogni attenzione nella scelta del tessuto. “E’ come un quadro”, diceva: “Da lontano sembra una tinta unita ma da vicino si scoprono tutti i giochi di intrecci e i colori che lo compongono”, e aggiungeva: “Lo sa che in Estremo Oriente i tessuti sono la prima espressione d'arte?”. Il presidente Carlo Azeglio Ciampi lo nominò cavaliere del lavoro nel Duemila. 

Credo che gli sarebbe piaciuta di più la nomina a tesoro nazionale, che in Giappone è qualifica riservata ai grandissimi artisti del bello, in qualunque forma esso si esprima. Per lui, il bello era la “nobile arte” del filo, della tessitura e delle sue infinite possibilità di trasformarsi in racconto della persona, della sua storia. Alla tecnica tessile, la narrativa e il cinema devono molto del proprio lessico: la trama, l’ordito, il filo, l’avere stoffa, e ancora i ruoli “cuciti addosso”, che per il signor Nino erano un fatto reale, replicato in decine di film da costumista e tre interpretati nel ruolo di se stesso, in cammeo.

Degli attori amava dire cose leggere e gradevoli, per esempio che “vivendo fra la fantasia e la realtà trasferiscono sensazioni molto interessanti e stimolanti”, ma è un fatto che, oltre ad aver stretto amicizia con Jack Nicholson, che nel 1995 vestì con decine di completi neri per “The crossing guard – tre giorni per la verità” (“aprii la fabbrica di notte perché voleva tutto pronto in una settimana”), Cerruti avesse affrontato il cinema con la serietà di un Piero Gherardi, cioè leggendo le sceneggiature, osservando le scenografie, immaginando il personaggio oltre la maschera: “Il gioiello del Nilo”, Richard Gere in Pretty Woman, Michael Douglas in Basic Instinct, e ancora Anthony Hopkins ne Il silenzio degli Innocenti. L’abito come parte di un tutto ed espressione di un modo di essere che necessita del carattere di un uomo per attivarsi come forza ed energia. L’essenza del made in Italy è questa, diceva, ed ebbe modo di scoprirlo appena trentenne quando lanciò appunto il color ottanio con il sostegno dell’industria dell’auto.

Un libro sulla storia del settore (“1770. The Bianchi, the forge, the steel”, 2014) ricorda così l’episodio: “fashion shows runways featured grand trendsetters like Nino Cerruti and Anita Ekberg launching Ottanio, or petroleum blue”. Non si trattò di una sfilata, ma di una grande presentazione a Roma: lungo i Fori e nei luoghi più suggestivi di Roma sfilarono venti Lancia “custom made”, e da una di queste scese la Ekberg, fresca del successo della Dolce Vita, in un abito color ottanio che Nino Cerruti aveva disegnato per lei. In quell’occasione, Cerruti comprese il potere della comunicazione trasversale e della messa a sistema delle tante eccellenze italiane. Fece due errori: rifiutò di vendere a Bernard Arnault, nei primi Anni Novanta (“arrivò troppo presto, quando ancora ero impegnato a tempo pieno), e fece invece società con Gianluigi Facchini e la Fin.Part. Un colossale abbaglio: sull’ormai celebre “bond Cerruti” da 200 milioni di euro, nel 2004 andò a rotoli il sogno di costituire il primo polo del lusso italiano, che poi nessuno ha mai portato davvero a compimento.

Il Lanificio Cerruti ora fa parte del fondo anglo-londinese Njord Partner; il signor Nino ne conservava una quota del 20 per cento e la carica di vicepresidente. Il figlio Silvio lo affiancava già da molti anni nell’operatività. “La moda attrae molto sovente industrie o figure che non godono della sua stessa capacità di seduzione e moltiplicazione positiva di immagine,” mi disse, prima di chiudere l’incontro: “Ma è un animale che va accarezzato per il verso del pelo. Per conquistarlo non basta averlo comprato. Non bastano i soldi”. 

·        E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.

Marco Giusti per Dagospia il 14 gennaio 2022.

Anche se i critici più snobboni non lo hanno mai amato e perfino in Francia c’era chi arricciava il naso davanti ai suoi film, “La Francia è il peggior posto dove stare, per un regista francese”, sosteneva, la sua Betty Blue interpretata da una sconosciuta e favolosa Beatrice Dalle, accompagnata dalla languida e ipnotica musica di Gabriel Yared fu una grande invenzione di immaginario cinematografico. 

Forse l’ultima grande storia di amour fou vista al cinema. Se ne va nella sua Parigi, a 75 anni, dopo lunga malattia, Jean-Jacques Beineix, autore di film di successo come “Diva” e, appunto, “Betty Blue”, che in Francia si chiamava “37°2 le matin”, ma anche di flop, come “Lo specchio dei desideri”/“La lune dans le canivau”, e di film sfortunati, come “I.P. 5  - L’isola dei pachidermi”, dove a lavorazione ancora non terminata se ne andò per un infarto il grande Yves Montand.

Beinex faceva parte di un gruppo di registi non particolarmente amati dalla critica dei “Cahiers” o da Cannes, assieme a Jean-Jacques Annaud, Luc Besson, considerati maestri del “cinema del look”, un po’ pubblicitari, insomma. E non troppo intellettuali. Anche se i film di Beineix, quasi tutti noir, con situazioni estreme d’amore e di follia, ha indubbiamente una sua coerenza. Nato nel 1946 a Parigi, dopo gli studi di medicina, fa una lunga gavetta da assistente alla regia per tutti gli anni ’70.

Inizia con Jean Becker su “Les Saintes Chéries”, ma lavora anche con Claude Berri, quello forse che gli ha insegnato di più nella doppia veste di regista e di produttore, con René Clement su “La corsa della lepre attraverso i campi”, dove conosce Robert Ryan, con Jerry Lewis, suo grande idolo, per il maledetto e mai uscito “The Day The Clown Cried”, infine con Claude Zidi per grandi successi come “L’ala o la coscia” e “L’animale” e con l’americano Willard Huyck per “Baci da Parigi”.

Nel 1977 gira da regista il corto “Le chien de Monsieur Michel”, che vince un Cèsar, e nel 1981 può passare alla sua opera prima, “Diva”, tratto da un romanzo di Daniel Odier con Richard Bohringer, Wilhelmina Fernandez, Thuy An Lulu, tratto da un romanzo di Daniel Odier, che sarà una rivelazione per tutti. Anche se all’inizio fu un flop. “Alla critica non era piaciuto per niente”, ricordava “e l'hanno stroncato. In particolare i critici della Nouvelle Vague.

Hanno detto che c'era troppo stile e poca sostanza, il che non è affatto vero, perché dice molte cose. Si parla di pirateria e riproduzione. L'intero film parla della duplicazione e di un mondo che non è più solo un mondo di realtà fisica, ma un mondo di vetrine, un mondo di pubblicità, un mondo di comunicazione”. Ma dopo un anno il film viene rilanciato in America.

“La risposta è arrivata dal pubblico di Toronto: gli hanno riservato una standing ovation! Ero appena atterrato, totalmente in jet-lag, entro nel teatro e tutti si alzano in piedi e applaudono. Pensavo di essere in un sogno, o in un incubo”. Il film lo lancia quindi a livello internazionale. Al punto che il suo secondo film, “La lune dans le caniveau”/”Lo specchio desideri” , tratto da un romanzo di David Goodis, verrà girato con grandi mezzi a Cinecittà e presentato a Cannes. “Pensavo di fare qualcosa di grande”, dirà.

“Ho girato su un grande palcoscenico di Cinecittà tra le scenografie di Sergio Leone, che stava girando C'era una volta in America, e Federico Fellini, che stava girando E la nave va. (..) L'ho girato nello studio più magico del mondo. E’ stato come un sogno meraviglioso, dove volavo sulle ali della vittoria. E poi, bang, bang, bang: vengo abbattuto. È stato spaventoso”. Il film, interpretato da un Gerard Depardieu che beveva davvero troppo, Nastassja Kinski, Victoria Abril, dal nostro Vittorio Mezzogiorno e Rosa Fumetto, non viene capito. La critica lo massacra e il pubblico gli volta le spalle. Quando anni dopo tenterà di rimontarlo in una nuova edizione scoprirà che tutto il materiale era stato buttato.

Ma sarà un grande successo internazionale il suo terzo film, “Betty Bleu”/”37°2 le matin”, storia d’amor fou fra Jean-Hughues Anglade come Zorg e l’inedita Beatrice Dalle come Betty che si impone con una carica sexy raramente vista al cinema. “Questo film è arrivato come una favola, come una cometa dal cielo. Mi è stato inviato questo romanzo da Philippe Djian, che non era stato ancora pubblicato. Ho letto il libro e mi è piaciuto. Fin dall'inizio, ero innamorato dei personaggi e della storia. È stato il film più semplice che abbia mai fatto.

Ciò che ha attratto il pubblico di tutto il mondo è stato il fatto che una storia d'amore deve essere grande e questa è stata una grande storia d'amore”. La storia d’amore tra Zorg e Betty, in realtà, prese così tanto i due protagonisti da uscire dalla finzione e da vivere loro stessi una storia d’amor fou. Beatrice Dalle, allora ventenne, che si era da poco sposata col pittore Jean-François Dalle, lo lascerà alla fine del film e lui si toglierà la vita. Con “Betty Blue”, visto da 3 milioni e mezzo di spettatori in Francia, Beineix arriva al successo.

Il film ha un così grande culto in Francia che in tanti vanno ancora a vedere lo chalet sul mare di Gruissan, vicino a Narbonne, dove vivono i due protagonisti. E la versione uncut di tre ore montata dal regista per il blue ray esalta ancora di più la presenza di grande erotismo di Beatrice Dalle e la magia tra i due attori. I film successivi, però, non avranno lo stesso successo internazionale di “Betty Blue”. Né “Roselyne e i leoni” né “IP 5 – L’isola dei pachidermi” con Yves Montand nel suo ultimo lavoro, né i film che girerà negli anni ’90, “Otaku” e “Assigné a resident”. Il suo ultimo lungometraggio di fiction è “Mortal Transgert” con Jean-Hughues Anglade e Hélène de Fougerolles del 2001. Passerà al documentario, alla tv, scrivevà perfino un romanzo nel 2020, “Toboggan”. Con l’arrivo di Netflix, però, il film non in lingua inglese più visto sulla piattaforma in tutto il mondo sarà proprio “Betty Blue”.

·        E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.

 (ANSA il 13 gennaio 2022) – Spector, leader del gruppo pop The Ronettes e potente voce dei suoi hit come "Be My Baby" e "Baby I love You" è morta di cancro a 79 anni. Lo ha annunciato la sua famiglia. La cantante, un'icona degli anni '60, aveva formato il gruppo tutto femminile nel 1957 con la sorella maggiore Estelle Bennett e la cugina Nedra Talley. 

"Il nostro amato angelo terreno, Ronnie, ha lasciato pacificamente questo mondo oggi dopo una breve battaglia col cancro", ha reso noto la famiglia. "Ronnie ha vissuto la sua vita con il luccichio negli occhi, una attitudine coraggiosa, uno spettacolare senso dello humor e un sorriso sulla faccia", prosegue la sua nota. Nata Veronica Greenfield a New York il 10 agosto 1943, Spector era figlia di una madre afroamericana-cherokee e di un padre di origini irlandese. 

The Ronettes, il gruppo che formò con la sorella e la cugina, si affermò nella Grande Mela grazie ad appassionate canzoni d'amore, prima che Ronnie firmasse nel 1963 con l'allora leggendario produttore Phil Spector, che poi sposo'. Con i loro occhi da vampiro pesantemente truccati, le loro acconciature da alveare altissime e gonne sopra il ginocchio, la band segno' gli anni '60 con una seri di hit, tra cui "Baby, I Love You" e "(The Best Part of) Breakin' Up", insieme a "Be My Baby" che nel 1999 fu inserita nella Grammy Hall of Fame. 

Con le Supremes, le Ronettes furono tra i primi gruppi di cantanti, e il primo femminile, ad andare in tour con i Beatles, aprendo i loro concerti nella tournee' del 1966. Il trio è entrato nella Rock and Roll Hall of Fame nel 2007,

Dagotraduzione da Pagesix il 15 gennaio 2022.

Zendaya, che interpreterà Ronnie Spector in un film biografico in lavorazione, ha pubblicato su Instagram un sincero tributo alla cantante, morta mercoledì scorso. «Questa notizia mi spezza il cuore. Parlare di lei come se non fosse con noi è strano perché era così incredibilmente piena di vita». «Non c’è stata una volta che l’ho vista senza le sue iconiche labbra rosse e i capelli tinti, una vera rockstar in tutto e per tutto». 

Zendaya, 25 anni, ha detto quanto fosse grata di aver avuto l’opportunità di conoscere la cantante di “Be My Baby”. «Ronnie, averti conosciuta è stato uno dei più grandi onori della mia vita», ha scritto. «Grazie per aver condiviso la tua vita con me, avrei potuto ascoltare le tue storie per ore e ore. Grazie per il tuo talento smisurato, il tuo amore incrollabile per le esibizioni, la tua forza, resilienza e la tua grazia».

«Non c'è assolutamente nulla che possa attenuare la luce che hai proiettato. Ti ammiro così tanto e sono così grata per il legame che condividiamo. Sei una forza magica di grandezza e il mondo della musica non sarà più lo stesso». 

Zendaya ha concluso il suo post dicendo che avrebbe voluto che tutti avessero avuto la possibilità di conoscere Spector prima che perdesse la sua battaglia contro il cancro. L'attrice spera anche che la sua interpretazione della rocker degli anni '60 renda Spector «orgogliosa». 

«Celebriamo la tua bella vita e ti regaliamo tutti i fiori che meriti così giustamente. Riposa in grande potere Ronnie. Spero di renderti orgogliosa», ha detto.

Zendaya ha accompagnato il suo dolce messaggio con una foto in bianco e nero di Spector, insieme a una polaroid scattata con la cantante delle Ronettes. 

L'anno scorso, la star di "Spider-Man: No Way Home" ha firmato per recitare nel ruolo di Spector in un film biografico in arrivo. Il film, che Spector aveva firmato come produttore esecutivo, sarà basato sull'inizio della carriera della cantante, sulla formazione delle Ronettes e sulla firma per la Philles Records di Phil Spector, secondo quanto riportato da Variety all'epoca.

 Marco Molendini per Dagospia il 16 gennaio 2021.

Cinquantanove anni fa quel pazzo di Phil Spector era in studio alla ricerca di nuove voci femminili. “Ecco quello che cercavo”, gridò smettendo di suonare il piano e alzandosi in piedi dopo aver sentito ‘’Why do fools fall in love’’, un vecchio successo doo wop proposto da tre ragazze che ci provavano da un po’ senza sfondare. 

A entusiasmarlo era la solista, Ronnie Bennett, ventenne dalla voce infantile, intensa e malinconica (destinata poi a diventare sua moglie e ad assaggiarne le mattane private a cominciare dalle minacce di ucciderla e chiuderla in una bara che teneva nel seminterrato). 

Quel giorno di marzo nacquero le Ronettes come fenomeno musicale, ma soprattutto trovarono sbocco le idee di quell’irrequieto inventore e cucinatore di suoni venuto dal Bronx con sogni di grandezza musicale. 

Ronnie se ne è andata nei giorni scorsi, a un anno di distanza dal suo instabile ex ma geniale marito e, quella stagione, riaffiora così nella memoria, ricorda e ammonisce. Ricorda che, nella musica, la ricerca del suono si è perduta. L'uniformità di quello che si ascolta non è frutto solo della mancanza di idee, di talenti, di iniziativa. 

La fabbrica, con rarissime eccezioni, è dominata da produttori che lavorano sull’ algoritmo delle visualizzazioni e degli ascolti streaming. Il pericolo, ovviamente, è una monocultura sonora accompagnata dal fatto che l'ascolto  è delegato in gran parte a uno strumento grande come una mano, lo smartphone, con cuffie che, per quanto fedeli, non educano l'orecchio al particolare. 

Phil Spector quando ascoltò per la prima volta le Ronettes era stanco di sentire band che facevano un rock‘n’roll semplice e naif e avvertiva l'urgenza di dare un sound immaginifico al pop prendendo un riferimento gigantesco, i muri di suono sinfonici di Wagner.

La prova centrale del suo esperimento è ‘’Be My Baby’’, un classico pop, esempio esplicito di quello che sarebbe stato battezzato Wall of Sound, immagine peraltro suggerita da eclatanti precedenti storici. 

La definizione ha origine nel 1874, con il New York Times che riporta le parole di Richard Wagner a proposito dei lavori di ristrutturazione del Teatro dei Nibelunghi a Bayreuth dove, per la prima volta, l’orchestra sarebbe stata collocata in una fossa fuori dalla vista del pubblico (il golfo mistico) producendo così un immaginario “Wall of music” destinato a separare il reale dalla fantasia.

Il termine, modificato in ‘’Wall of sound’’ tornò in auge con i fiati enfatici del jazz di Stan Kenton. Poi, ecco sbucare quel pazzo di Spector che, per un quinquennio, diventa il suono dell’America giovane, in attesa della seconda rivoluzione del rock. 

‘’Be My Baby’’ è un tuono nel panorama musicale di quei primi anni Sessanta, mai un pezzo pop aveva mostrato tanta potenza, mai un pezzo pop era stato sottoposto a una cura strumentale simile, un vero booster sonoro.

Lo Spector sound denso e prepotente di Phil era il risultato di una tecnica che puntava sulla ricchezza di una trama di voci, archi e ottoni raddoppiandoli o triplicandoli per creare una massa sonora continua che si sommava alla classica e rudimentale strumentazione basso-chitarra-batteria del pop rock. 

A sostenere l’impalcatura una potente base ritmica: il ”boom ba boom bop” introduttivo di ‘’Be my baby’’, cordone ombelicale su cui poggiano quell’imponente strumentazione e le voci delle Ronettes, è uno dei ritmi di batteria più riconoscibili della musica popolare, prodotto da un percussionista speciale, Hal Blaine, uno che si era fatto le ossa con Count Basie e poi, nella sua carriera, lascerà la firma su successi come ‘’Strangers in the night’’, ‘’Monday, monday’’, ‘’Good vibrations’’, ‘’Mrs Robinson’’, ‘’Bridge over troubled water’’.

La canzone delle Ronettes diventa subito un successo incredibile. Trainata dalla sua comunicabilità diretta, dalla voce di Ronnie incastonata in quella confezione così roboante, si afferma come uno dei classici più riconoscibili della storia del pop.

Ma segna anche una svolta nella crescita dell’industria musicale popolare, l'affermarsi dell’idea che la costruzione di un brano sia sottoposto a una procedura creativa in cui svolgono un ruolo determinante arrangiatori e produttori, una funzione persino dominante rispetto agli interpreti. Anzi gli interpreti dipendono da quel lavoro, un lavoro di alta sartoria capace di fabbricare un suono su misura, come se fosse, appunto, un vestito. 

È una svolta che sa di voglia di nuove tecnologie, di desiderio di affrancare la musica pop, nelle mani e nelle orecchie degli adolescenti, dai sistemi di riproduzione rimasti essenzialmente gli stessi dei genitori: juke box, radio e dischi con piccoli altoparlanti guidati da amplificatori di limitata potenza. 

L’unico modo per dare forza e impatto alla musica è farla suonare più ricca al momento dell'esecuzione, non curandosi dei rischi di distorsione o dei riverberi che, anzi, vengono cercati. I dischi che Spector realizza tra il 1961 e il 1966, nell'idea che la musica suoni meglio quando è ad alto volume, sono così compressi che esplodono dal più piccolo altoparlante. Sono più rumorosi della vita. E' il pop che grida la propria forza. 

Ma poi è proprio la tecnologia ad atterrare di lì a poco lo Spector sound con l’avvento di amplificazioni potenti che spingono la musica nei festival, nei concerti, nell'ascolto casalingo. L’instabile Phil, che non ha ancora trent'anni, entra in crisi, con il colpo finale dello scarso successo di ‘’River deep, mountain high’’ di Ike e Tina Turner, su cui puntava tantissimo. 

Poi, dopo due anni, torna in gioco. Quando i Beatles lo chiamano per ‘’Let it be’’, Paul McCartney si lamenta delle orchestrazioni e dei cori pesanti di ‘’The long and winding road’’, ma forse più che altro lo urta il fatto che Spector sia andato avanti per conto suo, senza consultarlo. 

L’idea che Phil ha del suo ruolo è granitica, si considera il regista che organizza la musica, gli artisti sono la sua troupe (come aveva sperimentato Tina Turner costretta a ripetere all’infinito ‘’River deep, mountain high’’). Lennon, comunque, continuerà a chiamarlo: dietro la confezione del suo successo più grande, ‘’Imagine’’, c'è la sua mano con quegli archi che attribuiscono una solennità da inno al pezzo. 

Così  lo chiameranno Leonard Cohen, i Ramones, e al suo muro di suoni si riferiranno i Sex Pistols con le venti sovraincisioni di chitarra orchestrate e cariche di feedback di ‘’Anarchy in the U.K’’. e ‘Bruce Springsteen con ‘’Born to run’’. 

L'avventura, tutto sommato breve e agitata di Phil Spector, resta alla fine come segno indelebile di innovazione al di là dell’invenzione del Wall of sound, perchè il suo lavoro ha disegnato la figura del produttore pop, nell’idea che lo studio possa essere uno strumento da far suonare. E che il suono sia la voce dell’originalità. 

Forse dalla sua imperiosa e immaginifica follia dovrebbero imparare qualcosa anche le legioni di produttori che comandano la piattezza del panorama musicale contemporaneo, dove mancano sonoramente maghi della musica come Spector, George Martin (quanto c’è di suo nei Beatles maturi?), Quincy Jones (ascoltare il Michael Jackson con lui e quello senza), Ennio Morricone (quanto deve la storica Rca al suo estro?), Brian Eno (gli U2 migliori, David Bowie berlinese, Talking Head). 

Barbara Costa per Dagospia il 13 gennaio 2022. 

“La prima volta che toccai il cielo con un dito fu quando mi svegliai con Ronnie addormentata sorridente al mio fianco. Non si può chiedere di meglio. Eravamo ragazzi. Mi aveva portato a casa dei suoi genitori, nella sua camera da letto. L’avrebbe fatto molte altre volte, ma quella era stata la prima. E io ero solo un chitarrista”. E sapete come si chiama questo chitarrista? Keith Richards! Dei Rolling Stones!

Ma è questa Ronnie allora a essere ben più famosa di lui, perché la fortunata a letto con Richards è Ronnie Spector, leader e voce solista delle Ronettes, gruppo da hit scala classifica negli anni Sessanta. Ragazzi, "Be My Baby" è lui! È Keith Richards il protagonista, il destinatario, l’amato di cui canta e sospira Ronnie – morta di cancro ieri – in questa canzone delle Ronettes la più celebre, un successo clamoroso che parla della loro relazione segretissima e clandestina.

Siamo nel 1964 e i Rolling Stones sono al loro primo tour americano. Le Ronettes sono molto più famose di loro, sono la band del momento, sono prime in classifica, e Ronnie a 21 anni ha già alla spalle dieci anni di carriera, essendo una bambina prodigio che ha calcato palchi e teatri appena 11enne. Lei con la sorella maggiore Estelle e la cugina Nedra formano il trio delle Ronettes alla conquista del mondo. Sono i manager che decidono di accoppiare in tour i ragazzini Rolling Stones e le ragazzine Ronettes, in giro per gli USA, sullo stesso autobus, ma non negli stessi hotel (le Ronettes hanno la pelle scura, sono un misto di sangue irlandese, cherokee, afroamericano), sì, ma… a cosa vuoi che servano tali distanze quando hai 20 anni? “Fu una questione di ormoni”, scrive Keith Richards nella sua autobiografia.

“Quelli furono i giorni più felici della mia carriera”, gli fa eco nella sua Ronnie: “Keith e Mick non avevano ancora avuto molto successo, e in America più di una volta dormirono a casa mia, e la mattina mia madre si alzava per cucinarci uova e pancetta. Li portai a vedere James Brown. Ricordo che Mick se ne stava lì impalato, tutto tremante, quando passammo davanti al suo camerino!”.  

Ma “dobbiamo fare in modo che nessuno lo sappia!”, e mica solo perché “eravamo due ragazzi travolti da un successo improvviso, con altri che ci guidavano in qua e in là, cosa che nessuno di noi due gradiva e non poteva farci molto”, o per il diverso colore della pelle, no: il problema è che né Keith, né Ronnie sono liberi.

Se ufficialmente il signor Richards risulta fidanzato in patria con la nemmeno 18enne Linda Keith (la quale non sta mica in casa e da sola e desolata ad aspettarlo che ritorni, macché, si organizza di suo, esce e va ai concerti, e tra i tanti in cui si imbatte senti di chi si va a innamorare, di uno che fa Jimi di nome e Hendrix di cognome, col quale non solo cornifica Keith – che sta in giro per gli States a cornificarla con Ronnie – ma a quanto racconta lo stesso Keith, è questa Linda “la prima a spezzarmi il cuore”, ma pure a “prendere la mia copia di un demo di Tim Rose che cantava un pezzo intitolato "Hey Joe", e la portò a Jimi Hendrix, e gliela fece ascoltare…”), OK, dicevo, nemmeno Ronnie è libera: mentre amoreggiava e andava in tour e a letto con Keith, Ronnie era la fidanzata di Phil Spector – suo produttore, e mentore e scopritore – il quale Phil Spector era però sposato con un’altra. Altra da cui divorzia nel 1965, anno in cui per Ronnie iniziano i seri guai.

Già Keith Richards si era accorto della malsana gelosia e possessione a cui Phil costringeva Ronnie: al contrario della di Ronnie sorella maggiore Estelle, che in tour ha un flirt con Mick Jagger (fidanzato con Marianne Faithfull…), la povera Ronnie “doveva restar sempre in camera”, e dopo i concerti “era scortata da gente che le proibiva di vedersi con chiunque”. Siamo agli albori della prigionia e delle malefatte che Ronnie subirà quando vivrà e si sposerà con Phil Spector, e se Keith Richards sostiene che “Phil era pesantemente geloso perché tanto insicuro a causa della sua stempiatura sempre più accentuata: odiava chiunque sfoggiasse una folta criniera, come il sottoscritto”, è da più parti testimoniato come Phil Spector “tenesse Ronnie prigioniera nel suo palazzo californiano, con filo spinato e cani da guardia, per anni, accordandole a malapena il permesso di uscire, proibendole di cantare, incidere, o andare in tour.

In casa, nel seminterrato, Phil teneva una bara dorata col coperchio di vetro, avvisandola che, se avesse trasgredito alle sue severe regole, l’avrebbe uccisa e messa in mostra là dentro”. Non poche volte Phil Spector ha puntato una pistola alla testa della terrorizzata e alcolizzata Ronnie, la quale alla fine scappa da quell’orrore e molto tempo dopo porta Phil in tribunale per ottenere le royalties che a suo parere lui si era intascate. Tra sentenze discordanti, Phil Spector risarcisce le Ronettes con oltre un milione di dollari.

Ronnie Spector non è mai uscita dalla vita di Keith Richards.

È nelle sue canzoni, di sicuro è in "Thief in the Night", brano dei Rolling Stones – cantato da Keith – del 1997 dell’album "Bridges to Babylon". “Thief in the Night è un titolo che ho preso dalla Bibbia”, sacro libro che, è incredibile ma, giura Richards, “leggo piuttosto spesso. Ci si trovano delle frasi molto buone. È una canzone su diverse donne, e parla di mia moglie Patti, di Anita Pallenberg, ma pure di Ronnie Spector”. L’11 settembre 2001, il giorno dell’attentato alle Torri, Keith e Ronnie sono insieme, e a New York, e stanno incidendo un brano, "Love Affair".

·        È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - E' morto il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Soltanto ieri era stata diffusa la notizia del suo ricovero in Italia per il sopraggiungere di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario. "Il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli - ha annunciato il suo portavoce Roberto Cuillo - si è spento alle ore 1.15 dell'11 Gennaio presso il CRO di Aviano (PN) dove era ricoverato. Nelle prossime ore verrà comunicata data e luogo delle esequie".

(ANSA l'11 gennaio 2022) - E di 18 ore fa l'ultimo tweet di David Sassoli, scritto mentre era già ricoverato ad Aviano dove oggi si è spento, ed è dedicato al ricordo di Silvia Tortora, la giornalista e figlia di Enzo morta ieri. "Il mio cordoglio - si legge nell'ultimo cinguettio del Presidente del Parlamento Ue - per la prematura scomparsa di #SilviaTortora. Una vita spesa per il garantismo, per la memoria del padre #Enzo vittima di malagiustizia, per un Paese più maturo e più civile".

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "Sono profondamente rattristata dalla morte di un grande europeo e italiano. David Sassoli è stato un giornalista appassionato, uno straordinario Presidente del Parlamento europeo e soprattutto un caro amico". Lo scrive in un tweet in italiano la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. "I miei pensieri vanno alla sua famiglia. Riposa in pace, caro David", aggiunge.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "David Sassoli ci ha lasciato. Una notizia terribile per tutti noi in Italia e in Europa. Ricorderemo la tua figura di leader democratico e europeista. Eri un uomo limpido, generoso, allegro, popolare. Un abbraccio alla famiglia. Riposa in pace." Lo scrive in un tweet il commissario Ue agli Affari Economici Paolo Gentiloni. (ANSA).

(ANSA l'11 gennaio 2022) - Da volto familiare del TG1 a presidente del Parlamento europeo, quella di David Maria Sassoli è stata una vita divisa fra il giornalismo e la politica, a cavallo fra Firenze, Roma e Bruxelles fino a diventare nel 2019 presidente dell'Europarlamento. 

Nato nel capoluogo toscano il 30 maggio 1956, ha frequentato da giovane l'Agesci, Associazione guide e scout cattolici italiani. Il padre era un parrocchiano di don Milani e lui ha cominciato fin da giovane a lavorare per piccoli giornali e in agenzie di stampa prima di passare a 'Il Giorno' e poi fare il grande salto in Rai. Fiorentino di nascita ma romano di adozione, era diventato un volto noto alle famiglie italiane soprattutto per la sua conduzione del Tg della rete ammiraglia della Rai, di cui è' stato anche vicedirettore durante l'era di Gianni Riotta.

Una carriera che si chiuse nel 2009, quando Sassoli decise di dedicarsi alla politica. Candidato come capolista del neonato Partito democratico nella circoscrizione Italia centrale, il presidente del Pe venne eletto la prima volta con oltre 400mila preferenze e, forte di questo successo, diventa subito il capo della delegazione del Pd al Parlamento europeo. Nel 2013 il tentativo di rientrare in Italia come sindaco di Roma si incaglia nelle primarie del Pd.

Candidato in quota franceschiniana, Sassoli si piazza secondo, battendo il futuro presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ma ottenendo la metà' dei voti di Ignazio Marino. Dopo un decennio passato fra i banchi di Bruxelles e Strasburgo, Sassoli - giunto alla sua terza legislatura - era uno degli eurodeputati più esperti. Nel 2014-2019 ricoprì la carica di vicepresidente per l'intero mandato, occupandosi soprattutto di trasporti (il cosiddetto terzo pacchetto ferroviario), politica euro-mediterranea e bilancio. Il 3 luglio del 2019 David Sassoli, all'inizio del suo terzo mandato, venne eletto Presidente dell'assemblea.

Nel suo discorso di apertura iniziale, Sassoli ribadì l'importanza di agire per contrastare il cambiamento climatico, la necessità di una politica più vicina a ai cittadini e ai loro bisogni, soprattutto ai giovani, e l'urgenza di rafforzare la democrazia parlamentare e di promuovere i valori europei. 

Durante la situazione eccezionale e senza precedenti causata dalla pandemia di Covid-19, Sassoli si è impegnato affinché il Parlamento europeo rimanesse aperto e continuasse ad essere operativo, introducendo - già nel marzo 2020 - dibattiti e votazioni a distanza, primo parlamento al mondo a farlo.

Sposato e padre di due figli, tifoso della Fiorentina, Sassoli viveva a Roma ma appena possibile si spostava nella casa di Sutri, un delizioso paese medievale della Tuscia lungo la via Cassia, una trentina di chilometri a nord della capitale, per coltivare le sue passioni per il giardinaggio e le buone letture. Sassoli è stato il secondo presidente italiano del Parlamento europeo dopo Antonio Tajani da quando l'assemblea di Strasburgo viene eletta a suffragio universale. Il suo incarico sarebbe scaduto a giorni: la prossima settimana la riunione plenaria dell'Europarlamento che si riunirà a Strasburgo per eleggere il suo successore.

BIOGRAFIA DI DAVID SASSOLI Da cinquantamila.it - la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti.

Firenze 30 maggio 1956. Giornalista. Politico. Del Pd. Dal 1 Luglio 2014 è vicepresidente del Parlamento europeo (con 393 voti). Nel 2013 candidato alle primarie del centrosinistra per il sindaco di Roma, con il 26% si piazzò seconda posizione dietro a Marino.

«L’aspetto non mi ha mai ostacolato, ma non sono un divo. Sono molto noioso».

A lungo giornalista, per 14 anni alla redazione romana del Giorno poi in Rai, al Tg3 («Mi volle Sandro Curzi, era il ’92») e al Tg1, dove è stato inviato speciale e vicedirettore (dal 2006 al 2009). Tra i fondatori dell’Associazione Articolo 21. È capodelegazione in Europa del Partito Democratico. Considerato l’uomo dei franceschiniani, la sua candidatura a sindaco di Roma ha avuto una spinta con l’appoggio di Umberto Marroni, capogruppo Pd in consiglio comunale, dalemiano. Polemiche per centinaia di cartelloni in tutta Roma (quasi tutti abusivi) vietati dal regolamento delle primarie.

«Un personaggio che appartiene a quel milieu cattolico-democratico e democristiano, vicino al comunismo berlingueriano, un’origine che ne fa il primo vero candidato di Dario Franceschini, voluto a tal punto da oscurare una personalità come Goffredo Bettini. Certo, al grande pubblico degli elettori il messaggio che arriva è quello del Pd che candida un mezzobusto noto, anche se non popolare come la Gruber, capace alle Europee di un formidabile exploit con quelle 850.000 preferenze raccolte nella sua prima uscita in politica. E invece Sassoli è uno che la politica l’ha respirata in famiglia. Il papà Mimmo, personaggio di proverbiale finezza e riservatezza, democristiano fiorentino del gruppo raccolto attorno a Giorgio La Pira e a Nicola Pistelli, è stato direttore del Popolo e de La Discussione ed è proprio nelle file della sinistra dc che David muove i suoi primi passi. Amicissimo di personaggi come Paolo Giuntella e Giovanni Bachelet, nel 1979 David arriva in piazza Nicosia pochi minuti dopo l’attentato delle Brigate rosse che costò la vita a due agenti, i poliziotti sono tesissimi e finiscono per picchiare quel ragazzo dai capelli lunghi che, per difendersi, urla invano “Sono democristiano!”. Collabora con l’ufficio stampa della Dc ai tempi della segreteria De Mita, ma la sua vocazione è quella giornalistica. Racconta Guglielmo Nardocci, oggi inviato di Famiglia Cristiana: “David tornò da Parigi dove era stato con la sua Sandra, conosciuta sui banchi di scuola e alla quale è sempre stato legatissimo, e mi disse: ho sentito con le mie orecchie Gianni De Michelis dire a Oreste Scalzone che si sta lavorando ad un’amnistia...”. La notizia viene pubblicata da Famiglia cristiana, il presidente della Repubblica Pertini si infuria e lo scoop consente a Sassoli l’assunzione al Giorno, osteggiata dal ministro De Michelis e caldeggiata da Clemente Mastella, allora uomo-stampa di De Mita. Ma è nel successivo passaggio in Rai che si precisa la caratura ”catto-diessina” del giovane Sassoli. L’uomo dei collegamenti dalle piazze in una delle tante trasmissioni di Michele Santoro (“David dove sei?”), si rivela conduttore efficacissimo dell’edizione delle 20 del Tg1 e ne diventa vicedirettore nel lotto lasciato libero dalle dimissioni della diessina Daniela Tagliafico». [Fabio Martini, La Stampa 18/4/2009].

«L’aria del bravo ragazzo, il look da eterno ulivista, girotondista perfetto, a un certo punto, Carlo Freccero gli affidò persino un impegnativo programma di approfondimento. Qualche critico storse il naso, scrisse che certi programmi hanno bisogno di maggior peso specifico, di esperienza, di necessità morale, di scarsa soggezione nei confronti dei politici, di curiosità, di idee, di cultura. Ma i critici sono fatti così, pretendono. Ebbene, succede che Sassoli si trova al prestigioso desco, la sera in cui bisogna fare il bilancio del primo anno di governo del centro-destra. Un bilancio, di solito, è composto da due voci principali: costi e ricavi o crediti e debiti o incassi e pagamenti. Insomma, luci e ombre. Quella sera, però, Sassoli preferisce la luce, e basta. Dimentico della sua passione politica e dei suoi trascorsi militanti, per una serena valutazione chiama quattro testimoni. Che sono il vicepresidente del Consiglio Fini, l’onorevole Calderoli e due ministri, Pisanu e Giovanardi. E, inevitabilmente, il bilancio risulta positivo, certificato, vantaggioso per tutti. Non ci permetteremmo mai di addossare una qualsiasi colpa al povero Sassoli (fosse stato per lui, il microfono l’avrebbe porto anche all’opposizione, magari a Rutelli e a Fassino o a Freccero o a Fiorello, cui ha poi ceduto la sedia). Questi, purtroppo, sono i rischi del mestiere, della celebrità, del realizzarsi alle otto della sera, a Saxa Rubra». [Aldo Grasso, Sette n. 21/2002].

Sposato con Alessandra (conosciuta sui banchi del liceo), due figli: Giulio e Livia. Appassionato di musica classica, storia romana e giardinaggio: «Il mio orto è nella casa di campagna a Sutri. E poi la mia è la via antiberlusconiana al giardinaggio. Io pianto e zappo le piante. Lui le compra e basta». [Elisa Messina, Novella 2000 4/6/2009]

Morto Sassoli: Mattarella,profondo dolore italiani e europei.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "La scomparsa inattesa e prematura di David Sassoli mi addolora profondamente. La sua morte apre un vuoto nelle file di coloro che hanno creduto e costruito un'Europa di pace al servizio dei cittadini e rappresenta un motivo di dolore profondo per il popolo italiano e per il popolo europeo. Il suo impegno limpido, costante, appassionato, ha contribuito a rendere l'assemblea di Strasburgo protagonista del dibattito politico in una fase delicatissima, dando voce alle attese dei cittadini europei". Così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Draghi, Sassoli simbolo umanità e generosità, siamo sgomenti.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - Mario Draghi esprime il suo più sentito cordoglio per la morte di David Sassoli. "Uomo delle istituzioni, profondo europeista, giornalista appassionato, Sassoli è stato simbolo di equilibrio, umanità, generosità. Queste doti gli sono state sempre riconosciute da tutti i colleghi, di ogni collocazione politica e di ogni Paese Ue, a testimonianza della sua straordinaria passione civile, capacità di ascolto, impegno costante al servizio dei cittadini. La sua prematura e improvvisa scomparsa lascia sgomenti. Alla moglie, Alessandra Vittorini, ai figli, Livia e Giulio, e a tutti i suoi cari, le condoglianze del governo e mie personali". 

Morto Sassoli: Cartabia, strenuo difensore valori europei.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - La Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, esprime profondo dolore per la prematura scomparsa del presidente del Parlamento Ue David Sassoli, già appassionato giornalista. "Strenuo difensore dei più alti valori europei, fino alla fine - nota la Guardasigilli Cartabia- ha ricordato a tutti come la "nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo costruire e della solidarietà che sapremo sviluppare", come ebbe a dire durante il discorso di insediamento al Parlamento Ue" (ANSA)

Morto Sassoli: Meloni, uomo onesto e avversario leale.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "È mancato, nella notte, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Una gran brava persona, un avversario leale, un uomo onesto. A nome del partito dei Conservatori e Riformisti europei e di Fratelli d'Italia esprimo sincere condoglianze alla sua famiglia e alla sua comunità politica". Lo dichiara il presidente dei Conservatori europei (ECR Party) e di FdI, Giorgia Meloni... 

Morto Sassoli: Letta commosso, ha cambiato la storia europea.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "David Sassoli era un fratello, un amico, per noi è stato un riferimento importantissimo e fondamentale. In questo momento tanti ricordi si affastellano nella mente. Voglio ricordare una cosa importante, fondamentale, bellissima. David ha cambiato la storia europea, perché durante la pandemia si è trovato a essere presidente del Parlamento europeo, nel momento più incredibile della storia del nostro continente, ed è riuscito con forza, ma con la sua determinazione e gentilezza, a convincere tutti a tenere aperto il Parlamento europeo". Lo ha detto il segretario del Pd, Enrico Letta, che si è commosso durante una intervista al Tg1. "Grazie a questo fatto, il Parlamento ha consentito all'Europa di fare quelle scelte sociali, di solidarietà, di lotta alla pandemia, di attenzione agli ultimi, alla solidarietà che altrimenti non si sarebbero potute fare. David ha cambiato la storia della democrazia europea e del nostro continente e lascia una traccia indelebile nella storia europea e nella storia dei democratici italiani ed europei che oggi lo piangono". "David lascia una eredità enorme nel campo dell'impegno a favore dei diritti e della democrazia. Putin lo considerò persona non grata, oggi è una medaglia questo atteggiamento in difesa dei diritti umani e della democrazia - ha aggiunto Letta - E l'alto valore della politica come massimo impegno di carità. Questo è soprattutto oggi ciò che ci lascia, è durissima per tutti noi immaginare che non ci sia più e di andare avanti" (ANSA). 

Morto Sassoli: Farnesina, un italiano al servizio di Italia e Ue.

(ANSA l'11 gennaio 2022) "La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l'Ue". La Farnesina ha ricordato così su Twitter il presidente del parlamento europeo David Sassoli, "un italiano che ha lavorato con passione al servizio dell'Italia e dell'Unione europea".  

Morto Sassoli: Gualtieri, grande italiano, un dolore immenso.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "Un dolore immenso per la scomparsa di David Sassoli: un grande italiano, un grande europeo, una persona straordinaria. Nel lavoro comune a Bruxelles è maturata un'amicizia profonda e il mio infinito apprezzamento per i suoi principi e valori, per la sua dolcezza, la sua umanità e il suo equilibrio, per la capacità di unire sempre senso delle istituzioni e impegno senza riserve per i più deboli. La sua passione politica resterà un insegnamento per tutti coloro che hanno a cuore il progresso di un'Europa più unita e più giusta. Mi stringo al dolore della famiglia e di tutti i suoi cari. Non ti dimenticheremo mai David". Così su fb il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. 

Morto Sassoli: Tajani, se ne va un Grande Presidente.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "La morte del collega e amico David mi lascia sgomento e profondamente costernato. Con lui se ne va un Grande Presidente sia sotto il profilo politico che umano. Esprimo con affetto vicinanza alla sua famiglia. Riposa in pace David". Lo scrive su Twitter, il vicepresidente del Partito popolare europeo, Antonio Tajani, per ricordare l'amico e collega David Sassoli. 

Morto Sassoli: Renzi, uomo appassionato ed europeista convinto.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "Ricordo David Sassoli come un uomo appassionato, un europeista convinto, un servitore delle istituzioni. Ricordo bene quando nel 2009 ero in difficoltà per il ballottaggio e lui - appena eletto parlamentare europeo - venne ad aiutarci nella 'sua' Firenze. Riposi in pace". Lo scrive su Instagram il leader di Iv Matteo Renzi, appresa la notizia della morte di David Sassoli. (ANSA).

Morto Sassoli: Borrell, 'grande dolore, addio caro amico'.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "La scomparsa di David Sassoli è un grande dolore. Perdiamo un politico di valore ma soprattutto un amico, un uomo che ha dedicato la sua vita al servizio degli altri, prima nel giornalismo e poi nelle istituzioni come presidente del parlamento europeo. Riposa in pace, caro amico". Lo scrive in italiano su Twitter l'Alto rappresentante per la politica estera Ue, Josep Borrell.

Morto Sassoli: Zingaretti, notizia dolorosa per tutti noi.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "La morte di David Sassoli è innanzitutto una notizia tristissima e dolorosa per tutti noi. Una comunità che lo ha amato, seguito e sostenuto in questi anni per la sua passione, capacità e dedizione". Lo scrive su Facebook il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, in merito alla scomparsa di David Sassoli. "È una perdita per l'Italia e per l'Europa di un grande Presidente profondamente europeista che in anni difficilissimi ha tenuto alta la bandiera dei valori fondanti dell'unione - prosegue Zingaretti - . Ciao David, non dimenticheremo mai il tuo impegno politico tra le persone, il tuo sorriso e la voglia di cambiare".

Morto Sassoli: Di Maio, uomo altruista a servizio istituzioni.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "Un uomo brillante, altruista, al servizio delle Istituzioni. Amava il suo Paese e credeva fortemente nei valori europei. La morte del presidente David Sassoli ci addolora profondamente. Un grande abbraccio alla sua famiglia". Lo scrive su Facebook il ministro degli esteri Luigi Di Maio sulla scomparsa del presidente del Parlamento europeo. 

Morto Sassoli: Calenda, ha servito Italia e Ue con onore.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "È stato un uomo di valore, un ottimo Presidente del Parlamento Europeo e una persona gentile e perbene. Ha servito il suo paese e l'Europa con onore. Riposi in pace". Lo scrive su Twitter Carlo Calenda, leader di Azione.

Morto Sassoli: Giorgetti, grande dispiacere, uomo di valore.

(ANSA l'11 gennaio 2022) - "Ho appreso con grande dispiacere della morte prematura di David Sassoli. Se ne va un uomo intelligente, di valore e di principi. Le mie condoglianze alla famiglia e alle persone a lui più vicine". Così in una nota il ministro dello sviluppo economico Giancarlo Giorgetti.

Morto Sassoli: Scholz, la Germania perde un buon amico.

ANSA l'11 gennaio 2022. "Ho appreso con sgomento la notizia della morte di David Sassoli" ha dichiarato il cancelliere tedesco Olaf Scholz, tramite l'account twitter del suo portavoce Steffen Hebestreit. "L'Europa perde un un presidente del Parlamento impegnato, l'Italia un politico intelligente, la Germania un buon amico" prosegue il messaggio di cordoglio del cancelliere tedesco socialdemocratico. "Il nostro pensiero va alla famiglia". conclude Scholz. (ANSA).

Jaime D’Alessandro per “la Repubblica - Affari & Finanza” il 17 gennaio 2022.

Il linciaggio online, a guardarlo da questo lato del mondo, è sembrato davvero orrendo. Sulla morte di David Sassoli alcuni no vax hanno dato il peggio sui social network, facendo finta di non sapere che il presidente del Parlamento europeo era malato da anni di mieloma, un tumore del midollo osseo. 

E così sono state diffuse teorie senza alcun fondamento che legano il decesso ai vaccini. C'è stata un'inevitabile levata di scudi e da più parti la richiesta di un intervento delle forze dell'ordine con i carabinieri del Comando Provinciale di Roma che hanno depositato una prima informativa in Procura di Roma.

Si dimentica troppo spesso che la questione non sta tanto nel singolo argomento, la morte di Sassoli, il vaccino o la curvatura della superficie terrestre, ma nell'identità antisistema. Un'identità profonda di quella "società irrazionale", come la chiama il Censis, che vale fra il sei e il 10 per cento della popolazione italiana. 

Serve davvero a poco il fact-checking perché non siamo affatto nell'età dei lumi e forse non ci siamo mai entrati. Se c'è una cosa che i social network hanno dimostrato, è il modo tribale e polarizzato che abbiamo di informarci e proporre le nostre opinioni, o meglio le nostre bandiere. Bandiere nelle quali ci identifichiamo. Le divisioni e i radicalismi sono sempre esistiti, si difendono dalla Silicon Valley.

È vero, eppure un conto è opporsi all'obbligo della cintura di sicurezza in macchina (all'epoca c'era chi pensava fosse un tentativo di limitare la libertà delle persone), organizzando proteste per strada e arringando gli avventori di un bar, un altro è avere davanti a sé una platea immensa gestita da algoritmi istruiti per mettere in evidenza i contenuti più estremi.

L'ingenuità imperdonabile di Twitter, Facebook, Google e degli altri colossi del Web, sta nell'aver pensato di vivere della nuova età dei lumi e che il digitale non avrebbe fatto altro che dare infinite possibilità a tutti. Lo ha fatto, solo in parte. Ha dato soprattutto voce a persone intellettualmente ed emotivamente disastrate e il loro seguito online è uno specchio di quel che siamo sempre stati.

Da open.online il 12 gennaio 2022.

«Dio vede e provvede»: un proverbio di uso comune, non fosse che questa volta è stato usato come insulto alla memoria di David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo morto la scorsa notte dopo un lungo ricovero in un ospedale oncologico di Pordenone. 

A pronunciare frasi ingiuriose e ad esultare per la morte del giornalista, in un video pubblicato sui social, è stato Nicola Franzoni. Si tratta di un imprenditore di Carrara, vicino agli ambienti No vax e No Green pass e agli ambienti della destra. L’uomo è stato denunciato per vilipendio da Fabrizio Volpi, coordinatore a Carrara di Italia Viva. «Abbiamo deciso di rivolgerci alle autorità competenti per porre fine a una serie di dichiarazioni farneticanti di un personaggio che ormai ha decisamente passato il segno – spiega in una nota Alice Rossetti, coordinatrice regionale di Italia Viva -. In un momento come quello che stiamo attraversando c’è bisogno di calma e pacatezza e non di farneticazioni, offese e violenza verbale. Come tutte le persone sensate piangiamo per la scomparsa prematura di David Sassoli e speriamo che chi ha oltraggiato la sua memoria venga punito severamente».

Chi è Nicola Franzoni

Franzoni ha collezionato già una serie di denunce in questi anni, alcune delle quali per vilipendio e apologia di fascismo. A gennaio del 2021, come riporta la Nazione, era stato fermato al casello di Carrara con felpe e altro materiale che aveva delle scritte contro il premier Draghi. Prima ancora, cioè a giugno 2020, era stato denunciato dopo una manifestazione a Roma del Fronte di Liberazione Popolare, una delle sigle a cui è ricondotto. E ha partecipato in questi mesi a numerosi cortei, anche nella Capitale, contro i provvedimenti governativi per il contenimento della pandemia.

(ANSA il 19 gennaio 2022) - Un quarantenne della provincia di Napoli è stato denunciato dalla Polizia Postale della Campania, coordinata dalla Procura di Napoli Nord, con l'accusa di essere l'autore di uno dei messaggi lesivi della memoria dell'ex presidente del Parlamento Europeo, Davide Sassoli, comparsi nella rete. Gli agenti della Postale hanno anche eseguito una perquisizione informatica nel corso della quale sono state rinvenute tracce del messaggio d'odio. L'uomo in passato è già stato denunciato per inosservanza delle misure sanitarie in materia di Covid. 

(ANSA il 19 gennaio 2022) - È risultato essere amministratore di un canale Telegram con più di 30.000 iscritti, sul quale ha pubblicato numerosi messaggi di incitamento alla violazione delle disposizioni sulla gestione dell'emergenza pandemica da Covid-19, il 40enne della provincia di Napoli denunciato dalla Polizia Postale della Campania, coordinata dalla Procura di Napoli Nord, con l'accusa di essere l'autore di uno dei messaggi lesivi della memoria dell'ex presidente del Parlamento Europeo, Davide Sassoli, comparsi nella rete.

Numerosi messaggi d'odio, inspirati da teorie complottiste "no-vax" secondo le quali Sassoli sarebbe morto a causa del vaccino sono stati individuati nell'ambito del monitoraggio informativo della rete internet effettuato dalla Polizia Postale e delle Comunicazioni a seguito della notizia della scomparsa del Presidente dell'Europarlamento; monitoraggi eseguiti su diversi canali Telegram, profili Facebook e Twitter (con l'hashtag #nessunacorrelazione). 

Tra i vari messaggi che hanno acquisito il carattere della "viralità" per il contenuto particolarmente sprezzante e lesivo della memoria del defunto Presidente del Parlamento Europeo, ripreso anche dai principali organi di stampa, era emerso quello pubblicato dall'account "Ugo Fuoco", che testualmente affermava "ogni tanto una buonissima notizia. Se ne va mr. 'il green pass non è discriminatorio' Sassoli. Adesso venitevi a prendere gli altri, grazie". Gli accertamenti hanno permesso di identificare l'autore del post in un quarantenne residente nella provincia di Napoli, già denunciato per inosservanza delle misure sanitarie in materia di Covid.

David Puente per open.online il 19 gennaio 2022.

Uno dei guru del negazionismo della Covid e dei No vax in Italia, il 40enne napoletano gestore del canale Telegram Ugo Fuoco – Stop Dittatura, è stato identificato dalla Polizia di Stato e dalla Polizia Postale come uno dei responsabili della shitstorm coordinata contro il Presidente dell’Europarlamento David Sassoli a seguito del suo decesso.

Sono ben oltre 36 mila gli iscritti al suo canale Telegram, molti di questi attivi anche sui social come Facebook dove “Ugo Fuoco” è amministratore del gruppo Libero Comitato di Protesta ‘Napoli Non Si Piega’, che dall’undici gennaio sono orfani dei suoi interventi. Che fine ha fatto? 

In un post del 22 ottobre parlava di «finta pandemia», mentre il primo gennaio 2022 scriveva chiaramente «Il Covid non esiste». Diversi i messaggi dove istruiva i suoi seguaci nel credere in una enorme sceneggiata, promuovendo persino l’intervento alla Camera il “tamponatore di kiwi” Mariano Amici, ospite della deputata complottista Sara Cunial: «L’impeccabile intervento del Dottor Mariano Amici alla Camera dei Deputati. Non ne sbaglia una i l virus non è stato isolato» scrive Fuoco nel canale, diffondendo di fatto la stessa identica bufala che sostengono i negazionisti della Covid-19 da inizio pandemia. 

L’ultimo intervento nel canale Telegram è un vocale, di circa 20 minuti, dove giustifica la sua assenza: «Da undici giorni, con oggi, praticamente sono a letto con una febbre [tossisce] insomma [tossisce] sempre altissima, insomma, in media oltre i 39 e con una, chiamiamola, capacità respiratoria molto ridotta che mi impedisce anche di parlare senza, purtroppo [tossisce] ecco, appunto, senza purtroppo dover tossire. Quindi, sono a riposo necessariamente perché non sono in condizioni in questo momento perché, dopo undici giorni di febbre, dovete credermi, anzitutto mi scoppia proprio la testa e quindi sto attendendo di migliorare un po’ per tornare a fare, insomma, le cose che faccio regolarmente qui su Telegram».

Il post precedente risaliva al 6 gennaio 2022, dove curiosamente “invitava” a verificare il video del malore improvviso del giornalista brasiliano Rafael Silva che, come abbiamo visto, non riguardava affatto il vaccino anti Covid-19 (ne parliamo qui). Il vocale risale all’undici gennaio 2022 alle ore 12:19, a seguito dell’annuncio del decesso di David Sassoli, considerando che febbre e mal di testa duravano da inizio anno non si trattava di un malore qualsiasi, soprattutto perché il 18 gennaio alle ore 14 rendeva pubblica via Facebook la sua attuale posizione: disteso in un letto d’ospedale con la maschera per l’ossigeno. 

