Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
Le profezie per il 2022.
I festeggiamenti di capodanno.
Il Primo Maggio.
73 anni dalla tragedia di Superga.
65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.
60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.
52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
51 anni dalla morte di Louis Armstrong.
50 anni dalla morte di Dino Buzzati.
49 anni dalla morte di Bruce Lee.
49 anni dalla morte di Anna Magnani.
45 anni dalla morte di Elvis Presley.
43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.
42 anni dalla morte di Steve McQueen.
40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.
40 anni dalla morte di Marty Feldman.
40 anni dalla morte di John Belushi.
40 anni dalla morte di Beppe Viola.
37 anni dalla morte di Francesca Bertini.
34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.
33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.
33 anni dalla morte di Olga Villi.
32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
31 anni dalla morte di Miles Davis.
30 anni dalla morte di Marisa Mell.
29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.
28 anni dalla morte di Moana Pozzi.
28 anni dalla morte di Kurt Cobain.
28 anni dalla morte di Massimo Troisi.
27 anni dalla morte di Mia Martini.
25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.
25 anni dalla morte di Gianni Versace.
25 anni dalla morte di Ivan Graziani.
24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.
24 anni dalla morte di Frank Sinatra.
23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
22 anni dalla morte di Antonio Russo.
22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
20 anni dalla morte di Layne Staley.
20 anni dalla morte di Alex Baroni.
20 anni dalla morte di Umberto Bindi.
20 anni dalla morte di Carmelo Bene.
19 anni dalla morte di Alberto Sordi.
19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
18 anni dalla morte di Ray Charles.
16 anni dalla morte di Alida Valli.
15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.
15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
14 anni dalla morte di Paul Newman.
14 anni dalla morte di Dino Risi.
13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.
12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.
10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.
10 anni dalla morte di Whitney Houston.
10 anni dalla morte di Lucio Dalla.
10 anni dalla morte di Piermario Morosini.
10 anni dalla morte di Renato Nicolini.
10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.
10 anni dalla morte di Gore Vidal.
9 anni dalla morte di Pietro Mennea.
9 anni dalla morte di Virna Lisi.
9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
8 anni dalla morte di Robin Williams.
7 anni dalla morte di Pino Daniele.
7 anni dalla morte di Francesco Rosi.
6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.
6 anni dalla morte di Lou Reed.
6 anni dalla morte di George Michael.
6 anni dalla morte di Prince.
6 anni dalla morte di David Bowie.
6 anni dalla morte di Bud Spencer.
6 anni dalla morte di Marta Marzotto.
5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.
5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.
4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
4 anni dalla morte di Luigi Necco.
3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.
3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.
3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.
3 anni dalla morte di Nadia Toffa.
3 anni dalla morte di Antonello Falqui.
2 anni dalla morte di Ennio Morricone.
2 anni dalla morte di Diego Maradona.
2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.
2 anni dalla morte di Gigi Proietti.
2 anni dalla morte di Ezio Bosso.
2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.
2 anni dalla morte di Kobe Bryant.
1 anno dalla morte di Lina Wertmüller.
1 anno dalla morte di Max Mosley.
1 anno dalla morte di Gino Strada.
1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.
1 anno dalla morte di Ennio Doris.
1 anno dalla morte di Paolo Isotta.
1 anno dalla morte di Franco Battiato.
I Beatles.
Duran Duran.
I Nirvana.
Gli ABBA.
I Queen.
Emerson Lake & Palmer.
I Simpson.
Il Maggiolino.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Avvocato…
Quelli che se ne vanno…
John Elkann.
Lapo Elkann.
I MORTI FAMOSI.
Vivi per sempre.
Le morti del Cazzo…
L’Eutanasia.
Il Necrologio.
E’ morto il giornalista Alessio Viola.
È morto il cantante Terry Hall.
E’ morto il regista Mike Hodges.
È morto lo storico Asor Rosa.
E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.
E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.
E’ morta la cantante Terry Hall.
E’ morto il produttore Alex Ponti.
Addio all’attore Lando Buzzanca.
E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.
È morto il fotografo Carlo Riccardi.
È morto il compositore Angelo Badalamenti.
È morto il cantante Ichiro Mizuki.
È morto Romero Salgari.
E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.
Morto l’attore Gary Friedkin.
E’ morta l’attrice Kirstie Alley.
Morto lo scrittore Dominique Lapierre.
E’ morto il pilota Patrick Tambay.
E’ morto il sarto Cesare Attolini.
E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.
E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.
E’ morto l’attore Brad William Henke.
E’ morto l’attore Frank Vallelonga.
È morto il politico Gerardo Bianco.
È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.
È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.
E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.
E’ morta la cantante e attrice Irene Cara.
Addio allo stilista Renato Balestra.
Addio al sarto Cesare Attolini.
Morto l’attore Mickey Kuhn.
È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.
E’ morto il cantautore Pablo Milanés.
E’ morta l’attrice Nicki Aycox.
Morto il filosofo Fulvio Papi.
E’ morto il regista Jean-Marie Straub.
E' morto il giornalista Gianni Bisiach.
E’ morto il cantante anni Nico Fidenco.
E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.
E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.
E’ morta la scienziata Alma Dal Co.
Addio all’industriale Vallarino Gancia.
È morto il musicista Keith Leven.
Morto il manager Luca Panerai.
E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.
E’ morta la musicista Mimi Parker.
È morto il musicista Carmelo La Bionda.
È morto il musicista Aaron Carter.
E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.
E’ morto il batterista Marino Rebeschini.
Morto il manager Franco Tatò.
Morto il manager Mauro Forghieri.
È morta la scrittrice Julie Powell.
È morto lo stuntman Holer Togni.
È morto il senatore Domenico Contestabile.
E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.
E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.
E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.
Morto il critico Marco Vallora.
Addio al critico Franco Fayenz.
E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.
E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.
Addio all’attore Ron Masak.
E’ morto il cantante Franco Gatti.
E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.
È morta la cantante Christina Moser.
E' morto l'attore Robbie Coltrane.
E’ morta Jessica Fletcher.
E’ morto il filosofo Bruno Latour.
E’ morta la cantante Jody Miller.
E’ morta la stilista Franca Fendi.
E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.
E’ morto l’industriale Armando Cimolai
E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz.
Morto lo storico Paul Veyne.
E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.
Morto il regista Franco Dragone.
E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.
Morto lo scrittore Jim Nisbet.
È morto il rapper Coolio.
Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.
Morto il comico Bruno Arena.
E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.
E’ morta l’attrice Anna Gael.
E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.
E’ morta l’attrice Kitten Natividad.
È morta la scrittrice Hilary Mantel.
È morta l’attrice Louise Fletcher.
E’ morto il tronista Manuel Vallicella.
E’ morto l’attore Henry Silva.
È morto il playboy Beppe Piroddi.
Morto l’attore Jack Ging.
È morta l’attrice Irene Papas.
E’ morto l’industriale Andrea Riello.
E’ morto il regista Jean-Luc Godard.
Morto il regista Alain Tanner.
Addio al giornalista Piero Pirovano.
E' morto il fotografo William Klein.
È morto lo scrittore Javier Marias.
E’ morto il giornalista Roberto Renga.
Morto il latinista Franco Serpa.
E’ morto l’attore Claudio Gaetani.
È morto il regista Just Jaeckin.
Morta la poetessa Mariella Mehr.
Morto lo scrittore Oddone Camerana.
E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.
Addio al radioastronomo Frank Drake.
E’ morto il cantante Drummie Zeb.
E’ morto il pittore Gennaro Picinni.
È morta l’attrice Charlbi Dean.
È morto Camilo Guevara.
E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.
Morto il giornalista Giulio Giustiniani.
L’addio al politico Mauro Petriccione.
E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.
Morta l’attrice Paola Cerimele.
E' morto il fotografo Tim Page.
Morta la scienziata Laura Perini.
È morto l’attore Enzo Garinei.
Addio al magistrato Domenico Carcano.
E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey.
E’ morto il comico Gino Cogliandro.
È morto il comico Vito Guerra.
È morta la comica Anna Rita Luceri.
È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.
E’ morta la stilista Hanae Mori.
È morto il regista Wolfgang Petersen.
E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.
È morto lo scrittore Nicholas Evans.
E’ morta l’attrice Robyn Griggs.
E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro.
Addio all’attrice Denise Dowse.
E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.
E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.
E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.
E’ morta l’attrice Anne Heche.
E’ morto il calciatore Claudio Garella.
È morto lo stilista Issey Miyake.
È morto l’attore Roger E. Mosley.
E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.
E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.
Morto l’attore Alessandro De Santis.
E’ morto l’attore John Steiner.
È morta l’attrice Nichelle Nichols.
E’ morto il giornalista Omar Monestier.
E’ morto l’attore Antonio Casagrande.
E’ morto il cestista Bill Russell.
Morto l’attore Roberto Nobile.
Morto il pittore Enrico Della Torre.
E’ morta la sciatrice Celina Seghi.
E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.
E’ morto lo scienziato James Lovelock.
E’ morto lo scrittore Pietro Citati.
E’ morto l’attore David Warner.
È morto l’attore Paul Sorvino.
Morto il regista Bob Rafelson.
E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.
E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.
È morto il linguista Luca Serianni.
È morta la cantante Shonka Dukureh.
È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.
E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
È morta Ivana Trump.
È morto il giornalista Eugenio Scalfari.
E’ morto il mago Tony Binarelli.
Addio il giornalista Amedeo Ricucci.
E’ morto il compositore Monty Norman.
E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.
E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.
E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.
E’ morto l’attore Tony Sirico.
E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.
È morto l’attore James Caan.
E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.
E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.
E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.
È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.
E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.
E’ morto il regista Peter Brook.
E' morta la cantante Irene Fargo.
E’ morto l’attore Joe Turkel.
E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.
E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.
E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.
E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.
E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.
E’ morto il musicista James Rado.
E' morto l'architetto Jordi Bonet.
E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.
È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.
E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.
E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.
È morto l’attore Philip Baker Hall.
È morto il produttore musicale Piero Sugar.
E’ morta la cantante Julee Cruise.
E’ morta la pittrice Paula Rego.
E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.
E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.
Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.
E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.
È morto il bassista Alec John Such.
È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund
E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata.
E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.
Morto lo scrittore Joseph Zoderer.
Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.
Addio all’attore Franco Ravera.
Morto il partigiano Carlo Smuraglia.
Morto il conte Manfredi della Gherardesca.
E’ morto il fantino Lester Piggott.
E’ morto l’attore Marino Masé.
E’ morto lo scrittore Boris Pahor.
E’ morto il musicista Alan White.
È morto l'attore John Zderko.
E’ morto il musicista Andrew Fletcher.
E’ morto l’attore Ray Liotta.
E’ morto il cardinale Angelo Sodano.
E’ morto l’attore Bo Hopkins.
I MORTI FAMOSI.
È morto Ciriaco De Mita.
E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.
E’ morto il taverniere Guido Lembo.
Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.
E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.
E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.
È morto l’attore Fred Ward.
E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.
E’ morto il musicista Richard Benson.
E’ morto l’attore Mike Hagerty.
E’ morto l’attore Enzo Robutti.
È morto l’attore Lino Capolicchio.
È morto il fotografo Ron Galella.
Addio alla cantante Naomi Judd.
Addio all’attrice Jossara Jinaro.
È morto il procuratore Mino Raiola.
E' morto il politologo Percy Allum.
Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.
E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.
E’ morto l’industriale Antonio Molinari.
È morto il cantante Marco Occhetti.
Morto Paolo Mauri.
È morto l’attore Jacques Perrin.
È morta l'attrice Ludovica Bargellini.
È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.
È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.
E’ morta l’attrice Catherine Spaak.
E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.
E’ morta la giornalista Giusi Ferré.
È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi.
E’ morto il calciatore Freddy Rincon.
E’ morto l’attore Michel Bouquet.
E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.
È morto l’attore Gilbert Gottfried.
E’ la storica Morta Chiara Frugoni.
E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.
E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.
E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.
E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.
E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.
E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.
È morto Tom Parker.
Addio al giornalista Franco Venturini.
È morto l’attore Lars Bloch.
E’ morto l’attore Gianni Cavina.
E’ morto il batterista Taylor Hawkins.
Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.
E' morto il giornalista Sergio Canciani.
E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.
Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.
Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.
E' morto l’attore William Hurt.
E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.
Addio al giornalista Stefano Vespa.
E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.
E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.
E’ morto Antonio Martino.
Morto l’attore John Stahl.
E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.
E’ morto il cantante Gary Brooker.
Addio al cantante Mark Lanegan.
E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.
E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli.
E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.
E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.
E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.
Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.
Morto il pugile Bepi Ros.
Addio al cantante Fausto Cigliano.
Morto il cantante Amedeo Grisi.
E’ morto il doppiatore Tony Fuochi.
E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman.
E’ morto l’artista John Wesley.
E’ morto il musicista Ian McDonald.
Addio a Betty Davis, la regina del Funk.
E’ morta Donatella Raffai.
E’ morto l’attore Bob Saget.
E’ morto Luc Montagnier.
E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.
Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.
Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema.
Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".
E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.
E’ morta Monica Vitti.
È morto l’attore Paolo Graziosi.
E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini.
E' morto Tito Stagno.
E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.
E' morto l’attore Renato Cecchetto.
Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.
È morto il faccendiere Flavio Carboni.
E’ morto lo stilista Thierry Mugler.
E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.
Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.
Addio al giornalista Sergio Lepri.
E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri.
E’ morto il cantante Meat Loaf.
E’ morto l’attore Hardy Kruger.
E’ morto l’attore Camillo Milli.
E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.
E’ morta l’attrice Yvette Mimieux.
E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.
E’ morto lo stilista Nino Cerruti.
E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.
E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.
È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.
E’ morta Silvia Tortora.
E’ morta Margherita di Savoia.
Addio all’attore comico Bob Saget.
E’ morto Michael Lang.
E’ morto l’attore Mark Forest.
E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.
E’ morto il regista Mariano Laurenti.
E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.
E’ morto l’attore Sidney Poitier.
E’ morto il regista Peter Bogdanovich.
E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.
È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.
È morto il giornalista Fulvio Damiani.
INDICE QUINTA PARTE
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le stirpi reali.
Gli scandali dei Windsor.
Vittoria.
Elisabetta.
La morte della Regina.
Filippo.
Carlo.
Camilla.
Andrea.
Anna.
Diana.
William e Kate.
Harry e Meghan.
LA SOCIETA’
TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
· È morta Ivana Trump.
È morta Ivana Trump: aveva 73 anni. L'annuncio dell'ex presidente Usa. Il Tempo il 15 luglio 2022.
È morta all'età di 73 anni Ivana Trump, imprenditrice, personaggio televisivo e modella, divenuta celebre principalmente per essere stata la prima moglie di Donald Trump. "Sono molto rattristato di informare tutti coloro che l'hanno amata, e sono molti, che Ivana Trump è morta nella sua casa a New York City", ha scritto sui social l'ex presidente degli Stati Uniti.
“Era una donna meravigliosa, bellissima e straordinaria, che ha condotto una vita fantastica e stimolante. Il suo orgoglio e la sua gioia erano i suoi tre figli, Donald Jr., Ivanka ed Eric. Era così orgogliosa di loro, come eravamo tutti così orgogliosi di lei. Riposa in pace, Ivana!”.
Come riporta Abc, i paramedici di Manhattan, rispondendo a una chiamata di emergenza per un arresto cardiaco, hanno trovato la donna nell'appartamento dell'Upper East Side dove viveva. Nata nel 1949 in Cecoslovacchia, Ivana Marie Zelnickova ha lasciato il paese negli anni '70. Dopo il trasferimento negli Usa, a New York conobbe l'imprenditore Donald Trump, che sposò nel 1977. La coppia divorziò nel 1992. La donna si è poi risposata con l'italoamericano Riccardo Mazzuchelli nel 1995 e, nel 2008, con l'attore e modello italiano Rossano Rubicondi, morto nel 2001. Nel curriculum televisivo di Ivana Trump anche la partecipazione, nel 2010, al reality 'L'Isola dei famosi'.
Morta Ivana Trump, la prima moglie dell’ex presidente Usa. Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.
Modella e imprenditrice di origini ceche, aveva 73 anni. L’annuncio dell’ex marito: «Era una donna, meravigliosa, bellissima e pazzesca».
Ivana Marie Zelnickova, la prima moglie di Donald Trump, è morta ieri, giovedì 14 luglio, all’età di 73 anni. Lo ha fatto sapere l’ex presidente con un post sul suo Social «Truth»: «Annuncio con grande tristezza a tutti coloro che l’amarono, ed erano tanti, che Ivana Trump è deceduta nella sua casa di Manhattan». In effetti sono ancora numerosi «quelli che l’amavano». A cominciare, naturalmente, dai tre figli avuti con il tycoon newyorkese: Donald Jr, Ivanka ed Eric. Nel 1977 era un’indossatrice nata nell’allora Cecoslovacchia, quando sposò uno dei costruttori americani più rampanti. L’unione durò fino al 1990 e, il primogenito, Donald Jr, ha raccontato che quando seppe dell’imminente separazione non rivolse la parola al padre per un anno.
La famiglia di Ivana rappresentava un mondo alternativo rispetto a quello della grande metropoli. L’ex modella era cresciuta nei boschi, all’aria aperta, con papà Milos che la portava a caccia e a pesca. Nel 1971, però, sposò il suo primo dei quattro mariti: l’austriaco Alfred Winklmayr, maestro di sci. Nel marzo del 1972 ottenne il passaporto austriaco; l’anno dopo lasciò il consorte e emigrò in Canada. Poco dopo eccola a New York, in uno dei club più famosi. Conosce un giovane biondo, alto e ambizioso. «Mi chiamo Donald». Era il 1976. L’anno dopo celebrarono nozze rumorose. Ivana si integrò perfettamente nella società newyorkese degli anni Ottanta: affari, anche spregiudicati, vita notturna brillante, amicizie con i potenti.
«È stata una donna meravigliosa, bella e incredibile», scrive ancora Trump che, a un certo punto, le preferì Marla Maples e poi Melania. Ma Ivana era anche manager molto efficiente, maniaca del lavoro, con un certo fiuto e una buona dose di creatività. Partecipò attivamente ai progetti del marito: la Trump Tower sulla Quinta Strada e il Trump Taj Mahal casinò ad Atlantic City, nel New Jersey. Aveva una carica formale nel gruppo: vice presidente per il design di interni, ma in realtà è stata per qualche anno la consigliera più ascoltata da Trump. Un ruolo che quarant’anni dopo è toccato a sua figlia, Ivanka, l’advisor del presidente alla Casa Bianca.
Dopo il divorzio, Ivana è rimasta una protagonista della scena mondana. Ha scritto una serie di libri (nessuno memorabile). Si è risposata per la terza volta con un italiano, Riccardo Mazzucchelli nel 1995. Poi ancora due relazioni importanti. La prima con Gaetani dell’Aquila D’Aragona. La seconda con l’attore e modello Rossano Rubicondi . I due si unirono in matrimonio nel 2008. La cerimonia fu celebrata dalla sorella di Trump, la giudice Maryanne Trump Barry. I tabloid erano in fiamme. Lui aveva 36 anni, lei 59. Anche questa volta durò poco: un solo anno. Rossano e Ivana si presero e lasciarono ancora per un’altra decina d’anni, per la gioia dei rotocalchi e delle trasmissioni di gossip. Nel 2019 Rossano morì a soli 49 anni. Ivana, affranta, commentò: «Basta, mi fermo qui». Ha passato gli ultimi anni defilata, ma naturalmente nel lusso della parte migliore di New York, Miami e Saint Tropez.
Ivana Trump, eseguita l’autopsia: è morta per le ferite riportate nella caduta dalle scale. Paolo Foschi su Il Corriere della Sera il 16 Luglio 2022.
La prima moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti era stata trovata senza vita il 14 luglio nel suo appartamento a Manhattan.
Dall’autopsia emerge la soluzione del giallo della morte di Ivana Trump, prima moglie dell’ex presidente degli Stati Uniti. A causare il decesso sarebbero state le ferite riportate cadendo dalle scale. Lo riferisce il network Abc citando fonti dello staff medico che ha eseguito gli esami disposti dalla procura.
Ivana Maria Zelnickova, ex indossatrice nata nell’allora Cecoslovacchia 73 anni fa, è morta il 14 luglio. Il suo corpo senza vita è stato trovato riverso sulle scale dell’appartamento in cui viveva a Manhattan sulla 64ma strada, proprio di fronte al Central Park. La donna aveva cenato poco prima in un ristorante italiano in cui era cliente abituale. In un primo momento la causa della morte era stata attribuita a un arresto cardiaco o a un malore, anche se gli addetti del locale dove aveva mangiato hanno dichiarato che quella sera era apparsa in salute come sempre. Zach Erdem, amico della donna, ha invece rivelato al New York Post che Ivana negli ultimi tempi aveva accusato problemi nella deambulazione: «Mi disse che aveva dolori alle gambe e non era in grado neanche di uscire». Quando l’amico le aveva consigliato di farsi visitare da un medico, lei aveva risposto: «No, odio andare dai dottori. Mi ammalo di più quando ci vado». A dare l’allarme il 14 luglio è stata una collaboratrice domestica dell’ex modella, sul posto erano intervenuti paramedici, vigili del fuoco e agenti di polizia. In molti sui social si erano chiesti quale fosse stata la causa della morte, alimentando un piccolo giallo che ora sembra risolto, anche se non è chiaro se la caduta sia stata accidentale o causata a sua volta da un malore. I medici legali hanno comunque escluso che possa essere stata uccisa da qualcuno.
Come ha scritto Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington del Corriere, «la famiglia di Ivana rappresentava un mondo alternativo rispetto a quello della grande metropoli. L’ex modella era cresciuta nei boschi, all’aria aperta, con papà Milos che la portava a caccia e a pesca. Nel 1971, però, sposò il suo primo dei quattro mariti: l’austriaco Alfred Winklmayr, maestro di sci. Nel marzo del 1972 ottenne il passaporto austriaco; l’anno dopo lasciò il consorte e emigrò in Canada. Poco dopo eccola a New York, in uno dei club più famosi. Conosce un giovane biondo, alto e ambizioso. “Mi chiamo Donald”. Era il 1976. L’anno dopo celebrarono nozze rumorose. Ivana si integrò perfettamente nella società newyorkese degli anni Ottanta: affari, anche spregiudicati, vita notturna brillante, amicizie con i potenti».
L’ex modella ha avuto tre figli dal tycoon a cui è stata legata fino al 1990. E’ stato lo stesso ex presidente a comunicare la morte con un post sul suo social Truth: «Annuncio con grande tristezza a tutti coloro che l’amarono, ed erano tanti, che Ivana Trump è deceduta nella sua casa di Manhattan. Era una donna meravigliosa, bella e divertente, che ha condotto una vita di grande ispirazione. Il suo orgoglio e la sua gioia erano i suoi tre figli, Donald Jr, Ivanka ed Eric. Era così fiera di loro e noi eravamo fieri di lei. Riposa in pace, Ivana» ».
Morta Ivana Trump, prima moglie dell’ex presidente Donald. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Luglio 2022.
"Nostra madre era una donna incredibile, una forza nel mondo degli affari, un'atleta di livello mondiale, una bellezza radiosa e una madre e un'amica premurosa", hanno scritto i suoi figli in una nota ricordandola.
Ivana Trump, la prima moglie dell’ex presidente Usa Donald Trump, cresciuta sotto il dominio comunista nell’ex Cecoslovacchia è morta all’età di 73 anni. Lo ha annunciato la famiglia al network televisivo americano ABC News. E’ stata la prima moglie dell’ex presidente Usa, che ha sposato nel 1977 da cui hanno avuto tre figli: Donald Jr., Ivanka ed Eric. La coppia divorziò nel 1992.
Ivana Marie Zelníková, era cresciuta sotto il comunismo in Cecoslovacchia, con studi in educazione fisica, era stata selezionata come sciatrice per le Olimpiadi invernali del ’72, era arrivata in Usa negli anni ’70 per intraprendere la carriera di modella . Poco dopo aveva conosciuto Donald Trump. I due si sposarono diventando in poco tempo l’emblema della coppia di potere di New York: entrambi biondo platino, entrambi protagonisti del jet set di Manhattan, desiderosi di avere tutto e subito. Ivana era riuscita a ritagliarsi un ruolo di top manager come Ceo del Castle Hotel, uno dei casinò di proprietà dei Trump nel New Jersey, e poi come arredatrice di interni alla Trump Tower.
L’imprenditrice è stata trovata morta nella sua casa sulla 64esima strada di New York, proprio di fronte a Central Park, con l’annuncio della scomparsa dato l’indomani dallo stesso ex marito su Truth Social, il social network da lui fondato. “Sono davvero rattristato – ha scritto Donald Trump – di informare tutti coloro che l’hanno amata, e sono davvero tanti, che Ivana Trump se ne è andata nella sua casa a New York”. “Era una donna meravigliosa – ha aggiunto l’ex-presidente USA – bellissima e incredibile, che è stata di grande ispirazione“.
A trovarla, già priva di conoscenza sulle scale del suo appartamento stando al comunicato diffuso dai vigili del fuoco locali, sono stati i paramedici, arrivati sul posto a seguito di una richiesta di aiuto. La causa del decesso sembrerebbe quella di un arresto cardiaco, o comunque di un malore improvviso, per quanto non avesse mostrato segni di particolare malessere durante la cena.
Un’ipotesi che proprio per come sembrava stare la donna, ha destato non poco sconcerto tra chi l’aveva vista nelle sue ultime ore di vita. Da come riporta il Washington Post, la polizia di New York ha subito indagato sulla morte, verificando che nella casa non ci fossero segni di scasso o di qualche altro elemento che potesse ricondurre a un episodio criminale. I medici legali hanno poi valutato se la caduta dalle scale avesse potuto determinare la morte di Ivana Trump o se questa fosse conseguente a un malore.
I proprietari del ristorante “Nello” dove aveva cenato la sera prima di morire, hanno riferito di essere “ancora sotto choc” per la morte improvvisa dell’ex imprenditrice di origini ceche. “Forse era apparsa un po’ stanca, ma sembrava stesse bene, senza aver alcun evidente problema di salute – ha raccontato ai giornalisti la responsabile del ristorante italiano Nello – Siamo sconvolti, ci dispiace tanto, era una delle nostre clienti più affezionate e ci chiedeva sempre come stessimo e se le cose andassero bene, con grande affetto. Abbiamo visto un gran fermento sotto il suo appartamento, ma non abbiamo capito subito cosa fosse accaduto. Era davvero una persona meravigliosa“.
“Nostra madre era una donna incredibile, una forza nel mondo degli affari, un’atleta di livello mondiale, una bellezza radiosa e una madre e un’amica premurosa“, hanno scritto i suoi figli in una nota ricordandola.
“Ivana Trump era una sopravvissuta. È fuggita dal comunismo e ha abbracciato questo paese. Ha insegnato ai suoi figli la grinta e la durezza, la compassione e la determinazione”, ha detto la famiglia. “Mancherà molto a sua madre, ai suoi tre figli e ai suoi dieci nipoti“.
(Antonello de Gennaro) Oggi piango e perdo una cara amica con cui ho trascorso vacanze indimenticabili ospite con altri amici sulla sua barca “Ivana” a Saint Tropez in Costa Azzurra. Avevamo instaurato una grande amicizia, ci sentivamo spesso telefonicamente e quando veniva in Italia andavamo a cena o a pranzo insieme (“ma mi raccomando dove si mangi bene !” mi diceva sempre ). Ivana era una persona dall’animo buono, generoso e corretta. E’ stata una grande donna, una grande mamma, che amava la vita. Ci mancherà. Ad Ivanka ed i suoi fratelli e tutte le rispettive famiglie, le mie più sincere condoglianze. Redazione CdG 1947
Gabriele Romagnoli per “La Stampa” il 20 luglio 2022.
Nell'ultima immagine che di sé ha voluto tramandare al mondo che le sopravvive Ivana Trump spara un sorriso sotto un elmetto di pelo. Indossa un piumino argentato. Si appoggia ai bastoncini da sci. È a Saint Moritz, l'anno è il 1997, ha appena divorziato da Riccardo Mazzucchelli, sta per invaghirsi di Roffredo Gaetani. Le restano 25 anni di vacanze, profumi, amori, sorprese, delusioni, prima di cadere dalle scale.
Quella fotografia è stampata sulla partecipazione al suo funerale, «celebrazione della vita», oggi all'una e trenta ora di New York, mentre poco lontano, nel suo amato ristorante Nello, serviranno il pranzo, tra orsi di peluche rossi sistemati sulle sedie vuote e qualcuno che, come faceva lei, ordinerà il «galletto» per 62 dollari.
Da casa sua, al numero 10 della 64ma (subito girato l'angolo della Quinta strada) alla chiesa sulla Lexington è un viaggio breve: tre isolati. L'edificio in cui si è chiuso il sipario ha l'aspetto di un mausoleo bianco: sette piani di cui cinque fuori terra. È un quartiere per vecchi. Dal giorno della sua morte un anziano fotografo di nome Omar staziona davanti al portone per riprendere chi viene e va.
Al momento ci sono cinque mazzi di fiori di cui quattro eretti. Due biglietti con dediche affettuose, uno conclude con un pensiero anche «per il tuo ex marito e nostro prossimo presidente». Altri singolari omaggi sono posati a terra: un tester di un profumo Armani e alcuni di rossetti dal colore vermiglio. Le donne che li hanno lasciati hanno pensato a cose che la consorte del faraone avrebbe voluto portare nella tomba.
Quelle che vedrò passare e fermarsi avranno tutte la stessa età indecifrabile, eppure per questo dichiarata, sotto i cappelli, le lenti scure, i ritocchi al viso, i foulard intorno al collo con gli scacchi, le fantasie, i monogrammi d'autore. Le anima la compassione, le sfiora il brivido. Si sa che anche i ricchi piangono, anche i ricchi muoiono, ma non ci si aspetta la banalità di un inciampo, la testa contro il gradino, le ore senza più vita ad aspettare che qualcuno apra la porta.
Una solitudine voluta. Ivana Trump si era ritirata in quel maniero metropolitano. Teneva con sé metà delle ceneri dell'ultimo marito, Rossano Rubicondi. Imponeva al personale di arrivare a mezzogiorno e sparire prima del tramonto. Al risveglio si era fatta il caffè da sola, la tazza riversa accanto a lei, macchie scure sul tappeto rosso steso lungo le scale. C'era anche un ascensore, ma lei preferiva le scale, perfino quando, come nell'ultima mattina, era sola.
Il divismo è un esercizio, non un'improvvisazione. Aveva fatto dipingere un trompe l'oeil alla parete che accompagna la discesa: un'altra reggia di marmo, un grande giardino, il cielo. Sfilava tra angeli di pietra. Il suo seguito: uno yorkshire di nome Tiger. Non fiori, ma donazioni a un ente di assistenza per cani. Le stanze della casa sono arredate in stile Trump.
È stata lei a crearlo, Donald le aveva dato mano libera in tutte le sue proprietà, il suo aspetto dorato è un riflesso nell'occhio di Ivana. Nella sala da pranzo anche le tende hanno i loro carati. Ha cenato lì, l'ultima sera. Ha disdetto gli impegni, la partenza per gli Hamptons, posposto il viaggio a Saint Tropez. L'anca le provocava dolore, faticava a camminare. A chi le consigliava di andare dal medico rispondeva: «I dottori mi mettono tristezza».
Fatte le proporzioni, nient' altro che la cocciuta zia che tutti hanno avuto, dispersa in un bilocale in periferia, sospettosa di ogni badante. È quella matrice a rendere riconoscibili tutte le esistenze, perfino le più singolari, l'ampiezza degli scarti richiede soltanto una maggiore apertura del compasso per contenerli.
Le esequie si annunciano come un ricevimento, con aerei privati in atterraggio dall'Europa e l'attesa per l'ex marito, arrivato lunedì sera a New York. Con lui anche la moglie Melania, riparata da lenti scure. Nella frenesia delle anticipazioni la sua presenza è data per possibile, ma solo per supporto al marito e ai tre figli che ebbe con Ivana.
La chiesa è dedicata a San Vicent Ferrer, detto anche il tredicesimo apostolo, beato spagnolo vissuto a cavallo del 1400, autore di miracoli a profusione: gli si attribuiscono almeno 28 resurrezioni.
Rispecchia il quartiere: una candela votiva costa 5 dollari. Nel suo secondo memoir Frank Mc Court, l'autore di Le ceneri di Angela, scrive: «La gente che va in questa chiesa condivide i messali e canta gli inni in coro perché sa che la domestica è rimasta nelle loro case di Park Avenue a tener d'occhio il tacchino. I loro figli e le loro figlie hanno l'aspetto di chi è tornato a casa dalle università dove studia e sorride agli altri nel banco, che pure sono tornati dagli stessi luoghi. Possono permettersi di sorridere perché tutti quanti hanno denti così candidi che se cadessero nella neve sarebbero perduti per sempre».
Si riconosceranno per essersi già incontrati sulle piste di Gstaad, davanti a un camino ad Aspen, in una stanza dorata a Davos. La donna sugli sci nel cartoncino raccontava di essere stata convocata per le Olimpiadi, con la nazionale cecoslovacca, quando si chiamava Ivana Marie Zelnickova. Negli archivi non risulta, ma la storia è franata su molti fatti accaduti prima dell'89. Se lo ricorderà forse su madre Marie, nata Francova nel 1926, ex centralinista, a cui il destino non ha risparmiato di essere, domani, ancora viva.
Muore a 73 anni Ivana Trump. L'annuncio dell'ex marito Donald. Serena Coppetti il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
"È stata una donna meravigliosa e divertente" ha scritto l'ex presidente degli Usa. Con lui 15 anni insieme e tre figli.
Per tutti è sempre stata Ivana Trump. Lei, la prima moglie, la ex, che ha combattuto una feroce battaglia legale, dove sono volati non solo gli stracci ma anche parole violentissime con quello che era l'uomo più importante del mondo, per mantenere quel cognome anche dopo la separazione dal magnate dell'edilizia diventato nel frattempo presidente degli Stati Uniti. Per questo c'era qualcosa di sottile ed estremamente delicato, ieri sera, nelle parole di Donald Trump nell'annunciare la morte dell'ex moglie. E sta proprio dentro quel nome, sta nel chiamarla come lei voleva essere chiamata. Ivana Trump. E lui ieri sera lo ha scritto così, per intero, sul suo social, il Truth Social. Così lo ha comunicato all'emittente americana Abc per dare la notizia che facesse il giro del mondo. Così, per tutti, perché restasse per sempre Ivana Trump.
«Sono addolorato - scrive l'ex presidente degli Stati Uniti - nel comunicare a tutti quelli che le volevano bene, ed erano in tanti, che Ivana Trump è morta nella sua abitazione a New York. È stata una donna meravigliosa, bella e divertente, che ha condotto una vita fonte di ispirazione. Il suo orgoglio e la sua gioia erano i suoi tre figli, Donald Jr., Ivanka ed Eric. Era così fiera di loro, e noi eravamo così fieri di lei. Riposa in pace, Ivana», conclude Donald Trump.
Aveva 73 anni. Imprenditrice, personaggio televisivo e modella, è rimasta legata a lui dal 1977 al 1992. Quindici anni di vita insieme, in cima, al massimo, protagonisti della società newyorkese degli anni '80. Insieme, sempre più in alto come i palazzi a cui lavoravano. La Trump Taj Mahal ad Atlantic City, la Trump Tower sulla Quinta Strada a Manhattan che negli arredi interni porta la sua firma. Divenne vice presidente del design interno per la compagnia, il marito la volle a capo del Trump Castle Hotel and Casino come presidente.
E dire che era partita da lontano, Ivana. Nata in Repubblica Ceca, il suo cognome era Zelníková. Una promessa dello sci, passione trasmessa dal papà. Poi fotomodella, poi un marito. Poi il primo divorzio. Poi l'America e Trump e i tre figli e, altri due mariti e altrettanti rapidi divorzi. Nel 1995, con l'imprenditore italoamericano Riccardo Mazzucchelli e, dopo la separazione nel 1997, dal 2008 con un altro italiano, Rossano Rubicondi. Già 59 anni lei, 36 lui. Il matrimonio più lussuoso e più veloce: 3 milioni di dollari, con 400 invitati, ospitato dall'ex marito Donald Trump nella sua tenuta di Mar a Lago, durato neanche sette mesi. Oggi era anche e forse soprattutto, nonna. Di 9 nipoti. «Nostra madre era una donna incredibile - ha scritto la famiglia - una forza negli affari, un'atleta di livello mondiale, una bellezza radiosa e una madre premurosa e un'amica».
Ivana Trump, l'autopsia rivela la causa della morte: "Per le ferite riportate". Il Tempo il 16 luglio 2022
Ivana Trump, 73 anni, è morta per una caduta dalle scale all'interno della sua casa di New York. Smentita l’ipotesi di un infarto. A rivelare la vera causa del decesso della prima moglie del tycoon e presidente Usa, Donald Trump, è stato il New York Post. L’autopsia effettuata venerdì ha confermato che si tratta di un incidente domestico: “Ha riportato lesioni da impatto contundente al busto compatibili con una caduta accidentale” si legge nel report del medico legale.
Trump è stata trovata morta ai piedi di una scala a chiocciola nel suo appartamento di Manhattan. Come ha rivelato l’amico di famiglia, Zach Erdem, Ivana Trump aveva problemi di deambulazione e faceva fatica a lasciare la propria abitazione. Nelle ultime due settimane, secondo quanto dichiarato da Erdem al New York Post, la donna stava male e ha aggiunto: “Mi disse - che aveva dolori alle gambe e non era in grado neanche di uscire. Le ho consigliato di farsi visitare da un medico, ma rispose ‘No, odio andare dai dottori. Mi ammalo di più quando ci vado’”.
I tre figli Don Jr., 44 anni, Ivanka, 40, ed Eric, 38 anni, nati dal matrimonio con il miliardario Donald Trump, hanno rilasciato un comunicato: “Nostra madre era una donna incredibile: una forza negli affari, un'atleta di livello mondiale, una bellezza radiosa e una madre premurosa e amica. Era una sopravvissuta: fuggì dal comunismo e abbracciò gli Stati Uniti. Ha insegnato ai suoi figli grinta e tenacia, compassione e determinazione. Mancherà moltissimo a sua madre, ai suoi tre figli e ai dieci nipoti”.
Ivana Trump, morta a 73 anni la prima moglie dell'ex presidente Usa. Libero Quotidiano il 14 luglio 2022
È scomparsa all'età di 73 anni Ivana Trump. Oltre a essere imprenditrice, personaggio televisivo e modella, Ivana è divenuta celebre per essere stata la prima moglie di Donald Trump. "Sono molto rattristato di informare tutti coloro che l'hanno amata, e sono molti, che Ivana Trump è morta nella sua casa a New York City", ha scritto sui social l'ex presidente degli Stati Uniti.
E ancora: "Era una donna meravigliosa, bellissima e straordinaria, che ha condotto una vita fantastica e stimolante. Il suo orgoglio e la sua gioia erano i suoi tre figli, Donald Jr., Ivanka ed Eric. Era così orgogliosa di loro, come eravamo tutti così orgogliosi di lei. Riposa in pace, Ivana!". Secondo Abc, i paramedici di Manhattan, rispondendo a una chiamata di emergenza per un arresto cardiaco, hanno trovato la donna nell'appartamento dell'Upper East Side dove viveva.
Nata nel 1949 in Cecoslovacchia, Ivana Marie Zelnickova ha lasciato il paese negli anni '70. Dopo il trasferimento negli Usa, a New York conobbe l'imprenditore Donald Trump, che sposò nel 1977. La coppia divorziò nel 1992. La donna si è poi risposata con l'italoamericano Riccardo Mazzuchelli nel 1995 e, nel 2008, con l'attore e modello italiano Rossano Rubicondi. Nel curriculum televisivo di Ivana Trump anche la partecipazione, nel 2010, al reality L'Isola dei famosi.
Da liberoquotidiano.it il 15 luglio 2022.
Ivana Trump, morta per un arresto cardiaco a 73 anni, è stata trovata senza vita nel suo appartamento a Manhattan.
L'ex moglie di Donald Trump sarebbe stata colta da un malore in tarda serata, dopo essere andata a cenare nel suo ristorante preferito, non lontano da casa.
Secondo la ricostruzione fatta dal Sun, aveva trascorso un paio d'ore all'interno del locale senza mai accusare alcun tipo di malessere.
"Come sempre mi ha chiesto come stavo, lei ci ha sempre sostenuto, e abbiamo avuto una conversazione normalissima, come quasi ogni volta che l'ho vista.
Non pensavo avesse problemi di salute, sembrava forse un po' stanca, ma per il resto era a posto - ha raccontato al Sun Paola Alavian, proprietaria del ristorante preferito di Ivana -.
Sono un po' sotto choc in questo momento, abbiamo visto un gran fermento sotto il suo appartamento, ma non abbiamo capito subito cosa fosse accaduto. Era davvero una persona meravigliosa".
Nonostante l'intervento tempestivo dei soccorsi, per l'ex moglie del tycoon non c'è stato nulla da fare.
"Sono profondamente rattristato nell’annunciare a tutti quelli che la amavano, e ce ne sono così tanti, che Ivana è morta nella sua casa", ha fatto sapere Trump sulla piattaforma Thruth Social, quella che utilizza per comunicare dopo l'estromissione da Twitter -.
Lei era una donna stupenda, meravigliosa e bella, e ha condotto una vita che è fonte di ispirazione per molti.
La sua gioia e il suo orgoglio erano i nostri tre figli Donald Jr, Ivanka ed Eric. Lei era molto orgogliosa di loro, e noi lo eravamo di lei. Riposa in pace, Ivana".
Ivana Trump, testimonianza-choc: "Poco prima di morire, al ristorante..." Libero Quotidiano il 15 luglio 2022
Ivana Trump, morta per un arresto cardiaco a 73 anni, è stata trovata senza vita nel suo appartamento a Manhattan. L'ex moglie di Donald Trump sarebbe stata colta da un malore in tarda serata, dopo essere andata a cenare nel suo ristorante preferito, non lontano da casa. Secondo la ricostruzione fatta dal Sun, aveva trascorso un paio d'ore all'interno del locale senza mai accusare alcun tipo di malessere.
"Come sempre mi ha chiesto come stavo, lei ci ha sempre sostenuto, e abbiamo avuto una conversazione normalissima, come quasi ogni volta che l'ho vista. Non pensavo avesse problemi di salute, sembrava forse un po' stanca, ma per il resto era a posto - ha raccontato al Sun Paola Alavian, proprietaria del ristorante preferito di Ivana -. Sono un po' sotto choc in questo momento, abbiamo visto un gran fermento sotto il suo appartamento, ma non abbiamo capito subito cosa fosse accaduto. Era davvero una persona meravigliosa".
Rossano Rubicondi, "un rapporto malato": testimonianza agghiacciante, lui e Ivana Trump... gelo dalla D'Urso. Libero Quotidiano il 03 novembre 2021
A “Pomeriggio 5”, Barbara D’Urso è tornata a parlare della morte di Rossano Rubicondi. La conduttrice ha intervistato Silvio Sardi, testimone di nozze di Rubicondi. Le accuse dell’ospite, rivolte contro i genitori di Rossano e così la conduttrice è dovuta intervenire immediatamente. “È vero che è stato abbandonato dagli amici?” – ha chiesto Barbara a Silvio, che nel replicare non ha nascosto il suo reale pensiero – “Bisogna distinguere tra gli amici di Rossano e gli amici di Ivana Trump“.
La D’Urso, che in questi giorni sta dedicando molto spazio al caso Rubicondi, è rimasta davvero scossa di fronte al racconto dell’ospite. Il testimone di Rossano ha cercato di spiegare meglio alla conduttrice il proprio punto di vista sul rapporto tra Ivana Trump e Rossano.
"Ivana con lui aveva un rapporto malato. Non sapete le volte che lo lasciava fuori di casa, in mutande al gelo delle notti newyorchesi quando abitavano a Manhattan. Lui si rifugiava a casa mia", ha ricordato. Roberto Alessi invece ha poi voluto ribadire che Ivana gli è rimasta comunque vicina fornendogli anche una assicurazione medica che in Usa è privata.
Rossano Rubicondi, le immagini dei funerali: com'era ridotta Ivana Trump, un video straziante. Libero Quotidiano il 09 novembre 2021
E alla fine è arrivato il momento dell'addio a Rossano Rubicondi, il momento dei funerali, che si sono svolti a New York, dove viveva e organizzati da Ivana Trump, molti giorni dopo il decesso dello showman, avvenuto lo scorso 29 ottobre.
In questi giorni hanno continuato a inseguirsi illazioni sulla sua morte, voci che ancora non si sono spente. Ma tant'è, ora è il momento del silenzio, del cordoglio, dell'ultimo saluto. Le immagini, strazianti, delle esequie sono state trasmesse da Pomeriggio 5, il programma di Barbara D'Urso in onda su Canale 5. Tra i presenti, ovviamente Ivana Trump, l'ex moglie straziata, sconvolta, visibilmente provata. Dunque anche Roberto Alessi, il direttore di Novella 2000 legato da una lunga e profonda amicizia a Rubicondi.
Impressionanti, come detto, le immagini di Ivana Trump: in prima fila e distrutta dal dolore, per reggersi in piedi aveva bisogno di essere sorretta dalle braccia del figlio. Per l'occasione, Ivana Trump ha portato 500 rose rosse in onore di Rossano Rubicondi. La scorsa estate erano circolate indiscrezioni su un loro possibile e nuovo matrimonio, idea che avevano accarezzato anche nel 2019, quando ne parlarono a Domenica Live, sempre di Barbara D'Urso. Un amore eterno, il loro. Un dolore infinito, per Ivana Trump.
Simona Ventura, la morte di Ivana Trump: “Non aveva superato la scomparsa di Rossano Rubicondi”. Alice Coppa il 15/07/2022 su Notizie.it.
Simona Ventura ha commentato la notizia della scomparsa di Ivana Trump, avvenuta per un arresto cardiaco.
Simona Ventura ha rotto il silenzio sulla scomparsa di Ivana Trump, morta appena 9 mesi dopo il suo ex marito, Rossano Rubicondi.
Simona Ventura ha commentato la scomparsa di Ivana Trump, l’ex moglie di Donald Trump scomparsa a 73 anni per un arresto cardiaco.
Ivana Trump era rimasta molto colpita dalla morte di Rossano Rubicondi, morto nella sua casa di New York il 29 ottobre scorso. Lui e Ivana nonostante si fossero separati avevano mantenuto un ottimo rapporto. Secondo Simona Ventura la morte dell’attore avrebbe avuto un impatto molto forte sulla salute mentale di Ivana:
“Sì, ed era devastata dal dolore. Mi raccontò di essergli stata vicino fino all’ultimo ma non c’era stato molto da fare perché il tumore alla pelle fu devastante.
Al di là dei loro litigi e degli allontanamenti, il loro è stato un amore vero e importante. Ivana ha superato molte prove difficili nella vita ma credo non abbia retto ad un dolore così grande come la morte di Rossano”, ha dichiarato la conduttrice. In queste ore anche il fotografo Rino Barillari ha rotto il silenzio sulla scomparsa di Ivana Trump affermando grosso modo quanto detto anche da Simona Ventura.
“Anche quando si sono lasciati, lei è sempre stata molto vicina a Rossano.
Ha sofferto tantissimo per la sua morte (avvenuta nel 2021 a 49 anni, ndr)ancora in giovane età per una brutta malattia”, ha dichiarato il fotografo ricordando l’ex modella. In queste ore in tanti, via social, hanno espresso il loro cordoglio per la scomparsa di Ivana Trump.
Il cordoglio del tycoon sul suo social. È morta Ivana Trump, prima moglie dell’ex Presidente USA: “Donna meravigliosa, bellissima, pazzesca”. Vito Califano su Il Riformista il 14 luglio 2022.
È morta a 73 anni Ivana Trump, ex moglie del tycoon ed ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump. A dare la notizia lo stesso Trump con un post sul social network Truth, da lui stesso creato.
“Sono molto rattristato nell’informare tutti quelli che l’hanno amata, e sono molti, che Ivana Trump è morta nella sua casa a New York”, ha scritto Donald Trump sul suo social Truth. “Era una donna meravigliosa, bella e formidabile, che ha condotto una vita straordinaria e fonte di ispirazione. Il suo orgoglio e la sua gioia erano i tre figli, Donald Jr., Ivanka ed Eric. Era cosi’ orgogliosa di loro, come noi tutti di lei. Riposa in pace, Ivana!”.
Ivana Marie Zelnickova aveva origini ceche. Aveva lasciato il Paese negli anni ’70. È stata la prima moglie del tycoon. I due si erano sposati nel 1977 e avevano avuto i tre figli Donald Jr., Ivanka ed Erik. La loro unione era finita nel 1992. Trump avrebbe sposato dopo di lei Marla Maples, lei avrebbe sposato l’italoamericano Riccardo Mazzuchelli nel 1995 e nel 2008 l’attore e modello italiano Rossano Rubicondi morto nel 2021. Nel 2010 aveva partecipato al reality “L’Isola dei famosi”.
Con il passare degli anni i rapporti tra i due si erano rasserenati. La donna è stata trovata in un appartamento dell’Upper East Side, dove viveva a New York, dopo che i sanitari erano intervenuti sul posto per una chiamata di emergenza per arresto cardiaco.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Da “il Giornale” l'1 agosto 2022.
Donald Trump ha fatto seppellire l'ex moglie Ivana, morta nelle scorse settimane a seguito di una caduta, nel suo golf club in New Jersey in modo da ottenere consistenti sgravi fiscali. È questa l'accusa che rivolgono all'ex presidente diversi media americani, citando i documenti pubblicati da «ProPublica», che mostrano come il Trump Family Trust abbia fatto richiesta che il campo di Hackettstow, dove è stata sepolta Ivana, venga considerato come un terreno cimiteriale, status che gli farebbe godere di esenzioni fiscali.
Le legge del New Jersey prevede infatti che qualsiasi terreno utilizzato come cimitero sia esente da qualsiasi tipo di tasse. In effetti, già da diversi anni, sin dal 2012, Trump accarezza l'idea di realizzare un cimitero su questo terreno, costruendo un grande mausoleo per sé stesso.
Poi avrebbe cambiato idea, pensando di realizzare un vero e proprio cimitero per migliaia di sepolture. Il progetto sarebbe cambiato ancora, con l'idea di realizzare solo le tombe per i familiari. E quella dell'ex moglie Ivana sarebbe appunto la prima.
Ivana Trump è stata trovata morta nel suo appartamento di Manhattan il 14 luglio scorso. L'infarto era sembrato, in un primo momento, la causa della morte, ma l'autopsia ha stabilito che è stata invece una caduta dalle scale. Secondo quanto raccontato al «Post» da un amico della 73enne, Zach Erdem, da tempo soffriva di dolori alle gambe che le impedivano di uscire.
· È morto il giornalista Eugenio Scalfari.
(ANSA il 14 luglio 2022) È morto Eugenio Scalfari. Il fondatore di Repubblica aveva 98 anni.
Addio a Eugenio Scalfari, il direttore filosofo di Repubblica. ANSA il 14 Luglio 2022.
E' morto Eugenio Scalfari, giornalista, scrittore, intellettuale, figura importante del mondo culturale italiano. Era nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924, primo direttore-manager dell'editoria italiana, padre di due 'creature', 'L'Espresso' e 'La Repubblica'. Nei primi anni '50 inizia con il 'Mondo' di Pannunzio e l''Europeo' di Arrigo Benedetti. Nel '55 con quest'ultimo fonda 'L'Espresso', primo settimanale italiano d'inchiesta. Scalfari vi lavora nella doppia veste di direttore amministrativo e collaboratore per l'economia. E quando Benedetti gli lascia il timone nel '62, diventa il primo direttore-manager italiano, una figura all'epoca assolutamente inedita per l'Italia. Questo doppio ruolo sarà poi anche uno dei fattori del successo di Repubblica, il cui debutto in edicola risale al 14 gennaio 1976.
Negli ultimi anni dopo una lunghissima carriera al timone del giornale, Barbapapà, come veniva affettuosamente chiamato dalla sua redazione, si è dedicato soprattutto alla scrittura, anche con un autobiografia uscita per i suoi 90 anni nel 2014 allegata al quotidiano. Molti anche i romanzi: 'Il labirinto', 'L'uomo che credeva in Dio', 'Per l'alto mare aperto', 'Scuote l'anima mia Eros', 'La passione dell'etica', 'L'amore, la sfida, il destino'. A un suo intervento su fede e laicità, lui che da sempre autodichiarato ateo, rispose papa Francesco, con una lettera a Repubblica pubblicata l'11 settembre del 2014. L'incontro diventa un libro nel 2019 ''Il Dio unico e la società moderna. Incontri con Papa Francesco e il Cardinale Carlo Maria Martini''. Le figlie Enrica e Donata avevano realizzato nel 2021 un documentario sul celebre papà, Scalfari a sentimental journey.
Dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella a papa Bergoglio in tanti hanno espresso il cordoglio per la morte di Scalfari. Il 'suo' giornale ha preparato uno speciale di 24 pagine con le testimonianze dei giornalisti e dei lettori.
La camera ardente per Eugenio Scalfari sarà aperta venerdì 15 luglio a Roma, nella Sala della Protomoteca del Campidoglio, dalle 16 alle 19. Nella stessa sala sabato 16 alle 10.30 si svolgerà la cerimonia di commemorazione. (ANSA).
Estratto dell’articolo di Leopoldo Fabiani per “l’Espresso” il 2 agosto 2022.
[…] E c'era il direttore che si occupava della vita privata dei suoi redattori, che li invitava a confidargli i crucci sentimentali, i problemi familiari, le difficoltà quotidiane. Perché non si può lavorare bene se si è infelici e preoccupati. Resta leggendaria la mattina che nello stanzone di "Repubblica" squilla a vuoto il telefono sulla scrivania di un giornalista importante, noto seduttore. Il direttore passa e intima ai presenti: «Non rispondete. Potrebbe essere vostra moglie».
Da Cinquantamila – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti - cinquantamila.it
Eugenio Scalfari, nato a Civitavecchia (Roma) il 6 aprile 1924 (94 anni). Decano del giornalismo italiano. Fondatore del quotidiano la Repubblica (14 gennaio 1976), da lui diretto dal 1976 al 1996.
Già cofondatore, con Arrigo De Benedetti, del settimanale L’Espresso (2 ottobre 1955), da lui diretto dal 1963 al 1968. Scrittore. Politico (deputato del Psi dal 1968 al 1972). «Si sostiene che io sia stato fascista, monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e alla fine democristiano. Ed è tutto vero»
•«Scalfari è figlio unico, la sua famiglia paterna è calabrese, il bisnonno materno è nato a Procida. Il padre combatte nelle trincee della Grande guerra, poi diserta e segue a Fiume Gabriele D’Annunzio. La mamma, una donna malinconica, non ha mai dimenticato la morte del proprio padre. I due “non si erano mai veramente amati… e fu l’amore per me che li tenne uniti finché vissero”. Nel 1933 la famiglia si trasferisce a Roma.
Al liceo Mamiani la materia preferita da Eugenio è la storia antica, i ragazzi si dividono tra tifosi di Ettore e di Achille: prevale Ettore, che non godeva dell’inviolabilità di Achille. Scalfari è un piccolo balilla, la divisa il suo orgoglio. Nel luglio del 1938 la famiglia, causa gli scarsi affari del padre, si trasferisce a Sanremo [dopo che il padre, avvocato con pochi clienti, era stato nominato direttore del locale casinò – ndr].
E lì, al liceo Cassini, […] nasce e diventa consapevole la sua ricerca personale. In classe con lui, seduto al suo banco, […] Italo Calvino, un “rapporto essenziale, perché il nocciolo del nostro modo di pensare e di sentire ce lo formammo insieme…”. Ma scoppia la guerra, il padre viene richiamato, e Scalfari ritorna a Roma, a studiare Giurisprudenza. Le prime esperienze da giornalista al settimanale del Guf (Gruppo universitario fascista), dal quale viene poi espulso.
“Io ero fascista. Ero cresciuto nel fascismo come tutti i giovani della mia età…”. La guerra è perduta, i nazisti sono ancora a Roma, Scalfari non si presenta alla leva, è costretto, pena la morte, a nascondersi nella Casa del Sacro Cuore. Dopo la guerra la prime esperienze di lavoro, come direttore di una casa da gioco, poi in banca, e l’amore per la scrittura, che lo porterà alla corte di Pannunzio, alle amicizie e al sodalizio con gli intellettuali e i politici azionisti. Comincia a collaborare al Mondo.
Il suo maestro, in quegli anni, è Arrigo Benedetti, che lo forma come giornalista: “Non ho capito”, e allora Scalfari riscrive l’articolo e impara l’arte di farsi capire da tutti. Ma il salto avviene pochi anni dopo. Costretto a lasciare la Bnl, Eugenio è ormai un giornalista a tutti gli effetti. Inizia, con Benedetti e con un giovane editore, Carlo Caracciolo, a progettare la fondazione di un giornale. Conosce Adriano Olivetti, e con i suoi finanziamenti nasce l’Espresso (i soldi per fare un quotidiano non bastavano). Quel settimanale, formato lenzuolo, in pochi anni riesce con le sue battaglie a scalfire la corteccia di una società conservatrice dominata in politica dalla Democrazia cristiana.
Scalfari, nel 1968, è tentato dalla politica, viene eletto nelle file del Partito socialista. Non rieletto, ritorna a lavorare, come amministratore delegato, all’Espresso e a riprogettare la nascita di un quotidiano. Repubblica inizia le pubblicazioni nel 1976, e per venti anni sarà guidato da Scalfari.
Una fase epica, come fu quella dell’Espresso, in cui il quotidiano, dopo una fase iniziale incerta nelle vendite e nella linea editoriale, trova finalmente un baricentro che in pochi anni lo farà diventare il primo quotidiano italiano, […] punto di riferimento dei riformisti e progressisti italiani.
Repubblica, con il suo nuovo modo di intendere il giornalismo, la settimanalizzazione del quotidiano, incide nel corso della politica più di quanto si immagini. Dopo venti anni di direzione Scalfari decide di lasciare la direzione a un giovane. Deve avere lo stesso sentire del fondatore. Lo individua in Ezio Mauro, con il quale perdura un sodalizio professionale e di amicizia.
Lui si può dedicare agli editoriali e soprattutto alla scrittura di libri, la passione degli ultimi anni, “un viaggio dentro me stesso”» (Alessandro Corbi). Nel 1994, con Incontro con Io(Rizzoli), ha inaugurato una serie di libri in cui autobiografismo e riflessione filosofica scolorano l’uno nell’altra: tra i titoli successivi, L’uomo che non credeva in Dio(2008), Per l’alto mare aperto(2010), Scuote l’anima mia Eros(2011), L’amore, la sfida, il destino(2013) e L’allegria, il pianto, la vita(2015), tutti pubblicati da Einaudi.
Nel 2012 la Mondadori ha raccolto un’antologia dei libri e degli articoli di Scalfari in un volume della sua prestigiosa collana «I Meridiani», La passione dell’etica. Scritti 1963-2012•«Scalfari era affamato di potere. Fondò Repubblica dicendo che voleva dar voce alle classi produttrici del Paese, gli imprenditori e i lavoratori, contro le classi parassitarie che, evidentemente, votavano Dc.
[…] Politicamente si collocava in un’area sterminata che cominciava dai repubblicani e finiva con gli autonomi, cioè i lembi non clandestini del brigatismo. La sua origine di settimanalista portava però nel mondo spento dei quotidiani una propensione al retroscena, alla prospettiva, al passo lungo che i quotidianisti non avevano, un piglio diverso nelle interviste, una sapienza grafica, una cultura fotografica. […] La conoscenza dell’economia, in un mondo di professionisti, da questo punto di vista, quasi del tutto analfabeti, illuminava le informazioni di una luce completamente nuova. […] Le grandi relazioni potevano garantire, e avrebbero garantito, un flusso di informazioni riservate da far invidia a un servizio segreto. […] Il giornale andò male i primi due anni e si stava per chiuderlo quando Moro fu rapito e le Brigate Rosse scelsero Repubblica come veicolo della loro comunicazione. La prima foto Br faceva vedere Moro prigioniero che teneva in mano Repubblica. Scalfari, profittando della contemporanea crisi di Paese sera, […] imbarcò così il pubblico simpatizzante dei movimenti o comunque di sinistra, ma stufo del grigiore del Pci.
Repubblica profittò poi della crisi di copie e credibilità dell’Unità e mise nel suo lettorato un’importante quota di comunisti. Infine il Corriere della Sera (siamo nel 1981) fu scoperto come propaggine della P2, e Scalfari […] ci diede dentro con i valori della democrazia e la difesa delle istituzioni repubblicane, e portò a casa perciò una bella fetta di pubblico borghese, benpensante, moderato nella sostanza, e moderno nell’apparenza. […]
Alla fine del 1981, con il giornale ampiamente sopra le 200 mila copie, il problema economico era alle spalle. […] Intanto Repubblica aveva imposto un nuovo modo di titolare, un nuovo modo di raccontare lo sport, […] un nuovo modo di porsi di fronte alla politica, che imparò presto che Scalfari andava trattato non come un giornalista qualunque da irreggimentare ma come un capo-partito, con cui si doveva scendere a patti. […] Nel 1986, quando Repubblica cominciò ad allegare fascicoli creando così un nuovo mercato (di fascicoli in edicola, a quel tempo, non c’era neanche l’ombra), superò il Corriere e divenne finalmente il primo quotidiano. […]
Nella battaglia tra Berlusconi e De Benedetti, si schierò fin dal primo istante con De Benedetti. […] Dopo il lodo Ciarrapico, vendette anche lui il suo dieci per cento e incassò una cifra mai accertata, ma che la voce comune indica in cento miliardi di lire. L’ultimo giorno radunò la redazione e spiegò che […] vendere era stato […] un atto di prudenza e saggezza, che garantiva per il futuro la stessa libertà di cui il giornale aveva goduto in passato. La redazione accolse il discorso con un silenzio assoluto, e Scalfari, alzandosi in piedi e stirandosi leggermente i fianchi, chiese sottovoce al fido Gianni Rocca: “Come mai non applaudono?”» (Giorgio Dell’Arti)
Grande rumore, nel novembre 2017, quando, intervistato da Giovanni Floris a DiMartedì(La7), dichiarò che, alle successive elezioni politiche, tra Luigi Di Maio e Silvio Berlusconi, in mancanza di alternative, avrebbe scelto il secondo. L’affermazione suscitò lo sdegno e l’imbarazzo di larga parte dello stesso Gruppo Espresso, dal quale gli vennero attacchi anche molto violenti e volgari
Al referendum istituzionale del 2 e 3 giugno 1946 ha dichiarato di aver votato per la monarchia, in quanto «liberale e crociano»: «Croce era convinto che l’istituto monarchico offrisse maggiori garanzie di laicità rispetto alla repubblica guidata dalla Democrazia cristiana. […] Il voto monarchico non era stato frutto di passione. Ero in realtà un repubblicano, e lo sarei ridiventato subito dopo» (a Simonetta Fiori)
Dichiaratamente ateo, intrattiene stretti rapporti con papa Francesco (il quale, in base a quanto da lui riferito, ha replicato alla sua professione d’ateismo sostenendo che «seguo comunque la predicazione di Cristo, quindi l’anima può essere salva. Io ho detto: ma io non credo nell’anima. E lui: sì, ma ce l’ha»). In più occasioni gli articoli contenenti le ricostruzioni dei suoi colloqui con Bergoglio, in cui Scalfari aveva attribuito al pontefice argentino prese di posizione particolarmente innovative rispetto alla dottrina e alla tradizione cattolica (talora ai limiti dell’eresia), sono stati ufficialmente sconfessati dalla Santa Sede, per essere poi di fatto confermati, in un apparente gioco delle parti, o mediante la ripubblicazione dei medesimi articoli o, in ogni caso, con la concessione al giornalista di ulteriori inviti privati
«Un po’ di sangue ebreo ho scoperto di averlo. Da parte della nonna materna, che pure era cristianissima e teneva Don Bosco sul comodino. Eppure, anche se all’inizio non ci credevo, ho avuto prova che la sua famiglia era ebrea, […] ed era una di quelle famiglie di ebrei detti marrani, coloro che dichiaravano di essere cristiani durante le persecuzioni antiche» (ad Attilio Giordano) • Dal primo matrimonio con Simonetta De Benedetti (1921-2006) – figlia di Giulio De Benedetti (1890-1978), storico direttore de La Stampa –, durato dal 1954 fino alla morte di lei, ha avuto le due figlie, Enrica (responsabile dell’agenzia fotografica Agf) e Donata (giornalista Mediaset). Nel 2008 si è risposato con Serena Rossetti, con cui aveva da decenni una relazione di cui la moglie era a conoscenza («Per molti anni della mia vita adulta sono stato bigamo.
[…] La nostra relazione triangolare ha procurato a ciascuno felicità e certamente sofferenze, ma è stata a conti fatti una fortuna grande»)
«Ho sempre ricercato rapporti chiari con il potere. Non credo nell’oggettività, neppure in quella della cronaca. La cronaca cambia a seconda di chi guarda e da che parte guarda. Ho sempre trovato onesto dichiararlo e lasciare che l’interlocutore, i lettori, siano avvertiti e poi scelgano». «Il mio ego, il mio Narciso […] è appena un po’ più grande del normale. Ma è come un cagnone: riesco a tenerlo al guinzaglio. Quasi sempre».
Barbara Palombelli per "Il Foglio" (2014)
Ora, è diventato una star della tv, dei talk-show. Nel 1987 non era così. Portare Eugenio Scalfari a "Domenica In", per un'intervista che avrebbe avuto un ascolto di 10-12 milioni, in diretta, era un azzardo. Lui arrivò perfetto come sempre, allontanò l'inevitabile truccatrice armata di cipria con un'affermazione netta: "Non sudo mai". Accidenti. Io tremavo, non avevo ancora mai lavorato con lui, tormentavo degli appunti (diversamente da molti colleghi mi sono sempre scritta i testi interamente da sola) un po' ciancicati.
Lui immobile: quasi non credevo che sarebbe arrivato, un monumento del giornalismo sul divanetto bianco ideato da Gianni Boncompagni per far sembrare tutti belli, diceva che bianco e azzurro sono il segreto dei santini da secoli e sono molto donanti. Verissimo. L'intervista scivolò via veloce, la prima domanda ripercorreva le sue identità politiche fino a quel momento: "Fascista, fascista di sinistra, monarchico, liberale, liberale di sinistra, radicale, radicale di sinistra, socialista, socialista dissidente, repubblicano..." Risposta da copiare: "Sono sempre stato in minoranza".
Ci ritrovammo qualche anno dopo, era il 1989, al bar Doney di via Veneto. Stavo per entrare a Repubblica, ci avrei lavorato dieci anni. Subentravo al collega Alberto Stabile che lasciava la redazione politica per l'estero, il mio nome l'aveva suggerito Mino Fuccillo. Serviva al quotidiano qualcuno che "parlasse col nemico", allora Bettino Craxi. Eugenio però non si abbassò a parlare di queste inezie, mi ricordò che nell'immediato Dopoguerra in uno dei suoi primi lavori - funzionario della Bnl - aveva conosciuto mio nonno Luigi, agente di cambio in piazza di Spagna, e me lo descrisse come fosse seduto con noi al bar.
Il lato umano. Scalfari lo ha coltivato con passione, arrivando a non scegliere fra due donne amatissime, "per non farle soffrire", cedendo sempre all'istinto che gli ha fatto apprezzare/detestare senza vie di mezzo ogni persona, partito, perfino ogni gesto quotidiano. O ti abbraccia, o non ti saluta. E' la faziosità, l'origine e il segreto del suo successo. Il motivo per cui molti non lo possono soffrire.
Mi raccontò una volta che, da ragazzo, perfino nella scelta del liquore allora di moda - la Sambuca - lui esercitava il potere della faziosità. Fra le due marche produttrici, Molinari e Pallini, una era di un suo parente. Il gioco consisteva nell' entrare al bar e dire, in gruppo e a voce alta: prendiamo la Sambuca x, l'altra fa schifo, non si può proprio bere".
Curioso di tutto, attratto dal mistero della religione e molto complice con le signore anche nel giornale - quando dirigeva lui tutti i servizi erano guidati da donne, Archinto, Carini, Bonsanti - era specializzato nel trovare spazi vuoti nel conformismo dilagante. La scuola del settimanale - prima il Mondo, poi l'Espresso - lo aveva costretto a montare e costruire polemiche anche senza notizie e alla Repubblica fu questa la ricetta vincente.
La malinconia del figlio unico che teme l'abbandono e la morte dei genitori non lo aveva mai abbandonato. Una sera, in casa dell'amica comune Elisa Olivetti, mi spiegò la sua molto chiacchierata bigamia con la speranza di vivere di più, di non farsi trovare dalla morte. Moltiplicare le vite, una in smoking all'Opera, l'altra in maglione ascoltando jazz gli avrebbe forse dato l'illusione di una esistenza più completa.
Ho imparato moltissimo da lui e dalle sue riunioni del mattino, una vera scuola. Non sono mai stata soggiogata né iscritta al suo mutevole esercito di fedelissimi. Anzi. Parlavo con gli avversari, prima i suoi ex amici socialisti, poi Cossiga e Berlusconi. Avrebbe voluto in squadra anche il direttore di questo giornale. Adorava i contrasti. Certo, non mi sono mai annoiata. Non avrei potuto dire di essere stata una giornalista politica senza avere vissuto qualche anno in piazza Indipendenza. Fra poco, il Fondatore arriverà ai Novanta. Auguri.
Quando Scalfari immaginava di creare un altro giornale se Berlusconi avesse vinto la battaglia di Segrate. Antonio Polito su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.
Era un narciso di prima grandezza, ma non del genere, corrivo e oggi volgarmente diffuso, che umilia o irride l’amor proprio altrui. Bensì del genere elegante e suadente che carezza, titilla e corteggia il narciso in ognuno di noi
Alla fine del punto pomeridiano sulla prima pagina, Eugenio ci prese da parte e ci disse: domenica venite a pranzo da me a Velletri, vi devo parlare. Velletri era il suo buen retiro, una villetta a un’ora da Roma, perfetta per il weekend del direttore di un giornale, che non è mai veramente in vacanza. L’invito ci sorprese: pur essendo collaboratori molto stretti di Eugenio, i suoi redattori capo, Mauro Bene e io, non foss’altro che per ragioni anagrafiche, non eravamo nel suo circolo di amici. Ma il clima era così surriscaldato a Piazza Indipendenza, sede della Repubblica, in quel 1990, che intuimmo subito il tema. Silvio Berlusconi, allora non ancora in politica ma già l’editore più «politico» che si potesse immaginare, stava per prendersi la Mondadori e diventare padrone di Repubblica. La cosa era inaudita. Nel senso che il giornale fondato da Scalfari era il nemico numero 1 del Cavaliere, l’ostacolo più grande alla sua ascesa, anche per la capacità di Eugenio di influire su Parlamento e partiti.
Ciò che Scalfari ci chiese quella domenica a Velletri era dunque se eravamo pronti a lasciare la nave per far salpare «una scialuppa». Disse proprio così. Le metafore guerriere gli piacevano. Le battaglie vinte dal principe di Condè e dagli «straccioni di Valmy» erano quelle che preferiva per descrivere le sue campagne politiche. Di noi — soldatini alla sua corte — diceva napoleonicamente che «portavamo nel nostro zaino il bastone di maresciallo». La «scialuppa» era un nuovo giornale. Il piano B, se davvero la sua creatura, nata nel 1976, baciata da un enorme successo di pubblico e critica, fosse finita nelle mani dell’odiato Cavaliere. E con noi voleva discutere — dopo una nostra dichiarazione pregiudiziale di fedeltà perinde ac cadaver — chi arruolare nell’avventura, come condurla, quante pagine, che tiratura. Confesso che cominciammo a mettere nero su bianco i nomi dei fedelissimi. Del titolo della testata non si parlò: la chiamavamo in codice «la scialuppa».
Come è noto, il nuovo giornale di Scalfari non nacque mai, grazie a Giulio Andreotti. Più tardi Scalfari l’avrebbe definito «Belzebù», quando fu accusato di rapporti con la mafia. Ma a quel tempo il felpato leader democristiano fu decisivo per fermare la «battaglia di Segrate» per la conquista di Mondadori. Non voleva concedere a Craxi, alleato del Cavaliere, l’enorme potere mediatico che si sarebbe concentrato nelle sue mani, espugnando il giornale nemico e aggiungendolo alla dote delle testate Mondadori.
Andreotti mobilitò così, come negoziatore, niente di meno che Giuseppe Ciarrapico; il quale riuscì, insieme con il principe Caracciolo coeditore di Scalfari, a raggiungere un accordo di spartizione: Panorama, Epoca e tutto il resto al Cavaliere, Repubblica e l’Espresso a De Benedetti. Per la cronaca, va aggiunto che il giudice Vittorio Metta e l’avvocato Cesare Previti vennero poi condannati per corruzione in atti giudiziari, per una sentenza favorevole al Cavaliere.
Scalfari era un narciso di prima grandezza. Ma non del genere, corrivo e oggi volgarmente diffuso, che umilia o irride l’amor proprio degli altri. Bensì del genere elegante e suadente che carezza, titilla e corteggia il narciso che è in ognuno di noi. Grande seduttore! Gli bastava un quarto d’ora per convincerti che per lui eri la persona più importante del mondo, con l’eccezione di se stesso ovviamente (ha scritto anche un libro dal titolo «Incontro con Io»). È diventata leggenda la scena madre che fece quando Paolo Guzzanti, sua firma prediletta, andò a dirgli che si dimetteva per passare a un altro giornale: Scalfari si gettò ai suoi piedi, mettendosi tra lui e la porta. Doveva passare sul suo corpo, disse.
Se non fosse stato del genere «narciso-buono», non sarebbe mai riuscito d’altronde a tenere al tavolo della riunione di redazione del lunedì, a varie riprese e in varie epoche, Enzo Biagi e Alberto Ronchey, Giorgio Bocca e Giampaolo Pansa, Mario Pirani e Natalia Aspesi, Enzo Golino e Rosellina Balbi, Bernardo Valli e Piero Ottone; tutte prime donne, come si diceva un tempo quando le firme femminili sui giornali erano davvero poche.
In quanto a capacità di seduzione — spero che il suo fantasma non mi perseguiti per questo giudizio — può essere accostato all’arci-nemico Berlusconi. Entrambi sono stati, a mio parere, grandi modernizzatori della comunicazione nell’Italia uscita dal trauma degli anni Settanta. L’uno, il Cavaliere, sul versante nazional-popolare della tv commerciale. L’altro, Barbapapà, sul fronte del giornalismo impegnato, militante e di sinistra, ma con una grafica, un formato, un linguaggio, una titolazione, uno stile della casa mai visti prima, e rivelatisi in definitiva molto popolari anch’essi.
Per dare un’idea del suo assolutismo democratico, basti questo episodio. Quando decisi di lasciare Repubblica — lui non era più direttore — per fondare un piccolo giornale corsaro allora chiamato Il Riformista , lui mi telefonò per dissuadermi con questo argomento: «Se fai un giornale simile al nostro, è inutile. Se fai un giornale diverso dal nostro, è dannoso». Après lui, le déluge.
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 15 luglio 2022.
Eugenio Scalfari non ha solo fondato giornali. Ha anche diretto per cinque mesi una casa da gioco nell'Italia del dopoguerra, a Chianciano, seguendo le istruzioni del padre, direttore del casinò di Sanremo.
La tecnica, raccontava nelle conversazioni private, era la stessa. L'aveva appresa pure dal suocero Giulio De Benedetti, padre della prima moglie Simonetta, per vent' anni leggendario direttore della Stampa : «Bisogna essere come il domatore del circo; avere sempre un numero pronto, per sostituire il numero che non va più».
L'altro suo punto di riferimento fu Arturo Toscanini: una mattina in cui il giornale non l'aveva soddisfatto, fece ascoltare ai capiservizio la registrazione della sfuriata con cui il grande direttore d'orchestra traumatizzava i suoi musicisti che avevano sbagliato i tempi.
Scalfari non veniva da sinistra. Il padre Pietro fu legionario con D'Annunzio a Fiume (lo zio Antonio ebbe una medaglia d'argento al valor militare e la spina dorsale spezzata: divenne morfinomane, morì suicida).
Ne L'uomo che non credeva in Dio , forse il suo libro più bello, Scalfari confessa l'infatuazione giovanile per il regime: la notte della proclamazione dell'Impero, i tripodi di bronzo accesi, la voce del Duce.
Al referendum del 2 giugno 1946 votò monarchia. La sinistra fu l'approdo scelto anche per dare ai suoi giornali un pubblico, oltre che un nemico: per vent' anni Craxi, per altri venti Berlusconi.
Sapeva fare tutto: il settimanale e il quotidiano, l'editoriale e l'intervista, il saggio e il romanzo, oltre a titoli che hanno fatto la storia del giornalismo: «Capitale corrotta nazione infetta», «L'Africa in casa», «L'avanguardia in vagone letto» (era il reportage del suo amico Sandro Viola sul Gruppo '63), «Nottetempo casa per casa» (era la deposizione del generale dei carabinieri Zinza sul piano Solo).
E ancora: «Carlo De Benedetti compra un terzo del Belgio» (ma l'avventura della Société Générale non finirà bene), «Addio Ghino di Tacco» sulle dimissioni di Craxi, cui riconoscerà di aver avuto «la grandezza della fine».
Da giovane porta via una fidanzata a Federico Fellini, e ride nel vedere Italo Calvino fuggire spaventato da un bordello. Da adulto tiene duro sulla linea della fermezza durante i 55 giorni del sequestro Moro. «Porta la testa come il Santissimo in processione» (così diceva Carlo Caracciolo).
Si sdraia davanti all'ascensore per impedire a Paolo Guzzanti di andare in un altro giornale. Una domenica conclude l'editoriale preannunciando per la settimana successiva un articolo su Spinoza.
Il Foglio di Giuliano Ferrara, uno dei suoi più cari nemici, inizia un count-down quotidiano: meno 6 all'articolessa di Scalfari su Spinoza, meno 5, meno 4... quando la domenica arriva, Scalfari scrive di attualità economica e conclude con un post scriptum beffardo: «Di Spinoza parleremo un'altra volta».
Molto legato alle figlie Enrica e Donata - che gli hanno dedicato un bellissimo film, A sentimental journey - , a un certo punto della vita si accorse che l'amore per lui era diviso in due: Simonetta, la moglie, e Serena, divenuta la sua compagna. Alla fine è stata la morte a tagliare il nodo che lui non poteva e non voleva dipanare. E quando Simonetta morente chiese di spargere sul cuscino il profumo che le aveva regalato Serena, Eugenio Scalfari poté sciogliere nel pianto il dolore proprio e altrui.
Come dei sacerdoti, anche di lui si può dire che sia stato giornalista in eterno, sino all'ultimo giorno: e pure i suoi concorrenti non potevano che vedere in Scalfari, dopo la scomparsa di Indro Montanelli - cui lo accomunava un'affettuosa rivalità -, il decano del nostro mestiere.
E se, come ha scritto, «il solo modo per difenderci dalla morte» è vivere dentro le persone che ci hanno amato, stimato, voluto bene, e anche avversato, allora lui forse è davvero immortale.
Le reazioni e gli omaggi dopo la morte di Scalfari, il Papa: «Dolore per la scomparsa di un amico». Redazione politica su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.
I messaggi di cordoglio per il direttore scomparso. Il premier Draghi: «I suoi editoriali una lettura fondamentale». Le testimonianze di Letta, Renzi, Tajani e Calenda.
«Eugenio Scalfari è stato una figura di riferimento per i miei avversari in politica. Oggi, però, non posso non riconoscergli di essere stato un grande direttore e giornalista, che ho sempre apprezzato per la dedizione e la passione per il suo lavoro». Così su Twitter il presidente di Forza Italia Silvio Berlusconi. Ed è questo, forse, il messaggio di cordoglio più significativo, perché arriva da uno storico avversario, tra le centinaia che stanno arrivando dopo che si è diffusa la notizia della morte del fondatore di Repubblica.
«Sono particolarmente addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari giornalista, direttore, saggista, uomo politico, testimone lucido e appassionato della nostra storia repubblicana». Così il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in una nota. «Dai primi passi all’interno di quella grande scuola di giornalismo che fu `il Mondo´, alla direzione dell’Espresso, fino alla fondazione della `Repubblica´, Scalfari ha sempre costituito un punto di riferimento coinvolgente per generazioni di giornalisti, intellettuali, classe politica e un amplissimo numero di lettori. Da sempre convinto assertore dell’etica nella società e del rinnovamento nella vita pubblica, si era magistralmente dedicato, negli ultimi tempi, ai grandi temi esistenziali dell’uomo con la consueta efficacia e profondità di riflessione», conclude.
«Papa Francesco ha appreso con dolore della scomparsa del suo amico, Eugenio Scalfari. Conserva con affetto la memoria degli incontri - e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell’uomo - avute con lui nel corso degli anni e affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini». Lo riferisce all’Ansa il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni.
Tra i primi ad intervenire il presidente del Consiglio Mario Draghi: «La scomparsa di Eugenio Scalfari lascia un vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro Paese. Fondatore de L’Espresso e de La Repubblica, che ha diretto per vent’anni, Scalfari è stato assoluto protagonista della storia del giornalismo nell’Italia del dopoguerra. La chiarezza della sua prosa, la profondità delle sue analisi, il coraggio delle sue idee hanno accompagnato gli italiani per oltre settant’anni e hanno reso i suoi editoriali una lettura fondamentale per chiunque volesse comprendere la politica, l’economia. Deputato della Repubblica, ha accompagnato il suo amore per il giornalismo all’impegno civile e politico, all’alto senso delle istituzioni e dello Stato. Esprimo ai suoi cari, ai direttori Maurizio Molinari e Lirio Abbate e a tutti i giornalisti de La Repubblica e de L’Espresso, le più sentite condoglianze a nome di tutto il Governo. A me mancheranno molto i nostri confronti, la nostra amicizia».
L’emozione per la morte di Eugenio Scalfari, figura chiave del giornalismo italiano, grande testimone del `900, invade anche i social. «Ciao Direttore, con te se ne va la nostra storia, la nostra anima, la nostra Repubblica», scrive su Twitter Massimo Giannini, già vicedirettore del quotidiano fondato da Scalfari e oggi alla guida della ´Stampa’. «Direttore, precursore, fondatore del giornalismo moderno. Con la morte di Eugenio #Scalfari si chiudono tante pagine della nostra storia, della nostra vita, se ne va un secolo di giornalismo. Un giorno triste per tutto il Paese», è il tweet di Myrta Merlino. Per Franco Siddi, già segretario della Federazione nazionale della stampa, Scalfari è stato «una personalità di primo piano del Giornalismo, dell’Editoria, della Scienza Politica. Un protagonista del Secondo Novecento italiano. Omaggio, rispetto, deferenza. Cordoglio». «Ci ha lasciato un gigante del giornalismo e della storia italiana: addio a Eugenio #Scalfari. L’intervista sulla questione morale a Berlinguer è uno dei gioielli che Eugenio ci ha lasciato», riflette Luca Telese. Anche La Civiltà Cattolica rende omaggio al `Fondatore´ postando un editoriale del 2016: «Non considerare nulla come definitivamente perduto. `Questo insegnamento di #PapaFrancesco non è soltanto religioso, è anche culturale e perfino politico´. Ricordiamo così Eugenio Scalfari».
E poi i politici. «Eugenio Scalfari sarà per sempre ricordato come uno dei maggiori protagonisti della storia del giornalismo italiano. Nonostante le nostre diverse visioni, politiche e non, ho sempre avuto grande stima e rispetto del suo lavoro. Possa riposare in pace» su Twitter Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia. «Eugenio Scalfari. Ci manca già. Rimarranno sempre con noi le sue idee, la sua passione, il suo amore profondo per l’Italia». Così Enrico Letta su twitter. «Ciao direttore. Non sempre è stato facile confrontarsi con te e spesso abbiamo avuto opinioni radicalmente diverse. Ma è stato un piacere e un onore ascoltarti e leggerti. Che la terra ti sia lieve» lo saluta su Facebook il leader di Italia viva, Matteo Renzi. «Scompare uno dei più grandi protagonisti del giornalismo italiano. Ci mancheranno la sua penna e la sua testa» ricorda su Facebook il ministro della Salute, Roberto Speranza. «Con Eugenio Scalfari va via una personalità unica nella vita pubblica italiana. Porta con sè il suo sguardo, l’intelligenza, la sua energia, capaci di trasformare il giornalismo italiano e influire per lunghi anni sul dibattito politico e culturale del Paese». Così in un tweet il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti.
«Per quanto attesa, la notizia della scomparsa di Eugenio Scalfari rattrista e addolora. Egli è stato un grande protagonista della vita italiana, uno dei più grandi giornalisti del nostro paese; intellettuale e pensatore di primo piano nella vita pubblica, sempre animato da una grande passione civile e politica. Eugenio Scalfari è stato un compagno di strada della sinistra italiana per ben oltre mezzo secolo; un amico spesso critico e incalzante, ma che ha condiviso con noi gli ideali della libertà e della giustizia sociale». Così il presidente Massimo D’Alema. «RIP. Un gigante. Un socialista liberale. Ho amato molto `per l’alto mare aperto´. Un buon modo di ricordarlo è rileggerlo». Così su Twitter il leader di Azione Carlo Calenda. «La scomparsa di Eugenio Scalfari segna un momento molto triste per il Paese intero. Oggi diciamo addio a una vera e propria pietra miliare del giornalismo italiano. Un abbraccio e la massima vicinanza ai suoi cari». Così il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
Il ricordo del Papa: "Eugenio, amico laico, mi mancherà parlare con te". Papa Francesco su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Il pontefice ricorda l'amicizia con il fondatore di Repubblica scomparso nelle scorse ore
Sono addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. In queste ore dolorose, sono vicino alla sua famiglia, ai suoi cari, e a tutti coloro che l’hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui. È stato per me un amico fedele. Ricordo che nei nostri incontri a Casa Santa Marta mi raccontava come stesse cercando di cogliere, indagando la quotidianità e il futuro attraverso la meditazione sulle esperienze e su grandi letture, il significato dell’esistenza e della vita.
Testo di Papa Francesco pubblicato da “la Repubblica” il 15 luglio 2022.
Sono addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari, fondatore del quotidiano La Repubblica. In queste ore dolorose, sono vicino alla sua famiglia, ai suoi cari, e a tutti coloro che l'hanno conosciuto e che hanno lavorato con lui.
È stato per me un amico fedele. Ricordo che nei nostri incontri a Casa Santa Marta mi raccontava come stesse cercando di cogliere, indagando la quotidianità e il futuro attraverso la meditazione sulle esperienze e su grandi letture, il significato dell'esistenza e della vita.
Si professava non credente, seppure negli anni in cui l'ho conosciuto io riflettesse profondamente anche sul senso della fede. Sempre si interrogava sulla presenza di Dio, sulle cose ultime e sulla vita dopo di questa vita.
I nostri colloqui erano piacevoli e intensi, i minuti con lui volavano via veloci scanditi dal confronto sereno delle rispettive opinioni e della condivisione dei nostri pensieri e delle nostre idee, e anche da momenti di allegria.
Parlavamo di fede e laicità, di quotidianità e dei grandi orizzonti dell'umanità del presente e dell'avvenire, del buio che può avvolgere l'uomo e della luce divina che può illuminarne il cammino. Lo ricordo come un uomo di straordinaria intelligenza e capacità di ascolto, perennemente alla ricerca del senso ultimo degli avvenimenti, sempre desideroso di conoscenza, e di testimonianze che potessero arricchire la comprensione della modernità.
Eugenio era un intellettuale aperto alla contemporaneità, coraggioso, trasparente nel raccontare i suoi timori, mai nostalgico del passato glorioso, bensì proiettato in avanti, con un pizzico di disillusione ma anche grandi speranze in un mondo migliore. Ed era entusiasta e innamorato del suo mestiere di giornalista. Ha lasciato un segno indelebile nella vita di tante persone, e ha tracciato un solco professionale su cui molti suoi collaboratori e successori stanno procedendo.
All'inizio dei nostri scambi di lettere e telefonate, e durante i nostri primi colloqui, mi aveva manifestato il suo stupore per la scelta di chiamarmi Francesco, e aveva voluto capire bene le motivazioni della mia decisione. E poi, lo incuriosiva molto il mio lavoro di pastore della Chiesa universale, e in questo senso ragionava a voce alta e nei suoi articoli sull'impegno profuso dalla Chiesa nel dialogo interreligioso ed ecumenico, sul mistero del Signore, su Dio fonte della pace e sorgente di strade di fraternità concreta tra le persone, le nazioni e i popoli.
Insisteva sul valore decisivo - per le nostre società e per la politica - delle relazioni sincere, proficue e continuative tra credenti e non credenti.
Era affascinato da varie questioni teologiche, come il misticismo nella religione cattolica e il brano della Genesi in cui si dice che l'uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. E dalla composizione e dalle caratteristiche delle popolazioni che abiteranno la casa comune nei prossimi decenni.
Da oggi ancora di più conserverò nel cuore l'amabile e prezioso ricordo delle conversazioni avute con Eugenio, avvenute nel corso di questi anni di pontificato. Prego per lui e per la consolazione di coloro che lo piangono.
E affido la sua anima a Dio, per l'eternità.
(Testo raccolto da Paolo Rodari)
La tv riproponga le interviste a Scalfari e le sue lezioni di stile. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 14 Luglio 2022.
Da rivedere Un’intervista di Minoli al grande giornalista; e «A Sentimental Journey», un racconto appassionato sulla vita di Scalfari, realizzato dalle sue due figlie Enrica e Donata del 2021
Mi auguro che Techetecheté riproponga un’intervista di Mixer del 1981. Giovanni Minoli stimolava i ricordi di Eugenio Scalfari sul «Mondo» di Pannunzio, gli chiedeva di rispondere alle opinioni date su di lui da alcuni giornalisti come Bocca e Montanelli, lo solleticava sul «vizio» dello scrivere. Mi auguro che Rai Storia riproponga Della vita e del potere, un lungo dialogo tra Scalfari e Paolo Mieli del 2004: «Non sono un dittatore — mente con sublime civetteria Scalfari —, non sono un monarca. Posso essere, e sono stato, il primus inter pares… Non sono mai stato un dittatore, e ho sempre cercato di allevare dei talenti che potessero, appena fosse il caso, appena io sentissi terminata la fase, sostituirmi…».
Mi auguro che La7 rimandi in onda una memorabile puntata di Otto e mezzo condotto da Giuliano Ferrara del 2006. Scalfari aveva scritto che nella sua trasmissione gli ospiti di Ferrara erano presenti soltanto «per far rifulgere le capacità del matador». Ferrara non aveva mai celato il suo dissenso alle opinioni di Scalfari, spesso in toni canzonatori. Ma che incontro civile, che alto livello! E spero anche che La7 rimandi in onda una puntata delle Invasioni barbariche di Daria Bignardi del 2008. Piccato da alcune osservazioni della conduttrice, Scalfari spiega a Bignardi, con sguardi paterni e buone maniere, come pausare di più le domande, senza necessariamente soverchiare il proprio interlocutore. Mi auguro che Rai 3 riproponga Scalfari. A Sentimental Journey, un racconto appassionato sulla vita del famoso giornalista, realizzato dalle sue due figlie Enrica e Donata del 2021. Ne esce un quadro vivido, striato di humour e di lacrime: «Questo crudele mestiere e il senso che se ne trae hanno poco a che spartire con solidarietà e compassione, richiedono un carattere addestrato al combattimento, una vocazione a vincere più che a soccorrere». È morto il 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia.
Eugenio Scalfari. Il suo giornale nato per guidare le riforme. Maurizio Molinari su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Repubblica è nata per guidare le riforme, in Italia ed in Europa». Con queste parole Eugenio Scalfari mi ha accolto alla direzione del giornale che ha fondato e da allora ogni nostro incontro lo ha visto impegnato a condividere le ragioni ed i valori del suo impegno per Repubblica. Adoperandole come chiave di lettura per comprendere e commentare assieme fatti di cronaca, personaggi della politica, eventi internazionali.
«Ho sempre creduto in un socialismo liberale, capace di unire eguaglianza e riformismo» mi ha spiegato in più di un’occasione, sottolineando l’importanza che il giornale da lui immaginato, fondato e poi diretto resti sempre «in prima linea nel guidare il Paese e l’Europa in questa direzione». L’idea di affiancare in prima pagina i nostri articoli domenicali è nata dalla volontà di un confronto continuo, su ogni tema – ed in ogni possibile orario – per sovrapporre «radici ed orizzonti del lavoro che ci accomuna».
Era per lui una maniera di continuare ad essere, anche fisicamente, nella sua redazione. Questi incontri, a casa sua o in redazione, sono stati per Scalfari l’occasione per trasmettermi «l’importanza» e «la responsabilità» di «battersi per le riforme» come approccio strategico ad un mondo in rapida trasformazione. Senza mai aver paura di osare. «Non fermarti per resistenze e ostacoli, ci sarà sempre chi te li metterà davanti – ripeteva – perché ciò che conta è fare ogni giorno il giornale più bello, ricco, vitale».
Fra costante curiosità sulle nuove tecnologie digitali, passione per le trasformazioni dell’Italia e attenzione all’orizzonte europeo, parole e pensieri di Scalfari mi hanno fanno conoscere forza ed energia di un giornale nato per «innovare e non conservare», per «sfidare i tabù» e «non difendere le ideologie», per guardare «in avanti e mai indietro». Con una costante attenzione al dialogo fra laici e cattolici, tessuto indispensabile della democrazia repubblicana. L’eredità che ci lascia è quella di un pensiero sempre aperto a cogliere le novità e di un’azione tesa a riformare il Paese, unite dalla passione per confezionare ogni giorno un quotidiano di qualità.
Il ritratto. Il secolo di Eugenio Scalfari. Ezio Mauro su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
È stato un rivoluzionario del giornalismo, come dimostra la fondazione di “Repubblica” a sua immagine e somiglianza. Con il merito immenso di aver trasformato l’informazione in conoscenza e il lettore in cittadino
Un giornale può sentirsi orfano, quando muore il padre. Esce ogni giorno, ogni giorno cambia, scritto com’è quotidianamente dalla realtà mutevole e sorprendente dei fatti. Però un giornale ha un’anima, un carattere, una sua natura particolare capace – se rispettata – di rendere il tutto coerente e di tenerlo insieme, firme e lettori, generazioni diverse, storie e provenienze: giorno dopo giorno, un anno dopo l’altro. L’anima di Repubblica è la vera creatura di Eugenio Scalfari, fatta a sua immagine e somiglianza ma con un dono speciale, quello della libertà nella conoscenza e nelle scelte. Perché il vero fondatore è chi crea qualcosa e poi lo lascia andare in un cammino autonomo, fedele nella libertà, perché gli possa sopravvivere.
C’è la fierezza per ciò che ha costruito, la commozione per averlo perduto, e il senso dell’abbandono nell’ultimo saluto a Eugenio, oggi. Si scoprono i sentimenti di un giornale, il vuoto e il dolore nella redazione, il lutto attorno a noi, tra i lettori, nelle istituzioni, nella società. Scalfari costituiva un mondo, lo definiva, lo rappresentava. Per noi era molto di più, il punto d’inizio e il punto di riferimento, il creatore di una comunità che si è scelta e deve continuare a scegliersi ogni giorno, una voce, un consiglio, un’amicizia e un affetto. Noi non abbiamo soltanto lavorato con lui: gli abbiamo voluto bene, come si fa con un progenitore che c’è sempre stato, con cui hai condiviso le vittorie e le sconfitte, e su cui pensavi di contare per sempre.
La verità è che non ci ha preparati al distacco, nonostante una vita lunga un secolo. Non i lettori, che lo hanno trovato qui ogni domenica dal 1976 fino alle ultime settimane, ma nemmeno noi, i suoi compagni. La forza intellettuale, la vivacità politica, la curiosità delle cose grandi e piccole rimanevano intatte, ci interpellavano ogni giorno e più volte al giorno e riscattavano il fisico infragilito, il movimento più lento, una fatica crescente nel muoversi. Fin che ha potuto entrava qui, ogni mattina, con quella sua eleganza distratta, fortemente personale, il bastone che sembrava un vezzo più che un appoggio. I gesti sempre uguali mentre sedeva, poi accavallava le gambe e subito accendeva una sigaretta, anche se negli uffici non si può più fumare.
A quell’ora del mattino, prima della riunione di redazione, aveva letto soltanto Repubblica, tutta. Bastava perché il mondo gli girasse intorno nelle sue orbite conosciute, e lui si sentisse capace di comprenderlo. Scherzava, si appassionava, raccontava sceneggiandolo un episodio della cena con gli amici la sera prima, si fermava su un pettegolezzo, ragionava sulla politica. Ogni tanto un accenno al tramonto, un pensiero sulla fine. Soltanto l’età era ormai un punto fisso dei discorsi, prima una scusa per dire di no a qualche appuntamento e non viaggiare, poi in qualche raro caso quasi una confessione, come una verità da condividere in silenzio, insieme, commuovendosi quando nominava Enrica e Donata e parlava di Simone, il nipote.
Il giornale, la sua gente, continuava a vivergli attorno, come a un vecchio padre da cui si parte e a cui si torna. Lo guardavamo mentre parlava in piedi con l’amico di un’intera vita, Carlo Caracciolo, o con il compagno di tanti anni, Carlo De Benedetti, infine con John Elkann, l’editore di quel mondo torinese a cui pure era legato attraverso la famiglia: e sapevamo che nelle mani, o forse in tasca, o nella mente e nel cuore lui teneva comunque sempre quella scintilla immateriale che trasforma un’impresa in un’avventura collettiva, una redazione in un giornale, un quotidiano in un soggetto che parla al Paese e non soltanto del Paese.
Dentro la creazione della sua maturità – Repubblica appunto – confluivano le sue diverse vite e i mondi che aveva frequentato: la gioventù immersa negli anni del fascismo, il liceo delle grandi amicizie, la provincia e le capitali, il francese come scuola culturale, Milano e le domeniche mattina nell’ufficio di Mattioli, la genesi liberale, l’esperienza radicale e l’incontro definitivo con la sinistra italiana, gli anni dell’Espresso che costruivano un mondo e non soltanto un giornale, e infine l’ambizione di Repubblica.
Più tante altre cose, alcune delle quali segrete, o almeno intime: sentimentali.
Da qualche parte sicuramente il mare, una specie di paesaggio dell’anima davanti al quale andava a passeggiare la sera con la madre, ai bagni Pirgus, quel mare che il nonno dipingeva nei suoi quadri e che lui “sentiva” da bambino affacciato al balcone della sala, guidato mentre scendeva il buio dalle prime luci delle lampare, dalle sirene dei vaporetti rimorchiatori che rientravano in porto, dalle cabine illuminate giù al largo. Una presenza costante come un rumore di fondo e un elemento della sfida. Che per Eugenio comincia da bambino, quando si assegna la responsabilità adulta di tener uniti i genitori in un matrimonio che scricchiola nella casa di Civitavecchia: una prova che poi prenderà il largo con il mito di Ulisse sempre frequentato, cercando la coscienza del limite, la conoscenza che lo supera, l’esperienza libertina che vuole provare il canto delle sirene, la responsabilità che fa tappare di cera le orecchie dei compagni, perché si salvino.
Qui c’è tutta la sfida riassunta in una parola: la conoscenza. Non solo una prova, dunque, o un cimento, un duello con un avversario. La vera sfida è il superamento di una soglia insieme e per conto dei compagni d’avventura, ed è soprattutto una partita con se stessi. Mettersi continuamente in discussione, puntare ogni volta ad un orizzonte più ampio, ripartire per un nuovo viaggio dopo ogni conquista.
Il giornale è questa necessità, e quest’occasione. Soprattutto per chi lo fonda e con questa fondazione fissa un’identità, disegna un profilo, indica un percorso di evoluzione e di crescita. Nel giornale di Eugenio, così come lui lo ha concepito, c’è la sfida di una comunità intellettuale e d’impresa, il miracolo di un incrocio vivo di generazioni diverse, di esperienze disparate, di provenienze differenti unite in una cultura di riferimento – con lui la chiamavamo una certa idea dell’Italia – e un obiettivo comune. Non è l’atto di governo quotidiano che unifica e tiene tutto insieme, bensì l’atto di nascita, l’imprinting, il dna. E solo il fondatore ha – per sempre – la dimensione della paternità, del soffio iniziale, di chi ha visto la barca prendere il largo con un equipaggio che lui ha scelto, su un legno che lui ha intagliato, verso una rotta che lui conosce. Non per caso quando non lo conoscevo personalmente, Scalfari mi ricordava un Gulliver che leggevo da bambino, disegnato mentre tirava dietro di sé con le mani i fili delle navi di Lilliput.
Il risultato è una concezione del giornale che va ben al di là della fotografia della giornata per puntare alla ricostruzione del mondo, all’invenzione del contesto, all’intelligenza degli avvenimenti, alla comprensione dei fenomeni. Cioè la creazione di una vera e propria macchina della conoscenza: capace di aiutare il lettore a partecipare e a capire, dunque a diventare un cittadino consapevole, proprio perché informato. Con un punto di vista forte, dichiarato e trasparente, perché non è una scelta partitica ma un’identità culturale, un modo di essere e di guardare al Paese e al mondo.
Se dovessi riassumere l’avventura giornalistica di Eugenio, direi che è la scommessa del cambiamento, anche in questo Paese, nonostante tutto, credendo ostinatamente che sia possibile persino in Italia. Crederlo, e testimoniarlo, appoggiandosi a due culture di minoranza, unite in quello che con disprezzo gli avversari chiamano ancora azionismo e che noi teniamo a cuore: la pratica politica della sinistra coniugata con il metodo liberale. Una scommessa, certo, anche un azzardo: puntare su un’Italia che non c’è, ma che si può costruire rifiutando la rassegnazione, partendo dal fondamento culturale delle cose, credendo nel valore di un impegno civile, nel sentimento costituzionale, di libertà, repubblicano. Nella felicità possibile della democrazia.
Questa sfida è più credibile se nasce dalla capacità di cambiare se stessi, mentre si chiede il cambiamento. E Scalfari ha rivoluzionato il modo di essere del giornale italiano, nel 1976, e attraverso la novità di Repubblica ha cambiato il giornalismo. Basta pensare al formato, che oggi tutti hanno adottato ma che allora sembrò e fu rivoluzionario, alla fine della terza pagina accademica, al paginone centrale per la cultura, alle pagine due e tre dedicate al fatto del giorno: tutte rivoluzioni diventate oggi patrimonio comune, ma nate dal suo genio giornalistico e dalla sua Repubblica, che da lui ha ricevuto la magnifica condanna dell’innovazione permanente. Con la scuola del grande settimanale unita al quotidiano Scalfari ha insegnato a non accontentarsi mai della dimensione frontale delle vicende, ma a inclinare ogni fatto e ogni giornata sul suo lato critico, cercando quel deposito di significato riposto che sta sul fondo delle cose.
Questa ricerca scalfariana di senso è ciò che trasforma l’informazione in conoscenza, la conoscenza in coscienza, il lettore in cittadino. E Repubblica in un unicum che non si può omologare, molto meno di un partito – come pigramente dicevano gli avversari – ma qualcosa più di un giornale, nella forza della sua soggettività e dell’identificazione con i lettori. Il quotidiano pensato da Eugenio è parte della vita del Paese, non della sua rappresentazione: e a differenza del cinema e della letteratura il suo giornalismo non è una struttura mimetica ma svela chi lo fa, porta in primo piano le sue idee e le sue passioni. Perché Scalfari è stato soprattutto un giornalista di idee, capace di cercare in ogni vicenda la dimensione culturale delle cose, quella che rivela perché dà sostanza, quella che resta perché è qualcosa che vale, dunque che dura. Per questo penso al dialogo quotidiano con Eugenio anche come a un antidoto al sentimento dell’effimero che pesa inevitabilmente sulla vita di un giornale, qualcosa che va oltre l’amicizia e l’affetto personale, oltre il dolore e la mancanza, perché lega le radici alle foglie come solo lui poteva fare.
Di questo, e di molto altro, ho fatto in tempo a ringraziarlo, con parole che sono soltanto nostre. In pubblico, lo abbraccio ancora una volta come abbiamo fatto ad ogni incontro, senza falsi pudori, e gli dico grazie per ciò che ha lasciato a tutti noi. So che ognuno degli uomini e delle donne di questa redazione e di quest’azienda porta con sé un “segno” dell’incontro con Scalfari, un gesto di attenzione individuale, un tono particolare del rapporto, un ricordo privato. Ma c’è qualcosa che vale per noi tutti: lo chiamerei l’algebra e il fuoco, la buona grammatica delle cose e la passione culturale che le attraversa e le illumina di senso. Una passione scalfariana che facciamo nostra per fedeltà e per scelta, nella ricerca comune di quello che con Eugenio, citando Williams, chiamavamo «lo strano fosforo della vita»: che poi è la materia del suo giornalismo e della sua amicizia, della sua natura. È il lascito che lui vorrebbe, quello che salutandolo oggi scegliamo e che porteremo con noi, riconoscendolo gli uni negli altri, dovunque saremo.
Scalfari: Augias, sono stravolto, gli ho voluto bene. ANSA il 14 Luglio 2022.
"A Eugenio Scalfari ho voluto bene, quasi tutto quello che so come giornalista l'ho imparato da lui" lo scrive Corrado Augias in un lungo emozionante articolo sul sito di Repubblica e domani nello speciale di 24 pagine del giornale che piange il suo fondatore morto oggi a 98 anni. Augias, come Gianni Rocca, Giorgio Bocca, Sandro Viola, Mario Pirani, Rosellina Balbi, Miriam Mafai, Barbara Spinelli, Natalia Aspesi, Enzo Golino, Orazio Gavioli, Giuseppe Turani, fa parte del primo inossidabile nucleo del quotidiano che vide il debutto nel 1976. "Sono stravolto, non ero preparato nonostante si sapesse che era alla fine" dice all'ANSA Augias.
"Di Eugenio Scalfari m'innamorai a vent'anni, nel 1955. Frequentavo i convegni che il settimanale Il Mondo organizzava la domenica mattina a Roma, al teatro Eliseo. Quando prendeva la parola sapevo già che avrei ascoltato una lezione di economia affascinante come un racconto, scandita con voce e tempi giusti da un uomo che mostrava gran fiducia in quello che diceva", ricorda Augias sul web del quotidiano.
Il giornalista, scrittore, amato volto della Rai (ricordato proprio nei giorni scorsi per l'avventura di Telefono Giallo nella Rai3 di Angelo Guglielmi), racconta la nascita di Repubblica, costola dell'Espresso cui pure collaborava, le prime riunioni in cui barava sulle copie vendute ("arrivava alla riunione con un foglietto dal quale leggeva cifre immaginarie: ieri a Milano 18mila, a Roma quasi 30mila, traguardi gettati lì per rincuorare la truppa facendogli intravedere la luce di un futuro. Tentativo che, a distanza di tanti anni, mi sembra eroico") e la celeberrima 'messa cantata', la riunione del mattino con complimenti e bocciature per i colleghi. (ANSA).
Quelle sere con Scalfari in via Veneto e una certa idea dell’Italia. Corrado Augias su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Anticipiamo l’introduzione scritta “in memoriam” da Corrado Augias al celebre volume di Eugenio Scalfari "La sera andavamo in via Veneto", che Repubblica ha deciso di ripubblicare per ricordare il suo fondatore
Il titolo di questo libro, La sera andavamo in via Veneto, ha una tale levità che sembra strizzare l'occhio al lettore. Serate leggere, chiacchiere, pettegolezzi, sorrisi, qualche drink. Nel libro c'è anche questo, intendiamoci: "Ad alcuni di noi piaceva molto ballare, i tanghi, i valzer...". Il temperamento di Scalfari comprendeva una tendenza all'allegria a volte sincera, altre volte usata come uno strumento tattico. Lo vedo ancora dopo una facezia mentre ancora sorride e intanto accende una sigaretta con un aggraziato movimento delle mani dalle unghie curatissime. Fermarsi al richiamo ammiccante del titolo sarebbe però un errore. Già la secchezza del sottotitolo richiama il vero scopo del saggio, sicuramente tra i più belli che Scalfari abbia scritto: "Storia di un gruppo dal Mondo a Repubblica".
Non deve stupire che un libro di storia - perché questo il libro è - possa avere cadenze da racconto brillante comprese alcune eccentriche divagazioni personali. Non deve stupire nemmeno che il racconto di questo gruppo abbia inizio da certi tavolini da caffè in una delle strade più famose del mondo. Il richiamo sottinteso sono i cafés littéraires del XVIII secolo, quello dei Lumi, o la loro più recente replica italiana nella versione casalinga della Terza saletta di Aragno. Un dipinto di Amerigo Bartoli del 1930, Gli amici al caffè (Roma, Galleria Nazionale d'Arte Moderna), mostra una specie di foto di gruppo di quegli amici e di quel caffè: da Emilio Cecchi a Vincenzo Cardarelli, da Giuseppe Ungaretti a Roberto Longhi, insieme a molti altri. Aragno si trovava in via del Corso, mezzo secolo dopo, dall'immediato dopoguerra, la scena si sposta ottanta metri più in alto: Porta Pinciana, via Veneto.
Non cambia però la doppia finalità dei caffè: pettegolezzi e progetti, cronache e fantasie, burle e accanite discussioni letterarie e politiche. Politica e letteratura, chi non ha memoria di quegli anni e di quelle persone, ignora quale diversa importanza avesse la coesistenza di questi due termini per molti rappresentanti politici, e per alcuni giornalisti. Oggi siamo abituati a rappresentanti politici di cultura approssimativa anche in termini generali. Riserverebbe credo brutte sorprese chiedere a questo o quello (o quella) la data d'un trattato, il titolo di un'opera, se Cavour riuscì o no a vedere Roma riunita al Regno d'Italia. Per quel gruppo la cultura era un elemento indispensabile.
Scalfari lo dimostrerà, tra l'altro, collocando le pagine culturali di Repubblica esattamente al centro del giornale, con doppio spazio. Nel libro arriva a confessare che lo scrittore americano Francis Scott Fitzgerald "aveva fornito alle nostre immaginazioni un modello di eleganze, vere o presunte, che era entrato a far parte del lessico e del comportamento collettivi". Al sommo di questo piccolo pantheon letterario non c'era lui però, bensì Marcel Proust, "il testo per antonomasia, senza la conoscenza del quale l'appartenenza al gruppo restava largamente imperfetta".
Nel novero, puramente astratto, degli adepti potevano rientrare alcuni comunisti come Togliatti o Giorgio Amendola, Alfredo Reichlin veniva ammesso ma solo come candidato, i socialisti invece erano scartati in blocco. Frivolezze certo, oggi sarebbero liquidate come "radical chic" e anche allora non erano molto ben viste dalla "sinistra di classe", come si definivano i comunisti. Resta che lo stesso pittore e disegnatore Mino Maccari, che faceva parte del gruppo, ritrasse in una graffiante vignetta gli "Amici del Mondo" mentre sorseggiano cocktail con tanto di ghette e cappello a cilindro. Fatuità, ma sotto la fatuità c'era la convinzione che solo una politica che si fondasse anche su una solida base di scelte culturali poteva avere qualche possibilità di cambiare il Paese. Non era del tutto vero, come avrebbe dimostrato proprio la sorte del gruppo, però era bello, era gratificante pensarlo.
Questo libro è uscito per la prima volta nel 1986, Repubblica esisteva già da dieci anni, molti eventi avevano notevolmente modificato il volto dell'Italia uscita dalla guerra come paese agricolo e patriarcale, con vaste zone d'arretratezza, largamente distrutto dai bombardamenti. Il 19 febbraio 1949 aveva visto la luce il settimanale Il Mondo destinato ad avere notevole importanza sul costume; nel 1955 era nato l'Espresso che sarà protagonista di risolute battaglie civili. Nel 1978 l'Italia aveva conosciuto il culmine del terrorismo con l'assassinio di Aldo Moro, due anni prima Bettino Craxi aveva conquistato la segreteria del Psi, c'erano state le grandi riforme degli anni Settanta, la morte di Enrico Berlinguer nel 1984.
Il gruppo dei fondatori, poco meno di un clan, si prefiggeva l'ambizioso scopo politico di creare una terza forza tra le due grandi Chiese rappresentate dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Comunista: "Creare un altro protagonista che le bilanciasse, depositario della laicità e del senso dello Stato".
Una cultura liberale, dunque, però attenta ai valori e alle necessità sociali a cominciare dall'ammodernamento complessivo del Paese, della sua economia, dal riscatto del Mezzogiorno. Un gruppo, precisa Scalfari, che sentiva profondamente i valori occidentali avendo come lascito culturale i principi della Rivoluzione francese e, ancor più, quelli della Rivoluzione americana del 1776, schierato senza riserve in favore di una federazione europea e della Nato: "Stati Uniti ed Europa occidentale erano visti come una Comunità unica", più Israele, ovviamente.
Tra le pagine nelle quali mi sono maggiormente riconosciuto ci sono quelle dedicate ai convegni degli "Amici del Mondo" che dovevano diffondere la necessità di questo rinnovamento in un'epoca in cui non esisteva nessuno degli attuali strumenti di comunicazione. I convegni si tenevano la domenica mattina al romano teatro Eliseo in via Nazionale. Tra il marzo del 1955 e il marzo del '64 ce ne furono una dozzina. Per uno studente ventenne qual ero, ascoltare quelle relazioni equivaleva a una buona esercitazione universitaria. Per la prima volta molti (quorum ego) sentirono dibattere sulla laicità dello Stato, sull'errore del Pci di aver elevato il Concordato fascista a livello costituzionale votando l'articolo 7, sulla speculazione delle aree edificabili che Antonio Cederna documentava con accuse di tale precisione da risultare inoppugnabili.
L'Espresso affrontò il tema gravissimo del "Sacco di Roma" affidandolo a un'inchiesta di Manlio Cancogni il cui titolo era destinato alla celebrità: Capitale corrotta = Nazione infetta. Le relazioni di Scalfari su temi economici erano tra le più seducenti. Ernesto Rossi aveva un'oratoria aspra, fiammeggiante; Scalfari al contrario era pacato, ragionevole, parole venate a tratti da una sfumatura di humour, un bel signore dai folti capelli neri, una fossetta sul mento, il vezzo di portare spesso, senza vera utilità, la mano alla montatura degli occhiali. Mai avrei immaginato ascoltandolo con attenzione concentrata, che di lì a pochi anni avrei collaborato con lui nei suoi giornali, che da lui avrei imparato quasi tutto quello che so di giornalismo. Credo che in quei convegni Scalfari abbia messo a punto quel suo modo piano, razionale, documentato, di esporre un problema o una situazione poi applicato ai suoi lucidi editoriali su Repubblica.
Tra le idee lanciate da queste campagne c'erano la riforma fiscale, la nominatività dei dividendi azionari, la tutela del risparmio, la lotta contro i monopoli. Era più o meno la piattaforma sulla quale sarebbe nato il primo esperimento di centro sinistra nel 1963. Monopoli e oligopoli, godevano d'una posizione che permetteva di disporre di mezzi e strumenti d'utilità collettiva utilizzandoli come un bene privato. Situazione additata come intollerabile, un furto alla collettività. Si chiedeva, con insistenza, il passaggio di questi poteri o funzioni alla mano pubblica. In qualche caso il gruppo ebbe successo. Nel 1963, quando finalmente arrivò il primo governo di centro sinistra guidato da Aldo Moro, le società elettriche vennero abolite e nacque l'Enel anche se poi, postilla l'autore, "la programmazione fallì di fronte alla resistenza degli interessi corporativi e a causa della pochezza delle forze politiche che avrebbero dovuto sostenerla".
Un altro percorso politico di alto contenuto strategico per la vita degli italiani fu quello dei rapporti tra questi liberals e il Partito Comunista. Il lettore troverà in queste pagine numerosi riferimenti ai notevoli cambiamenti portati dal tempo. Inizialmente il giudizio era del tutto negativo: "il Partito Comunista veniva guardato come un luogo politicamente desertico e impraticabile; si aveva verso la sua cultura e verso alcuni dei suoi uomini un atteggiamento di superba alterità". Le cose, in seguito, cambiarono in base a fattori politici, ideali, di carattere, di convenienza, nonché di epocali mutamenti internazionali. A distanza di tanti anni a noi interessa l'approdo finale di questo viaggio.
Lo possiamo riassumere nella formula "democrazia compiuta" cioè nell'utilità di cui lentamente ci si rese consapevoli d'includere quanto meno nel gioco delle istituzioni, se non in quello del governo, i rappresentanti di una grande forza popolare fortemente motivata e disciplinata, a condizione che riuscisse a sciogliersi dall'abbraccio con il comunismo sovietico che - tra l'altro - stava ormai declinando.
La mattina in cui fu rapito, Moro si stava recando alla Camera dove il governo presieduto da Andreotti avrebbe avuto anche l'appoggio dei comunisti. Era stato proprio Moro a tessere con movimenti quasi impercettibili quella tela, un disegno assai poco gradito ad alcune cancellerie occidentali, alcune delle quali erano arrivate a minacciare la sospensione di ogni aiuto se i comunisti fossero davvero arrivati al governo. Gli assassini delle Br ne erano certamente consapevoli. Le cose poi andarono come sappiamo. Nel 1989 venne giù non solo il Muro di Berlino ma l'intero sistema politico e imperiale sovietico con le conseguenze che abbiamo oggi sotto gli occhi. Come il lettore vedrà, il racconto è completato da una serie di bellissimi medaglioni dedicati ad alcuni dei protagonisti di quegli anni, gustosi anche per l'aspetto narrativo. Ritratti dai quali emergono non solo le fisionomie ma anche gli aspetti del carattere, i gusti, le predilezioni.
La cronaca di una giornata a casa De Mita nel cuore del Mezzogiorno sembra una pagina strappata al racconto di un grande meridionalista. Le oscurità insondabili delle manovre di Andreotti, fosse o no mafia, sembrano tratte da un film con Nosferatu. La cordiale allegria di Pertini, i suoi slanci apparentemente ingenui toccano il loro zenit quando volò a Padova con un aereo militare per riportare a Roma la salma di Enrico Berlinguer: "lo porterò a casa come un figlio", disse. A Craxi che lo rimproverava d'aver fatto guadagnare un paio di punti al Pci nelle elezioni, Pertini rispose: "Quando succederà riporterò a casa anche te". Fondamentali, per capire il carattere e la vera linea profonda di un giornale come Repubblica, le pagine con la cronaca di quanto avvenne nei quasi due mesi del sequestro Moro. Si doveva decidere ogni giorno se pubblicare o no il tal comunicato delle Br, la tal foto di un sequestrato, se si doveva o no cedere alla richiesta di appoggiare la liberazione di alcuni terroristi regolarmente condannati per salvare la vita di un ostaggio. Un tragico ricatto.
Non credo che ci siano, in tempo di pace, decisioni più difficili. La calma con la quale Scalfari ne riferisce è la stessa con la quale guidava le nostre riunioni: mantenere al massimo la freddezza del giudizio per cercare di salvare una vita, ma prima ancora per non compromettere gli equilibri e la stessa vita della Repubblica italiana. Negli anni, successivi Scalfari ha più volte ripetuto che di quella "linea delle fermezza" non s'è mai pentito. Per la parte che mi riguarda, nemmeno io. Nelle pagine che seguono il lettore troverà tutte le motivazioni di quella difficile scelta. Gli anni sono passati in fretta e quasi senza fatica, conclude Scalfari: "Li abbiamo vissuti con l'allegria degli affetti e quelli delle opere". Il tempo della memoria è la cifra di questo libro che a mo' di congedo ha, quasi una dedica, una finale citazione dell'amato Proust.
“O direttore mio direttore”. Un maestro in redazione. Maria Novella De Luca su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Bisogna partire da qui, dalla sua stanza. Al sesto piano di Largo Fochetti, in fondo al corridoio della Cultura, accanto alla stanza di Ezio Mauro. È come se Scalfari fosse appena uscito o da poco entrato, tutto è come sempre, il grande tavolo di vetro, l’autografo di Totò, il sorriso complice con Carlo Caracciolo, la foto con la moglie Simonetta, i Meridiani blu. Bisogna partire da qui, lottando con la nostalgia, per ricordarlo con le “nostre” parole, tessendo memorie, testimonianze, affetti. Gli infiniti racconti della “sua” redazione, quella nata nel palazzone di piazza Indipendenza, e le generazioni arrivate dopo, fino ai colleghi più giovani, ancora stupiti di incontrarlo, quando ancora veniva al giornale, accompagnato, sottobraccio, dolcemente, dal suo fedelissimo autista Dario.
Una giornata sospesa e segnata dal lutto. Fabio Tonacci è alla sua scrivania, in Cronaca Nazionale, da poco è tornato dall’Ucraina. "La prima volta che ho visto Scalfari era su una mensola della mia camera. Mio padre aveva la raccolta di tutti i suoi articoli, “perché Repubblica è un giornale meraviglioso”, mi diceva. Nel 2010 mi sono ritrovato nel giornale meraviglioso. Da qualche parte c’è la stanza di Scalfari, mi dissero. Ma i giganti intimoriscono, fanno volare e lasciano cicatrici. Non ho mai bussato a quella porta. Nel 2020 Scalfari venne in assemblea un’ultima volta. Piegato dalla vecchiaia, era sempre lui: intellettualmente dritto come un fuso, inarrivabile come una mensola appesa troppo in alto".
Ed è sempre la stanza di Eugenio che torna nei frammenti di ieri e di oggi, sospesi tra il sorriso e il dolore, con il senso di aver appartenuto e di appartenere a una storia speciale. "Era il 1984 – racconta Daniele Mastrogiacomo, uno dei giovanissimi di piazza Indipendenza - fui mandato dalla Cronaca a fare un servizio su uno sciopero dei medici al Policlinico. Avevo appena finito di scrivere e ricordo distintamente la voce di Scalfari nell’interfono: mandatemi il cronista del pezzo sui medici. Entrai e il direttore, guardandomi, buttò il mio pezzo nel cestino. E mi spiegò per filo e per segno perché quell’articolo era sbagliato: non avevo spiegato le ragioni politiche di quello sciopero, cosa c’era dietro quella protesta. Riscrissi tutto daccapo e non ho più dimenticato quella lezione".
Essere coscienti di un’avventura irripetibile. Di far parte di un quotidiano che aveva un’anima diversa da ogni altra. Essere nuovi, come il formato tablet o il paginone della Cultura planato al centro del giornale. Giuseppe Smorto, a lungo a capo dello Sport poi del sito di Repubblica, dice, addirittura, «anche 40 anni dopo continuo sognare il Direttore». "Mi parla di un titolo, di un’inchiesta, del giornale che ha chiuso troppo tardi. Sta dentro di noi, specialmente quelli cresciuti in via dei Mille, un padre, un maestro". Dario Olivero, oggi capo della Cultura, esponente, come Fabio Tonacci della “nuova generazione”, smussa la nostalgia con l’ironia. "Ezio Mauro voleva che dirigessi la Cultura, però mi convocò dicendomi: “Prima devi passare da Eugenio, ti vuole conoscere". Andai nella sua stanza, intimidito e incuriosito. Scalfari fu gentilissimo, mi offrì una sigarettae parlammo di Shakespeare. Dopo una citazione dall’Enrico V, capii che l’esame era passato». Ed è infatti con una frase di Shakespeare «vi lascio il rosmarino per i ricordi, le viole per i pensieri» che il 3 maggio del 1996 «dopo vent’anni, tre mesi e due giorni», Scalfari cede il posto a Ezio Mauro, che guiderà con passione e tenacia Repubblica per altri vent'anni. Una valanga di ricordi, affidati alla memoria di alcuni colleghi, per rappresentarli tutti.
Lievi le parole di Fausta Mattei e Stella Somma, della segreteria di direzione. "Negli ultimi tempi spesso chiamava per parlare di musica. Ricordava le melodie ma non i titoli. Quindi intonava le note, citava l’autore e chiedeva di trovare il titolo dell’opera o della canzone. Una delle ultime che chiese era il Requiem di Mozart. Lo canticchiava, diceva che ne era stato fatto un film. Quando poi gli mettemmo la musica era contento e cantava con il coro. Si faceva grandi risate sulla facilità con cui sul web si riusciva a trovare quello che lui chiedeva con estrema velocità. Quando telefonò Papa Francesco: “Direttore le passiamo il Papa”. E lui rispose: "Ma che dite?" Dovemmo insistere non poco per convincerlo, ebbe fiducia e si fece passare la telefonata. E da lì cominciò la loro lunga amicizia".
Laura Laurenzi, anche lei entrata giovanissima a Repubblica e firma storica della "cronaca bianca", sottolinea la soggezione che si provava davanti a Barbapapà. "Ho sempre pensato che Scalfari avesse un grande carisma, un po’ libertino. All’inizio mi metteva persino soggezione e faticavo a dargli del tu. Ma rapidamente mi fu chiaro quanto fosse importante per lui il senso dell’umorismo, il suo e quello altrui, se non ridere quanto meno sorridere. Non credo ci sia stato un direttore che abbia valorizzato così tanto le firme femminili. In una riunione che lui chiamava “Messa cantata” annunciò che stava per affidare un’inchiesta molto complicata a Miriam Mafai: "Siccome è un pezzo difficile voglio che lo scriva una donna", disse".
Alessandra Longo, a lungo inviata del Politico: «Aveva la straordinaria capacità di far sentire tutti importanti. Anche gli ultimi arrivati potevano ricevere idealmente da lui il “bastone del maresciallo”. Complimenti e alzate di sopracciglio. Tutto scolpito nella pietra. Siamo stati molto fortunati». Silvana Mazzocchi, cronista di giudiziaria negli anni più duri del terrorismo. «Mi ha insegnato che il giornalismo è anche passione. Che è necessario avere il coraggio dell’anticonformismo e che bisogna rischiare per informare».
Carlo Bonini, vicedirettore di Repubblica: "Porterò sempre con me le risate cristalline, come di un bambino, con cui alle sei del pomeriggio del sabato, Eugenio interrompeva e giocava con il discorso che intrecciavamo al telefono e gli leggevo il titolo scelto per il suo editoriale. Quelle risate erano manifestazione colta di curiosità e stupore. Un rito che trasmetteva fisicamente il senso di appartenenza a questa casa". Angelo Rinaldi, anche lui vicedirettore di Repubblica: "Grazie direttore per aver desiderato, pensato, amato e costruito questo grande giornale. E per averne condiviso le passioni umane e professionali".
Piero Colaprico, ex capo della redazione di Milano."Con Scalfari ci si sentiva sicuri. Eravamo negli anni ’80 e a Milano venne scoperto l’ultimo covo delle Brigate Rosse. Avevamo la notizia in esclusiva, venne messa d’apertura e, quando un importante collega romano propose di affiancarmi, Scalfari disse: “Colaprico l’ha trovata, va avanti lui anche se è un cronista”. Rispettava moltissimo il lavoro, esisteva una grande trasparenza negli incarichi e un controllo di qualità altissimo. Durante Tangentopoli, con lui al timone era difficilissimo sbagliare. Gli sarò sempre grato per il clima che aveva creato, e anche per la sua gentilezza".
Marco Ruffolo, già capo dell’Economia torna con la mente ad un periodo difficile, ad una frattura. "Dopo la vendita del pacchetto azionario dell’Espresso a Carlo De Benedetti, scrissi una lettera a Scalfari dolendomi del fatto che con quella cessione finiva il doppio sogno di un editore puro (Caracciolo) e di un direttore comproprietario del proprio giornale (Scalfari stesso). Subito dopo avergli inviato la lettera, mi pentii di questa mia iniziativa forse troppo ardita e inopportuna. Temevo una sua risposta dura, o peggio ancora il più assoluto silenzio. Non fu così. Mi arrivò una sua lunga lettera nella quale mi spiegava i motivi di quella scelta: senza quella vendita, Repubblica semplicemente non sarebbe sopravvissuta. Concluse ricordandomi affettuosamente che l’indipendenza di un giornale sta nella tenuta etica e nella capacità professionale dei suoi giornalisti, a cominciare dalla figura del direttore".
Marco Patucchi, vice caporedattore degli Interni, era accanto a Scalfari nell'ultima assemblea dei giornalisti a cui il fondatore, a già assai malato e provato, si presento a sorpresa, accolto da un applauso che non voleva finire. "Lui non c’è più, ma continuerà a vivere in tutti noi e nelle generazioni successive di giornalisti alle quali, mentre Repubblica cambiava pelle, abbiamo trasferito la storia e l’anima del giornale. Chissà se sarà sufficiente il nostro impegno. Senza di lui sarà più difficile. Ma glielo dobbiamo. Senza di lui nessuno di noi sarebbe quello che è". E nessuno busserà più alla sua stanza del sesto piano.
Eugenio Scalfari. La politica e le battaglie di un profeta senza partito. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Per sessant’anni ha raccontato il Palazzo. Chiamando Craxi con il nome del brigante Ghino di Tacco. Dialogando con Berlinguer e De Mita E non nascondendo le sue inimicizie: da Cefis a Berlusconi
La grande e nobile tradizione giornalistica italiana, da Scarfoglio ad Albertini, da Mussolini a Gramsci, è connaturata all’interventismo. Osservare e interpretare, ma soprattutto modificare la realtà. Questo è stato e questo specialmente ha fatto, con imprevedibili risonanze, Eugenio Scalfari: giorno dopo giorno per oltre 60 anni, l’arco di due repubbliche e mezzo, a suo modo segnando la trasformazione di un paese contadino e papalino nell’Italia di oggi.
In mezzo c’è la storia, così piena di fatti e parole che a Scalfari fanno pensare. Gli intrighi del Sifar e la Razza Padrona, la linea della fermezza e il brigante Ghino di Tacco, espressioni entrate di forza nell’immaginario; come pure la plausibile leggenda che l’ha voluto di volta in volta consigliere, architetto o addirittura demiurgo di passaggi decisivi: dalla svolta moderata di Lama al consenso su Pertini, dalle picconate di Cossiga alle nomine di De Mita (Prodi all’Iri) fino alla gestazione, che si paventò “eterodiretta”, del Pds di Occhetto.