Controllando il canale Telegram, il 22 dicembre 2021 pubblica un video dove chiedeva di pubblicare su Open un articolo con un titolo simile al seguente: «Notizia falsa! Il No vax Ugo Fuoco non intende vaccinarsi, la notizia che circola sui social viene smentita dallo stesso Fuoco».

Se da una parte sostiene con fierezza di non essersi vaccinato, dall’altra non afferma di essere attualmente ricoverato per Covid-19 nonostante gli ormai oltre 18 giorni di malattia e i sintomi raccontati su Telegram, ma è chiaro che potrebbe negarlo ad ogni costo pur di reggere la narrativa negazionista della «finta pandemia», de «il Covid non esiste» e del «virus mai isolato». 

David Puente per open.online il 19 gennaio 2022.

Le indagini della Polizia di Stato e della Postale avevano identificato Ugo Fuoco come uno dei responsabili della shitstorm ai danni del defunto Presidente dell’Europarlamento, David Sassoli. Sono suoi i post Facebook e Telegram individuati dalle forze dell’ordine, pubblicati tramite il suo profilo personale e il canale Ugo Fuoco – Stop Dittatura dove risultano iscritti oltre 35 mila utenti (poco prima degli articoli di Open gli iscritti erano oltre 36 mila). A seguito della copertura mediatica relativa alle indagini della Polizia, dal letto d’ospedale, il complottista No vax Ugo Fuoco pubblica un video tramite il suo profilo Facebook dove risponde ai giornalisti (a seguire, il video diffuso dalla Polizia): Poiché siete delle teste di cazzo di merda [rossisce] e mi riferisco che state scrivendo puttanate all’altezza delle vostre teste di cazzo, volevo comunicarvi… [pausa] di uscire fuori dai coglioni e di non scassare le palle sui miei profili social [rossisce] perché ho [rossisce] veramente i coglioni rotti di mongoloidi incapaci di intendere e di volere, quindi fatemi una cortesia di non scassare le palle, lo ripeto [rossisce] sui miei fottuti profili [respira a fatica] perché [rossisce] perché se ritorno, e dovete augurarvi di no a questo punto, vi prendo a calci nel culo tutti!

Tramite il suo canale Telegram, invece, pubblica un lungo comunicato: 

ATTENZIONE ! 

IN MERITO ALLE BOIATE PUBBLICATE DALLA STAMPA NEI MIEI RIGUARDI, IN PARTICOLARE IL CORRIERE DELLA SERA, VADO PER PUNTI 

1) Non ho mai lanciato una sola di quelle che definiscono ‘Shitstorm’ nella mia vita. Trovo sia un metodo becero ed infantile. Provvederò pertanto a querelare qualsiasi attribuzione che in tal senso mi sia stata o mi verrà mossa. Tollero che mi venga attribuito tutto ciò che faccio, me ne assumo la responsabilità, non accetto che vengano ‘inventate’ cazzate distanti dal mio modo di vedere il mondo.

2) Mi sono espresso riguardo la scomparsa di David Sassoli, nulla quaestio. Ho sempre trovato Sassoli un personaggio meschino, un finto democratico con chiare mire autoritarie, divenute palesemente discriminatorie nel periodo storico che stiamo vivendo, allorquando ed in più occasioni, l’ex Presidente del Parlamento Europeo aveva esaltato lo strumento di Apartheid del Green Pass. 

3) I quotidiani parlano dei ‘miei genitori’ che non avrebbero appoggiato le mie scelte. Premesso che sono 30 anni che non ho notizie di mio padre (ma magari, chi può saperlo, non è d’accordo per davvero con le mie scelte ed i media sono in possesso di notizie e fonti di cui io non dispongo), per quanto riguarda mia madre, siamo abituati acchè ciascuno goda della sua libertà di espressione. Andiamo d’accordissimo. 

4) Il Covid non esiste? Cazzate ! Viviamo un’epoca ‘sinistra’ in cui centri di potere internazionale stanno ponendo in essere un cambio di paradigma della società. Il Covid è una ‘arma batteriologica’, introdotta con mire lapalissiane, quali quelle di instillare il terrore ed imporre una vaccinazione TOTALITARIA dalle proporzioni e dalla pericolosità mai precedentemente verificatasi. Nessun potere che possa disporre di un’arma del genere se ne priverebbe è funzionale nonchè necessaria alla finalizzazione del progetto socio politico. 

5) Stanno dando i numeri, per davvero, riguardo la mia età. Fate pure. Non ho nè 40 e neppure 45 anni. Se vi diverte…giocate al lotto ! 

6) Stanno inventandosi gli ospedali in cui sarei ricoverato. Fate pure. In Italia ce ne sono moltissimi, avete ancora i nomi di tantissime strutture da poter fare. 

7) Non mi conoscete. Vi ringrazio. Le vostre stronzate, quest’oggi, mi stanno dando la forza per rimettermi in piedi molto più velocemente di quanto presumibilmente sarei riuscito a fare senza il vostro ‘sudicio’ apporto. 

8) Mi rivolgo ai media. Le vostre notizie un tempo erano spazzatura, oggi hanno il sapore di insensate e risibili comiche, sparate lì da stagisti mai pagati e che non hanno alcuna contezza di ciò che raccontano. Siete lo spaccato della società in cui viviamo.

9) Ugo Fuoco non conta un cazzo. La libertà è un valore comune, è dentro ogni donna ed ogni uomo libero. Provare a ridimensionarne la forza scrivendo menzogne su di un giornale non sposta di una virgola i valori di cui la libertà è portatrice. Smettete di essere entità biologiche che si preoccupano di SOPRAVVIVERE ed incominciate a VIVERE PER DAVVERO ! 

10) Perdonatemi se dovessi essere risultato dozzinale nel mio modo di esprimermi…è che non sono ancora in ‘splendida forma’. 

Pace e Bene a tutti gli uomini e le donne di Libertà. Siate consapevoli d’essere il presente ed il futuro del mondo. Dipende tutto da voi. 

Vi voglio bene! 

Ugo

Nel comunicato afferma, in sostanza, che «il Covid esiste» e che sarebbe «un’arma batteriologica». Di fatto, smentisce se stesso quando affermava che «Il Covid non esiste, neppure in Croazia» e, di conseguenza, il commento su Mariano Amici dove scriveva «il virus non è stato isolato». Insomma, esiste e non esiste, così come senza prove afferma che ci sia un’«arma batteriologica» per poi dire che non è mai stata isolata.

Da quotidiano.net il 12 gennaio 2022.

"Finalmente quel bastardo se n'è andato". Al peggio non c'è mai fine. E non bastava la follia no vax di ieri: oggi, Nicolaus Fest, eurodeputato dell'Afd, la formazione di estrema destra tedesca, ha esultato per la morte del presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. In una chat  interna del partito avrebbe insultato senza usare giri di parole il giornalista, definendolo "un antidemocratico, una vergogna per qualsiasi idea parlamentare". I messaggi sarebbero stati screenshottati dall'emittente tedesca Ard, che riporta la notizia.

Subito sgomento e sdegno da parte di molti, tra cui il leader del partito, Jorg Meuthen, che ha preso le distanze dalle orribili dichiarazioni. "Una tale affermazione su un collega che è appena morto dopo una grave malattia - ha detto - è inquietante, profondamente ripugnante e imperdonabile". Meuthen ieri aveva espresso "le nostre più sincere condoglianze alla sua famiglia e ai suoi amici" sottolineando come Sassoli è stato, al di là della componente politica, un presidente del Parlamento giusto e una persona piacevole per suo approccio umano".

Tra gli europarlamentari tedeschi cresce l'indignazione. Sulla questione, da quanto si apprende, è intervenuta anche la vicepresidente del Parlamento europeo, Katarina Barley, esponente del Partito socialdemocratico tedesco (SpD), che ha definito Sassoli un presidente dell’assemblea “rispettato e stimato al di là delle divisioni di partito, anche perché non tollerava l’estremismo di destra e l’odio al Parlamento europeo". 

Secondo Barley, inoltre, il messaggio di Fest è "indicativo dell’autore e del suo disprezzo per gli esseri umani, contro cui Sassoli è sempre stato risoluto".

Anche in Italia cresce lo sgomento. Ma, come dicevamo, non c'è limite al peggio. E oggi l'imprenditore di Carrara Nicola Franzoni, esponente della galassia no vax, ieri denunciato per vilipendio per gli insulti alla memoria di David Sassoli, non torna sui passi: "Non mi pento, anzi me ne vanto - replica -. Si deve sapere che i vaccini sono mortali. E la gente non si deve vaccinare". 

Franzoni, che si è definito "segretario politico del Fronte di Liberazione", parlando con l'Adnkronos ha dichiarato di essere "tranquillo" a fronte delle denunce paventate contro di lui. "Oltre al mio avvocato di fiducia - ha raccontato sono stato contatto da 47 avvocati penalisti che mi hanno proposto il gratuito patrocinio. Con questo staff di avvocati mi difenderò nel caso in cui l'annunciata denuncia dovesse trasformarsi in un'indagine. Io ritengo di non aver commesso nessun reato di vilipendio nei confronti di Sassoli".

Mattia Feltri per "la Stampa" il 14 gennaio 2022.

Non m' aveva intrigato più di tanto il disdoro dell'europarlamentare tedesco Nicolaus Fest in morte di David Sassoli ("finalmente lo sporco maiale se n'è andato"): Fest appartiene all'estrema destra dell'Afd, della tendenza che ha conservato un certo nostalgico vocabolario, e si poteva passare oltre. Ma in un articolo - non avevo riflettuto sul cognome - lo si ricorda figlio di Joachim Fest, il maggior storico tedesco del nazismo. Un grandissimo, Joachim. 

Fu a lungo accusato di giustificazionismo destrorso - in specie dal suo avversario di aspre battaglie, Günter Grass, scrittore di livello e commissario della purezza politica di sinistra - poiché tentò di sottrarre Adolf Hitler all'essenza demoniaca per restituirlo all'umanità, l'umanità da sempre capace dei più profondi abissi. In punto di morte, mentre stava consegnando l'autobiografia, Joachim sentì Grass confessare di essere stato nelle Ss, e subito chiamò l'editore perché finalmente aveva trovato il titolo: "Io no".

Joachim era entrato nell'esercito diciassettenne proprio per risparmiarsi l'infamia dell'arruolamento coatto nelle Ss. Devo tutto a mio padre, diceva Joachim. A suo padre, il nonno di Nicolaus, che fu licenziato dall'amministrazione pubblica per essersi rifiutato di iscriversi al Partito nazista. 

Alla moglie, che lo supplicava di piegare la schiena perché c'erano cinque figli da sfamare, il padre di Joachim, nonno di Nicolaus, rispondeva: io no. C'è un detto popolare, un po' sciocco e nazistellamente genetico, secondo cui la mela non cade mai lontano dall'albero. Se anche fosse vero, talvolta, come nel caso di Nicolaus, la mela rotola via.

Da ilgiorno.it il 14 gennaio 2022.  

Tra gli auspici di morte per Angela Merkel e la definizione dell’Islam come “movimento totalitario”, non è certo nuovo alle cronache politiche tedesche il nome di Nicolaus Fest, l’eurodeputato che ha esultato in modo agghiacciante per la scomparsa di David Sassoli (“finalmente questo sporco maiale se n’è andato”, come ha scritto su una chat interna al partito dell’ultradestra). 

Tanto più perchè l’esponente dell’Afd è il figlio di uno dei maggiori storici della Germania del dopoguerra, quel Joachim Fest noto in tutto il mondo come autore di quella che per decenni è stata la principale biografia di Adolf Hitler.

Oggi anche gli stessi vertici della formazione nazional-populista, in totale imbarazzo per tanta violenza verbale, prendono le distanze dalle affermazioni di Fest jr (“Una tale affermazione su un collega che è appena morto dopo una grave malattia è inquietante, profondamente ripugnante e imperdonabile”, ha detto il leader Joerg Meuthen all’emittente pubblica Ard), ma certo non si tratta della prima “esternazione” dell’eurodeputato che abbia scatenato pesanti polemiche: nel 2018, per esempio, in un dialogo tra cittadini organizzato da un’associazione distrettuale dell’Afd, Fest aveva evocato che la cancelliera Merkel venisse “abbattuta”, affermazione definita “pietosa” dal vicepresidente del Bundestag, Wolfgang Kubicki.

Cresciuto ad Amburgo e laureatosi in giurisprudenza all’Università Humboldt di Berlino, il 59enne Fest ha un passato nell’editoria (tra l’altro presso Gruener + Jahr), per diventare nel 2013 caporedattore cultura della Bild Zeitung, il principale tabloid della Germania. Membro dell’Afd dal 2016, viene candidato senza successo al Bundestag nel 2017, ma riuscirà a farsi eleggere due anni dopo all’Europarlamento. Nel partito dell’ultradestra non è comunque un passante: dal 2020 al 2021 è stato anche membro della segreteria commissariale dell’Afd. 

Tra le polemiche per cui è più noto, quella causata da un articolo apparso nel blog nel quale definì “primitivi e maligni” i gruppi di “giovani arabi, turchi o africani”, aggiungendo che la Germania aveva “chiesto lavoratori ospiti ma ha trovato marmaglia”. Frasi che gli hanno fruttato nel 2017 una denuncia presso la Procura di Berlino, poi archiviata. Fatto sta che l’hashtag sulla “marmaglia” era diventato un trending topic su Twitter. Nel luglio 2014, l’attuale eurodeputato Afd aveva scritto un commento per il domenicale della Bild, nella quale affermo’ che l’Islam rappresenterebbe “un impedimento all’integrazione”: finanche l’allora direttore del tabloid, Klaus Diekmann, dovette prendere le distanze.

Uno dei bersagli preferiti dell’esponente di AFD è stata Angela Merkel: in un articolo per la Junge Freiheit - un foglio della cosiddetta ‘nuova destra’ - Fest aveva tracciato paralleli tra lo stile di governo della cancelliera e la presa di potere dei nazisti nel 1933, motivo per cui i tedeschi dovrebbero “svegliarsi e prendere la politica nelle proprie mani”. L’uscita sull’Islam come realta’ “totalitaria” è invece del 2016: nell’occasione chiese anche l’immediata chiusura di tutte le moschee in Germania. 

Fin troppo facile in queste ore ricordare che Nicolaus Fest è figlio dello storico Joachim Fest, per anni anche presente nel board editoriale della Frankfurter Allgemeine Zeitung, celeberrimo per la sua monumentale biografia di Hitler, pubblicata per la prima volta nel 1973. Considerato uno delle opere di riferimento sulla vita del Fuehrer, il volume ha ricevuto anche delle dure critiche negli anni: in particolare per non aver affrontato in modo esaustivo i pogrom nazisti del 1938, aver del tutto tagliato fuori il tema delle leggi sulla razza e per aver relegato in poche pagine la questione dell’Olocausto.

 "E' assolutamente disgustoso. Non c'è altra parola per descriverlo. I messaggi mostrano il vero volto dell'Afd". Lo dichiara il presidente del Gruppo del Ppe al Parlamento europeo, il tedesco Manfred Weber, in riferimento ai messaggi dell'eurodeputato dell'Afd, Nicolaus Fest, in cui esultava per la morte del presidente del Parlamento europeo. "Onoreremo David Sassoli con dignità e rispetto, che è quello che merita da tutti i deputati", aggiunge.

Estratto da europa.today.it il 12 gennaio 2022.

"Finalmente, quel lurido maiale se n'è andato", ha scritto l'eurodeputato, che fa parte del gruppo Identità e democrazia. "Un antidemocratico, una vergogna per qualsiasi idea parlamentare", ha aggiunto Faust. Il parlamentare dell'AfD non ha smentito queste dichiarazioni, ma in un post su Facebook ha provato a giustificarsi alludendo ad alcuni presunti errori commessi da Sassoli durante il suo mandato di presidente dell'Eurocamera, e criticando l'ondata di messaggi d'affetto arrivati all'ex giornalista italiano da tutte le forze politiche, AfD compresa. 

Da open.online l'11 gennaio 2022.

La notizia della morte di David Sassoli è arrivata nella notte, dopo una serie di complicazioni dovute a una disfunzione del sistema immunitario. 

Da quel momento sui social, dai giornalisti e dai colleghi politici continuano ad arrivare decine di ricordi, video e immagini che ripercorrono tutti gli aspetti della sua vita.

Fra i video più straordinari della sulla carriera c’è questo, uno spezzone tratto dal Tg1 del 19 novembre del 2006. Qui Sassoli era alla conduzione del Tg1 e si era collegato con Fiorello e Marco Baldini che di lì a brevi sarebbe andati in onda con Viva la Radio in formato tv. Un collegamento in cui a un certo punto irrompe anche Mike Bongiorno. 

Qui Fiorello chiede a Sassoli di uscire dal suo ruolo di conduttore e fare «la prima Ola televisiva». Sassoli accetta e lo sketch si conclude con Bongiorno che urla «Allegria!».

Alessandro D’Amato per open.online l'11 gennaio 2022.

Il docente di filosofia del diritto su Twitter se la prende con la «tirannia sanitaria» e getta ombre sulla scomparsa del presidente dell’Europarlamento. Ecco perché i vaccini non c’entrano nulla. 

Il professor Paolo Becchi, tra i 150 firmatari dell’appello dei docenti universitari contro il Green pass, stamattina ha pubblicato un tweet sulla morte di David Sassoli, sostenendo che il presidente dell’Europarlamento sia deceduto a causa del vaccino contro Covid-19. «Rispetto per la morte di #DavidSassoli. Ma è morto in seguito alla terza dose? Non c’è nessuna correlazione? Non rendete pubblica neppure l’autopsia? O non la fate neppure? Costringete la gente a vaccinarsi e a morire. State costruendo una tirannia sanitaria mai esistita prima», ha scritto il docente di filosofia del diritto a Genova.

Naturalmente si tratta di una bufala. Sassoli era malato da tempo. Dieci anni fa, come racconta oggi Il Foglio, aveva subito un intervento di trapianto di midollo per un mieloma. L’operazione lo aveva costretto a restare lontano dalle aule di Bruxelles e Strasburgo per diversi mesi. Poi, a novembre, era stato ricoverato per una polmonite da legionella. E nell’occasione, con un video su Twitter, aveva spiegato il suo stato di salute smentendo così implicitamente il legame tra la sua malattia e il Coronavirus.

A Natale la ricaduta con il ricovero per «problemi al sistema immunitario», quelli descritti ieri dal suo portavoce Roberto Cuillo nella dichiarazione di ieri. Già all’epoca del primo ricovero il suo staff aveva dovuto smentire che Sassoli fosse affetto da Covid-19, circostanza ricordata dai suoi collaboratori nel post di saluto di oggi. Non c’è quindi nessuna evidenza che Sassoli sia morto per la vaccinazione anti-Covid. 

E soprattutto questo causerebbe un corto circuito logico piuttosto evidente nella narrazione No vax: da tempo tra gli ostili ai vaccini si afferma che i politici non ricevano alcun vaccino perché non vogliono morire a causa dei (presunti) effetti avversi. Ma se un politico come Sassoli non ha ricevuto il vaccino, come fa a essere morto per il vaccino?

Da lastampa.it l'11 gennaio 2022.

Era il 9 novembre del 2021 quando David Sassoli, su Twitter, spiegava di essere stato colpito in settembre da "una brutta polmonite da legionella". "Ho avuto febbre altissima - aveva aggiunto il presidente del Parlamento europeo - sono stato ricoverato a Strasburgo, poi sono rientrato in Italia per la convalescenza ma purtroppo ho subito una ricaduta". Poi il ringraziamento ai medici "per la loro competenza".

Questa notte Sassoli è morto a 65 anni nel centro oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone, dove era ricoverato per una grave forma di disfunzione del sistema immunitario. 

È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo aveva 65 anni. Laura Zangarini e redazione Online su Il Corriere della Sera l'11 Gennaio 2022.

Dal 26 dicembre era ricoverato in ospedale a causa di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario

È morto David Sassoli . Il presidente del Parlamento Europeo è deceduto all'1.15 della notte, a 65 anni, a causa di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario. 

Era ricoverato dal 26 dicembre scorso nel centro oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone. A dare la notizia del decesso il suo portavoce, Roberto Cuillo.

Lo scorso dicembre Sassoli aveva annunciato l’intenzione di non ricandidarsi alla guida del Parlamento europeo. 

La sua «ultima preoccupazione era stata qualche giorno fa che tutto funzionasse bene nel passaggio istituzionale tra un presidente e l’altro alla prossima plenaria» del Parlamento europeo «a Strasburgo» ha detto Cuillo a Sky Tg24. 

Giornalista, conduttore televisivo, vicedirettore del Tg1, Sassoli era entrato in politica come europarlamentare del Partito democratico nel 2009. 

Appresa la notizia del ricovero, nella giornata di lunedì 10 gennaio, numerose erano state le manifestazioni di affetto espresse da tutto l’arco parlamentare, da rappresentanti delle istituzioni, colleghi di partito e amici in Europa e nel nostro Paese. 

La presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si è detta «profondamente rattristata dalla morte di un grande europeo e italiano. David Sassoli è stato un giornalista appassionato, uno straordinario Presidente del Parlamento europeo e soprattutto un caro amico». «I miei pensieri vanno alla sua famiglia. Riposa in pace, caro David» ha aggiunto, su Twitter. 

L’ultimo messaggio pubblico di Sassoli è arrivato nella giornata di ieri, quando aveva voluto esprimere il «cordoglio» per la morte di Silvia Tortora, primogenita di Enzo Tortora e sorella di Gaia, che la vicedirettrice del Tg La7. 

Nella notte tra il 14 e il 15 settembre scorsi, il presidente del Parlamento Ue era stato ricoverato a Strasburgo per una polmonite e non aveva potuto presiedere la seduta plenaria nella quale la presidente della Commissione Ue von der Leyen aveva pronunciato il discorso sullo stato dell’Unione. Sassoli in un video messaggio su Twitter aveva spiegato di essere stato «colpito in modo grave da una brutta polmonite da legionella: ho avuto febbre altissima, sono stato ricoverato all’ospedale di Strasburgo, poi sono rientrato in Italia per la convalescenza. Ma purtroppo ho subito una ricaduta e questo episodio ha spinto i medici a consigliarmi una serie di analisi e di accertamenti», che Sassoli aveva condotto in Italia, presiedendo da remoto le riunioni del Parlamento per l’intero mese di ottobre, tornando in persona nella plenaria di fine novembre. 

«La polmonite è una brutta bestia la cosa importante è evitare ricadute e la convalescenza deve essere adeguata» aveva detto al Corriere, in settembre.

David Sassoli, una vita tra giornalismo e politica. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera l'11 Gennaio 2022.

La sua formazione era cominciata da giovanissimo. Giornalista professionista dal 1986, è stato vicedirettore del Tg1 Rai. Nel 2009 è stato eletto parlamentare europeo per il PD. Lascia la moglie e due figli. 

Da volto familiare del TG1 a presidente del Parlamento europeo, quella di David Maria Sassoli è stata una vita divisa fra il giornalismo e la politica, a cavallo fra Firenze, Roma e Bruxelles fino a diventare nel 2019 presidente dell’Europarlamento . Nato nel capoluogo toscano il 30 maggio 1956, ha frequentato da giovane l’Agesci, Associazione guide e scout cattolici italiani. Il padre era un parrocchiano di don Milani e lui ha cominciato fin da giovane a lavorare per piccoli giornali prima di passare a «Il Giorno» e poi fare il grande salto in Rai.

Fiorentino di nascita ma romano di adozione, era diventato un volto noto alle famiglie italiane soprattutto per la sua conduzione del Tg della rete ammiraglia della Rai, di cui è stato anche vicedirettore durante l’era di Gianni Riotta. Una carriera che si chiuse nel 2009, quando Sassoli decise di dedicarsi alla politica. Candidato come capolista del neonato Partito democratico nella circoscrizione Italia centrale, venne eletto la prima volta con oltre 400mila preferenze e, forte di questo successo, diventa subito il capo della delegazione del Pd al Parlamento europeo.

Nel 2013 il tentativo di rientrare in Italia come sindaco di Roma si incaglia nelle primarie del Pd. Candidato in quota franceschiniana, Sassoli si piazza secondo, battendo il futuro presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ma ottenendo la metà dei voti di Ignazio Marino. Dopo un decennio passato fra i banchi di Bruxelles e Strasburgo, Sassoli — giunto alla sua terza legislatura — era uno degli eurodeputati più esperti. Nel 2014-2019 ricoprì la carica di vicepresidente per l’intero mandato, occupandosi soprattutto di trasporti (il cosiddetto terzo pacchetto ferroviario), politica euro-mediterranea e bilancio.

Il 3 luglio del 2019 David Sassoli, all’inizio del suo terzo mandato, venne eletto Presidente dell’assemblea. Nel suo discorso di apertura iniziale, Sassoli ribadì l’importanza di agire per contrastare il cambiamento climatico, la necessità di una politica più vicina ai cittadini e ai loro bisogni, soprattutto ai giovani, e l’urgenza di rafforzare la democrazia parlamentare e di promuovere i valori europei. Durante la situazione eccezionale e senza precedenti causata dalla pandemia di Covid-19, Sassoli si è impegnato affinché il Parlamento europeo rimanesse aperto e continuasse a essere operativo, introducendo — già nel marzo 2020 — dibattiti e votazioni a distanza, primo parlamento al mondo a farlo.

Sposato (con l’architetta Alessandra Vittorini) e padre di due figli, Livia e Giulio, tifoso della Fiorentina, Sassoli viveva a Roma ma appena possibile si spostava nella casa di Sutri, un delizioso paese medievale della Tuscia lungo la via Cassia, una trentina di chilometri a nord della capitale, per coltivare le sue passioni: giardinaggio e buone letture. Sassoli è stato il secondo presidente italiano del Parlamento europeo dopo Antonio Tajani da quando l’assemblea di Strasburgo viene eletta a suffragio universale. Il suo incarico sarebbe scaduto a giorni: la prossima settimana la riunione plenaria dell’Europarlamento che si riunirà a Strasburgo per eleggere il suo successore.

David e i becchini. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.  

Stavolta il fetore social fa ancora più schifo perché la sua vittima è un morto e il morto un uomo mite e perbene come David Sassoli. Magari il problema fosse solo quel «Roby» che storpia il cognome in Sassolini e si confessa felice per la scomparsa di un vaccinato, accompagnando l’alato concetto con sette emoticon di facce sghignazzanti: un coglione non fa primavera e nemmeno paura. Ma poi c’è Paolo Becchi, il filosofo, che senza lo straccio di una prova, figuriamoci di una provetta, adombra il sospetto di una correlazione tra la malattia di Sassoli e il vaccino. E sulla scia di Becchi arrivano i becchini, a frotte. Sassoli fronteggiava la leucemia da dieci anni, ma cosa volete che importi a questi saputelli del nulla, per i quali ogni lutto è un pretesto per seminare scompiglio? 

In una giornata del genere viene voglia di scendere dalla giostra digitale: come direbbe Forrest Gump, «sono un po’ stanchino». Certi soggetti sadici e frustrati che si attribuiscono, bestemmiandolo, il nome di Popolo, sono sempre esistiti: affollavano le piazze dove si alzavano i roghi dell’Inquisizione e le ghigliottine della Rivoluzione. Ora però tengono in palmo di mano un aggeggio che consente loro di destabilizzare chiunque all’istante, e di farlo sentendosi influenti e impuniti. Ridurne l’impunità dipende dalle leggi, ma ridurne l’influenza dipende solo da noi. Non potendo ignorarli, dobbiamo svergognarli, fino a quando diventeranno ciò che sono: marginali, ma soprattutto ridicoli. 

David Sassoli, il mieloma, il trapianto di midollo e le falsità dei no vax. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022. Anni fa l’insorgere della malattia. Sassoli era ricoverato all’Istituto Tumori di Aviano.

David Sassoli era ricoverato nel reparto di Oncoematologia dell’Istituto Tumori Friulano ad Aviano ed era seguito dallo staff medico del Centro di riferimento oncologico da lungo tempo. Anni fa Sassoli era stato colpito da un mieloma, un tumore del sangue, ed era stato sottoposto a un trapianto di midollo. Per questa ragione il 26 dicembre era stato deciso il suo trasferimento ad Aviano quando le sue condizioni si erano aggravate dopo un’ultima ricaduta nei giorni di Natale, seguita alla brutta polmonite da legionella di cui aveva parlato in un video il 9 novembre 2021, raccontando anche di un ricovero a Bruxelles. 

L’istituto di Aviano ha spiegato con una scarna dichiarazione le ragioni della morte di David Sassoli: «Una grave complicanza dovuta a una disfunzione del sistema immunitario». Niente altro, nessun particolare «nel rispetto del riserbo mantenuto dal presidente Sassoli e dalla famiglia». 

Quella di Aviano è una struttura di eccellenza a livello internazionale e segue pazienti con neoplasie dell’apparato emopoietico, leucemie acute e croniche e altre malattie di questo tipo. L’istituto di Aviano è una struttura modernissima, aperta nel 1984 e riconosciuta già dal 1990 come istituto di ricovero e cura a carattere scientifico da parte del ministero della Salute.

Un quadro clinico complesso da tempo, quello di David Sassoli, ma mantenuto sotto controllo fino alla polmonite da legionella che aveva pesantemente debilitato il suo fisico, come è purtroppo facile capire proprio dal video con la dichiarazione del 9 novembre. 

Nonostante tutto ciò, molti nell’area no vax hanno speculato persino sulla sua morte. Il filosofo Paolo Becchi si è chiesto: «Ma è morto in seguito alla terza dose? Non c’è nessuna correlazione? Non rendete pubblica neppure l’autopsia? O non la fate neppure? Costringete la gente a vaccinarsi e a morire. State costruendo una tirannia sanitaria mai esistita prima». Insieme a tante reazioni indignate, l’incredibile frase di Becchi ha scatenato anche altri messaggi di irrisione e di odio. 

Lo staff di Sassoli ha detto che, durante la malattia, «si erano diffuse in rete deliranti malevolenze su Covid e affini» e che la scelta di Sassoli era stata quella «di non replicare, di non inasprire i toni». Enrico Mentana, direttore del Tg La7, ha definito «ignobili esseri, vigliacchi» gli autori di alcuni messaggi su Twitter da parte di no vax che attribuivano la scomparsa di Sassoli alla terza dose di vaccino.

David Sassoli, la malattia e gli ultimi mesi di lavoro, con accanto la moglie e i figli. Paolo Conti su Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022. Sei mesi fa, Sassoli era stato colpito da una polmonite causata dalla legionella: ma si era ripreso bene, e aveva girato un video per smentire qualunque legame tra la malattia e il Covid, o il vaccino. Prima di Natale la ricaduta e la disfunzione, fatale, del sistema immunitario. In passato aveva avuto un mieloma, un tumore al sangue. 

Aveva avuto una polmonite da legionella, David Sassoli. Una polmonite dura, dalla quale sembrava essersi ripreso bene. Gli strascichi, però, erano stati molti. Nel fisico, e non solo: tanto che poco prima di Natale era stato «costretto» a girare un video nel quale — oltre a ricordate quanto fatto per il Parlamento europeo — Sassoli aveva smentito qualunque legame tra la sua malattia e il Covid o, peggio, i vaccini contro il coronavirus. 

I medici gli avevano consigliato però di rallentare, di abbassare il ritmo. E Sassoli aveva annunciato la decisione di non cercare la riconferma al vertice dell’Europarlamento — pur sapendo bene che avrebbe potuto concorrere di nuovo con ottime probabilità di successo. 

Poco prima di Natale, la nuova ricaduta, seguita dal ricovero ad Aviano. Solo a quel punto, il fisico di Sassoli ha cominciato a cedere. A combattere con lui, in ogni momento, c’erano la moglie Alessandra Vittorini, storica dell’arte e ora Direttore della Fondazione scuola dei Beni e delle attività culturali, e i figli Giulio e Livia. Una famiglia solida, com’era nello spirito e nelle attitudini di un uomo con profonde radici cattoliche familiari. In tutti questi anni di impegno politico europeo la famiglia è rimasta unita: quando la moglie e i figli si sono accorti che il suo fisico cominciava a dare segni di affaticamento, hanno insistito perché rallentasse. Anni fa, Sassoli era stato colpito da un mieloma, un tumore del sangue, ed era stato sottoposto a un trapianto di midollo. 

Sassoli ha voluto continuare a lavorare fino all’ultimo, fino a quando la «grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario» che lo aveva riportato in ospedale ha avuto la meglio. 

Ha insistito perché il Parlamento Europeo continuasse nel suo lavoro anche con le difficoltà dei voti a distanza perché, diceva, è l’assemblea eletta dalla base dei cittadini europei e deve essere sempre aperta. Nonostante la fatica, è riuscito a organizzare il passaggio di consegne: «L’ultima sua preoccupazione era stata, qualche giorno fa, che tutto funzionasse bene nel passaggio istituzionale tra un presidente e l’altro alla prossima plenaria, a Strasburgo», ha detto a SkyTg24 Roberto Cuillo, il portavoce.

E per capire quanto fosse solida la sua fede nell’Europa basta rileggere alcuni passaggi del suo discorso di insediamento alla presidenza dell’assemblea il 3 luglio 2019. 

«Dobbiamo avere la forza di rilanciare il nostro processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte alle esigenze dei nostri cittadini e per dare risposte vere alle loro preoccupazioni, al loro sempre più diffuso senso di smarrimento. La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l’Unione Europa». E ancora: «Sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere, che il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo per misurare le nostre politiche. Che da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori, che i nostri governi e le istituzioni europee che li rappresentano sono il frutto della democrazia e di libere elezioni». 

Sassoli, come raccontava lui stesso sul proprio sito, era nato a Firenze nel 1956, figlio di Domenico Sassoli, giornalista e intellettuale di cultura cattolica. Istintivamente aveva seguito le orme paterne: prima all’agenzia Asca, poi al quotidiano «Il Giorno», aveva partecipato alla fondazione dell’associazione «Articolo 21», movimento di difesa della libertà di stampa. 

La sua carriera come giornalista televisivo era cominciata nel 1992, come inviato di cronaca nel Tg3. Nello stesso periodo aveva collaborato con Michele Santoro nei programmi «Il rosso e il nero» e «Tempo reale». Nel 1996 aveva condotto la trasmissione pomeridiana «Cronaca in diretta», su Rai 2. Nel 1999 era entrato nella redazione del Tg1 come inviato speciale. Poi era diventato conduttore del Tg1 dell’edizione delle 13:30 e successivamente di quella delle 20. Nel 2007 Sassoli era divenuto vicedirettore del Tg1, nonché dei settimanali di approfondimento Speciale TG1 e Tv7. Nel 2004 era stato eletto Presidente dell’Associazione Stampa Romana. Poi l’ingresso in politica nel 2009 come candidato al Parlamento Europeo. 

Nel 2013 si era candidato alle primarie come sindaco di Roma, arrivando secondo dopo Ignazio Marino: e in Campidoglio si aprirà, giovedì 13 gennaio, la camera ardente per l'ultimo saluto (i funerali si terranno sempre a Roma venerdì 14, alle ore 12, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli). 

Il 3 luglio 2019 era stato eletto Presidente del Parlamento europeo, con 345 voti, al secondo scrutinio, con il sostegno dei gruppi europeisti. 

Tutti oggi gli riconosco un tratto umano di grande spessore, una capacità di mediazione e di dialogo difficili da individuare nel panorama politico: e non sono frasi di circostanza che si dicono e si scrivono oggi nelle ore della sua scomparsa, magari da parte di chi lo ha conosciuto e gli ha voluto bene da anni. 

Ma proprio perché David Sassoli aveva un carattere certo forte e deciso, pronto a difendere valori e idee, ma incapace di fratture definitive e di quegli scontri che aprono voragini invece che ricucire ferite. Persino «quando, recentemente, di fronte ai suoi gravi problemi di salute, si erano diffuse in rete deliranti malevolenze su Covid e affini, persino in quel momento la scelta di non replicare, di non inasprire i toni, gli era sembrata l'unica possibile», ha scritto oggi, su Facebook, il suo staff, in un ricordo che inizia con queste parole: «Si può vivere e morire in tanti modi. David Sassoli ha combattuto e lavorato fino all'ultimo possibile istante, informandosi, partecipando attivamente alla causa del bene comune con curiosità e passione indomabili nonostante lo stato di salute sempre più precario». 

Sta anche qui la sua eredità morale e politica, che oggi tutti gli riconoscono, avversari inclusi. 

Morto Sassoli: discorso insediamento a Parlamento Europeo, Ue di libertà e diritti. Il Corriere della Sera l'11 gennaio 2022.

Richiamo allo spirito Ventotene nel suo intervento a Strasburgo.  

Un’Europa delle libertà, dei diritti, della tutela della dignità umana e protagonista nella battaglia per la parità di genere: sono state questi alcuni dei pilastri che David Sassoli, il presidente del Parlamento Ue morto questa notte, indicò nel suo discorso di insediamento alla presidenza del Parlamento Ue. Era il 3 luglio del 2019. «Dobbiamo avere la forza di rilanciare il nostro processo di integrazione, cambiando la nostra Unione per renderla capace di rispondere in modo più forte alle esigenze dei nostri cittadini e per dare risposte vere alle loro preoccupazioni, al loro sempre più diffuso senso di smarrimento. La difesa e la promozione dei nostri valori fondanti di libertà, dignità e solidarietà deve essere perseguita ogni giorno dentro e fuori l’Ue», erano state le parole di Sassoli, che aveva chiamato tutti alla necessità di recuperare «lo spirito di Ventotene e lo slancio pionieristico dei Padri fondatori, che seppero mettere da parte le ostilità della guerra, porre fine ai guasti del nazionalismo dandoci un progetto capace di coniugare pace, democrazia, diritti, sviluppo e uguaglianza».

Quello di Sassoli fu in discorso di chiaro segno anti-sovranista. «In questi mesi, in troppi hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia», sottolineava infatti l’allora neo presidente dell’Assemblea di Strasburgo. E l’ex volto del Tg1 pose l’accento anche sulla necessità della tutela della democrazia e della libertà. «Sia chiaro a tutti che in Europa nessun governo può uccidere, che il valore della persona e la sua dignità sono il nostro modo per misurare le nostre politiche. Che da noi nessuno può tappare la bocca agli oppositori, che i nostri governi e le istituzioni europee che li rappresentano sono il frutto della democrazia e di libere elezioni. Che nessuno può essere condannato per la propria fede religiosa, politica, filosofica. Che da noi ragazze e ragazzi possono viaggiare, studiare, amare senza costrizioni», aveva rimarcato Sassoli alla sua prima Plenaria di Strasburgo.

David Sassoli, il mieloma, il trapianto di midollo e le falsità dei no vax. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 12 gennaio 2022.

Anni fa l’insorgere della malattia. Sassoli era ricoverato all’Istituto Tumori di Aviano.

David Sassoli era ricoverato nel reparto di Oncoematologia dell’Istituto Tumori Friulano ad Aviano ed era seguito dallo staff medico del Centro di riferimento oncologico da lungo tempo. Anni fa Sassoli era stato colpito da un mieloma, un tumore del sangue, ed era stato sottoposto a un trapianto di midollo. Per questa ragione il 26 dicembre era stato deciso il suo trasferimento ad Aviano quando le sue condizioni si erano aggravate dopo un’ultima ricaduta nei giorni di Natale, seguita alla brutta polmonite da legionella di cui aveva parlato in un video il 9 novembre 2021, raccontando anche di un ricovero a Bruxelles. 

L’istituto di Aviano ha spiegato con una scarna dichiarazione le ragioni della morte di David Sassoli: «Una grave complicanza dovuta a una disfunzione del sistema immunitario». Niente altro, nessun particolare «nel rispetto del riserbo mantenuto dal presidente Sassoli e dalla famiglia». 

Quella di Aviano è una struttura di eccellenza a livello internazionale e segue pazienti con neoplasie dell’apparato emopoietico, leucemie acute e croniche e altre malattie di questo tipo. L’istituto di Aviano è una struttura modernissima, aperta nel 1984 e riconosciuta già dal 1990 come istituto di ricovero e cura a carattere scientifico da parte del ministero della Salute.

Un quadro clinico complesso da tempo, quello di David Sassoli, ma mantenuto sotto controllo fino alla polmonite da legionella che aveva pesantemente debilitato il suo fisico, come è purtroppo facile capire proprio dal video con la dichiarazione del 9 novembre. 

Nonostante tutto ciò, molti nell’area no vax hanno speculato persino sulla sua morte. Il filosofo Paolo Becchi si è chiesto: «Ma è morto in seguito alla terza dose? Non c’è nessuna correlazione? Non rendete pubblica neppure l’autopsia? O non la fate neppure? Costringete la gente a vaccinarsi e a morire. State costruendo una tirannia sanitaria mai esistita prima». Insieme a tante reazioni indignate, l’incredibile frase di Becchi ha scatenato anche altri messaggi di irrisione e di odio. 

Lo staff di Sassoli ha detto che, durante la malattia, «si erano diffuse in rete deliranti malevolenze su Covid e affini» e che la scelta di Sassoli era stata quella «di non replicare, di non inasprire i toni». Enrico Mentana, direttore del Tg La7, ha definito «ignobili esseri, vigliacchi» gli autori di alcuni messaggi su Twitter da parte di no vax che attribuivano la scomparsa di Sassoli alla terza dose di vaccino.

Morto nella notte David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Von der Leyen: "Riposa in pace, orgoglioso italiano". La Repubblica l'11 Gennaio 2022.

Era ricoverato per una grave forma di disfunzione del sistema immunitario. Solo ieri aveva cancellato tutti i suoi impegni ufficiali.

Non ce l'ha fatta, David Sassoli. Il presidente del Parlamento europeo, ricoverato dal 26 dicembre per una grave forma di disfunzione del sistema immunitario, è morto all'1.15 della notte, a 65 anni. Si trovava nel centro oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone. A dare la notizia il suo portavoce da anni, Roberto Cuillo. Nelle prossime ore si sapranno la data e il luogo del funerale.

Ieri sempre Cuillo aveva annunciato la cancellazione di ogni impegno ufficiale del presidente. E subito erano arrivati messaggi di solidarietà da ogni forza politica e dalle istituzioni dell'Unione. Ancora ieri, dall'account Twitter di Sassoli, partiva un messaggio per ricordare Silvia Tortora, figlia di Enzo.

Sassoli - sposato e con due figli - aveva già dovuto annullare gli impegni istituzionali da settembre a inizio novembre dello scorso anno, a causa di una "brutta" polmonite dovuta al batterio della legionella, come lui stesso aveva spiegato in un video pubblicato su Twitter dopo la guarigione.

Una malattia che gli aveva impedito di presiedere la seduta plenaria nella quale la presidente della Commissione von der Leyen aveva pronunciato il discorso sullo stato dell'Unione. A dicembre Sassoli aveva detto che non si sarebbe ricandidato alla guida dell'Europarlamento. E giovedì prossimo era prevista l'elezione del suo successore, per la seconda metà della legislatura.

Giornalista, conduttore televisivo, vicedirettore del Tg1, Sassoli era entrato in politica come europarlamentare del Partito democratico nel 2009. Una vita con due grandi passioni: il giornalismo e la politica, declinata soprattutto in chiave europea. Un'esperienza, quella nelle istituzioni dell'Unione, culminata con l'elezione alla guida dell'assemblea di Strasburgo il 3 luglio del 2019 (già nel 2014 era stato vicepresidente). Nel 2013, invece, aveva provato a cimentarsi con la politica nazionale candidandosi alle primarie per il sindaco di Roma: arrivò prima di Paolo Gentiloni ma dopo il vincitore, Ignazio Marino.

Nato a Firenze, David Sassoli si era trasferito fin da piccolo a Roma seguendo il padre, giornalista (ma era rimasto tifoso della Fiorentina). Il liceo classico Virgilio, poi l'iscrizione a Scienze politiche, Sassoli passò però subito alla pratica professionale: Il Tempo, l'agenzia Asca, la redazione romana del Giorno e poi la Rai, dove venne assunto nel 1992. E in Rai divenne uno dei volti più familiari per il grande pubblico, come conduttore del Tg1, fino alla vicedirezione nell'era di Gianni Riotta.

Tra le sue ultime battaglie, l'impegno per il voto a distanza nell'era Covid all'Europarlamento e quello per i diritti in Russia e il caso Navalny, per cui era finito nella lista nera di Mosca.

All'alba è cominciato l'omaggio della politica sui social. Tra i primi il messaggio del ministro Dario Franceschini.

E poi la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen: "Riposa in pace, orgoglioso italiano".

Morte Sassoli, la camera ardente al Campidoglio. Venerdì i funerali di Stato per il presidente 'buono'. La Repubblica  il 12 gennaio 2022.  

Tre varchi per accedere alla Sala della Protomoteca per rendere omaggio dalle 10 alle 18 al presidente dell'Europarlamento.  Le esequie si svolgeranno in Santa Maria degli Angeli. A celebrare la messa il cardinale Matteo Zuppi. Parteciperanno Mattarella e i presidenti della Commissione e del Consiglio Eu, Ursula von der Leyen e Charles Michel. 

Funerali di Stato per David Sassoli dopo il  via libera del Consiglio dei ministri. Si svolgeranno a mezzogiorno di venerdì 14, le esequie del presidente del Parlamento europeo morto ieri all'età di 65 anni, nella chiesa di Santa Maria degli Angeli, in Piazza della Repubblica, a Roma.

Sarà il cardinale Matteo Zuppi a celebrare la messa. L'arcivescovo di Bologna e l'ex vice direttore del Tg1 si conoscono fin da ragazzi, quando frequentavano lo stesso liceo a Roma, il classico Virgilio. Negli ultimi anni si sono incontrati anche a Bologna, a settembre al G20 delle Religioni.

Giovedì 13 gennaio la camera ardente

Ci saranno tre varchi per accedere alla camera ardente in Campidoglio, allestita dalle 9 di giovedì, nella sala Protomoteca. Il questore ha emesso una ordinanza. Sarà transennata via di Monte Tarpeo per l'accesso delle autorità e della salma del presidente del Parlamento europeo. Ad accogliere il feretro sarà, alle 9 del 13 gennaio, il sindaco Roberto Gualtieri. Alle 9, 45 è previsto l'omaggio del presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Transenne anche su via San Pietro in carcere per l'arrivo dei cittadini che vorranno accedere dalle 10 alle 18 alla camera ardente. Altro varco in via Delle Tre Pile, all'angolo con via del Teatro Marcello, per consentire l'accesso alla stampa. Attorno ai varchi anche i servizi delle forze dell'ordine per evitare assembramenti. Per il giorno dei funerali di Stato è attesa una nuova ordinanza.

Mattarella, Von der Leyen e Michel presenti ai funerali

In chiesa arrieranno anche il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e i presidenti della Commissione europea e del Consiglio Europeo, Ursula von der Leyen e Charles Michel.

Anche il sindaco di Prato, Matteo Biffoni, con il gonfalone della città parteciperà alle esequie, porterà l'ultimo saluto della città a cui Sassoli è sempre stato molto legato. Prato lo commemorerà durante la riunione dell'assemblea cittadina convocata per giovedì 20.

Fake news No Vax, indaga la Polizia postale

Sarebbero in corso gli accertamenti della polizia postale sui post No Vax comparsi sul web dopo la morte di Sassoli. Sui social ieri infatti sono state diffuse fake news che mettevano in relazione la sua morte con il vaccino.

Bandiere a mezz'asta negli uffici comunali di Palermo

Bandiere a mezz'asta a palazzo Orléans e in tutti gli edifici che ospitano uffici dell'Amministrazione regionale siciliana il giorno dei funerali di Sassoli, lo ha stabilito il presidente della Regione Siciliana, Nello Musumeci. 

Al Bundestag un minuto di silenzio

Un minuto di silenzio alla prima seduta dell'anno del Bundestag per Sassoli. Su richiesta della presidente del parlamento tedesco, Baerbel Bas, i deputati tedeschi si sono alzati dai loro scranni in onore al presidente del parlamento Ue.

"Era un presidente del parlamento capace di concludere compromessi difendendo la democrazia", ha detto Bas introducendo la seduta, "è stato un indomito difensore dei valori europei. Nelle questioni più controverse ha sempre saputo tenere in mente che nella ricerca di soluzioni politiche non bisogna mai dimenticare il destino dei singoli".

Il ricordo degli stati membri Ue e del Csm

Un minuto di silenzio. Così è cominciata la riunione degli ambasciatori degli Stati membri presso l'Ue, il Coreper 2. Anche il Consiglio superiore della magistratura ha ricordato questa mattina il presidente del Parlamento europeo. "Un uomo delle istituzioni, una grande persona che ci ha rappresentato con coraggio e determinazione all'estero, del quale sentiremo tutti la mancanza", ha detto il consigliere laico Filippo Donati, prendendo la parola in plenum.

Al ricordo si è associato, a nome di tutto il Consiglio, il vicepresidente, David Ermini. "Ho avuto la fortuna di essere amico di Sassoli, era una persona di una trasparenza e limpidezza assolute. Ha esercitato il suo compito in modo esemplare, non è mai stato un uomo di parte, era un grande europeista. Le sue grandi passioni erano la politica verso gli ultimi e il sogno europeo".

Il presidente dell’Europarlamento David Sassoli è morto. Il Domani l'11 gennaio 2022.

Si è spento nella notte nel centro di riferimento oncologico di Aviano, dove era ricoverato

David Sassoli, il presidente dell’Europarlamento, è morto poco dopo l’una di notte presso il Cro (Centro di riferimento oncologico) di Aviano, in provincia di Pordenone, dove era ricoverato. Data e luogo delle esequie saranno comunicati nelle prossime ore. 

I PROBLEMI DI SALUTE

Ieri pomeriggio è stata diffusa la notizia ufficiale del ricovero e sono stati cancellati tutti gli impegni ufficiali. Il ricovero «si è reso necessario per il sopraggiungere di una grave complicanza dovuta a una disfunzione del sistema immunitario», recita la nota ufficiale con la quale si comunicava la sospensione degli impegni istituzionali e politici, e si riferiva che dal 26 dicembre il presidente era ricoverato in una struttura ospedaliera in Italia.

In questi mesi Sassoli aveva avuto problemi di salute e per un frangente si era ripreso, infatti era tornato all’Europarlamento a fine novembre. Come lui stesso ha raccontato all’inizio di quel mese in un messaggio video, «a settembre nel corso della plenaria sono stato colpito in modo grave da una brutta polmonite da legionella, ho avuto febbre altissima sono stato ricoverato all’ospedale di Strasburgo sono rientrato in Italia per la convalescenza ma purtroppo ho subìto una ricaduta». Poi però Sassoli si era rimesso in forze per poter partecipare alla plenaria di Strasburgo dal 22 al 25 novembre. Era anche a presiedere l’aula a metà dicembre.

STORIA DI UN PRESIDENTE

Sassoli, nato a Firenze nel 1956, aveva alle spalle una lunga carriera giornalistica di alto profilo e dal 2009 era impegnato in politica tra le file del Partito democratico; in quell’anno viene eletto europarlamentare ed è scelto dal partito come suo capodelegazione del gruppo pd al Parlamento Ue. Rieletto nel 2014, nel 2019 al terzo mandato viene anche eletto presidente dell’Europarlamento. Il 3 luglio 2019, nel suo discorso di apertura, Sassoli ribadisce l’impegno sul fronte del cambiamento climatico e invoca una politica più vicina ai cittadini, ai giovani in particolare. Parla dell’urgenza di rafforzare la democrazia parlamentare e i valori europei. David Sassoli è presidente quando la pandemia sconvolge la normalità, anche per le istituzioni Ue, e si trova impegnato per garantire che l’Europarlamento resti aperto e operativo. Introduce a marzo 2020 dibattiti e votazioni a distanza, il Parlamento Ue è il primo a farlo. 

A rivederci David Sassoli, leader riluttante dal sorriso gentile. Marco Damilano su L'Espresso l'11 gennaio 2022.  

Le chiacchierate fino a tardi su quell’Europa che ci faceva indignare, il discorso al campo di concentramento di Fossoli sintesi della tua vita, l’impegno nei giovani cattolici e poi nel giornalismo e nella politica: il ricordo di un amico

Quando muore un amico si scrive tra le lacrime.

Di David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, del mio amico David conservo l'ultimo messaggio di capodanno: «ci vediamo presto». E il ricordo più dolce, all'inizio di settembre, alla festa dell'Unità di Bologna, dopo un dibattito insieme. Avevamo parlato per quasi due ore dell'Europa che amavamo, «il fremito delle cose impossibili» del manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli ottant'anni dopo, e dell'Europa che ci deludeva e che ci faceva indignare, in cui tornavano i fili spinati, le discriminazioni, gli attacchi alla stampa. Tantissima gente e molti applausi per lui. E poi la lunga cena, con la moglie Alessandra e il portavoce Roberto Cuillo, a ridere e a scherzare, a tirar via fino a tardi, nel sentiero della festa ormai deserta, l'impegno di rivederci a Bruxelles, da me mai mantenuto, il saluto nella notte.

Il ricordo più intenso è di qualche settimana prima, l'11 luglio, la visita nel campo di Fossoli per l'anniversario dell'eccidio nazista di 67 internati politici il 12 luglio 1944. Forse la giornata più importante dei suoi due anni e mezzo di presidenza, da lui fortemente voluta. Una stupenda domenica di sole estivo, una piccola folla con Romano Prodi e con Pierluigi Castagnetti tra le baracche da cui il 22 febbraio 1944 partì anche Primo Levi verso Auschwitz. La preghiera del vescovo e del rabbino, Sassoli emozionato accanto alla presidente della Commissione europea, la tedesca Ursula von der Leyen, che riconosce: «La Resistenza ha ridato la libertà all'Europa. La devo ai vostri genitori e ai vostri nonni».

David aveva messo tutto se stesso nell'intervento di quella mattina: «Mi hanno sempre colpito gli occhi delle vittime, la fissità degli occhi che guardano, ma non vedono. Sì, gli occhi dell’umanità privata di umanità. Gli occhi delle vittime sono sempre gli stessi. Sono quelli delle foto nei lager, dei condannati a morte, quelli che ritroviamo sempre, in ogni guerra, in ogni persona violentata, annientata, nelle donne umiliate, nelle colonne di famiglie che scappano, nei bambini smarriti, in coloro che annegano, che si aggrappano alla vita e la perdono dicono lo stesso anche a noi oggi».

E ancora: «Quando diciamo di salvare i migranti ci dicono che stiamo facendo il gioco degli scafisti, oppure che la magistratura indipendente o il giornalismo sono espressioni di disordine, oppure che è meglio non agitare il buon senso quando difendiamo la dignità di persone che vogliono amarsi, quando in Europa, a differenza della maggior parte del pianeta, hanno il diritto di farlo perché da noi i diritti delle persone e l’umanità sono la misura di tutte le cose».

Aveva citato l'amato Giuseppe Dossetti, «per una lucida e vigile coscienza storica», contro «le negazioni, le amnesie, i volgari opportunismi», aveva ricordato i valori europei che «mettono paura, perché le libertà consentono uguaglianza, giustizia, trasparenza, opportunità, pace. E se è possibile in Europa, è possibile ovunque». Aveva ricordato il filosofo tedesco Ernst Bloch, in dialogo con il pensatore protestante Jorgen Moltmann: «Un novum storico non è mai totalmente nuovo. Lo precede sempre un sogno o una promessa».

Era felice quella domenica di sole David, in quel pezzo di Italia pulita, buona, operosa, in quell'angolo di Europa. Quel pellegrinaggio doveva apparirgli come la sintesi della sua vita, di tutto quello in cui credeva.

Aveva mantenuto sempre il sorriso timido, gentile, riservato, anche quando ogni sera appariva nell'edizione del Tg1 delle 20 e avrebbe potuto atteggiarsi a divo. Ma era inflessibile, intransigente nelle sue convinzioni, fedele alla buona battaglia che lo motivava fin da ragazzo, tra i ragazzi della panchina, in via Monte Zebio nel quartiere Prati di Roma, il gruppo Febbraio 74 con Paolo Giuntella che sarà giornalista del Tg1 come lui, al congresso della Dc del 1976 vinto dal candidato di Aldo Moro Benigno Zaccagnini a intonare dagli spalti del Palaeur il coro “Zac-Zac vincerà”.

È la storia di un gruppo di giovani cattolici che si ritrova nella Lega democratica di Pietro Scoppola e poi nell'associazione Rosa Bianca, intitolata agli studenti anti-nazisti Hans e Sophie Scholl, che Sassoli ricorderà nel suo discorso di insediamento da presidente del Parlamento europeo, il 3 luglio 2019. Una generazione cresciuta tra le tragedie, il terrorismo rosso che elimina i maestri come Moro e Vittorio Bachelet e gli amici come Roberto Ruffilli, «una generazione progressivamente privata di punti di riferimento, di modelli alternativi, di memoria storica», scrive Giuntella, «una generazione impoverita dalla caduta delle agenzie educative, dalla precarizzazione progressiva, che sembra voler ricercare con più umiltà e minori clamori un nuovo protagonismo responsabile».

Sassoli era uno di loro, uno della famiglia dei cattolici democratici, la stessa cultura politica di Sergio Mattarella. Quella cultura che della nostra Repubblica è l'ossatura e dell'Europa l'anima, il lievito vitale. La tensione tra le istituzioni e la società, tra la politica che è la leva per il cambiamento e la vita che è al di là della politica, la cultura di governo e il sentimento popolare, il riformismo e la profezia. La terra e il cielo.

Era arrivato tardi alla politica, con un suo percorso originale: era arrivato tardi alla politica, dopo essere arrivato ai vertici del giornalismo televisivo in Rai, dopo un inizio nella carta stampata. Inviato di Michele Santoro, conduttore dell'edizione di punta del Tg1, vice-direttore. Si era candidato nel 2009 al Parlamento europeo nel Pd e aveva preso oltre 400mila voti di preferenza.

Poteva essere un leader, ne aveva tutte le qualità, ma un leader riluttante, consapevole di sé, l'opposto del delirio narcisista che è il segno dei nostri tempi. Aveva una delicatezza e una sensibilità nel riconoscere le persone. Con uno stile di pulizia che ha portato in Europa e al vertice del Parlamento, sarebbe stato anche un perfetto presidente della Repubblica. E un fondo di malinconia nei bellissimi occhi chiari che non lo abbandonava mai.

Tra gli amici circola una foto del giovane Sassoli che martella il muro di Berlino. E in rete c'è un video di trent'anni dopo, l'ultimo voto in cui sono presenti gli europarlamentari inglesi, con il canto intonato nell'aula, Auld Lang Syne, il valzer delle candele, tutti i deputati che si tengono per mano e il presidente Sassoli che mormora al microfono: «Commovente». Il canto dell'addio, o meglio dell'a-rivederci, dove non ci sono confini, barriere, divisioni. 

Insieme lo avevamo detto nel salutare il nostro amico Paolo Giuntella, in una mattinata di maggio, nel 2008, di dolore e di festa per un giusto che se ne va, troppo presto. A rivederci David, nell'osteria del vecchio di Israele. Noi non ti dimenticheremo. Perché il sogno va cercato, la promessa va mantenuta, nella storia degli uomini e delle donne, imperfetta, fragile, sconosciuta, unica. 

David Sassoli e quei giorni in redazione con l’amore per il giornalismo. Gigi Riva su L'Espresso l'11 gennaio 2022.  

Collega de Il Giorno, aveva già una solida formazione politica eppure, in quella fase, prediligeva raccontare i fatti della vita piuttosto delle beghe di Palazzo. Ed era felice quando doveva partire in missione.

David Sassoli resterà sempre, per me, il compagno di scrivania al “Giorno”, redazione romana, fine Anni Ottanta, quando entrambi eravamo poco più che ragazzi, con l'esuberanza, i sogni di quella stagione e una passione sconfinata per la professione che ci eravamo scelti.

David era un perfezionista, sempre l'ultimo a consegnare l'articolo di giornata per l'ostinazione con cui voleva migliorare un aggettivo, cercare un più efficace giro di frase, trovare una notizia dell'ultima ora. Al costo di andare incontro ai rimbrotti di caporedattori che dovevano chiudere le pagine in tipografia.

Aveva già una solida formazione politica eppure, in quella fase, si era innamorato della cronaca. Prediligeva, di gran lunga, raccontare i fatti della vita piuttosto delle beghe di Palazzo. Ed era felice quando doveva partire in missione. In cuor mio ho sempre pensato che la scelta della televisione fosse stata obbligata dalle traversie economiche del nostro giornale: aveva troppo amore per la scrittura.

Accanto al David pignolo, meticoloso, perfezionista, le caratteristiche che lo rendevano ansiogeno, c'era l'altro David che prendeva il sopravvento a giornata lavorativa conclusa. Allora diventava il ragazzo ironico, affabile, battutista. Nonostante il velo di tristezza che non lo lasciava mai. Sino a farmi coniare per lui l'ossimoro per cui il suo bellissimo volto esprimeva una festosa malinconia.

Generoso, retto, con una solida visione del mondo, quando scelse la politica nella seconda parte del suo cammino terreno, ero sicuro che avrebbe avuto successo. Non per carrierismo ma per carattere, rispetto di sé, dei talenti che la natura gli aveva dato e che sentiva di dover mettere a frutto, si impegnava al massimo per diventare bravo in ciò che faceva.

L'avevo incontrato di recente in un 'occasione ufficiale e aveva smesso immediatamente i panni del suo prestigioso ruolo, ritrovato d'incanto i codici di comunicazione che avevamo, quando, usciti la sera dall'ufficio di via Due Macelli ci si diceva: beh, ora divertiamoci.

Sarebbe stato troppo presto anche se te ne fossi andato a cent'anni, caro David. Ora fa ancora più male. Al netto dell'amicizia, ci sarebbe stato bisogno del tuo esempio, della tua sete mai placata di sapere, di coprire ogni giorno i nostri buchi d'ignoranza.

David Sassoli: «Il diritto europeo prevale su quello nazionale: Ungheria e Polonia devono rispettarlo».

I contrasti con i paesi dell’Est, la necessità di abolire l’unanimità nel Consiglio, i corridoi umanitari per i migranti e il piano comune di accoglienza. Parla il presidente del Parlamento Europeo. Federica Bianchi su L'Espresso il 23 luglio 2021. La pandemia non ha soltanto scosso l’Europa dai suoi dubbi esistenziali. Ne ha chiarito le priorità per il futuro, dopo quindici anni di incertezze. «Ha bloccato l’economia e rischiato di bloccare anche la democrazia perché se si fossero fermate le istituzioni non avremmo avuto gli strumenti per rispondere alla crisi», dice nel suo ufficio di Bruxelles David Sassoli, al vertice dell’Europarlamento in questi primi due anni di legislatura: «Abbiamo tutti fatto uno sforzo intenso, imprevisto e non scontato.

È morto David Sassoli, una vita in difesa della giustizia nel segno dell’Europa. Federica Bianchi su L'Espresso l'11 gennaio 2022.

Il presidente del Parlamento Europeo si spegne a soli 65 anni. Da Roma a Bruxelles, dal giornalismo alla politica

«Se dobbiamo conservare la libertà di cui godiamo oggi, dobbiamo concentrarci su due cose: giustizia e solidarietà». E queste due cose, questi due valori chiave dell'Unione europea sono state le stelle polari dei due anni e mezzo del suo mandato a presidente dell'Europarlamento. David Maria Sassoli si spegne a 65 anni, una settimana prima della scadenza di quel mandato, tra la sorpresa di tutti coloro che con lui hanno condiviso la costruzione europea e il dolore dei tantissimi che a Bruxelles gli hanno voluto bene fin dal 2009, quando vi approdò dopo una carriera brillante nel giornalismo italiano.

«Datemi una giacca, una giacca, mi devo presentare», chiedeva affannato, emozionato e felice insieme, con quel rigo di sudore che gli segnava la fronte nei momenti più tesi, il giorno in cui, nell'estate del 2019, fu scelto dal gruppo dei socialisti, lui presidente della Commissione economia, per presiedere il parlamento, in ottemperanza agli accordi presi dalla "coalizione Ursula", ovvero da popolari, socialisti e liberali europei all'indomani delle elezioni europee. «Siamo immersi in trasformazioni epocali», disse nel suo discorso d'inaugurazione il 3 luglio 2019, «e dobbiamo recuperare lo spirito di Ventotene per porre fine ai guasti del nazionalismo». Erano i giorni in cui le estreme destre prendevano a cannonate le fondamenta del progetto europeo. I giorni successivi ai lunghi mesi pre-elettorali in cui «in troppi hanno scommesso sul declino di questo progetto, alimentando divisioni e conflitti che pensavamo essere un triste ricordo della nostra storia».

Un presidente europeista senza incertezze. Un leader che in cuor suo avrebbe voluto continuare il mandato anche nella seconda parte della legislatura di cui si sentiva garante ma che voleva fare «la cosa giusta» e che non avrebbe mai mancato di rispetto a nessuno. Nemmeno ai nemici o a chi, cercando motivo di critica, arrivava a rimproverarlo di non parlare l'inglese. «Un uomo buono, onesto, intelligente», dicono oggi di lui i tanti che con lui hanno lavorato gomito a gomito all'ultimo piano delle due sedi di Bruxelles e Strasburgo. «Addio amico mio», ha scritto Frans Timmermans, l'olandese socialista, vicepresidente della Commissione, che con lui condivideva il desiderio di uguaglianza, giustizia e solidarietà in Europa.

Alla vigilia di Natale, poco prima di entrare nuovamente in ospedale, aveva voluto registrare un messaggio di auguri, accanto all'albero addobbato. Lui che rifiutava categoricamente ogni muro, che voleva accogliere e non respingere alle frontiere dell'Europa; lui che si è sempre schierato con chi lotta per la libertà e la democrazia, dalla parte delle donne e dei giornalisti, contro disuguaglianza e precarietà, ha detto quello che ogni europeo dovrebbe imparare a scuola, la nozione di base da cui è scaturito quel piano di Recupero e resilienza che oggi offre un barlume di speranza per un futuro meno doloroso: «Nessuno è al sicuro da solo». Per questo «la nostra sfida è costruire un mondo nuovo che rispetta le persone, la natura e che crede in una nuova economia non solo basata sul profitto di pochi ma sul benessere di tutti».

Ripeteva spesso Sassoli, e non solo nei discorsi ufficiali, che «l'Unione europea non è un incidente della storia». Sentiva tutta la responsabilità del progetto europeo e non ha mai avuto mezze parole sulla necessità del rispetto dello stato di diritto. Lo scorso ottobre, ancora in ospedale per una grave polmonite non relativa al Covid, da cui si era ripreso dopo oltre due mesi a fine novembre, aveva ascoltato sconcertato ogni parola del discorso del premier polacco Mateusz Morawiecki, che giustificava la superiorità della Corte costituzionale polacca su quella europea, mettendo in discussione le fondamenta legali dell'intera Unione. Subito aveva reagito pubblicamente per iscritto, sottolineando come anche la Polonia avesse definito le leggi europee con tutti gli altri Paesi membri e che dunque non poteva parlare di «imposizione europea», lo slogan usato quotidianamente dalle forze sovraniste per indebolire la legittimità dell'Unione. E aveva ribadito: «Dobbiamo essere assolutamente chiari che se è vero che la nostra unità è rafforzata dalla nostra diversità c'è un aspetto del patto europeo che non è negoziabile: i nostri valori di democrazia, di libertà e dello stato di diritto». Ed è proprio la progressiva lacerazione dello stato di diritto in Polonia e Ungheria e anche in Slovenia, intensificatasi nel suo mandato, ad averlo addolorato negli ultimi mesi. Non solo come Presidente dell'istituzione più democratica e trasparente dell'Unione ma soprattutto come persona, come europeo, come credente.

Però indietro non voleva lasciare nessuno. Era dispiaciuto della Brexit («Londra fuori dall'Europa?» aveva detto durante un'intervista, e scuotendo la testa e sgranando quegli occhi azzurri che lo avevano reso volto popolare del TG1 in gioventù), cosciente che l'Europa «si fa con tutti», come disse un'altra volta di corsa (era sempre di corsa) sulla moquette a fiori gialli e verdi del bar del parlamento di Strasburgo, con quel sorriso lungo, lunghissimo che non negava a nessuno, anche quando era amaro. Lo aveva poi ribadito qualche settimana fa, in una cerimonia commemorativa dell'ex presidente francese Valéry Giscard d'Estaing, un repubblicano doc, di cui, lui progressista nel sangue, condivideva però la convinzione che l'Europa non fosse solo un costrutto economico ma prima di tutto un ideale culturale e spirituale. E se per d'Estaing il progetto europeo era «la fontana della gioventù per ognuno dei suoi membri», per Sassoli è sempre stato l'unico strumento per garantirne la sopravvivenza democratica in un mondo sempre più autocratico e l'unico modo per garantire i diritti di tutti, dei più deboli soprattutto. Garanzia assoluta di rispetto della libertà di espressione e dei diritti fondamentali. Perché gli europei non tornassero più a spararsi tra loro, come aveva fatto suo padre a vent'anni. Un passato così vicino. Come quello in cui lui resterà nel cuore di Bruxelles. Nel cuore d'Europa.

MARIO AJELLO per il Messaggero il 12 gennaio 2022.

Chi lo conosceva molto bene, e lo stimava profondamente come amico e come politico, è Pier Luigi Castagnetti, un cattolico naturaliter mattarelliano proprio come Sassoli: «David ha combattuto la malattia a lungo e in silenzio. Parlandone il meno possibile e dimostrando una profonda forza di carattere». 

Ecco, se c'è un esempio culturale di italiano senza lagna, con la fiducia negli occhi e lo sguardo rivolto sempre avanti, un po' da forever young, è Sassoli. Ora che non c'è più, gli amici tra le tante immagini ormai velate di lacrime ricordano quella davanti al Muro di Berlino, nell89. 

David che, nella capitale tedesca da giornalista, prende a martellate la cortina di ferro, un gesto inusuale per un tipo pacato come lui. Ma quelli di Sassoli erano colpi che aprivano, che davano spazio a un mondo nuovo e fiato alla libertà. Non picconate ma prove di ricostruzione. 

I vecchi colleghi del Tg1 lo raccontano proprio così. Come uno che non sopportava le barriere e i paraocchi. Andavano da lui i giornalisti del tiggì ammiraglio, quando ne era il vicedirettore, e gli dicevano: «David, non credi che bisogna mordere di più contro Berlusconi e invece ci stiamo appiattendo?». E lui, che pure è stato un uomo di parte e la sua parte non sarebbe mai potuta essere la destra: «Si morde se c'è qualcosa su cui mettere in denti ma per principio, o per pregiudizio, non si morde mai». 

«Era un cattolico democratico - spiega ancora Castagnetti - che aveva in La Pira, Dossetti e Moro i suoi punti di riferimento». Ed era capace di parlare di Moro anche nelle serate al ristorante a Bruxelles con i colleghi dell'Europarlamento, doveva aveva fatto tanta gavetta fino a diventare il presidente dell'assemblea, e una sera intrattenne i commensali con questo discorso tra una birra e l'altra: «Si tratta, come diceva Moro, di vivere il tempo che è stato dato con tutte le sue difficoltà. Si tratta però, anche, di essere coraggiosi e fiduciosi».

Sassoli ha avuto fiducia, da politico europeo, da patriota, nel ruolo dell'Italia nel mondo. Il suo timbro tra Bruxelles e Strasburgo - dove dice ancora Castagnetti «ha resto l'Europarlamento un potere al pari della Commissione e del Consiglio europeo e quando queste hanno avuto difficoltà l'istituzione guidata da David ha fatto da supplenza» - è stato quello di un italiano in missione per umanizzare l'Europa. «Spesso - racconta Carlo Calenda, eurodeputato - ci siamo incontrati nel gabbiotto per fumatori al bar del Parlamento europeo. E ogni volta mi diceva: a Carle', e torna nel Pd...».

I RAGAZZI DELLA PANCHINA Ma prima di essere uno del Pd, Sassoli che alla politica professionale è arrivato tardi (con la candidatura europea nel 2009 e ottenne oltre 400mila voti), è stato tante altre cose. Ieri la redazione del Tg1 era subissata di messaggi in ricordo di quando era il mezzobusto più famoso e più bello, occhi azzurri luminosi ma velati di malinconia, dell'edizione delle 20, e c'è chi ha scritto così: «Sono cresciuta con David Sassoli al tg delle sera. Quelli perbene entrano in casa senza spintoni». 

E proprio al tg fu protagonista di questa gag con Fiorello. Che la ricorda così: «Con Baldini ci collegammo al Tg1 e dissi a Sassoli in diretta: voi rappresentate la sacralità istituzionale ma tu potresti uscire un attimo del tuo ruolo? Dai, fallo, sennò di do una capocciata. Chiedi a Sassoli di fare la ola insieme a noi. Poi comparve Mike e gridò: allegriaaaa...».

Ed era stata allegra anche la scena che racconta, tra gli altri, il suo amicissimo Franceschini. David - una formazione scout, poi nella Rosa Bianca e nella Lega democratica - era tra i ragazzi che al congresso della Dc del 76, poi vinto dal candidato di Moro, Zaccagnini, dagli spalti del Palaeur gridava: «Zac Zac vincerà!». Fiorentino di origini, ma molto romano d'azione Sassoli. 

Era uno dei ragazzi cristiani e di sinistra della panchina di via Monte Zebio a Prati, di fronte alla sede dell'Agesci e dietro al palazzo Rai di Viale Mazzini, e quella formazione - fatta di ammirazione e consuetudine lo storico Pietro Scoppola, con affinità personale e professionale con Paolo Giuntella e via così - gli è restata dentro fino alla fine, insieme alle canzoni di Guccini.

Si candidò alle primarie del Pd nel 2013 per il Campidoglio, arrivò secondo dopo Marino e prima di Gentiloni e - assicura Castagnetti - sarebbe stato un sindaco di Roma molto popolare, un sindaco dell'ascolto e della frequentazione del rasoterra della città». Quella la sua indole spirituale. E a chi poi nel 2014, quando fu ricandidato in Europa sosteneva che la sua elezione era in bilico, dopo la vittoria con 205mila voti inviò una t-shirt con su scritto: «205mila volte in bilico». Ora David è andato oltre il bilico della morte, e lascia milioni di inconsolabili.

Bon courage. David Sassoli, il presidente empatico sempre dalla parte degli ultimi. Vincenzo Genovese su L'Inkiesta il 12 Gennaio 2022.

Il giornalista e politico ha affrontato il suo mandato con determinazione, come ricorda a Linkiesta i tanti eurodeputati e colleghi che hanno lavorato con lui. Lascia in eredità conquiste significative nella storia dell’integrazione comunitaria. E un monito: «La democrazia e la libertà non vengono dati una volta e per sempre»

Giornalista di cronaca, inviato televisivo, conduttore dal sorriso rassicurante. Poi uomo delle istituzioni attento alle sofferenze dei più deboli, presidente del Parlamento europeo al tempo della Brexit e della pandemia, due dei momenti più difficili nella storia dell’Unione europea. E sempre, ancor di più, uno di noi, come amava definirsi David Maria Sassoli, morto a 65 anni l’11 gennaio 2022. 

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Chi lo ha conosciuto da vicino lo racconta esattamente così: era impossibile scindere l’uomo politico dal privato cittadino. «Un essere umano speciale, perché ricopriva il suo ruolo con lo stesso identico approccio che adottava nella vita di tutti i giorni. Questa qualità non l’ho trovata in nessun altro politico», dice a Linkiesta Alfredo Marini, che ha partecipato alla campagna elettorale del 2014 e qualche anno più tardi ha lavorato nel team del presidente all’Eurocamera. «Dopo una giornata sfiancante si fermava con noi a parlare dei grandi temi europei e lo faceva con la stessa passione che esprimeva negli interventi pubblici».

La vicinanza sincera alle persone gli è stata restituita nell’abbraccio corale del minuto di silenzio e di applausi davanti alla sede di Bruxelles del Parlamento, dove si sono riuniti europarlamentari e cittadini comuni.

Garbo, gentilezza ed empatia hanno sempre contraddistinto parole e azioni di David Sassoli, confermano i suoi colleghi giornalisti e deputati. Caratteristiche da non confondere con la remissività: il sedicesimo presidente dell’Eurocamera conduceva fino in fondo le sue battaglie e non derogava ai suoi principi.

Se i modi erano pacati e le parole misurate, le idee sono sempre rimaste molto chiare. Era un politico mite ma capace di scaldare i cuori, grazie a quella «capacità di combinare idealismo e mediazione» che gli ha riconosciuto il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi.

«È stato un Presidente sempre dalla parte dei più fragili e degli ultimi, capace di battersi per i diritti e i valori fondanti dell’Europa», spiega a Linkiesta Alessandra Moretti, europarlamentare del Partito democratico. I fronti aperti erano tanti, in questi due anni e mezzo di presidenza, anticipati in un memorabile discorso di insediamento.

Figlio di partigiano, aveva parlato del padre – costretto a combattere contro altri europei – e della madre, sfollata per fuggire dalla guerra. Aveva celebrato l’eredità della storia europea «scritta sul dolore», e poi denunciato strumenti insufficienti per fronteggiare le attuali spine nel fianco dell’Unione.

A partire da quella, ricorrente, delle migrazioni. L’Europa non si difende con i muri, ripeteva spesso nei suoi interventi – tutti, o quasi, in italiano – convinto che l’umanità fosse uno dei tratti distintivi dell’Unione europea e che la solidarietà fra gli Stati fosse la chiave per affrontare la questione.

La condivisione dei problemi a livello comunitario era il punto di partenza su cui costruire risposte comuni: solo quando i cittadini italiani saranno preoccupati per il confine tra Russia e Finlandia o quelli dei Paesi nordici per le morti nel Mediterraneo, spiegava all’inizio del 2020, l’Unione europea avrà trovato il suo compimento.

Attento ai problemi ambientali, preoccupato per le diseguaglianze, sostenitore della necessità di allargare i confini europei autorizzando l’ingresso di Albania e Macedonia del Nord: così lo ricordano, commossi, i suoi collaboratori al Parlamento. Ma anche strenuo difensore dei diritti umani (tanto da ricevere un divieto d’ingresso in Russia per l’impegno dell’Eurocamera in questo senso) e della libertà di stampa, principio inderogabile che ha inteso valorizzare con il lancio del premio per il giornalismo investigativo dedicato a Daphne Caruana Galizia. Dopo essersi trovato da entrambi i lati della barricata, era convinto che proprio il giornalismo libero e indipendente fosse uno di quei «meccanismi che ci permettono di controllare chi sta al potere».

La tenacia con cui Sassoli perseguiva le proprie convinzioni è sottolineata pure dal suo portavoce Roberto Cuillo, che a Linkiesta rimarca l’impegno nell’avvicinare le istituzioni europee ai cittadini. «Ha fatto della gentilezza quasi un contenuto politico ed è stato un innovatore importante nella storia del Parlamento». Probabilmente la persona giusta al momento giusto quando l’Europa è stata colpita dalla pandemia di Covid-19, che ha condizionato pesantemente la vita comunitaria ma non ha mai comportato la chiusura dell’Eurocamera.

Fermo sostenitore dell’importanza, anche simbolica, di lasciare aperta la casa della democrazia europea, Sassoli ha infatti lavorato per mantenere in funzione l’emiciclo comunitario, pur a scartamento ridotto e senza le abituali trasferte nella sede di Strasburgo. «Nel pieno della pandemia ha anche destinato un edificio del Parlamento al ricovero delle donne senzatetto, fornendo loro alloggio, protezione e pasti caldi dalla mensa parlamentare», ricorda il portavoce.

Proprio nella crisi sanitaria è emersa forte la sua postura federalista: Sassoli ha guidato il fronte della politica europea favorevole alla condivisione del debito accumulato dagli Stati, prima sostenendo la necessità di titoli comuni (i cosiddetti coronabond), poi contribuendo in maniera significativa alla nascita e all’approvazione del Next Generation Eu.

Ma non è l’unico lascito significativo della sua presidenza: una pressione costante del Parlamento ha permesso l’adozione del meccanismo che vincola l’esborso dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto, arma più incisiva contro le derive illiberali di Polonia e Ungheria rispetto alle procedure di infrazione della Commissione europea.

Da «appassionato amante della Politica con la P maiuscola», come lo definisce il vice-presidente del Parlamento Fabio Massimo Castaldo, ed «europeista sincero», come lo ricorda il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, Sassoli si è speso a lungo anche per la Conferenza sul Futuro dell’Europa, l’evento di democrazia partecipativa che coinvolge 800 cittadini europei estratti a sorte e di cui non potrà apprezzare l’esito, la prossima primavera.

L’avanzamento dell’integrazione europea è sempre stato per lui l’unico orizzonte a cui guardare, a costo di modificare i trattati comunitari. Un obiettivo da perseguire con fermezza, ma senza perdere il sorriso. Come quando, in una conferenza stampa del novembre 2019, spiegò il suo punto di vista sul diritto di veto concesso in molti campi agli Stati dalle regole attuali: «Neanche un condominio funziona con un sistema che richiede l’unanimità».

Parole semplici e alla portata di tutti, ma che svelano una volontà ferrea: quella di lasciare l’Europa un po’ meglio di come la si è trovata, piuttosto che recitare da comparsa all’interno delle istituzioni. Ai più giovani diceva che il lavoro della sua generazione era quello di porre le basi perché questo continente acquisisse una statura politica autonoma, in grado di rispondere alle sfide globali. Ora che il solco è tracciato, toccherà a loro chiudere il percorso.

I CATTOLICI IN POLITICA. Lo spirito educatore di David Sassoli che ti fa dialogare sempre con tutti portando rispetto. ROBERTO NAPOLETANO su il quotidiano del Sud il 12 Gennaio 2022.

L’idea politica originale della solidarietà sociale e, cioè, di un mondo in cui tutti si sostengono a vicenda. Che non si è neppure percepita. La Lega democratica di Scoppola e Ardigò e la Rosa Bianca di Giuntella maestro di Sassoli testimoniano il tentativo non riuscito dei cattolici in politica di superare la Democrazia Cristiana. Simboleggiano la fine dei grandi partiti che a differenza del dossettismo e del degasperismo non sono riusciti a riciclarsi negli ideali prima ancora che nell’organizzazione. Lasciando, purtroppo, campo libero ai populismi e ai sovranismi con il loro carico di egoismo e di autoritarismi in Europa e in Italia. Si farebbe bene a riflettere sul richiamo di Draghi alla lotta alle diseguaglianze partendo dalla scuola

David Sassoli era un cattolico di sinistra che aveva una caratteristica che lo accomunava al suo maestro politico e di vita Paolo Giuntella. Una caratteristica che la sinistra laica della doppia morale pratica poco. Uno spirito educatore che ti fa dialogare sempre con tutti, anche con il più acerrimo degli avversari portando rispetto. Uno spirito educatore che ti spinge ad abbracciare con più forza di prima un amico che ha una difficoltà senza nascondersi dietro il paravento del dimenticatoio della meschinità.

Quello spirito educatore che ha il garbo e il tratto gentile del Presidente del Parlamento europeo che non c’è più e che ha sempre messo la difesa dei deboli al primo posto perché esprime valori che sono dentro e non se ne vanno. Quello spirito educatore che non può non ricordarmi il faccione allegro e le guance rosse di Paolo Giuntella, per me un “fratello maggiore”, che anche lui non c’è più. Un ricordo che mi consente di risentire il suo “urlo” imperativo sul vespone bianco o intorno al tavolo di un’osteria romana: «Ricordati, la morte non ha l’ultima parola, hai capito?».

Appartiene a Sassoli come alla Rosa Bianca di Giuntella, ancora prima alla Lega democratica di Pietro Scoppola e di Achille Ardigò, ai Ruffilli e al mondo dei cattolici progressisti e dell’associazionismo, fino all’Ulivo di Romano Prodi, il grande sogno della casa politica della solidarietà. Che è l’Utopia. Che è una politica cattolica che difende i più deboli. Che supera la Democrazia cristiana e raccoglie in un’altra cosa l’eredità del dossettismo e del degasperismo diversi ma uniti dalla lotta alle diseguaglianze.

Se si vuole rendere omaggio con lealtà allo spirito civico e alla capacità di ascolto dell’uomo David Sassoli e al grande italiano al servizio dell’Europa e dei suoi cittadini, bisogna avere il coraggio di dire che la Lega democratica capostipite del suo impegno politico impersonifica il tentativo non riuscito di superare la Democrazia cristiana. Simboleggia la fine dei grandi partiti che non sono riusciti a riciclarsi negli ideali prima ancora che nell’organizzazione. Lasciando, purtroppo, campo libero ai populismi e ai sovranismi con il loro carico di egoismo e di autoritarismi.

Anche il Pd è stato, a suo modo, l’esempio di una fusione fredda. C’è stato un transito di classe dirigente che non è riuscita a portarsi dietro il suo mondo. La Dc si fondava sul fatto che esisteva un mondo cattolico, ma a un certo punto questo mondo cattolico così come era allora è finito. L’idea che quello che restava di quel mondo potesse proseguire altrove si è rivelata perdente. Poteva trasmigrare una classe dirigente, ma non poteva trasmigrare il retrostante di valori su cui era nata questa classe dirigente.

Fuori da quel contenitore il retrostante di valori si è frantumato, diviso in mille lidi, ha perso identità. Si è consumato il dramma della presenza pubblica dei cattolici che non c’è.

Dalla Lega democratica fino a Enrico Letta, ultimo epigono di questa storia, c’è la dimostrazione palese che questa storia non riesce più a essere vivificatrice. Pensiamo anche a quello che è successo a Prodi o a Andreatta. Hanno fatto moltissimo. Hanno fatto pezzi importanti di storia. Alla fine, però, si sono bruciati. Hanno fatto tutto quello che hanno potuto, ma sono rimasti vittime perché dovevano salire dietro un carro le cui redini le aveva un altro. A sua volta portatore di altri valori.

Sassoli ha fatto la fuga in avanti e si è proiettato sull’Europa. Ha cominciato la nuova storia, ma non è arrivato a un nuovo contributo fondativo all’altezza della tradizione forte democristiana. Capace, cioè, di generare una nuova forza politica anche se non più solo cattolica legata comunque a quella idea fondamentale dell’impegno dei cattolici in politica di inizio secolo e del secondo dopoguerra che è la solidarietà. Il grande sogno, l’Utopia appunto. L’idea originale di un mondo in cui tutti si sostengono a vicenda. Parliamo dell’idea che i nostri destini sono intrecciati in un disegno comune che non si è voluta accettare. Che, peggio, forse non si è nemmeno percepita perché non è mai stata presa nemmeno in considerazione.

Fanfani, Dossetti, in modo diverso De Gasperi, hanno espresso in modo compiuto l’idea politica con cui contrapporsi al liberalismo e al comunismo. Non volevano che la solidarietà sociale si trasformasse in solidarietà di classe, e hanno fatto la solidarietà sociale, hanno dato all’Utopia una prospettiva concreta. Questa idea, finita la stagione d’oro, ha avuto di volta in volta testa e gambe per la nobiltà delle singole persone che avevano dentro questo valori e hanno provato a farli camminare. A tratti anche riuscendoci. Il richiamo di Draghi alla lotta alle diseguaglianze partendo dalla scuola e l’idea compiuta di un’Europa federale e solidale entrano nel solco di questa nobile tradizione. Purtroppo il fossato scavato dai populismi e dai sovranismi con i servilismi reciproci di un mondo dell’informazione autoreferenziale e inadeguato fanno sì che nemmeno la pandemia e la tragedia che porta con sé facciano scattare una vera solidarietà sociale.

Perché il demos europeo non è ancora mai davvero nato, resta nella testa di un’avanguardia, determina scelte importanti come Next Generation Eu ma non conduce a cambiamenti strutturali di lungo termine. Il demos italiano è stato consumato e vilipeso da un federalismo regionale unico al mondo tanto egoista quanto miope. In Europa e in Italia populismo e sovranismi hanno potuto fare il loro indisturbati. Spesso con il favore ignobile delle élite. Sono i costi della laicizzazione dove i valori non esistono più. Perché esistono solo gli individui e i loro interessi particolari, nessuno sa più bene che cosa sia l’interesse generale. I diritti individuali hanno vinto sui doveri collettivi.

Questo ci dice la storia raccontandoci quanto amara è la sconfitta della politica. Anche se l’Italia resta il Paese europeo con il più alto numero di personalità di quell’Europa solidale dell’avanguardia che avremmo il dovere di fare diventare classe dirigente politica di lungo termine in casa e di promuovere e sostenere a livello europeo. Un cattolicesimo che sa parlare con i laici senza rinunciare ai suoi valori deve ritrovare la sua casa politica. Nel frattempo, mi piace pensare che di là, in Paradiso, con il suo sorriso indisciplinato il maestro Paolo ha cominciato a fare strani gesti all’allievo David e sta tuonando soddisfatto: «Avevo ragione io, la morte non ha l’ultima parola». Ai coristi, la fede è allegria, si rivolge con un ordine secco: meno lagne e più soul.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Quando Fiorello fece fare la ola a Sassoli durante il Tg1. Il quotidiano del Sud l'11 Gennaio 2022.

Quello di David Sassoli, morto oggi a 65 anni (LEGGI), era un volto simpatico e familiare per il pubblico della Rai. Memorabile il siparietto in cui Fiorello, nel 2006, gli fece fare la ola dalla scrivania del Tg1.

In collegamento con la sede Rai di Via Asiago, Fiorello e Marco Baldini stavano per andare in onda con Viva la Radio in formato tv, sulla scia del grande successo di Viva Radio2. Sassoli, in conduzione, enfatizzava dallo studio del Tg1 l’attesa per la trasmissione e per un ospite, un grande personaggio della tv in carne ed ossa, mentre Mike Bongiorno, accovacciato ai piedi di Fiorello e Baldini, si alzava e abbassava lentamente apparendo e scomparendo dell’inquadratura.

Sul finale la richiesta stravagante di Fiorello per uscire un po’ fuori dallo schema di sacralità del Tg1 “e regalare un momento di buon umore a tutta la nazione”. Sorridendo, Sassoli si prestò a fare la ola, subito dopo Fiorello e Baldini. Lo sketch si chiuse con una nuova apparizione di Mike e la sua espressione tipica “Allegria”. 

È morto a 65 anni il presidente del Parlamento Ue, David Sassoli. Francesco Curridori l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale. Sassoli si è spento stanotte a causa di una brutta malattia al sistema immunitario.

Giornalista appassionato, cattolico devoto e politico apprezzato anche dagli avversari. David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, si è spento questa notte a causa di una brutta malattia al sistema immunitario per la quale era ricoverato dallo scorso 26 dicembre.

Nato 65 anni fa a Firenze, eredita dal padre Domenico, ex firma de La Nazione e de Il Popolo, la passione per il giornalismo. Con la famiglia si trasferisce ben presto a Roma dove frequenta il liceo Virgilio e qui incontra quella che, poi, diventerà sua moglie Alessandra Vittorini, sovrintendente ai Beni Culturali de L’Aquila, dalla quale avrà due figli: Giulia e Livia. Da giovane segue le orme del padre che, insieme a Paolo Prodi e Pietro Scoppola, nel 1975 dà vita alla Lega Democratica con cui anima il dissenso all'interno della Democrazia Cristiana. Il principale faro ispiratore di Sassoli è il sindaco di Firenze Giorgio La Pira.Di giorno collabora con varie testate e la sera la trascorre con l'amico e maestro Paolo Giuntella, compianto quirinalista Rai che lo spinge a impegnarsi nella Rosa Bianca, movimento di ispirazione cattolico-democratico. Nel 1985, mentre lavora all'agenzia cattolica Asca, è protagonista di uno scoop che però verrà pubblicato da Famiglia Cristiana. Sassoli è testimone dell'incontro, tenutosi a Parigi, tra l'allora ministro del Lavoro Gianni De Michelis e il terrorista di sinistra Oreste Scalzone in cui i due parlano chiaramente di amnistia.

Nel 1985 entra nella redazione del quotidiano Il Giorno dove si occupa di politica e segue in prima persona eventi storici come la caduta del muro di Berlino. Nel 1992 passa alla Rai. Qui, inizialmente è inviato per il Tg3 e, in seguito, per i programmi di Michele Santoro finché Carlo Freccero lo chiama per condurre su Raidue la trasmissione Cronaca in diretta. Nel giro di pochi anni passerà a condurre il tg1 delle 20, ma nel 2000 è protagonista di un grave errore. "Ho sbagliato. La peggior sanzione che mi poteva capitare l’ho già ricevuta a casa mia. Ho una bambina piccola e mia moglie ha spento la televisione”, dirà Sassoli ai colleghi chiedendo scusa per un servizio sulla pedofilia in cui aveva fatto inserire immagini troppo esplicite e forti. Diventa vicedirettore del tg1 sotto gli anni di Gianni Riotta, ma poi nel 2009 decide di lasciare il mondo del giornalismo per dedicarsi alla politica, fortemente sponsorizzato dall'amico Dario Franceschini.

"Nella vita di ciascuno esistono dei tempi. C’è un tempo per la professione, per il mestiere e, forse, poi, arriva anche un altro tempo. Quello di occuparsi della propria comunità, del proprio Paese”, dirà parlando del suo passaggio da piazza Mazzini a Bruxelles dove viene eletto nel 2009, dopo aver ottenuto ben 400mila preferenze all'Europee di quell'anno. Nel 2012 partecipa alle primarie del Pd per il candidato sindaco di Roma, ma ottiene solo il 28% e viene nettamente sconfitto da Ignazio Marino. Due anni dopo viene rieletto a Bruxelles dove viene votato come vicepresidente del Parlamento europeo, trampolino di lancio per il ruolo di presidente che otterrà nel 2019, grazie ai voti della cosiddetta 'maggioranza Ursula' che governa in Europa. Lo scorso 14 dicembre, parlando con il Corriere della Sera, aveva annunciato che non si sarebbe ripresentato per un secondo mandato da presidente proprio per non dividere il fronte europeista guidato dai popolari e dai socialisti. "Prima vengono le istituzioni", aveva detto. In quell'occasione aveva rivendicato il cambiamento radicale delle politiche di Bruxelles con l'approvazione del piano Next Generation You, ma aveva anche espresso il suo rammarico per non essere riuscito a modificare le politiche dell'Ue sull'immigrazione. "L’egoismo di alcuni governi indebolisce l’UE. Le parole di Papa Francesco in Grecia sono state una boccata d’ossigeno. Voglio rassicurarlo però che in Europa non siamo tutti uguali. Se non c’è rispetto della vita non esiste l’Europa. E questo è il momento di passare dall’odio alla solidarietà responsabile", aveva detto. A settembre Sassoli era stato colpito da "una brutta polmonite di legionella" e aveva dovuto interrompere tutti i suoi impegni istituzionali. Si era ripreso, ma subito dopo Natale le sue condizioni di salute sono peggiorate e stanotte è deceduto.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono

"Abbatteva i muri. E ha ottenuto rispetto anche dagli avversari". Laura Rio il 12 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Il collega Rai: "Tanti giornalisti si pentono della carriera politica. Lui è riuscito pure lì".  

«Sì, certo, aveva umanità, rispetto, garbo, grande passione per il giornalismo e rigore professionale. Ma si può anche sottolineare un altro aspetto importante per un giornalista televisivo: era un grande anchorman all'americana, con quegli occhi azzurri e una bellezza da attore che bucava lo schermo. In più, era anche intelligente. E quindi non si adagiava sull'aspetto fisico, non si fermava al lavoro di conduttore, ma andava in giro a scoprire e raccontare il mondo».

A soffermarsi sul lato «apparente» di David Sassoli è un collega che di tv ne ha fatta tanta e che lo ha conosciuto fin dai suoi esordi nella Tv di Stato: Antonio Di Bella, appena tornato dagli Stati Uniti per assumere la direzione di genere del Day Time. La notizia della morte del collega lo ha scosso profondamente, hanno la medesima età e iniziato negli stessi anni: nel 1992 David era approdato in Rai nelle trasmissioni di Michele Santoro Il rosso e il nero e Tempo reale per poi passare nella redazione del Tg3 (dove c'era Di Bella, già allora a New York) e arrivare velocemente al Tg1 nel 1999 prima come inviato speciale, poi conduttore e vice direttore fino al 2009 quando decise di entrare in politica.

Sassoli era telegenico, ma non se ne compiaceva. Per questo era molto amato dal pubblico.

«Infatti era una presenza discreta. Seguiva gli insegnamenti di Albino Longhi: si deve entrare in punta di piedi in casa degli spettatori all'ora di cena. Il rispetto era una delle sue doti più grandi: si era formato con le figure di David Maria Turoldo e Giorgio La Pira. Gli ho sempre invidiato questa sua profonda voglia di servire l'altro, di attenzione al sociale. Mi restano scolpite due sue richieste: aprire le porte del Parlamento europeo a chi soffre il freddo e non infliggere il rigore alle popolazioni che soffrono».

Un ricordo di lui?

«Una sera a cena, era deluso per qualche problema sul lavoro, quando ancora era in Rai. Diceva che tanto poteva tornarsene in Toscana dai suoi ulivi. Ma non lo diceva per vezzo come tanti colleghi attaccati alle poltrone».

Cosa ha rappresentato per la televisione pubblica?

«È stato e rimarrà un grande esempio per i giovani che si affacciano alla professione del giornalismo. Ha realizzato il sogno di fare l'inviato sui grandi fatti e il conduttore dell'edizione più importante del Tg1. Molti giornalisti fanno il salto in politica ma poi delusi tornano indietro. Lui invece ha avuto anche lì un tale successo da diventare presidente del Parlamento europeo. Un italiano a tutto tondo, un artista poliedrico».

Il cordoglio è stato unanime e universale.

«Ed in questo io leggo un segno di speranza. È riuscito ad ottenere il rispetto degli avversari, anche di chi ha idee molto diverse da lui, tralasciando ovviamente i dementi che hanno inneggiato alla sua morte sui social. Io vengo da una terra, gli Stati Uniti, dove repubblicani e democratici - anche le persone comuni - si parlano solo per insultarsi. Lui ha unito tutti».

Anche nella sofferenza, non ha voluto disturbare

«Infatti non si sapeva che stava così male. Ha voluto dissimulare fino all'ultimo senza indulgere nel pietismo. Di lui ci restano due immagini che si possono sovrapporre: mentre piccona il muro di Berlino da inviato del Tg1 e mentre parla da presidente del Parlamento contro tutti i muri». Laura Rio

David Sassoli morto a 65 anni: il ricovero segreto, poi il dramma. Addio al presidente del Parlamento europeo. Libero Quotidiano l'11 gennaio 2022.

Dopo la fuga di notizie della vigilia, il dramma nella notte: è morto David Sassoli, presidente del Parlamento europeo, che si è spento all'1.15. Aveva 65 anni. A togliergli la vita una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario. Era ricoverato nel centro oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone. A dare la notizia il suo portavoce, Roberto Cuillo. Sassoli lo scorso dicembre aveva annunciato l’intenzione di non ricandidarsi alla guida del Parlamento europeo. Sassoli era ricoverato da settimane, ma la notizia era stata tenuta riservata. 

Giornalista, conduttore televisivo, vicedirettore del Tg1, era entrato in politica come europarlamentare del Partito democratico nel 2009. Dopo la notizia del ricovero, quando si era compresa la gravità della situazione, sono arrivate manifestazioni di affetto e solidarietà per Sassoli da istituzioni, leader politici e collegh di tutta italia ed Europa.

Sassoli solo ieri, lunedì 10 gennaio, aveva speso parole di cordoglio per Silvia Tortora, figlia di Enzo Tortora e sorella di Gaia, morta in mattinata. "Il mio cordoglio per la prematura scomparsa di Silvia Tortora. Una vita spesa per il garantismo, per la memoria del padre Enzo, vittima di malagiustizia, per un Paese più maturo e più civile", aveva twittato il presidente.

Sassoli, sposato e con due figli, già da settembre e fino a inizio novembre dello scorso anno aveva già dovuto annullare gli impegni istituzionali, questo per una "brutta" polmonite dovuta al batterio della legionella, come lui stesso aveva spiegato in un video pubblicato su Twitter dopo la guarigione.

Giornalista, conduttore televisivo, già vicedirettore del Tg1, David Sassoli era entrato in politica come europarlamentare del Pd nel 2009. Nella sua vita giornalismo e politica sono state le sue grandi passioni, quest'ultima votata in particolare all'Europa: il culmine l'elezione alla presidenza del Parlamento europeo, avvenuta a Strasburgo il 3 luglio del 2019 (già nel 2014 era stato vicepresidente). Nel 2013 partecipò alle primarie per sindaco di Roma, dove arrivò secondo, dietro a Ignazio Marino e davanti a Paolo Gentiloni.

Nato a Firenze, David Sassoli si era trasferito fin da piccolo a Roma seguendo il padre, giornalista (ma il suo cuore calcistico batteva per la Fiorentina). Il liceo classico Virgilio, poi l'iscrizione a Scienze politiche, Sassoli passò però subito alla pratica professionale: Il Tempo, l'agenzia Asca, la redazione capitolina del Giorno quindi la Rai, dove venne assunto nel 1992. E a Viale Mazzini divenne uno dei volti più familiari per il grande pubblico, come conduttore del Tg1, del quale divenne vicedirettore nell'era di Gianni Riotta.

Tra le sue ultime battaglie, l'impegno per il voto a distanza nell'era Covid all'Europarlamento e quello per i diritti in Russia e il caso Navalny: proprio per questo era finito nella lista nera di Vladimir Putin, vietato l'accesso al Paese.

Morte David Sassoli, un retroscena straziante: "Qual è stata la sua ultima preoccupazione". Libero Quotidiano l'11 gennaio 2022.

Una morte che scuote l'Italia e l'Europa, quella di David Sassoli, scomparso nella notte all'età di 65 anni. Era il presidente del Parlamento europeo e recentemente aveva rivelato che non si sarebbe ricandidato. La morte è dovuta a "una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario", così come aveva spiegato ieri, lunedì 10 gennaio, il suo portavoce, Roberto Cuillo.

Sassoli era ricoverato dallo scorso 26 dicembre, ma lo si è scoperto soltanto ieri. Sempre Cuillo, a SkyTg24, ha spiegato che la sua "ultima preoccupazione era stata qualche giorno fa che tutto funzionasse bene nel passaggio istituzionale tra un presidente e l’altro alla prossima plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo".

Ovvio il cordoglio e i messaggi di solidarietà, a partire da Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, che si è detta "profondamente rattristata dalla morte di un grande europeo e italiano. David Sassoli è stato un giornalista appassionato, uno straordinario Presidente del Parlamento europeo e soprattutto un caro amico", ha concluso.

Toccanti le parole che gli ha riservato Mario Calabresi, su Twitter: "Il sorriso di David Sassoli non era mai finto, impostato o di maniera. Ma significava apertura al mondo, curiosità di guardare oltre lo steccato e passione. Che dispiacere che ci abbia lasciato così presto".

La solidarietà è ovviamente bipartisan. Da Matteo Salvini "una preghiera per David Sassoli". Quindi Matteo Renzi: "Lo ricordo come un uomo appassionato, un europeista convinto, un servitore delle istituzioni. Riposi in pace". Quindi le parole di Mario Draghi, che ne ha elogiato la "straordinaria passione civile e la capacità di ascolto", definendolo "un simbolo di equilibro e umiltà". E ancora, Giorgia Meloni: "È mancato, nella notte, il presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Una gran brava persona, un avversario leale, un uomo onesto. A nome del partito dei Conservatori e Riformisti europei e di Fratelli d'Italia esprimo sincere condoglianze alla sua famiglia e alla sua comunità politica".

Quindi i colleghi, come Antonella Clerici: "Ciao David ti ricordo quando eravamo giovani e avevamo tutta la vita davanti. Il giornalismo e la politica le tue grandi passioni. Orgoglioso italiano davvero". E ancora, Tiziana Ferrario: "Amavi il giornalismo, amavi la politica, eri antifascista e europeista. Quante discussioni, quanti ricordi, quante risate. Sono smarrita e incredula che te ne sia andato così presto. Un abbraccio a tutta la tua famiglia", conclude la collega.

David Sassoli e il tumore, "dieci anni fa". Dopo la morte emerge una tragica verità: "Se Dio c'è. che non vi perdoni". Libero Quotidiano l'11 gennaio 2022.

"Una informazione per i miserabili no-vax che stanno speculando sulla scomparsa di David Sassoli". Su Twitter il giornalista del Foglio e di Radio Radicale David Carretta non ha mezze misure, giustamente, con chi propala sui social deliranti teorie sulla morte del presidente del Parlamento europeo uscente, stroncato da una grave complicanza determinata da una disfunzione del sistema immunitario. Da mesi lottava contro una aggressiva forma di tumore ed era ricoverato nel centro oncologico di Aviano, in provincia di Pordenone dallo scorso 26 dicembre. 

Solo lunedì pomeriggio si sono però diffuse le prime indiscrezioni sui suoi problemi di salute. I no vax hanno iniziato a insinuare che la morte dell'ex giornalista del Tg1 ed esponente del Pd sia legata ai vaccini. Un orrore a cui Carretta, che da corrispondente tra Bruxelles e Strasburgo Sassoli lo conosceva benissimo, risponde così: "Dieci anni fa aveva subito un trapianto di midollo a seguito di un mieloma, tumore delle plasmacellule. Che un dio, se c'è, non vi perdoni". 

Lo scorso novembre, Sassoli aveva avuto avvisaglie drammatiche e dopo essere rimasto lontano dalla politica per qualche giorno aveva pubblicato un video su Twitter spiegando di essere stato colpito da una brutta polmonite da legionella: "Ringrazio i medici per la loro competenza e attenzione, ringrazio i miei colleghi parlamentari di ogni colore politico per la vostra vicinanza, e voi cittadini, che mi manifestate affetto e solidarietà. La polmonite è una brutta bestia, la cosa importante è evitare ricadute e la convalescenza deve essere adeguata".

Poche settimane dopo, aveva annunciato l’intenzione di non ricandidarsi alla guida del Parlamento europeo. Si era parlato di un problema politico, con la "staffetta" tra socialisti e popolari. C'era già l'ombra del Quirinale, tra l'altro, e l'ex mezzobusto del Tg1 era stato inserito nella lunga lista dei papabili, considerando il suo pedigree europeo, la sobrietà e l'esperienza a vari livelli. La verità, purtroppo, era un'altra. Tragica.

Morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo si è spento nella notte. Il Tempo l'11 gennaio 2022.

È morto, all’età di 65 anni, David Sassoli. Il presidente del Parlamento europeo era ricoverato per una grave forma di disfunzione del sistema immunitario. Nato a Firenze nel 1956 da padre fiorentino e madre pratese, a causa del lavoro del padre Domenico, giornalista, si trasferisce da piccolo a Roma dove risiede per lungo tempo. Negli anni 80 partecipa all’esperienza della Lega Democratica, un gruppo di riflessione politica animato da Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Paolo Prodi, Roberto Ruffilli. Inizia a lavorare al quotidiano Il Tempo di Roma per poi proseguire l’attività giornalistica in piccoli giornali.

Nel 1985 passa alla redazione romana del quotidiano Il Giorno, dove per sette anni segue i principali avvenimenti politici e di cronaca. Durante questo periodo, è testimone diretto di alcuni eventi importanti come la caduta del Muro di Berlino. La sua carriera come giornalista televisivo ha inizio nel 1992, come inviato di cronaca nel TG3 dove ha seguito per molto tempo gli avvenimenti riguardanti mafia, Tangentopoli e le inchieste sulle stragi italiane. In quel periodo collabora con i programmi di Michele Santoro Il rosso e il nero e Tempo reale. Nel 1996, sotto la direzione di Carlo Freccero, conduce la trasmissione pomeridiana Cronaca in diretta su Rai 2. Nel 1998 gli viene affidata la conduzione di Prima - La cronaca prima di tutto, rotocalco quotidiano del TG1. Nel 1999 entra nella redazione del TG1 in qualità di inviato speciale, e in seguito ne diviene conduttore dell’edizione delle 13:30 e successivamente di quella delle 20. Con l’avvento della direzione di Gianni Riotta, nel 2007 Sassoli diventa vicedirettore del telegiornale, nonché dei settimanali di approfondimento Speciale TG1 e TV7. Nel 2004 viene eletto Presidente dell’Associazione Stampa Romana.

L’ingresso in politica di David Sassoli coincide con le elezioni del Parlamento europeo del 6 e 7 giugno 2009, quando il Partito Democratico lo candida su proposta del segretario Dario Franceschini come capolista nella circoscrizione dell’Italia centrale. Con 405.967 preferenze è il primo eletto nella circoscrizione Italia centrale e risulta tra i più votati in Italia. Anche grazie al risultato delle elezioni, diventa capogruppo del Partito Democratico all’Europarlamento. In un’intervista ha rivelato che è sua intenzione «dedicare il resto della sua vita alla politica»[8]. Durante la 7^ legislatura, è membro della Commissione Trasporti e Turismo e Relatore della proposta sul Cielo unico europeo. Inoltre è stato membro della delegazione interparlamentare UE-Israele.

Il 7 aprile 2013 Sassoli è candidato alle primarie del Partito Democratico per scegliere il candidato sindaco di Roma alle elezioni amministrative di quell’anno. Arriva al secondo posto con il 28% dei voti, davanti a Paolo Gentiloni, ma alle spalle del vincitore e futuro sindaco di Roma (Ignazio Marino). Nel 2014 si ricandida alle elezioni europee con il PD nella circoscrizione dell’Italia centrale. Il 1º luglio 2014 viene eletto Vicepresidente del Parlamento europeo con 393 voti, risultando il secondo più votato in quota PD-PSE, con delega alla Politica del Mediterraneo, al Bilancio e al Patrimonio. Nel gennaio 2017 è riconfermato Vicepresidente con 377 voti. Nel corso della legislatura rivolge la sua attenzione alla politica euro-mediterranea e alle tematiche relative le materie di bilancio. Si ricandida alle elezioni europee del 26 maggio 2019 con il PD nella circoscrizione dell’Italia centrale e viene nuovamente rieletto con 128.533 voti. Il 3 luglio 2019 viene eletto Presidente del Parlamento europeo, il settimo italiano a ricoprire la carica, con 345 voti al secondo scrutinio, con il sostegno dei gruppi europeisti. 

Da iltempo.it il 12 gennaio 2022.  

Si è scatenata la polemica per alcuni commenti sulla morte di David Sassoli. L’ex presidente del Parlamento europeo è venuto a mancare nella notte e qualcuno ha provato ad accostare i motivi del decesso ad un effetto collaterale del vaccino anti-Covid. Nel corso della puntata dell’11 gennaio di Tagadà, talk show di La7, è intervenuto Peter Gomez, direttore della versione online del Fatto Quotidiano, mettendo a tacere ogni possibile speculazione su Sassoli: “David era un giornalista per bene, una persona per bene, che faceva tutte le domande, comode e scomode, sapendo che il servizio pubblico serve per spiegare ai telespettatori quello che accade. L’ho conosciuto tantissimi anni fa, sono indignato per la reazione di alcuni sui social, che hanno preso l’occasione della morte di David per un tumore al sangue che gli è tornato e hanno iniziato a delirare sui vaccini e cose del genere. È veramente brutto, soprattutto perché è una delle poche persone su cui ho messo sempre la mano sul fuoco, che in un Paese come il nostro si approfitti della scomparsa per fare delle polemiche del genere”.