E se pure in nulla l’odierna società politica italiana assomiglia a Scalfari, beh, torna a suo onore l’indipendenza di «giornalista politico d’intervento — come lo definì negli anni ’80 Giorgio Bocca — capo partito senza partito». Da tutti i potenti riconosciuto come un orgoglioso ed enigmatico governante ombra, là dove l’ombra, lungi dall’evocare oscurità, traeva la sua fuggevole natura da un uomo che al dunque rispondeva solo a se stesso e al suo immenso talento nel comprendere e raccontare la vita pubblica, fulgori e magagne, comunque alla luce della passione culturale.
Innumerevoli gli scoop, imprescindibili le analisi, inesorabili le polemiche; di istruttiva e godibilissima lettura, oggi più di ieri, l’autobiografia, che il direttore di Repubblica intese personale e di gruppo, La sera andavamo a via Veneto (Mondadori, 1986). Non molto tempo fa lo storico Tassani ha scovato il primo articolo di Scalfari adolescente su un giornalino dell’Azione Cattolica; giovanissimo, prima di essere espulso dal Pnf, collaborò con il periodico Roma fascista. Ma il suo vero imprinting fu il liberalismo crociano. Un’Italia laica, di minoranza, ma senza complessi d’inferiorità, anzi.
Al Mondo di Pannunzio le idee politiche s’intrecciarono con un giornalismo elegante e scanzonato, l’impegno nella sinistra del Pli con i convegni dell’Eliseo, la battaglia contro i monopoli con la campagna contro il sacco di Roma, la Marsigliese con la fondazione del Partito radicale. Tutto questo mondo, che aveva come colonne Ernesto Rossi e Ugo La Malfa, il trentenne Scalfari cercava con altri di coinvolgere nell’imminente centrosinistra. «Cambiare musica e suonatori», l’Espresso ebbe subito questa ambizione. Nel Psi si orientò verso Riccardo Lombardi e il gruppo della Programmazione. Nel 1968 fu anche eletto deputato. Ma nel campo dell’economia — dove da giornalista apprese il senso dell’impresa, il dominio del denaro e l’importanza dei rapporti di forza — guardava al governatore di Bankitalia Guido Carli.
Pochi hanno conosciuto da vicino Fanfani e Moro, Mattei e Olivetti, Saragat e Merzagora, Spadolini e Ciampi. Molti altri Scalfari ha lodato, vezzeggiato, stuzzicato e poi, spesso e volentieri, anche disprezzato e preso di petto: da Togliatti ad Andreotti (e il pensiero va al serrato dialogo de Il Divo di Sorrentino), da Agnelli («L’avvocato di panna montata») al primo Cossiga, da D’Alema fino al giovane Renzi passando per Pannella. È difficile d’altra parte trovare regole o costanti nelle avversioni o nelle preferenze di un giornalista vissuto come un mito: illuminista, equilibrista, attore, profeta, libertino, giacobino, giocatore d’azzardo, corsaro, predicatore, torero, domatore e perfino centauro.
Con qualche approssimazione si può ipotizzare che l’intuito, ma forse sarebbe meglio dire il prodigioso istinto di Scalfari l’avessero portato con l’esperienza a coltivare una sorta di felice flessibilità che a sua volta gli consentiva di acquistare i lettori, che lo veneravano, proiettando la sua provvisoria benevolenza su questo o quel partito, questo o quel leader. Ciò nondimeno con alcuni personaggi non riuscì quasi mai a coesistere, e anzi sembrava ben lieto di incrociare le armi, queste ultime calibrate secondo una scala polemologica che dal raffinato dileggio, attraverso la più meticolosa enunciazione di circostanze a carico, giungeva all’allarmata rampogna.
Per cui prima Cefis, poi Craxi e infine Berlusconi ebbero sempre da lui e dai suoi giornali la più viva ostilità, e anche pane per i loro denti. Fu così ampiamente ricambiato, nel corso di un trentennio. Il progetto più impegnativo e ambizioso che si assegnò, negli anni ’70 e ’80, fu quello stabilire un’intesa tra la borghesia imprenditoriale e il Pci di Berlinguer, gigante impacciato e prigioniero di dogmi, favorendone l’evoluzione in senso liberale. Ma i tempi e la morte di Berlinguer non giocarono a vantaggio di questo processo. Quindi si concentrò sulla Dc di De Mita, anche in quel caso cercando di forzare la natura dello scudo crociato sul piano del rigore. Ma anche gli sforzi di De Mita furono vani e venne il Caf.
Il crollo della Prima Repubblica sorprese Scalfari fino a un certo punto. Nel corso della buriana appoggiò senz’altro Mani Pulite, senza poi dare tregua al Cavaliere. Comprese senz’altro la necessità di Prodi, del Pd e certamente gli piacque Veltroni. Ma in definitiva, dopo una vita così lunga e ricca, ciò che più rimane impresso dello Scalfari politico è quanto scrisse più di mezzo secolo fa, rivolgendosi a quello che fino a poco prima considerava il suo maestro e con cui stava ormai rompendo: «Non ho mai presunto di essere depositario di assolute verità, proprio perché le convinzioni liberali mi impediscono d’acquietarmi una volta per tutte in una verità rivelata, quale che sia il “papa” che me la riveli». Colpisce ovviamente quell’accenno al Papa, ma ancor più la sostanza di un uomo che solo oggi appare più coerente di quanto si sia mai pensato.
Eugenio Scalfari re di cuori. Rose rosse dal mio direttore. Natalia Aspesi su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
La galanteria, la seduzione, i riconoscimenti per un buon articolo. Il racconto di una “cronista” che quarantasei anni fa lasciò il quotidiano “Il Giorno” per seguire Scalfari a “Repubblica”
Ultranovantenni quasi coetanei, siamo stati, lui ed io, l’ultimo legame, la memoria tra l’oggi e quel giorno indimenticabile, il 14 gennaio 1976, quando il primo numero di Repubblica piombò su una Italia di speranze disordinate, che senza saperlo già l’attendeva, tanto da innamorarsene subito come fosse una spinta di giovinezza. Siamo rimasti tra quelle pagine per decenni, lui il fondatore, l’editore, il direttore, l’opinionista internazionale, io la cronista multitasking e poi, pensionata, la collaboratrice di varia umanità, accerchiati da sempre più giovani giornalisti, che in quel nostro ’76 non erano neppure nati e nei decenni si sono sempre incantati di quel Maestro che non si piegava ad alcuna frana ideologica e politica e che scriveva in modo così seducente.
Se io mi permetto di accomunarmi a Eugenio Scalfari, è perché questo momento di perdita, di fine, di buio, mi è particolarmente doloroso: non c’è più il mio Direttore che mi offrì, 46 anni fa, l’occasione della mia vita, non c’è più uno degli ultimi, e non è che ne siano rimasti molti, grandi democratici che la televisione si è concessa, e c’è invece, solo per me che in fondo a me ci tento, il monito di non farla tanto lunga, non c’è più spazio di vita, non c’è più tempo. Per il suo nascente quotidiano, Scalfari riunì una buona parte di possibili redattori del Giorno, un quotidiano che era stato grande col suo direttore ex partigiano Italo Pietra, e adesso ci rendeva sempre più nervosi con il nuovo, quel Gaetano Afeltra che, adorato dalla buona borghesia lombarda, non si era accorto che il mondo cambiava. Eravamo disperati, così, quando quello che aveva inventato e diretto l’Espresso ci offrì questa nuova avventura, lo ascoltammo dire: noi abbiamo denaro per tre anni, se ce la faremo si andrà avanti, se no no. Alcune firme con famiglia non se la sentirono di affrontare l’ignoto, ma zitelle e zitelloni avremmo fatto qualsiasi cosa pur di fuggire dall’amalfitano.
Dopo tre anni il giornale era diventato l’indispensabile foglio chic da mostrare dalla tasca della giacca per i maschi e per noi femmine sventolarlo alle riunioni femministe a teatri pieni. La direzione di Repubblica era già da allora romana, e nella nostra redazione milanese si viveva l’assenza di Scalfari come una comodità, ma ancor più come una diminuzione, da una parte ci sentivamo liberi anche di dar poco retta al caporedattore locale, dall’altra ci mancava il suo sguardo sia di approvazione che di rimprovero. Li bramavamo ambedue, soprattutto noi signore cui da Roma arrivavano mazzi di rose rosse per certi articoli laggiù approvati, che ci procuravano una specie di batticuore che però dovevamo rinnegare per parità che allora non si chiamava di genere.
Erano tempi quelli in cui, pur essendo donne tutte di un pezzo, avevamo ancora quel vizio riprovevole di natura patriarcale per cui dai superiori, dai capiufficio, dai dirigenti, dai segretari di partito, da un direttore di giornale, si pretendeva la promozione più richiesta, quella di attirare la di lui attenzione con i soliti trucchi della tradizione femminile. Figuriamoci Scalfari, il massimo dei direttori di giornale, che quando era deputato socialista e senza barba, non suscitava, mi dissero veri brividi, divenne bellissimo quando si fornì di barba e folta capigliatura grigia e poi bianca, con quella figura grande e belle giacche, e una voce, una voce… E lo sguardo? E il sorriso? E i discorsi? E la cultura? E i segretari di partito in ginocchio? E l’occhiolino delle amanti dei segretari di partito?
Alla redazione di Milano niente, le sue visite erano così fulminee che per quel che mi risulta, qui si evitarono drammi o anche solo sospiri. A Roma si muoveva una folla di giornaliste donne, che essendo ancora un po’ una novità, erano quasi tutte giovani e belle, tanto che la nostra redazione (la prima, l’altra non so) divenne una fucina matrimoniale, perché allora l’inviato anche di guerra aveva ogni opportunità di distrarsi, ma è ovvio che se stai ore e ore chiuso in un ufficio, più di notte che di giorno, qualcosa succede. Quando mi capitava di andare Roma, davanti alla porta chiusa dell’ufficio di Scalfari, si aggiravano le colleghe ansiose di essere ricevute e tra di loro l’aria sospetta di gelosia.
Non vorrei fare gossip, ma quando alla redazione di Milano arrivò una bella segretaria mora, si sussurrò che passando lei le giornate a trafiggere con gli occhioni innamorati l’ufficio del direttore, si era dovuto per qualche mese spostarla nella fredda anche sentimentalmente città del Nord. Certo se ne parlava e non so se per invidia, tra femmine si criticavano aspramente le colleghe che, troppo facile, illanguidivano per quell’uomo molto glamour, anche certe dame del bel mondo, infastidendolo e facendogli perdere tempo prezioso: così la pensavamo noi per togliergli ogni responsabilità. Proprio in quei primi anni di Repubblica erano arrivate le leggi sul divorzio, le famiglie saltavano allegramente, le donne si riprendevano la libertà, forse separarsi non era più una disgrazia ma una vera sciccheria: a meno di non essere un personaggio di fama e allora non potevi permettertelo, come Indro Montanelli che aveva una moglie a Roma e una a Milano.
Il nostro direttore invece è sempre stato di grande eleganza e lungimiranza e democrazia, in politica e nei sentimenti, e forse per questo le donne della sua vita sono state, sono, intelligenti, generose, prudenti: un uomo così va rispettato, non puoi fargli scenate, amareggiarlo, soprattutto perderlo. Così da fuori, ammirandoli tutti anche le figlie, Donata ed Enrica, Scalfari ci ha dato anni fa e poi sempre, l’ennesima lezione di civiltà. Mi piace, spero piaccia a molti, ricordarlo anche in amore, persino con un po’ di malizia, per liberarlo dal nostro lutto. A presto, ma non tanto.
Eugenio Scalfari. La cultura, l’intellettuale che cancellò la terza pagina. Paolo Mauri su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
La sua grande rivoluzione fu di mettere la letteratura, l’arte, il dibattito delle idee al centro, anche fisico, del nostro giornale. Ecco il ricordo postumo di un giornalista che collaborò con lui a questa svolta storica
Pubblichiamo un articolo inedito di Paolo Mauri, per vent’anni caporedattore della Cultura di Repubblica e scomparso pochi giorni fa, in cui raccontava come il fondatore plasmò le pagine culturali di questo giornale.
Il 14 gennaio 2016 i lettori di Repubblica si ritrovarono tra le mani un giornale che era già uscito quarant’anni prima: la riproduzione del primo numero in assoluto, in bianco e nero, 24 pagine e il paginone centrale (memorabile) dedicato alla Cultura. In apertura un articolo di Enzo Forcella sul volume einaudiano di Alberto Asor Rosa dedicato agli intellettuali, alla loro storia e al loro potere, al centro Giuliano Briganti che racconta una mostra di Alberto Burri e di spalla un’intervista di Alberto Arbasino a Bernardo Bertolucci su Novecento. Cominciava così il nuovo modo di affrontare temi e problemi culturali voluto da Scalfari: la Cultura come centro, anche fisico, del giornale, una sorta di perno intorno a cui tutto ruotava.
In anni recenti, a cena a casa di amici, e non so perché fossimo arrivati a quell’argomento, Scalfari raccontava che lui non voleva solo inaugurare un modo nuovo di far cultura sui giornali, ma voleva proprio fare un giornale che fosse culturale in tutto, nel trattare la politica e l’economia, la cronaca e naturalmente lo spettacolo. E io gli dicevo di ricordare benissimo una vecchia campagna pubblicitaria di Repubblica che sui muri delle grandi città prometteva di inviare ogni giorno una lettera agli intellettuali, agli insegnanti, agli studenti e alle donne, cioè ai principali attori della vita sociale e politica di quei giorni.
Non si trattava solo di liquidare la vecchia terza pagina ormai polverosa, comunque glorioso copyright 1901 di Alberto Bergamini (Giornale d’Italia), ma proprio di cambiare il linguaggio con cui il giornale intendeva comunicare con i suoi lettori. Era una rivoluzione e Scalfari lo sapeva benissimo, anche per aver già saggiato la questione quando dirigeva l’Espresso.
Repubblica era il quotidiano nato proprio per andare incontro tutti i giorni ai lettori de l’Espresso e di Panorama. Lettori giovani che volevano sapere e capire. Accanto agli studi di economia, politica e diritto, Scalfari, come ha raccontato nei suoi ricordi autobiografici, aveva fatto letture insaziabili di filosofia (Croce, ma anche Nietzsche e infiniti altri) e di letteratura e lo si sarebbe visto, negli ultimi decenni, dai suoi libri di riflessione filosofica e di invenzione letteraria. L’interesse per l’arte era cresciuto di pari passo con la frequentazione e l’amicizia di Giuliano Briganti, poi c’era la musica…
Al giornale si affidava ai capiredattori che aveva scelto per guidare il settore, Enzo Golino, Rosellina Balbi e infine chi scrive. Repubblica si dotò presto di una serie di collaboratori di altissimo livello: critici, storici, scrittori, scienziati. Nel paginone Scalfari voleva una cultura battagliera e insieme nobile. «Marmo pario», diceva in riunione e l’espressione era entrata nel gergo redazionale. D’altra parte dovevamo fronteggiare un concorrente che aveva cento anni più di noi come il Corriere della Sera.
Arrivammo ad avere collaboratori come Georges Duby e Claude Levi-Strauss che scrivevano appositamente per le nostre pagine, ma il segreto era quello di non fermarsi mai, di inventare sempre nuovi modi per soddisfare i lettori. Nacque Mercurio, affidato a Nello Ajello, nacquero pagine speciali per l’arte e per i libri. Una volta Benedetta Craveri portò in redazione Iosif Brodskij, che era a Roma in quei giorni, credo all’Accademia americana. Lo accompagnammo insieme da Scalfari che si intrattenne con lui a lungo.
Paolo Mauri, recentemente scomparso, per anni capo della Cultura di Repubblica Da direttore era curioso della poesia, anche se poi scriverà anche versi. Da ragazzo aveva avuto un rabbuffo dal padre per aver liquidato Leopardi con sprezzo giovanile. E ricordo che quando capitava in redazione Alfredo Giuliani lo accoglieva qualche volta con un sorriso: «Amico dei poeti!». Quando morì Montale non ebbe esitazioni: gli dedicammo gran parte del giornale.
Aveva una grande passione per il Settecento francese e non si sarebbe mai stancato di leggere libri e articoli sui grandi temi della Francia rivoluzionaria e patria della dea Ragione. Con Diderot aveva una sorta di colloquio aperto e lo aveva anche scritto, immaginando di incontrarlo a Parigi e di sentirlo dire la frase famosa, «i pensieri sono le mie puttane».
Fu felice quando Italo Calvino accettò finalmente di lasciare il Corriere e di passare a Repubblica. Per lui era, e lo ha detto molte volte, come riprendere i discorsi tenuti tanti anni prima a Sanremo, con un amico fraterno. Calvino collaborò al giornale solo per un paio di anni, che nel ricordo sembrano sempre molti di più. Credo che Scalfari abbia idealmente continuato a parlare con lui e del resto lo ha citato molto spesso. In quegli anni di Sanremo si erano poste le grandi domande cui si impiega appunto una vita, se basta, per rispondere. La filosofia non ortodossa di Scalfari nasce, credo, da lì e così le prime letture che poi sono il seme di tutte le altre.
È stato un grande intellettuale e come tale si è messo al servizio della Cultura e della Ragione creando strumenti capaci di diffondere le idee, oltre che scrivendo libri e articoli in proprio. Una vera operazione degna di un figlio dei Lumi quale era e gli piaceva pensare di essere.
Scalfari, il virus, Manzoni e Dumas. Francesco Merlo, Antonio Gnoli su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Cristianesimo e decadenza, politica e scienza, fisioterapia o jazz, scale o cucina. Eugenio Scalfari riflette sul contagio e i suoi molti dintorni
Nei suoi 96 anni, compiuti all'inizio di questo mese, non gli era mai accaduto di sentirsi un sopravvissuto: "È una sensazione che ho provato la sera del mio compleanno. Le tante telefonate, le centinaia di auguri, l'affetto che ho percepito intorno a me, tutto si è mescolato con un senso di disagio dettato da questo momento particolarissimo. Con i vivi e i morti che ogni sera ci vengono scanditi in un computo neutro come fosse un bollettino di guerra".
La conversazione avviene telefonicamente. Chiediamo a Eugenio Scalfari come stia vivendo questo momento che nessuno si aspettava. Cosa ha cambiato in lui, la pestilenza, così la chiama. Quali sentimenti rivela, quali riflessioni induce, quali paure genera un virus che ci troviamo a combattere come fosse, appunto, una guerra.
"È una guerra, per modo di dire, che la gran parte di noi combatte nel chiuso della propria casa, ognuno alla propria maniera con le proprie certezze e ansie. Mi conoscete e conoscete il luogo dove vivo. Qui abbiamo a lungo lavorato al vostro e nostro libro. Passato interi pomeriggi a conversare, più di un anno fa. Cosa è cambiato da allora? Certamente mi sento un po' più debole. Mi fa fatica fare le scale che portano al piano superiore. È raro che le salga. Perciò mi limito a stare quaggiù da dove vi sto parlando. Non ho molte esigenze. Intendo fisiche. So che devo disciplinare le forze. A volte guardo le mie mani, sembrano due piccole ali staccate dal corpo. L'altra sera, prima di cena, le ho deposte sul pianoforte. Come due guanti lasciati distrattamente cadere. Era da un po' che non mi sedevo davanti alla tastiera. Mi era venuta voglia di suonare qualcosa. Penso che la musica, a parte la danza che pure ne è il prolungamento, sia la cosa più straordinariamente fisica che possiamo immaginare. Per questo coinvolge il corpo. Ma il suono è uscito incerto, come incerto è il mio fisico. Cosa ho suonato? Ho improvvisato un pezzo jazz, ma era come se avessi il freno a mano tirato. Poi, dopo un po', ha preso forma qualcosa di decente che per un attimo mi ha rinviato agli anni migliori, alle serate con gli amici, tutti o quasi scomparsi. Inorridisco se penso all'ignoto che avanza".
Non c'è nostalgia nel discorso di Scalfari. Dal deposito delle parole clandestine esce improvvisamente "contagio". "L'avevamo quasi sempre usato in maniera letteraria o metaforica. Oggi rischia di produrre sanguinarie idiozie. La distanza sociale è stata a lungo un concetto di classe, il modo in cui il potere si è protetto dal popolo e i più ricchi da coloro che non lo erano, cioè la maggioranza. Il contagio, quello vero, mi pare stia rendendo tutto questo vano. Ci parliamo per telefono, laviamo le mani più volte al giorno. Igienizziamo la nostra vita attraverso mascherine, guanti di lattice e alcol. Forse verrà il giorno che igienizzeremo anche la nostra mente".
È spiritoso, ironico, perfino sarcastico Scalfari. "Mi chiedete della vecchiaia. È come se mi diceste "parlaci di te, vecchio signore. Dicci che consapevolezza ne hai in questo preciso momento". Sono statisticamente un sopravvissuto, perché solo pochissimi superano la soglia dei novant'anni. Il mio medico di fiducia, che è anche un amico, sostiene che quando nasciamo la forza fisica cresce più rapidamente di quella mentale. Man mano che si va avanti il rapporto tende a equilibrarsi e nell'ultima fase si inverte, anzi le forze sia mentali che fisiche arretrano insieme. Mi chiedete come contrasto tutto questo. Ci sono i farmaci, c'è la fisioterapia, che in questo momento non posso fare, ci sono la lettura e la scrittura che pratico costantemente. La scorsa estate sono stato ricoverato in clinica e quando mi sono svegliato da una specie di coma ho pensato che ero ancora io, ma non ero più io. Mi sentivo stordito e grato della luce che filtrava dalla finestra. Era un richiamo alla vita, alle sue ragioni elementari. Alla sua legge inesorabile, per cui avvertivo acuta la sensazione che un'altra piccola parte di me, psichica e materiale, stava nuovamente arretrando. Fino a che punto? mi sono chiesto. Fino a che punto riuscirò a sostenere questo lento e inesorabile degradare. E poi: verso dove? Non sono ateo. Ma non credo in Dio. Però credo in un essere tanto vasto da ricomprenderci tutti. Torneremo in quella energia primordiale che chiamo caos. Ma di questo, se non ricordo male, avevamo lungamente parlato. Di me sapete tutto. Ho avuto il privilegio e, aggiungerei, la fortuna di potermi guardare senza patemi. Eppure, se penso ai tantissimi vecchi che sono finiti nel tritacarne degli ospizi, o idealmente gettati dalla Rupe Tarpea come fossero oggetti fuori mercato, mi dico che qualcosa di insano sta accadendo ai nostri giorni. Un virus altrettanto potente è entrato nelle nostre teste. Dopotutto, perché sorprendersi? Il lessico politico praticato in questi anni è stato pestilenziale. Quello dei social non è da meno. Una grammatica ostile, violenta, intollerabile ha soppresso l'immaginazione, l'ha ridotta al rango di una piaga purulenta. Un evento inatteso, enorme per le conseguenze, sta scuotendo le fondamenta della nostra società. Come ne usciremo? Sapremo essere una società più giusta o una società costruita con i detriti della precedente? Ecco una domanda alla quale non so dare risposta. Tutto forse dipenderà da come ci comporteremo oggi, in che modo e con quale grado di onestà e competenza penseremo di riparare gli errori che abbiamo commesso. L'attuale e involontaria opera di demolizione coinvolge tutti; l'essere in qualche modo tutti esposti ci mette di fronte a un compito collettivo, a uno sforzo straordinario, a qualcosa che interpella non una parte ma l'intero. Il bene comune e non solo il bene privato. E invece continuano le voci dissonanti, le cacofonie, le accuse reciproche".
Il tono si fa improvvisamente cupo. Poi tace ed è come se nella pausa di silenzio si insinuasse il dubbio che le parole aiutino fino a un certo punto: "C'è molta retorica in giro e ho l'impressione che serva a coprire le contraddizioni, le incertezze e soprattutto a surrogare la mancanza di un agire comune".
Eppure le città sono chiuse e la gente è segregata in casa: "Sì, io stesso, come tutti, rispondo disciplinatamente ai numerosi appelli e alle ordinanze di restarsene nelle proprie mura domestiche. È uno dei pochi casi in cui la scienza ci ha messo di fronte alle nostre responsabilità. Per anni ignorata, e privata dei fondi necessari alla ricerca, scopriamo la sua forza persuasiva anche se a volte allarmante, il suo linguaggio chiaro, trasparente. Per la politica sarebbe una lezione impareggiabile se riuscisse ad adottarne lo spirito. Ma ho qualche dubbio e temo che passata l'emergenza si tornerà a ignorarla. Non riusciremo a capire questo Paese se non capiremo la sua storia. Ho voluto rileggermi alcune pagine che il Manzoni dedica alla peste. Sono giustamente famose e non ci torno sopra. Manzoni, al di là di tutto quello che di storico c'era, vedeva nel grande fenomeno della pestilenza il motore dell'irrazionalità. Il grande evento che prendendosi gioco della Provvidenza alimentava violenza, paura, terrore, superstizione. La peste, tra le altre cose, inebetisce e spaventa le folle, le trasforma in prede per gli avvoltoi della parola. Per puro caso giorni fa mi sono imbattuto nei Tre moschettieri, che è uno dei romanzi che ho più amato in gioventù. Al di là di tutte le ovvie differenze, mi colpiva che Dumas e Manzoni affrontassero grosso modo lo stesso periodo storico: i primi decenni del Seicento. Ma quanta diversità nel tono, nel respiro, nel ritmo! E ho pensato, guarda tu: Dumas vuole divertire il lettore, Manzoni lo ammonisce, lo guida, lo indirizza verso un orizzonte provvidenziale. Qualcosa che l'Italia ha vagheggiato, soprattutto nei momenti di crisi, e mai posseduto realmente. Io so che il cristianesimo ha voltato le spalle alla decadenza. Mi chiedo se alla fine la decadenza non abbia sopravanzato il cristianesimo. È una questione che lascio aperta. Ho appena finito di leggere Il discorso sulla servitù volontaria di Étienne de La Boétie. Questo straordinario amico di Montaigne ci illumina su cosa sia un popolo e come debba e possa difendersi dalla tirannia. Scritto cinquecento anni fa mi pare sia di pungente attualità. I grandi libri sono sempre in grado di produrre grandi interrogativi".
Eugenio Scalfari. La filosofia, l’allievo di Nietzsche e Proust. Antonio Gnoli su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
La riflessione laica sulla vita e la morte è una costante nelle opere di Scalfari. Ma non può essere ricondotta a nessuna scuola. Come Ulisse era un nomade della conoscenza.
Eugenio Scalfari è stata una figura singolarissima della storia italiana. Al di là dello straordinario lavoro nel giornalismo si aggiunse negli anni una vera e propria passione letteraria e filosofica. Non fu cosa tardiva né dilettantesca, ma un attraversamento ostinato e profondo che lo accompagnò fin dagli anni del liceo: da quella Sanremo dove aveva condiviso alcune esperienze intellettuali con il compagno di banco Italo Calvino. Ho l’impressione che quel sodalizio, poi interrotto e ripreso nel periodo della maturità, sia stato anche filosoficamente stimolante.
Se dovessimo, con qualche necessaria approssimazione, guardare al rapporto di Scalfari con la filosofia dovremmo ritagliare tre momenti fondamentali: la relazione con Benedetto Croce; il rapporto denso e proficuo con l’Illuminismo; la scoperta di Nietzsche. Le tre fasi corrisposero a diversi momenti della vita di Scalfari: ma furono soprattutto lo storicismo di Croce e l’apertura illuministica all’idea di ragione e di progresso a imprimere alla sua azione giornalistica una chiara spinta liberale e riformista. Non si capirebbe pienamente l’esperienza al Mondo di Pannunzio e di Ernesto Rossi e poi il sodalizio con Arrigo Benedetti (la fondazione dell’Espresso) e infine la nascita di Repubblica, senza la presenza di questo sfondo politico e culturale. Quanto a Nietzsche, approfondito negli anni della maturità, condivise la critica ai grandi sistemi filosofici, ormai incapaci di fondare o rivelare verità ultime.
Un punto comune ai tre momenti è senz’altro lo stile. Scalfari ha “mimato” la bellezza classica della lingua di Croce; ha interiorizzato quella scintillante e paradossale di Diderot; per poi acquisire il gioco aforistico e frantumato della lingua di Nietzsche. Il risultato è chiarezza di pensiero accompagnata dal dubbio e da una certa dose di provocazione intellettuale.
Tutto il percorso intellettuale di Scalfari avvenne sotto il segno dell’Io: una lunga, profonda, a volte tormentata e infine malinconica discesa nella profondità del soggetto, tra psiche, mente e ragione, ha reso il suo viaggio qualcosa di insolito. L’“Io” scalfariano era debitore della grande avventura di Ulisse, primo e involontario eroe della modernità, e di Montaigne nella cui riflessione colse i primi veri tormenti della ragione e l’insofferenza verso un sapere chiuso e sistematico. Se non si iniziasse da questa constatazione difficilmente si capirebbe l’importanza che il pensiero di Nietzsche avrebbe progressivamente assunto nella riflessione scalfariana. Quale Nietzsche privilegiò? Le sollecitazioni furono diverse. Dalle prime furtive e dannunziane letture giovanili di Al di là del bene e del male e Così parlò Zarathustra, egli giunse alla scoperta della complessità e contraddittorietà del pensatore tedesco. Tanto da farne il testimone più autorevole del passaggio dal diciannovesimo al ventesimo secolo. Ovvero su quegli anni che furono tutto «un susseguirsi di eruzioni vulcaniche del pensiero, una serie di terremoti che abbatterono una dopo l’altra le colonne che da due millenni reggevano il tempio della sapienza occidentale».
Se ne deduce che l’impostazione di certe pagine filosofiche – da L’uomo che non credeva in Dio fino a L’allegria, il pianto, la vita – non è riducibile alla puerile pretesa di fornirsi di un sistema che tutto inglobi e spieghi. Scalfari fu ben consapevole che i grandi scenari, o narrazioni filosofiche (fatta salva forse la lettura avvolgente che diede di Spinoza), erano stati in larga parte terremotati dalle forze che avevano agito sulla faglia irrazionalistica del Novecento e su quella crisi della ragione che avrebbe trovato numerosi testimoni tra le due grandi guerre mondiali. Dunque nessuna pacata tranquillità illuministica, nessuna inclinazione metafisica di immobilizzare la ragione si troverà in un pensiero che consegnò a Nietzsche non già il volto del nichilismo ma quello di colui che, distruggendo i valori della metafisica, si poneva il problema del loro necessario superamento.
Se dovessimo collocare la riflessione scalfariana in un punto preciso della contemporaneità vedremmo un uomo che desta ammirazione per la forza coinvolgente con cui seppe usare il timbro di una certa classicità e al tempo stesso sorprenderci per la distanza che egli stabilì da quegli argomenti che la tradizione classica pretese di rendere definitivi. Ogni passaggio, o ipotesi di mutamento, parve viverlo nella mobilità eraclitea piuttosto che nell’immobilismo parmenideo. «In questo universo di stelle danzanti (le stelle nicciane per intenderci)», scrisse, «Eraclito detronizza Parmenide, l’essere fluisce nel divenire, il senso si recupera nell’azione, cioè nella vita; la morale coincide con la responsabilità e con la sopravvivenza degli altri, senza i quali il misero animale “io” non potrebbe sussistere. E Dio non è morto: c’è finché qualcuno lo guarderà. Perciò ci sarà sempre».
Ma non credere in Dio e ammetterne la presenza, non fu in fondo come guardarlo agire sulla scena di un teatro? Percepirlo più simile a una finzione che a una realtà sovrastante? Dio, insomma, non era morto, ma continuava a svolgere una recita, a interpretare il copione che l’uomo gli aveva assegnato. Quel Dio, va sottolineato, non è mai stato fideisticamente presente nel credo di Scalfari, ma egli non ne sottovalutò mai il peso, l’importanza, l’efficacia, non solo teologica. Semplicemente lo collocò fuori dal proprio sentire più intimo. Senza per questo rinunciare alla forza del dialogo, prima con il Cardinal Martini e in seguito con papa Francesco.
È importante cogliere nella sua riflessione laica il modo in cui la vita e la morte – temi che nel tempo ha fortemente accentuato – siano state affrontate al riparo dalle scommesse della fede e della teologia. Da questo punto di vista, i suoi libri, e le sue poesie finali, possono anche essere letti con un preciso richiamo ad Hannah Arendt: non vi è vera filosofia che non sia in qualche modo legata alla dignità della nostra esistenza. Che è tale perché sempre aperta al gioco e alla tensione del dialogo.
Sono convinto che la filosofia di Scalfari non sia riconducibile a nessuna scuola particolare. Essa è stata prevalentemente nomade e si è nutrita anche di letteratura: da l’Odissea alla Recherche di Proust fino ai Quaderni di Malte Laurids Brigge di Rilke. Le sue incursioni nel mondo antico nascevano dal bisogno di comprendere il canone occidentale. Ma fu in Proust e in Rilke che egli ritrovò il senso della propria inquietudine filosofica e letteraria. In modi assolutamente diversi essi sconvolsero quel canone, riscrivendone, ciascuno dal proprio punto di vista, la forma.
Se Ulisse fu in un certo senso centrale in Incontro con Io, Proust e Rilke lo divennero, anche se non esplicitamente, nel Labirinto, il primo tentativo di Scalfari di dare una forma romanzata ai propri pensieri. In quel libro di antica postura araldica – dove girovaghi, avventurieri e aristocratici danno vita a una pantomima filosofica – si cela il vero enigma della morte. Che Scalfari nel romanzo chiamò “Regina”. Essa arriva una sola volta «ti tocca la spalla e il labirinto scompare insieme a te. Così tutto finisce e tutto ricomincia, morte e rinascita seguono un percorso che è eterno perché è circolare». Alla fine della sua lunga vita Scalfari seppe guardare alla “Regina” con rispetto, ma senza alcun timore reverenziale. Senza recedere in quel buio dove il nulla tutto inghiotte.
Eugenio Scalfari. I legami internazionali; in missione con l’Europa nel cuore. Juan Luis Cebrián su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Il fondatore del “País” ricorda la lunga amicizia con Scalfari. Le affinità elettive tra i loro quotidiani. E i tentativi di lavorare sotto un’unica bandiera giornalistica a livello continentale, contrastati dai “nazionalismi” britannici e francesi.
Persone che raccontano alla gente che cosa succede alla gente. Questa definizione del nostro mestiere, data a suo tempo da Eugenio Scalfari, è la più oggettiva che abbia mai sentito. Disse anche, a un gruppo di studenti spagnoli, che è un mestiere crudele e io posso ben confermarlo, anche se il mio amico Gabriel García Márquez, sempre ottimista, insisterebbe nel dire che è «il mestiere più bello del mondo». In ogni caso, è l’unico che io abbia mai fatto.
Conobbi Eugenio nella primavera del 1976, poco tempo dopo la fondazione di Repubblica e poco prima che nascesse El País. Durante un breve viaggio in Europa feci una sosta a Roma, per imparare dall’esperienza di quello che presto sarebbe diventato il primo quotidiano italiano; andai anche a visitare Le Monde, il simbolo della stampa europea per noi spagnoli che sognavamo la democrazia, e il Sunday Times, diretto all’epoca da Harold Evans.
L’incontro con Scalfari e la sua squadra fu quello che più di tutti mi aiutò a porre alcune delle solide basi che diedero fondamento e stabilità al giornale che stavo creando. In seguito ci incontrammo a diversi eventi ma sarebbero passati più di dieci anni prima che cominciassimo a coltivare il sogno di dare vita a una creatura in grado di formare un’opinione pubblica veramente europea, che prescindesse dai tic nazionalisti dei vari Stati dell’allora Mercato comune. Helmut Schmidt, il cancelliere tedesco socialista, ci provò quando, abbandonata la politica, assunse il ruolo di editore del settimanale Die Zeit. Inseguendo lo stesso sogno, Robert Maxwell cercò di trasformare il settimanale The European in un quotidiano ma abbandonò l’impresa per via dei battibecchi fra la squadra editoriale britannica e quella francese.
Fu allora che, durante una cena a casa di Carlo Caracciolo, parlammo della possibilità di tentare noi l’impresa. Non ci può essere un’Europa unita senza un’opinione pubblica europea, pensavamo. Parlammo con il fondatore dell’Independent, Andreas Whittam Smith, e con Jean Daniel, all’epoca alla guida del Nouvel Observateur, dopo che fallirono i negoziati con Le Monde, dove grossomodo ci dissero che non capivano la necessità di fondare un quotidiano europeo dal momento che ne esisteva già uno, il loro.
Preparammo modelli e studi di mercato, cercammo investitori, assumemmo professionisti, ma la singolarità francese sembrava un ostacolo insormontabile per gli europei del sud. Finché un giorno il nostro socio britannico suggerì che il denaro che italiani e spagnoli erano disposti a investire a Parigi avrebbe potuto essere trasferito a Londra, al suo giornale.
Accogliemmo la proposta e lavorammo per anni a Fleet Street, finché non ci rendemmo conto che nella culla del giornalismo britannico il nostro denaro era ben accetto ma le nostre idee molto meno. In Portogallo tentammo con Publico, a Porto, ma nel giro di pochi anni l’avventura finì allo stesso modo. Poi all’improvviso ci fu offerta l’opportunità di tornare a Parigi, questa volta non per competere con Le Monde ma per costruire un gruppo europeo intorno a quella testata leggendaria.
André Rousselet, fondatore e presidente di Canal Plus, invitò Caracciolo, Scalfari e me nella sua casa di Saint-Tropez per definire l’accordo. Fu un fallimento. Lo sciovinismo francese era infastidito almeno quanto l’arroganza britannica dall’idea che gli europei del sud potessero pretendere un protagonismo maggiore di quello che era disposto a concedere.
A quel punto capimmo che il giornalismo moderno, così come lo avevamo conosciuto, doveva al nazionalismo tanto quanto quest’ultimo doveva ai giornali che lo sostenevano. Quello che è rimasto dopo tante peripezie è una relazione stretta fra spagnoli e italiani, un’amicizia vera e il fatto, per me indimenticabile, che Eugenio Scalfari abbia presentato in pubblico l’edizione italiana del mio primo romanzo. E anche la convinzione che fosse un vero europeista, un liberaldemocratico convinto e un progressista che sognava il futuro. È stato un maestro, soprattutto per le nuove generazioni di giornalisti che oggi devono affrontare un ecosistema informativo infinitamente più complesso e difficile di quello delle nostre generazioni.
(agf)Negli ultimi anni ho assistito da lontano alla polemica suscitata da una delle sue conversazioni con Papa Francesco, quando fece dire al Pontefice che l’inferno non esiste. Fui felice di sapere che il suo concetto di intervista come genere giornalistico era identico al mio: la ricostruzione di una conversazione, sempre inviata preventivamente all’intervistato, come fece lui; la trasposizione letteraria, anche se non letterale, di un dialogo. Mark Twain o Charles Dickens non avevano registratori con cui fare il loro mestiere e grazie a questo hanno consegnato al mondo una visione genuina della verità. Credo che lo stesso Papa Francesco, che mantenne con Scalfari una relazione amichevole e dialogante, sarebbe in qualche misura d’accordo con me.
In definitiva, quella di Eugenio è una perdita semplicemente irreparabile per questo mestiere crudele, come credeva, e splendido, come ha potuto apprezzare. Il suo nome è già iscritto nella storia dei grandi, assieme a quelli di Indro Montanelli, Hubert Beuve-Mary, André Fontaine, Harold Evans, Jacobo Timmermans, Joseph Pulitzer e di un’altra manciata di persone che hanno dedicato la vita a raccontare alla gente che cosa fa la gente. Che il maestro riposi in pace, un uomo del nuovo Rinascimento che ci abbandona nel pieno della lotta contro il ritorno della barbarie del Medioevo.
Eugenio Scalfari, i libri. Incontri con Io ed eterna ricerca sempre per l’alto mare aperto. Raffaella De Santis su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
I libri scritti da Eugenio Scalfari sono lo specchio fedele delle tante curiosità del fondatore di Repubblica: l’economia, la politica, la filosofia, la letteratura, l’etica e la religione. Suggeriamo qui alcuni titoli tra i più significativi di una lunga avventura umana e intellettuale.
La bibliografia degli albori verte su temi economici. L’apice è senza dubbio Razza padrona, saggio pubblicato nel 1974 da Feltrinelli scritto insieme a Giuseppe Turani in cui è presa di mira la deriva clientelare dell’industria pubblica. Nel 1989 la prima autobiografia, La sera andavamo in Via Veneto (Mondadori 1986, poi Einaudi 2009), in cui racconta del suo gruppo di amici intorno al Mondo e Repubblica, di un clima comune che era un “gioco di squadra”: «Amavamo il jazz di Duke Ellington, di Satchmo e di Benny Goodman».
La produzione filosofica ha origine nel 1994, quando Scalfari lascia la direzione di Repubblica, con la pubblicazione per Rizzoli di Incontro con Io, primo passo di un’articolata riflessione nelle profondità della soggettività (edito poi da Einaudi nel 2011). Segue Alla ricerca della morale perduta (Rizzoli 1995; Einaudi 2019): l’etica è senza dubbio il filo rosso della vasta produzione scalfariana.
Il 1998 è l’anno dell’esordio nella narrativa con Il labirinto, narrazione esistenziale a sfondo filosofico. È poi la volta di La ruga sulla fronte (Rizzoli 2001; Einaudi 2010), romanzo che attraversa la storia d’Italia dalla seconda guerra mondiale al terrorismo anni Settanta. Sembrano fasi distinte, in realtà non c’è libro di Scalfari che non dialoghi con gli altri, in un continuo gioco di specchi.
Morale e politica sono al centro de L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi 2008), mentre Per l’alto mare aperto (Einaudi 2010) è un viaggio dentro la modernità, da Montaigne a Cervantes fino a Leopardi e Nietzsche. Ma è Scuote l’anima mia Eros a tenere insieme tutto: biografia, filosofia, letteratura, religione e anche psicoanalisi, a partire da una riflessione su istinti e desiderio (Einaudi 2011).
Negli ultimi anni Scalfari ha dialogato con Papa Francesco sulle pagine di Repubblica. Ne sono nati dei libri, come Dialogo tra credenti e non credenti (Einaudi-la Repubblica, 2013) e Il Dio unico e la società moderna, che raccoglie anche i colloqui con il cardinale Carlo Maria Martini.
Scalfari e gli anni del cambiamento. Lucio Caracciolo su La Repubblica il 14 Luglio 2022.
Quella di Repubblica era una monarchia assoluta e illuminata: il direttore sapeva gestire personalità importanti con il suo carisma.
Ho conosciuto Eugenio Scalfari nell’autunno 1975 da quasi imberbe volontario del “Rotor”, la ciurma dei sessanta ragazzi e ragazze guidata da Gigi Melega, rumoroso supporto volontario della nascente redazione di Repubblica. Chi non ha partecipato a quell’entusiasmante avventura non sa che cosa s’è perduto. Animati dal sacro fuoco, ci sentivamo privilegiate comparse di un’impresa monarchica. Sì perché la Repubblica nasce monarchia assoluta quanto illuminata. Non per decreto ma per carisma di re Eugenio. Sotto lo smagato sguardo del nostro altrettanto inimitabile editore, Carlo Caracciolo.
Eravamo nell’Italia che non c’è più, quella della vituperata partitocrazia. Paese unico al mondo, dove alla carenza di Stato più o meno brillantemente sopperivano i partiti e le loro diramazioni. “Partito” lo era, a suo peculiarissimo modo, anche il nostro giornale. Però totalmente indipendente dai partiti politici, riferimento inaggirabile del dibattito pubblico e delle correnti culturali che davano il tono a quegli anni. Non credo mi facciano velo l’affetto e la riconoscenza che da allora provo per Eugenio nel valutare l’eccezionalità di quella pattuglia, inizialmente esigua ma combattiva e variegata, da lui diretta con mano sicura.
Solo prestigio e autorevolezza del direttore potevano comporre personalità così esuberanti come Mario Pirani, Gianni Rocca, Fausto De Luca, Sandro Viola, Giorgio Signorini, Miriam Mafai, Giorgio Rossi, Carlo Rivolta, Rosellina Balbi, per citare solo alcuni dei protagonisti degli anni di fondazione. Ciascuno con opinioni piuttosto robuste, tutti disposti alla contraddizione. Al punto che, quando non trovavano contestatori altrettanto autorevoli, amavano contraddire sé stessi per puro gusto della discussione. Tutti disposti - talvolta a denti stretti - a sottomettersi all’arbitrato finale di Eugenio, senza necessariamente cambiare opinione. Sicché dopo la riunione del mattino il direttore fischiava la fine del primo tempo, quello dialettico, e scatenava la fase finale, che culminava verso le otto con i titoli di prima pagina e la lettura dialogica dell’editoriale di Eugenio per gli ammessi all’udienza.
Oggi li ricordiamo come “anni di piombo”. Lo furono, anche. Ma il colore di quegli anni restava quello della speranza e del cambiamento. La convinzione, talvolta un po’ fanatica, di essere “dalla parte giusta della storia”. Di una sinistra liberale e socialdemocratica – nel senso originario del termine - profondamente laica ma non mangiapreti (all’epoca il Vaticano contava qualcosa), orientata da Eugenio verso l’obiettivo strategico del superamento del “fattore K”: la piena integrazione del Pci nel sistema democratico attraverso la sua legittimazione a governare, per la quale necessitava il famoso “strappo da Mosca”. Sul quale si sprecavano le diatribe fra chi lo vedeva compiuto o in via di compimento (il direttore su tutti) e chi lo considerava tutto da verificare o addirittura impossibile. Solo Eugenio poteva dirigere e dirimere quella mischia.
Fra tutti gli insegnamenti che ho ricevuto da Eugenio, massimo resta il gusto di cercare chi non la pensa come me per confrontarmici. E di apprezzare la diversità delle opinioni altrui come arricchimento delle proprie. In tempi di cancel culture e di intolleranza esibita, sono specialmente grato a Eugenio di avere sempre difeso e addirittura protetto chi – e a Repubblica ce n’erano parecchi – non condividesse le sue tesi. Di tale suo irremovibile principio sono testimone avendolo sperimentato di persona. Non solo per questo, ma soprattutto per questo, Eugenio è stato e resterà la mia bussola professionale. Così come porterò sempre con me il ricordo della sua burbera dolcezza. Da quel sentimentale che era.
Donata e Enrica Scalfari: “Così papà ci ha preparate al suo addio”. Simonetta Fiori su La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Donata: «Se n’è andato in modo gentile, un gradino alla volta, come se volesse dirci: pian piano vi dovete abituare». Enrica: «È stato un viaggio di tre mesi di straordinaria intensità. Allegria, commozione, paura, incanto, divertimento. Per noi una necessità vitale accompagnarlo fino alla fine, per non perderci niente di nostro padre». Nell’attico pieno di luce, dietro il Pantheon, le ragazze Scalfari — come le abbiamo sempre chiamate — rievocano gli ultimi momenti d’una vita straordinaria, eccezionale anche in punto di morte.
La camera ardente di Eugenio Scalfari: gli ultimi saluti fra ricordi e Beethoven. La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Colleghi giornalisti, familiari, politici e tanti lettori di Repubblica per salutare il direttore Eugenio Scalfari. Alla camera ardente allestita presso il Campidoglio qualcuno lascia un fiore, qualcun altro una copia del giornale: tutti, però, firmano il registro delle presenze. Il primo è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Poco dopo arriverà il presidente del Consiglio Mario Draghi. Il segretario dem Enrico Letta, dopo un lungo attimo di raccoglimento, accarezza il feretro guardando la foto di Scalfari. Ad accogliere i visitatori, la settima sinfonia di Beethoven, che farà da sottofondo per tutta la giornata. "Non ha avuto nessun rimpianto - sintetizza la figlia Enrica - ha fatto una vita lunghissima e fortunatissima in cui si è divertito tantissimo. E fino all'ultimo è rimasto curioso per le cose nuove, anche le più piccole" Andrea Lattanzi
Emmanuel Macron ricorda Eugenio Scalfari: "L’amico della Francia che sognava l’Europa". Emmanuel Macron su La Repubblica il 16 Luglio 2022.
Il presidente francese ha sottolineato, con un messaggio inviato alla famiglia del fondatore di Repubblica appena scomparso, il suo ruolo di intellettuale e conoscitore della storia d'Oltralpe, ma anche di creatore di giornali che hanno animato la vita democratica italiana e del continente europeo.
La Francia ha perso un grande, grandissimo amico.
Eugenio Scalfari non si limitava a parlare il francese in modo straordinario, preciso nella scelta delle parole come i nostri più grandi autori, che tanto aveva letto e tanto amava citare. No, in lui non c’era solo l’amore per la nostra lingua, ma prima di tutto l’amore per la Francia, per i suoi Lumi, per la sua Encyclopédie (di cui possedeva con grande orgoglio un’edizione originale nel cuore della sua biblioteca), della sua Rivoluzione, che per lui era l’evento fondante dell’Europa, di quella che amava tanto, l’Europa delle libertà, dello spirito di apertura, della tolleranza e dei diritti dell’uomo.
Eugenio Scalfari, campione di parole e di passione politica. Walter Veltroni su La Repubblica il 16 Luglio 2022.
Con altri personaggi della sua generazione, da Calvino a Eco, ha liberato questo Paese dalle macerie e lo ha fatto correre. Finché ha potuto.
Eugenio non se ne è andato in un momento di gioia, mangiando un pandoro, come lui, diabetico, sperava accadesse. Se ne è andato nel silenzio che aveva preso la sua vita fatta tutta di parole. Quelle dei suoi articoli, dei suoi saggi, dei suoi romanzi, delle sue poesie. Le parole scritte e quelle dette, le parole delle mitiche riunioni della redazione del suo giornale, quelle pronunciate in televisione, quelle con le quali tesseva la rete dei suoi rapporti professionali e personali.
Eugenio Scalfari, quel viaggio a Mosca sognando la perestrojka. Paolo Garimberti su La Repubblica il 15 Luglio 2022.
Il ricordo di Paolo Garimberti, per anni capo della redazione esteri del nostro giornale. Fra tavole rotonde con i leader politici italiani e un viaggio emozionante nell'Urss di Gorbaciov.
Con Eugenio Scalfari eravamo rimasti d'accordo che ai primi di febbraio del 1986 sarei passato a Repubblica per guidare la redazione esteri, allora diretta da Giorgio Signorini. Una sera di gennaio, quasi a mezzanotte, mi chiamò Vittorio Zucconi da Washington: "Eugenio mi ha chiesto di fare un sondaggio per capire se saresti disposto a fare il capo della redazione politica per qualche tempo.
Giorgio La Malfa: Quando Scalfari fece dialogare Ingrao con il padre Ugo. Clotilde Veltri su La Repubblica il 15 Luglio 2022.
L'ex segretario del partito repubblicano racconta i rapporti con il fondatore di Repubblica a partire dalle vicende del Mondo di Pannunzio di cui suo padre era stato punto di riferimento. "Nei giudizi su Craxi aveva ragione, su Berlinguer meno"
«Eugenio Scalfari è stato un grandissimo giornalista, ossessionato dalla sua creatura al punto da sacrificarle tutto. Ma pur convinto di avere altrettanto talento politico, non sempre ha visto lontano, ha commesso errori gravi, come con Berlinguer». Giorgio La Malfa, una lunga carriera da deputato e ministro costruita nel Partito repubblicano di cui è stato anche segretario, accetta di ricordare il fondatore di Repubblica e soprattutto il turbolento decennio tra gli anni Ottanta e Novanta in cui il confronto era molto fitto, a volte ruvido.
John Elkann ricorda Eugenio Scalfari: "Ci ha insegnato ad avere coraggio sul futuro". La Repubblica il 15 Luglio 2022.
"L'ultimo incontro che abbiamo avuto è stato bello proprio perché lui voleva molto parlare di futuro. Mi colpiva per il suo grandissimo ottimismo e coraggio nel voler stimolare e innovare, in modo da poter creare un paese migliore, più forte. L'insegnamento più grande che ci lascia". Lo ha detto il presidente di Gedi, John Elkann, lasciando la camera ardente di Eugenio Scalfari in Campidoglio.
Con Eugenio Scalfari progettammo il primo giornale europeo. Bernard Guetta su La Repubblica il 16 Luglio 2022.
A Parigi tentammo di dare vita a un nuovo quotidiano con sede a Parigi. Sfida bella e impossibile: eravamo gli intrusi, ci misero i bastoni tra le ruote.
La nostra amicizia si era forgiata nella più folle delle battaglie.
A furia di leggermi su Le Monde come corrispondente da Varsavia, Washington e Mosca, Eugenio mi aveva scelto come futuro direttore di un quotidiano che voleva creare a Parigi, sotto il triplice patrocinio di Repubblica, El País e The Independent.
Ci credeva. Quel giornale doveva nascere.
Addio a Scalfari, Bernard Guetta porta il saluto di Macron: ''La Francia ha perso un grande amico''. La Repubblica il 16 Luglio 2022.
Il giornalista francese Bernard Guetta, grande amico di Scalfari, ha portato il saluto del suo Paese e un messaggio del presidente Macron: "In lui c'era l'amore per la Francia, la rivoluzione del 14 luglio era una data che amava perché momento fondativo dell'Europa. Grazie caro Eugenio per questa simbiosi tra Italia e Francia necessaria alla Europa. Sappiate famiglia e colleghi di Repubblica ed Espresso che la Francia lo amava e lo ammirava e gli deve innanzitutto riconoscenza". Guetta ha infine espresso un ricordo personale del fondatore: "Io ho perso un fratello".
Addio a Scalfari, Molinari: "Un uomo straordinario, con il coraggio di osare". La Repubblica il 16 Luglio 2022.
"L'Italia grazie a lui è un Paese migliore". Il direttore di Repubblica Maurizio Molinari riconosce questo grande ruolo a Eugenio Scalfari, durante la commemorazione laica nella Protomoteca del Campidoglio. Due i grandi meriti del fondatore secondo Molinari: "L'innovazione continua dell'informazione", ma anche "l'ispirazione ai valori del socialismo liberale", per una società basata su "diritti, riforme, uguaglianza e modernizzazione".
Addio a Scalfari, Giannini: "Tutto ciò che sembra nuovo oggi, lui l'aveva già inventato". La Repubblica il 16 Luglio 2022.
"Il padre di tutti noi, il nostro Barbapapà che ha inventato un settimanale che esce tutti i giorni, un giornale così bello non l'abbiamo mai saputo replicare". Massimo Giannini, oggi direttore della Stampa è stato assunto giovanissimo nella neonata Repubblica da Eugenio Scalfari, era uno dei "ragazzi di piazza Indipendenza".
In Campidoglio durante la cerimonia laica di commemorazione del fondatore scandisce: "Il giornale, Affari e Finanza, Il Venerdì, Mercurio, Viaggi. Oggi sono digitali, li chiamiamo content hub, che è una bella parola, ma lui li aveva già inventati". Gannini ricorda il giornalismo come "campo di battaglia" e Repubblica come "contropotere e roccaforte inspugnalbile". E saluta "l'immenso direttore dei nostri giorni felici".
Addio a Scalfari, l'emozione di Ezio Mauro: "Dopo gli anni del comando, quelli della dolcezza". La Repubblica il 16 Luglio 2022.
"Non ci resta che separarci da Eugenio". Ezio Mauro nella Protomoteca del Campidoglio pronuncia l'ultimo discorso per Eugenio Scalfari, il fondatore che dopo 20 anni esatti di direzione gli ha passato il testimone seguendolo giorno per giorno, ma anche l'amico di una vita. "Proteggeva i suoi uomini perché li aveva scelti, ma come ogni capo doveva anche servirli", ha raccontato Mauro. Che però ha voluto ricordare un altro Scalfari: "Divenuto più fragile fisicamente, aveva sviluppato una dolcezza che non gli conoscevamo", era "un sentimentale che cercava l'amicizia" e "conquistava ed era conquistato perché aveva in sé il maschile e il femminile".
Addio a Scalfari, Veltroni: "Un grande italiano che solo creando diventava felice". La Repubblica il 16 Luglio 2022.
"Ha fatto la rivoluzione nella storia del giornalismo", "per lui il giornale era come un figlio e i suoi giornalisti erano la sua famiglia". Walter Veltroni ha ricordato così Eugenio Scalfari, morto il 14 luglio scorso a 86 anni, in una Protomoteca affollatissima, in Campidoglio. "Un uomo che ha liberato il Paese dalle macerie e lo ha fatto correre".
Addio al fondatore, Gualtieri: "Riconoscenti a Scalfari, ci ha regalato la coscienza critica". La Repubblica il 16 Luglio 2022.
Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri ha aperto con un lungo discorso la commemorazione di Eugenio Scalfari, morto a 98 anni il 14 luglio scorso, in una Protomoteca stracolma.
Scalfari: "Sconfiggere le Br e cambiare l'Italia. Il mio ultimo incontro con Moro". La Repubblica il 23 marzo 2018.
Nel febbraio 1978, circa un mese prima del sequestro di via Fani, Aldo Moro riceve nel suo studio a Roma Eugenio Scalfari. Il ricordo di quella conversazione (che sarà poi pubblicata su Repubblica il 14 ottobre 1978), durante la quale il presidente della Democrazia Cristiana ha illustrato a Scalfari il suo progetto politico, dal governo Andreotti all’alleanza con il Pci con l’obiettivo di creare un sistema politico “moderno” anche in Italia, basato su una normale alternanza tra centrodestra e centrosinistra. Il primo obiettivo però, era “sconfiggere le Br”.
Giulio Tremonti e quella tavola rotonda a Repubblica che lo portò alle dimissioni. Marco Ruffolo su La Repubblica il 17 Luglio 2022.
Allora consulente fiscale del ministro delle Finanze socialista Rino Formica, Tremonti ad Affari e Finanza propose l’idea di tassare in modo presuntivo non i singoli risparmiatori ma le grandi reti di intermediazione. Una ipotesi che gli costò il posto...
La foto risale a poco più di un trentennio fa ma ritrae un pezzo d’Italia che sembra lontano anni luce dai nostri giorni. Repubblica, piazza Indipendenza, fine novembre 1989. Prima che inizi una tavola rotonda sulla tassazione dei Bot, Eugenio Scalfari si intrattiene con Paolo Sylos Labini, uno dei più grandi economisti italiani e mondiali. Su di loro si fissano gli sguardi del quarantenne Giulio Tremonti, in piedi a braccia conserte, e di Vincenzo Visco, ministro delle Finanze del “governo ombra”, contraltare che il Pci ha opposto al sesto governo Andreotti. Uno degli ultimi della Prima Repubblica. Immerso nella lettura delle sue carte è invece l’economista Antonio Pedone, tra gli artefici della grande riforma fiscale dei primi anni ’70. Gli altri due, giustamente appiattiti sul fondo della foto grandangolare, sono Carlo Clericetti (prezioso custode di questa foto e allora responsabile di Affari&Finanza), e il sottoscritto.
Siamo alla vigilia di quel colossale “libera tutti” che prende il nome di “liberalizzazione valutaria”. I capitali premono alle frontiere in attesa del magico colpo di pistola, ma gli Stati europei non sono ancora riusciti ad armonizzare i loro sistemi fiscali in modo da scongiurare possibili crisi valutarie. In Italia c’è chi pensa che occorra abolire la ritenuta secca sugli interessi dei titoli di Stato. “Una “partita di giro”, sostiene Sylos Labini, perché ci costringe ad aumentare i tassi. Giulio Tremonti, allora consulente fiscale del ministro delle Finanze socialista, Rino Formica, ha invece un’idea diversa: tassare in modo presuntivo non i singoli risparmiatori ma le grandi reti di intermediazione che raccolgono il risparmio e lo trasferiscono all’estero. Alla fine non rinuncia ad una stoccata provocatoria che lascia basiti Sylos Labini e Visco: “Le imposte personali sono finite, hanno esaurito la loro funzione”. Quando il resoconto della tavola rotonda viene pubblicato, la proposta di Tremonti sui titoli di Stato viene ripresa con grande evidenza da tutti i giornali. Guido Carli, alla guida del Tesoro, non l’apprezza affatto. Formica va su tutte le furie e il suo incauto consulente è costretto alle dimissioni.
Un piccolo caso politico, piccolo e tutto sommato insignificante. Ma che illumina il retroterra di un’Italia ancora sospesa, certamente preoccupata e indecisa su quale direzione prendere, e tuttavia anche fiduciosa negli scenari che l’abbattimento del muro di Berlino e la fine della guerra fredda ci potranno regalare. “Signori partecipanti – dirà qualche mese dopo nelle sue Considerazioni finali il governatore Carlo Azeglio Ciampi – dal nostro ultimo incontro la scena mondiale è cambiata rapidamente, profondamente: si è aperta la possibilità di edificare un ordine internazionale più solidamente fondato sul diritto e sulla cooperazione”. Certo, il debito pubblico preoccupa ma la crescita è solida e il divario di inflazione con gli altri Paesi si è ridotto. C’è in tutti, compresi i protagonisti di quel dibattito economico, la sensazione di trovarsi di fronte a un bivio e soprattutto la consapevolezza che non sarà possibile tornare indietro una volta imboccata una strada piuttosto che l’altra.
La strada porterà i nostri protagonisti su lidi sicuramente non prevedibili: Tremonti passerà a Forza Italia e guiderà la politica economica dei governi Berlusconi, contro i quali tuonerà con straordinario vigore Paolo Sylos Labini. Visco sarà ministro delle Finanze dei governi Prodi e D’Alema. Quanto ai dibattiti sui giornali, raramente si vedranno negli anni successivi grandi economisti invitati a tavole rotonde: segno, forse, di una frammentazione del sapere che impedisce di fermarsi a riflettere e ad ascoltare con una certa lentezza (come ci aveva abituato a fare Eugenio Scalfari) quel che hanno da dire gli esperti.
'Pertini il combattente', Scalfari ricorda quelle telefonate in redazione. La Repubblica il 20 dicembre 2017.
"Mi chiamava quando eravamo in riunione, voleva essere messo a viva voce e ci chiedeva di quali temi ci saremmo occupati. E a volte ci dava notizie anche importanti, perché venivano dal Quirinale". Eugenio Scalfari ricorda le telefonate di Sandro Pertini durante la riunione di redazione di Repubblica in 'Pertini il combattente', il docufilm di Graziano Diana e Giancarlo De Cataldo che uscirà al cinema a febbraio.
Scalfari: "Berlusconi mi propose di prenotare una tomba accanto alla sua villa. Gli dissi: no grazie". La Repubblica il 24 ottobre 2018.
"Sono stato amico intimo di Berlusconi quando faceva televisione e non politica", racconta Eugenio Scalfari ospite di Giovanni Floris a Dimartedì, su La7. "Un giorno - aggiunge - ci fece visitare la sua villa, accanto alla quale aveva fatto costruire 12 tombe. Mi chiese se volessi prenotarne una. Gli risposi: no grazie".
“Eugenio Scalfari, genio del giornalismo e punto di riferimento della libertà di stampa”. L’intervento dell’editore de L’Espresso. Danilo Iervolino su L'Espresso il 14 Luglio 2022.
L’Espresso di cui ho l’onore di essere l’editore è la creatura di Eugenio Scalfari, genio del giornalismo in un Paese che lo ha avuto come saldo punto di riferimento per la custodia e la cura di un bene primario come la libertà di stampa.
Sento per questo di rivolgere un commosso saluto alla memoria di un uomo che ha saputo tracciare una strada nuova nella nostra storia. Avverto l’onere di proseguire lungo quella via, coltivando e facendo crescere la sua creatura nella indipendenza che è il tratto distintivo de L’Espresso fin dalla fondazione.
Eugenio Scalfari è stato l’intellettuale capace di cogliere le sfide della modernità, tenendo saldi i principi della democrazia e difendendo il patrimonio dei diritti. Al suo settimanale ha trasmesso idee e ideali, plasmando uno strumento di informazione aperto al dialogo ma intransigente sulla questione morale. Alla famiglia Scalfari giungano le più affettuose condoglianze per una perdita che è dell’intera comunità nazionale.
È morto Eugenio Scalfari, giornalista senza se e senza ma. Il fondatore dell’Espresso è scomparso a 98 anni. L’ossessione per i pezzi d’autore e la cronaca, l’odio per le allusioni in un articolo, l’ambizione di creare con i suoi giornali un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza. Bernardo Valli su L'Espresso il 14 Luglio 2022.
Detestava il condizionale. Faticava a tollerare il congiuntivo. Quei tempi non gli si addicevano. Se ne trovano vaghe tracce nei suoi scritti e li sconsigliava ai redattori. L’inviato di Repubblica a Varsavia, durante una delle grandi crisi polacche degli anni Ottanta, era traumatizzato dal ripetuto invito del direttore a riscrivere la corrispondenza appena mandata. Per tre volte una nota asciutta accennava a una mancanza di incisività. L’inviato, un bravo collega, non riusciva a interpretare quel rimprovero. Era sconcertato dal caparbio rifiuto del suo articolo. Infine si rese conto che l’insistente uso del condizionale dava un tono allusivo alla sua cronaca. I «se», i «ma» erano troppi. Deresponsabilizzavano lui, l’autore, e con lui risultava sfuggente Repubblica. A Eugenio Scalfari non piaceva quel vizio italiano.