Anche Alessio Orsingher, conduttore del programma in attesa che Tiziana Panella recuperi dopo la positività al Covid, si unisce alle parole di Gomez: “È un odio inspiegabile, vergognoso, che non merita neanche cittadinanza in un programma televisivo”.  Il giornalista cita poi Enrico Mentana, che ha scritto parole di fuoco su Facebook: “Non ho mai visto tanta cattiveria ferina e ribalda. Gioiscono per la morte delle persone con lo stesso entusiasmo dei tifosi per un gol, e quale che sia la causa del decesso lo addebitano al vaccino, ribaltando il suo accertato ruolo salvifico. Con ciò fuorviano gli sprovveduti che li ascoltano, e davvero ne mettono a rischio a vita. E per di più azzerano lo spazio per un più serio controllo critico, in mezzo a quella infrequentabile compagnia di avvoltoi”.

Come è morto David Sassoli: un giornalista amico svela la verità. “Basta con i veleni dei No vax”. Lucio Meo mercoledì 12 Gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Come è morto David Sassoli? No, non c’entra il vaccino, il booster, il Covid e neanche la legionella. Quella nota del portavoce di David Sassoli, Roberto Cuillo, che aveva parlato di problemi al sistema immunitario alla base del decesso del presidente del Parlamento europeo aveva scatenato la dietrologia dei No vax, pronti a scatenare odio e rancori contro i vaccinati e i sostenitori della prevenzione contro il Covid. In realtà, a ristabilire la verità, ci ha pensato un amico e collega di Sassoli, il corrispondente di Radio Radicale da Bruxelles, David Carretta, che ha messo nero su bianco, in un tweet, le ragioni della morte del giornalista poi entrato in politica: tumore, anzi, leucemia, per la precisione.

Prima su Twitter e poi sul Foglio, il corrispondente dalle istituzioni europee David Carretta, ha rivelato che Sassoli “aveva subito un intervento di trapianto di midollo per un mieloma, che lo aveva costretto a restare lontano dalle aule di Bruxelles e Strasburgo per diversi mesi”. Carretta si era poi scagliato contro i deliri dei No vax, maledicendo loro e tutti i complottisti che in rete si erano scatenati dopo l’annuncio della morte di Sassoli. Lo scorso novembre 2021, Sassoli aveva annunciato dal proprio account Twitter di essere finito in ospedale pochi mesi prima, a Strasburgo, dopo essere stato colpito in modo grave da una brutta polmonite da legionella.

Il mieloma multiplo è un tumore del sangue, altrimenti definito come leucemia, che colpisce le plasmacellule, un sottotipo di globuli bianchi che combattono le infezioni. È una malattia orfana rara e molto aggressiva, che rappresenta approssimativamente l’1% di tutti i tumori. In Europa, ogni anno circa 39.000 pazienti ricevono una diagnosi di mieloma multiplo e si registrano circa 24.000 decessi. In Italia convivono con un mieloma multiplo, a 5 anni dalla diagnosi, 13.983 persone di età media attorno ai 65 anni; 5.200 i nuovi casi registrati ogni anno e 3.200 i decessi. A 5 anni dalla diagnosi sopravvive meno di un paziente su due (45%). La capacità di raggiungere e mantenere una risposta significativa ai trattamenti diminuisce ad ogni recidiva a causa sia della resistenza acquisita ai farmaci sia del progredire del tumore.

David Sassoli e quella foto “storica” dell’inchino con la Meloni: «Rispettava le idee della destra». Antonio Marras l'11 gennaio 2022 su Il Secolo d'Italia. 

Quella foto (immagine in alto) in cui David Sassoli accoglie Giorgia Meloni, accennando a un inchino con la testa, ricambiato dalla leader di Fratelli d’Italia, oggi sembra la testimonianza storica di un momento inedito di confronto e rispetto istituzionale tra sinistra e destra, anche a livello europeo. Una foto che fa riflettere sullo stile politico del defunto presidente del Parlamento Ue, omaggiato di ricordi commossi anche da destra.

L’inchino reciproco a Bruxelles nel giugno scorso

Era il 23 giugno del 2021, a Bruxelles, quando David Sassoli aveva accolto la Meloni nel suo giro europeo da neo presidente dei Conservatori e riformisti europei (Ecr), ed era scattato quel cenno rispettoso col capo da entrambi, leggero, istituzionale, sottolineato anche da un articolo del Corriere. Quella giornata, e quelle giornate, sono ritornate oggi nel ricordo che Giorgia Meloni ha fatto alla Camera, parlando di “un uomo serio, leale, perbene, di spessore, tratti non comuni ai politici di oggi”. Un uomo che da sinistra sapeva dialogare anche con la destra, senza barriere e pregiudizi, come ha spiegato la Meloni nella cerimonia di commemorazione a Montecitorio di David Sassoli.

“Non sapevo della sua malattia, ma non ha mai fatto mancare la sua presenza, anche nel periodo della pandemia, quando lottava con la sua malattia. Sassoli aveva posizioni molto diverse dalle nostre, quasi sempre eravamo in disaccordo, ma non aveva pregiudizi. Come tutte le persone intelligenti sapeva che anche da chi è distante da te si può imparare qualcosa. Quando ci siamo incontrati, nel giugno scorso, in in lungo e cordiale faccia a faccia, gli avevo parlato dell’immigrazione come una priorità, non l’avevo convinto, ma non aveva problemi a riconoscere che la tua posizione era seria anche quando non la condivideva. Ho avuto tanti avversari politici, nella mia vita, ma Sassoli era uno dei più temibili, non perché cinico o disposto a tutto ma perché capace e leale, allora sai che stai perdendo una cosa preziosa. Ed ecco perché ci tengo a rinnovare le condoglianze a chi gli era vicino, a nome di Fratelli d’Italia e dei Conservatori europei”.

David Sassoli e il rispetto della destra

“Sassoli – ha proseguito la Meloni in aula- sapeva difendere le sue posizioni con il sorriso. Aveva posizioni molto diverse dalle nostre, ma non era una persona che aveva pregiudizi. Ho avuto, ho molti avversari politici nella vita, credo che Sassoli fosse uno dei migliori… Abbiamo perso un avversario temibile, perché capace e leale, abbiamo perso una cosa preziosa. Per questo ci tengo a rinnovare le condoglianze in quest’aula”.

Tanti i tributi dal centrodestra. “Ci uniamo alle condoglianze dei familiari per la tragica scomparsa di David Sassoli. Fu grande professionista nel giornalismo. E’ stato uomo di parte, ma da presidente del Parlamento Europeo si distinse, nonostante la propria identità, come rappresentante di tutti“, è stato invece il commento del deputato di Fratelli d’Italia responsabile Cultura di Fdi, Federico Mollicone.

Il lutto cittadino proclamato da Vittorio Sgarbi

Anche Vittorio Sgarbi, a modo suo, ha reso omaggio al presidente scomparso, avversario politico che rispettava. Da sindaco di Sutri, Vittorio Sgarbi, ha proclamato per la giornata di oggi, martedì 11 gennaio, il lutto cittadino in seguito alla prematura scomparsa di David Sassoli, già residente nell’Antichissima Città. Le bandiere degli uffici pubblici saranno esposte a mezz’asta e alle ore 12.00 sarà osservato dalla comunità sutrina un minuto di raccoglimento.

“Per il suo forte legame con Sutri, l’Amministrazione – spiega Sgarbi – intende manifestare in modo tangibile il dolore che colpisce i cittadini a causa di questo lutto. “Il presidente Sassoli ci ha lasciato nella notte, in silenzio, in modo riservato, come lui era. Non lo vedremo più prendere il caffè nei bar della città, né fare la spesa nei negozi, né parlare in strada e intrattenersi con i cittadini con i suoi modi gentili. Era amico di ognuno di noi, teneva al bene di Sutri, che aveva adottato come sua dimora. Sentiremo la sua mancanza. La città si stringe al dolore della famiglia”.

Politica sotto shock, morto David Sassoli: era presidente del Parlamento europeo. David Sassoli è deceduto nella notte a causa di una disfunzione del sistema immunitario. Volto noto del Tg1 e attuale presidente del Parlamento europeo. Il Dubbio il'11 gennaio 2022.

Addio al presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Soltanto ieri era stata diffusa la notizia del suo ricovero in Italia per il sopraggiungere di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario. «Il Presidente del Parlamento europeo David Sassoli – ha annunciato il suo portavoce Roberto Cuillo – si è spento alle ore 1.15 dell’11 Gennaio presso il CRO di Aviano (PN) dove era ricoverato».

Gli esponenti delle alte istituzioni europee e i colleghi del giornalista e politico scomparso si stringono intorno alla sua famiglia. «Sono profondamente rattristata dalla morte di un grande europeo e italiano. David Sassoli è stato un giornalista appassionato, uno straordinario Presidente del Parlamento europeo e soprattutto un caro amico». Lo scrive in un tweet in italiano la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. «I miei pensieri vanno alla sua famiglia. Riposa in pace, caro David», aggiunge.

Il profilo di David Sassoli

Da volto familiare del TG1 a presidente del Parlamento europeo, quella di David Sassoli è stata una vita divisa fra il giornalismo e la politica, a cavallo fra Firenze, Roma e Bruxelles fino a diventare nel 2019 presidente dell’Europarlamento.

Nato nel capoluogo toscano il 30 maggio 1956, ha frequentato da giovane l’Agesci, Associazione guide e scout cattolici italiani. Il padre era un parrocchiano di don Milani e lui ha cominciato fin da giovane a lavorare per piccoli giornali e in agenzie di stampa prima di passare a ‘Il Giorno’ e poi fare il grande salto in Rai. Fiorentino di nascita ma romano di adozione, era diventato un volto noto alle famiglie italiane soprattutto per la sua conduzione del Tg della rete ammiraglia della Rai, di cui e’ stato anche vicedirettore durante l’era di Gianni Riotta.

Una carriera che si chiuse nel 2009, quando Sassoli decise di dedicarsi alla politica. Candidato come capolista del neonato Partito democratico nella circoscrizione Italia centrale, il presidente del Pe venne eletto la prima volta con oltre 400mila preferenze e, forte di questo successo, diventa subito il capo della delegazione del Pd al Parlamento europeo. Nel 2013 il tentativo di rientrare in Italia come sindaco di Roma si incaglia nelle primarie del Pd. Candidato in quota franceschiniana, Sassoli si piazza secondo, battendo il futuro presidente del Consiglio Paolo Gentiloni ma ottenendo la metà dei voti di Ignazio Marino. Dopo un decennio passato fra i banchi di Bruxelles e Strasburgo, Sassoli – giunto alla sua terza legislatura – era uno degli eurodeputati più esperti.

Nel 2014-2019 ricoprì la carica di vicepresidente per l’intero mandato, occupandosi soprattutto di trasporti (il cosiddetto terzo pacchetto ferroviario), politica euro-mediterranea e bilancio. Il 3 luglio del 2019 David Sassoli, all’inizio del suo terzo mandato, venne eletto Presidente dell’assemblea. Nel suo discorso di apertura iniziale, Sassoli ribadì l’importanza di agire per contrastare il cambiamento climatico, la necessità di una politica più vicina a ai cittadini e ai loro bisogni, soprattutto ai giovani, e l’urgenza di rafforzare la democrazia parlamentare e di promuovere i valori europei.

Durante la situazione eccezionale e senza precedenti causata dalla pandemia di Covid-19, Sassoli si è impegnato affinché il Parlamento europeo rimanesse aperto e continuasse ad essere operativo, introducendo – già nel marzo 2020 – dibattiti e votazioni a distanza, primo parlamento al mondo a farlo. Sposato e padre di due figli, tifoso della Fiorentina, Sassoli viveva a Roma ma appena possibile si spostava nella casa di Sutri, un delizioso paese medievale della Tuscia lungo la via Cassia, una trentina di chilometri a nord della capitale, per coltivare le sue passioni per il giardinaggio e le buone letture.

Sassoli è stato il secondo presidente italiano del Parlamento europeo dopo Antonio Tajani da quando l’assemblea di Strasburgo viene eletta a suffragio universale. Il suo incarico sarebbe scaduto a giorni: la prossima settimana la riunione plenaria dell’Europarlamento che si riunirà a Strasburgo per eleggere il suo successore.

Si è spento a 65 anni, era ricoverato da 15 giorni. È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento Europeo: una vita di passioni tra giornalismo e politica. Aldo Torchiaro su Il Riformista l'11 Gennaio 2022.  

David Sassoli è morto questa notte dopo quindici giorni di ricovero dovuto, dichiara il suo portavoce Roberto Cuillo, al sopraggiungere di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario.

Era nato a Firenze il 30 maggio del 1956, aveva iniziato a lavorare in piccoli giornali prima di arrivare alla redazione romana del «Giorno». Poi l’ingresso in Rai, prima al Tg3 poi a Rai Uno e Rai Due, nel 2007 diventa vicedirettore del Tg1 e responsabile dei programmi di approfondimento TV7 e Speciale TG1.

Dai tempi degli scout è stato sempre coinvolto da un profondo impegno civile, coniugando le grandi passioni della sua vita: il giornalismo e la politica. È stato prima vicepresidente e poi presidente del Parlamento europeo. Tante le manifestazioni di affetto sin dal primo mattino, tra cui quelle delle istituzioni.

Sulla sua pagina Facebook è comparso un lungo post di saluto. Ne riportiamo di seguito il testo. “Si può vivere e morire in tanti modi. David Sassoli ha combattuto e lavorato fino all’ultimo possibile istante, informandosi, partecipando attivamente alla causa del bene comune con curiosità e passione indomabili nonostante lo stato di salute sempre più precario, dopo la temporanea ripresa di qualche tempo fa. Per il Presidente del Parlamento europeo, per il politico Sassoli, per l’uomo David nella sua dimensione privata, alla base di ogni azione, di ogni comportamento, di ogni scelta erano, assai ben saldi, i valori umani di riferimento: lealtà, coerenza, educazione, rispetto”.

“In questo momento così triste per tante e tanti cittadini italiani ed europei resta, intatta, la forza dei suoi insegnamenti e delle sue indicazioni: mai fingere, mai alimentare polemiche, spirali, pregiudizi, pettegolezzi, meschinità. Principi personali così profondi da plasmarne, con tratto inconfondibile, anche la pratica e probabilmente la stessa teoria dell’agire politico. Principi semplici quanto assolutamente inderogabili, da cui non deflettere in alcun caso. Per nessun motivo. Anche quando, recentemente, di fronte ai suoi gravi problemi di salute, si erano diffuse in rete deliranti malevolenze su Covid e affini, persino in quel momento la scelta di non replicare, di non inasprire i toni, gli era sembrata l’unica possibile”.

“Paradigma di stile, riservatezza, sobrietà. E di una merce rara, nella temperie della politica contemporanea: l’autorevolezza. Politica e morale. La fiducia che tante e tanti di voi riponevate in lui, se può esser di conforto, era ben riposta. La stima nei suoi confronti, altrettanto. Con David Sassoli l’Europa e l’Italia perdono un uomo delle istituzioni di primario livello, che credeva nella politica nella sua accezione più nobile, in un’Europa baluardo dei diritti e delle opportunità, nell’impegno a favore delle persone più deboli e indifese, nella lotta contro ogni forma di ingiustizia e prevaricazione, sempre con il sorriso. Ecco proprio vedersi salutare con un sorriso, così come con questa lieta immagine lui saluta noi, è la cosa che forse maggiormente potrebbe fargli piacere. Bello fossero tantissimi sorrisi…Addio, David. Grazie”.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

La biografia. David Sassoli, il giornalista poi l’impegno in politica: lascia Alessandra Vittorini e i figli Livia e Giulio. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

David Sassoli era nato a Firenze il 30 maggio 1956, ma l’infanzia la trascorse a Roma. Suo padre Domenico, giornalista a La Nazione, portò la famiglia nella Capitale quando andò a lavorare per il Popolo, quotidiano della Dc. Al liceo Virgilio conosce Alessandra Vittorini, che diventerà sua moglie e madre dei suoi due figli Livia e Giulio.

È cresciuto nel mondo del cattolicesimo progressista, nel solco di Giorgio La Pira, che era amico di famiglia, Aldo Moro, Sergio Mattarella, Romano Prodi e soprattutto Paolo Giuntella, che lo spinge a iscriversi alla Rosa Bianca, associazione di cultura politica che riuniva gruppi di giovani provenienti dall’associazionismo cattolico: Aci, Fuci, Acli, Agesci (gruppo degli scout di cui Sassoli fu membro). Partecipa attivamente alla Lega Democratica, un gruppo di riflessione politica animato da Pietro Scoppola, Achille Ardigò, Paolo Prodi, Roberto Ruffilli. Collabora con piccole testate e con l’agenzia cattolica Asca quando, grazie a uno scoop su Gianni De Michelis a Parigi, nel 1985 entra alla redazione romana del Giorno, dove resterà per sette anni, prima di arrivare al Tg3 di Sandro Curzi. In quel periodo collabora al programma di Michele Santoro Il rosso e il nero. Si occuperà soprattutto di cronaca, tema al centro della sua prima conduzione in un programma del pomeriggio di Rai2.

Infine, il Tg1, dove sarà inviato speciale, vicedirettore e volto del telegiornale per molti anni. Si iscrive al neonato Partito democratico e Dario Franceschini, all’epoca segretario e suo vecchio compagno di militanza tra i giovani democristiani, lo candida alle elezioni europee del 2009. Ottiene oltre 400mila preferenze e diventa capogruppo del partito a Strasburgo. A differenza dei due giornalisti che avevano fatto un “salto” simile al suo, Santoro e Lilli Gruber, non tornerà più indietro, anzi promette di «dedicare il resto della vita alla politica». Nel 2013 corre alle primarie per sindaco di Roma, dove si piazza secondo dietro Ignazio Marino (che vincerà le elezioni) e davanti a Paolo Gentiloni, che sarà poi ministro, premier e commissario europeo. Primarie che si riveleranno fortunate per tutti tranne che per chi le vinse, insomma.

Nel 2014 è confermato al Parlamento europeo ed eletto vicepresidente: mette d’accordo il gruppo dei socialisti, di cui fa parte, e quello dei popolari, con cui condivide radici e princìpi. Nel 2019 il terzo mandato, con l’elezione a presidente. Ieri lo hanno ricordato tutte le cariche istituzionali, a partire dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e dal presidente del Consiglio, Mario Draghi. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha ricordato come Sassoli fosse uno «strenuo difensore dei più alti valori europei, e sostenitore del principio che la nostra libertà è figlia della giustizia che sapremo costruire e della solidarietà che sapremo sviluppare». Parole che Sassoli pronunciò nel suo discorso di insediamento alla Presidenza del Parlamento Europeo e che oggi riecheggiano come suo testamento morale.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

David Sassoli, la malattia: cos’è la legionella e cosa significa disfunzione del sistema immunitario? Felice Emmanuele Paolo de Chiara su Notizie.it il 12 gennaio 2022.

Scopriamo in cosa consiste la malattia di David Sassoli e il batterio che ha causato la sua morte

La morte di David Sassoli, Presidente del Parlamento europeo, ha sconvolto tutto il mondo della politica ed ha segnato un profondo lutto per la nostra Nazione. David Sassoli era affetto da una disfunzione del sistema immunitario, a causa della quale, un batterio gli è stato letale.

Sassoli, a settembre era stato colpito dalla Legionella, che gli ha causato una polmonite, da cui era guarito. Purtroppo però, la ricaduta di tale batterio, gli è stata fatale.

La malattia di David Sassoli: una disfunzione del sistema immunitario

David Sassoli era affetto da una disfunzione del sistema immunitario. Tale disfunzione può essere di due tipi: primaria e secondaria. Il primo tipo è ereditario ed è più raro, il secondo tipo, invece, può essere indotto da alcune malattie o dall’uso di alcuni farmaci per un periodo prolungato.

Ciò che ci interessa è il secondo tipo di disfunzione, che sembra essere quella di cui soffriva David Sassoli. È noto che tempo fa, il defunto Presidente del Parlamento europeo aveva avuto un mieloma, un tumore al sangue. Questa condizione, quasi sicuramente, gli ha indotto una disfunzione del sistema immunitario, perchè, come si apprende dal Manuale MSD, le cause dei disturbi da immudeficienza secondaria sono: Disturbi prolungati (cronici) e/o seri quali il diabete o il cancro, Farmaci e raramente, radioterapia.

David Sassoli aveva avuto un’altra malattia recentemente: la Legionella

Ad essere fatale a David Sassoli, però, è stata anche un’infezione da Legionella. La Legionella è un batterio gram-negativo, che può essere letale per l’uomo in quanto tra i suoi sintomi vi è una polmonite acuta molto aggressiva. Purtroppo, Sassoli è stato attaccato da questo batterio a settembre ed ha sviluppato il sintomi più grave: la polmonite. In un primo momento, David Sassoli ha sconfitto la malattia, salvo poi subire una ricaduta che lo ha costretto al ricovero.

La Legionella è un batterio che si può sviluppare attraverso l’inalazione aerea di acqua o liquidi che ospitano il bacillo legionella. Per prevenire la Legionella, è opportuno controllare e pulire periodicamente gli impianti idrici come rubinetti o condizionatori, in cui è più facile che l’acqua ristagni.

C’è chi non credeva alla malattia di David Sassoli

Nonostante il dolore e il lutto per la morte di David Sassoli, c’è chi ha non ha voluto credere al fatto che sia morto per la sua malattia ed ha insinuato che fosse tutto falso. Si tratta dei no vax, che hanno attribuito la morte di Sassoli a degli effetti collaterali del vaccino. La cosa grave è che, sul web, alcuni utenti no vax hanno detto di essere felici  per la morte di Sassoli, in quanto convinti che le loro teorie siano giuste. A diffondere un messaggio triste di uno dei tanti scettici è stato il giornalista Enrico Mentana, che ha in seguito chiesto di identificare e denunciare la persona che avrebbe scritto: “Sassolini, ma il vaccino nonnproteggeva da conseguenze gravi? Che meraviglia. Sono tanto felice“.

Dagospia il 13 gennaio 2022. Riceviamo e pubblichiamo: Con riferimento all’articolo pubblicato on line da “Dagospia” in data odierna, dal titolo “ma al TG se lo ricordano Sassoli ? - Al notiziario delle 20 si pesta un merdone durante il lungo omaggio all’ex collega: in uno dei servizi il vicedirettore Bruno Luvera prende uno svarione e attribuisce al presidente del parlamento europeo anche una direzione del tg che non c’e mai stata...”, in nome per conto e nell’interesse del dott. Bruno Luvera, Vi diffido immediatamente -ai sensi di legge- a rettificare la falsa notizia pubblicata e a rimuoverla dai vostri server e dall’accesso on line, trattandosi di informazione completamente falsa e gravemente lesiva della reputazione del vicedirettore del Tg1, del quale viene volgarmente irrisa la professionalità. 

Si afferma nell’articolo, peraltro con l’uso di un linguaggio triviale che amplifica la portata diffamatoria del brano pubblicato, che il vicedirettore dott. Bruno Luvera, nel ricordare -nel corso del TG1 delle ore 20 dell’11 gennaio 2022- la figura del Presidente del Parlamento Europeo David Sassoli, avrebbe commesso “uno svarione piuttosto grave (successivamente definito dall’autore del brano “scivolone marchiano” n.d.r) che gli attribuiva erroneamente - come si evince nel video qui sotto - oltre alla vicedirezione del Tg1 con Gianni Riotta, anche la direzione, che tuttavia non gli fu mai assegnata”.

Ebbene, e sufficiente ascoltare il servizio televisivo andato in onda per rendersi conto, con la normale diligenza, che il vicedirettore dr. Bruno Luvera non ha mai attribuito al compianto Presidente Sassoli la trascorsa direzione del TG1, ma ha usato il vocabolo “deviazione” (e non “direzione”) semplicemente per indicare il “transito” dal giornalismo alla politica del Presidente del Parlamento Europeo.

Inoltre, nel brano pubblicato da “Dagospia”, si riporta la dichiarazione che, sul falso presupposto dell’ “errore marchiano”, il sito “Vigilanza TV.it”, avrebbe reso il Commissario della Commissione Parlamentare di Vigilanza RAI on. Michele Anzaldi, il quale definisce l’errore, in realta mai commesso dal dott. Luvera, come “gravissimo” e il suo servizio come “gestito con la solita sciatteria”, con un accenno sprezzante alle vicedirezioni del TG1.

Poiche la falsa informazione fornita e stata, a causa di “Dagospia”, diffusa a una pluralita di persone ed appare particolarmente lesiva -oltre che della intera redazione del TG1- della reputazione di un giornalista noto per la sua serieta ed il suo scrupolo, ribadisco qui, nell’interesse del dott. Luvera, la diffida a rettificare la falsa notizia con lo stesso rilievo grafico con cui e stata pubblicata, a rimuoverla dal sito web di “Dagospia” e dai server, impregiudicato il ricorso agli altri rimedi previsti dall’ordinamento giuridico per la lesione della reputazione determinata dalla propalazione del falso.

Ricordare David Sassoli senza la solita vanità personale. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2022. Tutti a esaltare la sua popolarità, portata con semplicità, ironia e discrezione, e poi servirsi di lui per accrescere la propria popolarità, con la frase a effetto. Lasciando perdere la gara a chi lo conosceva meglio, a chi gli era stato maestro, a chi aveva imparato da lui la lezione politica e umana, non si potrebbe tradurre in comportamento stabile la «memoria» di David Sassoli? I giornali e i social traboccano giustamente di elogi alla sua sensibilità professionale, alla sua fermezza nei principi, al suo stile, alla sua vocazione giornalistica, prima ancora di quella politica. Ecco, sarebbe bello che nel ricordo di David Sassoli la televisione gli dedicasse un po’ di sincero rispetto, al di là del cordoglio di maniera. Per un po’ di tempo ci piacerebbe vedere conduttori con un più alto senso di responsabilità, in grado di trattare con leggerezza anche le cose più gravi (una ola con Fiorello, per esempio), di mettere il proprio ego smisurato al servizio dell’uscita dalla pandemia, di rifuggire dalle pagliacciate.

Tutti amici di David, tutti sodali con il suo spirito europeista, tutti in coro «sarai sempre con noi», poi alla prima occasione eccoli invitare in studio i corifei delle fake news (spacciati come «fatti») o quelli che hanno sempre disprezzato il Parlamento europeo o quelli che danno spazio alle «ragioni» dei no vax (senza pensare alla cattiveria, allo sciaccallaggio, alla mancanza di rispetto con cui sui social è stata «celebrata» la morte di Sassoli dai no vax). Magari concedendo loro il monologo senza contraddittorio. Tutti a ricordare la militanza giornalistica dello scomparso, la sua idea di informazione, il suo senso della misura e poi via al Grand Guignol di sempre, via alle risse, via agli ospiti incaricati di accendere la miccia, via alla fiera del disagio.

Tutti a esaltare la sua popolarità, portata con semplicità, ironia e discrezione, e poi servirsi di lui per accrescere la propria popolarità, con la frase a effetto, con le «belle parole». Anche di fronte alla tragedia, c’è sempre spazio per la vanità e la miseria.

Il ricordo del leader no global. Luca Casarini ricorda David Sassoli: “Ci siamo conosciuti al G8 di Genova, era una persona perbene”. Aldo Torchiaro Il Riformista il 13 Gennaio 2022. 

Luca Casarini è un attivista noto per essere uno dei leader del movimento no-global italiano, in prima fila a Genova durante il G8 e più recentemente in mare. Era a bordo della nave della Ong Mediterranea “Saving Humans” quando ha saputo della scomparsa improvvisa di David Sassoli. Ha scritto a chiosa del suo ricordo di David Sassoli: «Ti ricorderò come si ricorda un amico». Gli chiediamo se abbiamo letto bene. «Sì, avevamo un rapporto di grande sintonia, io e David. Una delle più belle persone che abbia conosciuto, dal punto di vista umano, professionale, culturale. E anche politico».

Politicamente distanti, però, voi due. Una strana coppia.

I rapporti di affinità più importanti si stabiliscono sulla base del rispetto e della stima che nasce sulla differenza, non sulla somiglianza. Di lui mi colpì subito la straordinaria empatia nello stabilire rapporti, la capacità di guardare dentro alle persone, di mettersi dalla parte dell’altro.

Come è nata questa sintonia?

Al G8 di Genova, quando una buona parte del mondo politico e di quello dell’informazione ci trattava come appestati. Lui era già uno dei volti più noti della Rai, figuriamoci se potevamo essere più distanti. Chiese il mio telefono e iniziò a telefonarmi, sulle prime ero guardingo. Pensavo mi volesse far parlare, volesse registrare una intervista. Invece mi disse che voleva solo capire, sapere, avere informazioni di prima mano da me e non da altri, per discernere la verità dei fatti dai racconti ufficiali.

E lo fece dalla scrivania di conduzione del Tg1. Già da solo un comportamento rivoluzionario.

Infatti. Capii dal suo tono la sincerità della persona. E la professionalità di chi diceva di fidarsi solo delle testimonianze dirette, più che dei verbali delle questure. Prese a chiamarmi più volte anche in seguito. Si interessava ai nostri temi e da ultimo all’impegno per salvare vite in mare con una sensibilità non comune. Anzi, rarissima.

Aveva la politica nel sangue, avendo iniziato da giovane della Dc…

Non lo definirei un democristiano, ma un buon cristiano sì. Un cattolico democratico capace di dialogo senza paraocchi.

Era un uomo di sinistra, visto da lei?

Era un uomo di sinistra così come io vorrei fossero gli uomini di sinistra. Certo, con posizioni distinti: io vedo la crisi della democrazia rappresentativa, vivo le disuguaglianze e le ingiustizie sociali come urgenze, lui mi rimproverava un tratto massimalista. Era, come ho scritto sui social “una persona perbene in un mare pieno di squali”.

Quelli che hanno tentato di sbranare entrambi, quando la fece parlare al Parlamento Europeo…

Quella volta rischiò molto. Ha fatto questa scelta di far parlare me durante l’anniversario di Schuman, al Parlamento di Bruxelles, il 9 maggio 2020. Io appena ho preso il microfono ho gridato la mia denuncia dei campi di concentramento libici finanziati dall’Europa e da tutti i governi europei davanti ai più alti rappresentanti delle istituzioni. Io prima di parlare mi preoccupai per lui, gli dissi: “Ma sei sicuro? Vuoi proprio che io parli? Succederà un casino”. Lui mi guardò rassicurante e mi incoraggiò a parlare. Ecco chi era David Sassoli.

Fu attaccato da tutti.

Io sono abituato ad essere la pecora nera, mi preoccupavo per lui. Io sono una persona scomoda, che rompe gli schemi. Mettersi dalla mia parte è sempre scivoloso, per chi guida le istituzioni.

L’ultima volta che vi siete rivisti?

Ero di nuovo a Bruxelles per incontrare Pablo Iglesias e lui era fuori dal Parlamento, con un nugolo di personalità intorno. Mi ha visto che ero dall’altra parte della strada e mi ha chiamato a gran voce, l’ho raggiunto al volo e lì, baci e abbracci.

Una sintonia manifesta.

I nostri due mondi coesistono e si parlano, quando ci sono le persone giuste.

Dirlo oggi lascia il tempo che trova, ma sarebbe stato un eccellente Presidente della Repubblica.

Per me, sarebbe stato un Presidente perfetto al Quirinale. Lui aveva interpretato nella maniera giusta l’essere all’apice del potere. Ha utilizzato il ruolo istituzionale di Presidente del Parlamento europeo per diventare, se vogliamo, ancora più attento agli ultimi. Vivendo la politica nel modo giusto: era crucciato verso i problemi sociali, li viveva come questioni sempre rilevanti da affrontare e risolvere. E l’ho scritto: purtroppo dopo di lui non ne vedo altri così.

Importante però raccogliere testimonianze anche di questo tipo, trasversali.

Ci sarebbero tante altre cose da dire su di lui, gli ho segnalato delle persone in difficoltà, nel tempo. Ma di tanti incontri che abbiamo fatto non aveva necessità di pubblicizzarli, ma posso dire che faceva tanto per gli ultimi. E oggi è giusto che si inizi a sapere.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Il ricordo dell'amico e collega. Marco Frittella ricorda David Sassoli: “Quelle botte degli agenti nel ’79 di cui non parlava”. Aldo Torchiaro Il Riformista il 12 Gennaio 2022.  

«Provo un dolore immenso ma so che proprio in questi momenti, soprattutto pensando ai più giovani che ci leggeranno, è importante consegnare una testimonianza su David Sassoli, sull’amico fraterno di una vita che ho perso improvvisamente», ci dice Marco Frittella, volto noto del servizio pubblico e oggi conduttore di UnoMattina, al culmine di una lunga carriera in Rai, quando ci riceve. Lo raggiungiamo a Saxa Rubra alla palazzina del Tg1, lo troviamo seduto nella stessa stanza che fu di Sassoli. Quella prima di diventare vice direttore. Quella che usava quando era conduttore dell’edizione delle 13,30.

Una giornata nera per tanti e per chi, come te, era cresciuto con Sassoli.

Una grandissima tristezza, perché Davide viene meno dopo un anno che per il Tg1 è stato terribile: se n’è andato Demetrio Volcic, Fulvio Damiani… tristezza su tristezza. Ma io e Davide ci conoscevamo da quando eravamo ragazzi.

Tu eri amico del padre, di Mimmo Sassoli?

Era lo storico direttore de Il Popolo. Insegnò il mestiere a Davide che visse sia la professione sia la politica come un nuovo percorso sulle orme paterne. Lo citò, all’acme della tensione, perfino in una polemica con i sovranisti in Parlamento Europeo. Dicendo che se il padre fu partigiano bianco, durante la Resistenza, non era stato certo per divertirsi…

E com’era lavorare con lui?

Era, appunto, come il padre: gentilissimo e rispettoso degli altri. Però fermo nei suoi principi. Da ragazzo faceva il tifo per Zaccagnini e da lì secondo me non si è mai mosso.

Faceva un tifo sobrio e discreto, immagino. Altra sua caratteristica riconosciuta da tutti.

Un momento. Da studente era un leader del movimento giovanile Dc capace di grandi emozioni e anche di qualche coloritura. Ricordo un congresso Dc a Roma, al Palazzo dello Sport, dove era candidato alla segreteria, appunto, Zaccagnini. A un certo punto da una curva srotolarono uno striscione gigantesco, una lenzuolata mostruosa, sproporzionata. Si videro gli sguardi severi di Andreotti e Forlani che si incrociavano, mentre Sassoli e Giuntella srotolavano lo striscione.

E da lì in poi è diventato più disciplinato, istituzionale?

Gradualmente. Il 3 maggio 1979 ci fu l’attentato di piazza Nicosia. Le Br aprirono il fuoco sotto la sede regionale della Dc. Un poliziotto fu ucciso sul colpo, un altro morì poco dopo. David guidava un gruppetto di giovani democristiani lì presenti, subito accorsi. Ma la confusione era tanta, il fumo, le sirene… la polizia lo scambiò per un fiancheggiatore dei brigatisti. Era vestito in maniera semplice, niente di elegante. Lo presero a manganellate. Prese un sacco di botte. Lui protestò subito, gridando la sua estraneità, poi denunciò il fatto. Ma non ne parlò più, e in pochissimi ne sono a conoscenza. Gli rimase dentro quell’episodio, quella sensazione di impotenza di fronte all’arroganza del potere che manganella.

E tu lo sai perché si è confidato con te?

No, io ne sono testimone oculare. Passavo per Piazza Nicosia in quel momento e per ripararmi, finii sotto a una Mercedes. Da lì vidi tutto, quegli agenti impazziti che se la prendevano con lui che stava, come sempre, dalla parte giusta.

E forse per raccontare la verità dei fatti, dopo quell’episodio scelse il giornalismo, o forse il giornalismo lo colse. Come andò?

Era un giovane praticante all’Asca. Un giorno stava all’aeroporto Charles De Gaulle, si andava a imbarcare per Roma dopo una visita a Parigi. Riconobbe Gianni De Michelis che parlava con un tale e si accostò. Era Oreste Scalzone. Ascoltò De Michelis senza farsi notare e lo sentì rassicurare il leader di Autonomia Operaia: ‘Noi socialisti stiamo per ottenere un’amnistia’. Tornato a Roma, propose la notizia al Giorno, che fece lo scoop e di lì a poco lo assunse.

Ha sempre lavorato tantissimo, qui in Rai.

Sempre. Andò in studio la sera dell’11 settembre. Fece tutta la diretta dalle 18 in poi, un telegiornale infinito, una maratona prima di quelle di oggi, di Mentana. Era il classico bravo: asciutto, dritto al punto, infaticabile e sempre preciso, rigoroso.

Il senso della notizia, la voglia di raccontarla al pubblico…

La cito con rispetto, oggi. Ma c’è una battuta che circola qui nei corridoi di Saxa Rubra: una telecamera, quando vede Sassoli che cammina, si alza e lo segue anche da sola. Aveva inventato lo stile del redattore iperattivo, stava sempre con la telecamera dietro.

Poi la politica, senza porte girevoli. Lo hai mai sentito cambiare idea?

Quando lui si è candidato ha fatto una scelta di vita, sapevo che non lo avrei visto tornare in Rai. Ha sposato i principi del cattolicesimo democratico e non ha mai cambiato idea. Ha sempre difeso l’identità – nata con Moro – del cattolicesimo democratico. La stessa radice del Presidente Sergio Mattarella.

E la stessa di Paolo Giuntella che poi fece il Quirinalista per il Tg, e morì anche lui prematuramente. Due vite intrecciate l’una con l’altra, la sua e quella di Sassoli.

Esattamente. Due giovani della sinistra Dc diventati insieme volti Rai. Giuntella morì a 60 anni, andò in onda fino all’ultimo, con un tumore. Lui e David erano legatissimi. Purtroppo legati fin nella cattiva sorte. Si sono riabbracciati adesso, si stanno abbracciando in cielo oggi.

Aldo Torchiaro. Romano e romanista, sociolinguista, ricercatore, è giornalista dal 2005 e collabora con il Riformista per la politica, la giustizia, le interviste e le inchieste.

Il ricordo del presidente del Parlamento europeo. Chi era David Sassoli, critico e riformista fin da giovane. Stefano Ceccanti Il Riformista il 12 Gennaio 2022. 

Posso personalmente dare testimonianza solo di una limitata esperienza politica che ho avuto in comune con David Sassoli, quella della Lega Democratica. Limitata, ma di quelle che lasciano un imprinting fortissimo sui fondamentali del nostro modo di essere e di rapportarci agli altri, più di quanto ci si possa rendere conto in modo chiaro sul momento. Anche per questo le brevi note che seguono sono più una ricostruzione di quell’esperienza che non di singole specificità di David Sassoli o del suo contributo peculiare.

Nel 1974 i cattolici che avevano votato No al referendum in nome di un ruolo non invasivo della legge dello Stato appartenevano grosso modo, con alcune semplificazioni a due filoni: un primo, più radicale, che si collocava nei partiti di sinistra e che era più sensibile ai temi del cosiddetto dissenso ecclesiale; un secondo, più moderato, che era di matrice montiniana e morotea, che aveva un dissenso specifico solo sul modo di articolare il giudizio sullo strumento referendario e sul rapporto tra legge e coscienza. Da questo secondo filone prese origine l’esperienza della Lega Democratica e della rivista Appunti di cultura e di politica. Una realtà ben descritta in un saggio di dieci anni fa di Lorenzo Biondi e che meriterebbe di essere ripubblicato e riletto. L’associazione aveva due leader più adulti, peraltro piuttosto diversi tra di loro: lo storico Pietro Scoppola, grande studioso di De Gasperi, e il sociologo Achille Ardigò, discepolo di Dossetti. Aveva però anche un leader più giovane, il giornalista Paolo Giuntella, il quale possedeva grandi doti di educatore, sapeva trarre il meglio dalla diversità dei suoi interlocutori. Tra le persone più vicine a Giuntella spiccava appunto David Sassoli con il quale animava il circolo romano.

Però, al di là delle individualità, valeva soprattutto l’imprinting collettivo, l’abitudine ad avere simultaneamente una comune ispirazione ben riconoscibile, ma anche una vocazione al dibattito, con spregiudicatezza sui punti di caduta concreti. Tra le caratteristiche dell’ispirazione comune vi era quella che aveva pesato nel casus belli del 1974, al di là come ciascuno avesse votato: una visione molto libera del rapporto tra coscienza e legge. Scoppola, sulla scia del motto dei cattolici liberali “cattolici col papa, liberali con lo Statuto”, invitava sempre ad essere rigorosi con se stessi, ma proprio perché ciascuno sa quanto è difficile esercitare il rigore su di sé, sosteneva che occorresse essere altrettanto tolleranti con gli altri, specie con gli strumenti coercitivi del diritto. Un approccio radicalmente diverso rispetto a quella che sarebbe stata poi per qualche decennio la retorica e la pratica dei cosiddetti principi non negoziabili. Quindi vi era nell’impostazione di fondo un rapporto molto libero con lo strumento partito e con gli strumenti in genere.

Per quanto il referente naturale fossero le correnti progressiste della Dc, il partito non era considerato elemento identitario e neanche quelle componenti, ma erano valutati solo strumento contingente: l’identità era la tradizione cattolico democratica, non il partito e neanche quella sua parte più vicina e l’ambizione era comunque quella di un dialogo ravvicinato con le componenti riformiste delle altre aree politico-culturali, rispetto alle quali la diversità dei contenitori politici era vista più come un retaggio del passato che non come un confine invalicabile. Non era quindi scontato volta per volta né l’orientamento di voto dei singoli, né la posizione su singole questioni delicate e su cui vi era piena libertà di dibattito: ad esempio sugli euromissili, con Scoppola favorevole e Ardigò e Giuntella contrari. Proprio perché si aveva coscienza dei fini che si perseguivano era necessario agire con spregiudicatezza sui mezzi, non dando per scontato che quelli adottati sino ad allora fossero indiscutibili, dentro un cammino comunitario, in cui la specificità di ciascuno non sfociava in narcisismo.

Con lo scioglimento della Lega Democratica nel 1987 la componente giovanile sopravvisse col nome e l’esperienza autonoma della “Rosa Bianca”, rinnovandosi ma mantenendo Giuntella e Sassoli come alcuni dei propri più importanti punti di riferimento. Poste queste premesse, non c’è da stupirsi se molta parte della componente cattolico democratica che con percorsi diversi è stata protagonista della nascita del Pd – da Giorgio Tonini sino a Enrico Letta – sia passata per l’esperienza della Lega Democratica.

Infine una postilla: proprio nella vicenda dell’introduzione del voto a distanza per far funzionare nella pandemia il Parlamento europeo, l’ultima occasione in cui mi è capitato di confrontarmi, si sono visti come pesassero alcuni di quei fondamentali. La soluzione per perseguire un europeismo efficace chiedeva di far passare regole nuove, vincendo i diffusi e ostinati conservatorismi, il pregiudizio di chi scambia le finalità con gli strumenti del passato. David ci è riuscito, ma anche perché quella sua ispirazione veniva da lontano, da un’esperienza diffusa e comunitaria. Stefano Ceccanti

Da ansa.it il 13 gennaio 2022. 

Il presidente del Parlamento Ue David Sassoli avrà i funerali di Stato e sarà omaggiato dalle più alte cariche italiane ed europee. La commozione trasversale per la prematura scomparsa dell'esponente del Pd, nelle prossime ore, avrà Roma come protagonista. 

La musica sacra di Johann Sebastian Bach in sottofondo e le corone di fiori delle istituzioni italiane ed europee hanno fatto da cornice nella camera ardente predisposta in Campidoglio per il presidente del Parlamento europeo David Sassoli.

I sette Mottetti e le Cantate di Bach a tema funebre o meditativo si sono alternate mentre cittadini, autorità e parlamentari rendevano omaggio a Sassoli, il cui ritratto sorridente con alle spalle la bandiera UE, spiccava dietro il feretro. 

Attorno ad esso i cuscini e le corone di fiori delle istituzioni italiane (Presidenza della Repubblica, del Consiglio, Camera e Senato) ed europee (Parlamento e Commissione). Alcuni cittadini hanno posato un fiore vicino alla bara mentre molti si sono fatti il segno della croce.

I primi a rendere omaggio a Sassoli sono stati il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e il presidente del Consiglio, Mario Draghi, accolti alla camera ardente in Campidoglio, dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri. 

A salutare il presidente del Parlamento europeo anche il presidente della Camera Roberto Fico e il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti. Omaggio anche di Walter Veltroni: il sindaco Gualtieri lo ha accolto all'arrivo e lo ha accompagnato nel percorso, fino all'abbraccio con i familiari di Sassoli. In Campidoglio è giunto Goffredo Bettini, già eurodeputato del Pd e collega di Sassoli a Bruxelles e il sindaco di Firenze (dove David Sassoli era nato), Dario Nardella. Tra i presenti anche Gianni Letta.

David Sassoli è stato ricordato oggi aprendo i lavori della commissione dell'Europarlamento per le libertà civili, la giustizia e gli affari interni (Libe): "Vorrei esprimere a nome della Commissione le nostre condoglianze per la perdita" del presidente del Parlamento europeo, David Sassoli. 

"Siamo obbligati - ha detto il vice presidente della Commissione europea, Margaritis Schinas - a continuare il lavoro istituzionale ma in questi momenti difficili i nostri pensieri sono vicini alla sua famiglia".

In Campidoglio, dalle ore 10.30, è stata aperta la camera ardente al pubblico mentre le esequie saranno domani a mezzogiorno e vedranno la partecipazione, tra gli altri, del presidente della Repubblica Sergio Mattarella, della presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen e del numero uno del Consiglio Ue Charles Michel. Ma a Roma ci saranno anche decine e decine di volti della politica italiana ed europea. 

Numerosi parlamentari e comuni cittadini stanno rendendo omaggio al presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Ad arrivare Antonio Tajani e i capigruppo di Fi Paolo Barelli e Annamaria Bernini, ma a che altri parlamentari come Andrea Cangini. Tra i numerosi esponenti del PD sono giunti Luigi Zanda, Graziano Delrio, Stefano Ceccanti, Walter Verini Andrea Marcucci, Franco Mirabelli, Andrea Giorgis Barbara Pollastrini, Alberto Losacco, Gianni Cuperlo, Beppe Fioroni. Anche Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Stefano Fassina, Marco Follini, Sergio Cofferati.

Una folta delegazione di Italia Viva guidata da Matteo Renzi, Ettore Rosato, e dai capigruppo Maria Elena Boschi e Davide Faraone ha reso omaggio alla salma del presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Renzi e gli altri parlamentari di Italia Viva si sono poi intrattenuti a lungo a salutare i familiari di Sassoli ed il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Omaggio anche del ministro della Salute Roberto Speranza e di una delegazione di parlamentari di Leu, guidati dal capogruppo e Federico Fornaro e da Pier Luigi Bersani. 

La presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati in Campidoglio per visitare la camera ardente del presidente del Parlamento europeo. Ad accoglierla, anche in questo caso, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Casellati si è a lungo intrattenuta con la moglie e il due figli del presidente del Parlamento europeo.

E il saluto del segretario del Pd Enrico Letta insieme a i membri della segreteria del partito. Letta si è a lungo soffermato in raccoglimento davanti alla salma di Sassoli per poi salutare i familiari del presidente del Parlamento europeo. "E' impressionante la mobilitazione di tantissimi cittadini in queste ore per David Sassoli - ha detto Letta -. È l'entusiasmo per l'Europa e per la buona politica che David ha saputo generare, a cui noi vogliamo dare seguito prendendo delle iniziative in nome di David Sassoli per la buona politica e per l'Europa".

"Ho conosciuto David Sassoli come presidente dei conservatori europei e posso dire che era una persona leale che rispettava gli avversari e per questo mi mancherà", ha detto la presidente di Fratelli d'Italia, Giorgia Meloni, dopo aver visitato la Camera ardente. 

Non si sono fermate le commemorazioni e i messaggi di cordoglio da tutta Europa per l'ex presidente dell'Assemblea di Strasburgo. La riunione degli ambasciatori dei Paesi membri dell'Ue (Coreper) ha osservato un minuto di silenzio per ricordarlo mentre il Consiglio Ue lo ha omaggiato con una clip che racchiude i "momenti più belli" di Sassoli presidente. E dagli Usa il dipartimento di Stato americano ha voluto sottolineare la "voce per la democrazia e i diritti umani" che ha rappresentato Sassoli mentre la vicepresidente Kamala Harris in un tweet lo ha ricordato come "un grande europeo impegnato verso gli ideali della democrazia".

Domani i funerali di Stato deliberati dal Consiglio dei ministri metteranno un suggello alla commozione dell'Europa intera per la scomparsa dell'ex volto del Tg1. Le esequie si terranno presso la Basilica di S. Maria degli Angeli, a piazza della Repubblica, e la messa sarà celebrata dal cardinale e arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi. 

Intanto i carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno depositato una prima informativa in Procura in relazione alle offese, comparse sui social network, al presidente del parlamento europeo, David Sassoli. Nei messaggi su alcuni profili Twitter veniva messa in relazione la morte dell'ex giornalista con il vaccino Covid. Ieri i carabinieri hanno trasmesso l'incartamento all'ufficio primi atti di piazzale Clodio dove verrà nei prossimi giorni verrà formalmente aperto un fascicolo di indagine.

La camera ardente in Campidoglio. Roma saluta David Sassoli, tanti cittadini alla camera ardente del presidente del Parlamento Ue. Redazione su Il Riformista il 13 Gennaio 2022.  

Si è aperta questa mattina in Campidoglio la camera ardente per David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo scomparso due giorni fa al sopraggiungere di una grave complicanza dovuta ad una disfunzione del sistema immunitario. I primi ad arrivare sono stati la moglie Alessandra Vittorini con i figli Livia e Giulio che, insieme al sindaco di Roma Roberto Gualtieri, hanno accolto il feretro.

Nella sala della Protomoteca, il feretro è stato circondato dalle corone di fiori delle massime autorità italiane e dai parlamenti tedesco e spagnolo, oltre che quello europeo che presiedeva dal 2019. Spicca la foto del volto sorridente di Sassoli con lo sfondo di una bandiera europea, segno dell’impegno politico e della fiducia nei valori europei.

Numerosi esponenti delle istituzioni e del mondo della politica hanno voluto salutare il presidente dell’Europarlamento. Il primo a entrare nella sala della Promotoca, accolto dal sindaco Gualtieri, è stato il capo dello Stato Sergio Mattarella, che si è fermato con la famiglia Sassoli e ha lasciato la camera ardente cercando di nascondere la commozione.

Subito dopo è toccato al premier Mario Draghi e al presidente della Camera Roberto Fico, che come Mattarella, sono stati accolti dal primo cittadino della Capitale Gualtieri. Il momento di cordoglio delle più alte cariche dello Stato si è svolto in forma privata: la camera ardente ha aperto al pubblico alle 10:30.

Tutto il mondo politico, senza distinzioni, ha voluto salutare per l’ultima volta Sassoli prima dei funerali di Stato, in programma per domani alla basilica di santa Maria degli angeli a Roma. Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il ministro per i beni e le attività Culturali Dario Franceschini sono stati tra i primi a dare l’ultimo saluto a Sassoli. Poi è stato il turno del presidente del Movimento 5 Stelle Giuseppe Conte, arrivato con Goffredo Bettini. Un attimo prima è stato il momento di Massimo D’Alema, arrivato nella sala della Promotoca per esprimere il suo cordoglio alla moglie e ai figli di Sassoli. Non è mancato il saluto degli esponenti di Forza Italia: una delegazione composta da Antonio Tajani e i capigruppo Anna Maria Bernini e Paolo Barelli hanno reso omaggio al feretro del presidente del Parlamento Europeo. Il vicepresidente di Forza Italia Tajani, nel ricordare il percorso compiuto insieme a Sassoli sia nel mondo del giornalismo sia nell’Europarlamento, ha menzionato il “sostegno prezioso da parte di David” in molte occasioni.

Il Pd, il partito di Sassoli, è stata la forza politica più numerosa tra le tante: i gruppi di Camera e Senato erano presenti con in testa le presidenti Debora Serracchiani e Simona Malpezzi, mentre il segretario Enrico Letta ha guidato una nutrita delegazione.

L’affetto e la commozione dei cittadini, italiani ed europei, ha colpito Letta. Per il collega di partito, è il segno di una “buona e sana politica che David Sassoli aveva generato”. Un entusiasmo che deve essere alimentato attraverso “iniziative nel nome di David Sassoli per la buona politica e per l’Europa”, ha promesso Letta che ha ricordato come il presidente dell’Europarlamento sia stato l’interprete di una “migliore politica”.

Ma non è mancato il saluto dei suoi avversari politici. Nella sala della Promotoca, la leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, che nei giorni scorsi ha ricordato alla Camera la figura di David Sassoli con parole di commozione, si è intrattenuta con la moglie e i figli di Sassoli, per poi salutare anche il sindaco di Roma Gualtieri. E poi con i cronisti ha commentato la figura del democratico. “Se fossero così tutti gli avversari politici – ha detto ai giornalisti la leader di FdI – la politica sarebbe una cosa alta. Per questo penso che le istituzioni perdano una bella persona. Condividevo poco o nulla delle idee di David Sassoli ma riconosco il valore di una persona che si batte convintamente e anche profondamente per le sue idee. Quindi lo ringrazio anche per il lavoro che abbiamo fatto insieme. Era una persona con la quale era facile avere a che fare e anche scontrarsi, per questo era affascinante”. Per Meloni, Sassoli era una persona che difendeva con convinzione le sue idee ma non aveva bisogno di essere sleale, aggressivo, cattivo, perché aveva rispetto dell’avversario. “Sapeva stare al gioco lealmente, a me mancherà”, ha detto la leader di FdI. Anche Matteo Salvini, leader della Lega, si è unito al dolore della famiglia Sassoli.

Non è mancata la presenza del sindaco di Firenze Dario Nardella, città a cui Sassoli era particolarmente legato. Lo scomparso presidente dell’Europarlamento era nato a Firenze il 30 maggio 1956, ma ha trascorso l’infanzia a Roma. “Ricordo un suo intervento dedicato all’Europa e le città. Dobbiamo lavorare su questo, come presidente dei sindaci europei dedicherò una sessione con tutti i colleghi sindaci nei prossimi mesi proprio al lavoro e ai progetti di David Sassoli, per primo si è reso conto dell’importanza di tenere l’Ue legata alle città, i cittadini rischiano di percepirla troppo lontana, Sassoli lo aveva capito e si batteva per questo”, ha detto Nardella ai giornalisti dopo la visita alla camera ardente.

Anche Matteo Renzi, che ha guidato la delegazione di Iv, con Ettore Rosato, Teresa Bellanova, Elena Bonetti e Maria Elena Boschi, ha voluto omaggiare Sassoli. Tanti, tantissimi, sono comunque stati i parlamentari e gli esponenti politici di tutti gli schieramenti che hanno ingrossato la lunga fila di cittadini in attesa di dare l’ultimo saluto al presidente dell’Europarlamento.

Una folla sobria e composta, dopo il dovuto controllo del green pass, ha voluto salutare per l’ultima volta il volto del Tg1 e l'”uomo dall’indimenticabile sorriso”.