Voleva pezzi “d’autore”. Repubblica doveva essere un quotidiano d’opinione, e quindi i contenuti politici di un articolo dovevano essere chiari, ma contavano soprattutto l’approccio alla realtà e il linguaggio preferibilmente asciutto, senza troppi fronzoli e colore. Era per uno stile diretto, narrativo; a chi lo usava concedeva la sua indulgenza; anche se a volte ne abusava. Esecrava le allusioni e amava la cronaca anche in politica, in cultura, perfino in economia. Era una scelta in parte ereditata da Arrigo Benedetti, con il quale aveva lavorato a lungo all’Espresso, e al quale veniva riconosciuto il merito di avere tentato di allontanare il giornalismo dalle dissertazioni comprensibili soltanto ai pochi in grado di interpretarne il senso nascosto nella nebbia dell’ambiguità.
Allo stile di Longanesi era succeduto il missirolismo. Durante il fascismo, il primo dava agli scritti di autori abili o furbi un leggero sapore di dissenso, di fronda, che sfuggiva alla censura. Nella giovane democrazia era considerata alta acrobazia giornalistica l’abilità con cui Mario Missiroli, direttore del Corriere della Sera, stilava editoriali dotti, sibillini per i comuni mortali e sempre velatamente ossequiosi verso il Palazzo. La nascita del Giorno di Gaetano Baldacci e poi l’avvento di Piero Ottone alla direzione del Corriere hanno imposto una svolta ai grandi quotidiani italiani. La critica ha assunto toni più aperti. Con Repubblica, Eugenio ha dato energia all’ambiziosa missione (già viva nel Mondo di Pannunzio e ancor più nell’Espresso di Benedetti e suo) di creare un’opinione pubblica come forza politica di controllo e di tendenza.
I cronisti della mia generazione, che avevano vissuto le precedenti aperture al Giorno e al Corriere, avvertirono la scossa. Non ci lasciò indifferenti la ribadita esigenza del fondatore di Repubblica di voler «pezzi d’autore». L’affermazione non suonava tanto come un invito alla qualità, ovvio in un giornalismo in cui la forma ha prevalso a lungo sulla sostanza, in cui la buona scrittura ha mascherato la dipendenza a tanti poteri, quanto alla volontà di avere redattori di carattere, con una personalità politica e culturale.
Per tradizione e convenienza, nei grandi quotidiani non di partito, l’irriverenza nei confronti del potere era consentita a pochi eletti, la cui autorità personale smorzava la responsabilità del giornale. Ed era spesso attutita dall’ironia, dall’uso della battuta che divertiva, ma soltanto di rado feriva. Il diritto a un’irriverenza praticata individualmente, riconosciuto agli «autori» di Repubblica, dette alla redazione formata da Scalfari un’impronta invidiata o irritante per chi non aveva quel diritto. Ed erano in molti. L’irriverenza, verso gli avversari ed anche, a volte, verso gli amici politici, aveva il valore di un puntuale, ripetuto atto di indipendenza. Era sempre là, in sospeso. Come la lama di una ghigliottina, di cui all’inizio, agli esordi di Repubblica, molti redattori potevano disporre. Anche perché non si tagliavano teste, ma si spalancavano scandali e menzogne.
Eugenio apprezzava la dignità con cui alcuni colleghi adottavano la freddezza ispirata agli stereotipi anglosassoni. Lui teneva a bada la passione, senza accorciare troppo la briglia. Non travolgeva la verità conosciuta dei fatti. Né si trincerava nella neutralità. La sua visione doveva trasparire. Esprimere un’opinione era naturale, come doveva esserlo il rispetto della realtà. A viso scoperto e senza rete di protezione : questa poteva essere la regola. Anche nel giornalismo, come nella vita privata, Eugenio era protagonista. Lo era sia nel ruolo di seduttore sia in quello di chi è esposto e vulnerabile alla seduzione. Voleva essere amato da chi lavorava con lui, ma sapeva amare. Poteva soffrire di istinto se uno, redattore o fattorino, lasciava il giornale. Il distacco da un collaboratore grande o piccolo lo feriva. In questo, come del resto nell’amicizia, aveva slanci sentimentali: era fedele come era irriducibile nella polemica. Per lui gli avversari rispettabili erano ben distinti da quelli che non lo erano. La straordinaria capacità di recupero rimarginava le sue ferite, ma la memoria era robusta.
La curiosità di giornalista non si limitava al presente ; la passione per la storia lo portava spesso a filtrare i fatti quotidiani attraverso il passato; e a studiarne le conseguenze senza paura di affrontare i rischi della verità del momento. Al giornalista affidava un ruolo difficile: quello di esercitare il diritto della società non solo a conoscere gli avvenimenti, ma anche a svelare quel c’è dietro. Il retroscena non come pettegolezzo, ma come servizio reso al lettore, cioè al cittadino che non deve essere gabbato da chi detiene il potere. Analizzava e criticava la società politica da posizioni che, nonostante il zigzagante percorso di una lunga vita italiana, possono essere riassunte facilmente in quelle di un tenace liberale di sinistra, appassionato difensore delle istituzioni.
Il suo pubblico l’ha via via individuato nella parte riformista e repubblicana della società. I suoi lettori ideali erano sostenitori dei diritti civili, ma anche dei doveri che ne derivano. Un momento di verità e di chiarezza fu quando di fronte al terrorismo, in particolare durante il rapimento di Aldo Moro, nella sinistra extraparlamentare, tra i radicali e non pochi intellettuali prevalse lo slogan «né con lo Stato né con le Br».
Slogan che Eugenio rifiutò schierandosi in difesa dello Stato repubblicano, del quale denunciava al tempo stesso le manchevolezze e dal quale esigeva il rispetto dei diritti civili. Fu una scelta di campo, che equivalse a una rifondazione del giornale, nato da poco e ancora intento a precisare la propria identità. Lui stesso l’ha scritto.
La scelta di settimanalizzare il quotidiano, ossia di offrire sempre più non la sola notizia, ma la sua genesi, i suoi effetti e il ritratto dei suoi protagonisti, colpevoli o innocenti o vittime, oggi applicata dalle grandi testate internazionali, fu la profonda riforma attuata da Eugenio. Lui la promosse da giornalista intellettuale quale era. L’espressione «intellettuale», nata dall’Illuminismo al quale si ispirava (Denis Diderot era il suo eroe), gli si addiceva in pieno. E spiega il suo giornalismo. La formazione originaria era quella di un economista. L’interesse letterario ( e filosofico) si è esteso col tempo e ha influenzato il suo giornalismo, e la sua redazione fin dalle origini. Durante i primissimi passi di Repubblica, Rosellina Balbi, responsabile delle pagine culturali, e Orazio Gavioli, responsabile di quelle degli spettacoli, furono gli interpreti indipendenti, di quella sua natura. Balbi e Gavioli spesso disubbidivano, prendevano iniziative che non condivideva. Ma lui accettava l’insubordinazione di quei due personaggi che stimava con lo spirito, appunto, di un giornalista intellettuale.
Addio Eugenio Scalfari, con te se ne va il secolo di carta. La storia unica del fondatore dell’Espresso, dagli inizi di via Po fino a Repubblica. Con il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica. Bruno Manfellotto su L'Espresso il 14 Luglio 2022.
Con Eugenio Scalfari, che si è spento la mattina del 14 luglio a 98 anni, se ne va in fondo anche il “secolo di carta”. Quello dei settimanali irriverenti e combattivi, dei grandi quotidiani d’informazione e di battaglia, del giornalismo moderno che si fa protagonista della politica e dell’economia. Insomma, il “suo” secolo, perché su di esso Scalfari ha imperato come nessun altro, e lasciato un segno profondo inventando stili, rinnovando formule, fondando giornali. E naturalmente vivendo la vita con pienezza.
E dunque è ben difficile riassumere qui e ora i momenti salienti di una lunga esistenza, le tante esperienze in cui si è lanciato, sempre con il piglio – e spesso con la palma – del vincitore: giornalista, amministratore, direttore, saggista, romanziere, infine poeta, sempre marito e amante. I tanti volti di un uomo cui è toccato in sorte perfino di conquistare l’amicizia del Papa. Forse meglio indagare allora le radici, la genesi, le velleità di una lunga e bella avventura, anche perché coincidono con la nascita e la vicenda stessa di questo giornale, “L’Espresso”. Dal quale peraltro tutto il resto è cominciato.
Una storia, è vero, raccontata e scritta mille volte, forse perfino mitizzata. Eppure vale la pena ricordarne ancora alcuni dettagli illuminanti, se non altro perché spiegano bene molti degli eventi che si sono succeduti dopo: il successo del settimanale, l’azzardo vincente di “Repubblica”, la poderosa catena dei giornali locali, in altre parole l’irruzione sulla scena di un modo diverso di fare giornalismo che influenzerà a lungo l’intero mondo dell’informazione.
Dunque, una mattina di primavera del 1955 due giovani uomini arrivano a Ivrea, negli uffici dalle grandi vetrate della Olivetti, per incontrare Adriano, patron dell’azienda che porta il nome di famiglia, imprenditore illuminato, l’animatore del Movimento di Comunità pensato e fondato nell’assoluta convinzione che far convivere sviluppo industriale e diritti dei lavoratori e studiare un’organizzazione del lavoro più umana avrebbe reso la fabbrica più efficiente e la società più democratica.
Uno dei due ospiti è Arrigo Benedetti, ha 45 anni, viene dalla brillante scuola giornalistica di “Omnibus” e di Leo Longanesi e ha già fondato e diretto due settimanali di successo, “Oggi” e “L’Europeo”. L’altro è Eugenio Scalfari, di anni ne ha 31, ha da poco sposato Simonetta De Benedetti – figlia di Giulio, il geniale e spietato direttore della “Stampa” di Torino – ed è un ex funzionario di banca che ora scrive per il “Mondo” di Mario Pannunzio articoli puntuali sui potentati dell’economia che per vivacità e autonomia di giudizio hanno colpito il patron della Banca Commerciale, il mitico Raffaele Mattioli. Anzi, è proprio Mattioli a spingerli a coinvolgere Olivetti nel progetto.
I due amici sognano un nuovo giornale, un quotidiano totalmente diverso dagli altri perché immaginato come un settimanale che esca tutti i giorni, e che nel quotidiano porti dunque le peculiarità del settimanale. Tre i principali campi d’indagine: politica cultura economia (parole che ancora oggi spiccano sotto la testata dell’“Espresso”); grafica accattivante; massima attenzione alla scrittura; inchieste, approfondimenti, punti di vista originali: in nuce c’è già “la Repubblica”, no? A Olivetti viene spiegato il progetto, e gli piace assai; anche presentato un preciso, dettagliato piano industriale, costi e ricavi, che però gli appare subito troppo impegnativo per lui. Troppo costoso. Si offre allora di contribuire all’impresa, di acquisire una partecipazione minore, ma suggerisce di rivolgersi a qualcuno con le spalle più robuste, la Fiat di Vittorio Valletta o l’Eni di Enrico Mattei.
Per tante ragioni, i due scelgono Mattei. Che li riceve subito, s’invaghisce del progetto e senza por tempo in mezzo si propone come azionista di maggioranza della nuova creatura. Era fatta, finalmente si poteva partire. Benedetti e Scalfari, felici, tornano con la buona notizia da Olivetti che invece li gela: l’idea di entrare in società con l’Eni non lo convince affatto, troppa sproporzione tra i due azionisti, bolla la possibile alleanza come «un pasticcio di allodola e cavallo». Ed è a questo punto che anche Benedetti e Scalfari cominciano a temere che il “cavallo”, l’Eni, la potente Eni dell’attivissimo Mattei possa diventare per loro troppo ingombrante, predominante, e finire per condizionare idee e progetti. E si accordano con Olivetti per il settimanale.
Pochi mesi dopo Mattei manderà in edicola “Il Giorno”, un quotidiano molto simile per formato e impostazione a quello che gli era stato raccontato. Ci vorranno invece vent’anni perché quel primo progetto spiegato a Olivetti e Mattei prenda finalmente corpo e Scalfari fondi la “Repubblica” (che non a caso ingaggerà subito molte firme del “Giorno”, a cominciare da Giorgio Bocca), ma in fondo tutto era già scritto. Ed è per questo che le scommesse dell’“Espresso”, di “Repubblica” e perfino della catena di giornali locali costruita con passione e pazienza da Carlo Caracciolo, vanno lette l’una pensando anche alle altre. Perché appartengono alla stessa storia, nascono dalle stesse radici.
Che giornale è da subito “L’Espresso”? È un settimanale politicamente e culturalmente libero, alquanto libertino nel costume, che fa dell’irriverenza verso il potere il suo tratto distintivo. Adotta lo splendido formato “lenzuolo” che consente una titolazione robusta e un uso spregiudicato delle fotografie: tagliate e a volte talmente ingrandite da sgranarle. La scansione segue proprio l’ordine politica-cultura-economia. La cura della scrittura è ossessiva: Benedetti, il direttore che sogna di firmare grandi romanzi, sostiene di pubblicarne uno che va in edicola ogni settimana. E infatti assolda scrittori (Cancogni, Moravia, Eco, Sciascia, Arbasino…) e li usa come giornalisti, o pretende che questi si trasformino in quelli. Mitiche le sue sfuriate, gli articoli appollottolati e gettati nel cestino e poi implacabilmente fatti riscrivere e riscrivere ancora.
All’inizio, su tutto faceva premio proprio l’intransigenza stilistica e laica di Benedetti, detto il Tonno per via di un corpo tozzo e rotondo poggiato su due piedini, intorno al quale si forma un gruppo di intellettuali determinati a denunciare la corruzione, la mala amministrazione, l’intreccio perverso tra politica e affari: «Missionari laici in un’Italia cattolica, arruffona, pasticciona», riassumerà più tardi Caracciolo. Tutti ricordano e citano a mo’ di marchio di fabbrica le inchieste di Cancogni contro il sacco di Roma (“Capitale corrotta=Nazione infetta”), ma poi seguiranno negli anni gli scandali della Federconsorzi, delle banane, quello dei tabacchi, dell’aeroporto di Fiumicino, l’inchiesta sulla miseria nel Mezzogiorno, il “tintinnar di sciabole” del Piano Solo approntato da carabinieri e Sifar…
Scalfari s’è ritagliato il ruolo di direttore amministrativo, ma scrive articoli d’economia con una chiarezza, un’indipendenza e una competenza fino ad allora poco praticate sui giornali. Conversa con Guido Carli, governatore della Banca d’Italia, e ne traduce il pensiero in articoli firmati con lo pseudonimo di Bancor. Denunciando le insane commistioni di politica e affari, comincia ad attaccare quella “razza padrona” di boiardi di Stato – il cui campione è Eugenio Cefis – che innerverà molte campagne dell’“Espresso e poi di “Repubblica” e che negli anni Settanta diventerà un best seller scritto a quattro mani con Peppino Turani.
Anno dopo anno il peso di Scalfari diventerà via via maggiore e l’Espresso si caratterizzerà per praticare un giornalismo lontano dal mito anglosassone dei fatti separati dalle opinioni caro a Lamberto Sechi che su questa pietra fonderà nel 1962 a Milano il mondadoriano “Panorama”, aspro concorrente del settimanale di via Po, e primo ad adottare il formato e la filosofia dei news magazine americani come “Time” al quali esplicitamente si ispira.
No, piuttosto della tradizione anglosassone Scalfari ha adottato il principio del giornalismo come cane di guardia del potere e per questo ha sempre interpretato e praticato un’informazione orgogliosamente e dichiaratamente di parte, nel senso di criticare, prendere posizione, dichiarare i propri bersagli. Insomma, un giornale con il gusto della provocazione, protagonista del dibattito politico e culturale, che ha l’orgoglio delle sue idee e il coraggio di difenderle. Diceva Caracciolo: «Un giornale cosi non può che essere, sia pure in forme non ossessive né ringhiose, un giornale contro».
Anche il campo scelto è esplicito fin dagli esordi: in senso lato è quello liberal democratico, riformista, post azionista, alquanto radicaleggiante (contiguo all’inizio alla pattuglia del Partito radicale) che guarda a sinistra e si identifica soprattutto con Ugo La Malfa. Quando nel 1967 prende il posto di Benedetti che lascia la direzione, ufficialmente nella speranza di scrivere finalmente i suoi romanzi, ma in verità perché in disaccordo con la linea assunta dal giornale allo scoppiare della Guerra dei Sei Giorni, Scalfari scrive: “Noi il nostro campo l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga… Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbono mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire”.
La dichiarata partigianeria di Scalfari, la sua scarsa fede in una obiettività dell’informazione troppo spesso solo formale – formidabili gli scontri in materia con Indro Montanelli, l’altro grande protagonista del secolo di carta – varrà prima all’“Espresso” e poi soprattutto alla “Repubblica”, fin dal suo debutto nel gennaio 1976, l’acida definizione di giornale-partito. Che in realtà non dispiaceva più che tanto al Fondatore che piuttosto la leggeva come il riconoscimento della missione politica e civile che i suoi giornali s’erano dati, quella di rendere l’Italia più moderna e democratica. Da una parte combattendo contro il verminaio del malaffare, della corruzione, della cattiva amministrazione, dell’omertà, dell’egoismo corporativo e di lobby che ha inquinato così tante volte la vita politica e civile; dall’altra, presuntuosamente spingendo per modernizzare e cambiare la sinistra italiana, a cominciare dal Pci, perché assomigliasse sempre più a quella dei grandi paesi democratici europei.
I “missionari” s’accingono dunque all’impresa più grande, la nascita di “Repubblica”, avendo ben chiaro in testa quel mandato. La redazione stessa viene costruita pescando in un campo largo (da “Paese Sera” al “Giorno” all’“Unità”); la pagina dei commenti è una tribuna aperta a opinionisti anche difformi (per i suoi interventi Alberto Ronchey pretenderà la testatina “Diverso parere”); la scansione delle pagine segue la miscela già sperimentata: politica, cultura, economia. Tutto sotto il controllo personale e diretto di Scalfari. Mitica la quotidiana riunione di redazione, detta “la messa cantata”, le telefonate con i potenti del momento mandate in viva voce via interfono perché tutti i giornalisti ascoltassero, cogliessero i toni da adottare in circostanze simili, seguissero l’esempio, comprendessero chi teneva la barra del timone. Una volta, come raccontano Antonio Gnoli e Francesco Merlo in “Grand Hotel Scalfari – Confessioni libertine su un secolo di carta”, il libro-intervista del 2019, il direttore porta in riunione il nastro della sfuriata di Arturo Toscanini ai suoi orchestrali perché tutti si diano una regolata. Se lo poteva permettere, perché gli veniva riconosciuto un carisma di cui lui stesso era conscio e del quale si beava da sempre. Lasciamo ancora la parola a Carlo Caracciolo, l’editore e amico: «Una volta sentii dire di lui: “Porta la testa come il Santissimo”». Appunto.
Insomma quella “certa idea dell’Italia”, citazione gobettiana orgogliosamente rivendicata e adattata alla bisogna, ha sempre scandito la lunga stagione di Scalfari e dei suoi giornali. Discendeva dai valori e dall’esperienza del Partito d’Azione ma, chiusa quella stagione lontana, essa è rimasta sempre viva nello sforzo quotidiano di migliorare e cambiare un Paese diviso, incerto, frenato dai suoi stessi limiti culturali e istituzionali. Il “secolo di carta” lungo il quale si è sviluppato il sogno di un’informazione più moderna, libera e democratica, si va chiudendo. Ma ora che Scalfari non c’è più quell’impegno resta nel dna delle sue creature. Se non altro perché il Paese non è ancora quello che i “missionari laici” sognavano.
Ciao Direttore, andremo avanti nel solco dei tuoi insegnamenti. Lirio Abbate su L'Espresso il 14 Luglio 2022.
Oggi è una giornata buia per questo settimanale e per l’intera stampa libera. Noi non possiamo che ringraziare per quello che Eugenio Scalfari ci ha dato. E promettere che terremo alta la bandiera del suo giornalismo
Quella sua idea di fare giornalismo, con le battaglie politiche, culturali e sociali, ha modificato la nostra vita, e sicuramente ha migliorato la mia vita professionale. E il dolore per la sua scomparsa è profondo non solo in me ma in tutta la redazione de L’Espresso. Abbiamo perduto il fondatore, il padre di questo giornale, “il Direttore” come l’ho sempre chiamato per il rispetto professionale e per la stima. Oggi è una giornata buia per questo settimanale, ma anche per l’intera stampa libera. E la commozione a ricordarlo mi assale, perché scrivere di Lui in questa giornata di lutto e dolore, seduto al posto in cui Lui è stato tanti anni fa non è facile. E per questo voglio trasmettervi il valore non solo umano ma identitario che Scalfari ci ha donato e insegnato.
“Il Direttore” amava ricordare che L’Espresso era nato per affermare il valore dell’innovazione, d’un accordo produttivo tra gli imprenditori e i lavoratori per portare la sinistra democratica al governo del Paese, purché quella sinistra abbandonasse l’ideologia marxista e soprattutto le sue aberrazioni. Volevano una forza riformista, con libera Chiesa in libero Stato, capace di lottare contro la corruzione e l’evasione fiscale.
Nella stanza che occupo oggi ci sono due grandi fotografie appese alle pareti: nella prima è Lui, in piedi, sorridente, davanti a Carlo Caracciolo che ha in mano una copia de L’Espresso, scattata da Enrica Scalfari; la seconda è un incontro pubblico al Salone del Libro di Torino, al quale eravamo seduti l’uno accanto all’altro, per dialogare e analizzare i fatti del nostro tempo. Sono immagini che segnano questa vita, ma anche quella che verrà, la strada che percorreremo.
Grazie “Direttore” per quello che ci hai dato.
Proseguiremo nel solco dei tuoi insegnamenti e delle tue idee, tenendo alta la bandiera del tuo giornalismo.
“Comprendere la realtà, fuori da ogni pregiudizio”: Il primo editoriale di Eugenio Scalfari sull’Espresso. Il messaggio ai lettori del 9 giugno 1963, quando diventò direttore della nostra testata succedendo ad Arrigo Benedetti. Eugenio Scalfari su L'Espresso il 14 Luglio 2022.
Nel momento in cui assumo la direzione dell'"Espresso" non credo sia necessario riaffermare la fedeltà del giornale ad una linea politica e ad uno stile professionale ormai collaudati dal tempo, né tracciare programmi per il futuro. I nostri atteggiamenti sono quelli che derivano dai motivi per i quali, nell'ottobre del 1955, “L'Espresso” nacque e dall'azione che esso ha condotto fino ad ora. Ne ha già parlato la settimana scorsa, nel dare l'annuncio del cambiamento di direzione, Arrigo Benedetti con la sobrietà che gli è propria tutte le volte che egli sia obbligato a parlare di sé o delle cose che per larghissima parte si riconducono a lui. A quanto Benedetti ha detto posso solo aggiungere qualche riga.
“L'Espresso” cominciò le pubblicazioni nel momento del più chiuso centrismo, in una situazione politica stagnante e apparentemente senza avvenire, guidata da una classe dirigente insensibile ad ogni critica, ad ogni opinione indipendente e non conformista. Eppure, mai come allora l'opinione pubblica era inquieta, desiderosa di nuovi stimoli e di certe verità.
Per corrispondere a quelle aspettative e a quei bisogni nacque “L' Espresso”, oserei dire assai più evocato dai suoi futuri lettori che non imposto ad essi dall'iniziativa di un gruppo di giornalisti e di intellettuali. L'obiettivo che si propose non fu soltanto d'affermare la possibilità ed anzi la necessità d'una politica diversa da quella tradizionale. Al di là d'un programma politico ci fu il tentativo di comprendere la realtà fuori da ogni pregiudizio e da ogni interesse particolare, rivelandone obiettivamente tutti gli aspetti, fossero essi piacevoli o spiacevoli, edificanti o miserabili.
Via Po, Olivetti e Mattei, il cestino di Benedetti: "la fantastica avventura” dell’Espresso di Eugenio Scalfari. La redazione iniziale, i progetti, i primi successi. Vi riproponiamo l’articolo che il fondatore scrisse in occasione dei 50 anni dell’Espresso nel 2005. «Bisogna sapere in che modo nascono le cose per capirne le modalità, il Dna che poi ne governerà lo sviluppo e si trasmetterà di generazione in generazione». Eugenio Scalfari il 2 ottobre 2005.
Ancora le rivedo quelle quattro stanze al pianoterra di via Po 12 dove entrammo, Arrigo Benedetti, Antonio Gambino ed io, ai primi di settembre del 1955 per preparare il primo numero de "L'Espresso" che arrivò nelle edicole il 2 ottobre.
Per l'esattezza, oltre alle quattro stanze che davano sulla trafficatissima via, c'era uno stanzino che fu adibito a segreteria di redazione e dove si installò Lily Marx, un gabinetto provvisto di bidé e lavabo e un corridoio che finiva davanti ad una porta chiusa, al di là c'era la Sara, una società di assicurazioni automobilistiche che divideva con noi l'appartamento.
In compenso (e in contrasto visibile con la modestia di quei locali) la porta d'ingresso era incorniciata da due colonne bianche dopo le quali un'anticamera con finestra con un tavolo per il centralino e una panca per i due commessi.
Arrigo scelse la sua stanza d'angolo. Non scostò neppure le tendine ai vetri della finestra e dette un'occhiata distrattissima all'ambiente. Badò solo che la lampada sulla scrivania fosse dalla parte giusta per far luce sui fogli, che non mancassero i block-notes nel cassetto, le penne, le matite, le forbici, i rotoli di scotch, la gomma per cancellare, un righello, una squadra, un compasso. Insomma gli oggetti semplici da scuola elementare che gli erano necessari per impaginare. In un angolo della stanza c'era infatti un tavolo da disegno inclinato su un cavalletto. Nella parete dietro la scrivania due mensole per i libri. Nella parete di fronte un armadio a cassettiera.
Nell'altro angolo un attaccapanni. A lato della scrivania un grosso cesto che presto diventò celebre per la quantità di carta appallottolata che vi finiva dentro, articoli scartati, menabò, schizzi di pagine, appunti diventati inutili. Quel cesto, che seguì il primo direttore de "L'Espresso" nelle varie stanze dove successivamente peregrinò man mano che nuovi ambienti si aggiungevano a quelli iniziali, fu testimone muto di reprimende, insegnamenti, esortazioni, litigate, pianti e soprattutto carriere gloriose o spezzate sul nascere, costellate da pagine cestinate e da correzioni spesso gridate dalla voce del "Tonno", come Benedetti venne rapidamente battezzato dai suoi redattori.
Nella stanza accanto prendemmo posto Gambino in funzione di caporedattore ed io direttore amministrativo. Nelle due camere successive la redazione: Fabrizio Dentice, Enrico Rossetti, Sergio Saviane, Mario Agatoni, Franco Lefebvre e Carlo Gregoretti che, oltre a mansioni di inviato, aveva anche quella assai importante di grafico. Non so se dimentico qualche nome, ma non credo. Poche settimane dopo si aggiunsero Gianni Corbi e Mino Guerrini. Manlio Cancogni era l'inviato di spicco, ma non veniva in redazione se non per consegnare i suoi pezzi.
Poi guadagnammo un'altra stanza e assumemmo una steno-dattilografa. E questa fu la partenza di un'impresa che, a vederla oggi, è un gigante mediatico il cui valore patrimoniale si ricava dai listini di Borsa, che occupa migliaia di dipendenti e dà lavoro a migliaia di collaboratori, possiede "la Repubblica" (della quale cadrà nel prossimo gennaio il trentesimo anniversario), una dozzina di giornali locali, quattro radio, un sito Internet tra i più visitati, periodici e supplementi e naturalmente "L'Espresso", dal quale tutto questo cominciò.
Forse i lettori che ci seguono fin dal primo numero di cinquant'anni fa (ce ne sono, ve l'assicuro, a me capita di ricevere spesso loro lettere e telefonate e li considero come i Mille che partirono da Quarto per Marsala alla conquista di mezza Italia) non sanno che l'idea iniziale di Benedetti e mia era di fondare un quotidiano.
Avevamo cominciato a pensarci fin dal 1952 quando Arrigo dirigeva ancora "L'Europeo" che aveva fondato con l'editore Mazzocchi nel 1946.
"L'Europeo" era allora il settimanale più "chic" nel panorama dell'editoria settimanale. Con un formato delle stesse dimensioni d'un quotidiano, grandi foto, mondanità, cronaca, cultura, impegno politico. Quella era sempre stata la cifra di Benedetti, in parte ereditata dalla scuola grafica di Longanesi, ma applicata ad un'idea di liberalismo di sinistra che spesso trascolorava in un vero e proprio liberal-socialismo.
La stampa settimanale, in un paese ancora privo di televisione e di giornali popolari, con giornali quotidiani poveri di pagine e in libertà vigilata da proprietà industriali che non volevano grane con il governo e con i poteri forti, era l'unico settore veramente libero e moderno dell'editoria giornalistica. Si inventò una grafica, un linguaggio, una strategia editoriale. La prima linea era composta da tre campioni: "L'Europeo" occupava il settore di centrosinistra, il "Tempo" di Tofanelli il centro repubblicano, "Oggi" di Rusconi la destra monarchica.
Ma dopo sette anni di successi Benedetti aveva voglia di cambiare. Sognava un quotidiano. E ne discuteva con me.
Potrà sembrare strano che fossi proprio il confidente e il collaboratore dei suoi progetti. Ero di quattordici anni più giovane, lavoravo in una banca, avevo cominciato a collaborare con articoli di argomento economico al "Mondo" di Mario Pannunzio nel 1950, poi a "24 Ore" allora diretto (e fondato) da Arturo Colombi. E poi all'"Europeo". Ma non ero un giornalista, anche se quella era la mia passione.
Arrigo praticamente mi adottò e mi insegnò come si deve scrivere per un giornale di grande diffusione. Tanto più se ci si occupa di temi economici, astrusi ma interessanti per definizione.
Anch'io conobbi le sue sfuriate e il cestino (cestone) dell'"Europeo". Probabilmente avevo qualche talento perché di sfuriate ce ne furono tre o quattro. Dal secondo mese di collaborazione capii e il cestino, per quanto mi riguardava, uscì definitivamente di scena. Ovviamente non ho mai cessato di studiare perché la nostra è una professione dove gli esami non finiscono mai. Ma la mia gavetta fu quella e durò molto poco.
Quando Benedetti cominciò a sognare il suo quotidiano e a parlarne con me abitavamo a Milano in via Melzi d'Eril, una traversa all'inizio di Corso Sempione a duecento metri dal Parco. Lui e la sua famiglia al secondo piano d'una palazzina, io in due camere al terzo. Per puro caso. Ero arrivato a Milano due anni prima, cercavo un alloggio da affittare e l'avevo trovato lì. Dopo pochi mesi ero di fatto entrato a far parte della famiglia Benedetti.
I lettori mi perdoneranno se indugio un po' su questi ricordi, ma bisogna sapere in che modo nascono le cose per capirne le modalità, il Dna che poi ne governerà lo sviluppo e si trasmetterà di generazione in generazione fino a quando la spinta iniziale conterrà forza propulsiva e ragion d'essere nel mondo mutevole che ci circonda.
Dunque un quotidiano. Che ereditasse la grafica e il linguaggio del settimanale. La sua spregiudicatezza. Il gusto di accoppiare la leggerezza con la serietà, la futilità con l'impegno, la trasgressione con la responsabilità, lo snobismo del gusto con il rigore dei pensieri.
Non credo che abbiate bisogno di altre spiegazioni perché quel quotidiano voi l'avete visto, lo vedete ancora e continuerete, spero, a leggerlo per molto tempo. Aggiungo soltanto che, trasferitici tutti e due a Roma nel 1954, nella primavera del 1955 il progetto di quotidiano era pronto e il piano industriale anche. Andammo a Ivrea, Arrigo e io, per incontrare il solo industriale che ci desse fiducia: Adriano Olivetti. La sua risposta fu: «Il progetto mi piace, ma da solo non ce la faccio. Di altri soci possibili ne vedo uno solo, Enrico Mattei. Proponetelo anche a lui e vedremo se ci starà».
Trattammo per due mesi con Mattei che alla fine accettò. Tornammo felici a Ivrea, ma Adriano nel frattempo aveva cambiato opinione. Ci disse che per lui fare società con l'Eni era come preparare un pasticcio d'un cavallo e d'una allodola. «Se volete fare un quotidiano fatelo con Mattei, basta e avanza. Ma se scegliete me io posso finanziare soltanto un settimanale».
Ci pensammo su quarantott'ore e la conclusione fu che se avessimo scelto l'Eni avremmo fatto un pasticcio tra un cavallo e una mosca. Perciò decidemmo per Olivetti e nacque "L'Espresso". Poi, un anno e mezzo dopo, Olivetti decise di ritirarsi: aveva avviato il giornale e preferì lasciarlo a noi. Regalò gran parte delle azioni a Carlo Caracciolo, a Benedetti e a me il 5 per cento ciascuno.
Il nome della testata lo prendemmo da "L'Express", fondato a Parigi poco tempo prima da Jean-Jacques Servan Schreiber, che conoscevamo e diventò nostro amico. Lui faceva allora un giornale che aveva come riferimento Mendès France. I nostri riferimenti politici furono Ugo La Malfa e Pietro Nenni che già stava sganciando il Psi dal Partito comunista. Ma la nostra intesa politica e giornalistica era soprattutto con Mario Pannunzio, Ernesto Rossi e il gruppo del "Mondo".
Col passar dei mesi e degli anni "L'Espresso" crebbe, le vendite aumentarono, la redazione si allargò e così pure i collaboratori. Direi che i titolari delle rubriche culturali radunarono il meglio della cultura italiana di allora: Alberto Moravia il cinema, Sandro De Feo il teatro, Massimo Mila la musica, Bruno Zevi l'architettura, Geno Pampaloni e poi Paolo Milano la letteratura, Lionello Venturi e poi Giuliano Briganti le arti figurative. Inviati di grande spicco, collaboratori di prima scelta dalle capitali europee e dagli Usa. I direttori in questo mezzo secolo sono stati in ordine cronologico Arrigo Benedetti, Eugenio Scalfari, Gianni Corbi, Livio Zanetti, Giovanni Valentini, Claudio Rinaldi, Giulio Anselmi e ora Daniela Hamaui.
Abbiamo passato periodi felici e periodi agitati. Nei primi anni un paio di volte siamo stati sull'orlo del fallimento. Nel '76 è uscita "la Repubblica". E tutto il resto. La struttura editoriale è naturalmente cambiata, ma Carlo Caracciolo è stato in questi primi cinquant'anni il presidente del Gruppo, mantenendo la continuità della linea e lo standard della qualità. Da tempo la società è quotata in Borsa e l'azionista di controllo è la Cir di Carlo De Benedetti. Debbo dire che in questo lungo arco di tempo gli azionisti della società sono stati scelti dai fondatori molto più di quanto non sia avvenuto il contrario e questa è stata la vera forza e la garanzia d'indipendenza delle testate del Gruppo.
Mi capita spesso d'incontrare lettori, giovani, anziani e vecchi, che mi dicono di essersi formati sulle pagine dei nostri giornali. Nei primi tempi era una piccola minoranza. Ora sono milioni di persone. L'altro giorno è venuta a trovarmi una vecchia coppia (entrambi insegnanti in pensione), i figli quarantenni e tre nipoti tra i 18 e i 27 anni. Sono marchigiani. Uno dei figli studia per un master al Mit, un altro collabora col padre nell'azienda di famiglia (componentistica per auto). La giovane figlia insegna anche lei nelle scuole superiori.
Il padre-nonno di questa bella famiglia, che mi aveva scritto per fissare l'appuntamento, m'ha detto che era voluto venire con tutti i suoi per portare gli auguri di tre generazioni cresciute sulle pagine dell'"Espresso" e di "Repubblica". La mamma-nonna aveva con sé dei fiori di campo. Ci siamo abbracciati. Spero di andarli a trovare ad Ancona.
«Sarai stato contento», m'hanno detto le persone che mi vogliono bene e alle quali ho raccontato di quell'incontro. Ho risposto: «Molto contento. Mi sembra che sia stata per tutti noi una fantastica avventura. Cominciata in una stagione lontana. Molto lontana...»
Eugenio Scalfari: «Io e Calvino nel segno di Atena». Il 19 settembre del 1985 moriva lo scrittore. Il ricordo dell'amico e compagno di scuola, dagli anni del liceo a quelli di "Repubblica". Sabina Minardi su L'Espresso il 15 settembre 2025.
"Dimentica e ricorda", scriveva Italo Calvino su “la Repubblica”, in un omaggio a Octavio Paz nel settembre del 1984: «Ricordare è necessario, ma dimenticare è una funzione altrettanto vitale per il pensiero. Il vero compito dell’intellettuale è quello di aiutare a ricordare il dimenticato, ma per fare questo deve prima aiutare a dimenticare ciò che ricordiamo troppo: idee ricevute, che ci impediscono di vedere e pensare e dire il nuovo».
Questo è il punto: a trent’anni dalla morte, si può dire qualcosa di nuovo su Calvino? Eugenio Scalfari, che dello scrittore è stato amico sin dagli anni di scuola a Sanremo, coglie la sfida. E, tra parole e immagini, tra contemporanei in carne e ossa e consanguinei dell’anima, di quell’amicizia molte volte raccontata distilla, oggi, l’essenza. Parla delle affinità istintive. Ammette l’influenza esercitata sulle sue riflessioni: come la lezione sulla leggerezza, consapevolezza che dà un ritmo diverso alla vita. E come nella prima delle “Lezioni americane”, il dialogo ondeggia tra due tentazioni: togliere peso ai ricordi, trasformandoli in un pulviscolo di sensazioni e di suggestioni. E comunicarne lo spessore, la concretezza, le date e i fatti. Con Atena ed Ermes a volteggiare intorno; Leopardi e Borges in agguato, e il jazz per divagare. E ribadire: ricordi da ridere e da emozione vera.
Il giorno dopo la morte di Calvino ha scritto un ricordo intitolato “Quando avevamo diciotto anni”, che si conclude così: “Il ricordo di quell’‘allora’ dovrò conservarlo io per tutti e due, fino a che potrò”. In questi anni ha rilanciato costantemente l’eredità culturale di Calvino. Perché ha sentito questa responsabilità?
«Arrivai al Liceo Cassini di Sanremo nel 1938, avevo 14 anni, lui 15. Fummo assegnati nel banco insieme e per due anni su tre condividemmo lo stesso posto. Presto si formò una specie di banda di una quindicina di ragazzi, che non era fatta dai primi della classe, ma dai più interessati a porsi domande. Ci incontravamo il pomeriggio in una sala di biliardo, c’era chi giocava, chi preparava i compiti, altri che chiacchieravano. E una volta Calvino ci sorprese con una frase: “Noi abbiamo tutti insieme incontrato Atena”. Nessuno capì il significato. Allora lui spiegò: “Perché Atena è la dea di tante cose, ma soprattutto della polis, cioè del senso civico, e dell’intelligenza”. Non a caso era uscita dalla testa di Zeus già armata. Tutto ha inizio con quella frase. In seguito, spesso gli chiedevo: “A che punto è il tuo rapporto con Atena?”».
Eppure eravate diversissimi. Laico lui, lei con madre cattolica. Lui del Nord, lei arrivava da Civitavecchia ed era iscritto ai Gruppi universitari fascisti. Che cosa vi attirò l’uno verso l’altro?
«Avevamo l’età in cui la curiosità comincia a rivolgersi al mondo. La curiosità è libertà. E supera le appartenenze: io ero fascista ma lui non era antifascista, tant’è che scrisse sul giornale del Guf perché io lo spinsi a farlo. Scherzavamo. Formavamo partiti di cui eravamo unici iscritti. Inventammo “Filippo”...».
Cioè Dio.
«Certo, Dio. Ridevamo: “Sarà un viaggio lungo, ma partiamo”. “Se lo troviamo bene, altrimenti pazienza”. “Ma non possiamo chiamarlo Dio”. E allora Italo disse: “Filippo. È più bonario...».
Discutevate di scienze, di cosmologia. Lei gli propose di entrare in un partito aristocratico-sociale. In un giorno d’estate creaste un sistema filosofico: la filosofia dello slancio vitale. L’entusiasmo che descrive cozza con l’immagine di Calvino rigoroso e schivo che abbiamo ereditato. Ha dei ricordi di questi pudori e ombrosità?
«Nel tempo lui è cambiato. Ma a quell’epoca aveva un ritegno e una timidezza totali verso le donne. Mentre noi le corteggiavamo, lui no. Gli facevamo degli scherzacci, come lasciarlo in mezzo al mare con una ragazza complice, per metterlo in imbarazzo. Per non parlare della prima visita che facemmo, in minore età, sponsorizzati da alcuni ripetenti, al bordello».
Andaste insieme?
«Meglio tralasciare».
A proposito di donne, però. Nel 1979 esce “Se una notte d’inverno un viaggiatore”. I lettori si innamorano di Ludmilla, la lettrice pura. E in una lettera a Elsa De Giorgi si legge: “Io voglio scrivere del nostro amore, voglio amarti scrivendo, prenderti scrivendo, non altro”. Tutta un’altra storia.
«Sì, crescendo il suo rapporto con le donne cambiò molto. Concepiva la passione, il possesso fisico».
Che idea si è fatto, nel tempo, della passione con la De Giorgi?
«Noi non avevamo contatti in quel periodo. La nostra vita comune durò dal settembre del 1938 fino all’8 settembre del ’43: fummo tutti promossi con lo scrutinio di guerra. Io mi iscrissi all’università di Roma, lui andò prima a Perugia, poi a Torino. Perdemmo i contatti. Negli anni seguenti, quando era editor dell’Einaudi, se veniva a Roma mi dava sempre una telefonata. Una volta, d’estate, gli chiesi se voleva venire con me a Lido dei Pini. Appena vide tutte le signore discinte mi disse: “Guarda che queste donne hanno bruttissime gambe, non mi piace, me ne vado”. Non era vero, ma le giudicò così: al punto da andarsene. Della storia con Elsa De Giorgi venni a sapere solo in seguito».
È il solito dilemma: quanto il privato di un autore aiuti a coglierne opere e cambiamenti stilistici. Le lettere, ad esempio: Calvino ne ha scritte moltissime. Anche a lei.
«Quando eravamo lontani, io a Roma e lui a Torino, ci scrivevamo quasi ogni settimana. Queste lettere sono una quarantina. Dopo la morte, volli pubblicarne un paio e dovetti chiedere il permesso alla moglie, un’argentina che aveva un suo carattere. Prima disse no. Poi acconsentì, a patto di sceglierne lei due. Le più sciocche. Le ritelefonai dicendo che ero interessato a una terza. “No, quella no. Voglio fare io una pubblicazione”. “Sì, ma delle mie dovrò darti io il consenso: dobbiamo venire a un accordo”. Disse sì: “Ma sia l’ultima volta che mi usi questa prepotenza”. Non era una prepotenza».
Per un po’ di anni vi perdeste di vista. Quando vi ritrovaste?
«Seppi che era andato a Parigi. Era diventato amicissimo di Bernardo Valli, il quale all’epoca lavorava per il “Corriere della Sera”. A un certo punto andò a Parigi anche Pietro Citati, sempre per il “Corriere”. Allora pensai di fare una gita. Chiamai Giancarlo Marmori, il nostro corrispondente, che li conosceva, e gli chiesi di farmeli incontrare. A Italo dissi: “Sto per fondare un giornale, vorrei che tu lo vedessi e, qualora ti piacesse, venissi”. Tutti mi risposero cose di cortesia. Lasciai passare un po’ di anni. E quando, dopo la vicenda Moro, le vendite salirono fino a superare “Il Messaggero”, “La Stampa” e alla fine il “Corriere della Sera”, ritentai. Bernardo mi disse: “Io sono amico di Piero Ottone, non lascio finché c’è lui. Dopo verrò con te”. Citati mi rispose che sarebbe venuto a Roma, per parlarne. Italo mi disse di sì: “Io vengo. Tra pochi mesi, appena mi trasferisco a Roma”. Quando venne a “Repubblica”, occupava al “Corriere” la posizione da editorialista che era stata di Pasolini».
Calvino, uscito dal Pci, si avvicinò alla sinistra socialista di Giolitti. Ma anche da lì arriverà una delusione. Si distaccherà dalla politica. Resterà la passione civile e la grande tensione etica. Oggi con chi starebbe politicamente?
«Negli anni in cui Calvino lavorò per “Repubblica”, scrivendo alcuni degli articoli più belli pubblicati dal nostro giornale, constatai che avevamo le stesse idee politiche. Eravamo liberaldemocratici, azionisti. E come tali di sinistra non comunista. Però lui fino al ’56 aveva militato dentro il Partito comunista, io mai. Io cominciai a votare comunista con Berlinguer. E da allora ho sempre votato per i partiti che il partito comunista ha figliato. Quello di Occhetto, poi di Veltroni. E adesso, ho qualche difficoltà... Lui la pensava esattamente come me. Molti anni dopo, ho ripubblicato tale e quale, con lo stesso titolo e solo con un post-scriptum, un suo pezzo uscito anni prima. Senza quell’avvertimento, sembrerebbe scritto oggi».
Era un apologo sull’onestà. Tra l’opzione fantastica, l’invettiva, la parodia, se avesse oggi tra i suoi giornalisti Calvino, che genere gli chiederebbe di utilizzare per raccontare l’attualità italiana?
«Ma io l’ho avuto tra i miei giornalisti. E ha utilizzato forme così efficaci da restare attuale anche molti anni dopo. Alcuni gli imputano di essersi dedicato a una letteratura che nulla ha a che fare con la vita. Dimenticano che fino all’ultimo fu coinvolto in battaglie politiche. Ho scritto un libro, qualche anno fa, “Per l’alto mare aperto”, dedicato alla modernità, che per me comincia con Montaigne e finisce con Nietzsche. E ho dedicato due capitoli a coloro che io considero gli unici moderni italiani: Italo Calvino ed Eugenio Montale. Li ho conosciuti entrambi: con Montale fu una conoscenza fuggevole, ma la sua poesia mi ha tenuto compagnia per tutta la vita. Calvino è stato l’ultimo degli Illuministi. Spesso era taciturno. Ma se si affrontava il tema delle invasioni barbariche dalle quali ci sentivamo circondati tornava la verve giovanile».
Se la prendeva con la peste del linguaggio.
«Sì. E in quel libro riporto anche un nostro dialogo sui romanzi. Un giorno gli chiesi quali erano stati i suoi modelli. Mi disse: il Conte philosophique. “Candide”. “Jacques le fataliste”. “Le rêve de d’Alembert”, e “Le Neveu de Rameau”. Cioè Voltaire e Diderot. Eravamo uguali».
Delle “Lezioni americane” ha detto che avrebbe potuto scriverle lei, tanto si riconosceva in ogni pensiero. C’è qualcosa in cui pensa di aver influenzato Calvino?
«No, io non penso di averlo influenzato. Lui non era uno influenzabile. Lui ha influenzato me».
In cosa?
«Lui aveva la capacità di guardare dentro. Io, anche per il mio mestiere, la capacità di guardare fuori. Guardando fuori si impara a capire le persone, guardando dentro a capire te stesso. Ho cominciato il viaggio interiore tardi, a 41 anni. Lui guardava da dentro alla realtà di fuori. Voglio dire che non fu solo un artista, ma anche un intellettuale. Lontano da retorica ed eloquenza. Più attento a togliere il superfluo che ad aggiungere».
La lezione sulla leggerezza. L’ha ricercata anche lei?
«Alla maniera da lui descritta. Quando nella prima Lezione americana racconta Guido Cavalcanti, dice che è un saturnino e spiega chi sono: quelli che hanno nel cuore la malinconia e rifuggono dal contatto con gli altri. Poi ci sono i mercuriali, legati da Ermes. Io sono un mercuriale, alla sua maniera. Ma come lui vorrebbe essere un mercuriale, io vorrei essere un saturnino. La verità è che sono le facce d’una stessa persona. Ognuno a suo modo è al tempo stesso mercuriale o saturnino».
Siamo partiti da Atena. Nella vita serve di più l’ordine o la fantasia?
«Sono due facce. E noi le avevamo tutte e due. Quella mercuriale era alimentata dal giornalismo; l’altra, quella saturnina, dalla quantità di libri che leggevo. E poi ho deciso di cominciare a scrivere i libri che mi stavano dentro: “Incontro con Io”, “L’uomo che non credeva in Dio”, “Alla ricerca della morale perduta”, “Scuote l’anima mia Eros”. Oggi ho sentito la necessità di cambiare di nuovo. Mi attirava lo “Zibaldone” di Leopardi, 4200 pagine. L’ho letto tutto. E ho deciso di fare anch’io uno zibaldone. Un libro che parla di quello che incide sui miei pensieri. Si intitola “L’allegria, il pianto, la vita”».
Esce il 22 settembre. Ricomincia da Leopardi, col quale Calvino chiude la Lezione sulla leggerezza.
«Perché Leopardi dà della felicità immagini di leggerezza. Rileggo testualmente Calvino: “Gli uccelli, una voce femminile che canta da una finestra, la trasparenza dell’aria, e soprattutto la luna. La luna, appena s’affaccia nei versi dei poeti, ha avuto sempre il potere di comunicare una sensazione di levità, di sospensione, di silenzioso e calmo incantesimo”. E termina citando: “Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi”».
Togliere peso alla lingua, fino a farla somigliare alla luce lunare.
«Questo è stato Italo Calvino. Lui sperava di trasmettere un canone di leggerezza, di esattezza, di eleganza intellettuale».
E nel suo Zibaldone cosa ci sarà?
«Comincia e finisce con una mia poesia. Ce ne sono quattro. Racconto, tra l’altro, sei pianti che ho fatto nella vita: per la morte di mio padre, per l’abbandono provvisorio del mio amore bigamo, per la morte di mia moglie Simonetta. Poi quando morirono Berlinguer e Mario Pannunzio. E un sesto, che ha stupito anche me: la morte del jazzista Louis Armstrong. Io non l’ho mai conosciuto, anche se l’ho ascoltato interamente. Un grande scrittore ha scritto “L’età del jazz”, senza dire una sola parola sul jazz. È Scott Fitzgerald, che racconta come sono cambiati i costumi tra il 1900 e il 1930. Riflettendo, ho capito che quel pianto era legato all’autore de “Il grande Gatsby” e di “Tenera è la notte”. Ecco com’è fatto questo libro».
L’anno prossimo Einaudi ripubblica un suo romanzo di 18 anni fa intitolato “Il Labirinto”. Il labirinto rimanda istintivamente a Borges, che è stato di grande importanza per Calvino, autore di storie fantastiche, col gusto della geometria. “Aver scoperto Atena insieme” è stato un destino?
«In realtà, ne “Il Labirinto” non parlo mai di Calvino. Ma a pensarci, è proprio così».
Gianluca Veneziani per Libero Quotidiano il 18 luglio 2022.
Ma quanto si volevano bene, Eugenio Scalfari e Italo Calvino, eh! Ennò, manco per niente, o almeno non in una fase della loro vita in cui avevano rapporti tutto meno che amichevoli. Al punto che Calvino, menava all'altro pesanti fendenti epistolari, rinfacciandogli l'appoggio fanatico alle idee fasciste e attaccandolo per l'arrivismo, l'incompetenza, l'ignoranza e la buffoneria.
Un'aggressione verbale tale da stendere chiunque e che lo stesso Scalfari non prese bene.
Vedendola come la coltellata di un amico, con cui aveva condiviso i banchi di scuola al liceo classico di Sanremo, alla fine degli anni Trenta.
I rapporti tra i due si guastarono poco dopo, con la sempre più convinta adesione di Scalfari al regime e il suo arruolamento nella redazione di Roma Fascista, organo ufficiale del Guf, il Gruppo Universitario Fascista.
Lo confermano diverse missive di Calvino a Scalfari raccolte in Lettere 1940-1985, (Mondadori, 2000). Chi, come Repubblica ieri, celebra romanticamente «l'amicizia andata avanti per tutta la vita» si dimentica colpevolmente di questo passaggio molto poco fraterno tra i due.
CURATI! È il 1942 quando Scalfari, divenuto caporedattore di Roma Fascista, viene infilzato da Calvino che contesta un suo articolo sul vivaio giovanile del regime, avvertendolo: «Stai diventando un fanatico, ragazzo mio, stai attento. Ti stai esaltando di queste idee, tanto da montarti la testa. Curati. Distraiti». Scalfari non "si cura", ma continua a vergare pezzi sul giornale. Dove si occupa anche di economia, senza avere alcuna formazione in merito, secondo l'amico. Che infatti in un'altra missiva lo insulta per il pressapochismo con cui ostenta conoscenze che non ha, con l'unico obiettivo di far carriera.
È il 10 giugno 1942 quando Calvino va giù duro contro Scalfari: «Tu che sempre hai vissuto in una sfera lontana dalla vera vita, uniformando il tuo pensiero all'articolo di fondo del giornale tale e talaltro, ignorando completamente uomini fatti cose, adesso ti metti a scrivere di economia, argomenti ai quali sono legati avvenire benessere prosperità di popolazioni. Questa più che faccia tosta mi sembra impudenza». E ancora: «Lo so, sono amaro, ma, ragazzo, nella merda fino a quel punto non ti credevo. Il giornale fa pietà, è un vero sconcio che si lasci pubblicare tanta roba idiota e inutile. Ti conoscevamo come uno disposto a tutto pur di riuscire, ma cominci a fare un po' schifo».
"Fai schifo" e "sei nella merda" non sono complimenti che ci si aspetta da un amico. E infatti Scalfari si risente, come fa capire in un'altra lettera Calvino che, anziché scusarsi o abbassare i toni, rincara così la dose: «Me ne frego che tu ti offenda e mi risponda con lettere aspramente risentite (oltre che scemo sei pure diventato permaloso).
Quello che ho da dirti (e te lo dico per il tuo bene) si compendia in una sola parola: Pagliaccio! Chiunque ti legga, vedendo uno che fa sfoggio di erudizione ad ogni sillaba, che fa di tutto perché i suoi concetti appaiano il meno chiari e determinati possibile, non può fare a meno di credere che tu sia un Ignorante che ripete pappagallescamente frasi e termini raffazzonati a casaccio». Gli attacchi sono pesanti perché stavolta non riguardano l'ideologia di Scalfari, ma il suo stile di scrittura, ampolloso e poco comprensibile, e la sua cultura, figlia di concetti sentiti qua e là e ripetuti a mo' di pappagallo. È una stroncatura al giornalista e all'aspirante scrittore, prima che al militante di un partito.
FONTI FINTE Però Calvino non doveva averci visto male, quanto alle competenze dello Scalfari giornalista in erba. Il quale nel 1943 scrive una serie di articoli non firmati accusando alcuni gerarchi fascisti di fare speculazioni sulla costruzione dell'Eur. Quei corsivi, non basati su fonti certe ma su voci generiche, varranno a Scalfari una convocazione del vicesegretario del partito Carlo Sforza, che lo additerà di non svolgere bene il proprio mestiere e di essere un imboscato, e quindi gli strapperà le mostrine dalla divisa, espellendolo dal Guf e da Roma Fascista.
È l'episodio dell'abbandono del fascismo da parte di Scalfari. Ma dietro quella svolta non ci fu una conversione ideologica, quanto un'inchiesta giornalistica fatta male, senza fonti certe. Macchina del fango, si direbbe ora. A dimostrazione che l'allarme di Calvino era più che fondato: quel metodo, nel nostro giornalismo, avrebbe eccome fatto scuola, a partire proprio dai giornali creati da Scalfari. Come dire, tutto torna.
Asor Rosa: «Vi racconto il mio amico Eugenio Scalfari». Alberto Asor Rosa il 3 aprile 2014.
La passione per i giornali, per i libri, per la politica. Il fondatore dell’Espresso e di Repubblica raccontato da un intellettuale diverso da lui
Narrare e interpretare un’amicizia è sempre bello e buono. Scrive infatti il Grande Saggio: «L’amicizia è una virtù o s’accompagna alla virtù; inoltre essa è cosa necessarissima alla vita». Se questo, ripeto, è sempre vero, assume un rilievo particolare quando all’origine i due eventuali soggetti dell’amicizia risultano contraddistinti - e per certi versi tali sono destinati a restare - da differenze profonde, politiche, culturali, ideologiche, di stili di vita e persino di orizzonti esistenziali. Questo è il caso - mi pare di poter dire - mio e di Eugenio Scalfari. Cogliere l’occasione del suo novantesimo compleanno (il 6 aprile) per spiegare perché e come siamo stati, e siamo, molto amici, potrebbe avere un qualche senso per tutti. Di sicuro ce l’ha per me. Spero che ce l’abbia per Eugenio. Per saperlo, comunque, bisogna osare. Solo alla fine sapremo se ne è valsa la pena (ma io, ripeto, penso di sì).
Per comodità dividerò il racconto in tre capitoli, con una conclusione che arriva fino ai nostri tempi, anzi ai nostri giorni.
1 Ho conosciuto Eugenio Scalfari (di persona, s’intende, come figura pubblica era universalmente noto da tempo), all’inizio degli anni Ottanta. Eugenio era allora impegnato nel trionfale decollo del suo principale (giornalisticamente parlando) cavallo di battaglia, il quotidiano “la Repubblica”, da lui fondato pochi anni prima (1976). Io venivo da un periodo di disillusioni e di scoramento, culminato nel 1980 nelle mie dimissioni dalla Camera dei deputati, dove ero stato eletto solo l’anno prima nelle liste del Pci. Non importa sapere se la mia collaborazione a “la Repubblica”, progettata e realizzata fra il 1983 e il 1984, discendesse da un’offerta del Direttore Scalfari o da una mia proposta autoriale. Fatto sta che, fra il 1984 e il 1989, la mia collaborazione al giornale di Scalfari fu frequente, impegnata e appassionata, sia sulle pagine culturali sia - soprattutto, direi, in quel momento - su quelle politiche.
C’era un punto sul quale in quegli anni le nostre diverse prospettive convergevano. Questo punto era rappresentato dalla fondatissima persuasione che il Pci non potesse proseguire il suo cammino come forza politica (auspicabilmente) decisiva in Italia senza operare una profonda rivoluzione delle sue strutture, cultura politica, orientamenti ideali. Questo orientamento venne perseguito sia prima sia soprattutto dopo la scomparsa di Enrico Berlinguer, quando alla Segreteria gli subentrò una persona rispettabilissima come Alessandro Natta, ma inequivocabilmente di transizione. Per farmi meglio capire, cito soltanto i titoli di miei tre articoli nel merito: “Il partito riformatore” (aprile 1984); “Il cavallo occidentale e la giraffa comunista” (settembre 1984); “Se la giraffa diventa cavallo” (marzo 1985).
Ovviamente tutto il giornale, a partire in primo luogo dal suo Direttore, si muoveva in questa direzione. Ma Scalfari sembrava tenere a che quel discorso, insieme con altri, lo facessi io. La collaborazione, espressa prevalentemente, com’è ovvio, sotto forma di articoli scritti e stampati, si estendeva però al dominio meraviglioso della conversazione. Vedevo spesso Eugenio nella sua stanza di Direzione nell’edificio all’angolo tra Via dei Mille e Piazza Indipendenza. Ho così potuto - allora - scoprire che per lui il rapporto intellettuale o politico sfocia pressoché inevitabilmente - certo quando lui ritiene che ne valga la pena - in quello degli affetti.
Forse è proprio per quest’ultimo motivo - e cioè che, rovesciando l’ordine dei rapporti, quello affettivo influisce, sia positivamente sia negativamente, su quello intellettuale o politico - che quando Occhetto compie la “svolta” (novembre 1989), Eugenio e io ci dividiamo proprio su quello che sembrava il compimento del nostro comune disegno precedente. Come mai? Eugenio pensa che la “svolta” occhettiana rappresenti il passaggio obbligato e necessario a quella integrale e definitiva democratizzazione del Pci, considerata (come dirò meglio più avanti) un tassello decisivo per la costruzione di una compiuta democrazia italiana. Io penso fin dall’inizio che le modalità con cui l’operazione è compiuta (la difesa della parola e dell’identità comunista è per me anche in quel momento di difficilissimo e doloroso passaggio del tutto fuori causa) condurranno a una catastrofe.
Naturalmente non si tratta qui di riaprire, neanche nei termini più generali, una discussione su chi dei due avesse (più) ragione. Il dato di fatto è che, forse per quell’intreccio tra affetti e persuasioni intellettuali cui accennavo, in quel momento per tutti incredibilmente rovente i nostri rapporti s’interrompono e, come dire, per qualche anno restano sopiti.
2 Vorrei allargare il discorso. L’amicizia, soprattutto fra diversi, nasce spesso se uno dei due ha qualche motivo di ammirazione per l’altro. Io ammiro molto la coerenza; la linearità dei comportamenti; la forza non prevaricatrice con cui si difendono le proprie opinioni. Ora, io qui - desidero precisarlo - sto cercando di tracciare un ritratto a tutto tondo di Eugenio Scalfari. Sto cercando di spiegare perché provo una grande amicizia per lui. L’ammirazione, come l’amicizia - e come l’amore - nascono sempre dentro un contesto. Il contesto, almeno per noi due, è l’Italia contemporanea, l’Italia contemporanea degli ultimi cinquanta-sessant’anni, come lui e io l’abbiamo vissuta (il fatto di avere circa dieci anni di meno non mi ha impedito di seguire passo passo più o meno le stesse vicende, sia pure, come dicevo, da angolazioni diverse).
Ebbene, io osservo questo. In un Paese incredibilmente debole, spesso rinunciatario, poco coraggioso, straordinariamente frastagliato e alla fine - si veda l’oggi - quasi sull’orlo del fallimento, Eugenio ha perseguito con incredibile energia e una forza intellettuale e vitale assolutamente eccezionale una battaglia inesausta per riuscire a fare dell’Italia un Paese democraticamente maturo, rispettoso delle regole, fermo sui principi, operoso e civile, e in definitiva, puramente e semplicemente, un Paese normale, almeno secondo il canone democratico occidentale. Ecco: l’ispirazione liberaldemocratica (so di dire una cosa che probabilmente non piacerà a molti, sia da una parte sia dall’altra), che altrove avrebbe avuto una cittadinanza pressoché scontata e come tale guardata e praticata, in questo contesto smette di essere un’ideologia pura e semplice del sistema, che pure è il suo, e funziona invece come un’istanza dissacrante e antagonistica, rema contro corrente con una determinazione che attraversa tutta la sua vita e ancora oggi opera nella pienezza delle proprie energie.
Probabilmente non ce ne sarebbe bisogno per i lettori di questo periodico, ma vorrei richiamare qui i punti salienti di questa battaglia scalfariana. Concettualmente: la difesa intransigente della Costituzione; il rispetto quasi religioso delle istituzioni; l’appello alle forze selvagge del capitalismo perché accettino anch’esse di rispettare, nella legittima ricerca dei propri interessi, i limiti e le regole della vita repubblicana associata; la distinzione basilare fra conquista del potere da parte dei partiti e occupazione e sfruttamento delle istituzioni da parte loro. Politicamente: la lotta senza riserve e senza cedimenti a tutte le deformazioni della macchina democratica e al suo pervertimento in funzione populistica e personalistica: Craxi e il craxismo, Berlusconi e il berlusconismo, l’imputridimento criminale della politica (l’appoggio incondizionato a Mani Pulite ne rappresentò per lui uno dei risvolti più positivi). Anche la sua attuale diffidenza, e profonda diversità, più volte espresse, nei confronti di Matteo Renzi e del renzismo, vanno fatte rientrare sul conto di questo versante del suo pensiero.
Questa ammirazione per me è sempre stata in atto, ma recentemente, nel corso dell’ultimo decennio, s’è ancor più accresciuta e ha trovato nuovo alimento nella forza e lucidità veramente incredibili con cui Eugenio ha continuato a esercitare la sua critica liberaldemocratica della società capitalistica di massa, ormai malata, a quanto pare, nelle sue stesse componenti fondamentali.
3 L’ammirazione, tuttavia, è solo la fonte più appariscente dell’amicizia. Ne esiste una più segreta, fatta di sentimenti, passioni, idiosincrasie e persino, se si può dir così, di sincronici trasalimenti, che nei casi migliori si fonde con la prima, e tutto sommato, la invera e giustifica. Tuttavia, come si può capire, è molto più difficile parlarne. Mi limiterò a dire che io, a parte le frequentazioni personali sempre più assidue, ho imparato a scoprirla e a riscoprirla nei suoi libri “colti” e “filosofici” dell’ultimo ventennio (non solo, ma soprattutto, “Incontro con io”, 1994; “Alla ricerca della morale perduta”, 1995; “L’uomo che non credeva in Dio”, 2008; “Per l’alto mare aperto”, 2010). Come mai? Quando li studiavo, per sistemarli all’interno del volume dei “Meridiani” mondadoriani, da me curato (2012), che tutti li comprende, rimasi colpito dal fatto che il discorso precipuamente storico-culturale e analitico-filosofico, che Eugenio vi svolgeva, fosse puntualmente accompagnato da una vera e propria cascata di reazioni emotive e sentimentali, che in qualche modo profondamente lo giustificava, e al tempo stesso lo rendeva più facilmente comunicabile e condivisibile, ossia perfettamente umano. Non c’era soltanto da seguire e mettere in comune, o al caso guardare con attitudine critica, gli enunciati interpretativi riguardanti di volta in volta l’amato Montaigne, o Diderot, o Tocqueville, o Nietzsche, o Marx, ecc. ecc. C’era la possibilità di seguire, attraverso gli autori richiamati e da lui interpretati, un percorso autoriale autonomo e vitale, di cui condividere in un certo senso non solo l’esperienza intellettuale, ma anche quella esistenziale, insomma autobiografica nel senso più pieno del termine.
C’è vera amicizia quando l’ammirazione diviene condivisione, comunanza, apprezzamento dello sforzo compiuto per essere non soltanto maestro di giustizia e di civiltà, ma anche (come diceva uno dei nostri più innominabili maestri) “umano”, persino “troppo umano” (non a caso, per dirla tutta, “un libro per spiriti liberi”...). Le difese allora si abbassano, lo sforzo della persuasione si allenta, sopraggiunge - e prevale - la forza inconfondibile del disincanto: io sono questo, giudicatemi per quello che sono, non devo persuadervi, mi basta che sappiate che ci sono stato, che ci sono, e sono questo...
Mi rendo conto che, andando verso le conclusioni, tiro sempre più Eugenio dalla mia parte. Del resto, che amicizia sarebbe, se non ci fosse fra i due che la praticano una certa dose di tensione reciprocamente metamorfosica? Però desidero precisarlo: di qui in poi io parlo soprattutto di me, se mi associo Eugenio è per eccesso di condivisione e di affetto. Dunque, per concludere: io sento soffiare intorno a noi due - intorno a noi due, s’intende, come intorno, a molti altri - il venticello dolceamaro della sconfitta. Sconfitta, in quale senso? In questo, penso: il grande, autentico, formidabile atletico campione del pensiero liberaldemocratico, vive, pensa, combatte in un Paese dove, se un poco e per un po’ c’è stata, non c’è più una borghesia, e vede oggi il suo partito politico di più diretto riferimento nelle mani di un signore diligentemente e perfettamente allevato dal mondo degli scout; e il (presunto, preteso, talvolta infantilmente compiaciuto) intellettuale e pensatore antagonistico vive, pensa, combatte in un Paese dove, se un poco e per un po’ c’è stata, non c’è più una classe operaia, e vede oggi il suo partito politico di più diretto riferimento nelle mani di un signore diligentemente e perfettamente allevato dal mondo degli scout. C’è n’è abbastanza per stare, nei lunghi anni a venire, sempre più concordi, vicini, amici.
Del resto, il venticello dolceamaro della sconfitta non è così deprecabile come in astratto si potrebbe pensare (appunto, non è solo amaro, è anche dolce). Ho scritto recentemente che oltre gli ottanta (figuriamoci dopo i novanta) la libertà di pensiero - se c’era anche prima, ovviamente - diviene totale: non c’è più niente da cambiare, si può solo pensare. La sconfitta - grande, completa, irrimediabile, oppure solo parziale o solo presunta - aumenta a dismisura la libertà del pensiero, la rende sistematica, operosa, in qualche modo persino felice. Non si può più cambiare, si può solo pensare. Solo pensare - io penso - è più felice che pensare per cambiare. Non so se venga dall’età o dalla sconfitta, certo è che le cose scritte (oltre che dette) negli ultimi anni da Eugenio Scalfari, compresi gli ultimi articoli, compreso l’ultimissimo, quello di domenica scorsa, sono incredibilmente ben pensate, persuasive, libere e perciò felici.
Il Grande Saggio, il più grande che mai ci sia stato, osserva, con parole che sembrano scritte per noi, che «ai giovani l’amicizia è di aiuto per non errare, ai vecchi per assistenza e per la loro insufficienza ad agire a causa delle loro debolezze, a quelli che sono nel pieno delle forze per le belle azioni». E aggiunge, chiamando in soccorso il Grande Poeta, il più grande che mai ci sia stato (poiché dove il pensiero non arriva, arriva la poesia): «“Due persone che insieme vanno”, e così sono più capaci a pensare e ad agire». Ecco, se potessi, sceglierei questa immagine per definire la nostra amicizia: insieme (e naturalmente anche in questo caso la riflessione riguarda molto più me che lui) siamo stati più capaci a pensare e ad agire. Niente, però, in confronto a quel che accadrà in futuro.
1924-2022. Eugenio Scalfari e il giornalismo come campo di battaglia per cambiare l’Italia. ALBERTO ASOR ROSA su Il Domani il 14 luglio 2022
Scalfari non si può definire stricto sensu un giornalista. Ossia Scalfari, i giornali cui ha collaborato, li ha lui stesso fondati e diretti.
La battaglia di Scalfari è consistita nel tentare di ricondurre l’Italia entro gli schemi politico-istituzionali di un normale paese democratico europeo.
Perciò, il primo obiettivo è la denuncia di quel tessuto segreto di complicità e di oscure alleanze, che ha avvelenato così spesso dietro le quinte la vita politica e civile del nostro paese e che tende facilmente a sconfinare nell’eversione.
Il brano che segue è un estratto dal saggio: Il giornalismo. E altro, molto altro a firma del critico letterario Alberto Asor Rosa, che fa da introduzione del libro che nel 2012 Mondadori ha dedicato alla vita e alle opere di Eugenio Scalfari, La passione dell’etica. Scritti 1963-2012, a cura di Angelo Cannatà, per la collana I Meridiani. Lo ripubblichiamo per gentile concessione dell’editore.
Il volume contiene una selezione dei più importanti testi giornalistici su temi economico-politici dal 1963 – quando Scalfari divenne direttore dell’Espresso – al 2012, e i libri scritti tra gli anni Novanta e il 2012.
Una raccolta di cui Alberto Asor Rosa offre una «lettura ragionata» secondo un approccio cronologico, che non manca di «cogliere e segnalare gli innumerevoli rinvii che i testi suggeriscono e spesso c’impongono» come lo stesso critico letterario precisava.
Dopo alcune intense ma brevi esperienze bancarie, dalle quali ha tratto la sua permanente vocazione economica, Scalfari ha collaborato alla fondazione del settimanale L’Espresso (1955), con Arrigo Benedetti – grande e innovativo giornalista della generazione precedente –, e ne ha raccolto la direzione nel 1963 (quando aveva trentanove anni) e l’ha tenuta fino al 1968. Nel 1976 (quando ne aveva cinquantadue), insieme con Carlo Caracciolo, Adriano Olivetti e Mario Formenton, ha fondato il quotidiano la Repubblica, divenendone da subito direttore. Ne ha tenuto la direzione fino al 1996.
Come lui stesso ama sempre più spesso ripetere, Scalfari non si può dunque definire stricto sensu un giornalista. Alle sue spalle, cioè, non c’è un vero e proprio apprendistato professionale, se non forse soltanto nei suoi primissimi anni.
Ossia Scalfari, i giornali cui ha collaborato, li ha lui stesso fondati e diretti: non ne è stato mai, per intenderci, un collaboratore subalterno e, in qualche misura, eteroguidato.
Quello che potremmo definire come un vero e proprio genere giornalistico nuovo, e cioè, per l’appunto, l’“articolo scalfariano”, è un mix estremamente sapiente di analisi, informazione, intrattenimento e giudizio politico e civile.
Di una professione giornalistica di così ampia latitudine e serietà costituiscono premessa essenziale i princìpi che la fondano. Non a caso, nell’Italia travagliata e sconnessa degli ultimi cinquant’anni, Scalfari dedica tanto spazio e impegno a precisare questo aspetto davvero decisivo della questione. E non a caso essa appare qui tanto chiara fin dagli esordi della propria esperienza. È infatti proprio nell’articolo in cui si rammarica che Arrigo Benedetti abbandoni il suo ultimo rapporto con «L’Espresso» (A un amico che ci lascia, 26 giugno 1967), che egli ne formula una definizione così chiara e per molti aspetti conclusiva:
«Qualcuno dirà o penserà che questa linea ha il torto di non scegliere una volta per tutte un campo contro l’altro. Ma chi dice o pensa in tal modo commette un errore assai grave, perché noi, il nostro campo, l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro tutte le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga [...] Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbano mettere becco e artigli. Per difendersi. Mai per aggredire».
Per riuscire a tenere fino in fondo questo atteggiamento la prima e più importante delle ragioni è sempre stata «l’indipendenza di cui il giornale [la Repubblica] ha finora goduto» (Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa..., 13 gennaio 1990).
Commemorando Benedetti, Scalfari ne celebra la «irriverenza verso il potere» e la persuasione che il giornalista sia «portatore d’un diritto della collettività a conoscere e a svelare i fatti e quello che c’era dietro».
Dunque, fin dall’inizio e poi per sempre, una battaglia aperta e senza quartiere contro «l’autocensura nel giornalismo italiano». E ancora: la regola a «considerare la redazione non solo come un luogo di lavoro, ma come una scuola».
Anni dopo, il grande successo della Repubblica induce il fondatore ad approfondire il discorso (Mackie Messer ha il coltello ma vedere non lo fa..., cit.). Siamo di fronte a un caso abbastanza eccezionale – un «ircocervo» appunto, come lui stesso si autodefinisce –, in cui il direttore è anche imprenditore di se stesso e comproprietario della testata.
Si tratterebbe dunque di quel che gli avversari definiscono polemicamente un «giornale-partito». Precedenti, nella stampa italiana, però, osserva Scalfari, ce ne sono stati, e di illustri: Alfredo Frassati alla Stampa; Alberto Bergamini al Giornale d’Italia; ma soprattutto Luigi Albertini al Corriere della Sera. Ma queste caratteristiche, invece di limitare l’indipendenza del giornale, la rafforzano. Non dipendere da nessuno presenta, appunto, i suoi vantaggi.
Se mai, il problema è mantenere l’equilibrio dei ruoli e delle funzioni. In un altro lungo articolo dedicato al medesimo argomento (Il giornale partito di Luigi Albertini, 1º agosto 2007), Scalfari spiega: «Il solo vero modo di rispettare i lettori, secondo una regola che ho sempre cercato di praticare, è quello di presentarsi per ciò che si è e di stare ai fatti con la maggiore oggettività possibile».
Dunque, ogni grande giornale è un giornale-giornale e al tempo stesso un giornale-partito: «Il risultato dipende dalla misura e dall’onestà dell’intento».
Le radici di Scalfari (e, in modo peculiare, dello Scalfari giornalista) stanno nel gruppo e nell’esperienza del Mondo: cioè, in quel piccolo caposaldo di cultura liberaldemocratica italiana, che, nel lungo periodo di assoluta predominanza democristiano-comunista, da una parte raccoglie l’eredità del Partito d’azione, dall’altra si rifà ai maestri classici del liberalismo italiano, da Benedetto Croce a Luigi Einaudi.
Però Scalfari distingue subito (I padri del «Mondo», 8 febbraio 1987): Il Mondo ebbe origine secondo lui dal felice, fortunato incontro fra il crocianesimo di Pannunzio e il salveminismo di Ernesto Rossi.
A quest’ultimo, però, Scalfari attribuisce alcune qualità che sembrerebbero anche tra le sue preferite: «il gusto della concretezza, il rifiuto degli schemi, l’ottimismo della volontà e, a differenza di quanto pensava Gramsci, anche della ragione».
Il Mondo trasse forza dalla fusione – finché durò – di queste due diverse personalità. Ma non è azzardato avanzare l’ipotesi che, dovendo scegliere, Scalfari avrebbe scelto il “versante” Rossi. «Ci sono sempre state due anime» precisa Scalfari «nel liberalismo italiano ed è fin troppo facile definirle l’anima conservatrice e quella progressista».
Anche in questo caso la distinzione non riguarda alla lettera quella (o quelle) fra le due personalità richiamate qui sopra. Ma non c’è dubbio, anche in questo caso, che, dovendo collocarsi, Scalfari preferirebbe farlo nella seconda delle due caselle liberali da lui disegnate: quella progressista.
Che vuol dire questo? Vuol dire che, in una visione generale del problema politico italiano, anzi europeo, Scalfari si posiziona, sì, dalla parte del capitalismo, richiamandosi però al tempo stesso ai princìpi di una democrazia economica regolata dall’intervento temperato dello stato. Non a caso enunciazioni di tale natura ricorrono proprio nell’articolo in memoria di Bruno Visentini (Un discepolo di Voltaire..., 14 febbraio 1995), uno di quei (pochi, pochissimi) “grandi borghesi”, che hanno illustrato la storia italiana degli ultimi decenni.
Fanno parte di questo corredo la «difesa della concorrenza» e la «lotta contro i monopoli pubblici e privati»; e insieme la persuasione profonda che «il liberismo selvaggio inselvatichisce la società e deve essere costretto al rispetto dell’interesse generale e della democrazia economica che lo realizza».
Sarebbe ancor più semplice osservare che il liberalismo scalfariano affonda le sue radici nel verbo illuministico più originario, quello diderottiano e volterriano (come vedremo meglio più avanti).
Molti, molti anni più tardi (L’ingiustizia ha sconvolto il benessere del mondo, 5 aprile 2009), a testimonianza del fatto che tale posizione fa parte del corredo genetico-intellettuale più autentico del nostro personaggio, Scalfari denuncia che la «disuguaglianza» si colloca alla base dell’attuale scompenso produttivo e sociale; e che quello che lui chiama «il trittico della modernità» – libertà e fraternità, ovviamente, che però non sono niente o, meglio, non funzionano se ad esse non si aggiunge il terzo elemento, e cioè l’eguaglianza – è imprescindibile dalla ripresa mondiale, economica e politico-sociale: «Non ci sarà crescita senza redistribuzione del reddito e della ricchezza».
In una delle conversazioni avute più avanti da Scalfari con il cardinal Martini, è quest’ultimo a osservare che «il vero peccato del mondo è l’ingiustizia e la diseguaglianza» (Il Cardinale Martini. «Un Concilio sul divorzio», 18 giugno 2009). E forse non è arbitrario rilevare che, nell’ultimo Scalfari, il messaggio evangelico, tramite la mediazione di Martini, si salda con quello illuministico (ma anche su questo ovviamente torneremo).
Cade a proposito a questo punto cercare di capire come, nell’esperienza giornalistica di Scalfari, prima con L’Espresso, ma poi assai più significativamente con la Repubblica, un credo rimasto a lungo, almeno in Italia, sostanzialmente elitario e minoritario, come quello liberaldemocratico, abbia prima sfiorato e coltivato e poi conseguito un’audience così di massa.
Scalfari, non a caso additato da parte del «becerismo nazionale», lo scrive lui stesso, come «il cantore dell’élite» (Un discepolo di Voltaire..., cit.), ha compiuto il miracolo di costruire un pubblico non elitario intorno alle attenzioni, ai giudizi e persino, se si vuole, ai pregiudizi di un esiguo gruppo intellettual-politico, originariamente molto ristretto: tutto ciò senza venir meno ai presupposti fondamentali della propria esperienza, solo modellandoli “stilisticamente” (non mi viene in mente una parola più adatta), per renderli più ampiamente fruibili e circolabili.
La politica non è mai stata per Scalfari altro che uno dei campi – forse il più importante, ma di certo non esclusivo – di una “predicazione” ad amplissimo spettro: dove è essenziale non perdere mai di vista i punti di partenza originari (quelli già detti di una cultura sovranazionale, orientata al bene della collettività e del paese).
Poste queste premesse, la politica ne consegue. Ossia: fra i princìpi e i vari posizionamenti politici esiste in Scalfari un rapporto sempre molto stretto. Si capisce facilmente che, così stando le cose, tra la vocazione giornalistica di Scalfari e le mutevoli, incerte, spesso ambigue e laceranti vicende politiche italiane, si sarebbe aperta una contraddizione permanente e prevalentemente insanabile.
Il primo numero della Repubblica è in edicola il 14 gennaio 1976. Fra il 1975 e il 1976 le grandi avanzate comuniste alle elezioni regionali, prima, e poi a quelle politiche sembrano aprire una nuova fase politica in Italia: Moro, da una posizione di forza all’interno della Dc, teorizza l’esigenza di un’apertura e la legittimità di un’alternanza; Berlinguer, egemone nel Pci, elabora la persino più avanzata «strategia del compromesso storico», che prevede un’alleanza, sia pure temporanea (ma quanto non si sa) tra le due principali forze parlamentari italiane, la Dc e il Pci.
Ma si tratta di una brevissima stagione: stroncata, da una parte, dall’apertura di una durissima strategia terroristica, la quale culmina nel rapimento e nell’assassinio di Moro), prolungandosi tuttavia dolorosamente negli anni successivi; dall’altra, dalla pronta riaffermazione, all’interno dei partiti di centro-sinistra, delle posizioni più oltranziste e conservatrici (il cosiddetto Caf: l’alleanza organica di Bettino Craxi, Giulio Andreotti e Arnaldo Forlani).
Si potrebbe dire che, nella sostanza, la battaglia di Scalfari consista nel tentare di ricondurre l’Italia entro gli schemi politico-istituzionali di un normale paese democratico europeo. Perciò, il primo obiettivo è la denuncia di quel tessuto segreto di complicità e di oscure alleanze, che ha avvelenato così spesso dietro le quinte la vita politica e civile del nostro paese e che tende facilmente a sconfinare nell’eversione.
Esemplari, in questo senso, sull’Espresso, la pentola scoperchiata della «congiura De Lorenzo» (Il processo De Lorenzo, 19 novembre 1967; e altri); e, sulla Repubblica, il durissimo atto d’accusa contro la cellula massonica di Licio Gelli e la P2 (Hanno venduto anche l’anima, 21 maggio 1981).
Rientra in un certo senso in questo capitolo anche l’appoggio incondizionato fornito alla magistratura ai tempi di Tangentopoli (Con i cinque di Mani Pulite, 26 gennaio 1993), e, più in generale, in tutte le occasioni – non poche, purtroppo – in cui in Italia si sono sollevati i macigni delle complicità e delle omertà, per scoprire verminai infiniti.
Osservazioni non dissimili si potrebbero fare a proposito dell’atteggiamento tenuto nei confronti di alcuni dei più significativi esperimenti politici e di governo compiuti in Italia nel corso degli ultimi trent’anni. Intendo, ovviamente, Bettino Craxi e Silvio Berlusconi.
Scalfari, traducendo in linguaggio politico italiano le sue convinzioni, avrebbe potuto essere socialista (e infatti è stato in parlamento come deputato socialista dal 1968 al 1972). Ma gli ha sbarrato la strada l’involuzione pesantissima, la «mutazione morfogenetica» della compagine socialista, di cui Craxi è stato il principale artefice.
Quanto a Berlusconi, si potrebbe dire che ha rappresentato la negazione assoluta delle più profonde convinzioni etiche e civili di Eugenio Scalfari, il quale peraltro, senza farsi molte illusioni, ne ha visto da subito le profonde connessioni con il quadro già in precedenza degenerato dell’assetto politico italiano.
Ne è discesa una battaglia senza quartiere contro scelte politiche, civili e comportamentali, di cui Berlusconi, presidente del Consiglio o capo della frazione denominata Popolo della libertà, è stato in tutti questi anni protagonista ed emblema (battaglia, del resto, continuata in perfetta continuità dalla Repubblica, quando nel 1996 ne ha assunto la direzione Ezio Mauro).
Su questo sfondo, non precisamente positivo né idilliaco, colpiscono in Scalfari – prodotto, appunto, di curiosità intellettuale, ma anche della constatazione che nel suo proprio confine o territorio naturale c’era poco da raccattare – la ricerca di personalità e di atteggiamenti e, conseguentemente, di prospettive, che possano essere foriere di soluzioni alternative al terribile ristagno del mondo politico italiano.
È il caso di Ciriaco De Mita (Ecco la Dc. «I suoi vizi, le sue virtù», 9 settembre 1982), in quel momento segretario politico della Dc; e, in forma forse ancor più marcata, di Enrico Berlinguer (nella leggendaria intervista del 28 luglio 1981, Dove va il Pci?, e nell’articolo scritto mentre il leader comunista stava morendo, Straniero in patria, 10 giugno 1984).
Non ho lo spazio per entrare di più nel merito di questa inesauribile ricerca degli spazi e delle strade utili, anzi necessarie, a reimpostare le fondamenta stesse della lotta politica in Italia.
Mi limiterò a osservare che le motivazioni principali di tale ricerca appaiono tre: lo sforzo di superare una «democrazia bloccata», che, appunto perché tale, si corrompe e degrada; la ricerca, conseguentemente, delle condizioni destinate a favorire una vera «democrazia dell’alternanza»; e, last but not least, «la questione morale», il terreno e l’insieme delle motivazioni, per cui Scalfari arriva ad avere tanta ammirazione (e forse affetto?) per Enrico Berlinguer, che ne fu un cultore convinto e fermissimo.
Su questi versanti alternativi le speranze nutrite – e alimentate – da Scalfari non vanno sempre a buon fine. De Mita viene, per l’appunto, sopraffatto dal Caf e rispedito nella morta palude Dc; Berlinguer, dopo l’assassinio di Moro, è respinto anche lui ai margini, e costretto a ripiegare nella trincea, anch’essa alquanto improbabile, dell’alternativa; e poco dopo in quella trincea, se si deve prestar fede alla stessa ricostruzione di Scalfari, ne muore.
Qualche buona notizia viene dalla scelta occhettiana della Bolognina (E Occhetto ha intonato la Marsigliese, 22 gennaio 1989), che sembrerebbe aver inserito definitivamente il Pci (o meglio quel che ne sarebbe restato) nel gioco democratico (escludendo però fin dall’inizio che questo potesse dar luogo, attraverso l’eventuale alleanza Pci-Psi, a una durevole e significativa «alternativa di sinistra», perché, scrive Scalfari con parole che risultano per lui significative fino ad oggi, «più passa il tempo e più tutte le forze politiche si rendono conto che solo dal centro si possono governare società complesse» [tondo mio]).
Parole di forte apprezzamento sono pronunciate in occasione della formazione, di fronte alla crisi incombente, del governo Ciampi.
Parole di apprezzamento sono da Scalfari pronunziate anche nei confronti del secondo governo Prodi (Il premier ha la testa più dura di Zidane, 28 gennaio 2007), in occasione soprattutto della bersaniana «lenzuolata» di liberalizzazioni (anche se nell’occasione Scalfari avverte il bisogno di precisare: «Personalmente sono anch’io – nel mio piccolo non bocconiano – un fautore del libero mercato senza però attribuirgli quelle virtù taumaturgiche che altri gli riconoscono»).
Dell’incondizionato appoggio al governo Monti, che è anch’esso, secondo Scalfari, «tecnico» ma al tempo stesso pienamente «politico», cioè costituzionalmente legittimato, basti rilevare che esso appare ancor più coerente con le posizioni scalfariane classiche di quanto non possa apparire a prima vista.
In generale parlando, però, non si potrebbe dire facilmente che la predicazione scalfariana, pure così eloquente, metta capo a un durevole, apprezzabile e consistente cambiamento. «Desolato» non è apprezzamento che ben si adatti a Eugenio Scalfari, sempre teso a contrastare e superare le difficoltà che di continuo gli si frappongono.
E pure un tratto di desolazione risuona nelle sue parole, quando contempla dar vicino quel che si è stati tentati a un certo punto di considerare la definitiva decadenza italiana.
Nell’articolo Meno male che c’è Fini (29 marzo 2009), anche questo espressivo fin dal titolo, commentando il Congresso del Popolo delle libertà, uscito di nuovo vincitore dalle ultime elezioni, Scalfari osserva che nel lungo discorso di Berlusconi non c’è neppure «una menzione», anzi, neppure il concetto della divisione dei poteri: «cioè di Stato di diritto».
Del resto, la sua fortuna politica, nonostante ciò, nel nostro paese si spiega bene: egli, infatti, «fa appello ad una costante psicologica degli italiani: l’antipolitica» (tondo mio).
Questa costante spiega a sua volta perché «i tentativi di rivoluzione liberale [la citazione gobettiana non è probabilmente casuale] in questo paese sono sempre falliti»: e ciò «per il conservatorismo innato nella destra e nella sinistra». Tali tentativi, storicamente – e l’elenco ha una sua pregnanza, che vorrei fosse tenuta presente nella valutazione di questa sintesi – si riducono a: il quindicennio giolittiano del primo Novecento; la fase riformatrice di De Gasperi-Vanoni; il riformismo comunistico-socialdemocratico in alcune regioni italiane centro-settentrionali; il triennio prodiano 1996-98, breve, e per giunta abbattuto proprio dallai radicalità di una certa sinistra. Siccome gli ultimi due esempi appaiono caricati di un’eccessiva benevolenza, si potrebbe commentare: c’è poco da stare allegri.
Nell’articolo Il grande seduttore, che risale ai tempi della prima vittoria elettorale di Berlusconi (30 marzo 1994), viene data una spiegazione più politica di quell’evento: i suoi oppositori si sono arroccati a sinistra, invece di conquistare il centro (come si vede, questo è un motivo che ritorna). E però, commenta amaramente Scalfari, anche in caso contrario avrebbero perso lo stesso: perché la voglia del «fai da te» si è impadronita della maggioranza degli italiani.
Il male, dunque, è più profondo di quanto potrebbe apparire: la grande abilità di Berlusconi è consistita nell’intercettarlo e farlo proprio. «Il vero ammalato» conclude Scalfari «è proprio quella società civile che si propone in teoria come medico terapeuta».
ALBERTO ASOR ROSA. Alberto Asor Rosa (Roma, 1933) ha insegnato per molti anni Letteratura italiana all'Università La Sapienza di Roma, di cui attualmente è professore emerito. Ha diretto la Letteratura italiana Einaudi nelle sue varie forme ed estensioni. Per lo stesso editore ha pubblicato Scrittori e popolo, Genus italicum, Stile Calvino, Storia europea della letteratura italiana, Breve storia della letteratura italiana, Machiavelli e l'Italia e L'eroe virile. Saggio su Joseph Conrad e i volumi di saggistica politica, Le due società. Ipotesi sulla crisi italiana e La guerra. Sulle forme attuali della convivenza umana. Fra i suoi scritti teorici, L'ultimo paradosso e Fuori dall'Occidente. Tra i suoi libri di narrativa: L'alba di un mondo nuovo, Storie di animali e altri viventi, Assunta e Alessandro, Racconti dell'errore e Amori sospesi.
Preferiamo la saldezza dei principi all’emotività delle passioni. EUGENIO SCALFARI su Il Domani il 14 luglio 2022
Nel giugno 1967 Benedetti si dimetteva dal settimanale che aveva fondato, in seguito a un contrasto di opinioni con il direttore e cofondatore Eugenio Scalfari. In Medio Oriente si era appena combattuta la Guerra dei sei giorni, vinta da Israele, e Benedetti aveva sostenuto che la vittoria era legata a una superiorità culturale di Israele, inducendo il direttore a prendere le distanze
Il 26 giugno 1967, Eugenio Scalfari dalle colonne dell’Espresso, in un articolo intitolato A un amico che ci lascia, annunciava ai lettori la decisione di Arrigo Benedetti, fondatore del settimanale, di dimettersi. Lo faceva dallo spazio che fino a quel momento era appartenuto proprio a Benedetti e che aveva ospitato la sua rubrica Diario Italiano. Nel comunicare ai lettori la decisione del fondatore, che arrivava dopo un contrasto interno al giornale, maturato parallelamente alla Guerra dei sei giorni, Scalfari coglieva l’occasione per riaffermare qual era «linea» dell’Espresso. Questo articolo è presente nel Meridiano Mondadori dedicato a Scalfari, lo riproduciamo per gentile concessione dell’editore.
Per la prima volta da quando, dodici anni fa, L’Espresso fu fondato da Arrigo Benedetti, la sua nota non appare in questa parte del giornale né altrove. Arrigo Benedetti ha infatti deciso di dare le dimissioni da collaboratore ed ha spiegato sulla Voce Repubblicana di sabato scorso quelle che, a suo parere, sono le ragioni che l’hanno indotto ad un passo che, se a lui deve essere molto costato, moltissimo costa a noi da ogni punto di vista, giornalistico, politico e, soprattutto, umano.
Nel momento in cui debbo annunciare ai lettori dell’Espresso la decisione di Benedetti voglio anche, se mai ce ne fosse bisogno, ribattere una accusa vergognosa che è stata lanciata contro di lui. L’accusa viene dall’Unità che, traendo pretesto da un civile dibattito d’opinioni avvenuto tra Benedetti e me nell’ultimo numero dell’Espresso, ha creduto di colpirlo con la definizione di “razzista”, un’accusa (come ho già scritto in una mia lettera all’Unità) che non colpisce l’uomo cui è diretta, ma squalifica chi la fa.
L’opinione pubblica di questo Paese sa chi è Benedetti, quali battaglie ha combattuto, quali amici si è scelto e quali avversari ha dovuto affrontare.
Trent’anni di vita e di giornalismo testimoniano per lui e danno la misura della sua coscienza morale e del suo impegno civile di democratico e d’antifascista. Ci ha insegnato non soltanto un mestiere, ma la coscienza e la probità morale con cui dev’essere esercitato.
Non è un mestiere comodo: impone una continua testimonianza di verità, senza badare alle conseguenze che può produrre, ai nemici che può creare, agli amici che può alienare. A quell’insegnamento abbiamo cercato d’essere sempre fedeli.
Talvolta testimoniare la verità (o almeno quella che a noi risulta tale) provoca dubbi e domande. Se state dalla parte dell’America, ci si chiede, perché ne criticate la politica vietnamita? Allora state con la Russia e coi comunisti. Ma come mai, contemporaneamente, attaccate i comunisti e la Russia per tutto quanto v’è nella loro politica di illiberale, di poliziesco e di aggressivo?
Avete voluto il centrosinistra quando non lo voleva nessuno, ma ora non ne siete soddisfatti. Criticate la Democrazia cristiana e i suoi metodi di malgoverno e di sottogoverno. Dunque appoggiate i socialisti. E allora perché mai criticate anche i socialisti senza neppure quella carità che è dovuta agli amici politici?
Insomma, da che parte state e con chi? Rispondo: non abbiamo mai pensato che un gruppo, un partito politico, uno Stato, un sistema d’alleanze, siano i depositari esclusivi del bene o del male; non abbiamo mai creduto che il mondo si potesse dividere col gesso in buoni e cattivi; abbiamo sempre respinto la verità “rivelata” e sempre abbiamo cercato e cerchiamo la verità “verificata” dai fatti e dall’intelligenza della ragione. Per questo siamo “liberali”; per questo siamo “laici”. Non amiamo le crociate; preferiamo la saldezza dei principi all'emotività delle passioni.
Della civiltà americana e occidentale amiamo tutto quanto c’è in essa (e ce n’è moltissimo) di democratico e di liberale, amiamo la possibilità e la capacità di “dissenso” che essa riesce ad esprimere e che le conferiscono un’indubbia superiorità su altre forme di convivenza sociale. Tanto più dura dunque è la nostra opposizione quando, all’interno di quel sistema, al quale apparteniamo, vediamo affacciarsi forze e gruppi, siano essi McCarthy o Goldwater o i falchi oltranzisti, che rischiano di distorcere i principi su cui esso si fonda e di farlo inclinare verso politiche di pura potenza.
Non a caso, nel momento in cui scoppiava nel Medio Oriente un conflitto gravissimo e il popolo d’Israele veniva aggredito e minacciato di sterminio, ricordavamo i pericoli impliciti nelle vicende vietnamite. La violenza reca purtroppo con sé la violenza, e può aprire un circolo vizioso che può condurre molto lontano.
Questa è la “linea” dell’Espresso. Se ci guardiamo intorno, nel nostro Paese soltanto i socialisti si sono mossi nella stessa direzione. Purtroppo le loro forze non sono state sufficienti a far prendere al governo italiano una posizione abbastanza chiara a favore d’Israele, così come non sono state sufficienti a fargli prendere posizione per la cessazione dei bombardamenti americani nel Vietnam. Avrebbero potuto far di più? Non lo sappiamo, ma questa è la giusta linea sulla quale riteniamo che ci si debba muovere e sulla quale sia noi che loro ci siamo mossi.
Qualcuno dirà o penserà che questa linea ha il torto di non scegliere una volta per tutte un campo contro l’altro. Ma chi dice o pensa in tal modo commette un errore assai grave, perché noi, il nostro campo, l’abbiamo scelto da molto tempo e una volta per tutte: siamo contro le dittature di qualsiasi colore, sovietiche, greche, spagnole o nasseriane che siano; siamo contro la violenza e l’incitamento alla violenza da qualunque parte provenga; siamo per Israele quando il suo diritto alla vita è minacciato e siamo per una pace giusta che ne garantisca i confini e gli consenta finalmente d’avviare un processo di distensione e d’amicizia coi popoli arabi in mezzo ai quali deve vivere.
Siamo, dovunque, con le colombe e contro i falchi, anche se è vero che talvolta, per sopravvivere, le colombe debbono mettere becco ed artigli. Per difendersi. Mai per aggredire.
1924-2022. È morto Eugenio Scalfari, il fondatore dell’Espresso e di Repubblica. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 14 luglio 2022
«In alternativa alla scrittura continuerei a scrivere in altra maniera: è un vizio». Il suo nome si trova nella prima pagina di Repubblica sotto quello della testata.
Nella sua lunga carriera ha visto e raccontato gli scandali della repubblica, Sifar, Enimont, Tangentopoli: «Un giornale con una linea senza uno scoop è noioso».
Con lui alla guida alcune tra le più importanti inchieste scritte in Italia. Strenuo oppositore di Berlusconi, «non credente nelle religioni» ma amico di papa Francesco e negli ultimi anni dedito alla filosofia.
Gianni Minoli ha detto di lui che «i suoi editoriali sono per molti potenti la prima lettura del mattino». È morto a 98 anni Eugenio Scalfari, il fondatore dell’Espresso e di Repubblica, di cui è stato anche direttore fino al 1996. Da allora ha continuato a scrivere come editorialista raccontando tutti i passaggi della storia italiana, prevedendo gli sviluppi della politica e facendo comunque discutere.
Nato a Civitavecchia nel 1924, ricordava di essere venuto al mondo il giorno delle elezioni che avevano portato al delitto di Giacomo Matteotti, il deputato rapito e assassinato dai fascisti. Già giornalista, nel 1955 aveva deciso di creare, con Arrigo Benedetti, la rivista L'Espresso.
Deputato per il Partito socialista italiano (1968-72), nel 1976 ha fondato il quotidiano La Repubblica di cui è stato direttore. Vicepresidente del gruppo editoriale L'Espresso, negli anni è stato insignito di prestigiose onorificenze, come quella di cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana (1996) e di chevalier de la Légion d'honneur (1999).
LA VITA
Laureatosi in giurisprudenza, Scalfari ha iniziato la sua carriera giornalistica nel 1950 come collaboratore del Mondo di Mario Pannunzio e dell’Europeo di Arrigo Benedetti. Nel 1955 ha partecipato con il gruppo degli "Amici del mondo" alla fondazione del Partito radicale, di cui ha ricoperto la carica di vicesegretario nazionale (1958-63).
Dopo aver diretto L'Espresso (1963-68), è stato alla direzione del quotidiano La Repubblica fino al 1996, restandone poi direttore onorario e raffinato editorialista. Il suo nome si trova ancora nella prima pagina del quotidiano sotto quello della testata. Nella sua lunga carriera ha visto e raccontato gli scandali della repubblica, da Sifar a Enimont, fino a Tangentopoli.
Prolifico autore di saggi, ha raccontato la nascita delle sue testate in La sera andavamo in via Veneto: «La mattina del 22 settembre del 1955 ci trovammo per la prima volta io ed altri nove colleghi all’indirizzo di via Po, prima sede dell’Espresso trent’anni fa. Dire che quella mattina, in quei pochi metri quadrati di spazio ci fossa animazione è dire assai poco: eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo di una nave, della quale però nessuno – neppure Benedetti ed io che pure ne avevamo discusso e ci avevamo studiato sopra per lunghi mesi – conosceva con esattezza forma, dimensioni e strutture».
Diventerà uno dei più importanti settimanali in Italia, a partire dal titolo storico “Capitale corrotta, nazione infetta” per l’articolo firmato da Manlio Cancogni, una copertina che ha segnato il 1955 e la storia del giornalismo. Celebri le rubriche e le inchieste di Camilla Cederna, la stessa giornalista che scrisse il libro che ha portato alle dimissioni del presidente della Repubblica, Sergio Leone, o la rubrica di Umberto Eco “La bustina di Minerva” pubblicata sull’ultima pagina del settimanale dagli anni Ottanta fino alla sua morte, nel 2016.
Il 13 gennaio 1976 è la volta della Repubblica. «A tenere a battesimo il nuovo giornale c’erano, intorno a quella rotativa semiartigiana, Giorgio Mondadori e Mario Formenton» e «Gianfranco Alessandrini e Lio Rubini» ha raccontato Scalfari. Con una redazione di 40 giornalisti come Giorgio Bocca, Natalia Aspesi, Enzo Forcella, Corrado Augias, Miriam Mafai, Barbara Spinelli e molti altri che diventeranno tra le firme più lette del giornalismo italiano.
La tiratura iniziale era di 100mila copie e sono state vendute tutte. Nella nota di presentazione scriveva: «Questo giornale è un po’ diverso dagli altri: è un giornale di informazione il quale, anziché ostentare un’illusoria neutralità politica, dichiara esplicitamente di avere fatto una scelta di campo. È fatto da uomini che appartengono al vasto arco della sinistra italiana».
Scalfari, che nella sua lunga carriera ha coltivato da ateo – anzi da «non credente nelle religioni» come specificava - anche l’amicizia con papa Francesco, ha raccontato da vicino ogni passaggio cruciale della vita della nazione. Ha avuto modo di intervistare il segretario del Partito Comunista Enrico Berlinguer: «Lui chiedeva di rivedere il testo». Ed è sempre di Scalfari quella che è considerata l’ultima intervista ad Aldo Moro, il segretario della Dc rapito e ucciso dalle Brigate rosse, pubblicata postuma.
Dagli anni Novanta ha portato avanti una lunga battaglia contro Silvio Berlusconi: «Sono stato amico intimo di Berlusconi quando non faceva politica».
Scalfari, nonostante le alterne vicende editoriali, non ha mai smesso di scrivere su Repubblica. Nel 1987 Carlo De Benedetti (ora editore di Domani) è diventato editore dell’Espresso e di Repubblica attraverso la Cir, acquisendo una partecipazione rilevante nella Arnoldo Mondadori Editore e, attraverso di essa, nel gruppo. Dopo il distacco da Mondadori nel 1998 è nato il gruppo editoriale l’Espresso che includeva entrambe le testate, finché nel 2016 si è fuso con il Itedi, diventando Gedi di Agnelli-Elkann a cui si è aggiunto nel 2022 il recente passaggio dell’Espresso all’imprenditore campano Danilo Iervolino.
Ancora nel 2019, Scalfari ha dimostrato la sua lungimiranza politica preconizzando la futura alleanza tra Matteo Salvini, Luigi Di Maio e Matteo Renzi che poi si verificherà nel governo di larghe intese presieduto da Mario Draghi.
Tra i suoi ultimi articoli pubblicati su Repubblica, un editoriale sulla guerra in Ucraina: «L’Europa ha una ferita nel cuore, si chiama Russia, che ha a sua volta un'altra ferita ancora più grande, si chiama Ucraina».
Negli ultimi anni si è dedicato alla filosofia: «Hai vissuto una vita piena se hai potuto realizzare te stesso al meglio delle tue capacità ed hai conosciuto amore e dolore accettando i tuoi limiti. Naturalmente questa vita piena è tutt'altro che facile e semplice. Perché anche l'esistenza più ricca non può aggirare la presenza incombente della morte».
Scalfari ha raccontato il suo percorso umano e professionale in un’autobiografia e infine in un romanzo firmato da Antonio Gnoli e Francesco Merlo: Gran Hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta (2019). «In alternativa alla scrittura – diceva al collega Gianni Minoli –, continuerei a scrivere in altra maniera: è un vizio». La sua linea editoriale travalicava la teoria: «Un giornale che ha una linea senza uno scoop è noioso».
Il direttore che creò una “borghesia giornalistica” per cambiare l’Italia. ATTILIO BOLZONI su Il Domani il 14 luglio 2022
Le inchieste sulle Brigate rosse, il sequestro di Aldo Moro con la “linea della fermezza“ contro ogni trattativa per la sua liberazione, la scoperta della loggia P2 e il concorrente diretto - il Corriere della Sera - colpito mortalmente dallo scandalo.
A fare da raccordo con Scalfari, per ogni piccola o grande notizia che la Sicilia vomitava quotidianamente, era entrato in scena con il suo preziosissimo giornalismo e con tanta amicizia Giuseppe D'Avanzo.
Il giorno del suo congedo dalla redazione, nel maggio di ventisei anni fa, ci ha salutati citando un verso dell’Amleto di Shakespeare: «Vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri».
Eravamo tutti appollaiati sulle cassettiere dell’ufficio centrale, incastrati uno all’altro come sugli spalti di un’arena che poi era il lunghissimo tavolo dove intorno c’erano Sandro Viola e Miriam Mafai, c’era Giampaolo Pansa, c’erano Alberto Jacoviello e Mario Pirani, c’era Nello Ajello, c’era Bernardo Valli, c’era Roselina Balbi, c’erano Enzo Forcella e Antonio Gambino. Ogni tanto calava da Milano anche Giorgio Bocca.
Molti di noi non avevano ancora 25 anni, tutti però avevamo diritto d’ingresso e di parola alla riunione del mattino, la “messa cantata” del direttore. Lui entrava fra le 10.30 e le 11 con un post it giallo in mano, da una parte un elenco di nomi e dall’altra un “viva” o un “abbasso”, i buoni articoli e gli articoli mediocri pubblicati sul giornale. In tremante attesa del suo giudizio davanti a quella platea eccellente, trattenevamo il fiato.
A volte, capitava che Scalfari allungasse la nostra agonia con una telefonata. Al presidente della Repubblica Sandro Pertini, al segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer o a quello della Democrazia cristiana Ciriaco De Mita. Azionava il pulsante del vivavoce e parlava con loro, sentivamo domande, risposte, battute, qualche sfogo. Con gli occhi spalancati e la bocca aperta poi ascoltavamo quegli altri intorno al tavolo, i “mostri sacri”, le grandi firme che dibattevano del mondo fino a quando toccava a lui. E nella stanza scendeva il silenzio.
Sempre nella stessa posizione, alla destra il vicedirettore Gianni Rocca («che teneva Scalfari sulle spalle», ricordano i fondatori per esaltare il ruolo che aveva avuto Gianni nell’avventura), alla sua sinistra il giovanissimo Mauro Bene che per il direttore era come un figlio.
E di fronte il vecchio Franco Magagnini, il caporedattore del giornale, mestiere imparato sulla strada, sensazionale fiuto per la notizia, un livornese sanguigno e di cuore grande, un caporedattore “parlante” come negli anni successivi raramente se ne sono trovati nei giornali, caporedattore nel senso letterale del termine, capo della redazione e dei suoi redattori, portatore delle loro aspirazioni e dei loro lamenti.
Era l’unico a osare una qualche critica a Scalfari. Non accadeva di frequente, ma accadeva. Per noi, gli ultimi arrivati, era una scossa elettrica, un colpo. Perché Scalfari non era solo il direttore, era anche molto altro. Il suo genio ci incantava.
Lo posso ricordare per come l’ho visto io, da un punto molto particolare di osservazione, corrispondente di Repubblica dalla Sicilia, lontano fisicamente ma vicino al cuore del giornale per la materia che trattavo, la mafia, argomento che ha avuto uno spazio importante sin dal primo numero, il 14 gennaio 1976. Un taglio a centro pagina, titolo su tre colonne, “Antimafia, un documento segreto”, articolo a doppia firma, Bruno Corbi e Roberto Chiodi.
Lo posso raccontare per come sono cresciuto in quella comunità giornalistica, per come Scalfari ha dato anima alla carta e a noi una favolosa occasione che non sempre nella vita può arrivare.
Eravamo a cavallo fra gli anni Settanta e Ottanta e, se fino a qualche stagione prima, il direttore “non sentiva ancora il suo pubblico”, finalmente il miracolo si stava ripetendo ogni mattina in edicola.
Le grandi inchieste sul movimento studentesco e sulle Brigate rosse, il sequestro di Aldo Moro con la “linea della fermezza” tenuta dal giornale contro ogni trattativa per la sua liberazione, la scoperta della loggia P2 e il concorrente diretto – il Corriere della Sera – colpito mortalmente dallo scandalo della massoneria di Licio Gelli che si era infiltrata ai suoi livelli più alti.
Repubblica era diventata Repubblica. Una mescolanza fra i grandi del giornalismo italiano e un drappello di cronisti alle prime armi con la passione e la straordinaria fortuna di ritrovarsi lì in mezzo, liberi, liberissimi di rovistare in ogni angolo d’Italia.
Di questo privilegio ne eravamo consapevoli già al tempo ma, per come poi sono andate le cose, quarant’anni dopo avremmo capito meglio, quarant’anni dopo avremmo capito tutto della buona sorte che il destino ci aveva riservato.
Mai un discorso obliquo per una notizia apparentemente troppo spinta o che potesse irritare qualcuno, mai una censura, neanche una fastidiosa pressione. Ma c’era anche il contraltare, il lato più scomodo, i rimproveri severi o severissimi che venivano recapitati sempre con una lettera. Per l’approssimazione, la superficialità di un pezzo, la trascuratezza nella scrittura, per un’informazione non completa finita precipitosamente in pagina.
Nell’anno di fondazione del giornale, il 1976, ancora non c’ero, avevo appena iniziato a fare il cronista all’Ora di Palermo. Ma i vecchi amici di Repubblica mi hanno sempre raccontato dei primissimi passi di Repubblica. E di quello che gli allora aspiranti giornalisti chiamavano “il rotor”.
C’erano gli editorialisti, i commentatori, gli inchiestisti e poi ragazzi come Luca Villoresi, Carlo Rivolta, Lucio Caracciolo e lo stesso Mauro Bene.
Il primo di loro che arrivava in redazione si fiondava sull’unica macchina per scrivere libera e stendeva il suo articolo, gli altri aspettavano fremendo il turno, uno dopo l’altro ruotavano in uno stanzone, era il “rotor” di piazza Indipendenza.
Fresco, moderno, irrequieto e mai paludato, era il giornale di Eugenio Scalfari, pensato con l’editore Carlo Caracciolo con il quale il direttore aveva una comune visione dell’Italia che doveva scrollarsi di dosso polvere e retorica. Nella cultura e nella politica, nell’economia e nel costume. L’Italia del cambiamento. Per noi ragazzi, perché ragazzi eravamo, era come vivere in un sogno. Fatica e voglia di vedere lontano, oltre.
Sudore e quella carta sporca d’inchiostro che poteva incidere ogni giorno su qualcosa o su qualcuno, modificare, trasformare, dare uno scatto a un paese che ci sembrava arcaico anche nel modo di fare giornalismo.
Il mio primo articolo su Repubblica l’ho pubblicato il 22 luglio del 1979, il giorno prima a Palermo avevano ucciso il capo della squadra mobile Boris Giuliano. Avrei scritto dalla Sicilia, e sempre per Repubblica, per quasi altri 25 anni prima di trasferirmi a Roma.
Ogni tanto mi arrivava un telegramma del direttore, sì, proprio un telegramma: Scalfari mandava telegrammi ai corrispondenti italiani e agli inviati in giro per il mondo. «Bellissimo pezzo Eugenio». Le telefonate erano di altro tono.
Una sera, era il 1983 o il 1984, una delle sue segretarie mi passò il direttore. L’ora era insolita, si stava chiudendo il giornale. Ero in ansia, il giorno prima avevo scritto un articolo forse un po’ troppo “siciliano” su ciò che stava accadendo intorno a me, ero laggiù e vivevo con angoscia e dolore la spaventosa Palermo.
Il direttore fu sbrigativo: «Il tuo articolo di ieri non mi è piaciuto, c’era troppo cuore e poca ragione». Scalfari mi stava comunicando i suoi dubbi sulla corrispondenza dalla Sicilia di 24 ore prima, che però lui aveva messo in pagina pur non convivendone l’impostazione né i contenuti.
Probabilmente è stato uno dei giorni più significativi della mia vita professionale. Ritorna ancora quella parola: fortuna. Ma quanta fortuna ha avuto quella generazione giornalistica che ha incontrato Eugenio Scalfari?
Nelle redazioni è usanza darsi del tu fra tutti. E a Repubblica tutti davano del tu a Scalfari, anche qualche fattorino, anche qualche telescriventista o dimafonista (al tempo le agenzie arrivavano sulle telescriventi, i pezzi che gli inviati e i corrispondenti “dettavano” venivano registrati dai dimafoni che poi li trascrivevano e li passavano in redazione). Io però non ci sono mai riuscito.
Sempre del Lei, fino all’ultimo. In una delle sue sempre più sparute visite al giornale ho incontrato il direttore accompagnato da Dario, una volta suo autista e poi affettuosa ombra. Ci siamo salutati e mi ha chiesto perché «continuavo ostinatamente a dargli del Lei». Con un sorriso si è risposto da solo: «Forse perché vuoi mettere distanza tra me e te». Gli ho sorriso anch’io: «Caro direttore, ho semplicemente il senso delle proporzioni».
Nel 1986, a dieci anni dalla nascita di Repubblica, ogni dipendente – dal vicedirettore all’ultimo impiegato assunto – si è visto consegnare a casa un elegante orologio, un Baume & Mercier, dono di riconoscenza di Scalfari per cosa era ormai Repubblica.
L’inseguimento al più grande giornale italiano si era appena concluso: Repubblica l’aveva raggiunto e superato nelle vendite. Era l’obiettivo che si era posto Scalfari fin dall’inizio. Ci aveva sempre creduto, sicuro di farcela. L’anno prima, il 1985, d’estate avevo lasciato Palermo all’improvviso e per diversi mesi. Una telefonata al direttore, poi il primo volo: «Non posso stare qui, è successo qualcosa».
Dopo poche ore ero già a Roma e, lì nella sua stanza, ho avuto il primo vero incontro ravvicinato con Scalfari sulla questione mafia. A Palermo avevano appena ucciso il capo della “catturandi” Beppe Montana, il poliziotto che dava la caccia ai latitanti.
Qualche giorno prima della sua morte Montana era venuto a casa mia in un orario insolito, abitavo in una borgata di mafia, e a me – per quello che aveva detto sprofondato in un divano – sembrava già morto.
Dopo il delitto ho avuto paura e mi sono allontanato dalla Sicilia. Da Roma ho scritto tutto quello che sapevo sulla solitudine di Montana e poi su quella di Ninni Cassarà, l’altro funzionario di polizia ammazzato a Palermo quell’estate. Un isolamento nato anche dentro il ministero degli Interni.
Qualcuno dal Viminale chiamò il direttore per avvertirlo che ero «portatore di interessi palermitani». Volle sapere. Gli raccontai come stavano le cose: «È vero, sono portatore di interessi palermitani, gli interessi dei morti, quelli che hanno appena ucciso».
Il giorno dopo in prima pagina, di spalla, Scalfari pubblicò una lettera di Saveria Antiochia, la madre di uno terzo poliziotto assassinato in Sicilia in quell’estate del 1985. Il Viminale non ne uscì affatto bene.
Da quel momento, e con il clima che a Palermo si faceva sempre più incandescente con l’inizio del maxi processo e le trame intorno ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, si stabilì una sorta di telefono rosso fra la redazione di Palermo (casa mia, all’Acquasanta) e piazza Indipendenza.
A fare da raccordo con Scalfari, per ogni piccola o grande notizia che la Sicilia vomitava quotidianamente, era entrato in scena con il suo preziosissimo giornalismo e con tanta amicizia Giuseppe D’Avanzo, cronista napoletano appena sbarcato a Roma.
Nasce una sorta di mini pool sulla mafia sotto la benedizione del direttore, al palazzo di Giustizia di Palermo avevano il loro, a Repubblica avevamo il nostro. Scambio permanente di informazioni, fonti condivise, confronto serrato (e alcune volte anche brusco) sulla decifrazione degli avvenimenti. Poi libertà di scrivere. Sempre.
Una redazione è un piccolo mondo dove scorre non solo l’esistenza degli altri ma naturalmente anche quella di chi la popola. E Scalfari, che la parte più giovane della redazione chiamava Barbapapà, aveva premure che è difficile dimenticare. Per la grafica con problemi di tossicodipendenza, sempre tenuta al coperto, tutelata.
Per la figlia di un vecchio collega che, sul letto di morte, l’aveva pregato di avere cura di lei. Promessa mantenuta. Per una giornalista appena lasciata dal marito. Convocata nella sua stanza, l’ha fatta sedere e le ha detto: «Ricordatelo, tu sei una donna che si prende e non una donna che si lascia». Sapeva tanto su ciascuno di noi. Molto meridionale di temperamento, caldo, le sue origini dopotutto erano calabresi.
Ma il regalo più grande che ha fatto alla sua Repubblica, come ricorda sempre Alessandra Longo, una triestina arrivata alla redazione centrale alla fine degli anni Ottanta, è aver formato una «borghesia giornalistica».
Se all’inizio dell’avventura c’erano solo le eccellenze da una parte e dall’altra una piccola folla dei giovanissimi cronisti, anno dopo anno ha fatto crescere professionalmente decine di cronisti spalmando il loro sapere in pagina ogni mattina. Un’altra chiave del successo di Repubblica.
Telefonata a tarda sera del direttore: «Giorgio domani viene in Sicilia e ti chiamerà, portalo a fare uno di quei tuoi giri misteriosi all’interno dell’isola». Rispondo “sì direttore”, ma non ho idea di chi sia Giorgio. Lo capisco il giorno dopo: «Sono Bocca, quando ci vediamo?».
Lo incontro con sua moglie, Silvia Giacomoni, che era anche lei una di noi, giornalista di Repubblica, sua moglie non lo chiamava mai per nome ma “il Bocca”. Il direttore mi aveva assegnato un compito difficile, di responsabilità grande: fare da guida a Bocca per una settimana. L’ho accompagnato di qua e di là, gli ho presentato il giudice Paolo Borsellino, l’ho portato a Corleone, a San Giuseppe Jato, a Trapani, a Castellammare del Golfo, a Portella della Ginestra. Un altro dei grandi regali che mi ha fatto Eugenio Scalfari.
Repubblica è il solo giornale italiano che il 24 maggio 1992, il giorno dopo l’uccisione di Giovanni Falcone, ha dedicato l’intera prima pagina alla strage. Gli altri quotidiani avevano anche altri titoli, altre notizie, Repubblica si è distinta pure quella mattina.
Di mafia ha sempre lasciato fare a noi, agli esperti del ramo. Tranne una volta. Sette mesi dopo la strage di Capaci il direttore, a dicembre, ha incontrato Tommaso Buscetta, il grande pentito di mafia che aveva consegnato a Falcone le chiavi per decifrare Cosa nostra.
Gliel’ha portato Giuseppe D’Avanzo, insieme hanno firmato una bellissima intervista, la prima da quando Buscetta era tornato in Italia. Sul suo dolore per Capaci e via D’Amelio, sulla sua delusione per la giustizia italiana, sul circo dove era stato catapultato con decine di pubblici ministeri che lo volevano interrogare.
«Mi ha colpito la cultura umana di Buscetta, il suo senso della dignità», mi ha raccontato qualche settimana dopo l’incontro con il pentito. Nel mio schedario conservo ancora gelosamente l’edizione di Repubblica del 17 marzo 1988, in prima pagina un suo articolo. Su di me. Mi avevano appena arrestato con la cervellottica accusa di “concorso in peculato con pubblico ufficiale rimasto ignoto”, insieme al collega dell’Unità Saverio Lodato.
Per il procuratore capo della repubblica di Palermo, Salvatore Curti Giardina, che in quella Palermo in tre anni e mezzo non aveva ordinato neanche la cattura di un ladro di galline, dovevamo finire in galera perché ci eravamo impossessati di beni dello stato, le fotocopie delle rivelazioni del pentito Antonino Calderone.
Da lì l’accusa di peculato e il carcere per otto giorni. “Le manette alla verità”, il titolo dell’editoriale di Scalfari. Uscito di prigione andai subito a trovarlo. «Cosa vuoi fare adesso? Dimmi se hai bisogno di andare lontano da Palermo, dimmi dove vuoi andare e ti ci mando».
Volevo restare al mio posto, volevo restare a Palermo. Con quel direttore mi sentivo al sicuro anche lì. Il giorno del suo congedo dalla redazione, nel maggio di ventisei anni fa, ci ha salutati citando un verso dell’Amleto di Shakespeare: «Vi lascio il rosmarino per i ricordi e le viole per i pensieri».
ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.
LA REPUBBLICA UNA E INDIVISIBILE. Ho conosciuto due Scalfari con passionalità spudorate e odi travolgenti. MARCO DAMILANO su Il Domani il 14 luglio 2022
Ad affascinare di Scalfari erano le contraddizioni, le variazioni, il suo essere un illuminista romantico, mosso da passionalità spudorate, amori e odi travolgenti. Ha rappresentato un’Italia di minoranza, ma è stato un grande italiano. Anzi, un arci italiano.
«Come ti è saltato in mente di mettere in copertina il cazzo?». Conoscevo bene quella voce, la conoscevamo tutti, tremava di indignazione. Provai a difendermi: «Abbiamo fatto un ritratto dell’Italia che dice di no al razzismo e all’intolleranza...». Il numero in uscita dell’Espresso di cui ero direttore era davanti a me. C’era la foto di una manifestazione e una donna reggeva un cartello festoso, colorato, con la scritta a mano: «Buonisti un cazzo!». Mi aspettavo qualche reazione, ma non la sua, non di Eugenio Scalfari.
«Volevo mandare il numero a papa Francesco perché nella mia rubrica gli faccio una domanda su Dio e il tempo. Ma ho dovuto strappare la pagina e spedirgli solo quella. Non posso mandare al papa il cazzo!». Il laicissimo Scalfari mi stava spiegando che l’Espresso non avrebbe dovuto mettere una parolaccia in copertina per non turbare il pontefice. Mi veniva da ridere per la situazione surreale. E mi resi conto che un po’ veniva da ridere anche a lui.
Se n’è andato il giorno della presa della Bastiglia, di Liberté, Égalité, Fraternité, il suo credo. Mi rifugio in questo ricordo allegro per scacciare una monumentalizzazione che lo ha coinvolto negli ultimi anni, la sua trasformazione in un Santissimo in vita da venerare cui si disponeva con consumata professionalità: «Mi viene attribuito il difetto di essere vanitoso, ma non è un’ingiuria perché dovremmo definirci tutti come vanitosi. La vanità è voler emergere nella propria vita, nel lavoro, nella simpatia o nel fascino che riteniamo di ispirare nelle persone che desideriamo conquistare».
Ad affascinare di Scalfari erano le contraddizioni, le variazioni, il suo essere un illuminista romantico, mosso da passionalità spudorate, amori e odi travolgenti, fin da quando frequentava il gruppo dei liberali negli anni Cinquanta, «vitelloni con un pizzico di snob. Molto misogini. Molto voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi. Testardamente sedentari, sembrava non si fossero mai mossi da quella strada e da quei caffè», in via Veneto. In questo ha rappresentato un’Italia di minoranza, ma è stato un grande italiano. Anzi, un arci italiano.
Ho avuto modo di conoscere due Scalfari. Il primo, per me come per tanti della mia generazione, è stato da lettore il direttore che ha cambiato il modo di fare giornalismo, l’editorialista atteso ogni domenica, il fondatore che sulle sue pagine consentiva il dissenso, un diverso parere più ampio della rubrica di Alberto Ronchey, e lo sberleffo più aspro, come quando pubblicò nel 1977 una vignetta di Giorgio Forattini in cui veniva disegnato all'atto di spararsi da solo su un piede mentre le Brigate rosse gambizzavano Indro Montanelli.
Il secondo Scalfari l’ho conosciuto di persona più tardi, all’Espresso. Un uomo pacificato, felice, splendido con il girocollo azzurro, sottobraccio al fidatissimo Dario, a novant’anni passati sfogliava un giornale e coglieva l’incongruenza tra un occhiello, un sommario e un titolo.
L’ho visto condurre un’intervista (a Romano Prodi), prendeva poche righe di appunti, segnava su un foglietto singole parole da cui sarebbe nato un pezzo di molte migliaia di battute, con la conversazione ricostruita a memoria. E pensai alle interviste entrate nella storia: ad Aldo Moro, uscita postuma, nel 1978, e a Enrico Berlinguer nel 1981 sulla questione morale e la diversità del Pci.
Due colloqui in cui i protagonisti erano gli intervistati, ma soprattutto l'intervistatore. Che interpretava la musica d'altri a modo suo, come fa un grande direttore d’orchestra.
Se Eugenio Scalfari è stato nonostante l’ispirazione repubblicana il re del giornalismo, verrebbe voglia di citare – alla Scalfari – Ernst Kantorowicz e il doppio corpo del Re, in cui convivono immortalità e caducità: il corpo naturale che invecchia e muore, il corpo politico del regno e dello stato che, a differenza di quello fisico, non muore mai.
Così scrisse anche lui al momento di lasciare la direzione del giornale, nel 1996: «La Repubblica una e indivisibile». E in quel momento aveva ragione. Ma infine con lui il destino è stato diverso. Il suo corpo mortale ha avuto una lunghissima esistenza. Il corpo del suo giornalismo e delle testate da lui fondate è finito prima.
Tutto era partito da quell’indirizzo. Via Po 12, quattro stanze, più una toilette e un altro stanzino, finestre al piano terra che davano sulla strada, era il 22 settembre 1955, si preparava il primo numero del nuovo settimanale: L’Espresso.
«Eravamo agitati, emozionati, felici, impauriti allo stesso tempo. Sembrava di partecipare al varo d'una nave, della quale nessuno conosceva con esattezza, forma e dimensioni e strutture», scrisse Scalfari che era direttore amministrativo e redattore per l'economia. In quel momento aveva 31 anni, aveva lavorato a Milano alla Banca commerciale e collaborato con il “Mondo” di Mario Pannunzio.
Una mattina mi raccontò di quando Raffaele Mattioli («un banchiere rinascimentale, in un capitalismo irrimediabilmente piccolo-borghese era un grande borghese», scrisse di lui al momento della scomparsa, nel 1973) lo rispedì a Roma: «Mi diede una piccola cifra al mese per scrivergli due paginette su quanto avveniva nella Capitale. Una specie di borsa di studio, mentre io trovavo la mia strada, lavoravo con Arrigo Benedetti al progetto di un nuovo giornale».
Doveva essere un quotidiano, tra i finanziatori erano stati individuati Enrico Mattei e Adriano Olivetti, ma il progetto era dispendioso, si cambiò obiettivo. «Chi non è del mestiere non può sapere quale sia il fascino artigianale di costruire il menabò d’un nuovo giornale. E chi pensa che il momento decisivo della fondazione d'un giornale sia la linea politica che esso avrà, prende un abbaglio grosso. Lo prendono spesso, almeno in Italia, perfino gli editori, che in realtà, nella maggioranza dei casi, non sono dei veri editori; sicché danno assai poca attenzione alla costruzione del menabò e molta di più al progetto politico. Per nostra fortuna, noi eravamo cresciuti ad un'altra scuola. Per noi i problemi della linea politica e la struttura editoriale del prodotto facevano tutt’uno».
Menabò e progetto. Politica e innovazione editoriale. Sono state le due chiavi del successo di Scalfari. Un ircocervo, un soggetto fantastico, «una figura dimezzata o trimezzata, nella quale confluiscono i requisiti del giornalista, dell'imprenditore, dell'uomo politico».
Tanti anni dopo, nel 1990, Scalfari usò questa definizione di sé –così come Craxi si era impossessato del soprannome di Ghino di Tacco, invenzione scalfariana – per dichiarare guerra all’uomo che per conto del potere politico voleva comprare Repubblica e Espresso: Silvio Berlusconi.
A Scalfari il paragone con il mostro piaceva tantissimo. Ricordava che la stessa sorte era toccata ad Alfredo Frassati alla Stampa, Luigi Bergamini al Giornale d'Italia, Luigi Albertini al Corriere della Sera durante il fascismo e si inseriva tra quei grandi direttori: «Non c'è da stupirsi se la Repubblica sia diventata una posizione da espugnare e il suo trimezzato direttore un personaggio da togliere di mezzo», scriveva in un pezzo storico, dedicato ai tanti brechtiani Mackie Messer con il coltello in mano della storia italiana.
Sulla prima pagina del primo numero di Repubblica, il 14 gennaio 1976, un mercoledì, il primo editoriale non firmato era intitolato: «È vuoto il palazzo del potere».
Un manifesto programmatico. In quella metà degli anni Settanta il palazzo appariva vuoto, mentre la società sembrava ricca di istanze, con una sinistra forte, impetuosa, il Pci si sentiva a un passo dalla conquista del potere. Serviva qualcuno che rappresentasse il nuovo che si candidava a riempire il vuoto.
«Ci rivolgiamo alla classe dirigente di domani, quella che ha vinto il referendum sul divorzio e le elezioni del 15 giugno. Una classe dirigente di massa. Con un’unica edizione nazionale, fruibile da Milano a Palermo», aveva detto Scalfari a Luigi Pintor in un dialogo sull’Espresso anticipando l’uscita di Repubblica.
«Il nostro pubblico è molto giovane, due terzi dei lettori non superano i trent’anni, le donne ne costituiscono una notevole percentuale», scrisse tre settimane dopo l’uscita del primo numero. «La Repubblica ha una sua chiave di lettura dei fatti che non coincide con quella di questo o di quel partito».
Scalfari si proponeva di colmare il vuoto con l’intuizione geniale di fornire alla neoborghesia progressista quello che non aveva mai avuto: un racconto, una mitologia, un riconoscimento. Mancava un'identità e Scalfari l’avrebbe costruita, non solo indicando i partiti e i singoli politici, ma i libri da leggere, i film da vedere, le polemiche da celebrare.