Amici, conoscenti o semplici ammiratori della figura di Sassoli hanno lasciato la camera ardente tra lacrime di commozione. “Mancherà: il suo impegno politico e la sua umanità saranno indimenticabili”, ha detto un cittadino dopo aver dato l’ultimo saluto alla persona che si è contraddistinta per la riservatezza e sobrietà.

Da ansa.it il 14 gennaio 2022.

Ultimo saluto a David Sassoli, il presidente del Parlamento Ue morto nei giorni scorsi. In corso i funerali di Stato nella chiesa di Santa Maria degli Angeli con le più alte cariche dello Stato e i presidenti della Commissione e del Consiglio Ue von der Leyen e Michel. Ieri folla ininterrotta alla camera ardente allestita in Campidoglio. 

Con una bandiera europea posata sopra, il feretro di David Sassoli è stato accompagnato da sei carabinieri in alta uniforme all'interno della basilica. A Sassoli sono stati tributati gli onori militari con tre squilli di tromba. 

"Tanti lo consideravano uno di noi per quell'aria empatica, un po' per tutti era un compagno di classe, quello che tutti avremmo desiderato, che sicuramente ci avrebbe aiutato". Così nella sua omelia al funerale di Stato di David Sassoli il cardinale e arcivescovo di Bologna Matteo Zuppi, amico sin dai tempi del liceo dello scomparso presidente del Parlamento europeo.

"Sceglievi parole pacate e calibrate, le scagliavi come un arciere nel nostro cuore, parole che hanno modellato il nostro Paese e l'Europa, parole che profumano di fraternità". Lo ha detto padre Francesco Occhetta, gesuita e politologo, in apertura dei funerali di Stato dello scomparso presidente del Parlamento europeo David Sassoli. Occhetta ha ricordato che Sassoli aveva "la forza per camminare se tare dalla parte del bene e dei deboli. Lo sapevi e lo dicevi, il miracolo dell'eucarestia è che più cresce condivisione e più diminuiscono pace e povertà - ha aggiunto -. Sempre spinto a fare un passo in più. Il popolo ti ha riconosciuto come un presidente mite e prossimo".

Alla cerimonia pertecipano il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella e il presidente del Consiglio Mario Draghi. Entrato nella basilica, Draghi ha stretto la mano al premier spagnolo Pedro Sanchez, giunto poco prima di lui, e poi ha salutato i vertici delle istituzioni europee, la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e il presidente del Consiglio Ue Charles Michel. 

Luciana Lamorgese, Luigi Di Maio e Renato Brunetta sono fra i primi ministri giunti alla basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri, a Roma.

Fra i circa 300 partecipanti già nella basilica ci sono anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, il segretario del Pd Enrico Letta, il senatore a vita Mario Monti, Gianni Letta, e la delegazione del Parlamento europeo. All'esterno della basilica è radunata una folla di giornalisti, operatori tv e fotografi, ed è stato allestito un maxischermo su cui sarà trasmessa in diretta la cerimonia, celebrata officiata dall'arcivescovo di Bologna Cardinale Matteo Zuppi e concelebrata dall'Arcivescovo di Firenze Cardinale Giuseppe Betori, dal Vicario generale per la diocesi di Roma Cardinale Angelo De Donatis, dal Segretario per i Rapporti con gli Stati Paul Gallagher, da Mons. Massimiliano Boiardi e da Padre Francesco Occhetta.

Da corriere.it il 14 gennaio 2022.

«Ho avuto una vita bella, decisamente molto bella, anche se un po’ complicata, e finirla a 65 anni è davvero troppo presto». Questo diceva David Sassoli settimane fa quando aveva «capito già tutto», come ha raccontato la moglie, Alessandra Vittorini, nel suo messaggio al termine del funerale di Stato (leggi l’articolo completo) dello scomparso presidente del Parlamento europeo davanti ai tanti presenti nella Basilica di Santa Maria Maggiore degli Angeli.

«Questo mi dicevi, quando noi giocavamo a nasconderci la realtà sperando l’impossibile - ha detto ancora la donna, che dopo aver letto il messaggio è stata confortata dai due figli con un commovente abbraccio -. È troppo presto, per le tante cose che avevamo ancora da dirci, per il futuro che progettavamo per noi due e i nostri ragazzi.

Ce le diremo ancora quelle cose, penseremo ai progetti e immagineremo il futuro. Cammineremo certi della tua presenza, che ci accompagnerà ancora ma in un altro modo, più denso e profondo. Il vuoto prodotto da una perdita può trasformarsi in pieno».

Mario Ajello per "il Messaggero" il 14 gennaio 2022.

Ci sono le cantate funebri di Bach, la foto di Sassoli su un cavalletto e in un mare di fiori, il sindaco Gualtieri con la famiglia di David e con i tanti ricordi che lo legano all'amico scomparso, i due presidenti Mattarella e Draghi che arrivano per primi alla camera ardente e il Capo dello Stato abbraccia Sandra, la vedova, mentre il premier per 5 minuti fissa in solitudine il feretro e sembra incantato per la perdita e il dolore.

Poi quasi l'intero governo viene a dare l'ultimo omaggio, prima dei funerali di Stato di stamane, e ci sono Salvini, Meloni, Tajani, Gianni Letta, Brunetta e tanti parlamentari (da Bernini, a Cangini, da Gasparri a Giro e Barelli), ma è il Pd che riempie la sala.

O meglio: intorno al feretro di Sassoli si riunisce l'intera famiglia del centrosinistra, notoriamente strapiena di litigi e di rancori in corso ma che intorno alla memoria di David, un pontiere, almeno per un giorno o due prova a superarli o li si dissimula intorno a questa sala del Campidoglio.

D'Alema e Veltroni, Renzi e Conte che sembra un dem tra dem, la Finocchiaro («Sarà lei la prima donna al Colle?», si chiede qualcuno, speranzoso) e gli ultra-sinistri, il segretario Letta e i renziani e ex renziani che non tifano per lui, Calenda e Bersani, la Raggi e la Boschi e la De Micheli, Zanda e Migliore, Fratoianni e Rutelli, Franceschini (uno dei primi ad arrivare e tra i più commossi) e Fioroni, Speranza e Faraone, Zingaretti («Ciao, David. E ancora grazie», twitta più tardi) e tutti gli altri.

Sassoli è riuscito nel miracolo di riunire anche gli opposti. Due ex amici quali Orfini e Renzi si appartano, i cronisti si avvicinano per origliare e Matteo: «Vi do uno scoop. Stiamo parlando del Covid e non del Colle». Chissà se è vero, perché il tema Quirinale corre di bocca in bocca. Molti premettono: «Sassoli era naturaliter mattarelliano...». 

Il che è verissimo. E qui tra i dem - il cui segretario ribadisce: «Mattarella ancora al Colle sarebbe il massimo» - la tesi che va di più è questa, riassunta da un membro del governo: «Dobbiamo spingere la destra su Mattarella. Far capire a Salvini che conviene anche a lui, oltre che all'Italia, il bis. Draghi andrebbe benissimo al Colle, ma poi si scatena il big bang nel governo».

Ovvero esploderebbe l'intero equilibrio in un momento di pandemia e con i soldi del Pnrr da far fruttare. Una tesi questa che sembra trovare concorde sia Renzi, ma non si sbilancia, sia quelli della sinistra-sinistra e anche molti centristi che la pensano come Tabacci che pure è un super-draghiano: «Non possiamo rischiare di aprire il vaso di Pandora, Mattarella per garantire ancora stabilità dal Colle e Mario a lavorare da par suo per salvare l'Italia».

Quanto è praticabile però la continuità dello schema Mattarella-Draghi di cui tra l'altro Letta e Salvini parleranno nell'incontro (probabile) di lunedì prossimo? «I margini ci sono», è la risposta generale. E Conte, ma anche Di Maio, nei 5 stelle ne sono a loro volta abbastanza convinti. Desideri a vanvera? Intanto è arrivata la Meloni nella camera ardente. Si sofferma nei ricordi: «Quando sono diventata presidente dei Conservatori europei, il primo a complimentarsi è stato Sassoli. Vorrei tutti avversari come Sassoli, persona rispettosa e leale».

Quando entra Salvini, solitario, silenziosissimo, nella sala del feretro, al suo passaggio nel gruppetto dei renziani si commenta: «Appena molla Berlusconi capirà che la soluzione più indolore è Mattarella bis». Per ora però Salvini lasciando il Campidoglio ribadisce: «Noi andiamo compattamente su Silvio».

E c'è chi, fuori dalla destra, ne capisce la motivazione. Si tratta di Enzo Carra, ex parlamentare della Margherita e conoscitore di tutto. Scende la scalinata verso piazza Venezia e dice: «Stavolta, per la prima volta, il centrodestra può piazzare uno dei suoi. Perché mai dovrebbe accettare ancora il binomio Mattarella-Draghi?». Obiezione sensata, anche se in Silvio credono in pochi e un altro nome il centrodestra se lo deve ancora inventare.

Il messaggio durante i funerali di Stato del padre. Ansa CorriereTv il 14 Gennaio 2022.

"Grazie papà, buona strada e, mi raccomando, giudizio". Rievocando una raccomandazione paterna, Giulio Sassoli, accanto alla sorella Livia, ha concluso il suo messaggio durante il funerale di Stato del padre David, in cui ha ricordato "la sua spontaneità e i modi di fare sempre autentici, in ogni contesto". "Oltre a buongiorno e buonasera, esclamavi sempre 'evviva', come se anche solo incontrarsi fosse già una vittoria" ha ricordato Giulio Sassoli", rievocando "la dignità di chi non ha mai fatto pesare la sua malattia, né ora né anni fa. In un mondo di scuse, dicevi 'Si' ma io c'ho da fa''. Ci hai insegnato che la fama e la popolarità hanno senso solo se si riescono a fare cose utili". E poi ancora "passione e amore", sono le parole del tuo insegnamento pronunciate fino all'ultimo.

Funerali David Sassoli, folla per l’ultimo saluto. La moglie Alessandra Vittorini: «Sarà dura, ma ci hai insegnato che niente è impossibile». Fabrizio Caccia e Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2022.

È una piazza della Repubblica blindata quella che ha accolto l’arrivo dei partecipanti al funerale di Stato del presidente del Parlamento Ue David Sassoli. Le esequie iniziate alle 12 nella basilica di Santa Maria degli Angeli, a Roma. La piazza è stata presidiata da uomini e mezzi delle forze dell’ordine, un elicottero sorvolava la zona, chiusa al transito dei veicoli e anche i pedoni sono stati indirizzati dagli agenti sotto al colonnato dal lato di via Nazionale.

La bara, arrivata dal Campidoglio avvolta dalla bandiera europea è stata accolta dal picchetto d’onore. Ai funerali hanno partecipato le più alte cariche dello Stato e delle istituzioni Ue. Già in chiesa la moglie Alessandra Vittorini e i figli Giulio e Livia, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen e il presidente del Consiglio europeo Charles Michel, il ministero degli esteri, Luigi Di Maio, il premier Mario Draghi e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Ma anche molti ministri del governo e il premier spagnolo Pedro Sanchez.

«Facciamo fatica a comprendere la fine», ha detto il cardinale Matteo Maria Zuppi nell’omelia. David Sassoli era un suo amico e l’arcivescovo di Bologna lo ha ricordato con dolcezza dentro la Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri. «Le tue parole sempre calibrate le lanciavi come un arciere, parole che profumavano di fraternità». Il cardinale siè poi rivolto alla moglie Sandra e ai figli Livia e Giulio e ha ricordato una poesia di padre David Maria Turoldo (da cui il presidente del Parlamento europeo ereditò il nome): «Niente e nessuno muore e tutto vive». Un’omelia piena di umanità quella del cardinale che alla fine ha salutato l’amico alla sua maniera: «Buona strada David, il tuo sorriso ci ricordi sempre di ricercare la felicità e di costruire la speranza» e ha ricordato le parole scambiate con lui a Natale quando Sassoli era già molto malato: «Abbiamo il dovere di proteggere i più deboli, la speranza siamo noi quando non alziamo muri». Parole risuonate come un testamento e un manifesto per la nuova Europa.

Nella basilica dove in questi anni si sono celebrati i funerali di Stato dei nostri militari morti in Iraq e in Afghanistan e che a febbraio dell’anno scorso diede l’ultimo saluto all’ambasciatore italiano Luca Attanasio ucciso in Congo in un’imboscata, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella si è avvicinato alla moglie e ai figli di David Sassoli e ha rivolto loro parole cariche di affetto. «Quale scherzo ci hai fatto, tutti qui a parlare di te - è il saluto rivolto da Elisa Anzaldo al giornalista a nome di tutti colleghi del Tg1 della Rai -. L’elogio della mitezza, del rispetto degli altri e senza pregiudizi. Avevi tutte le virtù. Hai sfondato muri di gomma con la tenacia della tua gentile fermezza, con la forza della prudenza». In lacrime Elisa: «Buttare giù un muro è social più di un gruppo Facebook, diceva David. E durante il lockdown teneva aperto il Palazzo del Parlamento Europeo perché nessuno si sentisse solo».

«Grazie papà, buona strada e, mi raccomando, giudizio». Rievocando una raccomandazione paterna, Giulio Sassoli, accanto alla sorella Livia, ha concluso il suo messaggio durante il funerale del padre David. «La sua spontaneità e i modi di fare erano sempre autentici, in ogni contesto». «Oltre a buongiorno e buonasera, esclamavi sempre “evviva”, come se anche solo incontrarsi fosse già una vittoria» ha ricordato Giulio Sassoli, rievocando «la dignità di chi non ha mai fatto pesare la sua malattia, né ora né anni fa. In un mondo di scuse, dicevi “Sì ma io c’ho da fa’’. Ci hai insegnato che la fama e la popolarità hanno senso solo se si riescono a fare cose utili. Oggi mi lasci tante cose, Sicuramente non i capelli - sorride al microfono alludendo alla sua calvizie - e dopo averne cercate tante ho trovato tre parole per ricordarti: dignità, che hai mostrato non facendoci mai pesare la malattia. Ci ho da fà’, cosi in romanesco, dicevi sempre anche in ospedale, Col tuo sorriso guascone e gli occhi vispi, anche se arrossivi ai complimenti. Perché la seconda parola che ho scelto è passione, le tue passioni e le tue sfide .E la terza parola è amore, che hai ripetuto fino all’ultimo come un grido». Poi è arrivato il turno di Livia, la figlia, che ha citato commossa l’ultimo intervento del papà: «In questi anni di pandemia abbiamo ascoltato il silenzio del Pianeta, abbiamo reagito convinti come siamo che il Dovere delle istituzioni europee sarà Sempre proteggere i più deboli abbandonando l’indifferenza».

Anche Alessandra Vittorini, moglie di Sassoli, ha preso la parola: «Ci siamo cercati e trovati sui banchi di scuola, ti ho sempre condiviso con altri tra famiglia, lavoro, politica, altri luoghi e altri tempi... “Ho avuto una vita bella. E finirla a 65 anni è davvero troppo presto”. Questo mi dicevi solo due settimane fa, quando avevi capito già tutto, mentre noi giocavamo a nasconderci la realtà, sperando l’impossibile. È troppo presto, per le tante cose che avevamo ancora da dirci, per il futuro che progettavamo per noi due e i nostri ragazzi. Ce le diremo ancora quelle cose, penseremo ai progetti e immagineremo il futuro. Cammineremo certi della tua presenza, che ci accompagnerà ancora ma in un altro modo, più denso e profondo. Il vuoto prodotto da una perdita può trasformarsi in pieno. Sarà dura, durissima, ma in questi anni ci hai dimostrato che niente è impossibile», ha aggiunto. «L’amore non si divide, ma si moltiplica». Subito dopo il feretro di Sassoli ha lasciato la basilica accompagnato da un applauso lungo e commosso.

Ci sono anche Sofia e Lorenzo, i figli di Massimo De Strobel, l’amico di una vita, che David chiamavano “zio”. E Luca Nitiffi, il capo del suo staff al Parlamento europeo, che ne ricorda la profonda umiltà: «Nel giorno della tua elezione la Prima cosa che ci dicesti fu: ricordatevi che torneremo zucche». Ognuno aggiunge un suo personale ricordo, lacrime e sorrisi si confondono: «Temevamo il suo unico vizio, quello maledettissimo del fumo - conclude così la sua amica e collega Elisa Anzaldo -. Ah quanto era figo avere David Sassoli nella squadra di calcetto del tg1. Ora la terra che ti aspetta (nel cimitero di Sutri, ndr) avrà il profumo del basilico, della menta e dei tuoi amatissimi fiori».

Tante le persone comuni che ieri e oggi hanno voluto rendere omaggio a Sassoli. Alla camera ardente in Campidoglio giovedì erano presenti 4.000 cittadini che hanno portato il loro omaggio al presidente del Parlamento europeo. Per il funerale di oggi invece è stato allestito alle Terme Diocleziano un maxischermo che ha trasmesso in diretta la funzione: tanta gente è accorsa per seguirla da lì.

L’ultimo ricordo di David Sassoli. “Portiamo nel cuore il suo sorriso”. Redazione Politica su Il Corriere del Giorno il 14 Gennaio 2022.

Il saluto di una nazione, l’omaggio di un continente che gli ha voluto bene e che crede nei valori della fratellanza e della condivisione. Circa 300 persone presenti durante la celebrazione, mentre all’esterno è stato allestito un maxi schermo per consentire ai cittadini presenti di assistere al rito funebre.

È una piazza della Repubblica “blindata” quella che ha accolto questa mattina l’arrivo dei partecipanti al funerale di Stato del presidente del Parlamento europeo David Sassoli celebrato nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma in un atmosfera di sincera di commozione e gratitudine. Ad accogliere la bara avvolta dalla bandiera dell’Unione europea, il picchetto d’onore secondo il protocollo previsto dai funerali di Stato, ma soprattutto quella stessa atmosfera di grande affetto e stima che in questi giorni ha abbracciato la sua famiglia, testimoniata dall’omaggio delle Istituzioni ma anche dei cittadini comuni che hanno visitato la camera d’ardente allestita nella sala della Protomoteca del Campidoglio e dall’applauso spontaneo che ha salutato l’uscita della salma dalla chiesa.  

Il saluto di una nazione, l’omaggio di un continente che gli ha voluto bene e che crede nei valori della fratellanza e della condivisione. Circa 300 persone presenti durante la celebrazione, mentre all’esterno è stato allestito un maxi schermo per consentire ai cittadini presenti di assistere al rito funebre.

Il cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo di Bologna ed amico d’infanzia di David Sassoli lo ha ricordato con queste parole durante l’omelia e concelebrata dall’Arcivescovo di Firenze Cardinale Giuseppe Betori, dal Vicario generale per la diocesi di Roma Cardinale Angelo De Donatis, dal Segretario per i Rapporti con gli Stati Paul Gallagher, da Mons. Massimiliano Boiardi e da Padre Francesco Occhetta: “Tanti lo consideravano uno di noi per quell’aria empatica, un po’ per tutti era un compagno di classe, quello che tutti avremmo desiderato, che sicuramente ci avrebbe aiutato. Credente sereno, senza evitare dubbi, pieno di rispetto e garbo, come il suo carattere. Era un uomo di parte e un uomo di tutti, perché la sua parte era quella della persona” ricordandolo “beato anche nella sofferenza della malattia, vissuta con dignità senza lamentarsi. David era un uomo di tutti, la politica per lui era democrazia, voleva un’Europa Unita”.

Un’omelia sentita e partecipata, ascoltata mano nella mano da Alessandra e Livia, la moglie e la figlia di David Sassoli. Sull’altare presente anche una rappresentanza degli scout di cui Sassoli aveva fatto parte negli anni della gioventù.

L’Italia e l’Europa hanno salutato e reso omaggio solenne a David Sassoli La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen è stata accolta dal picchetto d’onore delle forze armate all’ingresso della chiesa. Presenti il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il presidente del consiglio Mario Draghi, i presidenti della Camera e del Senato Roberto Fico e Maria Elisabetta Alberti Casellati. In chiesa presente buona parte del governo italiano tra cui i ministri Patrizia Bianchi, Luigi Di Maio, Dario Franceschini, Lorenzo Guerini, Luciana Lamorgese, Andrea Orlando, il premier spagnolo Pedro Sanchez.

Emozionante il ricordo della moglie e dei figli “Ci siamo cercati e trovati sui banchi di scuola. Ti abbiamo sempre diviso e condiviso con altri, famiglia e lavoro, famiglia e politica, famiglia e passioni. Noi siamo stati il tuo punto fermo ma dividerti e condividerti con altri ha prodotto questa cosa immensa a cui stiamo assistendo in queste ore. Sarà dura, durissima, ma in questi anni ci hai dimostrato che niente è impossibile“. Nelle parole della moglie Alessandra Vittorini c’è la storia della vita di David Sassoli: famiglia, amici, condivisione, lavoro e impegno politico.

“Ho avuto una vita bella, decisamente molto bella, anche se un po’ complicata, e finirla a 65 anni è davvero troppo presto”. Questo diceva David Sassoli settimane fa quando aveva “capito già tutto“, come ha raccontato la moglie, Alessandra Vittorini, nel suo messaggio al termine del funerale di Stato dello scomparso presidente del Parlamento europeo davanti ai tanti presenti nella Basilica di Santa Maria Maggiore degli Angeli. “Questo mi dicevi, quando noi giocavamo a nasconderci la realtà sperando l’impossibile – ha detto la vedova di Sassoli, che dopo aver letto il messaggio è stata confortata dai due figli con un commovente abbraccio -. È troppo presto, per le tante cose che avevamo ancora da dirci, per il futuro che progettavamo per noi due e i nostri ragazzi. Ce le diremo ancora quelle cose, penseremo ai progetti e immagineremo il futuro. Cammineremo certi della tua presenza, che ci accompagnerà ancora ma in un altro modo, più denso e profondo. Il vuoto prodotto da una perdita può trasformarsi in pieno”.

“Dignità, passione e amore l’insegnamento più grande. Ci hai insegnato che la fama e la popolarità hanno senso solo se si riescono a fare cose utili” queste le parole del figlio Giulio Sassoli, speranza nelle parole di sua sorella Livia che ha letto una parte dell’ultimo messaggio del suo papà, scritto durante le festività natalizie “in questi anni abbiamo ascoltato il silenzio del pianeta, abbiamo avuto paura ma abbiamo reagito, costruendo una nuova solidarietà perché nessuno è al sicuro da solo” aggiungendo “Ci hai insegnato a costruire una nuova solidarietà, a sperare. Perché la speranza siamo noi, se non alziamo muri e non ci voltiamo davanti alla povertà e alle diseguaglianze“.

Il saluto dei colleghi giornalisti “Quale scherzo ci hai fatto, tutti qui a parlare di te”, con queste parole Elisa Anzaldo ha reso omaggio  al “giornalista” David Sassoli a nome di tutti colleghi del TG1 della Rai. “Hai sfondato muri di gomma con la tenacia della tua gentilezza, con l’ostentazione del rispetto che avevi per gli altri, con lo sfinimento del dialogo, la forza della prudenza e la dirompenza della tua mitezza. A noi lasci una caparbia lezione di ottimismo”. Con voce rotta dalla commozione, la Anzaldo ha rievocato quando “arrivava trafelato in studio” poco prima dell’inizio del Tg, il “maledettissimo vizio del fumo”, la sua ritrosia di fronte ai social network: “Lui diceva, ‘ma io sono qui, parliamoci‘. Diceva che è social buttare giù un muro, perché dietro c’è un mondo. Che è social accogliere un migrante, perché dietro di lui c’è una comunità. Che la famiglia è più ricca e moderna di un gruppone Facebook“.

“Un’ondata di affetto ci ha travolto al Tg1 – ha aggiunto Elisa Anzaldo – e ci ha fatto ricordare tanti momenti: a mensa se ti scappava poco poco l’inizio di una discussione politica non ti si fermava più, partivi da De Gasperi, per concludere che qualcosa comune bisognava farla. E l’hai fatta. Dicevi, il problema degli altri è il mio problema, L’indifferenza non è un’opzione, tutti gli insegnamenti di don Milani che avevi respirato a casa e raccontavi a noi“.

David Sassoli, "affascinante, appassionato, carismatico: ti restava in testa". I ricordi dei suoi compagni del Virgilio. Valentina Lupia su La Repubblica il 15 Gennaio 2022.

"Passava nelle classi e ci diceva: "Ragazzi, impegnatevi!'". Erano gli anni  in cui la partecipazione politica era di tutti. Anni in cui "sembrava che potessimo davvero cambiare le cose".

Era il 1976 e "un affascinante, appassionato e carismatico" David Sassoli passava per i quarti ginnasio del liceo Virgilio di via Giulia a fare quella che oggi chiameremmo propaganda politica. "Eppure era molto di più", racconta Vanda Di Pastena, che in quegli anni era una "primina", seduta al banco di quella prima classe del liceo storico di via Giulia.

Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” il 15 gennaio 2022.

Diteci voi dove sta di casa la Bestia, adesso. Ci riferiamo a quel marchingegno comunicativo che consiste nel tritare qualunque accadimento del mondo, compreso il più grave e solenne, in legna da bruciare nel camino dell'autopromozione social. 

Almeno così l'hanno su per giù descritta i maestri(ni) del politicamente corretto, ogni volta che la scorgevano all'opera, e ovviamente la scorgevano sempre a destra, con sistematico e collaudato strabismo, ne hanno addirittura fatto un sinonimo di «messaggio leghista». 

Eppure oggi assistiamo a un'apoteosi del bestiale, alla vittoria della comunicazione su qualunque ritrosia umana residuale, compreso l'ultimo tabù inviolabile e (finora) non socializzabile, la morte.

Camera ardente di David Sassoli al Campidoglio: luogo di pellegrinaggio di facce, persone, storie, legate allo scomparso presidente del Parlamento europeo. Con la dovuta compostezza e il dovuto congelamento della ricerca quotidiana del like in più, l'irruzione del tragico a sospendere la commedia quotidiana della propaganda... No, non per tutti, e non parliamo di oscuri figuri, né di bavosi sovranisti. 

Enrico Letta, leader del Pd, l'autodescritto partito della serietà, della diversità morale di berlingueriana memoria. Foto in posa talmente riflessiva da risultare insopportabilmente posticcia, bara a lato, fotone del deceduto ben visibile alle spalle del segretario, hashtag #AddioDavid per accertarsi di risaltare nelle tendenze di giornata.

Giuseppe Conte, che se possibile calca ancora più la mano sulla presenza di chi non c'è più, feretro e volto al centro dello scatto condiviso, l'avvocato del popolo internettiano di spalle, il testo «Ciao David», la sensazione di avvoltoi che aleggiano nella testa, e nello stomaco, di chi guarda. 

Laura Boldrini, che decide di fare le cose in grande, e sfrutta lo strumento della gallery, condividendo tre foto di lei nella camera ardente, e informandoci che «con commozione ho abbracciato la moglie Alessandra e la figlia Livia»: qui salta anche l'ultima ipocrisia, qui è chiaro che il protagonista è chi posta, non chi è mancato. 

Monica Cirinnà, che nell'asta al rialzo del cattivo gusto non teme rivali, e twitta un'istantanea di sé e del marito esplicitamente in posa, sguardo in camera, a fianco della corona di fiori con la coccarda "Partito Democratico", un clima a metà tra la gita turistica e il marketing elettorale.

Ettore Rosato di Italia Viva opta anche lui per la gallery, una foto sua con Renzi affiancata a una della bara, come dire ci sono, e sono vicino al Capo. Perfino all'account Twitter del Quirinale scappa il clic: sulla pagina ufficiale appare un'immagine di Mattarella, di spalle, ritto di fronte al feretro.

Nel suo caso, oggettivamente, manca qualunque elemento di caccia al consenso, e probabilmente se ne affaccia uno di dovuta testimonianza istituzionale. Il confine collettivo, in ogni caso, è valicato, il selfie col morto è elevato a chiave di comunicazione (im)politica, a mezzo di coltivazione dei follower vivi. E i più disinvolti nell'operazione mediatico-funeraria sono coloro che più alzavano il sopracciglio progressista di fronte alla barbara deriva dell'urlo social. L'urlo peggiore, è offensivo specificarlo, rimbomba proprio in questo loro esasperato presenzialismo del lutto.

Selfie e post alla camera ardente. La pietas diventa comunicazione. Adalberto Signore il 15 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Certamente non è stata una scelta consapevole. E viene difficile soltanto pensare che l'intento - sincero e istintivo - non fosse altro che quello di rendere omaggio alla memoria di David Sassoli.

Certamente non è stata una scelta consapevole. E viene difficile soltanto pensare che l'intento - sincero e istintivo - non fosse altro che quello di rendere omaggio alla memoria di David Sassoli.

La sua scomparsa, d'altra parte, ha scosso tutti. Non solo la politica, senza distinzione di schieramenti. Ma pure la gente comune che ieri a Roma si è accalcata davanti all'ingresso della basilica di Santa Maria degli Angeli. Spontanea, come la voce della moglie e dei figli che hanno avuto la forza - non scontata - di prendere la parola per ricordarlo. Senza alcuna celebrazione, ma con una semplicità piena di dignità e passione. Guardando non solo indietro, ma soprattutto avanti. E con un messaggio di speranza. Quello del figlio Giulio: «Cercheremo di proseguire con quello che ci hai insegnato, papà. Buona strada e, mi raccomando, giudizio!».

Di certo, voleva a suo modo rendere omaggio anche chi - l'altro ieri - si è presentato in Campidoglio alla camera ardente e ha sentito la necessità di immortalare il momento sui social. Non con qualche legittima e sentita parola di vicinanza, ma con la sua foto davanti al feretro. La corsa al quasi-selfie, al post «è scomparso ma parliamo di me». Come se ciò che non diventa subito pubblico non abbia per questo la forza di conservare un suo significato. È la deriva di un mondo dove tutto è comunicazione. Dove si perde la differenza tra ciò che è normale (la foto di un politico in una camera ardente che, come è sempre accaduto, rimbalza su giornali, siti e tv) e ciò che è opportuno. Non sono sottigliezze, perché pubblicare la propria foto con lo sfondo di una bara o del quadro del defunto sul proprio profilo social non è una modo per manifestare pietas. Magari vorrebbe esserlo. Certamente è il tentativo in buona fede di omaggiare chi non c'è più. Ma rischia di sconfinare nell'esibizione. O, addirittura, nella propaganda.

Così, la commozione di ieri stride con gli inciampi dell'altro ieri. Quelli di Enrico Letta o di Giuseppe Conte, ma anche di Ettore Rosato, Monica Cirinnà (auto-immortalata nella foto sul suo profilo social con il marito Esterino Montino), Laura Boldrini o Roberta Metsola, la maltese presidente ad interim del Parlamento Ue dopo la scomparsa di Sassoli. Tutti, hanno postato la loro foto contriti davanti al feretro in Campidoglio. Presi dalla corsa al presenzialismo e anestetizzando qualsiasi riflessione critica su una simile scelta. Perché, è banale dirlo, ma è evidente che in momenti simili l'unica parola è il silenzio, il solo approccio davvero rispettoso è il basso profilo. A meno di non essere mogli o figli, gli unici che hanno il diritto di scegliere come manifestare le proprie emozioni.

Ecco, in questo passaggio la politica è mancata. Nel non rendersi conto del momento. E nell'essere troppo presa dai riflettori per comprendere quale sia il confine. Tanto che l'agenzia di onoranze funebri Taffo - nota per il suo marketing smaliziato - si è sentita legittimata a intervenire nel dibattito con un laconico «raga', no, non è un concerto». Niente pietas, solo comunicazione.

Adalberto Signore. Classe 1972, nato a Roma. Ho cominciato a scrivere di politica un po' per caso nel 1994. Sono passati quasi trent'anni e, tra alti e bassi, sono ancora qui. Giornalista parlamentare, scrivo sul Giornale dal 2002. Due libri - "Il boia non molla. La pena di morte nel mondo", Ideazione Editrice (1999) e "Razza padana. Storia, fascino e contraddizioni della Lega Nord", Rizzoli (2008) - una moglie, una figlia, la Lazio e il Circeo.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - L'eurodeputata maltese e membro del Ppe Roberta Metsola è stata eletta, al primo turno, presidente del Parlamento europeo. I voti favorevoli per Metsola sono stati 458. Il numero di votanti è stato 690, le schede bianche e nulle sono state 74, i voti espressi sono stati 617.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - "Onorerò David Sassoli come presidente battendomi sempre per l'Europa. Voglio che le persone recuperino un senso di fede ed entusiasmo nei confronti del nostro progetto. Credo in uno spazio condiviso più giusto, equo e solidale". Lo ha detto la neopresidente del Parlamento europeo Roberta Metsola nell'Assemblea del Parlamento europeo. "La disinformazione nel periodo pandemico ha alimentato isolazionismo, e nazionalismo, queste sono false illusioni, l'Europa è l'esatto opposto di questo", ha aggiunto

(ANSA il 18 gennaio 2022) - "David voleva mettere tutti intorno allo stesso tavolo, un impegno che io voglio continuare a perseguire". Lo dichiara Roberta Metsola, cominciando il suo discorso come candidata alla presidenza del Parlamento europeo alla Plenaria di Strasburgo. "Voglio rafforzare la cultura del dibattito", continua Metsola, "la politica non può essere battaglia tra vincitori e vinti, ma deve essere al servizio dei cittadini".

(ANSA il 18 gennaio 2022) - La Lega, a quanto si apprende, voterà per la candidata del Ppe Roberta Metsola, maltese e con una spiccata sensibilità per temi fondamentali per la Lega come la difesa della vita e della famiglia, e il contrasto al traffico di esseri umani e all'immigrazione clandestina. La Lega inoltre proporrà come vice Mara Bizzotto.

(ANSA il 18 gennaio 2022) - "I diritti delle donne non sono ancora sufficientemente garantiti, la lotta per un'eguaglianza reale deve andare oltre le apparenze e impregnare tutto quello che facciamo, e io sarei orgogliosa di essere il presidente che conduce questa battaglia e onorare l'eredità di tutti coloro che hanno ricoperto questa funzione in passato". Lo afferma Roberta Metsola durante il suo discorso come candidata alla presidenza del Parlamento europeo.

Marco Bresolin per “La Stampa” il 18 gennaio 2022. 

C'è l'intesa tra le tre forze di maggioranza al Parlamento europeo per la seconda parte della legislatura. L'accordo che blinda la maggioranza Ursula - quella formata da socialisti, liberali e popolari che ha eletto la presidente della Commissione von der Leyen - spiana così la strada a Roberta Metsola.

Al netto dei franchi tiratori che oggi manifesteranno il loro malessere («Ce ne saranno, ma molti meno del previsto», prevede un eurodeputato socialista), la maltese avrà i numeri per diventare la diciassettesima presidente del Parlamento eletta direttamente dall'Aula, la più giovane in assoluto (oggi compirà 43 anni). 

Sullo sfondo, però, c'è anche una partita molto italiana per un posto da vice-presidente: il grillino Fabio Massimo Castaldo punta al terzo mandato e dovrà vedersela - tra gli altri - con la leghista Mara Bizzotto, candidata dei sovranisti. 

Lo scrutinio sarà segreto, ma a causa della pandemia gli eurodeputati potranno votare da remoto. Per la presidenza restano in corsa anche l'esponente della sinistra radicale, Sira Rego, il conservatore Kosma Zlotowski e la verde Alice Kuhnke. Quest' ultima potrebbe raccogliere parte del malcontento dei socialisti e dei liberali, ostili a Metsola per via delle sue posizioni anti-aborto.

Ma alla luce dell'intesa, la candidatura dell'ex ministra della Cultura svedese non sembra impensierire la maggioranza Ursula. In ogni caso i Verdi non convergeranno sulla maltese e resteranno fuori dalla coalizione. Resta da capire cosa faranno i sovranisti di Identità e democrazia, gruppo di cui fa parte la Lega, che con i popolari di Metsola non sono riusciti a stabilire un ponte. 

L'accordo raggiunto da popolari, socialisti e liberali riguarda la spartizione delle cariche di vertice dell'assemblea, ma anche il programma di legislatura. Dieci punti per «accelerare le riforme nell'interesse degli europei» e per mantenere il muro anti-sovranisti, quel «cordone sanitario» che punta a tagliar fuori da tutti i posti di comando l'estrema destra. 

«L'ascesa del nazionalismo, dei populismi e dell'autoritarismo - si legge nel documento visionato da La Stampa - ci costringono a reinventare il progetto europeo per mantenere le promesse. I cittadini europei si aspettano che facciamo meglio e più velocemente». Il primo punto dell'intesa riguarda la difesa dello Stato di diritto: libertà di stampa, uguaglianza di genere, indipendenza della magistratura.

Con l'intenzione di procedere all'attivazione del meccanismo che vincola l'erogazione dei fondi Ue al rispetto dello Stato di diritto, quello che la Commissione - nonostante le pressioni dell'Aula - non ha ancora usato nei confronti di Polonia e Ungheria. C'è poi il capitolo sul Clima, quello sulla Salute e quello sul Digitale, tre grandi priorità di questa legislatura. Sulla ripresa economica c'è la volontà di «promuovere una nuova strategia di crescita e una cornice di bilancio rafforzata».

Ma a leggere il paragrafo dedicato al tema che continua a contrapporre Nord e Sud Europa, come dimostra il confronto andato in scena ieri all'Eurogruppo, si capisce che anche in Parlamento non sarà facile trovare una sintesi. La formula trovata è piuttosto generica e dà un colpo al cerchio e uno alla botte: «Servono regole adeguate sia per gli investimenti pubblici che per la sostenibilità del debito».

Qualcosa di più c'è in ambito sociale, tra difesa dei diritti dei lavoratori delle piattaforme e direttiva sul salario minimo. Sull'immigrazione il Parlamento è pronto a dare una risposta «umana ed efficace», ma la riforma è bloccata dalle divisioni tra i governi.

LA NUOVA GUIDA DELL’EUROPARLAMENTO. Con Roberta Metsola presidente l’ultradestra si fa establishment. (Roberta Metsola eletta presidente alla prima votazione, il 18 gennaio.) FRANCESCA DE BENEDETTI su Il Domani il 18 gennaio 2022. 

La nuova presidente dell’Europarlamento è una donna di establishment: la sua è una famiglia con interessi; lei usa i riferimenti giusti, cita i padri fondatori dell’Europa. Ma Roberta Metsola fa slittare l’Europa a destra, e non solo per le sue posizioni nemiche delle donne e dei diritti sociali.

Amica della destra italiana e sostenitrice del “cordino” sanitario, con la sua elezione il separé immaginario con l’ultradestra diventa un velo, mentre a finire ai bordi sono le forze più progressiste.

Fratelli d’Italia si avvicina sempre più sia al potere che ai popolari, fino a pattuire una vicepresidenza. “Spero non sia un premio perché hanno lavorato contro l’unione delle destre”, commenta il capodelegazione della Lega. Che comunque appoggia Metsola per le posizioni su famiglia e immigrazione. 

FRANCESCA DE BENEDETTI. Europea per vocazione. Ha lavorato a Repubblica e a La7, ha scritto (The Independent, MicroMega), ha fatto reportage (Brexit). Ora pensa al Domani.

La nuova presidente. Roberta Metsola contro la criminalizzazione delle Ong che salvano i migranti in mare. Linkiesta il 19 Gennaio 2022.

L’eurodeputata maltese del Ppe eletta alla presidenza del Parlamento europeo spiega la sua posizione sull’aborto. «Ho difeso una posizione nazionale», dice riferendosi al voto contrario alla risoluzione di Strasburgo. «Ma adesso ho una responsabilità e per mantenere l’oggettività non voterò più su questi rapporti e su queste risoluzioni. La mia posizione personale è che voglio difendere l’uguaglianza tra i sessi. E lo farò sempre e ovunque» 

«Cara Metsola, non ci deluda», scrive Natalia Aspesi su Repubblica, rivolgendosi a Roberta Metsola, eurodeputata maltese del Ppe neoeletta alla presidenza del Parlamento europeo.

Ma l’aspetto più controverso del suo profilo politico continua a essere la sua posizione sull’aborto, in modo particolare per il suo voto contrario alla risoluzione adottata dal Parlamento europeo lo scorso anno. «Da eurodeputata maltese, ho difeso una posizione nazionale. Ora che sono presidente del Parlamento europeo non voterò più su questo tema e difenderò all’esterno la posizione dell’istituzione da me guidata», dice in un’intervista a gruppo di media europei, tra cui La Stampa, l’esponente del partito nazionalista maltese (Ppe).

«Per me la situazione è chiara: a Malta c’è un contesto particolare, c’è un protocollo che noi tutti eurodeputati maltesi siamo costretti a seguire. Non bisogna votare provvedimenti che possano portare a un dibattito sull’aborto a Malta. Perché un dibattito su questo tema deve rimanere a livello nazionale. Ma adesso ho una responsabilità e per mantenere l’oggettività non voterò più su questi rapporti e su queste risoluzioni». E la sua posizione personale, dice, «è che voglio difendere l’uguaglianza tra i sessi. E lo farò sempre e ovunque».

Sulla questione immigrazione, poi, Metsola confida che «nei prossimi due anni e mezzo, come Parlamento, possiamo trovare un accordo. Stiamo negoziando e possiamo trovare una maggioranza. L’avevamo trovata anche cinque anni fa, ma poi tutto si è bloccato in Consiglio. In un tema dove teoricamente non c’è il diritto di veto, ma basterebbe la maggioranza qualificata».

Ma resta contraria alla proposta di alcuni Paesi che chiedono di finanziare i muri ai confini con i fondi Ue: «La mia posizione è stata chiara sin dal primo giorno. Per me la protezione della vita viene prima di tutto. Non possiamo avere una politica di migrazione che non dà valore alla vita, ma nemmeno lasciare soli ad affrontare una sfida enorme i Paesi di frontiera. Gli altri Stati non possono abbandonarli, pensando che non sia anche un problema loro. Aggiungo poi che essere un Paese di frontiera non riguarda solo il Sud Europa, ma per esempio anche la Lettonia e la Polonia con la Bielorussia. Nel 2015 era toccato alla Germania con i rifugiati siriani. Per questo penso che la nostra politica debba essere efficiente ed efficace. Ci sono molti strumenti, ma non dobbiamo mai dimenticare che si tratta di esseri umani. Che dietro a ogni corpo che troviamo in mare c’era una famiglia, una speranza, una vita, che ora è persa per sempre».

Sulle Ong che salvano i migranti nel Mediterraneo, spiega: «Ne ho parlato anche con molti colleghi italiani. Se tu vedi una nave che sta affondando, non soltanto hai il dovere di intervenire, ma non devi essere criminalizzato. Abbiamo fatto un viaggio in Sicilia con la commissione Libe e abbiamo visto il lavoro che fanno le guardie di frontiera. Penso inoltre si debba trovare un equilibrio negli accordi con i Paesi dai quali i migranti scappano: quelli che hanno ratificato gli accordi di Ginevra e quelli come la Libia che non lo hanno fatto. Bisogna fare una distinzione. Dobbiamo parlare con i Paesi di partenza e di transito e sbloccare i tanti nodi che restano. Altrimenti finiremo per discuterne per due anni e mezzo e alle prossime elezioni andremo dai cittadini a dire loro che non abbiamo trovato una soluzione. Non posso permettere che ciò accada, voglio lavorare con tutte le forze costruttive in questo Parlamento per trovare un accordo e spingerlo in Consiglio».

In sostegno di Metsola sono arrivati anche i voti degli eurodeputati della Lega. Ma se questo voto può essere un primo passo del Carroccio verso un ingresso nel Ppe o comunque un passo che allontana il partito di Salvini dalle posizioni più estremiste, Metsola dice di non saperlo: «Questa è una cosa che dovete chiedere ai gruppi politici che stanno facendo i negoziati. Io lavorerò con tutte le forze politiche costruttive pro-europeiste dell’Europarlamento».

 Francesca De Ambra per secoloditalia.it il 19 gennaio 2022.

Donne e sinistra, quasi una tautologia in Italia. Fateci caso: non c’è confronto, dibattito o convegno in cui i goscisti, specie se maschi, non invocano più spazi per l’altro sesso. Di alternanza uomo-donna e quote-rosa parlano praticamente sempre. Peccato, però, che spesso il loro impegno si fermi alle parole. 

Ascoltare, per credere, i radiofonici “Cento secondi con Enrico Mentana” trasmessi stamattina a commento dell’elezione della maltese Roberta Metsola alla presidenza del Parlamento europeo. Il direttore del Tg La7 non ha potuto fare a meno di sottolineare come per la prima volta vi siano tre donne – oltre alla Metsola, Ursula von der Leyen e Christine Lagarde – al vertice delle più importanti istituzioni europee: Parlamento, Commissione, Banca Centrale. 

Mentana cita Metsola, Von der Leyen e Lagarde

E – sorpresa delle sorprese – nessuna delle tre è di sinistra o proviene da quei ranghi. La Metsola e la Von der Leyen militano nel Ppe, lo stesso cui afferisce Forza Italia, mentre la francese Lagarde è stata ministro nei governi de Villepin e Fillol al tempo in cui all’Eliseo sedeva il gollista Nicolas Sarkozy. Possiamo dirlo fuori dai denti? Sono tutte e tre di centrodestra. Anche Mentana le ha etichettate così. E poiché stamattina gli andava di traverso, si è pure divertito a rigirare il dito nella piaga ricordando agli immemori che l’unica donna leader italiana è Giorgia Meloni. Per poi concludere con un «la sinistra ha di che riflettere», più simile ad una perentoria intimazione che ad un cortese invito. 

Comunque sia, lo facesse davvero, la sinistra dovrebbe chiedersi perché alla destra riesce così facile quel che alle sue latitudini si rivela impresa quasi proibitiva. Nonostante che di valorizzare le donne ne parli sempre mentre la sua dirimpettaia non ne parla mai. E chissà che sia proprio il rapporto inversamente proporzionale tra predica e pratica a fare la differenza.

Sicuro: la sinistra si bea con la gnagnera delle riserve rosa per poi gestirle con il pelo sullo stomaco. È quel che ha fatto Enrico Letta quando al Senato si è liberato di un capogruppo in odore di renzismo per sostituirlo con una donna a lui fedele. La questione di genere come continuazione della guerra per bande con altri mezzi. Tutt’altra musica a destra: poche chiacchiere e quote zero. In compenso, le donne scalano la vetta. Se valgono, ovviamente. Compagni, ha ragione Mentana: riflettete. 

Traditrici dei gameti. Le postmoderniste odiano le donne di destra (ma amano gli uomini con la gonna). L'Inkiesta il 19 Gennaio 2022.

Come dimostrano Marta Cartabia e Roberta Metsola, le sole politiche che fanno carriera sono quelle conservatrici. Alle femministe di sinistra non resta che insultarle e sperare che il loro posto lo prenda un travestito che sappia dire le cose giuste in questa epoca suscettibile.

Ma Irene Pivetti dov’è? Certo, se hai fatto Domenica in e Buona domenica magari non te ne frega granché d’un lavoro il cui Sanremo è il discorso di fine anno, guardato da ruminanti che ci tengono ad avere nel piatto lenticchie convinti che portino soldi (roba che in confronto il pubblico di Buona domenica era raziocinante), ma insomma: visto l’ovvio dato fattuale che le sole donne che fanno carriera in politica sono le donne di destra, mi pare il suo momento.

Ho un’amica hegeliana – nel sovraesteso senso di: una che tiene al reale e al razionale – che dava testate contro i muri di casa quando leggeva le reazioni della sinistra postmoderna alla nomina di Marta Cartabia in Corte Costituzionale. È antiabortista, puntesclamativavano i postmoderni: una vita spesa a dire che le donne sono più giuste più sensibili più sincronizzate ai nostri desideri, e poi eccola lì, la traditrice dei gameti.

E ieri pure ’sta Roberta Metsola, ma chi è, ma come si permette, la nuova presidente del Parlamento europeo, neanche abbiamo finito di farci fotografare ai funerali del predecessore e voi già mettete un’antiabortista, una collaborazionista del patriarcato, una indegna di dirsi donna, diversamente da tanti portatori di pene – inteso non come plurale di «povero diavolo, che pena mi fa» ma come singolare dell’organo sessuale assegnato alla nascita – che si percepiscono molto più donne di lei e abortirebbero a volontà, se solo nella loro prostata potesse acquattarsi un feto.

E, forse, quello che sembrava un delirio identitario era in realtà un accorto piano per non dichiararsi sconfitti dalla storia.

Per non dire che donne di destra hanno governato Israele e l’Inghilterra, e le donne di sinistra al massimo rigovernano la cucina. Per non dire che a chiacchiere non ci batte nessuno, ma i fatti li fanno sempre gli altri. Per non dire che l’unica donna con ragionevoli possibilità di governare l’Italia è una cui talmente non riconosciamo lo status d’appartenente a questa categoria protetta da permetterci di dirle che è grassa, massimo insulto politico: Giorgia Meloni.

Vi ricorderete di quando hanno iniziato a dire che era un grande trionfo per le americane, la prima donna a diventare campionessa del più famoso quiz televisivo, fingendo di non accorgersi che era un uomo con la disforia, un uomo coi capelli lunghi, un uomo vestito da donna: un uomo.

E di quando hanno iniziato a dire che era un grande trionfo per l’apertura mentale dell’esercito, la prima donna generale, e guarda caso pure questa aveva il pisello, era sicuramente una coincidenza.

E di quando, infine, ci hanno precettati a deliziarci per la modernità della coconduttrice di Sanremo anch’essa donna con pene, sempre inteso non come plurale, donna con organo sessuale maschile, e questa volta neanche uomo disforico, semplicemente uomo che per mestiere si traveste da donna, e io continuo a immaginare un’intervista in cui chiedano a Nilde Iotti: è fiera d’essere la prima donna presidente della Camera, prima delle sorelle Bandiera?

Pensavamo fossero ammattiti, ma era un piano preciso. Era la rivoluzione sottotraccia. Erano le premesse per l’unica egemonia culturale che possa permettersi il femminismo: quella in cui le donne siano uomini.

Quando gente che non ha mai letto la de Beauvoir ma ne ha imparato a memoria la riduzione a bigliettino dei baci Perugina si mette una mano sul cuore e sospira che non si nasce donna, lo si diventa, seriamente convinta che Simone de Beauvoir, nata nel 1908, stesse perorando la causa della femminilità di gente nata col pene e poi folgorata sulla via di Raffaella Carrà, seriamente convinta ch’ella ambisse non a fare la sociologia dell’educazione femminile ma la psichiatria di quei casi di disforia di genere che abbiamo deciso di considerare norma giacché abbiamo talmente tanto tempo libero da baloccarci con la malattia mentale; quando questa gente sembra non capire di cosa parla ma essere determinatissima a parlarne, non capire cosa vuole ma volerlo fortissimamente, ecco, in realtà questa gente sta dimostrando di saperla lunghissima.

Mentre noi ancora ce la menavamo col reale e il razionale, i postmoderni avevano capito che, se solo la percezione conta, allora possiamo mettere una parrucca a un generale, a un culturista, a uno stilista annoiato dai pantaloni e che abbia fatto sfilare prima o poi le gonne nelle collezioni maschili (cioè: praticamente tutti gli stilisti), possiamo dire che quel tizio lì da oggi è una donna, ed ecco che da domani avremo vinto: avremo una donna al Quirinale.

Ora il problema è che Paolo Poli è morto, Maurizio Ferrini da giovane interpretava un comunista in tv e insomma è difficile possano convergere su di lui intese moderate, D’Alema ha i baffi: dove lo troviamo un uomo di sinistra disposto a mettersi la parrucca e sembrare una signora?

Finirà come al solito: che il posto di potere tocca a una donna di destra. D’altra parte Enzo Biagi l’aveva detto: se Berlusconi avesse un po’ di tette, farebbe anche l’annunciatrice.

La virata a destra a Strasburgo. Chi è Roberta Metsola, nuova presidente del Parlamento europeo: il voto (anche sovranista) premia l’avvocato anti-aborto. Carmine Di Niro su Il Riformista il 18 Gennaio 2022.  

È Roberta Metsola l’erede al Parlamento europeo di David Sassoli. Avvocato 43enne di Malta, membro del Ppe, il Partito popolare europeo che tra le sue fila vede Forza Italia, Metsola è stata eletta dai rappresentanti dell’aula di Strasburgo a larghissima maggioranza, con ben 458 voti.

Un voto che quindi segna probabilmente l’addio alla “maggioranza Ursula”, dal nome della presidente della Commissione europea von der Leyen: perché a votare per Metsola sono stati anche, oltre a Popolari, Socialisti e Liberali, i Conservatori e Riformisti, il gruppo di cui fa parte Fratelli d’Italia e che in mattinata non a caso aveva ritirato la candidatura di bandiera di Kosma Zlotowski.

Unici a tirarsi fuori dall’accordo sono stati i Verdi, che hanno sostenuto la eurodeputata svedese Alice Bah Kunhke: quest’ultima ha ottenuto 101, una trentina in più dei 73 del gruppo europeo. Altri 57 voti li ha ottenuti invece la spagnola Sira Rego, candidata per la sinistra del Gue: anche in questo caso sono arrivati più consensi rispetto ai 39 eletti del gruppo. Quanto ai partiti italiani, la Lega ha votato a favore di Metsola, mentre il Movimento 5 Stelle ha optato per la libertà di voto dei suoi eletti.

Chi è Metsola

Classe 1979 ed eletta nel giorno del suo compleanno, nata a St. Julian’s, è da sempre in politica tra le fila dei conservatori: in patria col Partito nazionalista maltese, in Europa col Ppe. Tenta per due volte l’elezione a Strasburgo nel 20034 e nel 2009, fallendo; l’occasione per andare in Europa arriva nel 2013 quando subentra a Simon Busuttil, dimessosi dall’incarico dopo aver assunto quello di parlamentare maltese. Quindi la doppia rielezione in Europa nel 2014 e 2019.

Metsola dunque guiderà il Parlamento fino al 2024, termine dell’attuale legislatura, come da accordo di ‘staffetta’ tra Popolari e Socialisti nel 2019 per l’elezione di David Sassoli.

Il profilo di Metsola, la più giovane presidente del Parlamento europeo, è quello di un politico particolarmente conservatore. L’avvocato maltese è infatti fermamente anti-abortista: non un caso, visto che sull’isola di Malta l’aborto è ancora oggi illegale. Un tema particolarmente sentito per Metsola, tanto da dichiararlo “competenza nazionale” dei singoli Stati membri dell’Unione, mentre nel video di candidatura alla presidenza si diceva intenzionata a impegnarsi per “diritti civili e diritti delle donne, non importa da dove vieni o chi ami”.

Buoni propositi che rischiano di scontrarsi proprio col fronte largo che l’ha portata alla presidenza. Come potrà Metsola opporsi ai paesi dell’Est Europa come Ungheria e Polonia sullo stato di diritto, sui diritti delle donne citati dalla stessa neopresidente, sulla lotta ai cambiamenti climatici?

Non è un caso se nella conferenza stampa la 43enne maltese annunci che non voterà più i provvedimenti presi dall’Aula e che su ogni questione, anche le più spinose come appunto immigrazione o diritti civili, si “rimetterà alle decisioni del Parlamento”. 

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Presidente del Parlamento Europeo: come viene eletto e da chi? Debora Faravelli su Notizie.it l'11/01/2022.

Come e da chi viene eletto il presidente del Parlamento Europeo, la cui carica ha una durata pari a due anni e mezzo. 

Dopo la morte di David Sassoli, l’incarico da Presidente del Parlamento Europeo è attualmente vacante: come viene eletto e da chi il soggetto che andrà a ricoprire questo ruolo?

L’elezione del Presidente della Plenaria avviene da parte degli eurodeputati.