Era un’operazione molto più ampia della nascita di un nuovo giornale, era la creazione di un pubblico, di un lettore: l’homo Republicanus, il lettore di Repubblica. Con uno strumento inedito: un giornale nuovo, con un formato, una grafica e un’impaginazione mai vista, il primo piano, la cultura e l’economia al centro. Un quotidiano nazionale con sede nella capitale, come mai era successo nella storia d'Italia, collocato nel cuore della politica e del palazzo disabitato, che sarebbe stato riempito di personaggi, idee, suggestioni. La politica e l’economia: il Tesoro e la Banca d’Italia.
Un pezzo di establishment aveva finalmente trovato la sua voce. E anche quel pezzo di movimento, raccontato sulle pagine di Repubblica da Carlo Rivolta, che negli anni Settanta affollava le piazze e che negli anni Ottanta-Novanta sarebbe diventato il nuovo potere.
Il giornale, infatti, faceva partito a sé. Eccolo qui, il partito di Repubblica. Con i giornalisti, gli intellettuali, «profondamente organici al gruppo di cui erano parte».
I compagni di strada, i collaboratori: Andrea Manzella, Giorgio Ruffolo, Alberto Asor Rosa, Pietro Scoppola, Gianni Baget Bozzo. Gli alleati nel Palazzo della politica: il comunista Enrico Berlinguer, il democristiano Ciriaco De Mita, il segretario del Pds Achille Occhetto, il referendario Mario Segni, l'ulivista Romano Prodi. E i nemici, che per il quotidiano di Scalfari valevano come bandiera più degli amici: Bettino Craxi, Giulio Andreotti, Silvio Berlusconi.
Quasi sempre il partito Repubblica è stato sconfitto nelle urne: esemplare nel 1983 il crollo della Dc di De Mita appoggiata da Scalfari, che precipitò al 32 per cento e perse due milioni di voti. Ma in edicola invece conquistò il primato, in dieci anni superò il Corriere della Sera, il capolavoro di Scalfari.
E aumentò il suo peso politico, man mano che il vuoto si allargava e il sistema si inceppava. Fino ad conquistare la leadership di un bipolarismo che negli anni Ottanta ancora non esisteva in Parlamento, ma che aveva trovato due formidabili catalizzatori mediatici. Sul fronte conservatore e anti-comunista la Fininvest di Berlusconi, sul lato della sinistra la Repubblica di Scalfari.
Per questo nel 1990 la guerra di Segrate per il controllo del gruppo Mondadori fu così violenta. Quando Berlusconi riuscì ad assumere il controllo del gruppo, Scalfari replicò con una dichiarazione di guerra. «Berlusconi cercò Scalfari. Ma Scalfari non c'era», raccontò Pansa che nella prima Repubblica di Scalfari era il vice con Gianni Rocca.
«Le nostre segretarie gli dissero: “C’è Rocca”. Berlusconi alzò le spalle. “C’è Pansa”. Rifiutarono anche me, con energia. “Vogliamo Scalfari!”. Ma il dannato Scalfari era finito chissà dove». Ci fu un incontro, nella casa romana di Gianni Letta: diamoci del tu, perché non riesco a fare una trattativa se ci diamo del lei, disse Scalfari al Cavaliere.
Finì malissimo, con la minaccia di fare un nuovo giornale se Berlusconi si fosse impadronito di Repubblica. E poi un altro faccia a faccia, controverso, ad Arcore, con Fedele Confalonieri al piano che suonava “Rhapsody in Blue” di Gershwin. Con Scalfari c’era sempre Carlo Caracciolo. E alla fine Repubblica e l’Espresso restarono all’editore che aveva acquistato il gruppo, Carlo De Benedetti.
Le tv commerciali del Cavaliere presero nel 1994 le fattezze del partito Forza Italia, il popolo di Repubblica dovette invece attendere a lungo la nascita del Partito democratico. Quando il Pd finalmente arrivò era troppo tardi, anche Walter Veltroni, tra i prediletti di Eugenio, perse le elezioni nel 2008 e ben presto anche la segreteria.
I lettori di Scalfari intanto erano cresciuti, erano andati al potere, erano diventati classe dirigente. «Questa è dunque la scommessa del 5 aprile: abbattere le porte del kafkiano Castello del potere e farvi entrare il popolo sovrano», scrisse il direttore di Repubblica alla vigilia del voto del 1992.
Nello scalfarismo il desiderio di rivoltare il sistema aveva sempre convissuto con l’ambizione di esserne l’architrave. Ma le due aspirazioni non si potevano più tenere insieme. Il vuoto e il nuovo si assomigliavano drammaticamente, coincidevano. Quando le porte si sono aperte si è scoperto che il popolo entrato nel palazzo non sventolava gli editoriali di Scalfari, ma le bandiere della Lega, e poi di Berlusconi, e infine del Movimento 5 stelle.
Repubblica aveva indicato la politica come il terreno privilegiato del cambiamento, ma la società cui ha dato rappresentazione si è gonfiata di rivendicazioni, proteste, pulsioni distruttive, si è capovolta nell'onda dell'anti-politica. Un processo che ha spinto l'ultimo Scalfari a compiere la contraddizione estrema, «tra Berlusconi e Di Maio scelgo il primo», disse nel 2018. Ma forse oggi correggerebbe il giudizio.
Nella crisi del sistema i punti di riferimento di Scalfari sono cambiati: non più i capi dei partiti, ma i vertici istituzionali, i presidenti della Repubblica. Sandro Pertini, amichevole e conflittuale il rapporto con Francesco Cossiga affidato all'amico di sempre Luigi Zanda, e poi Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, infine Sergio Mattarella, con la stagione a palazzo Chigi di Mario Draghi, confidente di Scalfari negli anni del Tesoro, Banca d’Italia e Bce, com’erano stati prima di lui Guido Carli, Paolo Baffi e Ciampi. L’ultimo vero editoriale di Scalfari è stato scritto dopo la rielezione di Mattarella, per celebrare i due presidenti, «due uomini nei posti giusti».
Dell’Italia a cavallo dei due secoli la Repubblica di Scalfari è stata un potente fattore di modernità. Il foglio di una generazione che voleva partecipare e contare. Con un’idea di giornalismo non subalterno ad altri poteri, un giornalismo che non è un barometro o un semaforo, non si limita a registrare le posizioni, ma ha l'ambizione di interpretare l’opinione pubblica e a volte di anticiparla, ha l'obiettivo di incidere.
Ecco perché tutti i direttori hanno tentato di imitare Scalfari, senza riuscirci, come Scalfari nessuno mai. Ecco perché la sua scomparsa arriva dopo che il suo mondo e quel giornalismo sono finiti, anche se trova riparo nell’auto-citazione e nel conformismo. La morte di Scalfari coincide con la vendita dello storico Espresso, la radice da cui partì tutto, una casualità altamente simbolica.
Quel sistema di partiti e di poteri non c'è più, il palazzo ora è vuoto davvero e non richiede i giornali e le imprese editoriali che lo interpretino. Ma imprese editoriali che restano senza cultura, senza un’idea di paese, senza ascolto di un pubblico, che abdicano al loro ruolo, che non vogliono incidere sulla realtà, che scambiano l'innovazione con le operazioni di marketing e l'influenza con gli influencer, indeboliscono il dibattito pubblico e rendono la democrazia più fragile.
Negli ultimi tempi Eugenio si era allontanato dalla attualità che lo aveva sempre nutrito. Si era concentrato su di sé, sul proprio io. I colloqui con papa Francesco. Le confidenze alle figlie Enrica e Donata.
La poesia e il ritorno all’infanzia, alla casa di Civitavecchia dove era nato: «Da quella finestra/ cominciò la mia vita / la mia memoria, la mia malinconia/ e anche il mio risentimento/ e la voglia di compensare/ non so quale torto subito».
Il suo corpo mortale non c’era quasi più, il corpo del mondo da lui creato stava svanendo. Restava a danzare leggera l’anima dell'Ircocervo, «che, come tutti gli animali mitologici, ha una stranissima proprietà: ogni volta che gli tagliano la testa, quella testa rinasce di nuovo», aveva scritto nel momento più difficile, quando aveva dovuto difendere la sua creatura, il suo giornale. «Chissà come andrà questa volta». Sì, chissà come andrà.
MARCO DAMILANO. Giornalista e saggista, è stato direttore de L'Espresso dal 2017 al 2022. Collabora con Domani e, da settembre 2022, conduce una striscia quotidiana di informazione in onda su Rai3
Morte di Scalfari, le reazioni della politica e delle istituzioni. Il Domani il 14 luglio 2022
Dal presidente del Consiglio Mario Draghi, che parla di «vuoto incolmabile», al segretario Pd Enrico Letta, che ricorda «le sue idee, la sua passione il suo amore per l’Italia». Ma le condoglianze arrivano anche dagli storici avversari. Per Silvio Berlusconi è stato «un grande direttore e giornalista»
Sono moltissime le reazioni della politica e delle istituzioni alla morte di Eugenio Scalfari, fondatore e a lungo direttore di Repubblica, morto oggi all’età di 98 anni. «Sono particolarmente addolorato per la scomparsa di Eugenio Scalfari giornalista, direttore, saggista, uomo politico, testimone lucido e appassionato della nostra storia repubblicana», ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Per il presidente del Consiglio, Mario Draghi, la scomparsa di Scalfari «lascia un vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro Paese». Secondo Draghi: «La chiarezza della sua prosa, la profondità delle sue analisi, il coraggio delle sue idee hanno accompagnato gli italiani per oltre settant’anni e hanno reso i suoi editoriali una lettura fondamentale per chiunque volesse comprendere la politica, l’economia».
In Senato, la presidente Maria Elisabetta Alberti Casellati lo ha ricordato con un breve discorso seguito da un minuto di silenzio. Il presidente della Camera, Roberto Fico, ha detto che Scalfari «ha segnato la storia del giornalismo, innovando il mondo editoriale con passione e lo sguardo sempre rivolto al futuro».
È arrivato anche il commento di papa Francesco che, a quanto riferisce il direttore della sala stampa della Santa sede, Matteo Bruni «ha appreso con dolore della scomparsa del suo amico, Eugenio Scalfari. Conserva con affetto la memoria degli incontri - e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell'uomo - avute con lui nel corso degli anni e affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini».
LA POLITICA
Il segretario del Pd Enrico Letta ha espresso il suo cordoglio su Twitter: «Rimarranno sempre con noi le sue idee, la sua passione, il suo amore profondo per l’Italia».
Per l’ex presidente del Consiglio e leader dell’Ulivo Romano Prodi, Scalfari «è stato un grande innovatore del giornalismo italiano, capace di imprimere un segno indelebile nel mondo dell'editoria e di trovare nuove formule di comunicazione, prima con l'Espresso e poi con La Repubblica. Sono molto addolorato per la sua scomparsa, con lui oggi l'Italia perde un eccezionale interprete della vita del paese».
Condoglianze anche da Silvio Berlusconi, storico avversario di Scalfari e del suo giornale Repubblica: «È stato una figura di riferimento per i miei avversari in politica. Oggi, però, non posso non riconoscergli di essere stato un grande direttore e giornalista».
Anche Antonio Tajani, coordinatore di Forza Italia, ricorda Scalfari «nonostante le nostre diverse visioni, politiche e non».
Condoglianze arrivano anche dalle fila della Lega, tramite una nota del presidente della regione Veneto Luca Zaia: «Con la scomparsa di Eugenio Scalfari se ne va una figura che ha scritto pagine di storia del giornalismo italiano».
Bobo Craxi, figlio di Bettino Craxi, storico avversario di Scalfari e Repubblica prima di Berlusconi, lo ha definito «italiano di valore».
Per il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, «la scomparsa di Eugenio Scalfari segna un momento molto triste per il Paese intero. Oggi diciamo addio a una vera e propria pietra miliare del giornalismo italiano. Un abbraccio e la massima vicinanza ai suoi cari».
Molti ricordi anche dai suoi giornalisti, come il direttore della Stampa Massimo Giannini.
Per il direttore di Repubblica, Maurizio Molinari, Scalfari lascia in eredità «un pensiero sempre aperto a cogliere le novità e di un’azione tesa a riformare il Paese, unite dalla passione per confezionare ogni giorno un quotidiano di qualità».
Flavia Amabile per la Stampa il 17 luglio 2022.
Si parlava di politica e giornali nel salotto di casa Scalfari. E politica e giornali sono state fra le parole più pronunciate ieri durante l'ultimo saluto dedicato al fondatore de la Repubblica scomparso il 14 luglio a 98 anni. Si ascoltava jazz, tanto jazz, a casa Scalfari e le note di Sentimental Journey, cantata da Ella Fitzgerald, hanno accompagnato la fine della cerimonia laica nella Promototeca del Campidoglio a Roma.
Ma del salotto di casa Scalfari mancavano i protagonisti, Carlo Caracciolo, Mario Pirani, Vittorio Ripa di Meana, nomi che a scriverli ora sembrano inghiottiti dal tempo e che per lunghi anni sono stati un pezzo di potere italiano. C'era invece il «lascito» più importante di Scalfari, l'identità, la comunità, il senso di appartenenza che sono le altre parole più pronunciate nei tanti discorsi che hanno scandito il rito di ieri. E c'era un immenso «grazie». Non solo quello scritto sulla prima pagina de la Repubblica di due giorni fa anche ieri accanto al feretro. «Grazie» è stato ripetuto nelle decine di dediche lasciate nel registro delle firme da giornalisti, intellettuali, uomini di politica e di cultura.
«Grazie» è stato il messaggio di chi è salito sul podio a parlare.
Ad ascoltare i loro ricordi centinaia di persone, fuori e dentro la sala. In prima fila, sul lato riservato alla famiglia, le figlie di Scalfari, Enrica e Donata. Tra il pubblico c'erano Gianni Letta, il governatore della Banca d'Italia Ignazio Visco, l'ex sindaco di Torino Piero Fassino, Luigi Zanda, il regista Roberto Andò, l'ex direttore de la Repubblica Mario Calabresi. Ad un certo punto la sala è stata chiusa perché aveva raggiunto il limite della capienza e una piccola folla si è radunata nella piazza del Campidoglio, dove era stato montato un maxischermo.
Il grazie più commosso e carico di umanità è arrivato da chi ha condiviso con Scalfari lunghi anni di lavoro in redazione. «Dobbiamo ringraziarlo di tutto, ma di una cosa soprattutto, di aver potuto prendere parte al suo grande e unico viaggio, che continua», ha detto Ezio Mauro, che a Scalfari è succeduto nella guida de la Repubblica. Massimo Giannini, direttore de La Stampa dopo una vita a la Repubblica, è stato il più generoso di aneddoti sulla vita «dei ragazzi di piazza Indipendenza accolti alla corte di re Eugenio». Scalfari - ha spiegato - è stato «carismatico, dispotico, dolcissimo come un padre», l'unico che ha permesso al «patto generazionale di funzionare», dando opportunità a chi era giovane.
Un grazie è arrivato dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri con la promessa che «Roma saprà ricordarlo come merita». Parole di riconoscenza anche dal presidente francese Emmanuel Macron, che ha sottolineato il profondo legame di Scalfari con la Francia, un legame confermato anche dalle due pagine dedicate ieri a Scalfari dal quotidiano Le Monde.
Le parole di Macron sono state lette dal giornalista Bernard Guetta. Per il presidente francese Scalfariè stato un «prefiguratore dell'Unione». «La Francia ha perso un grande amico - prosegue il messaggio -. In lui non c'era solo l'amore per la nostra lingua, ma prima di tutto l'amore per la Francia, dei suoi Lumi, della sua Enciclopedia, della sua Rivoluzione. Sappiate che la Francia lo amava e ammirava e gli resta eternamente riconoscente».
Un grazie pieno di amarezza è stato quello di Walter Veltroni, che ha sottolineato che le ultime volte che l'ha sentito, «era sfiduciato, amareggiato. Si sentiva anche lui straniero in patria».
Maurizio Molinari, attuale direttore de la Repubblica, ha ricordato «le sue idee profondamente radicate » e «il coraggio di osare nel leggere le notizie». Un grazie corale, quindi. che diventa una promessa. Come ha precisato Massimo Giannini: «Non siamo un drappello di reduci o un collegio di orfani. Credo che in noi, oltre al dolore della perdita, debba esserci l'orgoglio e la gioia per quello che lui chiamava il lascito, cioè la certezza di aver messo in mare una barca solida, capace di navigare anche senza il suo nocchiere. Per questo dobbiamo sorridere, abbiamo vinto la nostra battaglia per il giornalismo. Quello per cui abbiamo creduto non è perduto. L'anima resta e sapremo tenerla in vita ovunque tu sarai, immenso direttore dei nostri anni felici».
L’ultimo degli illuministi. La vita fenomenale di Eugenio Scalfari, l’uomo che con le sue opere ha superato il tempo. Mario Lavia su L'Inkiesta il 14 Luglio 2022.
È stato giornalista, pensatore, politico. Monarca e imprenditore. Di sinistra, ma consapevole delle evoluzioni che avrebbe dovuto affrontare il Pci per diventare moderno. Verso la fine dei suoi giorni le sue riflessioni sono arrivate a sfiorare il mistero del divino e della storia
Ha vissuto quasi cento anni, biologicamente: ma la vita di Eugenio Scalfari è durata molto di più, almeno trecento anni: come se fosse nato nel secolo dei Lumi, seguace di Voltaire (anzi, si sentiva un po’ Voltaire) e con gli occhi dell’Illuminismo, sia pure corretto da uno scetticismo che gli veniva dall’origine borghese-meridionale, ha letto tutta la storia contemporanea: pensatore ma anche uomo pratico, avendo l’ombra del dubbio sempre allungata su certezze laiche talmente forti da sfiorare paradossalmente il religioso che egli cercò soprattutto, come capita sempre, alla fine della vita.
Un libertino, un concreto, un pensatore, un positivo, un monarca, un imprenditore, un letterato: e al dunque un personaggio fenomenale. Del grande giornalista non metterebbe nemmeno conto di parlare, talmente gigantesca è stata la sua impresa dall’Espresso al miracolo di Repubblica, un oggetto di carta che noi, giovani studentelli di liceo, acquistammo quel 14 gennaio 1976 avendo subito la percezione persino tattile che fosse qualcosa di bello per davvero e consono ai tempi nuovi che venivano: «Incarico a Moro», era il titolo, con sopra il richiamo all’intervista di Scalfari a Francesco De Martino, segretario del Psi: «Carte in tavola, compagno Berlinguer».
«Sono 50 anni che leggiamo opuscoli…», dice annoiato un personaggio di Cechov: così come sono 50 anni, o giù di lì, che leggiamo Repubblica, le vite degli italiani, anche le più anonime, ne sono segnate. Perché come tutti sanno Repubblica è stata, nei decenni di direzione scalfariana, molto più di un giornale, non arriviamo a dire un codice morale ma certamente uno strumento interpretativo della realtà – e come tale, di parte – fino ad acquisire, rivendicandolo, il ruolo di giornale-partito: fu Repubblica l’avversario più muscolare di Bettino Craxi prima e di Silvio Berlusconi poi così come fu Scalfari, peraltro non senza inciampi e contraddizioni, il cantore della cometa progressista Berlinguer-Ulivo-Partito democratico, senza dimenticare gli innamoramenti un po’ estemporanei per i cattolici Ciriaco De Mita e Mario Segni, lui laicissimo pannunziano-lamalfiano.
Cosa cercasse, Scalfari, nel tramestìo della politica italiana è chiaro e non è chiaro, come se alla costante perorazione del buon governo egli associasse sempre un’insoddisfazione di fondo che, ci azzardiamo a dire, è tipico dello scetticismo razionale che egli tanto amava, a partire da Montaigne, forse la figura che intellettualmente più sentiva vicina («Il mondo non è che una continua altalena (…) Non descrivo l’essere, descrivo il passaggio»).
Fu dunque un uomo di battaglia, in fondo si sentiva lui un politico che fa e disfa, e di speculazione insieme – sono i due corni del giornalismo di prim’ordine – e come “politico” fu anche duro, severo, pronto se non a tutto senz’altro a molto e la lista dei compromessi non è corta specie quando si trattava di affari, e certo Repubblica è stata per lui anche un grande affare.
Un uomo di sinistra? Certo. Il sogno suo fu di occidentalizzare il comunismo italiano, andare oltre Togliatti e anche quel Berlinguer che pure stimava più di tutti, ma non fu mai “anticomunista” nel senso di Ernesto Rossi, Mario Pannunzio, Marco Pannella o, per restare nel mondo di Repubblica, Giorgio Bocca, piuttosto era convinto come Ugo La Malfa che senza il Pci l’Italia non sarebbe mai diventata un Paese moderno, certo un Pci che avesse superato se stesso: l’Ulivo, certo, andava bene per battere Berlusconi ma il vero sbocco dell’evoluzione dei comunisti era per lui il Partito democratico, diciamo così, “prima maniera”: negli anni successivi crebbe in lui quella certa disillusione per le cose terrene e dunque per la politica che lo condusse a riflettere prevalentemente sulla filosofia, la morale, la storia, fino a sfiorare il mistero del divino, l’incontro spirituale oltre che fisico con Papa Francesco ne fu il simbolo e lo stimolo.
A quel punto – ma già da anni era iniziata una fase nuova – Scalfari si abbandonò alla ricerca. Nel 1995 uscì un libretto filosofico dal titolo allusivamente proustiano – amava Proust – “Alla ricerca della morale perduta” che è un lungo dialogo immaginario tra lui e Voltaire. A un certo punto Scalfari chiede al grande filosofo se vi sia un nesso tra la morale e la morte: «Sapete – gli dice Voltaire – non si entra nella storia facendo una passeggiata. Ci vuole una intera vita spesa per quello scopo. Di solito ci si entra producendo opere. Opere, capite? Che restino dopo di voi». Domanda Scalfari: «Che genere di opere, signor de Voltaire?». E quello: «Via, non giocate a fare l’ingenuo: opere che restino, poesia, arte, politica, scienza, azioni che la gente ricordi per la propria grandezza, opere comunque destinate ad altri e normalmente al bene degli altri». «Ebbene?». «Ebbene, amico mio, questa è la morale. Il suo nesso con la morte è evidente».
Qui forse sta la radice del narcisismo, termine da lui stesso usato per definire se stesso, ma d’altra parte una personalità eccezionale che sa di esserlo si specchia, si ammira, ma alla fine spunta quella “ruga sulla fronte” (è il titolo del suo unico romanzo) che indica non solo lo scorrere del tempo ma l’insondabilità della vita: l’”esattezza” di cui scrisse l’amico di scuola Italo Calvino non gli era chiara. Ma ecco che adesso, spenta per sempre la luce, Eugenio Scalfari giunto al cospetto di Voltaire potrà dirgli che l’obiettivo lo ha raggiunto, che la sua opera resterà, come egli d’altronde sapeva benissimo, fino alla fine dei suoi lunghi giorni ha avuto la consapevolezza di aver superato il Tempo: ed è un bel modo di morire, per uno come lui.
Un viaggio sentimentale. Eugenio Scalfari, il cestino di carciofi e quell’Italia di un tempo più adulta di oggi. Guia Soncini su L'Inkiesta il 14 Luglio 2022.
Del fondatore di Repubblica in tanti si sono concentrati a criticare l’egolatria o a celebrare i successi, ma la sua leggenda privata è stata costruita anche su piccole cose irrilevanti, che però dicono molto su di lui e, forse, ancora di più su di noi.
Mi ricordo solo le irrilevanze, è un dono, è una maledizione: mi sembrano fondamentali solo quelle. Primo flashback. Scalfari intervistato da Minoli che, a domanda sul Mondo di Pannunzio, dice che a quei tempi nei giornali mica c’era tutto l’opinionismo di ora. «Ora» è il 1981. Secondo flashback. Un comunicato stampa, nel 2012, in cui Antonio Ricci si lagna perché, nel riportare che non sono riusciti a consegnargli il Tapiro, l’Ansa non dà conto del fatto che, per evitare Staffelli, Scalfari avrebbe imboccato una strada contromano, essendo evidentemente Scalfari un potere forte e Striscia altrettanto evidentemente no.
Qualche mese fa molti lettori con memoria da pesci rossi hanno scoperto, allorché ripubblicato sul sito di Repubblica, un incontro del 1996 tra Eugenio Scalfari, Vittorio Gassman, e Marcello Mastroianni. Era ovviamente un pezzo stupendo: Monicelli che si affaccia, li liquida come «tutti vecchi» e se ne va, era vero? O era un guizzo creativo, il prodotto del vanto scalfariano di non prendere appunti durante le interviste, vanto che non poteva non essere una rivendicazione dei margini di sceneggiatura?
Pensa Mastroianni e Gassman con un intervistatore che si sposta e ci lascia guardare il film. Pensa che spreco. Alla fine del secolo scorso andava molto di moda prendere in giro Scalfari per il suo ego sovradimensionato. Il che faceva ridere, ma non di lui: di chi pensava di poter usare contro Scalfari l’egolatria; contro Scalfari, un cui libro s’intitolava “Incontro con io”.
Peraltro sarebbe interessante (ma crudele) ricostruire i traguardi di quelli che si sono prima o poi sentiti nella posizione di poter sbeffeggiare Scalfari, uno che a cinquantun anni si è inventato Repubblica (cioè: si è inventato un pubblico che fin lì nessuno si era preso il disturbo di codificare, «il cosiddetto italiano medio che si crede colto e vuol sentirsi alla moda», come disse qualcuno a proposito dei lettori di Fruttero&Lucentini).
Ma ora basta parlare di Scalfari: parliamo di me.
È più o meno il 1994 (l’anno di “Incontro con io”: la vita è sceneggiatrice) quando mi presentano quella che per qualche tempo sarà la mia più cara amica. Vive, a Roma, in un bellissimo appartamento al ghetto, che le ha passato sua zia, una donna senza figli che ha una relazione di lunghissimo corso col marito d’un’altra.
Prima di trasferirsi altrove, la zia abitava lì e, quando quel signore andava a trovarla, mi raccontava la mia amica, si scocciavano a uscire a cena. La casa aveva le finestre su tre lati, il terzo era su una piazzetta dove un famoso ristorante fa da sempre dei deliziosi carciofi alla giudia. La coppia clandestina calava un cestino dalla finestra, e il ristoratore lo riempiva di carciofi. Era una leggenda che la mia amica elaborava per me che la ascoltavo incantata? Era la leggenda di sé stessa che la zia le aveva inculcato?
La coppia clandestina naturalmente non era affatto clandestina: il Novecento italiano era un’epoca in cui l’adulterio era un secondo matrimonio; da Mastroianni a De Sica, era pieno di uomini che avevano relazioni stabili, anche con figli, senza mai divorziare. Tutti sapevano tutto: eravamo più colti, più scettici, eravamo una società adulta. La clandestinità veniva buona giusto per drammaturgia: cinquantacinque anni fa Pietro Germi diresse “L’immorale”. Ugo Tognazzi alla fine moriva per la fatica di star dietro a due ménage.
È il 2012, e scrivo un libro sull’adulterio all’italiana. La storia del cestino di carciofi aspettava da quasi vent’anni di venire raccontata, a proposito del labile confine tra clandestinità e ufficialità, adulterio e matrimonio. Quando la inserisco nel capitolo sull’importanza della casa coniugale, la zia della mia amica è già da quattro anni la moglie dell’uomo del cestino di carciofi, che rimasto vedovo l’ha sposata.
È il 2014, e su quel libro, “I mariti delle altre”, m’intervista un settimanale americano. Chiacchieriamo, spiego, Fellini, il direttore di Repubblica, mio padre, Mitterrand, l’Italia, la Francia. L’intervistatrice d’un Paese accuratamente mai adulto trasecola. Giorni dopo mi scrive, l’ufficio legale è terrorizzato dall’imminente pubblicazione e pretende riscontri, non sarà diffamazione dire che Mastroianni tradiva la moglie? Secondo me no, considerato che lui e Catherine Deneuve hanno avuto una figlia. E Scalfari, questa cosa che sia stato anni con un’altra chi la dice? La dice lui, in un saggio nel Meridiano in cui hanno raccolto le sue opere. Del cestino di carciofi no, del cestino di carciofi lo dico io: sarà diffamatorio?
«Fu l’amore per me che li tenne uniti finché vissero, e io feci tutto ciò che potevo per tenerli insieme ed evitare una separazione che avrei vissuto come una catastrofe. Ed è nato il triangolo, sotto il cui segno si è poi interamente scandita la mia vita». Scalfari che parla dei suoi genitori, Scalfari che parla dei carciofi, Scalfari che parla di sé.
In “A sentimental journey”, il documentario girato l’anno scorso dalle figlie sull’ingombrantissimo padre, Scalfari dice del triangolo con prima e seconda moglie «io non ero al vertice», che è un’affermazione che varrebbe un romanzo. In quello stesso documentario, Natalia Aspesi dice che lei la prima moglie la capisce: «Non puoi vivere, credo, con un uomo come Scalfari e rinunciarci per gelosia».
Io però trovo rivelazioni solo nelle irrilevanze. In quello stesso documentario, Massimo Recalcati che dice: «Vostro padre mi ha raccontato di avere incontrato uno psicanalista ma di aver fatto una sola seduta. È come se lo psicanalista gli avesse detto: va bene così».
Il tempo andato non ritornerà. I miei primi 50 anni, la pipa di Merlino e il trucco della comunicazione orizzontale. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Luglio 2022.
Oggi per essere intellettuali non serve spiegare al mondo le cose che il mondo non capisce in proprio. Basta dire al pubblico ciò che vuole sentire, magari raccontando a una platea falsità tirapplausi per rassicurarla
Il tempo andato non ritornerà. Quest’anno compio cinquant’anni, e mi fa quindi moderatamente impressione che Francesco Guccini l’avesse capito, che il tempo andato non ritornerà, quando io ancora non ero nata e lui aveva trenta miserabili anni. D’altra parte Guccini è sempre stato il mago Merlino dei cantautori: uno che vedeva le età prima di avercele, i tempi prima che i tempi esistessero.
Il tempo andato non ritornerà, neanche quello in cui esisteva il piano del simbolico e potevi dare per scontato che mago Merlino, uno che nell’alto Medioevo si lamenta perché non esiste l’elettricità, uno che fa le valigie richiamando con la bacchetta magica gli oggetti che andranno nel bagaglio, che uno così non fosse banale realismo. E invece no, tutto è emulabile sul piano della realtà, e noi non lasceremo che i nostri piccini abbiano la salute traviata da un mago a disegni del Cinquecento; e quindi, se nel 2022 vai su Disney+ a guardare La spada nella roccia, ci trovi l’avviso di pericolosità «contiene rappresentazioni di tabacco» (che poi quella nella pipa di Merlino è chiaramente droga).
Il tempo andato non ritornerà, l’ho capito con un certo nitore qualche sera fa, mentre su un palcoscenico parlava una di quelle tizie che una volta avrebbero tirato la sfoglia e oggi fanno le intellettuali, giacché oggi per fare le intellettuali non serve un intelletto – cioè: la capacità di dire al mondo le cose che il mondo non capisce in proprio – ma servono i cuoricini, che si ottengono dicendo al mondo esattamente ciò che il mondo vuole sentire. La tizia diceva una qualunque di quelle falsità tirapplausi dalle quali la platea si sente rassicurata, poteva essere «le osservazioni estetiche le facciamo solo alle donne, non sentite mai una critica fatta all’aspetto d’un uomo» (cancellate in una sola frase fatta l’esistenza di Trump e persino quella di Renzi; Berlusconi neppure a pensarci), e la platea pavlovianamente applaudiva.
Il tempo andato non ritornerà, perché la platea non vuole farsi venire il dubbio d’esser scema: vuole tu le dica che sei scema proprio come lei, forse più di lei, incapace di guizzi come lei, indisposta a vedere cose che non fanno comodo al tuo pregiudizio proprio come lei.
Il tempo andato non ritornerà, l’ho capito con persino maggior nitore ieri, leggendo il coccodrillo di Eugenio Scalfari scritto da Michele Serra, del quale ricopio il sottofinale. «La tetragona fiducia di Scalfari nella sua qualità intellettuale […] si è tradotta in atto di fiducia, e di contagio, nella qualità intellettuale dell’opinione pubblica, o almeno di una sua larga parte. Scalfari, senza i suoi tantissimi lettori, è impensabile: eppure uno dei grandi meriti – e privilegi – del suo giornalismo fu non porsi mai, nemmeno per un attimo, il problema di “come piacere ai lettori”, modulando i toni e magari abbassando il tiro».
Il tempo andato non ritornerà: a uno Scalfari cinquantenne di oggi il pubblico direbbe ma perché devo leggere del tuo ego, se posso leggere del mio? Avete mai guardato una diretta Instagram di qualcuno di famoso? Avete mai letto i commenti in diretta? Sto raccogliendo, come catalogo del presente, quelli alle dirette del marito della Ferragni, che in questo periodo spesso parla al suo pubblico la mattina presto. Alle sette di mattina, Vongola75 apre Instagram e digita speranzosa: «Fedez, mi saluti?». Non è qui – Vongola75, ma sia essa un campione di noi tutti – per sentire cos’ha da dire il famoso; è qui per diventare un po’ famosa lei. I miei preferiti sono i commenti in cui, dopo aver chiesto invano che la sua esistenza venisse riconosciuta (il famoso è, come gli sconosciuti, lì per sé: mica può star dietro a tutti i commenti), la Vongola75 del caso sbotta «allora mi sconnetto, visto che non mi caghi».
Il tempo andato non ritornerà, e ormai è tardi per svelarvi che la comunicazione orizzontale era un trucco illusionista, che il famoso è statisticamente probabile non trovi il tempo di filarvisi, che anche per oggi non è il vostro turno per i quindici minuti di celebrità. Ormai se ve lo svelano prendete i forconi, ormai è meglio ci crediate. Ormai è meglio che, se vogliamo avere di che pagare l’affitto coi vostri cuoricini, perpetuiamo l’illusione. Certo che sei Artù, se solo ci fosse un Merlino ad accorgersene. Certo che sei un genio, ma il mondo è maschilista e s’accorge solo che sei culona. Certo che il tuo capolavoro nel cassetto è meglio di quei raccomandati che vengon pubblicati. Certo che quel che hai da dire è imperdibile.
Il tempo andato non ritornerà, e stavo per scrivere che siamo passati in centocinquant’anni da «Je est un autre» a «io è interessante», poi mi sono detta guarda che se Rimbaud non glielo traduci ti dicono che te la tiri a citare cose che non conoscono per umiliarli e metterli in difficoltà, sia mai imparassero una cosa nuova, sia mai quell’accesso al sapere universale che hanno in tasca lo usassero per qualcosa che non è recensire il ristorante dove hanno cenato ieri.
Il tempo andato non ritornerà, e ho pensato ma tanto ormai la guerra dei cuoricini l’hai persa, eran buoni tutti a essere Arbasino quando esserlo non voleva dire essere in competizione con Luca Goldoni, ma prova a diventare Scalfari oggi, quando giochi nello stesso campionato di Erin Doom.
Il tempo andato non ritornerà, e il refuso nell’annuncio mortuario di Scalfari, nella pagina dei necrologi di Repubblica, non è mica un refuso: è il più rivelatorio dei lapsus. Leggendo che Scalfari era morto nel giorno della «resa della Bastiglia», Freud ha avuto un friccico.
Il tempo andato non ritornerà, e io stavo per mettermi a piangere mentre leggevo Serra secondo cui «La facilità, direi quasi l’automatismo, con cui un uomo così ambizioso e così esigente, incapace di qualunque ruffianeria o semplificazione per ingraziarsi il pubblico, è diventato uno dei più popolari e amati (o quantomeno rispettati) giornalisti italiani ci dice molto, anzi moltissimo, sulla qualità come eterno motore delle attività umane». L’eternità andata non ritornerà.
Addio a Eugenio Scalfari. Il giornalismo è in lutto: è morto il fondatore di Repubblica. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Luglio 2022.
L'annuncio del quotidiano fondato nel 1976. Innovatore e influente 'padre' del nuovo giornalismo italiano, che ha fatto scuola nel mondo. Negli ultimi anni, dopo una lunghissima carriera da giornalista, si è dedicato soprattutto alla scrittura
Il mondo del giornalismo italiano in lutto: è morto Eugenio Scalfari. Il giornalista aveva 98 anni. Nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924, è stato il primo direttore-manager dell’editoria italiana, padre de L’Espresso e Repubblica. Dopo aver iniziato gli studi al Liceo Mamiani di Roma, Scalfari si trasferisce con la famiglia a Sanremo (il padre era direttore artistico del Casinò della ‘città dei fiori’) frequentando il liceo classico ‘G.D. Cassini’ dove ebbe come compagno di banco il futuro scrittore Italo Calvino. Nel 1950 si sposò con la figlia del giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta, morta nel 2006, da cui ha avuto due figlie, Donata ed Enrica. Dalla fine degli anni Settanta Scalfari è stato sentimentalmente legato a Serena Rossetti, già segretaria di redazione de “L’Espresso”, che ha sposato dopo la scomparsa della moglie Simonetta.
Dopo la giovinezza a Sanremo, dove al liceo classico ebbe come compagno di banco Italo Calvino, inizia a scrivere su alcune riviste fasciste, per venire poi espulso in quanto ritenuto un imboscato. Nei primi anni ’50 inizia con il Mondo di Pannunzio e l’Europeo di Arrigo Benedetti. Nel ’55 con quest’ultimo fonda ‘L’Espresso’, primo settimanale italiano d’inchiesta. Scalfari vi lavora nella doppia veste di direttore amministrativo e collaboratore per l’economia. E quando Benedetti gli lascia il timone nel ’62, diventa il primo direttore-manager italiano, una figura all’epoca assolutamente inedita per l’Italia.
Negli ultimi anni Scalfari si è dedicato soprattutto alla scrittura, anche con una autobiografia uscita per i suoi 90 anni nel 2014 allegata al quotidiano. Nel suo primo romanzo ‘Il labirinto‘, uscito nel ’98, ha affrontato il rapporto tra sentimenti e ragione, il ruolo che il pensiero esercita nella quotidiana esistenza dell’uomo e il contrasto tra aspirazioni profonde e realtà. Temi affrontati poi anche ne ‘L’uomo che credeva in Dio‘, ‘Per l’alto mare aperto‘, ‘Scuote l’anima mia Eros’, ‘La passione dell’etica’, ‘L’amore, la sfida, il destino’.
La camera ardente sarà allestita domani in Campidoglio nella Sala della Protomoteca, con l’apertura dalle ore 16 alle ore 19, rende noto in un comunicato il Comune di Roma. Redazione CdG
Giornalismo italiano in lutto, muore a 98 anni Eugenio Scalfari. Fondatore de L'Espresso e La Repubblica, è considerato uno dei principali giornalisti italiani del XX secolo. Il Quotidiano del Sud il 14 luglio 2022.
Addio a Eugenio Scalfari, influente e autorevole innovatore del giornalismo italiano, fondatore del settimanale “L’Espresso” e poi del quotidiano “La Repubblica”, ma anche scrittore capace di spaziare dal saggio al romanzo, politico con radici azioniste, radicali e socialiste e intellettuale liberaldemocratico di spicco. Il “padre” del nuovo giornalismo italiano, che ha fatto scuola nel mondo, è morto oggi all’età di 98 anni.
Tra i maggiori giornalisti e editorialisti del secondo dopoguerra, Scalfari ha dato vita nel 1955, con Arrigo Benedetti, alla rivista “L’Espresso” e nel 1976 a “La Repubblica” di cui è stato direttore per vent’anni. Partecipò alla fondazione del Partito radicale ed è stato anche deputato per il Partito socialista italiano (1968-72), vicepresidente del Gruppo editoriale L’Espresso e insignito di prestigiose onorificenze, quali quella di cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana (1996) e di Chevalier de la Légion d’honneur (1999) dalla Repubblica francese.
Nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924, dopo aver iniziato gli studi al Liceo Mamiani di Roma, Scalfari si trasferisce con la famiglia a Sanremo (il padre era direttore artistico del Casinò della ‘città dei fiorì) frequentando il liceo classico ‘G.D. Cassinì dove ebbe come compagno di banco il futuro scrittore Italo Calvino. Nel 1950 si sposò con la figlia del giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta, morta nel 2006, da cui ha avuto due figlie, Donata ed Enrica. Dalla fine degli anni Settanta Scalfari è stato sentimentalmente legato a Serena Rossetti, già segretaria di redazione de “L’Espresso”, che ha sposato dopo la scomparsa della moglie Simonetta.
Laureatosi in giurisprudenza, nel 1950 Scalfari iniziò la carriera giornalistica come collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio e de “L’Europeo” di Arrigo Benedetti. Nel 1955 partecipò con il gruppo degli “Amici del Mondo” alla fondazione del Partito radicale, di cui ricoprì la carica di vicesegretario nazionale (1958-63).
Sempre nel 1955 Scalfari fu il fondatore de “L’Espresso” (che poi diresse dal 1963 al ’68). Dopo anni di gestazione, il 14 gennaio 1976 uscì il primo numero del quotidiano “La Repubblica”, di cui è stato il direttore-fondatore fino al 1996, restandone poi direttore onorario e raffinato editorialista, con il suo immancabile editoriale pubblicato ogni domenica in prima pagina.
Attento osservatore della vita politica e del potere in Italia, Scalfari ha investigato e analizzato importanti momenti di crisi della politica italiana (come i casi Sifar, Enimont, Tangentopoli), realizzando memorabili interviste e inchieste. Intellettuale di formazione azionista e pannunzianza, ha sempre sostenuto e difeso il punto di vista laico e progressista nella politica dello Stato italiano. E pur dichiarandosi ateo, Scalfari ha intessuto una confidenziale amicizia con Papa Francesco, con cui ha colloquiato a più riprese realizzando anche interviste-scoop.
Scalfari è stato autore di numerosi scoop giornalistici passati dalla cronaca alla storia. Nel 1967 pubblicò su “L’Espresso” insieme a Lino Jannuzzi l’inchiesta sul Sifar che fece conoscere il tentativo di colpo di Stato chiamato piano Solo. Il generale Giovanni De Lorenzo li querelò e i due giornalisti furono condannati rispettivamente a 15 e a 14 mesi di reclusione, malgrado la richiesta di assoluzione fatta dal pubblico Ministero Vittorio Occorsio, che era riuscito a leggere gli incartamenti integrali prima che il governo ponesse il segreto di Stato.
Scalfari e Jannuzzi evitarono il carcere grazie all’immunità parlamentare loro offerta dal Partito Socialista Italiano: alle elezioni politiche del 1968 Scalfari fu eletto deputato, come indipendente nelle liste del Psi mentre Jannuzzi divenne senatore. Scalfari, che era stato eletto sia nella circoscrizione di Torino che in quella di Milano, optò per la seconda e aderì al gruppo del Psi. Restò deputato fino al 1972. Nel 1968 con la candidatura in Parlamento aveva lasciato la direzione de “L’Espresso”.
Nei primi anni ’70 Scalfari criticò le manovre di Eugenio Cefis, prima presidente dell’Eni e poi di Montedison. E soprattutto contro Cefis fu indirizzato il celebre libro-inchiesta pubblicato con Giuseppe Turani “Razza padrona” (1974).
Come scrittore, Scalfari è autore di importanti libri di inchiesta giornalistica, che hanno lasciato il passo nell’ultimo ventennio a riflessioni esistenziali e filosofiche. Tra le sue pubblicazioni: “L’autunno della Repubblica” (1969); “Interviste ai potenti” (1979); “Come andremo a incominciare?” (in collaborazione con Enzo Biagi, 1981); “L’anno di Craxi” (1984); “La sera andavamo in via Veneto. Storia di un gruppo dal “Mondo” alla “Repubblica”” (1986); “Incontro con io” (1994); “Alla ricerca della morale perduta” (1995); “Per l’alto mare aperto” (2010); “Scuote l’anima mia Eros” (2011); “L’amore, la sfida, il destino” (2013).
Scalfari è autore dei romanzi “Il labirinto” (1998) e “La ruga sulla fronte” (2001); della raccolta in cinque volumi “Articoli” (2004); dell’autobiografia “L’uomo che non credeva in Dio” (2008); del testo “Conversazioni con Carlo Maria Martini” (con Vito Mancuso, 2012).
Della sua produzione più recente vanno citati “La passione dell’etica. Scritti 1963-2012” nella collana “I Meridiani” di Mondadori (2012); “Dialogo tra credenti e non credenti” (Einaudi, 2013); “L’amore, la sfida, il destino. Il tavolo dove si gioca il senso della vita” (Einaudi, 2013); “Racconto autobiografico” (Einaudi, 2014); “L’allegria, il pianto, la vita” (Einaudi, 2015).
Addio a Scalfari: ricordi ed etica. Nelle opere la sua testimonianza. Giuseppe Lupo su la Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Luglio 2022.
Ora che Eugenio Scalfari è morto ed è cominciata la fase in cui celebrare un uomo vuol dire rendere omaggio alla sua figura e a quanto il suo talento ha concesso all’epoca in cui egli è vissuto, diventa doveroso interrogarsi non soltanto sul maestro di giornalismo (su cui indubbiamente prevarranno opinioni e giudizi di valore difficilmente confutabili), ma anche sull’autore di libri, alcuni dei quali di impianto volutamente narrativo o pseudo-narrativo, consegnati alla posterità in un volume della prestigiosa collezione dei Meridiani Mondadori, edito dieci anni fa, nel 2012, con un titolo assai eloquente: «La passione dell’etica».
L’operazione di tralasciare il lavoro da giornalista, che pure è presente in questo libro, soprattutto nella prima parte, di per sé potrebbe apparire rischiosa, ma è proprio nel versante narrativo, assai più che in quello dell’opinionista, il luogo dove cercare il vero Scalfari e, con lui, l’autenticità della sua visione etica, diciamo anche filosofica (le pagine del Meridiano traboccano di pensiero più che di invenzione) e dunque anche politica. A noi lettori non è sfuggito la presenza di un’aspirazione nemmeno così latente e sempre pronunciata con voce piuttosto tonante, resa evidente alla presenza di nomi affascinanti attribuiti ai testi: La passione dell’etica, certo, ma pure Alla ricerca della morale perduta o, forse il più elevato nel corpo a corpo con la tradizione, Per l’alto mare aperto. C’era un messaggio che Scalfari intendeva manifestare chiamando in questo modo alcuni dei suoi libri? È una domanda che mi pongo sin dal loro apparire, nel 1995 (nel primo caso) e nel 2010 (nel secondo). E continuo a chiedermelo soprattutto ora, quando il dovere di commemorare non deve essere ricoperto dal velo delle emozioni o toccato dalla fretta di arrivare a giudizi definitivi.
Sicuramente Scalfari intendeva affidare alle sue opere pseudonarrative non solo lo statuto di una testimonianza – quella, per intenderci, che presiede Racconto autobiografico (2014) e che sarebbe stata per lui fin troppo semplice a realizzarsi – ma il piglio di una riflessione che non teme di nascondere le sue ambizioni totalizzanti: essere chiave di lettura di un’epoca, essere il ritratto morale di una generazione, la sua, affacciata alla Storia quando i vent’anni coincisero con la Seconda Guerra Mondiale e i trenta con il periodo della ricostruzione. Qui sta il vero nodo del discorso. Tutti i libri pseudonarrativi di Scalfari sono opere testimoniali. Rappresentano cioè quello che, con somma eleganza, Vittorini definiva «opere di stretta caratterizzazione autobiografica» e non mancava di farlo notare a un disorientato Mario Rigoni Stern (stiamo parlando di uno dei più importanti scrittori della stessa generazione di Scalfari) quando gli scriveva per lettera: «la storia letteraria non è fatta soltanto dai Dante Alighieri, ma anche dai Guinizzelli e Cavalcanti». Il che voleva intendere non soltanto che Rigoni difettasse nell’invenzione, ma anche che avrebbe trovato se stesso pensandosi nelle vesti di un comprimario.
Con Scalfari ci troviamo, invece, agli antipodi. La testimonianza di una parzialità, così come può essere la narrazione autobiografica, funziona nella misura in cui intorno alla vita dell’Io scorre la vita di una nazione, di un popolo, di una civiltà che, senza paura di passare per le vie della retorica, subisce e promuove il respiro di un’epica. Come fa Dante Alighieri, appunto. Scalfari, quando racconta, lo fa sempre in forma testimoniale, ma il suo punto di vista è quello di una parzialità che non riesce a diventare tutto, di un Io che non vuole e non sa diventare Noi e ciò in fondo determina la sensazione di un’occasione perduta. Certo ci sono pagine meravigliosamente allusive, come quella che, in Incontro con Io (1994), discende da una semplicissima parola – «Ricordi?» – scritta da Italo Calvino sulla copia di Se una notte d’inverno un viaggiatore a lui dedicata. Ma è l’assunto di una modernità licenziata troppo in fretta a suscitare qualche dubbio, la modernità di cui discute in Per l’alto mare aperto e che un paio di anni prima, in L’uomo che non credeva in Dio (2008), cade nella trappola pasoliniana dell’innocenza perduta quando descrive il Mezzogiorno.
Addio a Scalfari, il campione dell’altra Italia tra giornalismo e politica. Con il gigante Eugenio tramonta un mondo avventuroso e pugnace, talora spericolato come il sogno seducente del «fare notizia». Oscar Iarussi su la Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Luglio 2022.
Non solo un giornalista, ma un mondo. Cronista, economista, polemista, saggista, e da ultimo anche romanziere, filosofo non accademico, neo-illuminista eppure mistico nei ricorrenti dialoghi con papa Francesco, monumentato in vita da un Meridiano Mondadori delle sue opere. Eugenio Scalfari, scomparso ieri a 98 anni, è stato innanzitutto il campione di un’altra Italia nel nostro dopoguerra lungo e per certi versi infinito: l’Italia «terza» rispetto all’egemonia politica democristiana e a quella sociale e culturale del Partito comunista. Un’Italia che fu presto sconfitta nelle urne dalle due «chiese» opposte e poi confluenti secondo la formula delle «convergenze parallele» coniata da Aldo Moro nel congresso democristiano di Firenze nel 1959, invero attribuita a Scalfari da più d’uno storico (Gotor fra gli altri). Tuttavia, l’ispirazione ideale di quell’Italia minoritaria è rimasta vivida, indomita, carismatica come la barba fluente e via via più canuta del Nostro, affettuosamente rinominato «Barbapapà» nella redazione di «la Repubblica», il suo giornale. Ben inteso, suo senza virgolette, dal 14 gennaio 1976 e per sempre sotto la testata dove figura come «fondatore», il Padre Pellegrino di una nuova Terra Promessa, al pari di Antonio Gramsci per “l’Unità” cui proprio il quotidiano scalfariano sottrasse gran parte dei lettori di sinistra.
Scalfari fu di certo cedevole alla Realpolitik nei cambi di stagione (venne eletto deputato del Psi nel fatidico 1968) e sicuramente interessato al potere, sebbene in fondo sempre fedele alla matrice originaria di una borghesia colta, liberal-socialista, non sdegnosa dei piaceri mondani (il padre diresse il Casinò di Sanremo, dove il liceale Scalfari ebbe Italo Calvino tra i compagni di classe). La sera andavamo in via Veneto, recita il titolo di un suo memoriale di successo (Mondadori 1986), la stessa strada della Dolce Vita, tra avventure del pensiero, passioni da non reprimere, andirivieni di divi e stelline nel circo romano dei debuttanti anni Sessanta, e imprese funamboliche a cominciare dal capolavoro di Federico Fellini con Marcello Mastroianni. In quel libro, Scalfari rievoca Marcello come «un giornalista “impegnato” sia pure a modo suo, dalle cui tasche ogni tanto spuntava un "Espresso"; e quello fu il segno della consacrazione». Il riferimento è al settimanale che il trentenne Eugenio aveva fondato nel 1955 con Arrigo Benedetti, trovando i finanziatori in Enrico Mattei e Adriano Olivetti sfilatosi dopo non molto. Il ricordo suona come una generosa rivendicazione pro domo sua dell’importanza dell'«Espresso» pubblicato nel proverbiale formato lenzuolo e diretto da Benedetti. Oltre a essere una delle firme, Scalfari è il direttore amministrativo dell'«Espresso» e nel 1963 ne diventa direttore responsabile.
«Capitale corrotta = nazione infetta» è il titolo della prima storica inchiesta (11 dicembre 1955), svolta dallo scrittore Manlio Cancogni, sulla speculazione edilizia a Roma. Ne seguono altre non meno incisive sull’opinione pubblica, anche grazie alla titolazione immaginifica che avrebbe fatto scuola nella stampa italiana. Qualche esempio? «L’Africa in casa», una denuncia del Mezzogiorno degradato. Oppure «La mappa del potere» sulle connessioni tra politici e imprenditori, che avrà una sorta di corposo seguito nel 1974 quando per Feltrinelli esce il celebre Razza padrona di Scalfari e Turani. «L’Espresso» aggiorna la vocazione laica e liberal all’americana del leggendario “Il Mondo” diretto da Mario Pannunzio, con «il redattore cupo» Ennio Flaiano, ed Ernesto Rossi, Giovanni Spadolini, Enzo Forcella, Antonio Cederna. Mentre sul fronte della stampa quotidiana un’autentica innovazione viene dal milanese «Il Giorno» (1956) voluto dall’Ente Nazionale Idrocarburi di Mattei, schierato apertamente per il centro-sinistra. In edicola fa allora capolino un involontario terzo polo laico, rispetto a quelli democristiano e social-comunista, corrispondente all’aspirazione «azionista» e mazziniana nutrita da Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Emilio Lussu e Riccardo Lombardi prima che fosse mortificata - l’abbiamo accennato prima - nelle elezioni per l’Assemblea Costituente (nel 1946 il Partito d’Azione attirò un misero 1,46 per cento dei voti). Insomma, si radicalizzano le pulsioni politico-culturali del gruppo di «Il Mondo» che mirano ora a una platea più vasta. È l’intuizione decisiva del cenacolo che fa capo all’«editore fortunato» Carlo Caracciolo e allo stesso Scalfari, i quali daranno poi vita all’esperienza di «la Repubblica» (1976) con l’implicita vocazione a concretare ben più d’un giornale: un’approssimazione quotidiana a «un’idea dell’Italia» - scrive Angelo Agostini (il Mulino 2005) - in grado di interloquire con le élite. Sono le classi colte, definiamole genericamente, che fino a ieri coincidevano con un notabilato post-fascista e oggi, all’improvviso, risultano democratizzate grazie alla scolarizzazione di massa invisa a Pasolini. Costituiscono l’avanguardia diffusa e capillare d’una modernità contraddittoria e tuttavia scalpitante a cominciare dalle relazioni private (un’embrionale proposta di legge in favore del divorzio, a firma del socialista Loris Fortuna, risale al 1965).
Il gruppetto eccentrico del «Mondo» nel 1955 in parte confluisce nelle fila del Partito Radicale insieme al giovane Marco Pannella e a Scalfari che ne diventerà vicesegretario dal 1958 al ’63. Ma gli ambiti ristretti, se coesi, hanno una forza d’attrazione inimmaginabile. La Dolce Vita rimane alla portata di pochi, sebbene faccia sognare le platee che nella realtà debbono contentarsi di indossare il maglione a collo alto intravisto nel film. Alla stessa stregua, il ceto medio affluente e progressista per trent’anni e oltre, leggendo «la Repubblica», sostituirà di fatto l’estetica alla politica e persino alla «passione dell’etica» cara a Scalfari, per dar vita a uno spirito culturale di massa in cui pure ciascuno si sente testimone «unico» nell’orizzonte antagonista. Già, «la Repubblica» è stata a lungo qualcosa di più e di diverso rispetto a un quotidiano classico: un passaporto, una carta d’identità, l’appartenenza quasi «tribale» a una comunità che si rispecchia nelle firme del giornale e ne divulga il verbo, in primis quello del Fondatore. Ciò vale soprattutto per alcune generazioni di giornalisti che hanno cominciato guardando a Montanelli o a Scalfari, i due grandi innovatori del “mestiere” nel secondo dopoguerra. Con il gigante Eugenio tramonta un mondo avventuroso e pugnace, talora spericolato come il sogno del giornalismo che sedusse - fra tanti - il ragazzo di provincia che oggi qui lo ricorda e lo piange.
Marco Travaglio per il Fatto Quotidiano - Estratto del 17 ottobre 2017
Leggendo l'ultimo sermone domenicale di Eugenio Scalfari, viene in mente Fantozzi che si martella il pollice montando una tenda col ragionier Filini ma, siccome è notte e non vuole svegliare gli altri campeggiatori, corre per il bosco e solo quando ne esce prorompe in un lungo e liberatorio grido di dolore.
Nato a Civitavecchia nel 1924, fascista sotto il fascismo, non pervenuto durante la Resistenza, antifascista dopo la caduta del Duce, da allora Scalfari passa per un sincero democratico: sia da liberale, sia da pannunziano (a Il Mondo, quando andava in via Veneto), sia da radicale, sia da deputato socialista, sia da filocomunista, sia da craxiano, sia da demitiano, sia da occhettiano, sia da dalemiano, sia da prodiano, sia da veltroniano, sia da ciampista, sia da napolitaniano, sia da mangiapreti, sia da papista, sia da lettiano antirenziano, sia da filorenziano. Il travestimento dura 72 interminabili anni. Poi l' altroieri l' anziano reazionario non ce la fa più ed esplode finalmente nell' urlo più liberatorio e fantozziano: la democrazia è una cagata pazzesca!
Testuale, a proposito del Rosatellum imposto da Renzi&C. con la fiducia al governo per far fuori la prima forza politica del Paese (i 5Stelle) e far vincere le elezioni alle altre: "Zagrebelsky è un mio amico, gli voglio un gran bene e ho grande stima per le sue capacità giuridiche ma sono da tempo in totale disaccordo sulla sua posizione politica. Lui ha molta considerazione per il popolo sovrano. È il popolo che deve decidere e decide e questa è la democrazia. La mia tesi è molto diversa La sovranità è affidata a pochi che operano e decidono nell' interesse dei molti".
E quei pochi è meglio che non siano neppure eletti, visto che ultimamente il popolo bue (altro che sovrano) sbaglia sempre a votare: meglio farli nominare dai capi-partito, possibilmente da quelli che piacciono a Scalfari o chiedono consiglio a lui. Qualcuno, impertinente, ne ha concluso che, data l' età, il Fondatore non ci sta più con la testa. Noi invece pensiamo che non sia mai stato così lucido: ha solo perso i freni inibitori e può finalmente dire quello che aveva sempre clandestinamente pensato, ma non gli era mai convenuto scrivere, sennò ti saluto Mondo, Europeo, Espresso, Repubblica e relativi lettori.
In effetti era dai tempi del conte de Maistre e del principe di Canosa che non si leggeva un pensiero politico di così ampie vedute. Manca solo un appello a farla finita col suffragio universale e a ripristinare quello per censo o per lombi, onde evitare che il voto di uno zotico grillino valga quanto quello del principe Eugenio e degli altri ottimati...
Il giornalismo nel destino. Storia di Scalfari, dagli inizi con Pannunzio alle battaglie contro Craxi e Berlusconi. David Romoli su Il Riformista il 15 Luglio 2022.
Scalfari è stato il gigante del giornalismo italiano. Per quanto discutibili si possano considerare alcune sue prese di posizione, come la strenua difesa della linea della fermezza ai tempi del sequestro Moro, nessuno ne ha mai osato mettere in dubbio la statura come giornalista e il ruolo rivoluzionario che ha esercitato nel giornalismo italiano. Come tutti i grandi innovatori le sue idee di base erano semplici ma di portata esplosiva: coniugare il giornalismo impegnato, colto e intellettuale d’élite con l’informazione popolare di massa; mettere in campo un giornale che, senza dover rispondere a nessun partito, si comportasse da partito in sé. L’intento era quello di condizionare la politica del Paese non in conto terzi ma direttamente, come una forza autonoma di cui i poteri costituiti dovessero tener conto.
Classe 1924, calabrese di nascita ma civitavecchiese d’adozione, Scalfari non ha mai avuto dubbi sulla sua vocazione: aveva appena lasciato i banchi di scuola e già riempiva di inchiostro le colonne dei giornali giovanili del regime: soprattutto Roma fascista, il giornale del Gruppo universitario fascista (Guf) ma senza disdegnare scappatelle con altre testate. Nella prima disavventura della sua carriera si intravede già il percorso che lo porterà in vetta al giornalismo italiano: l’ambizione coniugata con l’impegno moralizzatore, una certa tendenza all’azzardo, l’attenzione per le trame del potere finalizzate a mettere le mani su un congruo bottino. Denunciò le truffe nella costruzione dell’Eur e mise sul banco degli imputati un certo numero di gerarchi. Il vicesegretario del partito Scorza chiese le prove, che si dimostrarono però poco consistenti. Il giovane Eugenio fu cacciato dal Guf. Era fascista sul serio e lo confesserà lui stesso in seguito, più volte: figlio di un legionario fiumano, balilla in calzoncini corti, giovane universitario entusiasta. L’amore per la democrazia è stata una conquista giovanile che non lo ha poi più abbandonato.
Forse un momento di dubbio, un bivio di fronte al quale avrebbe potuto imboccare una strada diversa da quella per cui era nato, c’è stato solo nel dopoguerra. Anni avventurosi per tutti: col padre direttore del Casinò di Sanremo il giovane ormai ex fascista tentò per qualche mese di seguirne le orme dirigendo anche lui un casinò a Chianciano ma soprattutto, appassionato d’economia pur se laureato in giurisprudenza, trovò impiego presso la Banca Nazionale del Lavoro. A decidere della sua sorte fu forse il direttore che lo licenziò per una serie di articoli sulla Federconsorzi e che molti anni dopo rivendicò quel merito: “Grazie a quel licenziamento sei diventato quello che sei”. Ma il giornalismo Eugenio non lo aveva mai abbandonato. Funzionario di banca sì ma anche penna affilata dei giornali che contavano allora nei salotti buoni e moderni, Il Mondo di Mario Pannunzio, L’Europeo di Arrigo Benedetti, senza contare il matrimonio con Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore della Stampa: la casa reale del giornalismo italiano. Scalfari ha sempre rivendicato il debito con i due grandi direttori con cui si era fatto le ossa.
Se ne è proposto di fatto come il legittimo erede. Nella sua ormai introvabile, e chissà perché, biografia La sera andavamo in via Veneto, il direttore per eccellenza ricorda le ore passate con la tristezza nel cuore a sfogliare le vecchie copie del Mondo dopo la morte di Pannunzio. In realtà Scalfari non si lasciò in buoni rapporti né con l’uno né con l’altro. Entrambi, anzi, dispensarono giudizi sferzanti sull’ex pupillo rampante. La differenza era in realtà profondissima. Eugenio in via Veneto prima e a piazza del Popolo poi ci andava e ci voleva andare da protagonista. Era ambizioso, mirava al grande successo, non al giornalismo di nicchia. Per questo era pronto a compromessi con lo stile proprio dell’editoria di massa e del mercato che i compassati numi tutelari, soprattutto Pannunzio, non avrebbero mai potuto accettare. Erano figli di mondi diversi.
La strada verso il “suo” modello di giornalismo si aprì forse grazie a un’amicizia nata per caso a Milano, nel 1952, subito dopo il licenziamento dalla Bnl: quella con il fratello, socio e complice di tutta la vita Carlo Caracciolo. Il principe editava riviste tecniche. Propose al nuovo amico la direzione di Rivoluzione industriale e quello rifiutò.
Tre anni dopo erano insieme a cercare i fondi per un nuovo giornale insieme a Benedetti, che aveva appena lasciato l’Europeo: l’Espresso. Li trovarono da Adriano Olivetti, che però dopo appena un anno abbandonò l’impresa lasciando le sue azioni a Caracciolo e, in piccola parte, al direttore Benedetti e al direttore amministrativo Scalfari. Se Repubblica non fosse esistita, il nome di Scalfari campeggerebbe lo stesso grazie all’Espresso. Formato lenzuolo, inchieste che hanno fatto storia, uno stuolo di firme una più pesante dell’altra. Scalfari ne diventò direttore nel ‘63 e premette subito l’acceleratore a fondo. L’anno dopo il settimanale superava d’impeto le 100mila copie. L’inchiesta del 1967 sullo scandalo Sifar, il progettato golpe De Lorenzo del 1964 e le schedature del servizio segreto, portarono il direttore e il cronista Lino Jannuzzi sulle soglie della galera, condannati a 14 e 15 mesi per aver calunniato il generale De Lorenzo nonostante il pm avesse chiesto l’assoluzione. Ma li portarono anche in Parlamento, dove arrivarono eletti nelle liste del Psi proprio per evitare la galera, e sul red carpet dei divi del grande giornalismo italiano.
La partita della vita, quella di Repubblica, cominciò con una serie di mani perdenti. La rottura con la tradizione era evidente appena preso il giornale in mano: formato tabloid, una novità assoluta in Italia, 6 colonne invece delle 9 di tutti gli altri, cultura nel paginone centrale invece che nella tradizionalissima terza, niente sport. Una testata nata per essere un secondo giornale: dunque non per tutti, molto politica, molto selettiva, roba per palati fini. Forse troppo fini. Le vendite languivano, le casse erano desolate. Senza il sostegno del lanciatissimo Espresso e soprattutto senza l’aiuto del potente leader del Psi Giacomo Mancini, che garantì i cospicui prestiti del Banco di Napoli, la creatura sarebbe perita in culla. Invece si trascinò un po’ faticosamente, civettando con i movimenti giovanili, fino al 1978. Poi il sequestro Moro fornì l’occasione d’oro. Repubblica divenne la testata guida della linea della fermezza, scoprì la vocazione di giornale partito destinato non solo all’élite ma anche al ben più vasto volgo.