Il regolamento prevede che i gruppi politici (o almeno 38 parlamentari, pari ad un ventesimo del totale) propongano i candidati alla presidenza per poi esprimersi direttamente, uno ad uno, sul loro favorito.

Dopo che tutti lo hanno indicato sulla scheda elettorale, messa in un’apposita urna, otto scrutatori scelti a sorte tra i deputati procedono con lo spoglio. Per essere eletto, un candidato deve ottenere la maggioranza assoluta dei voti validi espressi, ossia il 50% più uno.

Le schede bianche o nulle non vengono conteggiate.

Presidente del Parlamento Europeo, come viene eletto: le votazioni

Se nessun candidato è eletto al primo turno di votazione, lo stesso o altri possono essere nominati per un secondo turno, alle stesse condizioni. Ciò può essere ripetuto in un terzo turno, se necessario, sempre con le stesse regole. La procedura vuole che non ci possano essere più di quattro votazioni e che l’ultima di queste debba essere fra i due candidati che hanno ricevuto la maggioranza dei voti nella penultima votazione, ossia la terza.

Il Presidente neoeletto, colui cioè che ha preso un voto in più dell’avversario, assume quindi la presidenza e può pronunciare un discorso di apertura prima di presiedere l’elezione di vicepresidenti e questori.

·        E’ morta Silvia Tortora.

(ANSA il 10 gennaio 2022) - Giornalista per tv e carta stampata, Silvia Tortora (nata a Roma il 14 novembre 1962) è morta questa notte in una clinica romana a 59 anni. Figlia del giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora, ha lavorato con Giovanni Minoli a Mixer e poi a La storia siamo noi realizzando una serie di grandi interviste. Dopo aver collaborato con il settimanale Epoca, ha pubblicato anche diversi libri tra cui Cara Silvia (Marsilio 2002) che raccoglie le lettere che il padre Enzo le scrisse dal carcere. Dal 2009 ha condotto Big con Annalisa Bruchi. Ha spostato l'attore francese Philippe Leroy, con cui ha avuto due figli Philippe e Michelle.

Nata a Roma nel 1962, Silvia Tortora ha seguito le orme del padre e ha speso gran parte della carriera in Rai, occupandosi di ricostruire la storia del nostro Paese. Figlia di Enzo Tortora e della sua seconda moglie Miranda Fantacci, insieme alla sorella minore Gaia, è sempre stata in prima linea nella difesa delle ragioni del padre, nel corso del processo, che lo vide condannato per associazione camorristica e poi assolto, ma anche dopo la morte. Suo il soggetto cinematografico del film Un uomo perbene, di Maurizio Zaccaro, dedicato alla figura del giornalista e conduttore, che le è valso nel 1999 il nastro d'argento al Festival di Taormina.

Una vicenda quella del padre, vissuta con dolore e grande amarezza. "Dal mio punto non è cambiato nulla: sono 30 anni di amarezza e di disgusto - disse Silvia in occasione del 30° anniversario della morte del padre -. Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all'infinito. Anzi in 30 anni c'è stata una esplosione numerica". La carriera professionale di Silvia Tortora è indissolubilmente legata a Mixer, storico programma di Giovanni Minoli con il quale iniziò a collaborare già dal 1985. 

Un sodalizio destinato a durare nel tempo con la partecipazione a La storia siamo noi, venti anni più tardi, nel quale ricostruì avvenimenti centrali della storia italiana, ma soprattutto realizzò ritratti di grandi personaggi della politica, dello spettacolo e dello sport. Dal 2009 ha anche condotto il programma Big insieme ad Annalisa Bruchi, in onda su Raitre in otto puntate, dedicato alla ricostruzione delle vite di volti storici. In carriera anche una parentesi per la carta stampata con la collaborazione con il settimanale Epoca dal 1988 al 1997. Nel 2002 ha curato il libro Cara Silvia, edito da Marsilio Editore e nel 2006 ha pubblicato Bambini cattivi, sempre con Marsilio Editore. 

Da Radio24 del Sole 24 Ore - ottobre 2012

"Ringrazio la Rai per il suo comportamento volgare ed omertoso". Per la prima volta Silvia Tortora ha parlato della fiction Rai "Il caso Tortora", accettando l'invito di Gianluca Nicoletti, conduttore di Melog in onda su Radio 24. 

"Questa operazione della Rai di ridurre Enzo un po' a macchietta, banalizzandone la vita, offrendone anche degli spunti di volgarità non sarebbe piaciuta nemmeno a mio padre. Enzo era un signore che non avrebbe gradito vedere messa in piazza non solo la vita pubblica ma anche gli affetti privati" - continua la figlia del conduttore di Portobello a Radio 24. 

"Mi sarei aspettata del coraggio da parte della Rai, in queste due puntate di questa cosa imbarazzante ci sono i nomi e cognomi di tutti, tranne di quei due-tre magistrati inquirenti, questo lo trovo eccessivamente volgare ed omertoso".

E infine Silvia Tortora conclude: "Noi non abbiamo avuto possibilità di vedere questa fiction prima della messa in onda, mi sono stati annunciati inviti che non ho mai ricevuto per un'anteprima e quello che più danneggia Enzo è il fatto che si sia consumato una sorta di risarcimento improvvido utilizzando 'Porta a Porta', 'La vita in diretta', come se qualcuno avesse voglia di toglierselo dalle scatole". 

Silvia Tortora, una vita in prima linea per difendere il papà Enzo: «Non mi arrenderò mai». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera l'11 Gennaio 2022.

È morta a 59 anni la primogenita di Enzo fu giornalista combattiva e scrupolosa. Il sorriso timido ma molto determinata. IL ricordo di un programma di Rai2 con Giovanni Minoli a cui lavorò nel 1984, Ad armi pari, che non andò mai in onda. 

Aveva soltanto 59 anni. Silvia Tortora è morta in una clinica romana. Stava male da poco più di un anno. L’ho conosciuta nel 1984. Aveva un sorriso timido ma era molto determinata. Lavoravamo entrambi nella redazione di un programma di Giovanni Minoli che non è mai andato in onda. Doveva intitolarsi Ad armi pari. Silvia aveva 22 anni. 

Suo padre, Enzo Tortora, era stato arrestato nel 1983, l’anno prima. Era scossa emotivamente ma lucida nei ragionamenti. Ricordo lunghe passeggiate attorno alla sede Rai di Viale Mazzini in cui non riusciva a parlare d’altro: «Ma ti rendi conto, sono venuti a prenderlo alle quattro del mattino…L’hanno condannato a dieci anni, Mio padre è un uomo perbene, ed è innocente. Sono disgustata, amareggiata. Ma non mi arrendo».

C’era complicità, si voleva sfogare, era assetata di giustizia e di diritti. A volte ci confidavamo le nostre piccole avventure sentimentali, e le emozioni di una prima esperienza professionale importante: l’urgenza delle ricerche in archivio, la conferma di una notizia. Silvia voleva anche scrivere e in seguito avrebbe cominciato a collaborare a Epoca. Mi diceva di capire la scelta del padre, «vuole uscire a testa alta mostrando le mani pulite, quelle di sempre». 

Su quella vicenda ha scritto il libro Cara Silvia con le lettere che il padre le scriveva dalla prigione. Le accuse infondate di essere un corriere della droga da parte della Nuova Camorra Organizzata Silvia le conosceva e memoria. Con sua sorella minore, Gaia, anche lei giornalista, è sempre stata in prima linea nella difesa del padre.

Tutto questo avvenne molto prima che Silvia sposasse Philippe Leroy e avesse due figli, Philippe jr e Michelle. Eravamo in cinque in redazione, oltre a noi due c’erano Bianca Berlinguer, una ragazza francese di cui non ricordo il nome e Stefano Rizzelli, che in seguito divenne il braccio destro di Minoli e oggi è capostruttura a Rai1. Minoli era circondato dai suoi collaboratori di sempre, a cominciare dai quattro «colonnelli»: lo scrittore Giorgio Montefoschi, Chicco Agnese, Flaminia Morandi e Marcella Emiliani, africanista e giornalista dell’Unità. Aldo Bruno era il capostruttura, Arnaldo Bagnasco, intellettuale genovese a Mixer cultura, dispensava consigli. Noi ragazzi della redazione eravamo chiamati a turno a esporre quello che avevamo raccolto. Riunioni collettive con una ventina di persone, in stanze fumose. Minoli ascoltava tutti, poi faceva sue le proposte che riteneva giuste.

Ad armi pari era previsto che andasse su Rai2 in prima serata, e in diretta, al contrario di Mixer, lo storico programma di Minoli. Il regista era lo stesso, Sergio Spina. Studio televisivo sfarzoso; due opinioni a confronto (primo ospite Renato Nicolini, l’assessore che inventò l’Estate Romana); previsti cinque numeri zero. Alla fine si rinunciò al progetto. Noi redattori venimmo messi a lavorare a Mixer. Il venerdì sera si andava a casa di Minoli, allora in via dei Prefetti 1, a vedere tutti insieme il programma in differita. Sua moglie, Matilde Bernabei, ospitale, accogliente, ci faceva trovare qualcosa da mangiare. Silvia rimase con Minoli per altri programmi come La Storia siamo noi; io fui assunto dal Corriere. 

Una volta ci fu una riunione di ore e ore nella bella casa di Montefoschi per discutere se Minoli nel programma dovesse apparire in maniche di camicia o in giacca e cravatta, con Silvia sorridevamo non riuscendo a capire l’importanza del look in tv. La ricordo integra, scrupolosa, determinata, senza peli sulla lingua, morbida nel suo rigore, spesso sorridente malgrado il dramma familiare che continuava a vivere.

Si è spenta Silvia Tortora, giornalista e scrittrice, figlia di Enzo Tortora. Il Corriere del Giorno il 10 Gennaio 2022.

Assieme alla sorella minore Gaia, Silvia Tortora era sempre stata in prima linea nella difesa delle ragioni del padre: sia nel corso del processo che lo vide condannato e poi assolto per associazione camorristica, ma anche dopo la morte.

Silvia Tortora è morta questa notte in una clinica romana. era nata a Roma il 14 novembre del 1962: aveva 59 anni ed era ricoverata da qualche tempo. Giornalista per tv e carta stampata, figlia del giornalista e conduttore televisivo Enzo Tortora e della sua seconda moglie Miranda Fantacci, ha lavorato con Giovanni Minoli a “Mixer” e poi a “La storia siamo noi” realizzando una serie di grandi interviste riguardanti Mia Martini, Renato Vallanzasca, Il Terremoto a San Giuliano di Puglia, Francesco Totti, “Vendute” (storia di baby prostitute), “C’era una volta Portobello“, Corrado (il grande inventore della Corrida), “La prima vittima” (storia di Luigi Calabresi), e “Non ci resta che Benigni” (storia del comico toscano). Aveva sposato l’attore francese Philippe Leroy, con cui ha avuto due figli Philippe e Michelle. La sua famiglia per il momento ha scelto il silenzio. Una via che rispecchia l’esistenza stessa della Tortora, del cui privato si conosce poco. Il riserbo è sempre stato una sua grande caratteristica, uno stile di vita, se così possiamo definirlo.

Dopo aver collaborato con il settimanale Epoca, ha pubblicato anche diversi libri tra cui “Cara Silvia” (Marsilio 2002) che raccoglie le lettere che il padre Enzo le scrisse dal carcere, e nel 2006 ha pubblicato “Bambini cattivi“, sempre con Marsilio Editore. Nel 2009 ha condotto “Big” con Annalisa Bruchi in onda su Raitre in otto puntate, dedicato alla ricostruzione delle vite di volti storici.

Assieme alla sorella minore Gaia, Silvia Tortora era sempre stata in prima linea nella difesa delle ragioni del padre: sia nel corso del processo che lo vide condannato e poi assolto per associazione camorristica, aveva voluto ricordare e ricostruire la figura del papà anche dopo la sua morte, anche attraverso un film, “Un uomo perbene”, di Maurizio Zaccaro realizzato su un suo soggetto, che le era valso nel 1999 il Nastro d’Argento al Festival di Taormina. Una vicenda vissuta con dolore e grande amarezza. “Dal mio punto non è cambiato nulla: sono 30 anni di amarezza e di disgusto — aveva detto in occasione del trentesimo anniversario della morte di Enzo Tortora —. Mi aspettavo una riforma del sistema giudiziario, invece non è accaduto. I processi continuano all’infinito. Anzi in trent’anni c’è stata una esplosione numerica“.

Una grande commozione all’annuncio della sua morte . Tra i tanti commenti, quello del collega Luigi Contu direttore dell’ Agenzia ANSA: “Se ne e’ andata Silvia Tortora. E’ stata una bravissima giornalista ma soprattutto una grande donna, coraggiosa. La sua vita fu stravolta dalla vicenda assurda del padre. Consiglio la lettura del libro in cui ha raccolto le lettere che il papà le scrisse dal carcere. Ciao Silvia“.

“Mi stringo al dolore dei familiari per la scomparsa di Silvia Tortora”, ha scritto su Twitter la senatrice Pd Valeria Fedeli. “Una donna forte, coraggiosa, una giornalista capace di fare grande informazione in #Rai e non solo e di battersi sempre, dalla tragica vicenda del padre Enzo in poi, per una giustizia davvero giusta”. 

“Una notizia che mi ha lasciato davvero senza parole, era una gran bella persona, solare e disponibile oltre che un’ottima professionista”. Così Giovanni Minoli la ricorda parlando all’Adnkronos. “L’abbiamo convinta a tornare al lavoro dopo che si era ritirata da tutto. La storia siamo noi era una trasmissione in cui si facevano delle interviste con una doppia chiave: quella personale e psicologica e quella politica. Lei faceva le interviste in chiave politica. Ha partecipato per due stagioni, la terza non ha voluto più farla, era diventato difficile anche rapportarsi con lei, era come se si fosse ritirata dalla vita, probabilmente per questioni personali legate alla sua famiglia“. Minoli aggiunge che Silvia Tortora “nell’ultimo anno stava male, ma non so di cosa soffrisse”. Ed annuncia: “Stiamo preparando un ricordo di lei riproponendo la sua testimonianza sul caso Tortora“. Uno dei servizi realizzato da Silvia Tortora per “La Storia siamo noi” è infatti “C’era una volta Portobello”, che raccontava la storia del celebre programma e del suo conduttore, il padre Enzo Tortora.

La Direzione, redazione e tutta la grande famiglia del CORRIERE DEL GIORNO si stringe al dolore della sua famiglia, piangendo la scomparsa di una bella persona e di una brava e valida collega. Ciao Silvia, buon viaggio, raggiungi il tuo amato papà che ti amava tanto.

È morta Silvia Tortora: aveva 59 anni. Francesco Boezi il 10 Gennaio 2022 su Il Giornale. Silvia Tortora, primogenita di Enzo, è morta a Roma all'età di 59 anni. Aveva vinto il Nastro d'Argento al Festival del Cinema di Taormina.

Silvia Tortora, una delle figlie di Enzo Tortora, è morta a Roma all'età di cinquantanove anni.

Sorella maggiore di Gaia Tortora, che è il vice direttore del Tg La7, la donna, che si è misurata pure con i quotidiani e con praticamente tutti i settori legati al giornalismo, aveva esordito lavorando per la televisione all'inizio degli anni ottanta. Tra i suoi lavori principali, vale la pena sottolineare anche il ruolo focale svolto per La storia siamo noi, il noto programma condotto sulle reti Rai da Giovanni Minoli, con cui la Tortora ha avuto modo di collaborare almeno per un'altra storica trasmissione: Mixer.

Silvia Tortora, stando a quanto ripercorso dall'Ansa, è deceduta nel corso della notte appena trascorsa. La figlia dello storico conduttore televisivo italiano si trovava all'interno di una clinica ospedaliera. Tra le tante collaborazioni avute nel corso della sua esistenza, può essere rimarcata anche quella con il settimanale L'Epoca. La primogenita di Enzo Tortora era spostata con l'attore francese Philippe Leroy. Lascia due figli.

Vincitrice del Nastro d'Argento per il "miglior soggetto cinematografico" al Festival di Taormina nel 1999, Silvia Tortora si è distina anche per aver dato vita a numerose ed apprezzate opere librarie. Tra queste, "Cara Silvia", un libro edito da Marsilio che Silvia Tortora ha curato ed attraverso cui sono state raccolte le lettere che il padre Enzo ha inoltrato dal carcere, durante il periodo in cui è stato coinvolto da accuse poi rivelatesi completamente prive di fondamento.

Alla fine del primo decennio del 2000, la primogenita di Enzo Tortora ha condotto in prima serata, sempre per la terza rete della Rai, la trasmissione Big. Una conduzione svolta in accoppiata con Annalisa Bruschi.

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Lettera di Valter Vecellio in ricordo di Silvia Tortora, pubblicata da huffingtonpost.it il 10 gennaio 2022.

Carissima Silvia, ancora una volta, non ti sei smentita: discreta e rigorosa, in vita; e anche ora: è sempre stata la tua cifra. Anche tu, come tua sorella Gaia, al pari di Enzo, avete vissuto e patito quella “bomba” che il 17 giugno del 1983 magistrati, falsi collaboratori di giustizia e giornalisti vi hanno fatto scoppiare “dentro”.

Quanto devono averti pesato, ed esserti costate, quelle infondate, false accuse: spaccio, detenzione, uso di sostanze stupefacenti, affiliazione alla camorra, perfino l’essersi appropriato di fondi da destinare ai terremotati. Quel lungo calvario che ha portato Enzo a prematura morte. Uno dei momenti più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni; ancora oggi si fatica a crederci.

Enzo era una persona perbene; come è potuto accadere che lo si sia voluto impigliare in quel mostruoso errore giudiziario? Te lo sarai chiesto mille volte. Come ha potuto il pubblico ministero Diego Marmo definirlo “cinico mercante di morte”? Come ha potuto affermare: “Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più trovavamo quelle della sua colpevolezza?”.

Come hanno potuto credere a Giovanni Pandico, un camorrista schizofrenico, sedicente braccio destro di Raffaele Cutolo: lo ascoltano diciotto volte, solo al quinto interrogatorio si ricorda che Tortora è un camorrista? Dare patente di credibilità a Pasquale Barra ’o animale, un tipo che in carcere uccide il gangster Francis Turatello e ne mangia l’intestino? E non solo Tortora. Il famoso “venerdì nero della camorra”, 850 mandati di cattura, si traduce, nella realtà, in decine di arrestati colpevoli di omonimia, di errori di persona. Nel solo processo di primo grado gli assolti sono ben 104… 

Ricordo bene quella “telegrafica” intervista che mi hai rilasciato per il Tg2 e che l’allora direttore Clemente Mimun volle trasmettere in più edizioni. Un documento che ancora oggi mi mette i brividi: 

Quando suo padre fu arrestato, oltre alle dichiarazioni di Panico e Barra cosa c’era?

“Nulla”. 

Suo padre è mai stato pedinato, per accertare se davvero era uno spacciatore, un camorrista?

“No, mai”. 

Intercettazioni telefoniche?

“Nessuna”. 

Ispezioni patrimoniali, bancarie?

“Nessuna”. 

Si è mai verificato a chi appartenevano i numeri di telefono trovati su agende di camorristi e si diceva fossero di suo padre?

“Lo ha fatto, dopo anni, la difesa di mio padre. E’ risultato che erano di altri”.

Suo padre è stato definito cinico mercante di morte. Su che prove?

“Nessuna”. 

Suo padre è stato accusato di essersi appropriato di fondi destinati ai terremotati dell’Irpinia. Su che prove?

“Nessuna. Chi lo ha scritto è stato poi condannato”. 

Qualcuno le ha mai chiesto scusa per quello che è accaduto?

“No”. 

Nessuno dei “pentiti” che ha accusato Enzo è stato chiamato a rispondere delle sue calunnie. I magistrati dell’inchiesta hanno tutti fatto carriera. Enzo da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato da un tumore ha voluto essere sepolto con una copia della “Storia della colonna infame”, di Alessandro Manzoni. Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Leonardo Sciascia: “Che non sia un’illusione”.

Cara Silvia, che la terra ti sia lieve.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" l'11 gennaio 2022.

«Ti auguro quello che Enzo augurava a tutti noi, Giustizia». Non me ne voglia Silvia Tortora se pubblico un messaggio che mi spedì qualche anno fa, prima che il tribunale vaticano pronunciasse il non luogo a procedere al mio processo. Non me ne voglia ma queste dieci parole racchiudono la filigrana più preziosa di una donna, madre, giornalista, figlia del presentatore Enzo Tortora e vittima collaterale dello scempio giudiziario dal padre patito. 

Non me ne voglia quindi se contravvengo a quel suo stile asciutto, discreto, schivo ma per nulla timoroso, espressione di un carattere privo di compromessi, mezze misure. I figli che vivono le disgrazie di malagiustizia rimangono sempre con l'elmetto a presidiare la memoria, a rivendicare principi e diritti, la storia di un padre che mentre Tony Negri, compagno nei radicali, si sfilava latitante a Parigi, con gli altri dell'autonomismo padovano come Oreste Scalzone, lui abbandonava lo scranno parlamentare per affrontare il carcere e il processo imbastito sulle accuse di uno dei peggiori pentitifici che il nostro Paese abbia mai avuto a sprigionare ed esprimere.

L'anima di Silvia era segnata quindi dal disgusto ed io lo realizzai subito quando incontrai il padre per la prima volta nella loro casa di via Piatti a Milano. Avevo 17 anni, Enzo già tossiva per quel male bastardo che poi nel 1988 se lo sarebbe portato via. Lì seduti per un'intervista in salotto, tra i libri, il silenzio, i velluti, l'onta delle manette, umiliazioni e vessazioni per ricostruirsi dopo la gogna. 

Ricordo quel divano e il timbro sicuro della sua voce che però all'improvviso sparì, inghiottita dall'emozione in un silenzio. «Mi hanno fatto invecchiare le figlie di trent' anni in una notte», mi confidò in un sussurro e io rimasi muto, di fronte a quest' uomo genovese, popolare conduttore televisivo ma schivo, capace di vestire con dignità persino la rabbia più lacerante, senza mai una sbavatura, una nota fuori posto.

E che sofferenza dev' essere per un padre la consapevolezza di aver segnato innocente il futuro delle anime giovani e belle, alle quali più tiene, alle proprie figlie, Gaia e Silvia. Ho conosciuto così quest' ultima, senza vederla. Poi l'ho incontrata nella sua identità, nelle battaglie per difendere il ricordo di Enzo dai Melluso, dai Pandico, dai liquami di certe strumentalizzazioni infami di chi si spacciava innocente, vittima di un errore giudiziario, abusando del cognome. Tortora.

L'ho ritrovata nelle lettere che si scriveva con Enzo dal carcere, raccolte in quell'intimo libello che Marsilio diede alle stampe ormai vent' anni fa e che si riapre ancora oggi solo quando si ha la forza di reggere le lacrime. L'ho apprezzata in quell'impronta di famiglia, netta, senza mediazioni, perché la vita troppo ha tolto per stare lì ancora con un buonismo di facciata e l'ipocrisia della finzione. Meglio non frequentare certi mondi, selezionare chi ascoltare nel tempo che ci resta su questa Terra. E che quindi il passaggio ti sia lieve, Silvia.

In fondo, aveva ragione tuo padre, semplice semplice: «nella vita o si è uomini o non lo si è». Nient' altro, proprio così. A iniziare da quelle parole antiche, talune cadute persino in disuso, che ripetevate l'un l'altro, come dignità, essere perbene e anche riconoscenza. O ancora quell'infinita scala di silenzi che agile e sorridente percorrevi e con la quale sapevi esprimerti in ogni tonalità, lasciando al volto gli accenti e la punteggiatura. Grazie, Silvia.

Dedicato a Silvia ed Enzo Tortora: solo una giustizia nuova sanerà la dignità calpestata. Roberto Saviano su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2022. 

La foto che ho scelto questa settimana è una foto radiosa, ritrae Enzo Tortora con le figlie Gaia e Silvia. Sarebbe bello se il calore umano di questo scatto potesse cancellare le foto immonde di Enzo ammanettato, di Enzo rasato nel cortile del carcere. Scusarsi con chi l’ha amato ha un valore enorme ancora oggi, 39 anni dopo. 

Napoli, 12 settembre 1986: l’abbraccio di Enzo Tortora alle figlie Gaia (a sinistra) e Silvia nel giorno della fine della sua vicenda giudiziaria con l’assoluzione da parte della Corte d’appello di Napoli dopo 7 mesi tra carcere e arresti domiciliari. Tortora aveva allora 57 anni, Gaia 17 e Silvia 23 (foto Fotogramma)

Quando il 17 giugno del 1983 arrestarono Enzo Tortora, sua figlia Silvia era già adulta, aveva poco più di vent’anni. A Enzo mi sono sempre sentito molto legato; per vari motivi la sua storia l’ho sentita vicina e quindi ho sentito vicine, negli anni, anche le vite delle persone a lui care. Quando Tortora fu arrestato, e negli anni in cui fu sotto processo, attorno a me di lui si parlava molto e, non so per quale motivo, immaginavo le sue figlie poco più grandi di me. Sentivo di condividere in qualche modo il loro dispiacere; a quel tempo non avevo proprio gli strumenti per comprendere ciò che stava accadendo, sentivo però forte la presenza di un’ingiustizia che nulla avrebbe potuto cancellare. Un uomo strappato alla sua vita, un padre sottratto alle sue figlie e, per noi che ogni venerdì guardavamo Portobello insieme ad altri 30 milioni di italiani, fu una perdita repentina e impossibile da metabolizzare perché l’argomento Tortora continuava a tenere banco tra colpevolisti e innocentisti, tra chi rigettava completamente ogni accusa e chi tendeva l’orecchio.

ALL’EPOCA NON AVEVO STRUMENTI PER CAPIRE MA SENTIVO L’INGIUSTIZIA VERSO QUELLE FIGLIE POCO PIÙ GRANDI DI ME

Ci fu sgomento: se davvero Tortora era un «cinico mercante di morte», allora chi aveva da sempre seguito la sua carriera giornalistica e televisiva come aveva fatto a non accorgersi di nulla? Mai un’incrinatura, mai una sbavatura... E se, invece, quello che gli stava accadendo era tutto un grosso equivoco, allora le cose non andavano bene per niente, e non andavano bene per nessuno. E infatti è inutile girarci troppo attorno, dal caso Tortora - io naturalmente sono stato in grado di rielaborare solo anni dopo - il nostro Paese non si è mai davvero ripreso. Qualcuno dirà che in realtà è stato facile rimuovere, cancellare, non parlarne e dimenticare, ma non è così: questa amnesia collettiva è una finzione.

Quello che è accaduto a Enzo Tortora ci fa troppa paura perché si possa finalmente accettare di celebrare, ogni 17 giugno, la Giornata nazionale delle vittime di giustizia. E la stampa non fu clemente con Tortora. La stampa non è mai clemente, ma questo l’ho imparato molto dopo, sulla mia pelle. Negli anni ho ricevuto decine di accuse, spesso infamanti, da organi di informazione che politicamente avevano interesse a demolirmi: gli “amici” hanno quasi sempre taciuto. Per la poca credibilità dei miei detrattori. Ma il punto non può essere questo: se io voglio difendere chi ritengo nel giusto, non guardo da dove arriva la diffamazione. Difendo e basta, perché so che la mia difesa bilancerà le accuse ingiuste. Ho sempre pensato che fosse un po’ come la matematica, come la fisica, dove due numeri uguali ma di segno opposto, o due forze uguali e contrarie, si annullano a vicenda. Ma, chissà perché, l’infamia si fa sempre attenzione a non cancellarla mai completamente, come se un amico debole e infamato sia tutto sommato più sopportabile di uno non schizzato dal fango.

Enzo Tortora diceva di dividere l’umanità tra chi ha sperimentato la detenzione in un regime democratico e chi non ha avuto la sfortuna (la iattura, diceva) di conoscerla. Ecco, è stato lui a darmi la chiave per comprendere come mai le sue figlie, Silvia e Gaia, abbiano deciso di intraprendere la sua stessa strada, nonostante tutto quello che lui aveva vissuto da giornalista e nonostante tutto quello che dai giornalisti suoi colleghi (con davvero poche eccezioni) aveva subito. Silvia e Gaia hanno avuto la iattura di conoscere la detenzione in un regime democratico e per questo sanno qualcosa in più degli altri. Sanno, forse, che l’odio e l’invidia sono i sentimenti più forti che esistono e, ancora forse, se ne sono tenute lontane. Sanno, forse, che per essere giornalisti bisogna rispettare l’essere umano e mai calpestare la dignità di nessuno. Sanno - di questo sono invece certo - che la gogna mediatica uccide perché allontana da te tutti, spesso anche chi dovrebbe starti accanto.

Non conoscevo Silvia Tortora, ma sono addolorato per la sua scomparsa. Dedico a lei e al padre queste righe. La foto che ho scelto questa settimana è una foto radiosa, ritrae Enzo con Gaia e Silvia. Sarebbe bello se il calore umano in questo scatto potesse cancellare le foto immonde di Enzo ammanettato, di Enzo rasato nel cortile del carcere. Scusarsi con chi l’ha amato ha un valore enorme ancora oggi, 39 anni dopo. Ne avrebbe ancor di più lavorare a una riforma della giustizia che, però, mi scusino gli amici radicali, non sia ostaggio dei Salvini e dei Calderoli che, con le loro posizioni su immigrati e droga - e le leggi criminogene che ne derivano - hanno contribuito a riempire le celle di stranieri e tossicodipendenti. Tutte persone che, come disse Tortora, hanno la iattura di sperimentare la detenzione in un regime democratico.

·        E’ morta Margherita di Savoia.

Addio a Margherita di Savoia. "Imperatrice" bella e discreta. Tony Damascelli l'11 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Primogenita del principe Amedeo, fu arrestata a 11 anni, con la madre e la sorella, e deportata in Austria.  

Aveva novantadue anni e pochissimi sapevano dove avesse deciso di concludere la sua vita. Margherita di Savoia, prima figlia del principe Amedeo, detto il Duca di ferro Eroe dell'Amba Alagi,si è spenta nella sua dimora di Basilea. Era stata nominata Sua Altezza Imperiale e Reale, Arciduchessa Madre d'Asburgo d'Este, titolo in virtù del matrimonio con Roberto che fu principe imperiale d'Austria, d'Ungheria e di Boemia. A completare l'onomastica di Margherita i genitori aggiunsero Isabella Maria Vittoria Emanuela Elena Gennara del ramo di Aosta di casa Savoia. Le nozze con Roberto d'Austria, secondogenito dell'Imperatore Carlo I, furono un evento di grandissima celebrità che nessun influencer contemporaneo potrebbe sognarsi di allestire; nobili, sovrani, regnanti e no di ogni dove vennero convocati, subito dopo la festa di natale, da Umberto II nel comune francese di Bourg-en-Bresse che molti italiani chiamavano ancora Borgo in Bressa.

Il rito civile si svolse il 28 di dicembre, quello religioso il giorno successivo però nella chiesa del monastero reale di Brou, sembrava uno Stato fantasma di nobili decaduti e in decadenza ed altri ben stabili sui loro troni, non ci furono carrozze dorate ma automobili e chauffeur e guardie e poliziotti di sorveglianza, i rotocalchi dell'epoca offrirono le prime pagine alla bellezza di Margherita, alta oltre un metro e ottanta, mentre Roberto dava ordini secchi in tedesco al personale addetto all'accoglienza. Margherita aveva vissuto una infanzia doppia, suo padre, Amedeo, era uomo di carattere rigoroso ma ribelle, fu caporale e servente di artiglieria sul fronte del Carso nella Prima guerra mondiale per poi traslocare in Somalia, secondo leggenda dell'epoca, dopo aver deriso, durante un ricevimento, l'arrivo del re Vittorio e della moglie: «Ecco Curtatone e Montanara», il riferimento alle battaglie risorgimentali copriva l'altezza del sovrano e l'origine montenegrina della regina. Sposò a Napoli, nel ventisette, Anna d'Orleans e tre anni dopo nacque Margherita. Si narra dei giochi di gioventù dell'infante nella reggia di Caserta e al castello di Miramare mentre suo padre, su ordine del duce, provvedeva, con l'ausilio del capo dell'Ufficio topografico dell'Impero, a individuare un territorio dove «ospitare», dunque isolare mille e quattrocento famiglie di religione ebraica. Preso dalla passione bellica, Amedeo fu nominato generale d'armata aerea e comandante delle Forze Armate dell'Africa Orientale Italiana. La resa di Amba Alagi lo vide protagonista, Amedeo fu fatto prigioniero dagli inglesi e mandato in Kenia, la malaria e la tubercolosi lo portarono alla morte. Margherita aveva undici anni, sua madre, Anna insieme con le due figlie Margherita e Maria Cristina, venne arrestata a Firenze e deportate in Austria. La storia e la liberazione avrebbero fatto il resto ma con un risvolto negativo e grottesco, il Negus Selassiè volle rendere omaggio alla famiglia di Amedeo che aveva rispettato il popolo etiope, invitò, dunque, in occasione di una visita in Italia, la vedova Anna per una colazione ma il governo Pella, con lo stesso primo ministro anche agli Esteri, fece annullare l'incontro ritenuto un'offesa alla Repubblica.

Margherita e suo marito presero domicilio in Francia, Roberto svolgeva compiti di impiegato di banca, gli restava la memoria della nascita nel castello di Schonbrunn. In seguito la coppia si trasferì prima a Mulhouse e quindi in Svizzera, a Basilea. Qui Margherita, dopo la scomparsa del marito nel Novantasei, ha vissuto, in modo assolutamente discreto, i suoi ultimi anni. Ne conservano il nome e la storia i cinque figli, l'arciduchessa Maria Beatrice, gli arciduca Lorenzo, Gerhard, Martin e l'arciduchessa Isabelle, tutti nati a Boulogne-Billancourt. Tony Damascelli

·        Addio all’attore comico Bob Saget.

Addio al volto di "Gli amici di papà" e voce narrante di "How I met your mother". È morto l’attore Bob Saget, il corpo del comico ritrovato in una stanza d’albergo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 10 Gennaio 2022. 

Bob Saget è stato trovato morto in una stanza d’albergo a Orlando in Florida. L’attore aveva 65 anni. Era noto per aver recitato nella sitcom Gli amici di Papà (Full House) nei panni di Danny Tanner, un padre single, e per esser stato la voce narrante del telefilm How I met your mother. Ancora da chiarire le cause del decesso. “Siamo devastati nel confermare che il nostro amato Bob è morto oggi – le parole dei famigliari – Era tutto per noi e vogliamo che sappiate quanto amava i suoi fan, esibirsi dal vivo e far ridere insieme persone di ogni ceto sociale”.

Saget era un cabarettista di grande esperienza. Era anche regista e conduttore, molto apprezzato dal pubblico. Era appena ripartito con un nuovo tour comico negli Stati Uniti: sabato scorso si era esibito a Jacksonville, in Florida. Dopo lo spettacolo aveva espresso sui social tutta la sua felicità per essere tornato sul palcoscenico. Si era detto “felicemente dipendente” dal suo mestiere.

A dare conferma e notizia della morte l’ufficio dello Sceriffo di Orange County: “Questa mattina, i deputati sono stati chiamati al Ritz-Carlton Orlando, Grande Lakes, per una telefonata su un uomo che non rispondeva in una stanza d’albergo. L’uomo è stato identificato come Robert Saget e dichiarato morto sul posto. Gli investigatori non hanno trovato segni di violenza o di uso di droghe”.

La fama di Saget era legata soprattutto a Danny Tanner, il personaggio che interpretava in Gli amici di papà, nella quale aveva recitato al fianco di John Stamos e Dave Coulier. La sitcom era andata avanti dal 1987 al 1995. Netflix aveva deciso di riprendere il programma per altre cinque stagioni nel 2016. Per anni aveva condotto America’s Funniest Home Videos.

Saget era anche stato candidato ai Grammy per That’s whats I’m talkin’ about del 2014, come miglior album comico. Al padre, morto per un problema cardiaco, aveva dedicato nel 2007 la sua commedia speciale That Ain’t Right della HBO. “Sono scioccato e profondamente rattristato nell’apprendere che Bob Saget se ne è andato. Era una grande amico e una delle persone più divertenti e dolci che abbia mai conosciuto. Tutto il mio affetto va alla sua bellissima famiglia”, il cordoglio sui social del collega Billy Cristal.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        E’ morto Michael Lang.

Morto Michael Lang, l’organizzatore del festival di Woodstock. Redazione online Il Corriere della Sera il 10 Gennaio 2022.

Aveva 77 anni, morto di cancro. Nel 1969 trasformò la fattoria di un allevatore di mucche nel luogo simbolo di una generazione e della controcultura.

È morto, a 77 anni, Michael Lang, l’organizzatore di Woodstock, il concerto-raduno dell’agosto 1969 diventato un evento leggendario nel mondo della musica. Lang si è spento all’ospedale Sloan Kettering di New York City, per via delle complicazioni dovute a un linfoma non Hodgkin. Lascia la moglie Tamara e i suoi cinque figli, Shala, Lariann, Molly, Harry e Laszlo.

Nato a Brooklyn, Lang abbandonò gli studi alla New York University per trasferirsi nell’area di Miami. Qui iniziò ad organizzare alcuni eventi musicali, tra i quali il Miami Pop Festival del 1968 con Jimi Hendrix. Si trasferì poi a Woodstock, NY, dove — con Artie Kornfeld e i partner Joel Rosenman e John Roberts — trasformò dal 15 al 18 agosto 1969 la fattoria di Max Yasgur, un allevatore di mucche, vicino a Bethel, nel luogo simbolo di una generazione, oltre che della protesta e della controcultura, con un raduno che definì l’icona «rock, sesso e droga » e vide esibirsi artisti come Hendrix, Janis Joplin, Jefferson Airplane, Creedence Clearwater Revival, Grateful Dead, Who, Carlos Santana, Sly and the Family Stone, Joe Cocker e Crosby, Stills, Nash & Young. «Fu un test per la nostra generazione: se veramente credevamo l’uno nell’altro e nel mondo che cercavamo di creare, avremmo saputo vivere nella comunità pacifica in cui speravamo?», scrisse poi Lang in un memoir del 2009 dedicato alla preparazione del festival. Lang ha poi prodotto anche Woodstock ‘94 e Woodstock ‘99. Ed aveva aiutato a pianificare il concerto per il cinquantesimo anniversario, il Woodstock 50, che avrebbe dovuto svolgersi nell’agosto 2019, poi cancellato.

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 10 gennaio 2022.

Nell'ora più buia per la musica dal vivo, con la pandemia che da due anni continua a rendere proibiti i grandi raduni, se ne va Michael Lang. Se il nome non vi dice niente, basti dire che scrisse una delle pagine più importanti della storia del rock and roll organizzando il Festival di Woodstock del 1969.  

Lang, 77 anni, si è spento sabato all'ospedale Sloan Kettering di New York, a causa di un linfoma non Hodgkin: «La vita è fatta di esperienze e non tutte vanno come previsto. Ma se non ci provi, non otterrai mai niente», diceva, parlando del suo successo. 

Aveva appena 24 anni quando nell'estate del 69 mise su il cartellone della tre giorni di musica e pace, così come venne presentato il Festival di Woodstock, ospitato dal 15 al 18 agosto dalla cittadina di Bethel, a New York. Ne facevano parte Jimi Hendrix (che sul palco stravolse con la sua chitarra l'inno americano per protestare contro la guerra in Vietnam), Santana, The Who, Janis Joplin, Grateful Dead, tra gli eroi dei figli dei fiori e della controcultura. 

Nonostante l'assenza di pesi massimi come i Beatles (Lang non invitò la Plastic Ono Band, il gruppo di Yoko Ono, mandando su tutte le furie John Lennon), i Rolling Stones (Jagger era sul set del film I fratelli Kelly) e Bob Dylan (non provava simpatia per gli hippie), l'evento radunò 400 mila persone: «Ricordo tutto. Il fango, i poliziotti che mangiavano hot dog, la gente che girava nuda. Era in corso una tempesta perfetta: Woodstock era l'occhio del ciclone», avrebbe ricordato Joan Baez. 

E David Crosby: «Pensavamo di essere degli sfigati. Poi quando ci ritrovammo tutti lì ci guardammo e capimmo che non eravamo soli». Pochi sanno che in realtà l'evento fu un flop economico che rischiò di ridurre sul lastrico gli organizzatori. A farlo entrare nell'immaginario collettivo e nella storia fu un documentario di Michael Wadleigh, Thelma Schoonmaker e Martin Scorsese, che nel 71 si aggiudicò un Oscar.

 «Mi ispirai a una serie di concerti ai quali avevo assistito nel 68 proprio a Woodstock, in mezzo alle mucche. Le persone sistemavano le tende e la sera assistevano agli spettacoli: era il paradiso», raccontò Michael Lang, che prima di quella tre giorni gestiva un head shop un negozio specializzato nella vendita di droghe leggere a Coconut Grove, in Florida, dove già nel 68 aveva organizzato il Miami Pop Festival, e dopo continuò a lavorare nel settore musicale come impresario. 

Altra curiosità: Woodstock si svolse nel bel mezzo di una pandemia, l'influenza di Hong Kong, diffusasi a partire dal 68, che uccise un milione di persone in tutto il mondo, di cui 100 mila negli Usa (l'evento venne organizzato dopo la prima ondata, prima che i contagi risalissero). Lo stesso Lang raccontò che alcuni medici arrivarono a Bethel per monitorare la situazione: uno di questi portò con sé la figlia, che mollò il padre per mischiarsi ai 400 mila, e quello passò l'intera giornata a cercarla.

In Italia lo spirito di Woodstock arrivò due anni più tardi, nel 71, con il Festival del Proletariato Giovanile organizzato dalla rivista Re Nudo. Fece storia l'edizione del 76, ospitata dal Parco Lambro a Milano, alla quale parteciparono Finardi, gli Area e Alberto Camerini: finì in disastro, tra scontri e un acquazzone che trasformò il terreno in pantano di fango. 

Mentre continuano a slittare eventi e festival (negli Usa sono stati rimandati i Grammy, il destino di Sanremo è incerto e gli artisti, da LP a Elisa, che il 6 avrebbe dovuto esibirsi nella sua Monfalcone, posticipano i concerti), nell'era dei raduni digitali viene spontaneo domandarsi se una nuova Woodstock tornerà prima o poi ad essere possibile. Oggi intanto trionfa il pessimismo. E lo streaming.

·        E’ morto l’attore Mark Forest.

Marco Giusti per Dagospia il 9 gennaio 2022.

Questo 2022 si porta via anche uno dei più grandi Maciste dello schermo, sicuramente quello che incassava di più e più volte lo ha interpretato, l’attore e culturista italo-americano Mark Forest, nato nel 1933 in quel di Brooklyn come Lorenzo Luis (Lou) Degni. Sapeva anche un po’ di italiano. Fu per sette volte Maciste, per tre Ercole, e fece in totale undici peplum in quel di Cinecittà negli anni ’60.

Come mi ha raccontato Sofia Scandurra, che lo diresse assieme al marito, Antonio Leonviola, Mark Forest era perfettamente cosciente di non essere né un grande attore né un vero forzuto, visto che era negato un po’ per tutto e aveva i muscoli finti. La sua battuta ricorrente riguardo a qualsiasi esibizione da attore era “Io saccio andare in bicicletta”. Però era buonissimo e si lasciava prendere in giro scherzandoci sopra anche lui. 

Notevole la sua performance con i sollevamenti progressivi che ricordano i bilancieri delle palestre di culturismo, anche se la Scandurra ricordava che quando faceva le flessioni gonfiando i muscoli, i macchinisti gli dicevano: “Daje, che sei arrivato a 1 e 7!”. Iniziò come culturista a tredici anni finendo sulle copertine delle riviste dei Mister Muscolo e aprendo presto la sua stessa palestra. 

Nel 1952 a 19 anni è 27simo nella gara di Mr America, poi finisce sotto le mani di Doc Bender che cerca di imporlo come culturista-attore-cantante nel 1954. “Non è dubbi”, dice in un’intervista Bender, “sarà il nuovo Mr America. Mr. Degni ha i muscoli per farlo”. Il giovane Lou capitalizzò i muscoli a teatro. Prima in compagnia di Joe Mauri negli spettacoli della regina del burlesque Lily Christine. 

Poi, unendosi a Gordon Mitchell, Ed Fury e Reg Lewis, e altri colleghi della compagnia del bicipite, come aitante boy dell’esuberante Mae West in show e spettacoli di vario tipo. E’ attore a metà degli anni ’50 a Hollywood. Non lo scelfono come nuovo Tarzan, ma ha un piccolo ruoli in “Sinhue l’egiziano” di Michael Curtiz con Emund Purdom protagonista.

In Italia viene a girare “La vendetta di Ercole” di Vittorio Cottafavi prendendo il posto lasciato vacante da Steve Reeves, che si era rifiutato di girare il terzo Ercole, imponendosi presto come uno di più attivi protagonisti del cinema mitologico. I produttori gli cambiano il nome in Mark Forest. Fa più americano. Lo assiste il fratello manager Savino Degni. Mark ha misure perfette, 129 cm di circonferenza toracica, 97 kg di peso, 98 di vita, 1 m 98 di altezza. Un adone dalle forme perfette, scrivevano i giornali americani. Rifiuta un secondo Ercole, “Ercole alla conquista di Atlantide” per questioni di denaro. Cottafavi non lo ha molto amato, “Mi sono sforzato di dargli vita, ma…”.

Abbassa le pretese e piovono gli ingaggi. E’ già Maciste, ma senza barba, nei successivi “Maciste nella Valle dei re” di Carlo Campogalliani con la mitica ballerina cubana Chelo Alonso, dove Maciste è addirittura figlio di Sansone nella versione americana, “Maciste l’eroe più forte del mondo” di Antonio Leonviola, “Maciste il gladiatore più forte del mondo” di Michele Lupo.

E, ancora, in “Maciste contro i mongoli” di Domenico Paolella, “Maciste l’eroe più grande del mondo” di Michele Lupo, Maciste nell’inferno di Gengis Khan” di Domenico Paolella. E’ Ercole in “Ercole contro i figli del sole” di Osvaldo Civirani , ma lo troviamo anche in “Il leone di tebe” di Giorgio Ferroni, “Il magnifico gladiatore” di Alfonso Brescia e “Kindar l’invulnerabile” di Osvaldo Civirani. Nella grande stagione del peplum, si deve dividere tra più set. 

Come dimostra questo articolo della “Stampa Sera” del 1960: “Mark Forest si è trovato ieri davanti al dilemma: partire per Belgrado o per Madrid? Qualunque destinazione avesse scelto, avrebbe perso molti milioni. Ha optato per la Jugoslavia con in tasca la diffida dei produttori spagnoli (..).

Andare in Spagna subito significava per lui mandare a monte una produzione che lo attendeva a Belgrado per ripetere alcune scene di un film, Maciste nella valle del re, senza le quali la pellicola non può essere programmata; trasferirsi in Jugoslavia significava fare perdere ad un'altra casa di produzione che ha già tutto pronto per girare sulla costa atlantica un film, Golia contro i giganti, qualcosa come 11 milioni di lire al giorno. Un impiccio serio. Alla fine Mark Forrest ha scelto il male che gli è sembrato minore”.

Finito il genere peplum, Mark Forest passò alla sua vera passione, il canto. Del resto aveva investito tutti i suoi guadagni nel cinema per studiare l’opera. Così si reinventò come tenore sui palchi europei, sotto la cura del cantante e maestro newyorkese Giovanni Milillo. Andò poi in California e insegnò tecnica vocale a Hollywood.

·        E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.

La testimonianza. Vitaliano Trevisan: "Io, un matto trattato senza pietà". Vitaliano Trevisan su La Repubblica il 5 novembre 2021. Dopo il ricovero coatto in psichiatria, lo scrittore vicentino racconta la sua esperienza. E denuncia le condizioni in cui si tengono i pazienti. Un uomo che cammina in piena luce, in Italia, è scoperto, nudo, indifeso. \[…\] Cammina come una vittima, e come un colpevole. \[…\] È lì, scoperto, inerme, esposto ai colpi, alle indagini, alle accuse. Non si può né schermire, né difendere. È una condizione terribile: noi Italiani, non ci possiamo difendere, mai, da nulla, né dall’assassino né dal giudice» (Curzio Malaparte, Misura della Francia, Il Tempo, 4 dicembre 1952).

La letteratura secondo Vitaliano Trevisan nel suo libro-testamento. Daniele Rielli su Editorialedomani.it il 2 aprile 2021. Works, l’ultima opera di Trevisan, è precisamente il libro della vita prima della scrittura, il resoconto vorticoso di un’infinità di mestieri, un viaggio personale nei capannoni, nelle ditte, sui tetti, nei negozi, nei comuni, nei ristoranti, negli alberghi del Veneto.

Il suo è il mondo nascosto delle maggioranze, del lavoro dipendente e della piccola impresa, con qualche rapida ma significativa escursione ai piani più alti della provincia.

La sua è letteratura nella sua forma più alta, quella in cui la realtà sociale si fonde con la voce personale dell’autore in un gioco di rimandi che trascina il lettore verso un finale che sa di liberazione, a cui non manca però anche una certa tonalità malinconica.

È morto all’età di 61 anni Vitaliano Trevisan. Scrittore, attore, drammaturgo, regista e sceneggiatore Trevisan è stato trovato senza vita nell’abitazione di Crespadoro.

Vitaliano Trevisan è una voce unica nel panorama letterario italiano, cresciuto a pochi chilometri da Vicenza, ha svolto nei primi decenni della sua vita adulta un numero quasi infinito di lavori prima di diventare scrittore e drammaturgo a tempo pieno, togliendosi più di qualche soddisfazione come quella di essere tradotto in Francia da Gallimard. 

Works (Einaudi stile libero), l’ultima opera di Trevisan, è precisamente il libro di questa vita, o meglio della vita prima della scrittura, il resoconto vorticoso di un’infinità di mestieri, un viaggio personale nei capannoni, nelle ditte, sui tetti, nei negozi, nei comuni, nei ristoranti, negli alberghi del Veneto.

Una dose di realtà – e soprattutto di lavoro dipendente – inusitata per quell’ambiente culturale italiano che nel libro fa capolino solo all’inizio e alla fine, con i suoi introiti di origine misteriosa, il suo culto surreale delle celebrità e la tendenza a ridurre tutto quello che esiste fuori da Roma e Milano a stereotipo e grottesco.

Di questo già visto – almeno su carta – nell’opera di Trevisan se ne parla poco, il suo è il mondo nascosto delle maggioranze, del lavoro dipendente e della piccola impresa, con qualche rapida ma significativa escursione ai piani più alti della provincia.

Nonostante la conoscenza diretta dell’argomento – o forse proprio grazie a essa – Trevisan rimane però lontano dal documentarismo di denuncia, la sua è letteratura nella sua forma più alta, quella in cui la realtà sociale si fonde con la voce personale dell’autore in un gioco di rimandi che trascina il lettore verso un finale che sa di liberazione, un finale a cui non manca però anche una certa tonalità malinconica.

Una delle scene più importanti di Works si svolge nel periodo in cui fai il lattoniere, forse il lavoro che ti è piaciuto di più fra i molti che hai fatto. Un tuo collega ti chiede di tenerlo con le mani mentre è sospeso sul vuoto e lo fa nel modo più naturale possibile. Se tu lo lasciassi morirebbe e un po’ ti stupisci anche di questa naturalità, di questa fiducia scontata, come fosse qualcosa di cui non avevi mai fatto esperienza prima.

Mi ricordo ancora molto bene anche se sono passati molti anni, eravamo su un condominio piuttosto alto, lui si è sporto, cosa che non si potrebbe fare ma che si faceva normalmente, e mi ha detto tienimi per la cintura, tutto qua. Io l’ho tenuto per la cintura, però insomma bisogna dar fiducia, no?

Quando poi a fine giornata ne parli con questo collega lui ti dice “perché cosa volevi fare? Lasciarmi andare?”. C’è cioè questo contrasto tra te pensatore, riflessivo, e invece lui che non si pone neanche il problema.

Sì, infatti, era così poi con tutti, a prescindere dalle simpatie, poteva capitare di lavorare con qualcuno che ti era antipatico però su queste questioni non c’era mai nessuna perplessità. E capitava spesso di affidare la propria vita nelle mani di qualcun altro.

Di quel periodo dici anche che non c’erano tutte quelle piccole miserie che contraddistinguono la vita d’ufficio. Non c’era quindi solo la questione dello stare all’aperto, cosa che hai sempre molto amato, ma, mi sembra di capire, anche quella di una qualità umana maggiore.

Il lavoro manuale ha questo tipo di caratteristica, a meno che non sia ripetitivo e statico: ti lascia meno tempo per pensare e tutto sommato anche per divagare su questioni che non siano immanenti, per cui c’è anche meno spazio per quella rabbia repressa. Credo che si tratti di questo, tutta la rabbia che uno accumula in un ufficio, lì la sfogavi fisicamente.

Quello è anche un periodo in cui sei riuscito a scrivere parecchio nonostante lavorassi molto.

Vero, vero. Lavoravamo almeno dieci ore al giorno, anche di più nei periodi estivi, essendo un lavoro che si fa all’aperto, eppure non ero comunque così stanco da non riuscire poi a lavorare la sera, una volta a casa.

Colpisce anche perché questo non accade nel periodo di un altro dei lavori principali che hai fatto, quello nella ditta di cucine. Lì fai una rapida carriera però hai paura, scalando ulteriormente, di non avere più le energie per scrivere perché troppo concentrato sui problemi aziendali.

Sì, anche questo lo ricordo molto bene, del resto quella rapida carriera l’ho fatta fallire molto presto, non so quanto volontariamente. Vedendolo da dove sono ora, con il senno di poi, tendeva a tirare fuori di me cose che non mi piacevano molto. Quel potere che si acquisisce salendo, facendo carriera, in qualche modo poi si paga. Perché bisogna venire a patti con la produzione e con il padrone che in quella situazione era una famiglia ma forse non era poi così diversa da una multinazionale.

Da un lato sembra che tu sia colpito dal fatto che, con tutti i suoi difetti, quello è un posto di lavoro in cui comunque è possibile dare un po’ di sfogo all’intelligenza perché ciò che fai di buono viene notato ed è possibile salire nella gerarchia interna e dall’altra ti spaventava proprio la dimensione di famiglia allargata, l’idea dei dipendenti come figli minori a cui al momento della pensione regaleranno un orologio come ricompensa dopo una vita intera spesa per la famiglia proprietaria.

Spaventava e mi spaventa, anche se nessuno mi darà mai l’orologio, questo è escluso, però è così, quel tipo di azienda ha questo aspetto paternalistico. In quel periodo però ci fu anche un dipendente che incominciò ad avere problemi psichici sul lavoro e tutto sommato l’azienda non lo abbandonò, se non quando non era più possibile gestirlo. Per cui c’è questo senso di protezione e di appartenenza, anche quello però se vuoi lo paghi, lo paghi lavorando, facendoti sfruttare.

C’è sempre questo bilanciamento in Works tra la tua condizione di lavoratore e lo sforzo di vedere almeno un po’ anche i problemi degli altri. Non è un libro monodirezionale, benché la tua prospettiva sia chiara e in alcuni punti anche molto forte, descrivi però sempre bene anche quelle che sono le prerogative delle persone dall’altra parte.