I titoli a effetto anche a costo di contraddire i contenuti dell’articolo, l’apertura allo sport, una serie di battaglie frontali, prima contro Craxi poi, a lunghissimo contro Berlusconi, le scommesse sempre perdenti su leader come Berlinguer o De Mita capovolsero il verdetto dei lettori. Repubblica prese la rincorsa, raggiunse il pareggio di bilancio, con 180mila copie, nel 1980. Dopo sei anni di rincorsa superò nel dicembre 1986 il Corriere della Sera. Eppure il colpo grosso arrivò solo l’anno seguente e non fu una grande inchiesta o una crociata politica. Fu un gioco basato sulla borsa, Portfolio. In tre mesi portò oltre 200mila nuove copie. Un’enormità. È il segreto di Eugenio Scalfari, la chiave della sua genialità. Scalfari è stato il pensatore che negli ultimi anni della sua vita si misurava con i nodi eterni della morte e della religione e allo stesso un mercante accorto, giornalista colto e sofisticato ma anche grande e sfrontato comunicatore di massa, erede della grande tradizione del giornalismo liberale e insieme rivoluzionario che ha rovesciato e capovolto tutti i canoni di quel giornalismo. Una miscela unica che lo ha reso forse il più grande giornalista nella storia di questo Paese. Di sicuro il più innovativo. David Romoli
Con lui scompare il miglior giornalista italiano. È morto Eugenio Scalfari: tra lui e Travaglio la stessa differenza che c’è tra Pelè e il calciobalilla. Piero Sansonetti su Il Riformista il 14 Luglio 2022.
È morto Eugenio Scalfari, è stato il più grande giornalista italiano del dopoguerra. Prima non so dire, io non c’ero. Sapeva fare tutto. È stato un grandissimo direttore, sapeva fare l’inviato, sapeva fare il commentatore, sapeva fare il polemista, ne sapeva di economia, sapeva fare i reportage. Era quasi unico. Io credo che senz’altro fosse il più grande.
Ci sono altri nomi che gli si possono accostare, quello di Montanelli, di Luigi Pintor e ci metto anche il nome di colui che era il mio direttore dell’epoca, meno famoso forse, Alfredo Reichlin. Un gigante sottovalutato. Però Scalfari era il numero uno, un giornale come Repubblica non l’aveva mai immaginato nessuno. Fu una bomba nel giornalismo italiano che era vecchio, oscillava fra i rimasugli del fascismo e i passi sgambettanti dei democristiani. Era paludato, non aveva verve, non aveva grinta, non creava opinione pubblica. Poi arrivò questa bomba atomica che fu Repubblica per meriti di Scalfari e del suo gruppo perché aveva con sé dei giornalisti grandiosi. Giampaolo Pansa ha riformato completamente il giornalismo politico, Bocca i reportage, poi c’era Biagi, Cavallari, tantissimi. Riuscirono a prendere un giornalismo morto e a trasformarlo per qualche anno, forse, nel miglior giornalismo europeo.
Scalfari ha cambiato spesso opinione anche se lui è stato essenzialmente Repubblica. Certo prima ha fatto tante cose: ha fatto Il Mondo di Panunzio, ha lavorato in Bankitalia, ha fatto L’Espresso con Arrigo Benedetti che era un grandissimo settimanale cambiando il panorama dei periodici italiani ma Repubblica è un’altra cosa perché è il giornale che più di ogni altro prese in mano e guidò l’opinione pubblica italiana.
Vedete, oggi i giornali inseguono il senso comune, allora i giornali guidavano l’opinione pubblica e Scalfari in questo fece davvero una rivoluzione. Riuscì a unificare pezzi di borghesia e pezzi di classe operaia, riuscì a dare una prospettiva di idee a un ceto intellettuale molto forte allora però un po’ sbandato.
Riuscì a fare Repubblica in un periodo difficilissimo, iniziava il terrorismo, la lotta armata, c’era una forte inflazione, la classe operaia che avanzava, la borghesia che si stava sgretolando dopo aver preso dei ceffoni così forti nel ’68 che ancora non si rimetteva in piedi. Li riuscì a ricucire, si certo, con dei grandi ondeggiamenti politici che riuscì a far diventare una sua forza.
Quando leggevi Repubblica sapevi che non stavi leggendo il giornale del Pc, della Dc, del Psi o di Confindustria, delle grandi corporation. Stavi leggendo il giornale di Eugenio Scalfari. Il suo strumento fondamentale era la cronaca. Repubblica fu un giornale fantastico perché faceva cronaca. Le note politiche di Pansa erano cronaca politica come nessuno aveva mai fatto, fu raccontata la politica fino alle cravatte, fino alle battutine, fino agli scherzi come noi non la conoscevamo.
La mia generazione ha imparato tutto da loro, in particolare da Pansa e da Scalfari che però non ho mai amato perché io stavo all’Unita e l’Unità aveva una posizione molto conflittuale. Scalfari soprattutto all’inizio era anti-comunista.
Mi offrirono anche due volte di andare a lavorare a Repubblica e non ci andai, quindi non ho nessun debito di riconoscenza nei suoi confronti anzi, l’ho sempre osteggiato. Però ragazzi, quello era giornalismo vero. Se oggi penso che non c’è più Scalfari non c’è più quel giornalismo li, leggiamo Il Fatto Quotidiano e La Verità. Fra Scalfari e queste cose qui c’è la stessa differenza che c’era tra Pelè e il calciobalilla. Piero Sansonetti
Addio al fondatore di “Repubblica” e “L’Espresso”: è morto Eugenio Scalfari. Nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924, dopo aver iniziato gli studi al Liceo Mamiani di Roma, Scalfari si trasferì con la famiglia a Sanremo. Il Dubbio il 14 luglio 2022.
Addio a Eugenio Scalfari, influente e autorevole innovatore del giornalismo italiano, fondatore del settimanale «L’Espresso» e poi del quotidiano «La Repubblica», ma anche scrittore capace di spaziare dal saggio al romanzo, politico con radici azioniste, radicali e socialiste e intellettuale liberaldemocratico di spicco. Il “padre” del nuovo giornalismo italiano, che ha fatto scuola nel mondo, è morto oggi all’età di 98 anni.
Tra i maggiori giornalisti e editorialisti del secondo dopoguerra, Scalfari ha dato vita nel 1955, con Arrigo Benedetti, alla rivista «L’Espresso» e nel 1976 a «La Repubblica» di cui è stato direttore per vent’anni. Partecipò alla fondazione del Partito radicale ed è stato anche deputato per il Partito socialista italiano (1968-72), vicepresidente del Gruppo editoriale L’Espresso e insignito di prestigiose onorificenze, quali quella di cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana (1996) e di Chevalier de la Légion d’honneur (1999) dalla Repubblica francese.
Nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924, dopo aver iniziato gli studi al Liceo Mamiani di Roma, Scalfari si trasferisce con la famiglia a Sanremo (il padre era direttore artistico del Casinò della “città dei fiori”) frequentando il liceo classico “G.D. Cassini” dove ebbe come compagno di banco il futuro scrittore Italo Calvino. Nel 1950 si sposò con la figlia del giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta, morta nel 2006, da cui ha avuto due figlie, Donata ed Enrica. Dalla fine degli anni Settanta Scalfari è stato sentimentalmente legato a Serena Rossetti, già segretaria di redazione de «L’Espresso», che ha sposato dopo la scomparsa della moglie Simonetta.
Addio al maestro Eugenio Scalfari, che inventò il giornale partito. Eugenio Scalfari non aveva modificato il giornalismo in Italia. Aveva creato il moderno giornalismo italiano. Paolo Delgado su Il Dubbio il 15 luglio 2022.
Eugenio Scalfari ha rovesciato il giornalismo italiano come un calzino. Si possono discutere molte suo posizioni, dissentire dalla scelta di fare del suo allora giovanissimo giornale, La Repubblica, il capofila della linea di fermezza ai tempi del sequestro Moro, nel 1978, dalla lunghissima crociata contro Silvio Berlusconi, un duello prolungatosi per anni e anni, o su mille altri particolari.
Ma il suo ruolo nel rivoluzionario il giornalismo italiano, il suo rappresentare uno spartiacque epocale, quello è al di sopra di ogni dibattito. Quando le rivoluzioni sono davvero tali si stenta a riconoscerle, a distanza di tempo, perché quel che allora era inaudito e inedito è diventato nel frattempo la norma. Eppure prima che Eugenio Scalfari e il suo compagno d’avventure di sempre Carlo Caracciolo si mettessero a cercare i capitali necessari per fondare un nuovo quotidiano, a metà anni ’70, non esisteva neppure l’idea di un giornale-partito che non dovesse rispondere a nessun padrino e si muovesse in modo autonomo, però come un partito e non solo come un “organo di informazione orientato” o come un foglio di partito propriamente detto.
Non era stato questo l’Espresso, il frutto della prima collaborazione tra Scalfari e Caracciolo. Si erano conosciuti nel1952 a Milano, quando il primo era appena stato licenziato dalla Bnl per un articolo al vetriolo contro Federconsorzi e il secondo si faceva strada come editore di pubblicistica industriale. Quando Arrigo Benedetti, direttore dell’allora leggendario Europeo, lasciò il settimanale perché scontento della nuova proprietà Rizzoli, scattò la scintilla. I tre si misero a cercare soldi, li trovarono dall’industriale italiano illuminato per eccellenza Adriano Olivetti, il 2 ottobre 1955 sfornarono una testata nuova sparando subito ad alzo zero con un’inchiesta di Manlio Cancogni che ancora oggi viene ricordata da tutti: “Capitale corrotta, nazione infetta”.
Con il suo formato lenzuolo, la raccolta di firme d’assalto, le inchieste da antologia, l’Espresso, diretto da Benedetti con Scalfari direttore amministrativo e giornalista economico e poi dal 1963 direttore a pieno titolo, era già una pietra miliare, aveva già coniugato la vocazione sociale e di denuncia ma anche d’élite e colta di testate come il famoso Mondo di Mario Pannunzio e lo stesso Europeo, con le esigenze dell’editoria di massa, alle quali Scalfari era tutt’altro che sordo. Ma la chiave dell’Espresso erano le inchieste, gli altarini scoperchiati, i segreti turpi svelati. Il colpo più grosso Scalfari e il suo cavallo di razza Lino Jannuzzi lo fecero nel 1967, quando misero in piazza il “piano Solo”, golpe progettato tre anni prima dal generale De Lorenzo, e i fascicoli raccolti dal Sifar, il servizio segreto, già diretto dallo stesso generale. Lo scandalo fu enorme, l’impennata di copie, che con Scalfari direttore avevano già superato nel primo anno quota 100mila, tangibile. Direttore e cronista, condannati per calunnia, rischiarono la galera, invece approdarono in Parlamento grazie alla candidatura-scudo offertagli dal Psi.
Ma il progetto Repubblica era un’altra cosa. Molto più ambizioso. Molto più azzardato. Quando la coppia Scalfari-Caracciolo la illustrò a De Benedetti, futuro editore di una a quel punto già affermata Repubblica, si sentirono rispondere che l’idea non aveva uno straccio di possibilità di successo. L’ingegnere regalò una cinquantina di milioni a titolo amicale ma nulla di più. I soldi i due li trovarono lo stesso e il 14 gennaio 1976 il nuovo giornale, col titolo preso di peso della Rivoluzione dei garofani portoghese dell’anno precedente e dal suo giornale guida, era in edicola. La nuova testate era inscritta nella tradizione del giornalismo della sinistra liberale e democratica della quale tuttavia rinnegava e rivoluzionava tutti i canoni formali, fortemente innovativo da tutti i punti di vista, dal formato tabloid alla scelta di rinunciare allo sport, sino all’uso spregiudicato come mai prima dei titoli, che dovevano arpionare il lettore anche a costo di rivelarsi molto lontani dai contenuti degli articoli.
Eppure le vendite sembravano dare ragione a De Benedetti. Il giornale di Scalfari era di gran moda e scarse vendite. Piaceva molto ai giovani di sinistra e impegnati, ai quali riservava massima attenzione. Destava massimo interesse con la cultura spostata dalla classica terza pagina al paginone centrale. Ma non bucava la massa, sopravviveva a stento, grazie ai prestiti del Banco di Napoli e alla corazzata Espresso alle spalle. Tutto cambiò con il sequestro Moro. Non solo Repubblica decollò solo in quei 55 giorni ma mise a punto la sua specificità in quella tragedia. Diventò un partito, nel senso che si ripropose per la prima volta apertamente di orientare l’opinione pubblica per proprio conto, concentrando tutte le forse sulla crociata in corso: la difesa strenua della linea della fermezza. Era nato un modello di giornalismo nuovo, che entrava in campo in prima persona, sosteneva leader politici, cercava di costruirne l’immagine e orientarne le scelte, ne contrastava altri con campagne durissime, come quella contro Craxi prima e contro Berlusconi poi. Oggi è la norma e lo è anzi anche troppo. Per l’epoca era una novità assoluta.
Nel merito Scalfari colse qualche obiettivo e ne mancò molti altri. Ma per quanto riguarda lo strumento non ci sono ombre: il successo fu trionfale. Eugenio Scalfari non aveva modificato il giornalismo in Italia. Aveva creato il moderno giornalismo italiano.
Giancarlo Perna per “la Verità” il 15 luglio 2022.
Tra le massime che Eugenio Scalfari coniò nella sua lunga esistenza, questa: «Gli italiani celebrano i morti con ridondanza e disprezzano il genio dei vivi». Farò l'opposto. Non lo celebrerò ora che se n'è andato alla bella età di 98 anni e ricorderò invece quanto di notevole ha fatto in vita, con molto ingegno e qualche mezzuccio.
Più che un grande giornalista, Scalfari è stato un influente capo partito. La sua ossessione fu quella di guidare la sinistra italiana attraverso i giornali che dirigeva. La sua voluttà, essere l'ispiratore dei leader che lo consultavano segretamente, sperando di averne l'appoggio nei chilometrici editoriali. Il suo talento più autentico fu però l'imprenditoria giornalistica.
Ha lasciato l'impronta sull'Espresso e La Repubblica, il rotocalco e il quotidiano di maggiore successo nati nel dopoguerra. Del primo fu cofondatore, longevo direttore, artefice della sua seconda vita in formato quaderno. Dell'altro, fu il fondatore e l'anima per 20 anni (1976-1996), facendone in pochi lustri il solo vero concorrente del Corriere della Sera. Come giornalista, la notorietà di Scalfari fu tutta italiana.
Come imprenditore dell'informazione, superò le frontiere nazionali. Raccontava, con la civetteria che non gli è mai mancata, che il direttore dell'Indipendent, incontrandolo per la prima volta, gli si presentò dicendo: «Io sarei lo Scalfari d'Inghilterra».
Negli ultimi anni, ha pubblicato libri di riflessioni credendo, come accade con l'età, che le proprie esperienze interessino il prossimo. Ne ho letto recensioni entusiaste che gli stessi firmatari, parlandone a quattr' occhi, ridimensionavano. Ha mantenuto fino all'ultimo la rubrica domenicale sulla Repubblica, ribattezzata «lenzuolata» per la vastità (12.000 battute).
Non aveva più l'eco degli anni migliori, relegati ormai al secolo scorso, ma ha continuato a suscitare commenti quasi ogni settimana. Talvolta ironici per qualche sfondone, talaltra per contraddizioni con tesi precedenti. Sono cose che a Scalfari sono sempre capitate e non ci ha mai badato. «La coerenza», diceva, «è la qualità degli imbecilli».
Ai giornalisti di grido, specie se laici, piace civettare col Papa. Riceverne le confidenze e intrufolarle negli articoli, è un'irresistibile tentazione. Ci cascò Indro Montanelli che cenò talvolta con Karol Wojtyla e ne scrisse fingendo di non volerlo fare. Quando Francesco salì sul Soglio, Scalfari lo monopolizzò.
Nelle «lenzuolate» ha citato spesso i pensieri che si erano scambiati e ha pubblicato 3 interviste. Non una è andata liscia. Per quelle del 2013 e 2014, la Santa sede ha smentito i virgolettati. Lui ha replicato che non registrava, né prendeva appunti e che faceva così da mezzo secolo. Perciò aveva scritto ciò che ricordava «come se fosse uscito dalla bocca del Papa». Con l'ultima del 2018, il Vaticano smentì addirittura che ci fosse stata l'intervista. Sconcertante? Forse. Ciò che conta, è che parlare con il Papa gli era stato di conforto avvicinandosi all'aldilà. Troppo ateo per rivolgersi direttamente a Dio, abbastanza politico da farlo col suo Vicario sperando in uno sconto.
Nel 1942, il diciottenne Scalfari era fascista, nel 1943 antifascista, nel 1945 azionista, nel 1946 votò monarchia, nel 1952 era liberale, nel 1955 radicale, ecc. Negli anni Sessanta, considerava il comunismo superiore all'Occidente. «Tutti i luoghi sulla maggiore efficienza dell'iniziativa privata», scriveva sull'Espresso, «sono castelli in aria di fronte ai risultati dell'economia sovietica». Auspicava che l'Ovest imitasse l'Est, sostituendo lo Stato ai gruppi privati. Se no, ammoniva, «il risultato della gara è già deciso in favore dell'Urss». Nel 1969, si batté per l'uscita dell'Italia dalla Nato. Nei decenni successivi, senza rinnegare nulla, sostenne l'opposto.
Nel 1968, per sfuggire alle noie giudiziarie di una campagna di stampa azzardata sul cosiddetto golpe del generale Giovanni De Lorenzo, divenne deputato socialista.
Suo protettore fu Giacomo Mancini, suo detrattore Bettino Craxi. Nel 1971, fu capofila nella sciagurata gogna al commissario Luigi Calabresi. Firmò, con altri 756 del bel mondo, una lettera aperta pubblicata sull'Espresso, in cui Calabresi era accusato della morte di Giuseppe Pinelli, l'anarchico precipitato da una finestra della questura di Milano.
Per gli extraparlamentari, che detestavano il commissario, fu il segnale di via libera. L'anno successivo, i killer di Lotta continua lo assassinarono. Decenni dopo, Scalfari dirà che quella firma «fu un errore» e cercò di rimediare appoggiando il figlio di Calabresi, Mario, nella sua sontuosa carriera giornalistica. Oggi, Calabresi jr ha preso il posto che fu di Scalfari alla guida di Repubblica. L'alleanza innaturale tra l'accusatore del padre e l'orfano ha sempre gettato un'ombra sull'idillio.
Barbapapà, questo il nome che si guadagnò nelle redazioni per quell'onore del mento che gli dava un'aria di profeta, non ha mai avuto una visione dell'Italia ma diverse e altalenanti. Il suo moto è stato: «Quel che giova a me, è giusto per tutti». Ha esaltato personaggi in auge, ripudiandoli nella disgrazia.
Corteggiato chi poteva avvantaggiarlo, attaccandolo se lo deludeva.
Quando, nei primi anni Settanta, ebbe l'idea di un quotidiano, si mise alla caccia di finanziatori per la futura Repubblica. Circuì prima Eugenio Cefis e ne sciolse peana: «Uomo di vaglia, intelligente, valido». Alla fine, Cefis non volle saperne. Scalfari reagì martellandolo per mesi sull'Espresso con il fine di distruggerlo.
Passò poi a Michele Sindona che gli fece balenare un consistente aiuto se avesse conquistato la Bastogi, società di Cefis, su cui aveva lanciato l'Opa. Ingolosito, il deputato Scalfari presentò un'interrogazione parlamentare di totale appoggio all'arrembaggio in Borsa: «Favorisce oltre 30.000 azionisti, unifica il mercato finanziario» e così via.
Letto il soffietto, Riccardo Lombardi, che del Psi era il responsabile economico, lo convocò dicendo: «Onorevole Scalfari, ricordi che per impegnare il partito deve chiedere l'autorizzazione. Il Psi non condivide il suo appoggio a Sindona». Quando il banchiere siciliano cadde in disgrazia, fece dietrofront, cominciando a prendersela con Giulio Andreotti che lo aveva pure lui appoggiato: «Che Sindona», scrisse, «abbia potuto per qualche tempo colpire la fantasia dei giornalisti, è comprensibile. Ma è inammissibile che un grande partito abbia accettato soldi per patrocinare le sue richieste».
Giustifica i giornalisti, ne tace i nomi e si impanca come se non ci avesse impresse le impronte digitali Finalmente, lui e il suo socio, Carlo Caracciolo, trovarono i mezzi per fare La Repubblica. Successivamente, entrò come finanziatore, Carlo De Benedetti. Scalfari lo turibolò come «cavaliere bianco della finanza italiana», andando a lungo d'accordo con lui, prima che in anni recenti subentrasse il gelo tra loro.
Nel 1989, gli cedette le sue quote di Espresso e Repubblica per 93 miliardi di lire. Altrettanto fece Caracciolo che ne prese 300. Così, diventato un Creso a 65 anni, Eugenio iniziò la sua feconda vecchiaia. Fino a ieri, quando se n'è andato dal mondo che ha calcato con intelligente destrezza.
È morto Eugenio Scalfari. Fondò “Repubblica”, il giornale-partito che ha mosso i fili della sinistra. Valerio Falerni giovedì 14 Luglio 2022 su Il Secolo d'Italia.
Eugenio Scalfari, tra i più influenti giornalisti italiani ed europei, è morto poche ore fa a Roma. aveva 98 anni. Un capriccio del destino ha voluto che si spegnesse il 14 luglio, data simbolo della Rivoluzione francese, evento storico da cui si sentiva culturalmente molto ispirato. Nato a Civitavecchia il 6 aprile del 1924, Scalfari è stato il primo direttore-manager dell’editoria italiana. Ha infatti fondato prima L’Espresso e poi Repubblica, due testate destinate ad incidere profondamente sulla politica nazionale e sul costume stesso degli italiani. Dopo la giovinezza a Sanremo, dove al liceo classico “G.D Cassini” ebbe come compagno di banco Italo Calvino, si iscrive al Guf (organizzazione degli universitari fascisti). In tale veste comincia a collaborare con alcune riviste.
Scalfari aveva 98 anni
Nei primi anni ’50, da cofondatore del Partito radicale, scrive per Il Mondo di Mario Pannunzio. Risale a quegli stessi anni anche la collaborazione con l’Europeo di Arrigo Benedetti. È proprio con con quest’ultimo che nel 1955 fonda L’Espresso, primo settimanale italiano d’inchiesta. Scalfari vi lavora nella doppia veste di direttore amministrativo e collaboratore per l’economia. E quando Benedetti gli lascia il timone nel ’62, diventa, appunto, il primo direttore-manager italiano, una figura all’epoca assolutamente inedita per l’Italia. Lo stesso doppio ruolo che poco più di vent’anni più tardi, nel 1976, si rivelerà determinante per il successo di Repubblica.
Avversario di Craxi e di Berlusconi
Nemico irriducibile di Bettino Craxi, nonostante l’elezione a deputato nel 1968 nel Psi, e, in tempi più recenti, di Silvio Berlusconi, Scalfari rende Repubblica un vero giornale-partito. Alla sinistra ex-post e neo-comunista, ormai orfana del mito sovietico e alla ricerca di nuovo centro di gravità, il direttore-manager offre la centralità della questione morale e l’obiettivo dei diritti civili. Due cavalli di battaglia che avrebbero inciso in profondità sull’elettorato del Pci fino a trasformarlo in un partito radicale di massa. E a condurlo dall’interlocuzione con il Quarto stato a quella con il terzo sesso.
La vignetta di Forattini su Barbapapà
A Scalfari, soprannominato anche Barbapapà, i suoi detrattori imputarono un eccesso di narcisismo egocentrico, ben colto da Giorgio Forattini quando lo immortalò in una vignetta nell’atto di ferirsi l’alluce dopo la gambizzazione di Indro Montanelli da parte delle Brigate Rosse. Dopo una lunghissima carriera al timone del giornale, negli ultimi anni Scalfari si dedica alla scrittura, anche con un’autobiografia uscita nel 2014 per i suoi 90 anni e allegata al quotidiano. Ateo dichiarato, ad un suo intervento su fede e laicità risponde papa Francesco, con una lettera a Repubblica pubblicata l’11 settembre del 2014. Nel 2019 l’incontro diventa un libro, ”Il Dio unico e la società moderna. Incontri con Papa Francesco e il Cardinale Carlo Maria Martini”.
Morto Eugenio Scalfari, addio a un fuoriclasse a senso unico: aveva 98 anni. Libero Quotidiano il 14 luglio 2022
È morto Eugenio Scalfari. Lo scrive la Repubblica sulla sua edizione online e sui social. "Ciao Eugenio, un secolo di giornalismo e passione civile", si legge in un tweet di Ezio Mauro, ex direttore del quotidiano.
Fondatore de La Repubblica, Scalfari era nato a Civitavecchia il 6 aprile 1924. Influente e autorevole innovatore del giornalismo italiano, fondatore del settimanale L'Espresso e poi del quotidiano La Repubblica, è stato anche scrittore capace di spaziare dal saggio al romanzo, politico con radici azioniste, radicali e socialiste e intellettuale liberaldemocratico di spicco. Un fuoriclasse a senso unico - ricorderete tutti le sue battaglie contro Silvio Berlusconi prima e contro Matteo Salvini poi - con un passato fascista come di recente aveva raccontato in una intervista a Tiziana Panella: "Ero un Balilla moschettiere, poi un giovane fascista. Ho denunciato dei gerarchi in un articolo e sono stato espulso dal Guf (Gioventù universitaria fascista). Mi hanno espulso, non ero fascista".
Ripercorrendo i suoi primi passi nel giornalismo, scriveva qualche tempo fa in un editoriale su La Repubblica, "personalmente scrivevo su alcuni giornali fascisti, tra i quali soprattutto Nuovo Occidente e Roma Fascista. Il giornalismo politico cominciò ad attrarmi fin da allora e lo praticai con molta soddisfazione". Tanto che molti anni dopo Scalfari ha dato vita nel 1955, con Arrigo Benedetti, alla rivista L'Espresso e nel 1976 a La Repubblica di cui è stato direttore per vent'anni. Partecipò alla fondazione del Partito radicale ed è stato anche deputato per il Partito socialista italiano (1968-72), vicepresidente del Gruppo editoriale L'Espresso e insignito di prestigiose onorificenze, quali quella di cavaliere di Gran Croce della Repubblica italiana (1996) e di Chevalier de la Légion d'honneur (1999) dalla Repubblica francese.
Nel 1950 si sposò con la figlia del giornalista Giulio De Benedetti, Simonetta, morta nel 2006, da cui ha avuto due figlie, Donata ed Enrica. Dalla fine degli anni Settanta Scalfari è stato sentimentalmente legato a Serena Rossetti, già segretaria di redazione de "L'Espresso", che ha sposato dopo la scomparsa della moglie Simonetta.
Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2022.
Con orgoglio posso affermare di non avere avuto maestri.
Sono sempre stato un autodidatta in tutto, pure nel giornalismo. Tuttavia, proprio il non avere usufruito di una guida mi ha indotto a trarre ispirazione dai migliori e persino a copiarli, attività che non considero sminuente bensì arguta. Eugenio Scalfari ha rappresentato per me, se non un modello da emulare, almeno un esempio da seguire, avendo egli mirabilmente coniugato la capacità giornalistica al genio imprenditoriale, cosa che non riuscì, tanto per citare un altro grande, a Indro Montanelli, il quale fu tanto ineguagliabile nella scrittura quanto poco brillante negli affari. Proprio Indro un dì, quando ancora dirigeva il Giornale, mi rivelò di essere convinto che il più grande direttore fosse proprio Scalfari.
Avendo novantotto anni suonati, Eugenio Scalfari non poteva certo sperare di tirare avanti ancora a lungo, dato che gli uomini più che vecchi non possono diventare, purtroppo. Ad un certo punto essi muoiono e ciò rattrista anche noi che rimaniamo, noi che nutriamo, nostro malgrado, la medesima aspettativa, quella di finire in una tetra tomba. Quando accade che qualcuno che abbiamo conosciuto sparisce, puntualmente emergono dagli anfratti della memoria ricordi sopiti o sepolti. Ed è quello che mi sta accadendo in queste ore, da quando ho appreso che Eugenio Scalfari, l'ultimo gigante del giornalismo, non c'è più.
Nato a Civitavecchia negli anni Venti del secolo scorso da genitori calabresi, Eugenio, a causa del lavoro del padre il quale ricevette l'incarico di direttore artistico del Casinò, frequentò il liceo classico di Sanremo ed ebbe come compagno di banco nientepopodimeno che Italo Calvino. Chissà perché spesso i grandi si incrociano su questa Terra! In tal caso trascorsero qualche anno gomito a gomito.
DALLA BANCA AL MONDO Era impiegato presso la Banca Nazionale del Lavoro quando, nel 1950, cominciò a scrivere per Il Mondo e poi l'Europeo. Ma non furono queste le prime esperienze nel settore. Scalfari prese a maneggiare la penna allorché era uno studente della facoltà di giurisprudenza e vergava su Roma Fascista (organo del Gruppo Universitario Fascista), di cui fu poi nominato caporedattore nel 1942.
Dal Guf Eugenio fu espulso addirittura con violenza, accusato di essere una sorta di infiltrato, un pesce fuor d'acqua, in sostanza, una rogna, un rompicoglioni, da vero giornalista quale fu, di cui liberarsi. Non era la fine. Ma non era neppure il principio di una carriera che fu sfolgorante, disseminata di successi, vittorie, raggiungimento di traguardi che in molti, se non tutti, ritenevano impossibili. Scalfari è stato un vincente poiché è stato uno che ci ha creduto.
E in cosa ha creduto? Non in Dio, poiché si proclamava ateo, bensì in se stesso. E ha fatto bene. Scalfari è stato colui che negli anni Sessanta ha portato L'Espresso, il più prestigioso settimanale dell'epoca, a livelli mostruosi di vendite. E questo trionfo lo ha persuaso che in Italia si potesse fondare un quotidiano di sinistra non marxista, ma moderata, oggi diremmo "progressista".
Quindi creò la Repubblica.
Era il lontano gennaio del 1976 quando comparve il primo numero in edicola, lasciando chiunque un po' perplesso in quanto il formato era quello del tabloid, mancavano lo sport e le cronache, sembrava un giornale un po' incompleto, marginale. Eppure Scalfari lentamente ma inesorabilmente lo trasformò in un fenomeno di moda. Diventò figo leggere la Repubblica, alla quale Eugenio diede presto una connotazione speciale, unica.
PRIMO QUOTIDIANO C'erano dei grandi racconti di politica e non solo che appassionavano, paginate intere che il lettore beveva con piacere. Furono parecchi gli apprezzati giornalisti che in quel periodo migrarono verso questo foglio e, allorché esplose la questione della P2 al Corriere della Sera, anche Alberto Ronchey ed Enzo Biagi, attratti da Scalfari, trovarono casa presso il giornale di Eugenio, il quale, fervente sostenitore dei valori essenziali e ormai quasi dimenticati del nostro mestiere, come il pluralismo delle voci, accoglieva sulle pagine punti di vista differenti e addirittura nettamente contrapposti.
Penso, ad esempio, alla rubrica proprio di Ronchey dal titolo «Diverso parere». Fu in quella fase che accadde una cosa incredibile: la Repubblica superò il Corriere, diventando primo quotidiano nazionale per numero di vendite. Tutto questo fu possibile grazie alla capacità professionale di Eugenio, che era altresì eccellente giornalista. Certo, i suoi articoli talvolta potevano risultare un po' troppo lunghi e tediosi, eppure affrontavano dei temi di così stretta attualità e chi li scriveva godeva ormai di tale generale stima persino tra coloro che non ne condividevano le opinioni che accendevano e tenevano vivo il dibattito pubblico.
SULLE SUE TRACCE Insomma, il fondatore di Repubblica è stato un uomo straordinario. Assunta la direzione prima dell'Indipendente e poi del Giornale, pur da una prospettiva politica opposta, cercai di imitare Scalfari per avvicinare e ingolosire il lettore, dal momento che la sua formula era stata efficace. I risultati non si fecero attendere.
Da Eugenio mutuai la polemica continua, una polemica che non si limitasse a distruggere ma che costruisse, o almeno tentasse di farlo, quantunque egli fosse più elegante di tutti quanti noi. Ottenuti strepitosi successi con boom di copie vendute, pure Scalfari prese a seguire me. Negli anni Novanta Lucia Annunziata in tv gli chiese una opinione su di me e Scalfari affermò lapidario: «Feltri è un mio figlio degenere». Queste parole mi fecero sorridere poiché compresi che probabilmente Scalfari si fosse reso conto che lo avevo preso in qualche maniera a modello.
Alcuni anni fa ebbi l'onore di essere sfidato a duello da Eugenio per mezzo di un articolo, avendo da qualche giorno avviato una sorta di botta e risposta egli dalle pagine di Repubblica e io da quelle di Libero. Non mi sovviene adesso quale fosse la tematica in oggetto, ma mi divertì questo spirito cavalleresco di Scalfari al quale risposi di scegliere bene l'arma in quanto con il fioretto e la spada me la cavo essendo stato uno schermitore.
L'ultima volta lo vidi presso il ristorante il Baretto di Milano. Mi accorsi della sua discreta presenza soltanto alla fine della cena. Se ne stava nel tavolo accanto, in compagnia di una signora. Prima di andare via mi avvicinai per porgergli un saluto ed egli, guardandomi dritto negli occhi, tuonò: «Vittorio, attento ché ti seguo». «Eugenio, io seguo te da tutta quanta la vita!», replicai. Caro Eugenio, spero però di seguirti il più tardi possibile nell'aldilà. Sei stato il papa dei giornalisti e non per il tuo scambio epistolare con il pontefice, di cui tutti noi colleghi fummo, in fondo in fondo, invidiosi, bensì per la tua indiscutibile bravura.
Mi hai insegnato che il vero giornalista non si pone mai né un gradino sopra né un gradino sotto rispetto al suo interlocutore, chiunque questi sia, perché occorre parlarsi alla pari. Ora un ingiustificato senso di superiorità divora i giornalisti e avvelena le penne. Ma forse fa addirittura peggio quel senso di inferiorità che pure li anima inducendoli a leccare oggi questo e domani quello. Intanto il giornalismo muore. Anche lui.
Unico e irripetibile. Un vero combattente ma quasi mai dalla parte giusta. Paolo Guzzanti il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
L'amicizia e l'avventura della nascita di "Repubblica", i tentativi in politica, il passato fascista, le solenni riunioni in redazione, l'addio alla direzione. L'uomo e il giornalista visti da vicino.
Quando eravamo molto amici e lavoravamo insieme capitava di sfiorare l'argomento della morte e Eugenio Scalfari sorridendo mi diceva: quando arriverà il momento pensaci tu. Adesso il momento è arrivato e trova disarmato me e tutti coloro che l'hanno conosciuto e coloro che lo hanno adorato. Io appartengo alla seconda schiera: fino alla metà degli anni Ottanta adorai quest'uomo unico, irripetibile e non paragonabile ad alcun altro giornalista italiano o straniero. Tanto per cominciare Scalfari non era un giornalista ma lo diventò quando fece un suo giornale ai tempi dell'Espresso e poi più ancora quando fondò quasi per ripicca il rivoluzionario quotidiano in formato tabloid che si chiama Repubblica. Con quel giornale straccio tutte le tradizioni dei quotidiani canonici, inventò la riunione di redazione come messa solenne, fece sparire la terza pagina di cultura inventando un paginone che si ampliò ai dibattiti e alle arti. Scalfari puntava sulle firme più scintillanti dell'epoca e aveva un rapporto di odio amore con l'unico che gli potesse tener testa: Indro Montanelli.
Con coraggio spudorato, lui come Giorgio Bocca, Indro Montanelli e pochissimi altri rievocava con nostalgia incolpevole l'incommensurabile amore che aveva avuto per il fascismo di cui apprezzava prima di tutto la sgargiante uniforme con lo spadino. In mezzo alla guerra, scrisse due articoli per il giornale studentesco in cui sosteneva che il fascismo purtroppo cadeva perché tradito da affaristi, magnoni, parassiti. Il segretario fascista dell'epoca, certo Costa, lo convocò nella sede del partito e gli chiese brutalmente di fare i nomi di questi traditori. Il giovane fascista Scalfari non aveva alcun nome da offrire perché, come confessò, aveva inventato tutto per farsi bello davanti ai gerarchi. E così fu letteralmente spogliato dal segretario fascista che dopo avergli strappato le mostrine alla maniera di Dreyfus, lo schiaffeggiò gridandogli di andare fuori dal partito fascista, che non aveva bisogno di cialtroni come lui. Invitato in televisione a parlare del libro in cui raccontava questa storia, modifico con un colpettino gli avvenimenti che aveva da poco stampato in questo modo: mi rendevo conto già allora che il fascismo fosse fradicio e che avesse bisogno di un potente scrollone per essere abbattuto nella guerra ormai persa. Non era vero, stava inventando, così come ha sempre fatto, in maniera letteraria, ai limiti dell'innocenza. Scalfari ha creato un tipo di giornalismo «da campagna»: cioè che agisce soltanto per raggiungere un fine politico si tratti di attaccare a sangue Bettino Craxi, poi Silvio Berlusconi e poi tutti i nemici di Ciriaco De Mita, incluso Francesco Cossiga il quale per anni andò a pranzo a casa sua ogni venerdì ma poi divento il matto da cacciare dal Quirinale. Eugenio inventò anche un'arma segreta: il cono d'ombra. Non è soltanto una figura retorica. È uno strumento di tortura che equivale alla morte civile. Io lo so perché l'ho sperimentato: ero passato alla Stampa, rompendo con i sodalizi e l'autocompiacimento della antica casa madre di Repubblica.
Ma ci siamo sempre voluti bene ugualmente. È questo fa onore a lui che è stato un grandissimo combattente quasi mai dalla parte giusta. L'ultima volta lo incontrai in una piccola libreria antiquaria. Arrivò sorretto da due giovani che gli permettevano di camminare malgrado una forma di artrosi molto fastidiosa. All'inizio finse di non riconoscermi, poi mi comunicò che ero molto cambiato e non sembravo più me stesso. Erano parole che significavano: ti ho perdonato e sei autorizzato a rivolgermi la parola. Gli raccontai che cercavo dei libri sul 1943 per scrivere di quell'anno e lui esclamò: «Il 1943 fu un anno ancora fascistissimo. Purtroppo il mio amico Italo Calvino aveva la strada facile per sfuggire al servizio militare: bastava che aprisse la porta posteriore della sua casa in montagna e se ne andava nei boschi facendo il partigiano. Io, dietro la porta di casa mia, avevo il Vaticano e dunque feci il partigiano dentro la Santa Sede. Italo Calvino fu il suo tormento oltre che il suo compagno di banco al liceo di Sanremo dove la famiglia Scalfari si trovava perché il padre di Eugenio dirigeva il casinò. Racconteranno più tardi entrambi, Eugenio e Italo, che il futuro autore del Cavaliere inesistente era già diventato in cuor suo comunista e lo comunico con segreta trepidazione all'amico Eugenio che viceversa era un patriottico monarchico oltre che fascista. Più tardi Italo Calvino scrisse delle lettere ferocissime contro l'amico Eugenio criticando quella che a lui sembrava pura codardia, incapacità di scegliere di fronte alla tragedia in cui l'Italia fascista si era ficcata.
Scalfari era entrato in politica per caso: condannato in primo grado con Lino Jannuzzi per gli articoli pubblicati sull'Espresso in cui si raccontava di un ipotetico golpe ordito dal presidente Segni e dal comandante dei carabinieri (storia che si rivelò poi del tutto falsa), Scalfari chiese aiuto al segretario del partito socialista Giacomo Mancini che candido lui a Milano e Jannuzzi a Sapri. Eletti entrambi Eugenio si scatenò in una guerriglia all'interno del partito socialista contro Bettino Craxi, il quale vinse l'ultimo round facendo pubblicare sul Corriere della Sera la notizia secondo cui Scalfari avrebbe pronunciato le fatidiche parole «lei non sa chi sono io» a un vigile urbano milanese. Trombato alle elezioni tento di rientrare all'Espresso come direttore ma trovo uno sbarramento. Fu allora che concepì la sua grande opera e la sua grande vendetta: Repubblica. Poco prima che il giornale uscisse mi telefono in Calabria, dove lavoravo, per assumermi e il 14 gennaio del 1976 cominciò quell'avventura di alta e divertente pirateria con Giorgio Forattini che disegnava la vignetta. C'erano firme strappate al Giorno come Giorgio Bocca e Natalia Aspesi e un pattuglione di ragazzi di cui molti diventarono famosi. Quel giornale fu così potente che nella stanza di Eugenio vidi nascere e morire parecchi governi, cosa che appagava il suo Ego barbuto ed elegante.
Scalfari era prima di tutto un politico, componeva e scomponeva alleanze, diceva di detestare Berlusconi ma poi si scoprì che andava ad Arcore per suonare assieme al fondatore di Forza Italia e a Fedele Confalonieri al pianoforte la rapsodia in blu di Gershwin. Quando Carlo De Benedetti che era diventato il suo editore lo venne a sapere, decise di farlo fuori e di consegnare l'aulico trono di Eugenio al giovane e più fidato Ezio Mauro. Fu così che Scalfari che era anche un realista chiese e ottenne di poter fingere di essere stato lui a scegliere Mauro e di poter vedere il proprio nome sotto la testata con la definizione di Fondatore.
Eugenio Scalfari è stato un personaggio rinascimentale, dotato di una cultura specialmente economica ma anche letteraria di primissimo ordine, con un senso settario delle amicizie, un umorismo spiccato e, cosa che più di tutte mi colpì quando lo conobbi, innamoratissimo delle sue due figlie che poi gli dedicarono un bellissimo documentario mandato in onda da Raitre pochi mesi fa. Disse di non temere la morte. È inevitabile, a che vale prendersela. Aveva già accompagnato al cimitero quasi tutti i suoi amici più cari.
L'addio al giornalista. Chi era Eugenio Scalfari: un prodigio perfido, amabile e multiforme. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 15 Luglio 2022.
Era diventato un gioco fra noi: quando verrà il giorno, pensaci tu. Intendeva, il giorno del necrologio. Poi diventammo avversari. O meglio, lui mi applicò quel marchingegno medioevale riesumato dall’inquisizione che chiamava il cono d’ombra. Quando qualcuno esce, usciva, dal suo seminato, diventava improvvisamente invisibile come il Calandrino di Boccaccio quando credeva di aver trovato la pietra elitropia. E così mi applico il cono d’ombra quando diventai amico e confidente del presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ed ero ormai alla Stampa di Paolo Mieli, Lui, Eugenio Scalfari, stava brigando per cacciarlo dal Quirinale con un certificato medico di totale pazzia, dimenticando che Cossiga era stato il suo ospite di tutti i mercoledì a pranzo a casa sua dalla prima moglie, finché non consigliò lui stesso a Ciriaco De Mita di farlo eleggere presidente del Senato dopo la lunga depressione seguita all’assassinio di Aldo Moro.
Quanto ad Aldo Moro, Scalfari capeggiava con toni giacobini il cosiddetto partito della fermezza che voleva Moro morto e dimenticato mentre io facevo naturalmente parte dell’altro mondo, che andava da Craxi a Pannella a Lotta continua e una parte semiclandestina del Pci meno forcaiolo (in nobile gara con la Dc) il cui motto era “primum vivere” mentre quello di Scalfari era primum seppellire. Il nostro primo scontro fu allora, quando io e una decina di Repubblica firmammo l’appello di Lotta Continua per salvare la vita di Moro trattando se c’era da trattare. Io scrissi un fondo, che Eugenio mi cestinò, in cui ricordavo che il giovane Giulio Cesare, preso in ostaggio dai pirati Illiri, scrisse ai suoi di pagare il riscatto e che una volta libero tornò per crocifiggere tutti i pirati agli alberi delle loro navi. “Abile”, commentò Eugenio accartocciando il mio articolo prima di lanciarlo nel cestino.
Con Aldo Moro, Scalfari aveva un antico contenzioso: lui (perché direttore) e Lino Jannuzzi come autore erano stati condannati per aver scritto una serie di articoli sull’Espresso in cui si sosteneva che il presidente della Repubblica Antonio Segni, in combutta con il comandante dei carabinieri Giovanni De Lorenzo, avessero architettato un colpo di Stato chiamato in codice “Piano Solo” che avrebbe dovuto scattare nel 1964 imponendo l’arresto di migliaia di dirigenti comunisti e socialista, sindacalisti e anche alcuni democristiani che avrebbero dovuto essere arrestati (“Nottetempo casa per casa” recitava il suggestivo titolo) e poi concentrati in Sardegna a capo Marongiu. Il colpo sarebbe stato però sventato dall’intervento di alcuni politici, fra cui Giuseppe Saragat, futuro Presidente e il vecchio segretario socialista Pietro Nenni che aveva avvertito “un tintinnar di sciabole”, e secondo la leggenda ne sarebbe nato un alterco talmente violento da provocare un malore al presidente Segni che pochi giorni si dimise.
Gli articoli uscirono nel 1967 e Scalfari e Jannuzzi furono condannati, ma subito messi in salvo dal segretario del Partito socialista Giacomo Mancini che candidò Scalfari a Milano e Jannuzzi a Sapri per il Senato, sottraendoli così all’arresto. Scalfari fu costretto a lasciare la direzione dell’Espresso e si dedicò con ardore alla sua attività di deputato socialista a Milano dove si alleò con il vicesegretario del Psi Giovanni Mosca contro l’emergente Bettino Craxi aprendo un conflitto furioso che avrebbe dominato successivamente tutta la storia d’Italia e che si concluse con la morte ad Hammamet di Craxi inseguito dai mandati di cattura. Un successivo processo in appello scagionò Scalfari e Jannuzzi ma il primo attaccò violentemente Aldo Moro, segretario della DC, perché si era rifiutato di togliere gli “omissis” ovvero la censura a una serie di parole contenute in un documento che secondo Scalfari avrebbe dimostrato che il tentativo di colpo di Stato ci fu. Quando molti anni dopo il documento fu liberato dagli omissis si vide che non nascondeva alcuna verità segreta, ma intanto Scalfari e Moro erano diventati nemici irriducibili e uno degli esiti fu il famoso discorso alla Camera, che ascoltai con Scalfari a Montecitorio, in cui Moro disse che la Democrazia Cristiana “non si sarebbe fatta processare sulle piazze”.
Scalfari si ripresentò alle elezioni successive del 1973 ma fu trombato per una manciata di voti a causa di un articolo sul Corriere in cui si raccontava come il deputato Scalfari avesse detto a un “ghisa” (vigile urbano) milanese “lei non sa chi sono io”. La notizia aveva raggiunto Craxi che aveva amici a via Solferino, i quali misero in prima pagina la notizia che fece perdere a Scalfari i voti per essere rieletto. Ho avuto il privilegio di ascoltare le due versioni di questa storia, sia quella di Eugenio che di Bettino, Mi disse Eugenio:; ero alla stazione di Milano per prendere Serena (Rossetti, la sua seconda moglie) quando un vigile mi disse che dovevo spostare la macchina. Dissi: “E quella macchina lì?” “Quella? è del Prefetto” rispose il vigile. E allora replicai: “E io sono un deputato della Repubblica”. “Patente e libretto” disse il vigile. La patente era illeggibile perché era rimasta nel costume da bagno, ma secondo il vigile era scaduta. “Favorisca venire in caserma, prego” disse il vigile. E in caserma i cronisti seppero e il Corriere scrisse.
La versione di Bettino Craxi fu più breve: “Quel cretino (Scalfari) si era parcheggiato davanti alla stazione e aveva detto al vigile che lui poteva sostare dove voleva perché era un deputato: figurati i milanesi come l’hanno presa. Comunque, chiamai il Corriere, raccontai quel che era successo e così finì l’avventura del deputato Scalfari”.
Sconfitto, Eugenio tornò all’Espresso sicuro di riavere la sua scrivania di direttore, ma la famosa “banda dei quattro” composta da Livio Zanetti, Corbi e altri due che non ricordo, gli sbarrarono la strada. Scalfari poteva scrivere soltanto su un piccolo supplemento economico varato appositamente, chiamato “Lettera finanziaria”. Fu così che nacque Repubblica: Eugenio era furioso e decise di dar corpo a una sua antica idea: un giornale di formato tabloid ancora inesistente in Italia, con un “paginone” di cultura senza la tradizionale terza pagina. La storia di come Scalfari riuscì a mettere insieme un grande colletta raccolta da lui stesso e da Carlo Caracciolo che fu il primo editore del quotidiano, è lunga e nota.
A me accadde di incontrare e fare amicizia con Serena Rossetti in un ospedale in cui era ricoverato un mio caro amico redattore dell’Espresso. Scalfari mi convocò nella redazione dell’Espresso a via Po. Portava degli occhiali con una severa montatura d’acciaio e i suoi capelli e la sua barba erano brizzolati. Mi fece vedere i menabò, i progetti disegnati delle pagine del futuro quotidiano e mi parlo con quella voce impostata e deliziosamente trombonesca che imparai a riprodurre perfettamente e con la quale mi divertii a licenziare un caporedattore detestabile, e convocare redattori nel suo studio. La sua voce normale era del tutto amichevole e romanesca e anzi creammo subito una speciale parlata duale che mantenemmo finché fu viva la nostra straordinaria amicizia. Mi affidò servizi che equivalevano a una tesi di laurea: parti, vai dove ti pare e portami un resoconto su come è nata la borghesia europea. E mi costringeva preventivamente a leggere l’enorme e affascinante carteggio fra i fratelli Verri e le cronache vive della Rivoluzione francese e la giustizia britannica. Oppure mi spediva sulle orme di Ulisse o sulla scia dei galeoni della Serenissima. Ma più che altro cronaca politica quotidiana, da scrivere sempre in modo letterario, immaginifico, settario perché il suo era un vascello pirata e non un piroscafo di linea.
Quando uscì un libro intitolato Il cittadino Scalfari, ne gettò una copia sul grande tavolo su cui si celebrava la famosa “messa cantata”, ovvero la riunione del mattino, e disse. «In questo libro si sostiene che io sia stato prima fascista, poi monarchico, liberale, radicale, socialista, comunista e democristiano. Ebbene, è tutto vero». Nel bellissimo documentario che gli hanno dedicato pochi mesi fa le due figlie Donata ed Enrica che lui adorava (e sull’adorare i figli eravamo in grande sintonia) rispondeva a una domanda sulla paura della morte: «Io non ho nessuna paura della morte. Non che sia contento di morire, ma non provo nulla di fronte a un fatto ineluttabile». Ed è morto così, di vecchiaia e molto ricco per il grande successo che ha avuto e la sua morte mi tocca perché per molti anni siamo stati davvero molto vicini anche quando ormai io non approvavo nulla dei suoi progetti politici, ma non è importante perché Eugenio Scalfari è stato un genio rinascimentale, un grandissimo artigiano e un costruttore di giornali.
Amava e odiava Indro Montanelli e fra loro la differenza era che Scalfari cominciò da direttore di giornale senza essere mai stato un giornalista mentre Indro era anche la quintessenza del redattore, dell’inviato specialissimo. Scalfari non è stato mai un inviato ma ha creato i migliori inviati speciali di un mestiere grandioso, ormai scomparso e presuntuoso, miserabile e nobile: quello di giornalista ai nostri modi, un giorno dietro una porta chiusa per strappare una dannata dichiarazione e poi la foresta, il Libano, le bombe, il sangue, la morte, lo champagne, gli alberghi di lusso e la fame, la sabbia, il mito del pezzo da spedire dettandolo al telefono, per poi aspettare col cuore in gola il giudizio di quell’uomo totalmente immodesto che confidenzialmente chiamavamo Zeus. Quando fu trovato il corpo di Aldo Moro nella Renault di via Caetani, tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù, (le due sedi storiche del Pci e della Dc) io piansi di rabbia perché odiavo il partito della fermezza, guidato proprio da lui, Scalfari, che avvertendo il trauma disse con fastidio: “Sussù! Animo, animo!”.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Fascismo e antifascismo. Scalfari fu bravissimo a costruire grandi nemici per un grande giornale. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 29 Luglio 2022.
Ad aprirmi gli occhi e un varco storico nella mente è stato un lettore che mi ha scritto una lunga lettera per spiegarmi che le ideologie erano ottime e che furono tempi d’oro quelli in cui fascismo e antifascismo potevano darsene di santa ragione con morti e feriti ma anche con tanta soddisfazione ideologica. Questo lettore poi specificava di essere di destra e soltanto alla fine rivelava ciò che non avrei mai pensato. E cioè che negli archetipi della storia d’Italia la guerra tra fascismo e antifascismo non è quella tra il fascismo di Mussolini e l’antifascismo dei partigiani e dei fuorusciti. No, il periodo storico che viene vissuto emotivamente in modo più intenso è quello della guerra civile tra Brigate Rosse e Brigate nere negli anni 70.
La prima immagine che mi viene in mente è quella del giudice Vittorio Occorsio (ucciso da una sola pallottola della lunga raffica esplosa da un giovane neofascista dei Nar) accasciato nella sua auto con un rivolo di sangue che si raggrumava sotto l’orecchio destro su cui marciavano centinaia di piccole formiche. Ero allora un giornalista di Repubblica e anche quell’immagine fa parte dell’album delle cose che non si dimenticano perché le abbiamo viste e vissute. Quando sentivo parlare dagli adulti di personaggi come Nitti, Salandra, Giolitti, o l’onorevole Curlo – famoso per il suo scambio di lettere con l’onorevole Meda – erano per me sconosciuti, inconoscibili, privi di qualsiasi appeal. Poi ho pensato che cosa potessero immaginare coloro che hanno dieci, venti, trenta anni meno di me e ho visto che la legge è sempre quella: la memoria esiste laddove esiste l’emozione del ricordo. Ciò che è possibile è fabbricare un’emozione creata ad arte, che è il mestiere della letteratura per parole o immagini. Come ognuno di noi sa, la creazione delle emozioni non ha niente a che vedere con l’informazione. Senza Tolstoj nessuno ricorderebbe l’invasione napoleonica della Russia.
Poi, nel 1976, mi sono trovato a far parte del fortunato gruppo che grazie a Eugenio Scalfari e con Eugenio Scalfari dette vita al più grandioso fenomeno del giornalismo italiano: il tabloid “Repubblica” di cui oggi tutti parlano perché Eugenio è morto. E cominciò un fenomeno che neanche Scalfari aveva previsto e solo in parte dominava: il giornale andava malissimo, le sottoscrizioni non bastavano, Carlo De Benedetti pompava soldi scommettendo su un’impresa che non era ancora sua ma lo sarebbe diventata quando Eugenio gli avrebbe venduto tutta la nostra baracca provocando crisi di pianto, discorsi strappacuore, l’ira di Giorgio Bocca, lo scoramento di tutti. Ma Eugenio vendeva. Quel che allora non sapevamo era che Scalfari prima di vendere a De Benedetti come era previsto nei loro accordi, andò a suonare al piano la Rapsodia in Blue di Gershwin a quattro mani con Confalonieri. Secondo De Benedetti, il grande Eugenio era andato a proporre all’odiato Silvio il tesoro della corona. Quando De Benedetti decise di disfarsi di Scalfari, pensava di farlo con secca brutalità: l’editore non è soddisfatto del suo direttore, passi pure alla cassa per la liquidazione.
Tutto ciò me lo ha raccontato Carlo De Benedetti con cui facemmo insieme un libro intervista Guzzanti versus De Benedetti e io rimasi allibito: “Avevi davvero deciso di licenziarlo sui due piedi?”. De Benedetti raccontò di aver affidato al primo editore ed amico di Scalfari, il principe Carlo Caracciolo, la sua decisione. E che Caracciolo, dopo averla comunicata a Scalfari disse che Eugenio chiedeva che il licenziamento potesse essere fatto passare per dimissioni. Ezio Mauro gli subentrò nel giorno stesso, strappato al desk da cui dirigeva La Stampa di Torino (cosa che offese a sangue Gianni Agnelli), e portato a Roma per firmare il giornale del giorno successivo. La differenza tra l’antiberlusconismo di Scalfari e quello di De Benedetti è oggi l’argomento del giorno. E il bell’articolo di Michele Prospero, che è una riflessione presente su un passato pieno di paradossi, stimola chi c’era fin dall’inizio, come me, a ricostruire nel vissuto autentico quella vicenda. Scalfari era un antiberlusconiano molto particolare.
Lui aveva bisogno di grandi nemici per fare un grande giornale, che partì senza una linea politica ma che poi la trovò proprio grazie a quel genere di eventi: i rossi contro i neri negli anni Settanta e Ottanta, che creò allora un immaginario collettivo potentissimo, moltiplicato dalla Terza Rete della Rai da poco affidata al Partito comunista, che mise i migliori capitani al comando della sua flotta: Angelo Guglielmi direttore di RaiTre che sosteneva la necessità di dare voce alla realtà, ma selezionando le tonalità che allora si chiamavano voluttuosamente “sporche”. E l’altro era Sandro Curzi direttore del Tg3 subito ribattezzato fra i giornalisti come Tele-Kabul dal nome della capitale dell’Afghanistan invaso dai russi come oggi l’Ucraina. Fu allora che sia Scalfari che Berlusconi videro e fronteggiarono la nuova realtà complicatissima e sanguinosa di quegli anni muovendosi guerra senza mai uccidersi come lottatori giapponesi. Aldo Moro invece pagò con la sua vita perché non aveva capito bene quale fosse il gioco che si giocava fra chi creava la narrazione dei fatti presenti, da consegnare al futuro senza permettere alcuna correzione.
Lo scontro fra Brigate Rosse (certamente influenzate e in parte dirette dai servizi dell’Unione Sovietica come ho documentato su queste pagine come ex Presidente di una commissione d’inchiesta) e i NAR del terrorismo nero, gruppi armati cui si aggiungevano sigle oggi dimenticate, invasero potentemente l’immaginario di una generazione che oggi è fatta di cinquantenni, più o meno. Fu creato e disfatto il mito di una resistenza di destra e una di sinistra, una seconda storia d’Italia da una centrale di potere, quella di Repubblica, che esercitava un fascino crescente sull’opinione pubblica. Erano gli anni in cui il quotidiano Repubblica si indossava nella tasca posteriore dei jeans e sul portapacchi della bicicletta.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Paolo Conti per il “Corriere della Sera” il 15 luglio 2022.
Paolo Guzzanti, l'episodio fa parte della mitologia del giornalismo italiano. Eugenio Scalfari che si stende davanti all'ascensore della redazione de «la Repubblica» per impedire il tuo trasloco al «Corriere».
Come andò?
«Era il 1984 e avevo già firmato un accordo con Piero Ostellino. Avevo voglia di cambiare. Gli chiesi di finire il mio servizio da Varsavia sull'assassinio di padre Jerzy Popielusko. Una sera trovai un telegramma in albergo: "Sono stato a Milano Stop Non aggiungo altro". Tornai di corsa a Roma...».
E a Roma?
«Corsi in redazione. Scalfari, fingendo di non vedermi e parlando col vicedirettore Gianni Rocca, cominciò a dire a voce alta e davanti alla redazione (e qui Guzzanti imita alla perfezione la voce dell'originale): "Se davvero Guzzanti volesse andare al Corriere della Sera dovrebbe usare l'ascensore. Se io mi stendo qui davanti, significa che deve passare sul mio corpo, capisci?". Arrotolò la giacca, ne fece un cuscino, cominciò a stendersi. Applausi fragorosi di tutta la redazione. Scrissi una lettera di miserevoli scuse a Ostellino...».
Com' era lavorare con lui?
«Anni irripetibili con un uomo fantastico che ti ordinava: "Ora parti, vai dove vuoi e mi racconti la storia della nascita della borghesia europea". E mi lasciava in portineria il volume Adelphi con il carteggio dei fratelli Pietro e Alessandro Verri tra il 1766 e il 1767... Chi, se non lui?».
Senti di dovergli molto?
«Molto? Tutto. Direi tutto ciò che penso, anche in contrasto con lui».
Conflitti?
«Durissimi, durante il caso Moro. Lui era contro ogni trattativa, io e altri in redazione a favore. Tra noi ci fu una frattura emotiva, anche amicale, nei rapporti personali».
Vi siete voluti bene?
«A un certo punto, io ero alla Stampa , seppi che c'era stata una gran cena da Sandra Verusio in cui era stato decretato che io dovessi finire nel cono d'ombra del gruppo. Significava che se incontravi qualcuno per strada, cambiava marciapiede. Un giorno lo vidi e gli dissi: "A me, di finire nel cono d'ombra mi fa un baffo, tanto continuerò a volerti bene". E lui: "Anch' io credo di volerti bene". Non: "ti voglio bene". Ma "credo di volerti bene"...».
Scalfari era famoso anche per le inimicizie.
«Aveva bisogno di grandi nemici per affrontare grandi battaglie e fare un grande giornale. Il suo contrasto con Craxi occupò i pensieri dell'Italia per anni».
Il suo giornalismo era colto, letterario...
«Durante le riunioni citava continuamente i Promessi Sposi come sterminato catalogo delle tipologie umane italiane. E Ariosto. Il suo immenso fascino gli consentiva di aprire dibattiti sia su ciò che padroneggiava alla perfezione, penso all'economia, sia su materie su cui era orecchiante, per esempio l'arte contemporanea: ma frequentava personaggi di altissimo livello e gli bastava ascoltarli per impadronirsi del tema».
Un difetto?
«Tra i tanti (ride) la sua capacità di troncare importanti rapporti umani, amicali e credo anche sentimentali, in un istante e senza spiegazioni». L'aspetto che amavi di lui? «L'autoironia. Un giorno arrivò in redazione e gettò sul tavolo una copia del libro "Il cittadino Scalfari" di Claudio Mauri, uscito nel 1983.
Disse a voce altissima: "Qui c'è scritto che io sarei stato prima fascista, poi monarchico, quindi liberale, dopo radicale, e poi socialista, quindi comunista e infine democristiano". Una pausa teatrale: "Ebbene, è tutto vero". Cosa puoi dire a un uomo così?».
Eugenio Scalfari e i suoi primi 90 anni. Redazione su correttainformazione.it il 28 Aprile 2014
Questo sito è nato per “dare voce a chi non ce l’ha” e per esprimere voci che non trovano spazio nel mainstream. Nonostante questo, pubblichiamo l’articolo di un nostro collaboratore su Eugenio Scalfari. Conoscere la sua storia è importante per conoscere la storia di questo Paese, di come è strutturato il potere culturale e i suoi legami con la politica. In particolare, con quella che Fulvio Abbate chiama la “P2 culturale della sinistra“. La storia di Eugenio Scalfari e del “Partito Repubblica-L’Espresso” fa comprendere, infatti, molto bene la deriva culturale e politica della sinistra italiana. Una sinistra passata dalla difesa dei diritti dei lavoratori a quella dei diritti “cosmetici” e che ha avuto il suo approdo finale nel Partito Democratico e in Matteo Renzi. Buona lettura.
La Redazione
Insieme a Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Enzo Biagi e Piero Ottone, Eugenio Scalfari è uno dei pilastri del giornalismo di questo Paese. Se ci limitiamo a questa vecchia generazione, la storia del giornalismo italiano contemporaneo potrebbe iniziare con Montanelli, il “principe del giornalismo”, uno che il secolo scorso l’ha vissuto quasi tutto andandosene nel 2001 qualche mese prima del crollo delle Twin Towers di New York. Classe 1909, Montanelli è il più vecchio di questa generazione di osservatori: vive le due guerre, attraversando il Fascismo con cui rompe dopo le guerre d’Etiopia e di Spagna, vede risorgere l’Italia dopo la Resistenza e osserva tutta la stagione della Prima Repubblica sino a Berlusconi, suo editore e poi nemico. Più giovani sono Biagi e Bocca, nati nel 1920, che a loro volta superano di quattro anni Ottone ed Eugenio Scalfari, entrambi del 1924. Direttore del “Secolo XIX” (dal 1968 al 1972) e poi del “Corriere della Sera” (dal 1972 al 1977), Ottone compirà 90 anni il prossimo 3 agosto – e intanto è già uscita una sua autobiografia: Novanta – mentre Eugenio Scalfari li ha compiuti il 6 aprile.
Per raccontare la storia della Repubblica di Barbapapà – questo il soprannome con cui Eugenio Scalfari viene spesso chiamato per la sua candida barba bianca che dà il titolo alla “storia irriverente” di Giampaolo Pansa – non dobbiamo sforzarci più di tanto, almeno se ci limitiamo a raccontarne gli eventi. C’è un Racconto autobiografico (appena uscito da Einaudi), che molti hanno già potuto assaporare all’inizio del “Meridiano” – La passione dell’etica – a lui dedicato (2012). Qui, mescolando quel rigore pulito della sua scrittura giornalistica e la lucida dolcezza del letterato che racconta i propri eventi personali, Eugenio Scalfari ripercorre la propria esistenza, iniziata a Civitavecchia alle 10.30 il 6 aprile del 1924. In questa città, all’ultimo piano di un palazzo ottocentesco, nella piazza centrale della città, nasce da una famiglia di origini calabresi, ma è a Sanremo (dove la sua famiglia si trasferisce nel 1938) che frequenta il liceo classico, compagno di banco di Italo Calvino.