Sì, se per altri intendiamo gli imprenditori, quelli che danno il lavoro. Ad esempio, per quanto nella ditta di lattoneria il lavoro mi piacesse, era veramente fatto a grande velocità e senza l’osservanza di quelle che sarebbero le regole di sicurezza a cui ci si dovrebbe attenere. Però è anche vero che se le ditte rispettassero quei regolamenti uscirebbero di fatto dal mercato – adesso non so se le cose siano cambiate, ma non credo più di tanto, vedendo il numero delle morti sul lavoro. Il risultato infatti è quello che sappiamo: molti infortuni, molte morti. Sembra che altrimenti non si riesca a far quadrare i conti...un po’ come il caporalato in agricoltura, o come i rider di cui si parla in questo periodo.

Proprio in quella fase in cui lavoravi per la ditta di lattoneria, ci fu un boom dettato da incentivi legislativi e fiscali e tu noti come di solito si racconti sempre tutto come buoni contro cattivi mentre in quel caso non era chiaro, c’eravate dentro un po’ tutti. In altre circostanze invece sei più netto e lo spieghi anche con il fatto che la tua origine ti fa talvolta vedere le cose attraverso la lente dell’odio e non puoi farci niente, è così.

Forse questo era anche dettato dall’epoca, era il periodo dell’odio di classe, se vuoi. Credo comunque che le classi ci siano ancora, anche se non se ne parla, se non vengono definite, non vengono trattate, e quindi di fatto è come se non esistessero. È anche molto conveniente che non esistano. Quelli erano gli anni Ottanta e Novanta e la trasformazione da questo punto di vista era già in atto, adesso però siamo ben oltre.

C’è una scena che tu racconti da due prospettive diverse sia in Works che in Tristissimi giardini, ed è quella in cui ti ritrovi in un magazzino un po’ improvvisato, spunta l’anziano fondatore dell’azienda e ti ammonisce perché sei fermo dicendo «qui lavoriamo con i secondi». C’è questo contrasto fra il magazzino che cade a pezzi, con le auto dei proprietari parcheggiate dentro e questo vecchietto che dice «qui lavoriamo con i secondi». Io ci ho visto una fase del Veneto e delle sue industrie familiari, gente che lavorava moltissimo, anche se poi alle volte bisognava vedere come.

Esatto, bisogna vedere come. D’altronde però c’è sempre questa contraddizione tra quella che è l’immagine esterna di un’azienda o anche di un bene e poi quello che incontri se vai vedere come e dove questo bene viene prodotto. Spesso questa seconda realtà non corrisponde all’immagine bella, pulita, esteriore del prodotto e quello che trovi invece sono squallore e cattive condizioni di lavoro.

Questo ci porta a uno dei nodi teorici più interessanti di Works: quello della comunicazione. Tornando alla fabbrica di cucine a un certo punto una delle figlie dei proprietari – che ha studiato semiologia – vi costringe – assieme a un architetto di fama internazionale – a usare un compensato marino che non ha senso usare in quel contesto ma ha il vantaggio di poter venire comunicato molto bene dal punto di vista del marketing. Questa è una cosa che torna non solo nel libro ma anche nella realtà di oggi: il contrasto fra i bisogni della comunicazione e quelle che poi sono le cose nella realtà. Un contrasto molto forte.

Fortissimo. Siamo nella società della comunicazione, per cui le ricadute sono notevolissime. La prima è questo scollegamento, questo allontanamento dalla realtà, non a caso si parla sempre di più di realtà percepita, per cui c’è il reale e c’è la realtà percepita e le due cose sono diverse. Sulla realtà ci mettiamo d’accordo e pensiamo che sia questa, diversa cioè dalle cose reali che ci accadono. Magari i fatti possono poi smentire questo accordo, ma questo non intacca la realtà condivisa, quello che percepiamo in modo condiviso.

Un altro personaggio carismatico è “Lui” un architetto presso il quale tu lavori all’inizio del tuo percorso e che ti introduce in un mondo che non avevi avuto occasione di vedere prima anche se poi alcuni di quei temi, come il design, già ti interessavano.

È un momento parecchio lungo del libro perché ho frequentato quello studio per quasi cinque anni, per me era veramente un altro mondo, essendo io uscito da una casta sociale piuttosto bassa. Non che Lui fosse di una classe sociale più alta della mia, era partito più o meno dal basso, tanto che non era neppure laureato, nonostante avesse allora e abbia tutt’ora il più grande studio di architettura della città. Però quello dove Lui era arrivato, e dove io entravo in quel momento, era proprio un altro mondo, un mondo che aveva anche un approccio al lavoro di cui prima non avevo contezza, ad esempio c’era nello studio la possibilità di consultare una biblioteca nuovissima. Era però anche un mondo che faceva molta leva sull’immagine, trattandosi di design e arredamento.

Lì entri in contatto con i “veri ricchi”, finita quell’esperienza però non lì frequenterai più, almeno non nel libro. È una toccata e fuga. E questo nonostante tu abbia sempre avuto in mente di diventare, un giorno o l’altro, uno scrittore e quello fosse un ambiente pieno di artisti o pseudoartisti.

Anche lì bisogna distinguere tra le persone e l’ambiente, perché anche adesso lavorando come scrittore o come drammaturgo ho a che fare con persone di un’altra classe sociale, questo è abbastanza inevitabile, però un conto è l’ambiente, un conto sono le persone: all’interno dell’ambiente si trovano delle persone comunque interessanti. Nella media però è difficile intendersi perché si danno per scontate delle cose che per un altro non sono scontate affatto. Ad esempio avere la possibilità di spostarsi quando lo si desidera, o avere la possibilità di passare per Pantelleria o Roma regolarmente, si ignora cioè che avendo un lavoro fisso queste non sono cose che si possono fare. Ci sono certi lavori, certe professioni che possono essere fatte con un minimo di tranquillità solo se hai qualcosa, o qualcuno, di solido alle spalle.

Ti facevo questa domanda, che potrà sembrare un po’ estemporanea, perché invece c’è sempre un po’ più di distacco nei confronti della classe dei piccoli medi imprenditori vicentini e veneti. Nei loro confronti sei molto più severo, mentre nell’ambiente attorno allo studio di Lui per un momento sembri dire “bè, tutto sommato questi mi stanno più simpatici”.

Sai uno è sempre più severo con quello che gli è vicino e di cui ha avuto esperienza in maniera più diretta. È possibile che il motivo sia questo. Poi è anche vero che in Veneto questa classe imprenditoriale è relativamente giovane, per cui non può certo avere la tradizione che hanno i borghesi o piccolo borghesi che comunque hanno un retroterra ben più lungo, ampio.

In Tristissimi giardini, tu parli del Veneto, di Vicenza in particolare, in un modo che mi ha fatto pensare che quando noi provinciali parliamo della nostra provincia, in genere male, ci dimentichiamo che tutta la provincia ha tratti simili e tendiamo invece un po’ ad appiopparli solo alla nostra. Cosa descriveresti come esclusivamente vicentino?

Questa è una di quelle cose che so, cosa differenzia per esempio un vicentino da uno di Treviso o da uno di Padova, però quando me lo chiedono è veramente difficilissimo spiegarlo. Perché si è molto coinvolti, però è vero che ci sono anche molti tratti in comune. Quando penso a Vicenza mi vengono subito in mente i preti e quello che mi disse mio zio: «Molto servanti ma poco credenti», non so però se si possa dire che sia uno specifico vicentino.

Tu frequenti molto anche il mondo tedesco e uno dei tuoi autori di riferimento è Thomas Bernhard, e lo è in maniera felice nonostante sia il classico autore che in genere viene copiato male. Nel tuo caso invece si vede chiaramente l’ispirazione – tu stesso dici che gli scrittori capaci sono fatti per essere saccheggiati – ma riesci a creare qualcosa di nuovo. Questo è notevole perché le ispirazioni così forti possono rivelarsi distruttive quando non creano un processo creativo nuovo.

Capita che succeda, sì.

Come hai conosciuto Bernhard? Cioè come ti è capitato tra le mani?

Per caso, leggendo prima Il nipote di Wittgenstein, poi da lì lessi tutto quello che riuscii a trovare. Naturalmente conobbi anche il traduttore, che è veneziano, e in qualche modo mi sembra di aver assimilato la lezione.

Qual è il tuo rapporto con il mondo tedesco?

L’ho frequentato più in gioventù adesso tendo a essere molto più statico, forse dovrei preoccuparmene, però questo è anche un periodo in cui muoversi è quasi impossibile. Direi comunque un rapporto buono sia a livello intellettuale che a livello personale, ho degli amici che vivono in Germania, italiani e tedeschi, e fra questi ultimi ce ne sono che ho cominciato a frequentare da adolescente. Il mio primo viaggio in Germania l’ho fatto a 14/15 anni, poi per un periodo mi ci sono ritrovato anche a vendere gelati.

Un’altra tua grande influenza è Samuel Beckett.

Sì certo, è l’altro che lessi in modo incauto, in tenera età, cioè proprio da adolescente. Andavo alle superiori e mi ricordo anche lì l’impressione, i momenti di euforia perché mi sembrava qualcosa che mi riusciva di capire e sentire. Quando poi sono riuscito a leggerlo in originale mi è sembrato di recepirlo ancora meglio perché non è un autore facile da tradurre, e soprattutto nella traduzione si perde molto dell’umorismo terribile, crudelissimo che ha invece nell’originale. Questo iato mi sembra una delle cose che me lo rendeva comunque ostico da leggere in italiano. In originale è molto più leggero per quanto in senso assoluto non sia comunque leggero.

Tu hai sempre avuto la certezza del fatto che un giorno saresti diventato uno scrittore. Una scommessa importante, nel senso che a un certo punto tu gli affidi anche il tuo equilibrio psicologico. Adesso sappiamo che ce l’hai fatta ma non era così scontato. Hai davvero avuto sempre la certezza che ce l’avresti fatta?

Bè, con molti dubbi in mezzo naturalmente, dubbi che tra l’altro continuano, perché non è che nemmeno adesso sia in salvo. Forse è vero che la scrittura è stata anche una cura, lo è ancora adesso, però è anche la malattia. È veramente entrambe le cose assieme. Ci sono quei periodi in cui sembra più malattia che cura, però è un continuo, è un po’ un’altalena.

Leggendoti non mi sembra che potresti farne a meno.

Però anche questo non poter fare a meno di qualcosa vuol dire esserne dipendenti. Poi certo bisogna anche vedere da cosa si è dipendenti di solito (ride). Ma anche una medicina attraverso gli eccessi può diventare una dipendenza.

Daniele Rielli. Nato nel 1982, vive a Roma. Scrittore, autore di reportage, sceneggiatore e autore teatrale. Ha pubblicato Quitaly (Indiana, 2014), Lascia stare la gallina (Bompiani, 2015) in corso di ripubblicazione per Mondadori, Storie dal mondo nuovo (Adelphi, 2016). Il suo ultimo libro è Odio (Mondadori, 2020), romanzo che tratta il tema del capro espiatorio nell'era digitale. 

·        E’ morto il regista Mariano Laurenti.

Aveva 92 anni. Morto Mariano Laurenti, regista delle commedie sexy all’italiana: lanciò Nino D’Angelo nel cinema. Redazione su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Il suo nome sarà per sempre legato ai cosiddetti “musicarelli” e alle commedie sexy all’italiana degli anni ’70 e ’80. Il cinema italiano piange la scomparsa all’età di 92 anni del regista Mariano Laurenti, morto nella giornata di ieri, 6 gennaio, a Gubbio.

Cresciuto al fianco di maestri del cinema come Mauro Bolognini, Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque, Dino Risi e Steno, Laurenti dirige prima i cosiddetti “musicarelli”, poi si cimenta alla regia della coppia comica siciliana composta da Franco Franchi e Ciccio Ingrassia.

Suoi sono però alcune pellicole cult degli anni Settanta e Ottanta, le celebri commedie sexy all’italiana che vedono tra i ‘fan’ anche registi del calibro di Quentin Tarantino. Tra i suoi titoli più noti ‘Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda’ (1972), ‘L’onorevole con l’amante sotto il letto’ (1981), ìUna vacanza del cactus’ (1981).

Negli anni Ottanta invece Laurenti lancerà nel mondo del cinema anche il cantante napoletano Nino D’Angelo: del ‘caschetto d’oro’ infatti dirigerà pellicole come ‘Un jeans e una maglietta’ (1983), ‘La discoteca’ (1983) e ‘Uno scugnizzo a New York’ (1984).

L’ultimo film diretto era stato ‘Vacanze sulla neve’ (1999). 

I funerali saranno celebrati domani nella chiesa di San Secondo a Gubbio e poi sarà seppellito nel cimitero della cittadina umbra.

Marco Giusti per Dagospia il 7 gennaio 2022. Ecco. Se ne va pure il mitico Mariano Laurenti, 93 anni, il formidabile regista di capolavori stracult come “Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda”, “L’infermiera di notte”, “La liceale nella classe dei ripetenti”. 

Per tutta la vita ha girato solo film comici. Per certi critici, come Giuseppe Turroni, era una specie di George Cukor o di Mario Camerini della pochade erotica all’italiana. 

In mano sua Edwige Fenech divenne una vera attrice di commedia, ma con lui funzionavano bene davvero tutti, da Renzo Montagnani a Lino Banfi a Alvaro Vitali. 

Avendo cominciato il cinema fin da ragazzino, aveva sedici anni quando batteva i ciak per il vecchio Carlo Ludovico Bragaglia, per poi diventare aiuto di Mario Mattoli e il braccio destro di Steno, sapeva tutti i trucchi della commedia. 

Sapeva come costruire una gag e come mettere in scena una complessa scena di pochade con gli amanti sotto il letto o dentro gli armadi senza perdere nulla in ritmo. 

Non era certo fatto per il cinema d’autore, rigorosamente ha girato solo commedie o parodie, ma neanche per l’avventuroso, a differenza di Nando Cicero e Sergio Martino, che divisero con lui e con Michele Massimo Tarantini gli anni d’oro della commedia sexy alla corte della Dania di Luciano Martino, patron e amante ufficiale di Edwige. 

E sapeva come girare le scene di nudo grazie al fatto di aver girato gli extra erotici super piccanti dei film di Steno, quelli con le attrici nude per l’estero.

Steno non le voleva girare e toccava al povero Mariano. Che era tutto tranne un voyeur. 

Grande professionista della risata, inizia la regia solo nel 1967, con il divertente “Il vostro super agente Flit”, eurospy comico con Raimondo Vianello e Raffaella Carrà, che sul set ebbero pure una segretissima storia, passa poi a Franco e Ciccio per “Satiricosissimo” e “I due maghi del pallone”. 

Anche se le sue regie per i due comici siciliani non sono all’altezza di quelle di Lucio Fulci, sono film molto divertenti e civili, ben costruiti.

In “Satiricosissimo” dirige per la prima volta Edwige Fenech nei pochi panni di Poppea, mentre il secondo è un trionfo di comicità calcistica. 

Dirige anche il film a episodi “Mazzabubù… quante corna stanno quaggiù?”, dove a Franco e Ciccio alterna una rediviva Silvana Pampanini, l’esordio cinematografico di Mariolina Cannuli, perfino un Giancarlo Giannini non ancora riconosciuto come star di prima grandezza, poi “I due assi del guantone”, “Continuavano a chiamarli i due piloti più pazzi del mondo”. 

Ma è nei primi anni ’70, con il boccacesco e l’apertura alla commedia sexy che Mariano, con due bombe come “La bella Antonia prima monica poi demonia” e “Quel gran pezzo dell’Ubalda” si fa davvero notare. 

Sarà un trionfo per tutti gli anni ’70, anche alternerà alle commedie erotiche per Luciano Martino, “La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono”, regia con il solo Franco Franchi, “Il figlioccio del padrino”, o commedie più giovanili con Pippo Franco, “Patrocloo!... e il soldato Camillone, grande grosso e frescone”, il più autoriale “Furto di sera bel colpo si spera”, ispirato ai quattro furti consecutivi e ravvicinati che una banda di ladri aveva dedicato a casa sua.

Ma il successo vero torna con la commedia sexy “Il vizio di famiglia”. E’ quello il suo mondo, Arrivano così “Classe mista”, “L’affittacamere” con Gloria Guida, “La compagna di banco”, “Per amore di Poppea”, insegnanti, infermiere, liceali.

Era impossibile non adorare Mariano Laurenti, umano, gentile, simpatico, pieno di ricordi e di battute. I suoi film, malgrado i temi a volte un po’ pecorecci hanno comunque una leggerezza di messa in scena invidiabile.

Ne “L’infermiera di notte”, ad esempio, mette in scena una pochade in un appartamento con tanto eprsonaggi diversi e sa sempre come muoverli. 

Diresse poi un celebre barzelletta movie, “La sai l’ultima sui matti?” con Bombolo e Cannavale, il curioso “Si ringrazia la regione Puglia per averci fornito i milanesi”, non sempre riusciti, ma sempre pieni di vita e di trovate. Ricordo che aveva anche diretti per Antonio Ricci a “Striscia la notizia” la sit-com comica di Batman e Robin con Ezio Greggio. Mi sarebbe molto piaciuto ritrovare qualche puntata.

Per Carosello diresse fior di attori e attrici, Loretta Goggi, Minnie Minoprio, il Quartetto Cetra, Duilio Del Prete, perfino Paolo Stoppa e Rina Morelli. Ritrovò Alvaro nel tardissimo “Pierino torna a scuola”, che avrebbe dovuto segnare l’esordio alla regia di Alvaro. Ma girò anche il remake dell’Ubalda, “Chiavi in mano” per Luciano Martino. Ma il tempo della commedia sexy era finito da tempo

È morto Mariano Laurenti, il regista dell’«Ubalda tutta nuda e tutta calda». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 7 gennaio 2022. Aveva 92 anni. Il film con Edwige Fenech è entrato nella memoria collettiva. Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda, La vedova inconsolabile ringrazia quanti la consolarono, La liceale nella classe dei ripetenti, L’infermiera di notte, La liceale seduce i professori, L’infermiera nella corsia dei militari: è stato il regista della commedia sexy degli anni Settanta. Titoli — l’Ubalda su tutti — che sono rimasti nella memoria collettiva. Mariano Laurenti è morto a 92 anni. Nato a Roma il 15 aprile 1929, esordì come aiuto regista negli anni Cinquanta, affiancando professionisti come Mauro Bolognini, Mario Mattoli, Camillo Mastrocinque, Dino Risi e Steno, quest’ultimo figura principale della sua formazione artistica. Con il passare del tempo divenne rappresentante prima dei musicarelli, poi regista della coppia Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, orientandosi infine verso la commedia sexy italiana degli anni Settanta. Quindi fu il mentore di Nino D’Angelo che ebbe modo di dirigere in diversi suoi film.

Il titolo che si lega al suo nome è soprattutto Quel gran pezzo dell’Ubalda tutta nuda e tutta calda sia per quel nome così poco frequentato sia per quella rima stramba, protagonisti Pippo Franco e Edwige Fenech. Costato circa 90 milioni di lire, incassò ben 640 milioni al botteghino. Presentato per il visto censura, il film ottenne il «nulla osta» alla proiezione con il divieto ai minori di 18 anni con la motivazione che il film «contiene numerosissime scene scabrose con risvolti triviali, scene erotiche e nudi femminili oltre a numerose battute triviali non compatibili con la sensibilità di detti minori». Nel 1990, al fine della trasmissione in televisione, vennero effettuati tagli per un totale di 133,8 metri e il film venne ripresentato in censura ottenendo il nulla osta alla proiezione senza limiti di età.

·        E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.

Covid, morta Gloria Piedimonte la 'Guapa' della trasmissione 'Discoring'. La Repubblica il 07 gennaio 2022.

L'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte si è spenta intorno alla mezzanotte nell'ospedale di Mantova dove era stata ricoverate per complicanze legate al Covid. L'artista era conosciuta al grande pubblico soprattuto per la sua interpretazione di "Guapa", la sigla della trasmissione "Discoring" di Gianni Boncompagni. La notizia è stata data dal figlio Giovanni Piedimonte: "È scomparsa questa notte, ha lottato fino alla fine. Se ne è andata via senza dolore e con grande dignità", ha scritto. L'attrice era nata a Mantova il 27 maggio del 1955, ed arrivò giovanissima a Roma per lavorare nel cinema. Notata da Gianni Boncompagni fu immortalata nella sigla di Discoring del 1978, in cui si muoveva ai ritmi del pezzo "Baila Guapa" dei Bus Connection, interpretato dallo stesso Boncompagni che la incitava per tutto il brano. Negli ultimi anni l'artista si era dedicata all'arte figurativa, realizzando numerose tele, che sono state anche oggetto di mostre.

Da “Libero quotidiano” il 7 gennaio 2022. Addio all'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte, indimenticabile Guapa della trasmissione televisiva Discoring di Rai1. Aveva 66 anni. Malata da circa tre anni, è morta all'ospedale di Mantova, dove era ricoverata per complicanze legate al Covid-19. Lascia il marito Tony e il figlio Gianni. Nata a Mantova il 27 maggio 1955, la Piedimonte arrivò giovanissima a Roma per lavorare nel cinema. Venne notata da Gianni Boncompagni, che utilizzò la sua immagine nella sigla di «Discoring» del 1978, in cui si muoveva ai ritmi del pezzo «Baila Guapa» dei Bus Connection, interpretato dallo stesso Boncompagni che la incitava per tutto il brano. In questo periodo, l'artista recitava anche in teatro accanto a Erminio Macario e Sylva Koscina. Nello stesso anno incise per la Durium due singoli: Ping pong space di genere disco e Uno scritto da Andrea Lo Vecchio, che ottennero un buon successo anche all'estero. Nel 1979 uscì il suo primo film come protagonista, Baila Guapa. Dopo altre comparse in film e fotoromanzi, la Piedimonte nel 1983 uscì con un altro singolo Ma che bella serata. Tra le ultime apparizioni ttv si ricordano quella aI migliori anni (2009) su Rai 1 e a Una poltrona per due.

·        E’ morto l’attore Sidney Poitier.

(ANSA il 7 gennaio 2022) Sidney Poitier, leggenda di Hollywood che ha spianato la strada a tantissimi attori afroamericani, è morto all'età di 94 anni. Lo riportano alcuni media Usa.

Da cinquantamila.it. Nato a Miami (Stati Uniti) il 20 febbraio 1927. Attore. «[...] a Berlino [...] ottenne nel 1963 il premio come miglior attore per "I gigli del campo"; e fu questo primo riconoscimento internazionale che lo portò al traguardo dell’Oscar [...] Nell’entusiasmo del momento, Sidney non si era trattenuto dal dare un bacetto sulla guancia alla collega Anne Bancroft mentre lei gli consegnava la statuetta: ma il bacio di una nero a una bianca era troppo per i razzisti del Sud e fu tagliato. L’Oscar comunque rappresentò per Poitier, rampollo di una modesta famiglia di coltivatori di pomodori a Nassau, il passaporto verso una straordinaria popolarità.

Nel 1967, l’anno di due titoli rimasti famosi come La calda notte dell’ispettore Tibbs e Indovina chi viene a cena?, ”The first Negro superstar” (come lo definirono), si collocò al primo posto nella lista dei Top Ten, i divi di maggiore incasso [...] la carriera di questo attore bravissimo e carismatico è andata declinando dopo i trionfi degli anni Sessanta. Ha interpretato due ulteriori film sull’ispettore Tibbs, altre pellicole da protagonista, si è impegnato come regista ma non ha più conosciuto un vero successo. [...]» (Tullio Kezich, ”Sette” n. 6/2002).

«Indovina chi viene a cena?», Tra matrimoni misti e baci interrazziali, fu una bomba atomica per gli Usa. Walter Veltroni su Il Corriere della Sera l'8 gennaio 2022. È stato il primo film in cui si parla di un matrimonio «misto», il primo in cui un uomo nero e una donna bianca si baciano. Fu Hollywood, con quel film, a schierarsi.  

«Indovina chi viene a cena?» chiedono i genitori di Joey Drayton, la ragazza bianca, alla domestica nera che lavora nella loro casa. Lei risponde, interrogativa, «Il reverendo Martin Luther King?». Questa frase, girata nella primavera del 1967, fu poi drasticamente tagliata un anno dopo quando, a Memphis, il leader delle battaglie dei neri americani fu ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato da James Earl Ray, un razzista seguace di George Wallace che si candidò alla presidenza degli Stati Uniti nel 1968 con posizioni segregazioniste. Wallace era stato protagonista, da governatore dell’Alabama, di clamorose manifestazioni contro i diritti dei neri fino al punto di recarsi personalmente davanti a università e scuole del suo stato per impedire a giovani e bambini afroamericani di frequentare i loro corsi di studio.

È questa l’America in cui vede la luce Indovina chi viene a cena?, il film di Stanley Kramer con il grande Sidney Poitier, scomparso venerdì, che ha segnato una tappa importante nel superamento, al livello della coscienza diffusa, dei pregiudizi che relegavano i neri ai margini del vivere civile. È il primo film in cui si parla di un matrimonio «misto», il primo in cui un uomo nero e una donna bianca si baciano. In quella America fu una bomba atomica. Proprio perché quella storia non era figlia del cinema indipendente. No, era Hollywood, stavolta, a schierarsi. Era il regista di Vincitori e vinti e di Questo pazzo pazzo mondo a raccontare dell’improbabile, in molti stati del Sud ancora illegale, incontro d’amore tra ragazzi con il colore della pelle diverso. Erano Spencer Tracy e Katharine Hepburn a incarnare i genitori liberal e non Peter Fonda o Dennis Hopper, i protagonisti di Easy rider.

La storia di questo film non parlava a chi era già dalla parte di Martin Luther King, delle politiche di integrazione di John e Bob Kennedy o delle norme sui diritti civili che Lyndon Johnson fece approvare in continuità con il suo predecessore. Il Civil rights act del 1964 e il successivo intervento per garantire la pienezza dei diritti di voto agli afroamericani furono approvate in un clima di scontro con le posizioni dei segregazionisti e dei razzisti che, anche nel partito democratico, avevano il controllo elettorale, politico, statuale del Sud degli Usa. Non va dimenticato che George Wallace era un democratico. Quei pregiudizi abitavano in profondità la società americana, trasversalmente.

E lo stesso Spencer Tracy, nell’interpretare il personaggio del padre liberal di Joey che incontra il fidanzato nero di sua figlia, non riesce a trattenere imbarazzo. Ma analogo sentimento, anche più estremo, è rappresentato dai genitori neri di John, interpretato dall’indimenticabile Sidney Poitier. Loro stessi sono basiti che il loro figlio abbia attraversato il confine che per generazioni aveva separato i sentimenti e le vite di coetanei con la pelle di diverso colore. Il film non fu affatto buonista, semmai la sanzione coraggiosa di un cambiamento sociale e di costume avviato. Qualcosa che non è compiuto, come dimostra il caso drammatico di George Floyd.

Indovina chi viene a cena? si conclude con un memorabile monologo recitato da Spencer Tracy, che morirà 17 giorni dopo la fine delle riprese e non misurerà mai la portata delle sue parole: «Ci saranno 100 milioni di persone qui negli Stati Uniti che si sentiranno disgustate, offese, provocate da voi due e dovrete conviverci. Magari ogni giorno, per il resto delle vostre vite. Potrete cercare di ignorarne l’esistenza o potrete sentire pietà per loro e per i loro pregiudizi, la loro bigotteria, il loro odio cieco e le loro stupide paure. Ma quando sarà necessario dovrete saper stare stretti l’uno all’altra e mandare al diavolo questa gente…».

Morto Sidney Poitier, primo attore afro a ricevere l'Oscar. Francesco Curridori il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale. Sidney Poitier, il primo attore di colore a vincere un Oscar è morto oggi all’età di 94 anni, dopo aver segnato un’epoca con le sue interpretazioni da "afro-americano buono".  

È stato il primo attore di colore a vincere un Oscar. Sidney Poitier, morto oggi all’età di 94 anni, ha segnato non solo un’epoca ma l’intera storia del cinema americano.

L'infanzia di Sidney Poitier e il debutto al cinema

I suoi genitori, Reginald James e Evelyn Qutten, sono due contadini che il giorno della sua nascita, il 20 febbraio del 1927, si trovano a Miami per vendere una partita di pomodori. Sidney, però, vive la sua infanzia in povertà a Cat Island, un’isola delle Bahamas, fino ai 10 anni. A 13 lascia la scuola per andare a lavorare e, appena 15enne, raggiunge il fratello a Miami. È all’età di 18 anni che parte per New York dove vive di espedienti e trascorre le notti dentro la stazione degli autobus. Si arruola nell’esercito e lavora come inserviente in un ospedale per veterani. Partecipa, poi, a un provino per l'American Negro Theater ma non viene preso e, perciò, decide di studiare dizione e recitazione. Sei mesi dopo ottiene un ruolo nello spettacolo di Broadway, Lysistrata, per il quale ottiene ottime recensioni. È il 1950 quando decide di passare dal teatro al cinema e, nel 1950, debutta con il film Uomo bianco tu vivrai! del regista Joseph L. Mankiewicz dove recita il ruolo di un chirurgo nero che deve curare due fratelli banditi ma ne salva solo uno. La sua interpretazione colpisce nel segno e viene subito chiamato per ruoli da protagonista che nessun afro-americano aveva mai avuto prima e con contratti che normalmente si riservavano solo ai bianchi.

Gli anni '60: dal premio Oscar al successo di "Indovina chi viene a cena?"

Nel 1958 ottiene addirittura un premio BAFTA, l’Orso d’argento al Festival di Berlino e una candidatura agli Oscar per la sua interpretazione in La parete di fango, film capolavoro di Stanley Kramer. Cinque anni dopo diventa il primo afroamericano che vince l’ambita statuetta in qualità di miglior attore protagonista (oltre a un Golden Globe e un Orso d’argento) con il film I gigli del campo di Ralph Nelson. Nello stesso anno sposa la ballerina Juanita Hardy da cui avrà quattro figli e da cui divorzierà nel 1965. In questi anni viene chiamato a interpretare il nero “buono” e che riesce a farsi strada in una società americana sconvolta dalle uccisioni dei due fratelli Kennedy, di Malcom X e di Martin Luther King.

Nel 1967 Poitier raggiunge la fama internazionale con "Indovina chi viene a cena?" in cui recita nel ruolo del fidanzato di una ragazza bianca. Ruolo che lo renderà celebre soprattutto per la frase: “Tu sei mio padre ed io sono tuo figlio. Ti voglio bene, te ne ho sempre voluto e te ne vorrò sempre. Ma tu ti consideri ancora un uomo di colore, mentre io mi considero un uomo”. Sempre nel 1967 diventa il primo attore nero a lasciare la sua impronta nel cemento del Grauman's Chinese Theatre di Los Angeles e recita come protagonista ne La calda notte dell'ispettore Tibbs, film che ottiene ben 5 premi Oscar. Seguiranno, poi, due sequel:Omicidio al neon per l'ispettore Tibbs (1970) e "L'organizzazione sfida l'ispettore Tibbs" (1971). Nel 1969 conosce l'attrice canadese Joanna Shimkus che sposerà nel 1976 e da cui ha due figli. Sempre nel ’69 gli viene assegnato il premio Henrietta Award come migliore attore mondo.

Gli ultimi anni di vita e il secondo premio Oscar

Negli anni ’70 debutta in qualità di regista con "Non predicare?spara!" co-interpretato insieme al suo amico Harry Belafonte. In seguito gira: Grazie per quel caldo dicembre (1973) Uptown Saturday Night (1974), Let's Do It Again (1975) e A Piece of the Action (1977). Negli anni ’80 pubblica la sua autobiografia This Life e gira altri tre film: Nessuno ci può fermare (1980), Hanky Panky - Fuga per due (1982) e Dance - voglia di successo (1985). Nel 1990 dirige Bill Cosby ne Papà è un fantasma, mentre nel 1992 torna alla recitazione con il film I signori della truffa. Cinque anni più tardi interpreta Nelson Mandela nel film per la tivù Mandela and DeKlerk. È stato ambasciatore delle Bahamas in Giappone e dal 1998 ha fatto parte dello staff dirigenziale della Disney. Nel 2002 riceve un Oscar Onorario"per le sue prestazioni straordinarie, per una presenza unica sullo schermo e per aver rappresentato nel mondo intero l'industria cinematografica con dignità, stile e intelligenza". Nel 2009, invece, riceve la Medaglia Presidenziale della Libertà dalle mani di Barack Obama.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

È stato l’indimenticabile protagonista di “Indovina chi viene a cena”. È morto Sidney Poitier, primo attore afroamericano a vincere l’Oscar: aveva 94 anni. Elena Del Mastro su Il Riformista il 7 Gennaio 2022.  

Come dimenticare il film “Indovina chi viene a cena?”. Il protagonista era Sidney Poitier, che si è spento all’età di 94 anni. La sua morte è stata riportata dai notiziari delle Bahamas e confermata dal ministro degli Affari esteri delle Bahamas Fred Mitchell. Il celebre attore e regista statunitense, primo premio oscar afroamericano come migliore attore è morto giovedì sera.

Nato a Miami il 20 febbraio 1927, l’American Film Institute lo ha inserito al ventiduesimo posto tra le più grandi star della storia del cinema. Primo attore afroamericano ad aver raggiunto la dimensione di icona di Hollywood, Poitier ha vinto il premio Oscar al miglior attore nel 1964 per l’interpretazione ne ‘I gigli del campo’.

Negli anni successivi consolidò la propria fama con alcuni ruoli rimasti memorabili, fra cui quelli di Virgil Tibbs, ne La calda notte dell’ispettore Tibbs (1967), di John Prentice in Indovina chi viene a cena? (1967) e di Warren Stantin in Sulle tracce dell’assassino (1988). La sua interpretazione più famosa resta proprio quella di Indovina chi viene a cena?, al fianco di due mostri sacri come Katharine Hepburn e Spencer Tracy.

Restò a lungo l’unico attore afroamericano ad aver vinto l’Oscar fino a Louis Gossett Jr., vinta nel 1983 per il film Ufficiale e gentiluomo come miglior attore non protagonista. Ha conquistato due Oscar (l’altro alla carriera nel 2002), dieci Golden Globe e sei Bafta. Nel 1974 fu nominato Sir e nel 2009 Barack Obama lo ha insignito della medaglia presidenziale della Libertà.

Poitier era figlio di modesti commercianti bahamiani. Con la famiglia si spostò prima nelle natie Bahamas e poi di nuovo a Miami, fu però a New York che scoprì la passione per la recitazione dopo un’adolescenza ai margini della legalità e l’esperienza nell’esercito, lavorò come addetto alle pulizie all’American Negro Theater scambiando il compenso con le lezioni di recitazione.

Il debutto fu attraverso il teatro e poi ottenne piccole parti in televisione, mentre il suo primo ruolo cinematografico fu quello di un liceale problematico nel film Il seme della violenza (1955). La prima nomination all’Oscar arrivò presto, nel 1959 con La parete di fango dove interpretava con Tony Curtis un detenuto in catene che fuggono dopo un incidente, un film che denunciava il razzismo ancora imperante negli Usa e conquistò nove nomination e due statuette.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Paolo Giordano per “il Giornale” l'8 gennaio 2022. Incredibile a dirsi ma, con le regole di oggi, il Sidney Poitier dell'epocale Indovina chi viene a cena? sarebbe stato considerato un attore politicamente scorretto. Proprio così. Politicamente scorretto. Non soltanto perché ha diviso quel set della scorrettissima Hollywood con Spencer Tracy, che nel 1961 aveva interpretato, in Vincitori e vinti del premio Oscar Stanley Kramer, un giudice inflessibile ma ragionevole con un imputato tedesco (Burt Lancaster) colpevole di aver applicato le leggi razziali del Terzo Reich. 

E Katharine Hepburn? La più diva delle antidive una volta disse che «se rispetti tutte le regole, ti perdi tutto il divertimento», praticamente la plateale bocciatura del politicamente corretto. Ma soprattutto Sidney Poitier oggi sarebbe mitragliato dai social perché in Indovina chi viene a cena? la domestica di colore della famiglia Drayton addirittura si indigna quando il medico-ricercatore-filantropo Sidney Poitier viene ammesso alla tavola dei futuri suoceri Spencer Tracy e Katharine Hepburn.

Ma come, un «nero» come me alla tavola dei «bianchi»? Una scena che oggi sarebbe da matita rossa del «politically correct». In realtà, a quel tempo il ruolo di Sidney Poitier fu realmente di rottura, un vero schiaffo in faccia a ciò che allora era il politicamente corretto. Ma, paradossalmente, quel film visto con le lenti di oggi sarebbe considerato uno sfregio e scatenerebbe valanghe di «shit storm» sui social, oltre agli immancabili interventi degli indignati a senso unico. Invece Sidney Poitier è stato uno dei motori più genuinamente responsabili per il superamento delle barriere razziali negli Stati Uniti.

Lo ha fatto con il proprio mestiere, ossia recitando. E lo ha fatto senza proclami, manifesti o prese di posizione intolleranti. Ha recitato. E ha recitato alla grande rovesciando i cliché molto di più di qualsiasi presunto influencer e di ogni maître à penser che parla sottovuoto, magari senza aver toccato e vissuto la realtà che critica.

Quando ricevette il premio Oscar alla carriera nel 2002, Sidney Poitier ringraziò Hollywood per averlo accolto quando era senza un soldo (aveva lavorato come lavapiatti prima di trovare un posto all'American Negro Theater). In sostanza, oggi un vero eroe della battaglia per i diritti sarebbe considerato scorretto e magari spernacchiato sui social da una Stellina98 qualsiasi. Questo per dire la differenza tra chi si impegna davvero e chi lo fa solo dal divano di casa.

Marco Giusti per Dagospia l'11 gennaio 2022.

Se non l’avete vissuta allora, negli anni ’60, è difficile capire cosa fu pure per noi, italiani lontani da Hollwyood e dal profondo sud segregazionista, l’esplosione di Sidney Poitier in una serie di grandi film civili che lo portarono al ruolo di una vita, quello del protagonista di “La calda notte dell’ispettore Tibbs” di Norman Jewison. “They call me Mister Tibbs” è la frase che darà maggiore dignità al personaggio, ma la scena che rimase più impressa fu un’altra. Perché mai si era visto un afro-americano rispondere allo schiaffo di un bianco razzista con un altro schiaffo, sicuramente più forte, come nella celebre scena dove Mister Tibbs prende a schiaffi il personaggio del bianco razzista Endicott interpretato da Larry Gates. Non fu facile arrivare a quello. E Poitier volle l’assoluta sicurezza che la scena non venisse tagliata da nessuna copia.

Ma tutti, a cominciare dal produttore, Walter Mirisch, sapevano bene che negli stati segregazionisti del sud il film non sarebbe mai uscito, scena tagliata o meno. In Sud Africa verrà addirittura proibito, come quasi tutti i film con Poitier. Ma per Hollywood e per il popolo afro-americano che avrebbe visto il film sarebbe stata una rivoluzione. E faceva passare il tono del film, da giallo con schermaglie un po’ da commedia tra il poliziotto razzista di paese Rod Steiger e il poliziotto istruito di città afro-americano, qualcosa di davvero mai visto e di drammaticamente attuale. Del resto non era stato un film facile da girare.

Lo stesso Poitier aveva voluto che, benché ambientato in una cittadina del più profondo sud, la lavorazione fosse spostata in Illinois, al Nord, nella cittadina di Sparta. Sapeva, perché ne aveva passate di tutti i colori quando, rischiando la vita nell’agosto del 1964, durante la Freedom Summer, assieme a Harry Belafonte in auto inseguiti dal Klan (o dalla polizia? O da tutti e due?) avevano portato 70 mila dollari in contanti per Movimento dei Diritti Civili a Greenwood, Mississippi, che lì avrebbe rischiato la vita. E quando fu obbligato a girare degli esterni in Tennesse per vederlo tra i campi di cotone, dormiva con la pistola sotto il cuscino. 

Ma il Klu Klux Klan rese impossibile il suo soggiorno, al punto che ritornarono subito in Illinois. “Io non posso vivere dove non posso muovermi”, dirà durante la lavorazione del film, “dove non posso mangiare dove voglio. Io voglio vivere dove voglio e cercare i miei spazi dove voglio io”. Il 1967, del resto, quando si girò il film, fu un anno fondamentale per Sidney Poitier.

Anche se aveva vinto un Oscar come miglior attore per “I gigli nei campi” di Ralph Nelson nel 1964, il primo Oscar da protagonista in assoluto per un attore afro-americano, e il primo con un ruolo non stereotipato come invece erano quelli da non protagonisti di Hattie MacDaniels per “Via col vento” e di James Baskett per “I racconti dello zio Tom”, è nel 1967 che Poitier gira, uno dopo l’altro “La scuola della violenza” di James Clavell, dove fa l’insegnante nero in una classe di bianchi dell’East End londinese, un film che andrà incredibilmente bene al botteghino, “La calda notte dell’Ispettore Tibbs” e il fondamentale “Indovina chi viene a cena” di Stanley Kramer, dove per la prima volta a Hollywood si parla di un matrimonio misto, cosa che era vietata per legge in 16/17 stati del paese. Sembra che sia con “La scuola della violenza”, ma il titolo inglese suona “To Sir With Love”, che i produttori rimangono stupiti dalla massa di ragazzi e soprattutto ragazze che vanno a vedere il film solo per lui.

Non è solo una star o l’unica star afro-americana di Hollywood, è anche la star più sexy del momento. Noi tutti, quando vedevamo i suoi film, lo sapevamo benissimo. Per dare la giusta luce al colore della pelle di Mister Tibbs, film in gran parte notturno, il direttore della fotografia Haskell Wexler si inventa qualcosa che non si era mai visto. E gli effetti si vedono. Ma è soprattutto lui, Sidney Poitier, a sapersi muovere con un’eleganza e una bellezza che pochi altri attori del tempo sembravano possedere. “Io sono la sola star nera di Hollywood?”, dice ai giornalisti, “Ma non  posso credere di essere il solo essere umano di talento tra venti milioni di neri. Questo dipende solo dal fatto che Hollywood non dà mezza chance alla mia razza. La mia fortuna a Hollywood è da attribuire a pochi campioni di progressismo che ho incontrato, Stanley Kramer, Joe Mankiewicz, Richard Brooks, Mike Frankovitch e i dirigenti della United Artists”. 

Tutto vero, ma certo nessun attore ha avuto la carriera fulminante di Sidney Poitier. Già nel 1959, quando uscì “The Defiant Ones” di Stanley Kramer, dove recitava assieme a Tony Curtis, veniva definito dai giornali come “Una delle maggiori attrazioni di Hollywood”, perché oltre a essere l’unico protagonista afro-americano nei film di Hollywood era soprattutto bellissimo. Per tutti gli anni ’50, Hollywood sa perfettamente che tipo di attore ha tra le mani, ma, pur inserendolo in buoni film di registi, appunto, progressisti, gli rifila costantemente un partner bianco di peso.

Lo troviamo così in “No Way Out” di Joe Makiewicz come medico nero che si scontra con Richard Widmark, in “Il seme della violenza” di Richard Brooks dove affronta il professore Glenn Ford, in “Edge of teh City” di Martin Ritt dove fa coppia con John Cassavetes. In “Qualcosa che vale” di Richard Brooks affronta l’amico Rock Hudson. Regolarmente trova una star bianca da affrontare, da Bobby Darin a Paul Newman, da Alan Ladd a Tony Curtis. Almeno ne “I gigli del campo” è l’unico maschio tra tante donne. Ma quando vincerà l’Oscar, battendo l’Albert Finney di “Tom Jones”, e darà un bacio alla premiatrice Anne Bancroft, la scena verrà tagliata per non avere problemi. 

In America è qualcosa che non si può ancora vedere. Ralph Nelson, il regista del film, gli offrirà subito dopo il ruolo da co-protagonista, assieme a James Garner, del bellissimo western “Duello a El Diablo”, dove, per la prima volta, il fatto di essere afro-americano non è neanche accennato. E’ uno sceriffo, elegantissimo, stilosissimo, in un mondo dove niente sembra esser così definito. La svedese Bibi Andersson, musa di Ingmar Bergman, lascia casa e famiglia per andare dal suo amante indiano. Ma è l’anno dopo, come abbiamo visto, che Poitier esplode davvero e fa esplodere con tre film il razzismo e le contraddizioni di Hollywood. Niente sarà più come prima. E dopo diventerà possibile che i due amici, lui e Harry Belafonte, si ritrovino per girare da protagonisti un film tutto loro. Completamente liberi.    

·        E’ morto il regista Peter Bogdanovich.

Peter Bogdanovich, morto il regista di «Paper Moon» e «Ma papà ti manda sola?» Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 6 gennaio 2022.  

Il grande regista, anche sceneggiatore, vera leggenda di Hollywood, è morto per cause naturali nella sua casa di Los Angeles. Per «L’ultimo spettacolo», con Jeff Bridges, fu candidato all’Oscar come miglior regista. 

Era il più cinefilo dei registi americani. Morto giovedì 6 gennaio, a 82 anni, Peter Bogdanovich è stato il primo regista statunitense a venire dalla critica, dopo un’adolescenza in cui segue a sedici anni i corsi di recitazione di Stella Adler e si misura con una regia teatrale. Ma già a vent’anni ha fatto il salto verso il cinema, scrivendo per riviste specializzate e organizzando per il Museum of Modern Art di New York rassegne dedicate ai suoi idoli: Orson Welles (che intervisterà per un libro destinato a diventare celebre come quello di Truffaut su Hitchcock), Howard Hawks e John Ford.

Il salto nel cinema da fare è inevitabile e avviene attraverso la factory di Roger Corman, dove copre tutti i ruoli (anche quello di «rieditare», girando scene aggiuntive con Mamie Van Doren, un film sovietico di fantascienza), per esordire nel 1968 con «Bersagli», dove Boris Karloff interpreta praticamente se stesso: un attore horror a fine carriera. Ma è con «L’ultimo spettacolo» che Bogdanovich si impone, storia di una cittadina texana negli anni ’50, dove i sogni e le avventure sentimentali si intrecciano con l’imminente chiusura dell’unico cinema della città (che per il suo ultimo spettacolo non può che proiettare «Il fiume rosso» di Hawks). Il film fu portato in trionfo dalla critica americana (otto nomination, due Oscar: attore e attrice non protagonisti) ma forse per questo attaccato duramente da quella francese che forse vedeva un regista capace di contendere ai loro «auteurs» la supremazia nel paradiso dei cinefili.

Così, i suoi film successivi, forse un po’ troppo debitori del voler essere un omaggio al cinema classico, finirono per avere un’accoglienza meno trionfale e soprattutto non raccogliere quel consenso di pubblico che soprattutto a Hollywood è sacro: «Ma papà ti manda sola?» (1972) con Ryan O’Neal e Barbra Streisand riesce ancora a essere un indovinato omaggio a «Susanna!» di Hawks e «Paper Moon – Luna di carta» (1973), che fece vincere un Oscar all’esordiente Tatum O’Neal, e racconta la storia di una ragazzina che accompagna il papà imbroglione (Ryan O’Neal, suo vero padre) nell’America depressa, diverte. Il rischio, però, è quello di esagerare con lo spirito citazionista, così come il successivo «Daisy Miller» (1974, tratto da Henry James, con Cybill Shepherd, ai tempi compagna del regista) fatica a non scivolare nell’olografia. Ma è a partire da «Finalmente arrivò l’amore» (1975), poi «Vecchia America» (1976) e «Saint Jack» (1979) che l’ispirazione cinefila non rinvigorisce più la messa in scena o si riduce a uno sterile gioco di rimandi e citazioni che il pubblico fatica a cogliere.

Il destino poi sembra accanirsi con Bogdanovich quando il marito uccide l’ex playmate Dorothy Stratten, che recitava in «… e tutti risero» (1981), perché geloso della relazione che aveva avuto durante le riprese con il regista (la tragedia ispirò Bob Fosse per «Star 80»). Inizia qui una lunga eclissi professionale, che costringe Bogdanovich a ripiegare su tv-movie di non eccelsa qualità, anche se la sua mano si vede ancora in «Dietro la maschera» (1985, storia di un ragazzo con una grave malattia deformante) e in «Texasville» (1990, dove riprende la storia e i personaggi di «L’ultimo spettacolo») oltre che nei due episodi che dirige per «Fallen Angels» (1995) e poi «I Soprano» (2004).

Sono anni in cui Bogdanovich torna alla critica, scrivendo sui suoi amati maestri (a quelli già citati si aggiungono Alan Dwan e il Lang americano) fino a quando l’ostracismo di Hollywood gli permette di dirigere quello che resta, involontariamente, il suo canto del cigno: «Tutto può accadere a Broadway», divertente e arrembante commedia che guarda alla tradizione della «screwball comedy» (Lubitsch è citato a più riprese) ma che aggiorna con una piacevole dose di ironia e sensualità.

Addio al regista raffinato che scriveva i film come se fossero libri. Pedro Armocida il 7 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Aveva diretto capolavori come "Paper Moon" ma pubblicò anche grandi saggi sul cinema Usa.

Il capolavoro per un artista è quando la nostalgia del passato gli consente di realizzare un capolavoro originale profondamente ispirato da quella malinconia. Peter Bogdanovich, morto ieri a Los Angeles a 82 anni, è riuscito in questa impresa nelle sue due principali attività.

Da una parte, dopo l'ottimo esordio - prodotto dall'amico regista Roger Corman - di Target con protagonista una leggenda di Hollywood come Boris Karloff, ha girato nel 1971 L'ultimo spettacolo, un omaggio in bianco e nero tra i più sentiti, malinconici e disperati sulla provincia americana degli anni '50, quando le sale cinematografiche iniziavano a chiudere, attraverso l'utilizzo critico di stilemi registici e scenografici del cinema statunitense classico. Interpretato da Timothy Bottoms, Jeff Bridges e Cybill Shepherd ottenne ben otto nominations e due Oscar agli attori non protagonisti, Ben Johnson e Cloris Leachman.

Dall'altro ha scritto uno dei libri più importanti della storia del cinema, Il cinema secondo John Ford nel 1967. Un'anima divisa in due, lo studioso che si laurea con una tesi su Furore, appunto di John Ford, prima di dedicare fondamentali monografie a Fritz Lang e Orson Welles e il cineasta che omaggia il cinema classico nei suoi film con un amore e una profondità pieni di autenticità e privi di accademismo che è la malattia dei critici-registi. Subito dopo riprende la grande tradizione della screwball comedy, in particolare Susanna di Howard Hawks, con Ma papà ti manda sola? con Barbra Streisand e Ryan O'Neal e, sempre con quest'ultimo, nel 1973 dirige il road movie Paper Moon all'epoca della depressione con la struggente fotografia in bianco e nero del grande László Kovács. Omaggio all'America del New Deal di Roosvelt - e ritorna la lezione della tesi su Furore - e ai suoi interpreti cinematografici come Shirley Temple richiamata nella scelta della piccola protagonista Tatum, figlia di Ryan O'Neal, che nel film vagabonda con il padre venditore ambulante di bibbie.

Meno fortunati i successivi tre film girati in una manciata di anni, dal 1974 al 1976, Daisy Miller costruito su misura su Cybill Shepherd compagna di Bogdanovich, il musical rivisitato degli anni '30 Finalmente arrivò l'amore e la commedia Nickelodeon di nuovo interpretata da Tatum e Ryan O'Neal nel ruolo di un regista che ricorda Cecil B. De Mille.

A cavallo del 1980 gira Saint Jack e E tutti risero che, grazie all'interpretazione in entrambi di Ben Gazzara, risultano apprezzati dalla critica per il recupero dei codici dei film di gangster nel primo e la commedia sofisticata nel secondo dove appare anche Audrey Hepburn in uno dei suoi ultimi ruoli al cinema insieme alla nuova compagna del regista, Dorothy Stratten che verrà uccisa per gelosia dal marito alla fine delle riprese.Cinque anni dopo è la volta di Dietro la maschera, ispirato alla storia vera di una madre con un figlio deformato da una malattia, che consente a Cher di vincere al festival di Cannes il premio come migliore attrice. Nel 1990 torna al suo capolavoro The Last Picture Show realizzando, vent'anni dopo, il sequel Texasville sempre ambientato nel paese di Anarene in Texas. Sono gli anni in cui Bogdanovich lavora molto per la tv americana oltre che proseguire la sua attività mai abbandonata di critico prima di tornare nel 2001 con Hollywood Confidential a raccontare ancora una volta la Mecca del cinema e, infine, nel 2014, grazie all'aiuto dei suoi amici registi, Noah Baumbach e Wes Anderson, con la sua ultima e scoppiettante commedia degli equivoci Tutto può accadere a Broadway con Owen Wilson. Pedro Armocida

Marco Giusti per Dagospia il 6 gennaio 2022. Se ne va a 82 anni Peter Bogdanovich, il sofisticato regista di “Paper Moon”, “L’ultimo spettacolo”, “Saint Jack”, “What’s Up, Doc?”, ma anche attento critico e appassionato di cinema come dimostrano i suoi libri-intervistata dedicati a colonne come John Ford, Howard Hawks e, soprattutto, Orson Welles. 

Non ha mai avuto il sangue e la forza di Martin Scorsese o la grandezza narrativa di Francis Coppola o la genialità di regia di Brian De Palma, ma ha saputo inserire nel nuovo cinema americano degli anni ’70 molta Nouvelle Vague francese, un grande gusto e tutto quello che aveva appreso dalle sue buonissime frequentazioni da cinéphile. Nato a Kingston, NY, figlio di una pianista serbo e di una pittrice austriaca, Peter Bogdanovich studia recitazione alla scuola di Stella Adler, ma sviluppa presto una passione assolutamente appassionata per il grande cinema americano degli anni d’oro. Assieme alla moglie, la geniale scenografo e sceneggiatrice Polly Platt, decide di partire per Hollywood a metà degli anni ’60. Come Coppola e Scorsese, cresce alla corte di Roger Corman nelle produzioni di serie B. Corman lo prende come assistente regista di “Wild Angels”, gli produce l’opera prima, “Targets”.

Ma è solo con il suo primo vero film, “L’ultimo spettacolo”, tratto da un testo di Larry McMurtry, che riesce a imporsi all’attenzione internazionale. E’ una sorta di canto d’amore per il cinema che, al tempo stesso, lancia una serie di nuovi volti, Jeff Bridges, Ellen Burstyn, Randy Quaid, la bellissima Cybille Sheperd, per la quale lascerà la moglie Polly Platt, e recupererà un vecchio attore e stuntman dei film di John Ford, Ben Johnson, al quale darà nuova vita. Grazie a “L’ultimo spettacolo”, raffinato bianco e nero firmato da Robert Surtees, otterrà un biglietto per Roma per scrivere e dirigere un film prodotto da Sergio Leone. 

Ma i rapporti tra il John Ford italiano e il Bertolucci americano non andranno affatto bene e Leone rimanderà presto a casa il genio americano con un biglietto di sola andata. In America, Bogdanovich, gira dei grandi successi, “What’s Up, Doc?” con Barbra Streisand e Ryan O’Neal, omaggio allo slapstick e alle commedie di Howard Hawks, ma anche il più sentimentale “Paper Moon” con Ryan e Tatum O’Neil. Spinto dall’amicizia di Orson Welles tornerà in Italia per dirigere una sua versione di “Daisy Miller”con Cybille Shepherd e le musiche del nostro Angelo Francesco Lavagnino, già collaboratore storico di Welles. Tenterà anche il musical col fallimentare “At Long Last Love” con Burt Reynolds, Cybille Shepherd e il nostro Duilio Del Prete. Nella seconda metà degli anni ’70 non otterrà gli stessi successi con cui aveva iniziato. 

Funzionerà meglio il noir “Saint Jack” con Ben Gazzara rispetto a “Nickelodeon”, che non vediamo da tempo. Girerà il notevolissimo “E tutti risero”, ultima apparizione cinematografica di Audrey Hepburn, con un grande cast corale, dove troviamo anche la stellina Dorothy Stratton, che gli farà perdere la testa. Quando il fidanzato della Stratton, geloso, ucciderà la ragazza, Bogdanovich entrerà in una profonda depressione. Alla Stratten dedicherà un libro e un film. Girerà un film interessante ma sfortunato come “Mask” nel 1985, il sequel di “L’ultimo spettacolo”, “Texasville”. Si alternerà tra piccoli film, regie per le serie tv, anche notevoli come “I Soprano”, tornerà allo slapstick con “Tutto può accadere a Broadway”, al documentario cinefilo, “The Great Buster”, visto a Venezia qualche anno fa. Leggo che stava per iniziare un film, “One Lucky Moon” con la sua adorata Cybille Shepherd. Ma credo che sia rimasto allo stato di progetto.

Malcom Pagani per "Il Fatto Quotidiano" - ARTICOLO DEL 2 NOVEMBRE 2015. Peter Bogdanovich ha settantasei anni: “Wes Anderson, Quentin Tarantino e Noah Baumbach mi chiamano ‘nonnetto’. Gliel’ho concesso perché non mi dà nessun fastidio e perché in fondo e in superficie, i miei amici di oggi- affetti veri e costante fonte di ispirazione- sono loro. Quelli che avevo da ragazzo appartenevano a una generazione precedente: Orson Welles, Howard Hawks, James Stewart, John Huston. Tutti più grandi di me, più adulti, più vecchi. Tutti morti, purtroppo”. 

La voce roca, gli occhiali, il foulard. La vita romanzesca, la curiosità, i mestieri. Bogdanovich è stato attore, sceneggiatore, documentarista, giornalista, giocatore d’azzardo, Casanova, critico e regista di una ventina di film. 

In quello che nel 1971 gli restituì fama, onori e premi, L’Ultimo Spettacolo, il vento spazza le strade in bianco e nero di un’immaginaria cittadina del Texas, la radio avverte: “Arriva il Presidente Truman” e Ben Johnson, il Tector Gorch de Il Mucchio Selvaggio di Peckinpah, si guadagna l’Oscar come migliore attore non protagonista ammonendo da oste di frontiera i giovani avventori: “Non conosci il valore dei soldi: hai già speso dieci centesimi, ma non hai ancora fatto una colazione decente”. 

Con la cognizione del denaro, qualche problema lo ha avuto anche Bogdanovich. Ha guadagnato moltissimo, ancor di più ha dilapidato e dopo aver dichiarato bancarotta due volte -dice- ha smesso di preoccuparsi: “Oggi con i soldi ho un rapporto amichevole: ne vorrei di più, ma tutto non si può avere e non decido io. Da giovane era diverso, con i dollari non avevo nessuna confidenza perché i dollari semplicemente non c’erano. Poi arrivarono e così come vennero, sparirono. 

Avevo girato “…E tutti risero”- un lavoro in cui credevo molto- e mi incaponii nel volerlo distribuire a tutti i costi per conto mio senza intuire in che follia mi stessi imbarcando. In America i grandi studios dettano legge ed esercitano un potere che è saldamente e per intero nelle loro mani. Se decidono di cacciare il tuo film dalle sale per metterci il loro lo fanno. E tu sei fottuto. All’epoca, era il 1980, per “…E tutti risero” persi 5 milioni di dollari: proprio il valore della casa di Bel Air in cui vivevo”. 

Parafrasando il titolo della sua ultima vitalissima impresa, nessuno meglio di Bogdanovich sa che a Hollywood come a Broadway, tutto può accadere. Anche che a un autore cresciuto venerando in egual misura Frank Capra e John Ford venga offerta un’ultima favola. 

Un duello western fuori tempo massimo in cui tra un equivoco, un amante, una puttana trasformata in principessa e una nevrosi, con le armi della scrittura e della fantasia, si possa cavalcare nelle praterie del ritmo e dell’umorismo per il solo gusto del colpo di scena, del ribaltamento di orizzonte e del puro divertimento cinematografico. 

Per fargli realizzare “Tutto può accadere a Broadway”, si sono mobilitati in tanti. All’aiuto di Wes Anderson e Quentin Tarantino (con Tatum O’Neal, Cybill Shepherd e Michael Shannon, Quentin recita anche in un piccolo ruolo) si sono aggiunti altri complici. Un fedele sodale di Bogdanovich come Owen Wilson -molti bianche notti divise con il maestro per santificare la maratona di Breaking Bad: “Ore spese bene, non è forse un capolavoro?” e poi in ordine sparso, Imogen Poots, Jennifer Aniston, Colleen Camp, Rhys Ifans.   

Un bel gruppo.

Nel film ci sono moltissimi amici. Mi hanno incoraggiato e permesso di tornare bambino.

Lei è figlio di immigrati giunti A New York negli anni ’30. Ha vissuto un’infanzia difficile? 

Grazie a due genitori che hanno saputo incoraggiare qualsiasi mia inclinazione artistica, ho avuto una bellissima infanzia. Erano severi, ma molto stimolanti. 

Sognava di diventare regista?

Fino a 13 anni per me esisteva solo il cinema. A indirizzarmi verso altri palcoscenici fu mia madre. “Vai a Broadway, c’è il teatro, è bellissimo”. Io non volevo saperne. Lei insistette. Mi obbligò. E allo spettacolo, uno spettacolo di livello molto, molto medio, andai. 

Che impressione le fece Broadway? 

Il teatro mi colpì moltissimo. Amai a tal punto l’atmosfera che per anni, ogni fine settimana, tornai regolarmente a Broadway. Mia madre come sempre aveva avuto ragione. 

Di suo padre che ricordi ha?

Era un pittore. Un artista che nel nostro appartamento di New York dipingeva ogni giorno. Sono cresciuto circondato dai colori e dalle composizioni. Era artista mio padre ed erano tutti artisti, chi più, chi meno -anche gli amici dei miei genitori.

Artisti squattrinati? 

I miei erano arrivati in America dall’Austria e dalla Serbia e non avevano molti  soldi, ma con qualche miracolo li trovarono per mandarmi in un’ottima scuola e per iscrivermi al campo estivo dove potevo frequentare i corsi di recitazione. Più che il regista, da giovane sognavo di fare l’attore. Per un breve periodo ci ho anche provato. 

Sentiva di avere la vocazione?

In casa c’era una malinconia di fondo, una perenne tristezza che avvertivo ma di cui non conoscevo le ragioni. Le scoprii quando avevo 8 anni. 

E cosa scoprì? 

Che prima di emigrare, i miei genitori avevano avuto un figlio in Europa e che quel figlio, Anthony, era morto in un incidente all’età di 18 mesi. 

Sarebbe stato suo fratello.

I miei genitori erano stati investiti da una tragedia e la mia nascita era stata un modo per lenirla. Cercavano leggerezza. Così affinai l’umorismo e la passione per la commedia allo scopo di farli ridere. È nato tutto così. 

In ambito cinematografico è stato giornalista, critico, attore e poi regista. Cosa l'ha spinta a passare da un ruolo all'altro? 

A vent'anni firmai la regia del mio primo spettacolo. Poi arrivò il cinema. Conoscevo bene gli attori, avevo qualche rudimento di regia. Volevo proprio “farli”, i miei film. Pensavo che i miei talenti bastassero a guidarmi con facilità fino a Hollywood e mi sbagliavo. Fui costretto a dimenticare le sicurezze, a fare i conti con la realtà, a inventarmi altro.

E cosa si inventò? 

Quando nessuno pensava minimamente di offrirmi un’occasione, me la offrii da solo e mi presentai a Los Angeles. Era il ‘64. Il primo a darmi una mano fu Roger Corman. 

Produttore mitologico con più di 60 titoli in carriera.

Mi sentivo pieno di agganci e di possibilità e soprattutto mi sentivo molto sicuro di me. Se non ci fosse stato Corman, io forse un film non lo avrei mai girato. L’azzardo di farmi esordire se lo assunse lui. 

Un buon investimento. 

Avevo già diretto 5 o 6 spettacoli a teatro, presi la mano molto in fretta. 

Se non altro al cinema, da spettatore, era stato spesso. 

Tra i 12 e i 32 anni ho visto, catalogato e recensito non meno di 4.000 film. È stata la mia scuola, il mio modo-empirico ed entusiasta- di imparare dagli altri. 4.000 schede battute con la macchina da scrivere sulle quali annotavo anno di produzione, regista, attori e-ovviamente-le mie osservazioni e le mie critiche.  

Ha mantenuto l’abitudine? 

Non più. Ma le ho conservate tutte. Mi sono servite. Le ho consultate e- quando serviva- anche aggiornate. Ho continuato ad andare al cinema, ma non con la stessa maniacalità che a 15 anni mi portava in sala 3 volte al giorno.

Per mancanza di tempo? 

Perché i film che fanno oggi non mi sembrano poi così interessanti. A me piacciono quelli sulla gente. Film di volti, emozioni e caratteri che non poggiano la loro forza sugli effetti speciali. I registi di oggi fanno film sulle macchine (nda: Bogdanovich dice letteralmente “sulla carrozzeria”) ed è tutto un inseguimento, un rodeo violento, una fuga fracassona, una gara all’effetto speciale. Niente che abbia veramente a vedere con le persone e con la vita vera. 

Non le piacciono gli effetti speciali?

Sembra che vogliano dimostrare di poter fare qualunque cosa con gli effetti speciali, ma io dico: chi se ne frega degli effetti speciali. Voglio le persone come nei film di Renoir o di John Ford, non L'uomo ragno o I Fantastici 4. Non so che farmene di tutti questi supereroi. 

Ricorda l’esatto momento in cui capì di avercela fatta? 

Non lo capisci mai. Il successo arrivò molto in fretta accompagnato da un’aria strana e indecifrabile. Prima che uscisse L’ultimo spettacolo avrei dovuto dirigere Steve McQueen in Getaway, poi girato da Peckinpah. Lavorai molto all’idea e proprio questo progetto incompiuto accese l'interesse di Barbara Streisand nei miei confronti.

Streisand fu la sua protagonista in “Ma papà ti manda sola?”. 

Nell’anno dominato da “Il Padrino”, mi ritrovai con “L’ultimo spettacolo” e “Ma papà ti manda sola?” nella top ten di Variety. Cambiò tutto. Nel cinema accade spesso. Ho avuto successo e ho vissuto momenti di grande difficoltà economica e professionale. All’inizio degli anni ’90 un film non voleva farmelo fare più nessuno.

Come ha gestito il successo?

Continuando a lavorare. Facevo 3 film che andavano bene e poi incappavo in tre disastri: nel lungo periodo c'era uno strano equilibrio. Con il tempo capii che ero stato eterodiretto, che Hollywood cominciava ad impormi tante cose a iniziare dalle proprie star. Rinunciai agli attori che avrei voluto dirigere, all’uso del bianco e nero e cedendo di qua e di là, lentamente, rinunciai anche a me stesso. Ero molto infelice. Anche del risultato di  un paio di film girati a metà degli anni ’70, poco dopo “Paper Moon”. “Finalmente arrivò l'amore” e “Vecchia America” non erano due buoni film. Così mi presi 3 anni sabbatici. Tre anni per riflettere e tornare alle origini. E venne fuori “Saint Jack”, realizzato con pochissimi soldi.

I tre anni le servirono? 

Ridiedi lustro alla mia carriera, ma soprattutto capii che dovevo fare a modo mio e non sottostare alle regole altrui. Due dei miei miglior film “…E tutti risero” e “Saint Jack” sono stati girati uno dopo l'altro con questo spirito: la ribellione al compromesso. Poi arrivò la tragedia di Dorothy e per me si spalancarono le porte dell'inferno. 

Dorothy Stratten era la sua compagna. Un ex Playmate di sconvolgente bellezza che lei aveva fatto recitare accanto a Ben Gazzara e Audrey Hepburn in “..E tutti risero”. Un grande amore nato sul set e interrotto dal marito di Dorothy, Paul Snider, il fotografo che la uccise per gelosia il 14 agosto 1980.

Entrai in un posto buio. Tremendamente buio. Passai tre anni a scrivere su Dorothy un libro che rappresentò un aiuto e un dolore allo stesso tempo. Sentivo il dovere di scrivere. Non sapevo esattamente cosa fosse accaduto con suo marito. Cominciai a parlare con chiunque sapesse qualcosa e misi in piedi un volume che somigliava a un'inchiesta. Scoprii cose che lei mi aveva nascosto e che se avessi saputo mi avrebbero forse permesso di proteggerla. 

Scrisse per arrivare alla verità? 

Scrissi per lei. Alla sua morte i giornali restituirono di Dorothy un'immagine superficiale. Si ricordavano solo della coniglietta di Playboy. Volevo dire al pubblico chi fosse veramente Dorothy. 

Anni dopo lei venne investito dalle critiche quando sposò la sorella di Dorothy, Louise Beatrice Stratton, una ragazza che esattamente come la sua compagna precedente era molto più giovane di lei.

Cary Grant una volta mi disse: “Ma sei matto? Non puoi andare a dire in giro che sei follemente innamorato! Smettila di dire a tutti che sei felice!” Quando gli domandai il perché, si spiegò: “Perché la gente è infelice e non ama: non potrà che giudicarti ed essere gelosa”. Ecco, mi è successo questo. Nell’amore per Louise non vedevo francamente niente di innaturale. C'era stato un naufragio: io e lei ci eravamo trovati sulla stessa zattera e ci eravamo stretti, amati e sposati. 15 anni dopo ci siamo separati, ma lei è ancora la mia migliore amica.  

Nel cinema lei ha conosciuto veramente tutti. Le chiediamo qualche fotografia iniziando da Alfred Hitchkock. 

Un grand’uomo. Poteva tenerti avvinto per ore su come aveva girato una scena o scelto un'inquadratura.

Jack Nicholson. 

Mi piace Jack. Per Bersagli, un mio vecchio film del ’68, organizzai una proiezione privata. Sui titoli di coda, il gelo. Non fiatò nessuno. Non un commento, un applauso, una critica. Il nulla. Sa chi venne da me? Jack. Fu generoso, ne avevo bisogno. 

Orson Welles. 

Non era un pessimista. Era buffo. Faceva ridere. Sapeva qualcosa di ogni cosa. E aveva fascino. 

Lei avrebbe dovuto concludere il suo The other side of the wind, Welles le aveva chiesto di finirlo se gli fosse accaduto qualcosa.

É vero. Ci provo da trent'anni. Sapesse le volte in cui mi hanno detto: “Iniziamo lunedì!” oppure: “Partiamo il 5 Gennaio, il 7 Marzo o il 19 aprile”. E poi nulla. Il silenzio. Adesso dovremmo cominciare veramente, il 2 novembre, proprio domani. Ma non so più se crederci. 

Come mai? 

Quando qualcuno deve stanziare soldi per un progetto, qualcosa va sempre storto. E la questione dei diritti è rognosa. Chi mette i soldi non vuole complicazioni. Troppe volte mi è successo di essere alla vigilia delle riprese e all’ultimo momento arrivava qualcuno che diceva: “Fermi tutti, ho io i diritti di questo film.” Magari non era vero, ma intanto la macchina si inceppava. 

Si definirebbe un nostalgico?

Sono un nostalgico, sì. In Francia stanno scrivendo un libro su di me. Il titolo è: ‘Il cinema è elegia’. E secondo me è un titolo perfetto.

Ha rimpianti? 

Sa come diceva Sinatra in My Way? (nda Bogdanovich la canta) “Regrets, I've had a few, but then again too few to mention” -rimpianti, ne ho avuti, ma troppo pochi per ricordarli. Ecco, io non sono d'accordo. Altroché se ho dei rimpianti. Quello che non ho è la voglia di tirarli fuori. Cerco di non pensarci. Anche se dalle tre di notte, l’ora del lupo, non si scappa.

·        E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.

Marco Giusti per Dagospia il 4 Gennaio 2022. Se ne va il prolifico, vulcanico, infaticabile Mario Lanfranchi, 94 anni, produttore e regista di grandi spettacoli d’opera, di film eccessivi, ma assolutamente fuori dagli schemi, bizzarri e di generi totalmente diversi, dagli spaghetti western al Carolinia Invernizio movie, dal poliziottesco alla commedia sexy, perfino di prime serie tv e di decine e decine di caroselli.

Poteva vantarsi di essere stato il primo a portare l’opera lirica in tv, con una “Madama Butterfly” di Puccini nel  1956 per la RAI, dove incontrò e poi sposò il giovane soprano statunitense Anna Moffo, ma era già stato legato a cantanti famose come Renata Tebaldi e Virginia Zeani. O di aver ideato la programmazione del primo giorno di messa in onda della nascente RAI Due.

Ha passato gran parte della sua vita nella sua villa seicentesca a Santa Maria del Piano, eredità dalla madre, che veniva dai Balestra, nobili patrizi di Parma, d’ordine della Duchessa Maria Luigia. Nato a Parma il 30 giugno del 1927, figlio di Guido Lanfranchi, Sovrintendente del Teatro Regio di Parma, dopo la laurea in Giurisprudenza e gli studi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, fece il suo ingresso nel mondo della lirica al Teatro Morlacchi di Perugia e venne chiamato alla nascente RAI da Sergio Pugliese.

Fu allora che dette vita a “Madama Butterfly”. Ma firmò la regia anche di eventi sportivi in diretta, di commedie, di spettacoli importanti, come l’Eurovision o come la nascita dei nuovi studi televisivi delle sedi di Torino e di Napoli. Contemporaneamente per tutti gli anni ’50 seguitò a curare la regia di opere tra La Fenice di Venezia, il Teatro Verdi di Trieste.

Innovatore e pioniere in molti campi, arrivato a Roma con l’idea di fare cinema oltre alla tv, produsse nel 1962 un film di Gian Vittorio Baldi, “Luciano, una vita bruciata”, che rimase fermo in censura per cinque anni. 

Nel 1966, fondò col socio e amico Sandro Bolchi, anche lui uno dei primi pilastri della RAI, la B. L. Vision, che produsse la prima e unica serie di film di Totò, “Tuttototò”, 9 puntate dirette da Daniele D’Anza che andarono in onda tra il maggio e il luglio del 1967, più uno, “Totò a Natale”, che andò misteriosamente perduto e non venne mai mandato in onda. 

Ma la B.L. Vision produsse anche ben due serie dell’”Anna Moffo Show” per la Rai e, dal 1967 al 1972, molti sketch di Carosello. Bellissima è la serie “Una pagina del libro Cuore” per Ferrero diretta da Sandro Bolchi, dove ogni episodio racconta come fosse uno sceneggiato un racconto tratto dal libro di De Amicis.

Vi presero parte attori strepitosi, da Tino Carraro a Sergio Tofano, da Andrea Checchi a Laura Antonelli, seguita da “Un volto amico” nel 69-70, con apparizioni di Van Johnson, Tofano, Carraro. Fu con la B.L.Vision che Lanfranchi firmò nel 1967 anche la sua opera prima al cinema, lo stracultissimo western “Sentenza di morte”, da lui definito “western in odore wagneriano”, con Robin Clake, Enrico Maria Salerno, Richard Conte e addirittura un Tomas Milian albino, che non aveva un bel ricordo della lavorazione, “Mario Lanfranchi era un regista di opere liriche che quando veniva sul set sembrava camminasse sulla merda”.

Per tutto il periodo di Carosello, che andò avanti fino a metà degli anni ’70, alternò la produzione pubblicitaria, a quella teatrale e a quella cinematografica. Così alternò i caroselli per Liebig con Franca Valeri, da lui stesso diretti, o quelli per Mobil Oil, “I futuribili”, regie di Mario Bava, o per Cirio, diretti da Duilio Giovagnorio, ai suoi film.

Dopo due film-opera diretti per Anna Moffo, “La traviata”, 1968, e “Lucia di Lammermoor”, 1971, e dopo il divorzio con la cantante, diresse al cinema il divertente “Il bacio”, 1974, tratto da “Il bacio di una morta” di Carolina Invernizio con Maurizio Bonuglia, Eleonora Giorgi, Martine Beswick, il poliziottesco “Genova a mano armata”, 1976, con Tony Lo Bianco, Maud Adams, la commedia sexy “La padrona è servita”, 1976, con Maurizio Arena, Senta Berger, Bruno Zanin. Tutti film scritti, prodotti e diretti da Lanfranchi, mentre con la sua nuova società, la Intervision, produceva ancora pubblicità, perfino una serie per Cynar con Alberto Lionello diretta da Pupi Avati.

Nel 1981 diresse anche una sorta di musical veneziano che ebbe parecchi intoppi di lavorazione, “Venezia, carnevale, un amore” con Nureyev, Peter Ustinov, Carla Fracci e Charles Aznavour. Dall’inizio degli anni ’80 fino alla fine del secolo lo troviamo per 25 anni a Londra impegnato nella produzione di musical, anche importanti, “Lust”, “Chitty Chitty Bang Bang” e di testi teatrali. Ma gli prende una curiosa passione per la corsa dei levrieri e inizia a fare l’allevatori di cani di corsa. Torna in Italia, a villa di Lesignano de’ Bagni, nel 2005.

·        È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.

ANSA il 3 gennaio 2021) - È morto Gianni Celati, scrittore, critico letterario e traduttore. Aveva 84 anni e da tempo viveva a Brighton, in Inghilterra. Nato nel 1937 a Sondrio, laureatosi a Bologna con una tesi su Joyce, nel 1971 ha pubblicato il suo primo romanzo, Comiche.

Tra le sue opere, Narratori delle pianure (premio Cinque Scole e Grinzane-Cavour); Quattro novelle sulle apparenze; la trilogia Parlamenti buffi. Ha tradotto Bartleby lo scrivano di Melville, La Certosa di Parma di Stendhal, Poesie della torre di Hölderlin, I viaggi di Gulliver di Swift. "Scompare un grande intellettuale del Novecento", dice il ministro della Cultura Franceschini

Nel 1998 Celati ha ricevuto lo Zerilli-Marimò Prize for Italian Fiction dalla New York University. Tra le sue opere anche Avventure in Africa, Finzioni occidentali, Verso la foce, Fata Morgana, Sonetti del Badalucco nell'Italia odierna e Selve d'amore. Si è dedicato anche al cinema e ha girato film documentari come: Strada provinciale delle anime, Il mondo di Luigi Ghirri, Case sparse. Visioni di case che crollano

È morto Gianni Celati, nomade della letteratura.  Franco Marcoaldi su La Repubblica il 3 gennaio 2021. L'autore di "Comiche", il creatore del "vento volatore" e traduttore dell'Ulisse di Joyce aveva 84 anni. C'è qualcosa di terribilmente struggente nella morte di Gianni Celati, avvenuta la scorsa notte a Brighton, in Inghilterra. Perché ora che il suo cerchio vitale si è chiuso, a 84 anni, l'impressione è che immaginazione e realtà, scrittura e vita, si siano sovrapposte tra loro in un travaso reciproco e continuo. Baudelaire parlava di correspondances, alludendo a quella rete misteriosa di concordanze, analogie, coincidenze che percorrono segretamente le vicende di ciascuno: un'intuizione che sembra attagliarsi perfettamente all'esistenza di Celati.

Morto lo scrittore Gianni Celati, autore irrequieto e solitario. Il Corriere della Sera il 3 gennaio 2021.

È stato anche traduttore (nel 2013 la nuova versione dell’«Ulisse» di Joyce), critico letterario, documentarista e docente al Dams negli anni d’oro. Debuttò in letteratura nel 1971 con «Comiche»

Lo scrittore, traduttore, critico letterario Gianni Celati (1937-2022) nel 2001. Ha avuto tante vite Gianni Celati, scomparso questa notte nella sua Brighton — dove aveva scelto di vivere a partire dal 1989 —, all’età di 84 anni. È stato prima di tutto uno scrittore (l’esordio con Comiche pubblicato da Einaudi nel 1971 e ristampato da Quodlibet nel 2021), poi un traduttore (il suo nome è indissolubilmente legato a quello di James Joyce: nel 2013 la sua nuova traduzione per Einaudi dell’Ulisse), un critico letterario, un autore di documentari, un docente universitario (insegnò letteratura angloamericana negli anni d’oro del Dams di Bologna). Fra i suoi lavori: Narratori delle pianure (Feltrinelli, 1985), Verso la foce (Feltrinelli, 1988, 1992), Fata Morgana (Feltrinelli, 2005), Vite di pascolanti (Nottetempo, 2006).

Morto Gianni Celati, narratore, traduttore, viandante inquieto. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2022. Lo scrittore scomparso a 84 anni a Brighton, in Inghilterra, dove viveva dal 1990. Era stato anche critico, documentarista, professore. L’esordio nel 1971 con «Comiche». Nell’introduzione al Meridiano uscito nel 2016, Marco Belpoliti ci fa capire bene il paradosso inquieto di Gianni Celati, definendolo il più letterario degli scrittori italiani contemporanei e insieme quello che più di tutti si è divertito a fare lo sgambetto alle cerimonie della lingua letteraria, considerato che la nostra lingua letteraria è una delle più cerimoniose e insopportabili che ci siano in natura. Quel volume, di quasi duemila pagine, raccoglie una storia lunga quarant’anni, certamente una delle più coerenti e contraddittorie, ma anche delle più originali del dopoguerra. A cui va aggiunto il saggista, libero lettore-vagabondo di London, di Melville e di Poe, ma anche di Rabelais, di Stendhal, di Breton, di Céline e di Perec, l’amante di Ariosto e di Boiardo. E il traduttore di Swift, dello stesso Céline e soprattutto dell’Ulisse di Joyce, di cui vuole recuperare il profondo senso acustico-musicale molto più che le (ipotetiche) connessioni logiche.

Siamo sempre nel paradosso, con Celati, morto la notte tra domenica e lunedì a Brighton, in Inghilterra, dove viveva dal 1990, in una sorta di esilio volontario come fu quello di Luigi Meneghello, sempre comunque in fuga dalla vita verso la letteratura, estraneo al mondo che gli è toccato di vivere, un po’ come i suoi personaggi. A partire dalle strampalate figure che mise in scena nei quattro romanzi esuberanti della prima fase, cioè degli Anni 70 (da Comiche del 1971 a Lunario del paradiso del 1978): è il Celati comico che richiedeva al lettore, come scrisse uno dei suoi primi estimatori, Angelo Guglielmi, più che un’intesa intellettuale, la stessa «partecipazione fisica» che si attiva di fronte al cinema muto. Di una «lingua di pure carenze», ma in realtà iper-espressiva, parlò Calvino, suo amico e promotore editoriale presso Einaudi. E infatti si rideva come pazzi, leggendo le avventure di Guizzardi, detto Danci, un giovanotto vittima e artefice istrionico del proprio vittimismo, aspirante «rappresentante estero», ma incapace di tutto e destinato, una volta fuggito dalla casa dei genitori, a farsi bersaglio di ogni prevaricatore, pazzo, cialtrone, fantasma incontrato nella via, tra cui spiccano magnifiche donne, libidinose, violente, soccorritrici, dall’aguzzina Ida Coniglio alla diletta maestra Frizzi. C’è chi ha scritto, giustamente, che questo Celati che narra gli emarginati e i deliranti metteva insieme Pinocchio e Beckett. In realtà, Celati è un paradosso anche se osservato alla luce del neo-sperimentalismo tardivo del tempo (da lui sfiorato), accostabile solo al grande Luigi Malerba del Pataffio e de Il protagonista, e come lui, sul piano della geografia letteraria, definibile «scrittore delle pianure», cioè ispirato alla tradizione giocosa e rocambolesca dell’epica cavalleresca, o al filone dei Folengo e dei Ruzzante: esperienze di poetica orale e multilingue che poi con il concorso di Ermanno Cavazzoni (ma anche di Maurizio Salabelle, Ugo Cornia, di Stefano Benni, di Paolo Nori, di Daniele Benati) daranno vita a una notevole iniziativa editoriale ormai pressoché dimenticata come la rivista «Il semplice», edita da Feltrinelli tra il 1995 e il 1997.

Nato a Sondrio nel 1937 da famiglia ferrarese, la madre sarta e il padre intemperante impiegato della Banca d’Italia ma sostanzialmente perditempo e attaccabrighe, dopo un’infanzia burrascosa e girovaga (che si ritrova, neanche troppo trasfigurata, nei romanzi comici), Celati si identifica negli Anni 70 con Bologna. A Bologna si è laureato con una tesi su Joyce e al Dams, dopo essersi avvicinato alle sperimentazioni teatrali di Giuliano Scabia, insegnerà letteratura inglese e americana. Sono gli anni delle traduzioni da Swift e da Céline, dei saggi di Finzioni occidentali e di Alice: «Le mie lezioni — ricordava — erano abbastanza frequentate. Molti le seguivano per passatempo, come andare a un numero di varietà; altri invece venivano per giudicare quello che dicevo secondo i canoni dell’indottrinamento politico». Il seminario su Lewis Carroll e sulla letteratura vittoriana, proprio nel momento in cui Alice era diventata il simbolo della controcultura americana, prese il volo e divenne di moda. I materiali di quel laboratorio, pubblicati da Andrea Cortellessa nel 2007, danno l’idea del lavoro politico di Celati (politica che comprendeva eros, musica, psicanalisi, cinema, teatro…) e insieme della sua estraneità rispetto a ogni cliché ideologico in voga.

La seconda fase, quella che si inaugura con gli Anni 80, cioè quella del Celati sempre più errante (verso la Francia, il Senegal, il Mali, la Mauritania, la Germania, la Svizzera), è una lunga e imprevista stagione. Sempre lo «scrittore delle pianure», ma inteso in un senso diverso e quasi il rovescio speculare del primo: abbandonata la carica ludica e stralunata, è una vena nuova che si alimenta di una malinconia, a tratti nera, sorprendente per chi conosceva Guizzardi e i suoi psicotici compagni di sventura. La sua prosa diventa quasi dimessa, breve, paratattica, cronistica, visiva e visionaria nel senso di lievemente allucinata, ma il soggetto rimane, come nell’esperienza fluviale comico-paranoica, contemporaneamente dentro e fuori dalle cose: l’ispirazione viene sempre dal camminar-vagabondare, partendo dalla Valle Padana con i racconti di Narratori delle pianure, che nel 1985 segna la svolta, fino a spingersi verso luoghi più esotici. Avventure in Africa, del 1998, è un diario di viaggio che registra il tentativo fallito di fare un documentario sui guaritori dogon subsahariani.

Vagabondare e riflettere sempre, fare del racconto di viaggio un racconto filosofico che sembra mirare alla descrizione talvolta cedendo la voce e lo sguardo a personaggi sperduti e improbabili incontrati nel cammino, e fuoriuscendo dunque dalla descrizione e persino dalla letteratura. Dopo le Quattro novelle sulle apparenze, il titolo più significativo e autorappresentativo è Cinema naturale, del 2001, che contiene nove racconti scritti nell’arco di un ventennio e continuamente riscritti: «Per vedere che cosa succede. Perché scrivendo o leggendo dei racconti si vedono paesaggi, si vedono figure, si sentono voci: è un cinema naturale della mente...». Nel 1981 Celati aveva incrociato il lavoro del fotografo reggiano Luigi Ghirri, che sarebbe diventato sua «figura guida», amico e compagno di avventure narrative, visive, intellettuali, di discussioni, ritratti e autoritratti. All’amico, morto improvvisamente nel 1992, Celati avrebbe poi dedicato un film tra «fotografia e amicizia».

Da cinquantamila.it - la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Sondrio 10 gennaio 1937. Scrittore. Tra i suoi libri: Comiche (1970), Le avventure di Guizzardi (1972), Lunario del paradiso (1978), Narratori delle pianure (1985), Verso la foce (1989), Avventure in Africa (1998), Conversazioni del vento volatore (Quodlibet, 2011), Passar la vita a Diol Kadd (Feltrinelli, 2011), Cinema naturale (Feltrinelli, 2012), Fata Morgana (Feltrinelli, 2013), Selve d’amore (Quodlibet, 2013). Con i racconti Vite di pascolanti (Nottetempo) vinse il premio Viareggio 2006. 

È autore di traduzioni di Celine, Melville, Stendhal, Swift, Twain, London, Barthes, Holderlin ecc. «Quando vivevo a Parigi e traducevo Céline imparai l’argot, la lingua della mala e delle puttane, andavo nei bistrot a chiedere alla gente il significato dei vari termini» [Luigi Mascheroni, Grn 6/3/2013].

Nel marzo 2013, dopo oltre sette anni di lavoro, è uscita una sua nuova traduzione dell’Ulisse di James Joyce: «Una fatica quotidiana senza fine. Dalle sei del mattino alle sei di sera. Sul tavolo avevo dizionari di tutti i tipi: irlandese, gaelico, inglese, latino. Modi di dire appresi in campagna o in città. E in tutto questo caos, nel quale non so quante volte mi sono disperato, ho sentito che dovevo arrivare fino in fondo» (ad Antonio Gnoli) [Rep 3/3/2013].

Ideatore della rivista Semplice e del gruppo i Lunatici che portano avanti un rituale nato nei primi anni novanta: la lettura ad alta voce: «Questa cosa si è formata a poco a poco. Intendo questa cosa del leggere ad alta voce, che deve essere qualcosa che riguarda tutto il corpo. Non si legge ad alta voce per far bella figura. È stata un’esperienza bellissima, quella del Semplice. Facevamo incontri che duravano anche dodici ore, tutte passate a discutere» [Francesco Borgonovo, Fog 30/6/2012].

Una forte propensione allo spostamento: «Per anni, l’unica felicità, o se si preferisce l’unico sollievo, è stato quello di partire, salire su un treno, andare altrove» [Emanuele Trevi, Fog 3/12/2011].

Ha sempre camminato e ha fatto di quest’attività uno degli elementi importanti della sua persona. «Ho bisogno di passare almeno due ore al giorno camminando. Ho capito che il modo giusto per scrivere è quello di stancarsi tanto per far sì che le parole vadano avanti a modo loro» [Marco Belpoliti, Sta 18/9/2011].

Ha vissuto in Francia, in Tunisia, in America. Oggi «vive appartato in Inghilterra a Brighton, dove è andato a risiedere parecchi anni fa, dopo aver lasciato l’insegnamento universitario a Bologna. Da allora manda rari, ma precisi segnali: una traduzione, una prefazione, un libro di racconti, un romanzo, ma anche film. 

Ne ha girati cinque, documentari passati in televisione alla sera tardi, e che purtroppo hanno visto in pochi. Come ha detto qualcuno, Celati è uno scrittore che ci “fa guardare un racconto con un altro racconto”. Il che significa che si muove dentro la dimensione narrativa, ne definisce i confini, eppure cerca sempre di uscirne, e in questo modo produce ogni volta un nuovo racconto.

Gianni Celati è lo scrittore più letterario che vi è oggi in Italia, e al tempo stesso è quello che ne mette in discussione radicalmente il mito, ne mostra tutti i limiti. Celati ha sempre dato molta importanza alle parole, al linguaggio, alla tonalità del fraseggio» (Marco Belpoliti).

«La disgrazia della letteratura è di essere stata presa in mano violentemente dai cosiddetti esperti, i quali hanno l’idea che essa esista in generale, come fenomeno, e non come fatto vario e sempre indecidibile. Gente come Claudio Magris o Umberto Eco incarna quello che sarà l’assassinio della letteratura».

Sposato con Gil (seconda moglie).

Una delle voci più rappresentative degli anni ’70. Morto Gianni Celati, addio allo scrittore e traduttore: aveva 84 anni. Redazione su Il Riformista il 3 Gennaio 2022.

Scrittore, traduttore e critico letterario. Gianni Celati si è spento a 84 anni in una casa di cura di Hove, vicino a Brighton, città inglese dove si era stabilito nel 1989 con la moglie Gillian Haley. La notizia della scomparsa è stata confermata all’Adnkronos dall’amico scrittore Daniele Benati, nella cui casa di Reggio Emilia Celati era ospite ogni volta che tornava in Italia.

Da tempo malato, lo scrittore era caduto accidentalmente nello scorso settembre, fratturandosi il femore e quindi necessitando di un ricovero ospedaliero. La sua è stata una delle voci più rappresentative dei fermenti culturali che hanno attraversato la società italiana dagli anni Settanta in poi.

Nato a Sondrio il 10 gennaio 1937, Giovanni Celati, detto Gianni, dopo aver trascorso l’infanzia e l’adolescenza in provincia di Ferrara, si laurea a Bologna con una tesi su James Joyce. Scrive articoli per numerose riviste come “Lingua e stile”, “Il Verri”, “Il Caffè”. Nel 1971 pubblica per Einaudi il suo primo romanzo, “Comiche”. Tra le sue opere più note edite da Feltrinelli: “Narratori delle pianure” (1985, premi Cinque Scole e Grinzane Cavour).

E ancora la trilogia “Parlamenti buffi” (1989, premio Mondello 1990), “La banda dei sospiri. Romanzo d’infanzia” (1976), “Lunario del paradiso” (1978), “Avventure in Africa” (1998, premio Comisso), “Fata Morgana” (2005, premi Flaiano e Napoli), “Vite di pascolanti” (2006, premio Viareggio), “Bambini pendolari che si sono perduti” (2011), “Recita dell’attore Vecchiatto” (2013).

Celati ha inoltre curato per Feltrinelli la traduzione di numerose opere dall’inglese come “Bartleby lo scrivano” di Melville (1991), “La Certosa di Parma” di Stendhal (1993), “I viaggi di Gulliver” di Swift (1997). Si è occupato della trascrizione in prosa del poema di Matteo Maria Boiardo, “L’Orlando innamorato raccontato in prosa” (Einaudi, 1994).

Si è anche dedicato anche al cinema e ha girato film documentari come “Strada provinciale delle anime”, “Il mondo di Luigi Ghirri”, “Case sparse. Visioni di case che crollano”. La sua produzione narrativa è raccolta nel ‘Meridiano’ “Romanzi, cronache e racconti” a cura di Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri (Mondadori, 2016).

Il grande scrittore si è spento all'età di 84 anni. È morto Gianni Celati, trionfi e tumulti nel segno di Joyce. Giulio Cavalli su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Joyce l’aveva nella giovinezza e nel destino. Nella notte tra il 2 e il 3 gennaio è morto in una casa di cura di Hove, vicino a Brighton dove viveva con la moglie Gillian Haley, Gianni Celati. Aveva 84 anni e tra i suoi ultimi lavori c’è proprio la nuova traduzione dell’Ulisse di Joyce edito da Einaudi nel 2013. Giovanni Celati, detto Gianni, nasce a Sondrio nel 1937 da genitori ferraresi. Una vita di «tumulto, fatta di sbagli ma altresì di cose bellissime, di passioni travolgenti», spiegò in un’intervista ad Antonio Gnoli per Repubblica. Come quando appena finito il liceo conosce in un campeggio estivo a Marina di Ravenna una ragazza tedesca che vuole a tutti i costi rivedere: gli amici fanno un colletta per pagargli il viaggio ad Amburgo dove si trattiene per nove mesi grazie al denaro spedito dal fratello Gabriele.

Joyce fu anche il soprannome che a Celati aveva dato, quando era studente universitario a Bologna, il suo professore Carlo Izzo. E proprio su Joyce sarà la sua laurea in letteratura inglese. Negli anni Sessanta comincia a scrivere articoli per alcune riviste letterarie e pubblico le sue prime traduzioni tra cui Futilità di William Gerhardie e Favola della botte di Jonathan Swift. Nel 1971 esordisce con il romanzo Comiche per Einaudi, nella collana sperimentale “La ricerca letteraria”, con una nota di Italo Calvino con cui Celati condivideva una feconda amicizia: «Quando Calvino veniva in Italia da Parigi, per andare a lavorare da Einaudi, una settimana al mese, mi telefonava tutti i giorni e ci scambiavamo idee. Io avevo la borsa di studio a Londra e viaggiavo con una macchina scassata: un camion mi aveva tamponato e la portiera mi arrivava fino alla spalla. Ma con quella macchina andavo avanti e indietro una volta ogni tre o quattro mesi e, passando da Parigi, mi fermavo a dormire da Calvino», raccontò a Nunzia Palmeri.

Sempre per Einaudi pubblicò Le avventure di Guizzardi (1972), La banda dei sospiri (1976) e Lunario del paradiso (1978) che si contraddistinsero per una voce che si scostava dai canoni scolastici di quegli anni. Le tre opere vennero in seguito raccolte nella trilogia Parlamenti buffi (Feltrinelli, 1989, premio Mondello 1990). Tornato in Italia si dedica all’insegnamento al Dams di Bologna con la cattedra di letteratura angloamericana (annoverando tra i suoi allievi Pier Vittorio Tondelli, Enrico Palandri, Andrea Pazienza e Freak Antoni) riprendendo anche l’attività di critico, studioso e traduttore di opere di James Joyce, Mark Twain, Joseph Conrad, Roland Barthes. Nel 1981 su invito del fotografo Luigi Ghirri collabora a una ricerca sul paesaggio italiano post- industriale. Nel 1985 torna alla narrativa con i racconti Narratori delle pianure edito da Feltrinelli con un cambio di stile che dall’intemperanza stralunata delle prime opere passa a una lingua apparentemente più semplice, legata all’oralità del territorio.

Abbandonata l’università per dedicarsi interamente alla scrittura Celati si trasferisce a Brighton, in Inghilterra affrontando lunghi viaggi in Italia e in Africa, pubblicando taccuini di viaggio come Avventure in Africa (Feltrinelli, 1998, premio Comisso), e poi racconti come Cinema naturale (Feltrinelli, 2001, Premio Chiara), Fata Morgana (Feltrinelli, 2005, Premio Selezione Campiello, Premio Napoli, Premio Flaiano) e Vite di pascolanti (Nottetempo, 2006, premio Viareggio). Celati si è dedicato anche alla trascrizione di grandi classici (L’Orlando Innamorato raccontato in prosa, Einaudi, 1994; Le disgrazie di Ulisse. Due canti dell’Odissea raccontati in prosa, 2000) e ha spaziato come autore e regista in film documentari come Strada provinciale delle Anime (1991), Il mondo di Luigi Ghirri (1999), Case sparse. Visioni di case che crollano (2003) e Diol Kadd. Vita, diari e riprese in un villaggio del Senegal (2010). Scriveva Celati che «ognuno corre dietro a certe illusioni e nessuno può farne a meno, perché tutto fa parte d’uno stesso incantesimo». La sua opera nel 2016 è stata raccolta nella collana “I Meridiani” di Mondadori curata da Marco Belpoliti e Nunzia Palmieri.

Giulio Cavalli. Milano, 26 giugno 1977 è un attore, drammaturgo, scrittore, regista teatrale e politico italiano.

Giampiero Mughini per Dagospia il 4 gennaio 2021. Caro Dago, è tutta la mattina che non riesco a far nulla. Ossia non riesco a leggere altro che non siano gli articoli in morte di Gianni Celati scritti da valorosi giornalisti culturali quali Paolo Di Stefano, Ernesto Ferrero, Luca Sebastiani. E anche se forse l’articolo che più sarebbe piaciuto a Celati, che gli più gli si addice, è quello di Camillo Langone sul “Foglio”, un articolo che gli invidio molto. Di parlare di Celati io non ho nessunissimo titolo, e perché non lo ho mai sfiorato personalmente in una delle sue tante vite, e perché ho letto pochissimo della sua variegata produzione. (Meno che mai ho visto uno dei suoi film/documentari.)

E difatti ho passato la mattinata a cercare su Amazon quelli tra i suoi libri che voglio leggere al più presto. Ho anche telefonato ai miei amici della libreria antiquaria Pontremoli, che mi dicessero quali delle prime edizioni di Celati hanno sui loro scaffali, e anche se su questo versante dieci o quindici anni fa mi ero premunito, e avevo acquistato in prima edizione i due primi libri einaudiani di Celati, “Comiche” e “Le avventure di Guizzardi”, due gioielli originalissimi della recente letteratura italiana.

C’è che da tanti anni Celati ce lo avevo qui in mezzo alla gola, nel senso che lo avevo intuito da tempo quanto fosse stato speciale e imparagonabile a nessun altro. Lo avevo capito da come lo raccontano quelli che sono stati suoi allievi al Dams di Bologna, non solo Pier Vittorio Tondelli e Enrico Palandri ma anche quell’altro tipino coi controfiocchi che risponde al nome di Roberto “Freak” Antoni, uno che il professor Celati lo mette in testa ai suoi prediletti nella Bologna della metà dei Settanta.

E poi c’è che da traduttore dall’inglese e dal francese Celati aveva scelto autori di quelli che ognuno di noi ce li ha impressi sulla carne, a cominciare da Louis-Ferdinand Céline, lo scrittore il cui antisemitismo pazzoide non toglie nulla di nulla al suo genio e alla sua scrittura. Ho letto sulla “Stampa” un testo di Celati (pubblicato originariamente sul numero a lui dedicato una decina d’anni fa da una rivista) che ha per titolo “Tutta la mia vita in duemila battute”. Una vita strepitosa _ viaggi in mezzo mondo, docente in una università americana, dal 1990 viveva in Inghilterra perché “L’Italia invivibile” _ raccontati in duemila battute, e laddove gli scrittori qualunque ci mettono venti pagine a raccontare la più anonima delle infanzie. Dio che personaggio. E con quella sua faccia da attore, non certo da scrittore. Li aspetto febbricitante i suoi libri che ho appena ordinato da Amazon.

Marco Belpoliti per la “Repubblica” il 5 gennaio 2022. In un breve testo intitolato ‘’Esercizio autobiografico in 2000 battute’’ Gianni Celati scrive: «Nato nel 1937, a Sondrio, due passi dalla Svizzera. Sei mesi di vita a Sondrio. Padre usciere di banca, litiga col proprio direttore. Padre condannato per punizione a trasferimenti da un capo all'altro della penisola a proprie spese. Famiglia viaggiante. Tre anni a Trapani. Sette anni a Belluno. Tre anni a Ferrara. Liceo a Bologna.  

Fine della vita in famiglia. Viaggio in Germania e quasi matrimonio. Ritorno a Bologna, studi di linguistica. Passa il tempo. Servizio militare. Grazie a un amico psichiatra si concentra a studiare le scritture dei matti. Nevrosi da naja, ospedale militare. Tesi di laurea su Joyce. Epatite virale, isolamento. Raptus di scrivere come un certo matto che lo appassiona. Calvino legge il testo su una rivista, propone di farne un libro. Passa il tempo». 

In queste righe, e nelle seguenti dell'autobiografia, c'è tutto Gianni Celati: il carattere imprevedibile, l'attitudine al viaggiare, la vocazione letteraria imprevista, e poi il suo modo di sentire il tempo: il tempo che passa: a volte in modo vorticoso come nei suoi primi libri, Comiche del 1971 e Le avventure di Guizzardi del 1972, e a volte in modo lento, come in quel capolavoro che è Narratori delle pianure .  

Pubblicato nel 1985 lo impose all'attenzione di un pubblico più vasto, per quanto già alla fine degli anni Settanta Gianni Celati era una leggenda presso i lettori, come tra i critici e i giovani scrittori. Era stato Italo Calvino, affascinato da quel giovanotto di famiglia ferrarese, a pubblicarlo nella collana sperimentale di Einaudi diretta da Manganelli e Sanguineti con una sua postfazione, che subito Celati gli aveva contestato: «Tutto quello che scrivo lo faccio con la voglia di correr dietro o preparare la bagarre: niente mi interessa come la bagarre, quando tutti si picchiano, tutto scoppia, crolla, i ruoli si confondono, il mondo si mostra per quello che è, cioè isterico e paranoico, e insomma si ha l'effetto dell'impazzimento generale».  

In quella lettera al suo mentore c'è tutta la personalità di Celati - la bizzarria, l'insofferenza per le accademie letterarie, la necessità d'autenticità - e la sua poetica - l'amore per l'eccentrico e il diverso, per tutto ciò che è letteratura senza apparire mai come tale. Le ragioni per cui Gianni Celati è uno degli scrittori più importanti della seconda metà del XX secolo, e anche del XXI, sono diverse. 

La sua ricerca presenta una originalità e una serie di cambi di passo davvero unici pur in una encomiabile coerenza di fondo. L'esordio con i romanzi della comicità - dopo Comiche, Le avventure di Guizzardi e La banda dei sospiri - presentano una messa in scacco del linguaggio normato, l'irruzione della follia, del parlato di dementi e bambini, il trionfo d'una slapstick padana.  

Poi segue quello che è il vero inizio della narrativa giovanile in Italia, Lunario del paradiso (1978), dove un narratore quarantenne si traveste da giovanotto e racconta le sue avventure nell'Amburgo del Beatles in mezzo a bambine- fatine, truffatori e tedeschi ex nazisti. Un libro da cui discendono i romanzi di Enrico Palandri, Claudio Piersanti e Pier Vittorio Tondelli, suoi ascoltatori al Dams di Bologna, dove Celati realizza anche un libro collettivo con gli studenti, Alice disambientata: il Settantasette post-politico. 

Poi seguono sette anni di silenzio, in cui se ne va dall'Università, si trasferisce in Normandia e si mette a cercare una forma espressiva diversa: fotografia e cinema. Conosce Luigi Ghirri, che lo chiama a partecipare a Viaggio in Italia con i fotografi della nuova generazione. Ne usciranno tre libri: Narratori delle pianure, Quattro novelle sulle apparenze (1987) e Verso la foce (1988). 

Con il primo rinasce il genere narrativo italiano della novella: storie raccolte in giro per la valle del Po, un canzoniere letterario dotato di una grazia straordinaria; mentre con Verso la foce, racconto di vagabondaggi, inventa il viaggio anti-esotico per le zone deserte delle Valli di Comacchio, l'estremo lembo della provincia di Ferrara e il Veneto al di là del Po. 

Già questo basterebbe a fare di lui un autore unico nel nostro panorama letterario. Eppure l'inquietudine che lo abita lo spinge negli anni Novanta ad andare in Africa, dove ci racconta le sue avventure di viaggiatore postcoloniale; quindi imbraccia la macchina da presa e passa al cinema con un genere anche in questo caso inclassificabile: un po' documentario, un po' novella e un po' inchiesta, da Strada provinciale delle anime del 1991 a Visioni di case che crollano del 2002, e Diol Kadd del 2010, quest' ultimo ambientato in un villaggio del Senegal tra la gente di quei luoghi.  

Forse solo Pasolini aveva sperimentato questo passaggio dalla letteratura al cinema seppure in modo diverso. L'ultima parte della sua avventura letteraria consiste nella reinvenzione di un paese di fantasia, quasi un ritorno al passato, una serie di racconti raccolti sotto il titolo di Costumi degli italiani, con una lingua e uno stile ancora differente. 

E poi ci sono altre facce di questo autore che ha tradotto l'ultimo Céline e ci ha dato una nuova versione italiana dell'Ulisse di Joyce, e testi teatrali, fino alle poesie attribuite a personaggi di fantasia come il Badalucco. Senza parlare della produzione saggistica, che è di livello pari a quella di Pasolini e Calvino stesso, l'unico autore a cui in qualche modo può somigliare, un'opera che attende ancora di essere raccolta nel suo insieme. 

Eppure tutto questo non basta a dire chi sia stato Gianni Celati e quanto abbia contato per molti lettori e scrittori. Per la sua personalità così straordinaria è stato insieme un punto d'incrocio e una stella polare. Il suo modo di respingere il culto narcisistico dell'autore, la sua capacità d'ascolto, la spiccata attitudine a mettersi in dialogo con chiunque, fino alla scelta di essere un personaggio solitario. 

Si è traferito fuori dai nostri confini linguistici a Brighton, creando tuttavia intorno a sé piccole comunità di amici e di lettori. Tutto questo lo rende diverso da ogni altro autore della nostra letteratura degli ultimi cinquant' anni. Una grande perdita per tutti.

Raptus di scrivere come un matto che lo appassiona. Fonte: Wikipedia. Questo testo è tratto da Riga 40. Gianni Celati, a cura di Marco Belpoliti, Marco Sironi e Anna Stefi, Quodlibet, 2019. 

Nato nel 1937, a Sondrio, due passi dalla Svizzera. – Sei mesi di vita a Sondrio. – Padre usciere di banca, litiga col proprio direttore. – Padre condannato per punizione a trasferimenti da un capo all’altro della penisola a proprie spese. – Famiglia viaggiante. – Tre anni a Trapani. – Sette anni a Belluno. – Tre anni a Ferrara. – Liceo a Bologna. – Fine della vita in famiglia. – Viaggio in Germania e quasi matrimonio. 

– Ritorno a Bologna, studi di linguistica. – Passa il tempo. – Servizio militare. – Grazie a un amico psichiatra si concentra a studiare le scritture dei matti. – Nevrosi da naja, ospedale militare. – Tesi di laurea su Joyce. – Epatite virale, isolamento. – Raptus di scrivere come un certo matto che lo appassiona. – Italo Calvino legge il testo su una rivista, propone di farne un libro. – Passa il tempo. – Vita in Tunisia. – Matrimonio. – 

Prime traduzioni. – Bologna, impiegato in una ditta di dischi. – Studia logica con Enzo Melandri ma risulta incapace. – Borsa di studio a Londra 1968-70. – Pubblica libro. – Parte per gli u.s.a. – Due anni alla Cornell University. – Vita nel falso, tutto per darla da bere agli altri. – Passa il tempo. – Insegna all’università di Bologna. – Conosce un certo Alberto Sironi che lo mette a scrivere film falliti in partenza. – Altro libro. – Traduzioni. – Passa il tempo. – Quattro mesi tra California, Kansas e Queens. – 

Senso di non aver più la terra sotto i piedi, come uno partito in orbita. – Passa il tempo. – Parigi, rue Simon-le-Franc, un anno di convalescenza. – Torna a Bologna, di nuovo all’università. – Conosce Luigi Ghirri, fotografo. – Lavoro rasserenante con i fotografi. – Esplorazioni della Valle Padana. – Periodi a scrivere in giro. – Si trasferisce in Normandia. – Traduzioni. – Altro libro. – Con Daniele Benati, Ermanno Cavazzoni, Ugo Cornia, Marianne Schneider, Jean Talon fonda “Il semplice, Almanacco delle prose”. – 

Stati Uniti, Rhode Island, insegna sei mesi. – Passa il tempo. – Trasferimento in Inghilterra. – Comincia a fare documentari. – Viaggio in Africa occidentale con J. Talon. – Passa il tempo. – Altri documentari. – Tutto a monte, nessuna speranza, nessun timore. – Borsa Fulbright a Chicago. – In Africa, Senegal, a curarsi la testa. – Un anno a Berlino, borsa daad. – Film in Senegal, incapace di finirlo. – L’Italia invivibile. – Campa facendo conferenze. – È andata così. – Dal 1990 a Brighton, Inghilterra, con la moglie Gillian Haley.

·        È morto il giornalista Fulvio Damiani.

È morto Fulvio Damiani, giornalista politico del Tg1: ecco una sua intervista per le elezioni del '92. Aveva 87 anni, fu allievo di Giovanni Spadolini e Giovanni Sartori. CorriereTv il 2 gennaio 2022.  È morto, all’età di 87 anni, Fulvio Damiani, a lungo giornalista politico del Tg1. Nato a Firenze il 4 ottobre 1934, era una firma storica del giornalismo politico del Tg1. Si era laureato nel ’62 alla Facoltà di Scienze Sociali e Politiche «Cesare Alfieri» di Firenze, allievo di Giovanni Spadolini e Giovanni Sartori si è sempre interessato di politica nazionale già dal Giornale del Mattino dove ha iniziato la professione di giornalista. Ecco un estratto di una sua intervista Rai al portavoce del Psi, Ugo Intini, per le elezioni del 1992.