Come Margherita Hack, anche Eugenio Scalfari a causa della guerra salterà l’esame di maturità. Questi sono gli anni – scrive – in cui “il viaggio ebbe il suo consapevole inizio”, gli anni delle letture e dei fermenti intellettuali, e anche dell’incontro con il Fascismo: “Io ero fascista. Ero cresciuto nel fascismo come tutti i giovani della mia età”, ma in qualche modo sarà poi il Fascismo ad allontanarsi da lui, quando nel 1943 il Guf (Gruppo universitario fascista) lo espelle dopo la pubblicazione di alcuni articoli su “Roma Fascista”. All’Università sceglie la facoltà di Giurisprudenza, e al termine degli studi finirà a lavorare in banca, che certo sarà anche “una specie di finestra aperta sulla società”.
Ma il destino di Eugenio Scalfari sembra seguire un altro disegno, simile a quello di un Kafka o di uno Svevo, impiegati anche loro – come racconta Luciano Vandelli in Tra carte e scartoffie (2013) – ma con una vocazione sotterranea per la scrittura, che in Scalfari si configura come “l’impossibilità di fare altrimenti”. Scrittura “in quanto comunicazione e quindi anche insegnamento. Insegnamento delle proprie idee e quindi anche politica”; e così Eugenio Scalfari inizia a scrivere “di economia, di politica, di filosofia. Scrivere e insegnare”. Mettendo tra parentesi l’esperienza adolescenziale di “Roma Fascista”, dobbiamo aspettare il 1947 per la sua entrata nella pubblicistica sulla “Nuova antologia”, con un saggio sulla politica finanziaria della Destra storica. Di qui le sue collaborazioni con il “Mondo” di Mario Pannunzio e con l’“Europeo” di Arrigo Benedetti con cui, nel 1955, fonda il settimanale “L’Espresso”: la linea politica è di centro-sinistra tanto che, con il Partito Socialista, Eugenio Scalfari – che si assesterà su posizioni liberali di sinistra – intraprenderà un’esperienza politica diretta sedendo in Parlamento dal 1968 al 1972.
Il 14 gennaio 1976 esce il primo numero di “Repubblica”: L’amore, la sfida, il destino. Un amore, perché Eugenio Scalfari sogna da anni di progettare un quotidiano nazionale tutto suo, di cui almeno è direttore anche se non del tutto proprietario. Una sfida, perché “Repubblica” nasce un bel giorno, dopo un periodo di propaganda, ma nessuno sa come andrà a finire – senza contare che il “Corriere”, a quell’epoca diretto proprio da Ottone, è un giornale collaudato, vende tanto ed è una vera e propria sfida raggiungerlo. Impresa non impossibile se pensiamo che il primo giorno il quotidiano di Scalfari – che apre con l’incarico a Moro e un’intervista al segretario del Psi Francesco De Martino – vende 300 mila copie; ma che si fa sempre più lontana quando una settimana dopo scende a 70 mila, assestandosi su questa cifra per due anni. Ma il destino che qui entra in gioco è quello di un direttore tenace, imprenditorialmente vincente, che ha già fatto fruttare all’“Espresso”, da direttore, un milione di copie. Ma questa è una sfida più grande, perché “Repubblica” non è un settimanale e ha la pretesa di essere il quotidiano più letto.
Oggi la sfida è vinta: “Repubblica” ha battuto il “Corriere” e, sulla scia del successo raccolto in questi anni, si è collocata sulla strada del rinnovamento. Ha cambiato grafica varie volte, ma credo che il suo successo stia nell’essere riuscita a cogliere, di volta in volta, gli umori dei suoi lettori. E oggi sta imboccando la strada di un nuovo giornalismo, riducendo lo spazio dedicato all’informazione partitica e alle notizie della giornata in generale, e sostituendolo con approfondimenti, reportage e interviste. Mentre lo spazio del commento si è sviluppato, “R2” è diventata più ampia. I giornali, definiti da Hegel “la preghiera del mattino dell’uomo moderno”, stanno cambiando anima e bisogna prenderne atto: non possono più aspirare ad essere la principale fonte di notizie perché ormai il loro posto è stato occupato dai loro siti, questi sì, i veri “quotidiani”. E al quotidiano cartaceo non resta che mettersi l’anima in pace, sperare di non scomparire vista la crisi degli ultimi anni che ne ha drasticamente ridotto le vendite, affrontando il cambiamento, l’unico possibile, prima che sia troppo tardi.
Nel 1996, Eugenio Scalfari passa il testimone della direzione di “Repubblica” a Ezio Mauro (tuttora in carica), ma continua ad esserne editorialista di punta e a tenere, sull’“Espresso”, la rubrica Vetro soffiato. Ogni domenica, sul lato sinistro, c’è il fondo a sua firma che continua nella pagina dedicata ai commenti. È “la messa cantata della domenica”, lo spazio istituzionale riservato al fondatore, col passare degli anni sempre meno formale, nel senso che qui Scalfari parla di politica, di economia, ma anche di tutto ciò che gli passa per la testa. È una sorta di “flusso di coscienza” l’“articolo scalfariano”, cioè – scrive Alberto Asor Rosa nel suo saggio introduttivo al “Meridiano” – “un mix estremamente sapiente di analisi, informazione, intrattenimento e giudizio politico e civile”; e non è strano sentire citare Montaigne o Cartesio e qualche riga dopo leggere una bacchettata a qualche collega o direttamente al presidente del Consiglio.
A partire da questi anni, la scrittura giornalistica – di analisi e di commento dei fatti della politica, dell’economia e della storia – viene completata con un’altra dimensione, che potremmo definire “letteraria”, fatta di riflessione su di Sé e sulla natura umana. Eugenio Scalfari abbandona quel linguaggio tagliente tipico dei suoi scritti più impegnati e dà vita ad una “riflessione saggistica etico–filosofica”: Incontro con Io (1994), L’uomo che non credeva in Dio (2008), Per l’alto mare aperto (2010), Scuote l’anima mia Eros (2011) e L’amore, la sfida, il destino (2013), ovvero “un viaggio dentro me stesso, ma non per tracciare un’autobiografia psicologica, bensì per raccogliere un materiale documentario utile a raccontare la natura della nostra specie”.
Eugenio Scalfari ha scritto moltissimo, ha intervistato grandi personaggi (da Berlinguer a papa Francesco) e ha svolto attività politica, non solo attraverso la penna, ma anche in Parlamento. La sua figura potrà non piacere, il suo narcisismo (di cui del resto non ha mai fatto mistero) potrà irritare: ma le sue idee, proprio perché impresse sulla carta, saranno giudicate dai posteri e potranno essere condivise o criticate. E Scalfari meriterà comunque di essere degno di rispetto: e per la sua storia e per l’influenza che il suo modo di fare giornalismo ha avuto sulle generazioni a venire.
Inflessibile (con gli altri). Il Fondatore tra profezie, opere, omissioni, voltafaccia e adulatori. Alessandro Gnocchi il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
Si riteneva l'erede di Pannunzio che lo aveva "scomunicato". Aveva il potere di lanciare carriere. Gli intellettuali hanno fatto a gara per paragonarlo a Kant e Spinoza...
Per quanto riguarda la caduta del fascismo, gli intellettuali antifascisti sono stati quasi del tutto ininfluenti. La maggior parte si acquattò negli anfratti del Regime, attendendo in silenzio la fine del fascismo per poter meglio raccogliere il potere culturale. Tra questi c'era anche Eugenio Scalfari, antifascista al caffè con gli amici, in camicia nera sui giornali dell'epoca, Roma Fascista, e con maggior coerenza e fedeltà alla battaglia spirituale del Duce, Gioventù italica e Conquiste d'Impero.
Scalfari si riteneva l'erede di Mario Pannunzio e della storia, parallela in molti momenti a quella del Partito liberale e radicale, di giornali come Risorgimento liberale e il Mondo. Peccato che Mario Pannunzio, nel 1968, prima di morire, diede disposizioni per il suo funerale tra cui spiccava quella di vietare la presenza di Scalfari. In un carteggio con Leo Vallani. Pannunzio dedicò a Eugenio queste parole:«È instabile, femmineo, esuberante. Non ha veri legami né affinità ideali e morali con nessuno. Tutto è strumentale, utilitario; tutto deve servire alla sua splendida carriera. Ha fretta, vuole arrivare. Dove? Forse non lo sa nemmeno». Anche l'amico Italo Calvino, compagno di liceo, accusò Scalfari di opportunismo. Erano ancora giovani. Forse il giudizio era ingiusto ma Scalfari sapeva certamente come muoversi con il potere e prima sposò il moralismo di Berlinguer e poi si accodò alla corrente democristiana di Ciriaco De Mita.
Categorico nelle questioni giudiziarie altrui, Scalfari non esitò a farsi eleggere, nel 1968, nelle liste del Psi al fine di farsi scudo con l'immunità parlamentare di una condanna a 15 mesi di carcere (in seguito al falso scoop sul presunto colpo di Stato noto come piano Solo). Poco incline a perdonare gli errori altrui, Scalfari sarà stato altrettanto spietato con se stesso? Chissà come giudicava l'aver firmato nel 1971, assieme al gregge degli intellettuali, la lettera aperta a L'Espresso sul caso Pinelli, un manifesto che contribuì a isolare il commissario Luigi Calabresi, poi ucciso da un commando di Lotta continua. Con Repubblica, Scalfari fece un miracolo editoriale, che nessuno potrebbe mai negare. Come commentatore, i maligni sottolineano i voltafaccia e gli errori di valutazione. Ad esempio, in campo economico, nel 1959, predisse sull'Espresso il sorpasso dei soviet: «Nel 1972 l'Urss sarà addirittura passata in testa non soltanto come potenza industriale ma anche come livello di vita medio della sua popolazione». Alla fine, quando il mondo cambiò, fu proprio Eugenio Scalfari a diventare il faro della nuova sinistra italiana che aveva abbandonato il marxismo senza rinunciare alla propria autoproclamata superiorità morale. Repubblica dettava la linea. Indicava quali scarpe, libri, viaggi, idee fossero degni di una sinistra illuminata. Negli anni Novanta, Scalfari schierò il giornale contro Silvio Berlusconi e Forza Italia. Nel 1994 firmò questa profezia: «Forza Italia è un partito di plastica che si scioglierà in pochi mesi». Quella contro Berlusconi fu una lotta affidata soprattutto a colpi bassi. Le idee non venivano proprio prese in considerazione. Fu un esame ai raggi x della vita privata di Berlusconi. Paradosso: non molti anni dopo, Scalfari dirà di fidarsi di Berlusconi più di Matteo Renzi. Altro paradosso: Berlusconi fu accusato di tutto, eppure Scalfari, e un'altra tonnellata di scrittori anti Biscione, hanno pubblicato e pubblicano felicemente per i marchi editoriali del leader di Forza Italia. Ed ecco Scalfari spuntare nel catalogo Einaudi con poesie e saggi, fino all'ingresso trionfale nella collana dei Meridiani Mondadori, di solito riservata ai classici. Tra i tomi di Proust e Svevo, c'è lui, il Fondatore, Eugenio Scalfari. Persino Papa Francesco ha baciato la pantofola di Eugenio al quale ha rilasciato interviste regolarmente smentite ma anche regolarmente ripubblicate tali e quali dai canali web del Vaticano.
Pochi uomini sono stati adulati come Eugenio Scalfari, che aveva il potere di lanciare e stroncare carriere intellettuali. Secondo i recensori delle sue opere, il «filosofo» Scalfari «reinventa la forma dello Zibaldone» di Giacomo Leopardi e ricorda Rilke, Montaigne, Rousseau, Keats, Shakespeare, Sterne. Scalfari fu accostato anche a Nietzsche, Croce, Cartesio, Socrate, Eraclito, Parmenide, Proust, Holderlin, Arendt, Valéry, Eckhart e Pascal. Tra i giudizi memorabili, ricordiamo almeno quelli del critico letterario Alberto Asor Rosa e del teologo Vito Mancuso, solo per caso all'epoca entrambi collaboratori di Repubblica. Alberto Asor Rosa: «Le cime della modernità sono scalate dal nostro autore con straordinaria agilità e incredibile capacità comunicativa, che però non diviene mai volgarizzazione». Vito Mancuso: «Cartesio, Spinoza, Kant, Freud ... sono i filosofi che hanno contribuito a formare Scalfari, che poi li ha per così dire superati». Avete letto bene: su-pe-ra-ti.
Il salotto buono (e snob) della sua "Repubblica". Stenio Solinas il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
Non era un quotidiano di partito, ma uno stile di vita. Che dettava la linea alla sinistra. Cosa leggere, cosa indossare, dove mangiare: il giornale come mondo (da comprare). Diede alla borghesia progressista l'illusione di essere "illuminata".
Nel 1976, quando Eugenio Scalfari fondò La Repubblica, aveva davanti a sé una florida prateria editoriale ben fortificata, ma a macchia di leopardo. L'unico quotidiano autenticamente nazionale, nonché organo del Pci, era L'Unità, con le sue sedi locali sparse per tutta la penisola, c'era poi Il Giorno a Milano, Paese sera a Roma, un po' di quotidiani generalisti di provincia e tutta una pletora di giornali militanti della cosiddetta ultrasinistra, a cominciare dal Manifesto per finire a Servire il popolo. Due anni prima, nella più ristretta e spelacchiata prateria editoriale di destra, Indro Montanelli aveva fondato il Giornale, con l'obiettivo di dar voce a un mondo minoritario che voce non aveva. Intelligentemente Scalfari fece sul versante opposto la stessa scelta, un quotidiano-mondo in cui si potesse riconoscere tutto quel ceto medio progressista acculturato, un po' a disagio con i giornali di partito, genericamente di sinistra, ma non necessariamente comunista, desideroso di vedere riconosciuto il suo ruolo di borghesia illuminata lì dove era tutto un tripudio di classe operaia, gioventù protestataria e lavoratori della Cgil.
Un quotidiano-mondo, non un quotidiano-partito, si badi bene. Scalfari era perfettamente a suo agio nel ruolo di consigliere del Principe, indipendentemente da chi fosse il Principe, quanto a disagio nello scegliere il Principe giusto e infatti le volte che scommise su un cavallo politico (il caso De Mita è l'esempio più clamoroso) regolarmente quel cavallo politico perse la corsa. Consigliere, del resto, vuol dire comandare per interposta persona, nonché concedere o negare i favori di un'opinione pubblica che nel quotidiano scalfariano credeva di vedersi riflessa come in uno specchio, accattivante e sprezzante, libertina e un po' corsara, convinta di essere la parte sana di una nazione infetta. C'era molto del marchese del Grillo in Scalfari, così come nei suoi lettori, un processo di osmosi che ha pochi precedenti.
Finché Scalfari è rimasto alla guida del suo giornale, quel mondo, che era poi anche uno stile di vita e, se si vuole, un modello comportamentale, con i propri tic, i propri tabù, le proprie miserie e le proprie grandezze, gli è rimasto fedele, al punto che si poteva indovinare il lettore di Repubblica per come si presentava vestito all'edicola, il concentrato dello shabby chicLasciato lui il timone, quel mondo si è andato via via appannando, così come andava appannandosi il suo specchio-giornale, e sempre più è subentrata la caricatura dell'uno come dell'altro. Venuta meno un'egemonia giornalistico-culturale, anche perché era andato intanto modificandosi radicalmente il campo sociale, economico e politico, tutto ha finito con l'assumere un sapore surreale, come quando in un palazzo signorile il maggiordomo si illude di sostituire il padrone di casa improvvisamente scomparso.
Fuori di metafora, di quel giornale-mondo sono rimasti sparsi frammenti, qualche volta ancora capaci di smaglianti beau geste, più spesso di sterili trombonismi e di interessasti equilibrismi.
Eppure, fino a che è durato, quel lettore-mondo di Repubblica è stato un po' la cartina di tornasole di cosa si dovesse leggere e di cosa si dovesse vedere al cinema, quali trasmissioni scegliere in tv, quale opinione corretta indossare nei salotti o nelle piazze, persino dove andare in vacanza, un concettato di conformismo maggioritario travestito da élite alternativa...Un universo a sé stante che bacchettava l'altra Italia lazzarona e nullafacente, maschilista e retrograda. E poco importa se poi i suoi abitanti, tornati a casa, si mettessero le dita nel naso e dessero della serva alla colf filippina. Leggere la Repubblica li rendeva comunque mondi dal peccato mortale di essere italiani alle vongole. Erano e restavano gli antitaliani, come da insegnamento scalfariano. Ovvero vongolari anche loro, ma con la puzza al naso e il mignolo alzato.
"Repubblica era persino più potente di un partito". Anna Maria Greco il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il bilancio: "Perse le battaglie politiche più importanti ma esercitò una influenza decisiva sull'elettorato".
Pierluigi Battista: fino a che punto Eugenio Scalfari era un giornalista politico? Voleva essere lui a far nascere e a far cadere governi?
«È stato l'interprete forse più efficace di un giornalismo interventista, basato sull'idea che i giornali non dovessero essere solo ricostruzione cronachistica dei fatti ma creare opinione. E alcuni tra i suoi più aspri nemici chiamavano Repubblica il giornale-partito. La sua carriera è sempre stata all'insegna della fusione tra giornalismo e politica, lui era interprete di un mondo diviso in due categorie, una che rappresentava le sue idee e l'altra. Una forma di manicheismo, che gli faceva distribuire pagelle. Lui era l'uomo-giornale, prima con l'Espresso poi con Repubblica».
Lo era Repubblica un «giornale partito»?
«In qualche modo sì, ma aveva un potere superiore ad un partito. Le battaglie politiche sulle quali Scalfari ha puntato il maggiore impegno, quella contro Craxi e per De Mita, quella contro Berlusconi, non sono state vincenti, ma l'obiettivo non era quello immediato quanto l'investimento a lunga durata sugli elettori, che erano solo in parte i lettori. Questa influenza stabile sull'elettorato la immaginò quando ancora i giornali contavano, ora non è più così».
Una formazione dell'opinione pubblica, influenzandola in un preciso senso politico.
«La sua intuizione era che più di apparati, burocrazie e congressi fosse efficace l'intervento culturale, che il giornale fosse il vero luogo dove si forma l'opinione. Non serviva per avere un certo numero in più di elettori-lettori, ma per farli partecipare ad un progetto politico collettivo. Il giornalismo politico lo vedeva come antropologia, il lettore ogni giorno doveva sapere dal suo giornale quali libri leggere, quali film vedere per costruire la sua opinione. Questo per lui era più importante di un partito».
Un potere che Scalfari usava sapientemente per attaccare gli avversari e sostenere gli amici.
«Si, ma come ho detto tante battaglie sulle persone le ha perse, lui inseguiva le sue idee. Appoggiava De Mita perché era avversario di Craxi e lui amava la prospettiva di un rapporto tra Dc e Pci che scavalcasse il Psi. Voleva traghettare il Pci sulle sponde della democrazia governativa, sciogliere l'involucro comunista per far emergere una sinistra progressista. Ogni volta che il Pci faceva un passo verso l'autonomia dall'Unione sovietica scriveva: Ecco ha passato la sponda. Dopo aver accarezzato l'idea di una terza forza laica, abbracciò quella di un mondo alternativo perché moralmente superiore e negli anni '80 sostenne Berlinguer, con il quale aveva un rapporto stretto, perché poneva la questione morale in alternativa al sistema democristiano. Amava Moro perché era favorevole ad un rapporto diverso con il Pci. Questo progetto politico era ostacolato da Craxi, che detestava perché era un altro da sé antropologico e si gettò a corpo morto su Tangentopoli pensando di spianare la strada a Occhetto. Invece, inaspettatamente per tutti, arrivò Berlusconi a cambiare le cose».
Scalfari come si sentiva: direttore di giornale, capo politico, consigliere dei leader...
«Aveva fatto la scelta, un po' snobistica, di essere interprete di una certa Italia di derivazione azionista, un'Italia minoritaria contro l'Italia alle vongole che avversava. La redazione l'adorava, le normalmente stanche e svogliate riunioni di redazione con lui diventavano liturgie in cui parlava con i politici con il viva voce e gli altri ascoltavano. Non voleva essere consigliere dei politici, dovevano essere i politici ad andare a casa sua. Ha inventato anche un nuovo linguaggio del giornalismo come racconto, coniato termini come razza padrona, nel suo editoriale della domenica raccontava il senso politico ma non solo di quello che accadeva. La storia è simile a quella di Indro Montanelli con Il Giornale, anche se tra i due c'era forte ostilità e differenza di personalità ambedue incarnavano il giornale d'opinione».
Una sola opinione o più opinioni, per non cadere nella faziosità?
«Anche chi non lo trovava simpatico deve ammettere che faceva parlare figure diverse e metteva al confronto le opinioni. Quando ci fu la crisi del Corriere della Sera per la P2 ospitò su Repubblica Ronchey e Biagi, in spazi specifici per far capire che non erano scalfariani e poi i due tornarono al Corriere della Sera. Leggeva molto gli altri, non solo se stesso come tanti, interloquiva, commentava e sapeva essere autocritico. All'origine, ad esempio, Repubblica non aveva la pagina sportiva perché voleva essere giornale d'élite, poi ci fu il cambio di passo e di natura».
L'Italia saluta un grande giornalista. Papa Francesco: "Ho perso un amico". Serena Sartini il 15 Luglio 2022 su Il Giornale.
Mattarella: "Un testimone lucido della storia repubblicana". Silvio Berlusconi: "Un avversario ma direttore appassionato".
Era L'uomo che non credeva in Dio (dal titolo del suo libro pubblicato nel 2008), eppure l'ateo che più amava dialogare con il Papa, ma anche con il cardinale Carlo Maria Martini, gesuita fine teologo e biblista e a lungo arcivescovo di Milano. Fin dal giorno della elezione al Soglio di Pietro, Eugenio Scalfari ha intrattenuto con Bergoglio un rapporto e un dialogo confidenziale, sia religioso che filosofico. Tanto che il Papa decise di concedere allo stesso Scalfari la sua prima intervista, a cui ne sono seguite tante altre, sempre poi smentite in alcune sue parti dalla sala stampa della Santa Sede.
Incontri a tu per tu, telefonate, lunghe interviste: un rapporto davvero speciale quello tra i due. Pochi giorni dopo l'elezione, Francesco lo chiamò: «Buongiorno, sono Papa Francesco». Poco dopo, il Pontefice riceve il fondatore di Repubblica a Santa Marta, in Vaticano. È l'inizio di un rapporto che non si interromperà più, che produrrà altre interviste, ricostruite e sintetizzate da Scalfari nel loro significato essenziale, mai smentito nel nocciolo delle questioni anche se con qualche distinguo da parte dell'ufficialità vaticana. «Qualcuno dei miei collaboratori che la conosce mi ha detto che Lei tenterà di convertirmi», scherza il Papa. Ribatte Scalfari: «Anche i miei amici pensano che sia Lei a volermi convertire...».
Il Papa lo chiama «amico». «Francesco ha appreso con dolore della scomparsa del suo amico, Eugenio Scalfari», riferisce il portavoce del Vaticano, Matteo Bruni. «Il Pontefice conserva con affetto la memoria degli incontri - e delle dense conversazioni sulle domande ultime dell'uomo - avute con lui nel corso degli anni e affida nella preghiera la sua anima al Signore, perché lo accolga e consoli quanti gli erano vicini», prosegue Bruni.
«Muore una delle figure chiave del giornalismo. Lo stile della sua interlocuzione con Papa Francesco mi ha sempre colpito. Anche l'ultima volta che l'ho sentito al telefono», scrive il direttore di Civiltà Cattolica, il gesuita padre Antonio Spadaro. «Due persone che avevano cura l'uno dell'altro», prosegue. Tanti i messaggi di cordoglio: dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella, al premier Mario Draghi prima delle dimissioni, fino a Silvio Berlusconi.
«Un vuoto incolmabile nella vita pubblica del nostro Paese», scrive il presidente del Consiglio dimissionario, per la morte «di un assoluto protagonista della storia del giornalismo nell'Italia del dopoguerra». Il presidente Mattarella ha affidato a una nota il suo dolore per la scomparsa di un «giornalista, direttore, saggista, uomo politico, testimone lucido e appassionato della nostra storia repubblicana» e «punto di riferimento coinvolgente per generazioni di giornalisti, intellettuali, classe politica e un amplissimo numero di lettori». Condoglianze anche da Silvio Berlusconi, storico avversario di Scalfari e del suo giornale. «È stato una figura di riferimento per i miei avversari in politica. Oggi, però - twitta il leader di Forza Italia - non posso non riconoscergli di essere stato un grande direttore e giornalista, che ho sempre apprezzato per la dedizione e la passione per il suo lavoro».
Tra le tante reazioni spicca quella di Forattini, vignettista storico di Repubblica di cui si ricordano screzi via interfono, botta e risposta via fax, il graffio della satira su Occhetto o De Mita, «amici» del direttore: ma tra Eugenio e Giorgio - racconta Ilaria, la moglie del disegnatore - c'è stato sempre un grande affetto.
Dopo un decennio i toni non sono cambiati e non sono cambiate nemmeno le fazioni, ognuna col suo “metodo”. Scalfari nel mirino di Travaglio che punta ai lettori di sinistra di Repubblica, scrive Francesco Damato il 25 Novembre 2017 su Il Dubbio. Da un po’ di tempo non gliene va bene una al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio. Accade sempre più di frequente che le buste gialle delle Procure, come le chiama Piero Sansonetti, raggiungano la concorrenza, costringendo Travaglio ad elogiare gli scoppisti di turno. L’ultimo buco giudiziario l’ha rimediato dal Corriere della Serasulla vicenda di una collaboratrice del ministro dell’Economia accusata di passare notizie riservate ad una società della quale era stata dipendente continuando a percepire un compenso anche dopo essere passata alla pubblica amministrazione. Poi è arrivato il corteggiamento degli scissionisti del Pd come leader dello schieramento elettorale antirenziano di sinistra al presidente del Senato Pietro Grasso. Al quale Travaglio non ha mai perdonato di avere vinto il concorso, a suo tempo, al vertice della Procura nazionale antimafia grazie ad una legge dell’allora governo Berlusconi che aveva escluso dalla corsa lo sgradito Giancarlo Caselli. Piuttosto che vincere in quel modo, Grasso avrebbe dovuto rinunciare alla nomina, secondo il direttore del Fatto Quotidiano. Ed evitare poi di apprezzare il contributo dato da alcune iniziative dello stesso governo Berlusconi alla lotta alla mafia, mentre c’erano pubblici ministeri che sospettavano ancora, come anche oggi, lo zampino degli uomini di Arcore e dintorni addirittura nelle stragi mafiose che accompagnarono la fine giudiziaria e politica della cosiddetta e odiata prima Repubblica. Poi ancora sono arrivate le cronache dalla Corte europea dei diritti umani sulle crescenti possibilità di Berlusconi – sempre lui – di vincere il ricorso contro la sua decadenza da senatore, quattro anni fa, e la relativa ineleggibilità con l’applicazione retroattiva di una legge quasi fresca di approvazione. E già tanto controversa da indurre anche l’ex presidente della Camera Luciano Violante a consigliarne il rinvio alla Corte Costituzionale. Per giunta, la decadenza fu deliberata al Senato con votazione innovativamente palese, voluta e annunciata nell’aula di Palazzo Madama dal presidente Grasso col conforto di un improvvisato e stentatissimo parere della commissione competente. Come se non bastasse tutto questo, è arrivata sul Fatto la tegola di Eugenio Scalfari che in televisione annuncia di preferire nelle urne e dintorni il vecchio nemico Berlusconi – sì, proprio lui – al candidato grillino a Palazzo Chigi Luigi Di Maio. Be’, a questo il povero Travaglio non ha retto. E si è a suo modo vendicato improvvisando in prima pagina un invasivo montaggio fotografico titolato Berluscalfari. E liquidando come un tradimento delle origini la nuova veste grafica, oltre che politica, della Repubblica di carta fondata da Scalfari nel 1976 e da lui stesso diretta per i primi vent’anni. Poiché non bastava evidentemente il fotomontaggio, Travaglio si è speso in un lungo editoriale contro Barpapi, variante berlusconiana dell’affettuoso soprannome di Scalfari nelle redazioni da lui dirette: Barpapà. Una variante perfida perché ispirata al soprannome papy assegnato all’allora presidente del Consiglio da una diciottenne al cui compleanno lui era corso procurandosi un’infinità di sospetti, pettegolezzi e quant’altro su cui il compianto Giuseppe D’Avanzo aveva imbastito per la Repubblicadi vecchia maniera un processo mediatico contro Berlusconi ruotante attorno a dieci domande. E dieci sono state volutamente le volte in cui Travaglio ha commentato con la parolaccia ‘stracazzi’ la svolta filoberlusconiana attribuita a Scalfari. Mentre Travaglio già si godeva lo spettacolo di una sostanziale retromarcia del fondatore di Repubblica, anticipata dal condirettore Tommaso Cerno a Corrado Formigli, di Piazza pulita, gli è caduto addosso come un’altra tegola il testo dell’intervento correttivo di Scalfari. Che per i gusti del Fatto Quotidiano è stato persino peggiore, perché si è tradotto in un endorsement del Pd, che Scalfari ha annunciato di voler votare anche la prossima volta, sperando però che poi Renzi e Berlusconi si mettano d’accordo in funzione anti grillina, vista ormai la impraticabilità di una ricomposizione del centrosinistra comprensivo degli scissionisti Bersani, D’Alema e compagnia varia. D’altronde il fondatore di Repubblica era già finito nella gabbia metaforica degli imputati custodita dal Fatto per i suoi confessati rapporti di amicizia e quasi di scuola, fatti di incontri, telefonate, consigli e quasi compiti a casa con l’odiato Matteo Renzi, prima e dopo il referendum dell’anno scorso sulla riforma costituzionale. Che Scalfari votò e difese, per quanto inutilmente, dalle critiche anche di un vecchio amico e prestigioso collaboratore di Repubblica come Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte Costituzionale. Ora la sorveglianza, diciamo così, del Fatto Quotidiano su Repubblica sarà prevedibilmente più stretta e fastidiosa. L’ambizione neppure tanto nascosta di Travaglio, e del suo predecessore Antonio Padellaro, entrambi provenienti da un’esperienza difficile all’Unità, è di poter sottrarre alla ‘ nuova’ Repubblica i lettori della sinistra al cubo, da altri definita radicale senza rispetto per il compianto Marco Pannella, insoddisfatti del berlusconrenzismo attribuitole da Travaglio col piglio di un pubblico ministero. Sarebbe una parabola al rovescio della vecchia o primaRepubblica, che irruppe nelle edicole più di 41 anni fa danneggiando due giornali orgogliosamente di sinistra come l’Unità e Paese sera, dalle cui redazioni Scalfari aveva prelevato eccellenti professionisti. Ma erano altri tempi. E ben altri erano i protagonisti mediatici e politici.
Odifreddi smonta le bufale di Scalfari. E Repubblica lo silura. Il matematico che ha smontato le bufale di Scalfari sull'incontro con Papa Francesco: "Calabresi doveva scegliere tra me e lui. Era ovvio che scegliesse il fondatore", scrive Chiara Sarra, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Alla fine Piergiorgio Odifreddi ha pagato caro l'articolo sul suo blog in cui smontava una ad una le "fake news" di Eugenio Scalfari sull'incontro con Papa Francesco. Il matematico che da 18 anni collabora con Repubblica è infatti stato silurato dal quotidiano fondato proprio da Scalfari. "Dopo il post su Scalfari di ieri il direttore Calabresi, com'era non solo suo diritto, ma forse anche suo dovere, mi ha comunicato che la mia collaborazione a Repubblica termina qui", scrive oggi Odifreddi nel suo commiato. In cui ricorda i precedenti "problemi di coabitazione" con il gruppo e si richiama alla "funzione sociale dell'intellettuale" che secondo Moravia "è di essere antisociale": "È forse dunque una mia colpa sociale, l'aver sempre cercato di dire ciò che pensavo, anche quando sarebbe stato più comodo o più utile (e a volte, forse, anche più corretto o più giusto) tacere", scrive ancora, "Ma ciascuno di noi è fatto a modo suo, e io sono fatto così. Dunque, un grazie a tutti, e a risentirci magari altrove". Poi, a Un giorno da Pecora su Rai Radio 1, Odifreddi ha spiegato che l'articolo in questione è stato pubblicato nel giorno dedicato al "fact checking", il controllo delle notizie. "In tal senso, Scalfari è recidivo", attacca ancora, "Lo dice il portavoce del Vaticano, che per tre volte lo ha censurato dicendo che aveva messo in bocca al Papa cose che non aveva detto. Che dica di esser andato dal Papa senza averlo fatto mi parrebbe eccessivo. Lui però fa sempre così: va a fare interviste senza prendere appunti e senza registratori, e poi dice quello che crede il suo interlocutore voglia dire. Una volta lo ha anche ammesso: io ho detto cose che il Papa non ha detto. Che affidamento si può fare in interviste di questo tipo?". E su Calabresi ha aggiunto: "È ovvio che dovendo scegliere tra me e Scalfari ha scelto il fondatore di Repubblica. Ma è il suo ruolo, io non ci sono rimasto male ed in parte me lo aspettavo". "Ciò non accade per le critiche a Scalfari, che sono lecite e fanno parte di un libero dibattito, ma per quello che hai scritto del giornale con cui collabori da anni", replica però Mario Calabresi, "Il problema è che non si può collaborare con un giornale e contemporaneamente sostenere che della verità ai giornalisti non importa nulla. Che oggi serva di più pubblicare il falso del vero. Questo è inaccettabile e intollerabile, non solo per me ma per tutti quelli che lavorano qui. Facciamo il nostro lavoro con passione e con professionalità e la gratuità delle tue parole di ieri ci ha fatto male. Tu sai di aver sempre goduto della massima libertà, ma l’unica libertà che non ci si può prendere è quella di insultare o deridere la comunità con cui si lavora. Mi aspettavo tu fossi conseguente con questa presa di posizione e ora non posso che dirti buona fortuna".
Odifreddi su Repubblica ora smonta le bufale di Scalfari su Francesco. Il matematico Giorgio Odifreddi attacca il quotidiano su Repubblica la stessa Repubblica e il suo fondatore, scrive Luca Romano, Lunedì 02/04/2018, su "Il Giornale". "Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di Papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa". A scriverlo, sul blog che tiene su Repubblica, è il matematico Giorgio Odifreddi. Che sostanzialmente attacca il quotidiano su cui scrive. Tema del contendere è l'intervista inventata a Papa Francesco e scritta da Scalfari. "Il fatto è che Scalfari - continua Odifreddi - non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre "interviste" pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del Papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica". E le bordate poi continuano: "Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica". Odifreddi poi prende di mira anche il giornale: "Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale".
E "Repubblica" denuncia le fake news di Scalfari. Odifreddi smaschera il fondatore sul suo stesso quotidiano: "Scrive bufale su Papa Francesco", scrive Stefano Zurlo, Martedì 03/04/2018, su "Il Giornale". Repubblica contro Repubblica. Piergiorgio Odifreddi versus Eugenio Scalfari. Parole durissime in un cortocircuito mediatico stupefacente che chiama in causa, nientemeno, papa Francesco. Come si sa, il fondatore di Repubblica ha il privilegio di un rapporto a tu per tu con Bergoglio. E viene invitato con una certa regolarità a Santa Marta, la residenza di Francesco. Il problema è che ogni volta il giornalista trasforma questi colloqui privati in interviste pubbliche. Confezionate senza prendere un appunto, senza registrare, senza rimandare il testo, non concordato, all'autore. Cosi Scalfari in versione pasquale è arrivato ad attribuire a Bergoglio una fake news, come la chiama, impietoso, Odifreddi, senza capo né coda: l'inferno non esiste, le anime dei dannati svaniscono. Odifreddi, matematico, divulgatore scientifico e firma di Repubblica, colpisce con asprezza il creatore del quotidiano, innescando un duello surreale, tutto interno al giornale. «Vale la pena soffermarsi - nota dunque Odifreddi - su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l'ultima solo pochi giorni fa». Di che si tratta? C'è solo l'imbarazzo della scelta, a quanto si può vedere. Il punto è che il canovaccio si ripete: «Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neoeletto Francesco nell'inesistente stanza accanto a quella con il balcone che da su piazza San Pietro (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti) all'ultima novità che secondo il papa l'inferno non esiste». Affermazione che obiettivamente farebbe a pezzi duemila anni di cristianesimo, anche se un teologo grandissimo come Hans Urs Von Balthasar ha sempre ripetuto: l'inferno c'è ma spero sia vuoto. Dispute teologiche. La questione che resta insoluta è un'altra: perché al di là delle puntuali smentite del Vaticano, Francesco non sia intervenuto per bloccare questa catena di incidenti. Odifreddi, ateo con una mentalità da cinico positivista dell'Ottocento, butta pure un po' di fango addosso a Francesco, azzardando ipotesi maliziose di strategia mediatica: Bergoglio accetterebbe lo sconquasso per ingraziarsi il secondo giornale italiano, passato da una linea laica a una posizione filovaticana. Odifreddi non viene nemmeno sfiorato dal dubbio che Bergoglio ragioni da prete, da pastore e si preoccupi della persona che ha davanti, della sua anima si sarebbe detto a catechismo, del percorso problematico e accidentato cominciato da Scalfari. È quel che risulta al Giornale: i colloqui fra i due sono in realtà, monologhi, o quasi, di Scalfari. Più interessante l'altra puntura di spillo di Odifreddi: perché non sia Repubblica a bloccare le fake news del suo illustre ex direttore. «Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali - è la risposta ustionante che il commentatore si dà da solo - non interessano le verità, ma gli scoop». Se fanno il giro del mondo, anche le bufale vanno bene. E cosi il collaboratore di Repubblica toglie ogni credibilità a Repubblica.
Le “fake news” di Scalfari su papa Francesco, scrive il 2 aprile 2018 Piergiorgio Odifreddi su "La Repubblica". Oggi è la Giornata Mondiale del Fact Checking, e vale la pena soffermarsi su una straordinaria serie di fake news diffuse da Eugenio Scalfari negli anni scorsi a proposito di papa Francesco, l’ultima delle quali risale a pochi giorni fa. Com’è ormai noto urbi et orbi, Scalfari ha ricevuto nel settembre 2013 una lettera dal nuovo papa. Fino a quel momento, per chi avesse seguito anche solo di lontano la cronaca argentina, Bergoglio era un conservatore medievale, che nel 2010 aveva scandalizzato il proprio paese con le proprie anacronistiche prese di posizione contro la proposta di legge sui matrimoni omosessuali, riuscendo nell’ardua (e meritoria) impresa di coalizzare contro di sé un fronte moderato che fece approvare in Argentina quella legge, ben più avanzata delle timidi disposizioni sulle unioni civili approvate nel 2016 in Italia. Dopo la sua lettera a Scalfari papa Francesco si è trasformato per lui, e di riflesso anche per Repubblica, in un progressista rivoluzionario, che costituirebbe l’unico punto di riferimento non solo religioso, ma anche politico, degli uomini di buona volontà del mondo intero, oltre che il papa più avanzato che si sia mai seduto sul trono di Pietro dopo il fondatore stesso. Fin qui tutto bene, o quasi: in fondo, chiunque ha diritto di abiurare il proprio passato di “uomo che non credeva in Dio” e diventare “l’uomo che adorava il papa”, andando a ingrossare le nutrite fila degli atei devoti, o in ginocchio, del nostro paese. Il fatto è che Scalfari non si è limitato alle proprie abiure personali, ma ha incominciato a inventare notizie su papa Francesco, facendole passare per fatti: a produrre, cioè, appunto delle fake news. In particolare, l’ha fatto in tre “interviste” pubblicate su Repubblica il 1 ottobre 2013, il 13 luglio 2014 e il 27 marzo 2018, costringendo altrettante volte il portavoce del papa a smentire ufficialmente che i virgolettati del giornalista corrispondessero a cose dette da Bergoglio. Addirittura, la prima intervista è stata rimossa dal sito del Vaticano, dove inizialmente era stata apposta quando si pensava fosse autentica. Le interviste iniziano pretendendo che gli incontri con Scalfari siano sempre scaturiti da improbabili inviti di Bergoglio. E continuano attribuendo al papa impossibili affermazioni, dalla descrizione della meditazione del neo-eletto Francesco nell’inesistente “stanza accanto a quella con il balcone che dà su Piazza San Pietro” (una scena probabilmente mutuata da Habemus Papam di Moretti), all’ultima novità che secondo il papa l’Inferno non esiste. Quando, travolto dallo scandalo internazionale seguìto alla prima intervista, Scalfari ha dovuto fare ammenda il 21 novembre 2013 in un incontro con la stampa estera, ha soltanto peggiorato le cose. Ha infatti sostenuto che in tutte le sue interviste lui si presenta senza taccuini o registratori, e in seguito riporta la conversazione non letteralmente, ma con parole sue. In particolare, ha confessato, “alcune delle cose che il papa ha detto non le ho riferite, e alcune di quelle che ho riferite non le ha dette”. Ma se le fake news sono appunto opinioni riportate come fatti, o falsità riportate come verità, Scalfari le diffonde dunque sistematicamente. Il che solleva due problemi al riguardo, riguardanti il primo Bergoglio, e il secondo Repubblica. Il primo problema è perché mai il papa continui a incontrare Scalfari, che non solo diffonde pubblicamente i loro colloqui privati, ma li travisa sistematicamente attribuendogli affermazioni che, facendo scandalo, devono poi essere ufficialmente ritrattate. Sicuramente Bergoglio non è un intellettuale raffinato: l’operazione (fallita) di pochi giorni fa, di cercare di farlo passare ufficialmente per un gran pensatore, suona appunto come un’excusatio non petita al proposito, e non avrebbe avuto senso per il ben più attrezzato Ratzinger (il quale tra l’altro se n’è dissociato, con le note conseguenze). L’avventatezza di papa Francesco l’ha portato a circondarsi autolesionisticamente di una variopinta corte dei miracoli, dal cardinal Pell alla signora Chaouqui, e Scalfari è forse soltanto l’ennesimo errore di valutazione caratteriale da parte di un papa che non si è rivelato più adeguato del suo predecessore ai compiti amministrativi. Non bisogna però dimenticare che Bergoglio è comunque un gesuita, che potrebbe nascondere parecchia furbizia dietro la propria apparente banalità. In fondo, un minimo di blandizia esercitato nei confronti di un ego ipertrofico gli ha procurato e gli mantiene l’aperto supporto di uno dei due maggiori quotidiani italiani, che è passato da una posizione sostanzialmente laica a una palesemente filovaticana. Se da un lato Bergoglio può ridersela sotto i baffi dell’ingenuità di uno Scalfari, che gli propone di beatificare uno sbeffeggiatore dei gesuiti come Pascal, dall’altro lato può incassare le omelie di un Alberto Melloni, che dal 2016 ha trovato in Repubblica un pulpito dal quale appoggiare le politiche papali con ben maggior raffinatezza, anche se non con minore eccesso di entusiasmo. A little goes a long way, si direbbe nel latino moderno. Rimane il secondo problema, che è perché mai Repubblica non metta un freno alle fake news di Scalfari, e finga anzi addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza. In fondo, si tratta di un giornale che recentemente, e inusitatamente, ha preso per ben due volte in prima pagina le distanze dalle opinioni soggettive del proprio ex editore-proprietario ma che non dice una parola sulle ben più gravi e ripetute scivolate oggettive del proprio fondatore. Io capisco di giornalismo meno ancora che di religione, ma la mia impressione è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale. Alla maggior parte dei giornalisti e dei giornali non interessano le verità, ma gli scoop: cioè, le notizie che facciano parlare la maggior parte degli altri giornalisti e degli altri giornali. E se una notizia falsa fa parlare più di una vera, allora serve più quella di questa. Dire che il papa crede all’esistenza dell’Inferno è ovviamente una notizia vera, ma sbattuta in prima pagina lascerebbe indifferenti la maggior parte dei giornalisti e dei giornali. Per questo Scalfari scrive, e Repubblica pubblica, che il papa non crede all’Inferno: perché altri giornalisti e altri giornali lo rimbalzino per l’intero mondo. Il vero problema è perché mai certe cose dovrebbero leggerle i lettori. Che infatti spesso non leggono le fake news, e a volte alla fine smettono di leggere anche il giornale intero. Forse la meditazione sul perché i giornali perdono copie potrebbe anche partite da qui, nella Giornata Mondiale del Fact Checking.
La censura viene da lontano. Censura a Repubblica: “cancellato” Odifreddi. La censura colpisce ancora: sul sito del quotidiano sparisce un post di Odifreddi. E lui ritira il suo blog, scrive Roberto Scafuri, Mercoledì 21/11/2012, su "Il Giornale". La censura colpisce ancora. Capita, sul sito di Repubblica, al professor Piergiorgio Odifreddi, colpevole di aver postato un commento abbastanza aspro sulla situazione in Medioriente, dove paragona il comportamento attuale del governo israeliano a quello dei nazisti. Il suo articolo, inserito nel blog “Il non senso della vita”, è stato inopinatamente e unilateralmente eliminato dal quotidiano on-line. Odifreddi ha deciso di ritirare il blog, argomentando che nella vita “ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a coltivare il proprio giardino”. Se finora la direzione del giornale e i curatori del sito avevano difeso il diritto di opinione senza preoccuparsi troppo delle inevitabili lagnanze – ha scritto Odifreddi – anche loro “hanno dovuto soccombere di fronte ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico”.
Così De Benedetti rottama Scalfari e demolisce Repubblica, scrive Paolo Delgado il 19 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Lo scontro dentro il quotidiano diretto da Mario Calabresi. Anche con le migliori intenzioni è difficile evitare la sensazione di una rotta un po’ sgangherata. Ieri il cdr di Repubblica ha risposto con un comunicato durissimo alle critiche del suo stesso editore, Carlo De Benedetti, che «si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta». Poi i redattori si sono riuniti in assemblea per fronteggiare l’assalto del «nemico interno». Immancabilmente nei prossimi giorni arriverà la replica, prevedibilmente rigida, del padre fondatore strapazzato dall’Ingegnere dal salottino tv di Lilli Gruber: Scalfari «l’ingrato» a cui De Benedetti ha «dato un pacco di miliardi», il «vanitoso» che tra Berlusconi e Di Maio ha scelto il primo invece di rispondere come da copione «né l’uno né l’altro», il «signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Il rimbambito, insomma. Non è stata solo la violenza davvero inusuale degli attacchi dell’editore a Repubblica e all’ex amico Scalfari a suscitare quell’impressione di caduta degli dei che si ricavava inevitabilmente dall’intervista di Carlo De Benedetti. L’Ingegnere voterà Pd, però, come si diceva ai bei tempi, turandosi il naso, avendolo Renzi deluso. Sul caso increscioso di insider training sulla riforma delle Popolari, poi, l’editore di Repubblica si è arrampicato palesemente sugli specchi, essendo a disposizione del colto e dell’inclita l’intercettazione che lo sbugiarda. Il segreto della sbandata mediatica sta probabilmente in quella telefonata ricevuta dal nemico di sempre, Silvio Berlusconi, «dopo la stupidaggine che ha detto Scalfari». Il Cavaliere offriva la pace in nome dell’asse contro il nemico comune, quell’M5S che De Benedetti, Scalfari, Berlusconi, Renzi e Moscovici, divisi su tutto il resto, considerano il pericolo pubblico numero uno nella Penisola. L’offerta è stata respinta al mittente con il dovuto gelo: «Ho risposto che non faccio politica». Ma il senso di quella stupefacente telefonata resta tutto: a comporre il numero è stato chi dalla guerra iniziata trent’anni fa a Segrate esce oggi vincitore, vicino a trionfare sul fronte decisivo che col tempo è diventato quello della politica e non più quello della competizione aziendale a colpi di sgambetto. Quando è cominciata la guerra il Cavalier Berlusconi e l’Ingegner de Benedetti erano due industriali rampanti, molto diversi ma con in comune qualcosa che avrebbe potuto persino spingerli verso un’alleanza. Erano gli intrusi, i nuovi arrivati che tentavano di incrinare e infrangere il potere assoluto delle grandi famiglie del capitalismo italiano: erano parvenu. Seguivano strategie distinte: l’Ingegnere manteneva un piede fuori e uno dentro il mondo dei salotti comme il faut, il Cavaliere tentava l’arrembaggio solo dall’esterno. Politicamente appoggiavano e si appoggiavano a partiti diversi ma alleati nel pentapartito. De Benedetti, intimo di Bruno Visentini, era vicino al Pri, il partito di La Malfa, Spadolini e della borghesia illuminata. Berlusconi si beveva Milano e non solo quella con il socialista grintoso, Bettino Craxi. Si diedero battaglia, per questioni d’interesse ma anche per incompatibilità di carattere. Lo sbotto di Berlusconi alla notizia di quella soffiata di Renzi che permise all’ingegnere di guadagnare 600mila euro di plusvalenze in un batter d’occhio, «L’hanno preso con le mani nella marmellata», era di cuore. I duellanti hanno incrociato le lame davvero su tutti i fronti: in quello torbido delle scalate aziendali, nelle aule di tribunale, con un risarcimento di quasi mezzo miliardo versato dal proprietario Fininvest a quello Cir come risarcimento per l’acquisizione con mezzi indebiti di Mondadori, ma anche nelle battaglie navali tra fregate mediatiche e poi, sempre di più, direttamente nell’agone politico. Il sire di Arcore in prima persona, costretto dalla repentina uscita di scena del suo protettore Craxi, a impegnarsi direttamente per difendere il suo biscione. De Benedetti invece ha sempre preferito tenersi dietro le quinte, ma se c’è stato un vero capo del centrosinistra, diretto antagonista del Cavaliere nel ventennio e passa che gli storici definiranno sbrigativamente ‘ il berlusconismo’, è proprio lui. Quando De Benedetti vantò «la tessera numero uno» del Pd Veltroni di fatto confermò fingendo di smentire: «Quella fu una boutade! Certo però i suoi giornali hanno avuto un ruolo molto importante nell’evoluzione della sinistra italiana. La sua è una cultura non ideologica ma molto seria, rispettosa della produttività dell’impresa e delle regole del gioco e attenta alla giustizia sociale». Una fotocopia del dna che, secondo il suo primo segretario, il Pd avrebbe dovuto poter vantare. Oggi quel partito moderato di sinistra che doveva veicolare la rappresentanza del nuovo capitalismo rampante italiano, diverso da quello all’arrembaggio di Berlusconi ma anche da quello eterno delle grandi famiglie è alle corde. Se il deludente di Rignano tornerà al governo, e di certo non in prima persona ma per interposto Gentiloni, sarà grazie all’alleanza col nemico di Arcore, il cui prezzo sarà certamente esoso. Se si dovrà tornare alle urne in breve tempo, a giocarsi la partita saranno la plebe stracciona di Di Maio e quella ripulita di Berlusconi, che è anche il solo attore politico a poter sperare in una vittoria secca il 4 marzo. Il partito modellato dall’esterno da De Benedetti, dopo la guerra dei trent’anni è un comprimario guidato da un leader di cui lo stesso ingegnere ha detto chiaramente, di fronte alla commissione parlamentare sulle banche che «di economia, onestamente, ci capisce veramente poco» e che in privato pare definisca più sinteticamente: «Un cazzone». Se del caso, Carlo De Benedetti, il riformista illuminato ha sempre giocato durissimo. Non a caso nel breve periodo trascorso in Fiat prima di essere messo alla porta dall’Avvocato lo chiamavano la tigre perché, come scriverà decenni più tardi Stefano Merlo, era «implacabile, aggressivo, sprezzante e dal licenziamento facile a tutti i livelli». Ma stavolta non si tratta solo di mano pesante. Se davvero ci fosse la mano dell’Ingegnere dietro il falso scoop della Stampa, titolone con notizia di un’indagine sulla vendita del Milan adoperata a scopo di maxi- riciclaggio da Berlusconi seguito da drastica smentita del procuratore Greco, sarebbe un preciso segnale di disperazione e sbandamento. A peggiorare la situazione ci si mette del resto anche l’appello del processo per i morti d’amianto alla Olivetti di Ivrea. Il primo grado si è concluso con una condanna a cinque anni per l’Ingegnere. Se la sentenza fosse confermata il rischio di dover seguire la strada di Berlusconi, tra carcere e affidamento ai servizi sociali, diventerebbe molto concreto. Ma in questa italianissima Guerra dei trent’anni (per ora) colpi di scena e ribaltamenti imprevisti non sono mai mancati. Non è detto che sia finita qui.
De Benedetti, le cene eleganti e "la Repubblica". Al giornale fondato da Scalfari non hanno gradito le esternazioni dell'editore: ha violato la regola del "si fa ma non si dice", scrive il 19 gennaio 2018 su Panorama Giorgio Mulè. Dalle parti di Repubblica hanno un'idea di sé molto prossima a una chiesa. Pontificano su tutto e su tutti: distribuiscono patenti di moralità a destra e manca, segnano a dito i reprobi, si elevano a castigatori dell'umanità politica e giornalistica. Si prendono sul serio: hanno i loro riti, rivendicano di essere una comunità pregna di valori (ah, i valori...), hanno un gran sacerdote in Eugenio Scalfari che santifica ogni domenica con un sermone spesso autocelebrativo e un editore che non è transeunte ma al contrario è eterno e assoluto. Il nome di quest'ultimo è Carlo De Benedetti. Quella di Repubblica è in realtà una chiesa sconsacrata perché è popolata di peccatori e finti moralisti. Tanto per capirci: a quella chiesa è capitato di azzannare gli "infedeli" sulle furberie salvo poi scoprire che il suo direttore aveva acquistato un attico ai Parioli dichiarando nell'atto un prezzo inferiore di 850 milioni di lire versati in nero con assegni da 20 milioni ciascuno; a quella chiesa è successo di imbastire una campagna feroce contro i giornalisti puzzoni di destra (per loro essere di destra è già un'offesa grave) sulla "macchina del fango" attivata con gli articoli sulla casa di Montecarlo della premiata ditta Fini-Tulliani salvo poi scoprire che era tutto vero e non avvertendo se non il pudore almeno la necessità di chiedere scusa. Mi fermo qui per non rubare spazio al protagonista di questo articolo e dunque torno a De Benedetti. Nella chiesa sconsacrata lui è il Deus ex machina, l'elemento che nel teatro greco risolveva le tragedie. L'Ingegnere è persona astutissima incappato spesso nelle maglie della giustizia. Tanto per dire, tra qualche giorno dovrà affrontare un processo d'Appello al quale arriva con una condanna a cinque anni e due mesi di carcere per omicidio colposo plurimo per le morti causate dall'amianto alla Olivetti. Pochi giorni fa, poi, sono stati rivelati un'intercettazione telefonica e un verbale del medesimo sulla vicenda delle banche popolari. Lettura interessantissima negata in massima parte ai lettori di Repubblica, abituati a ingurgitare in questi anni paginate e paginate di intercettazioni telefoniche di ogni genere farcite da immancabili pistolotti moralisteggianti destinati a rimanere invenduti persino ai saldi delle indulgenze. Ma tant'è. De Benedetti, al telefono con la persona che ne cura gli investimenti, sa per certo che arriverà un decreto sulle banche popolari e assicura: "Passa, ho parlato con Renzi, passa...". De Benedetti fa investire 5 milioni di euro acquistando titoli delle popolari e quattro giorni dopo il Consiglio dei ministri approva il decreto che impone alle banche di trasformarsi in società per azioni. I titoli salgono e l'Ingegnere porta a casa, cotto e mangiato, un guadagno di 600 mila euro. Chiamato dalla Consob a spiegare il tutto (la Procura di Roma poi archivierà), De Benedetti ricostruisce il suo rapporto con Renzi e rivela i rapporti con altri ministri. Dalla lettura ricaviamo che "normalmente" De Benedetti e Renzi "fanno breakfast" (sarebbe la prima colazione della plebe) insieme a palazzo Chigi. Succede perché Renzi è stato folgorato quando era ancora sindaco di Firenze dalla levatura di Don Carlo e gli disse quando si davano del lei: "Senta, io avrei il piacere di poter ricorrere a lei per chiederle pareri, consigli quando sento il bisogno". Accolta la richiesta del discepolo, l'Ing. diventò "l'advisor gratuito, saltuario e senza impegni" del segretario Pd ma puntualizzò: "Guardi, va benissimo. Non faccio... non stacco parcelle però sia chiara una roba: che se lei fa una cazzata io le dico: caro amico è una cazzata". In sintesi si riservò "il diritto di dirgli che era un cazzone quando mi sembrava fosse il caso". A giudicare dai risultati ottenuti da Renzi, il "cazzometro" non deve aver mai registrato importanti oscillazioni. Di sicuro bisogna dare credito all'Ingegnere quando racconta di aver cercato di trasferire più o meno inutilmente a Renzi, tra un caffè e un cornetto, elementi di economia in quanto l'ex premier, come milioni di italiani sanno, "di economia capisce onestamente poco". Il discepolo un po' somarello in economia si fidò del Maestro sul Jobs act con i risultati che conosciamo (la creazione di una valanga di precari). E infatti l'Ingegnere ricorda: "Io gli dicevo che lui doveva toccare, per primo, il problema lavoro e il Jobs act è stato - qui lo dico senza, senza vanto, anche perché non mi date una medaglia - ma il il Jobs act gliel'ho... gliel'ho suggerito io all'epoca come una cosa che poteva secondo me essere utile e che, di fatto, lui poi è stato sempre molto grato perché è l'unica cosa che gli è stata poi riconosciuta". Colui che si definisce "l'ultimo grande vecchio che è rimasto in Italia... non per merito ma per decorrenza dei termini" entra ed esce dalle stanze del potere. In realtà preferisce ricevere in casa. Siccome il breakfast è riservato a Renzi c'è spazio per i dinner. Insomma, dà vita e vere e proprie cene eleganti con esponenti del governo che si abbeverano alla sua saggezza: "Sono molto amico di Elena Boschi, ma non la incontro mai a Palazzo Chigi. Lei viene sovente a cena a casa nostra ma non…diciamo io, del Governo vedo sovente la Boschi, Padoan. Anche lui viene a cena a casa mia e basta. Perché poi sa, quello lì si chiama Governo, ma non è un Governo, sono quattro persone, ecco". Dopo questo inno alla collegialità e lette queste confessioni, a Repubblica si sono resi conto che l'Ingegnere l'ha fatta fuori dal vaso. Perché ha contravvenuto alla prima regola della casa, pardon! della chiesa sconsacrata: si fa ma non si dice.
(L'editoriale del direttore di Panorama è stato pubblicato sul numero del 18 gennaio 2018 del settimanale con il titolo: "Le cene eleganti di quell'elegantone dell'ingegnere")
De Benedetti, quando l’ingegnere vestiva alla marinara, scrive Paolo Delgado il 5 Dicembre 2017 su "Il Dubbio". Il ritratto di Carlo De Benedetti. Galeotto fu Silvio, e non per a prima volta. Tra Eugenio Scalfari, decano dei direttori italiani, capo del partito dei moralizzatori in pianta stabile, e Carlo De Benedetti, finanziere spericolato in apparenza e freddo come il ghiaccio nella sostanza, editore democratico e di sinistra per antonomasia, volano scintille per quell’incauta apertura del barbuto direttore sulla possibilità di votare addirittura per il Cavaliere del Male pur di sbarrare la strada ai barbari con la bandiera a cinque stelle. Non è la prima volta che capita. Però nella precedente occasione le parti erano invertire: a flirtare con l’infrequentabile, provocando la levata di scudi del giornalista intrepido, era stato nel 2005 l’Ingegnere, sino a quel momento nemico giurato del reprobo di Arcore. Un fondo comune per le aziende in crisi e un’offerta a sorpresa di Berlusconi: «Tu ci metti 50 milioni? Niente in contrario se faccio lo stesso anche io?». «Ma figuriamoci». Ad avere qualcosa in contrario fu però Scalfari e non risparmiò la rampogna neppure quando De Benedetti, preso di mira, ingranò la retromarcia. Al contrario Scalfari pontificò alla grande invocando «il legittimo disagio in quanti condividono la linea morale, culturale e politica del nostro gruppo editoriale e del nostro giornale». Poi, giusto per chiarire: «Forse Carlo De Benedetti non aveva valutato a fondo l’ampiezza di questo disagio». Prima di quel disagiatissimo momento solo una volta l’ombra del divorzio aveva aleggiato sul felice sodalizio: quando nel 1993, nel pieno vortice di tangentopoli, l’Ingegnere era finito in manette. Scalfari vide incrinarsi «i profondi e comuni convincimenti romani», ammise di considerare il divorzio, poi scelse di soprassedere. L’imputato è poi uscito dal guaio legato agli appalti per le Poste pulitissimo. Un po’ per assoluzione, un po’ per prescrizione. Il duello eterno tra l’Ingegnere e il Cavaliere è stato combattuto negli ultimi decenni su tutti i fronti: in Borsa, nelle manovre losche ai margini delle grandi scalate, nelle aule processuali, sulle colonne delle grandi testate giornalistiche, nell’arena di una politica legata a filo triplo agli scontri tra potentati economici e finanziari. Non è un caso che quando Berlusconi aprì il sipario sulla sua avventura politica con il famoso endorsement a favore di Fini nella sfida per la guida di Roma, nel 1993, il primo a rimbeccarlo notificando che lui invece avrebbe votato per Rutelli fu proprio De Benedetti. C’è il rischio però che quella lunghissima disfida nasconda il braccio di ferro precedente e quasi altrettanto lungo tra De Benedetti e l’industriale che nel panorama economico- finanziario italiano rappresentava in tutto e per tutto l’opposto esatto di Silvio Berlusconi: l’Avvocato Gianni Agnelli, signore incontrastato dei salotti buoni dell’altissima borghesia italiana. Il rapporto tra il futuro Ingegnere e la famiglia Agnelli nasce sui banchi di scuola dove studiavano fianco a fianco il figlio dell’industria-le ebreo torinese di media taglia Rodolfo De Benedetti e Umberto Agnelli. I pargoli sono entrambi del 1934 frequentano lo stesso ambiente – quello descritto da Susanna Agnelli nel suo “Vestivamo alla marinara” – si trovano nella stessa classe. La famiglia De Benedetti aveva lasciato l’Italia per la Svizzera con l’avvento delle leggi razziali e decenni dopo l’esule diventato nel frattempo uno dei principali industriali italiani avrebbe reso omaggio all’ospitale Elvezia prendendo la cittadinanza svizzera pur se continuando a pagare le tasse nella natìa penisola. Umberto non aveva avuto di questi problemi ma quando i due diventano amiconi quei tempi bui sono alle spalle. Il neo Ingegnere acquista in tandem col fratello Franco, futuro senatore, una società di affari immobiliari, la Gilardini e la trasforma anno dopo anno in holding di rilievo specializzata nel settore metalmeccanico. Nel ‘ 76, grazie all’amicizia con Umberto Agnelli, diventa amministratore delegato Fiat: vende la Gilardini e investe i proventi in azioni Fiat. Se ne va sbattendo la porta quattro mesi dopo: «E’ uno a cui piace comandare in casa propria», commenta ironico l’Avvocato. Vendute le azioni Fiat l’Ingegnere compra quelle della Cir e si ritrova così editore di Repubblica e dell’Espresso. Rivale degli Agnelli su tutti i fronti, incrina il fronte degli industriali compattamente anti Pci, intrecciando relazioni con il partito che i salotti buoni ancora considerano nemico irriducibile. Incontenibile passa alla Olivetti, dove sfodera un piglio autocratico opposto a quello sbandierato in politica, del resto è proprio lui a spiegare che gli industriali e la politica attiva sono poco compatibili: un buon politico deve essere democratico, un imprenditore capace deve invece essere dittatoriale. La guerra con Berlusconi inizia quasi per caso. De Benedetti ha messo gli occhi sulla Sme, gigante del settore alimentare. Romano Prodi, dagli spalti dell’Iri, vende a prezzi di sconto nel 1985. Craxi cerca qualcuno da opporre all’editore che dalle colonne di Repubblica lo cannoneggia quotidianamente e punta sull’emergente Silvio Berlusconi per organizzare una cordata alternativa. L’affare Sme va a monte la faccenda si concluderà solo nel 1992 con lo spezzettamento della Sme e la vendita in diverse tranches per complessivi 2000 miliardi contro i meno di 400 pattuiti nell’intesa Prodi- De Benedetti. Finita una battaglia ne inizia subito un’altra, quella per la conquista di Mondadori, che si porta dietro un codazzo di processi e condanne lungo chilometri. Berlusconi pianta la bandiera col biscione sulla pregiata casa editrice: il prezzo sarà un decennio più tardi la condanna di Cesare Previti, avvocato e corruttore, e un risarcimento di 493 milioni da parte del vincitore scorretto. Agnelli, Berlusconi e De Benedetti sono i tre volti del capitalismo italiano: il sovrano dell’establishment, l’ambizioso scalatore che ha provato a sovvertire le regole dall’interno dell’establishment stesso, l’avventuriero parvenu. Si sono dati battaglia per decenni e senza esclusione di colpi, adoperando stampa e politica come pedine nel loro gioco. Si sono riempiti spesso la bocca con la parola democrazia, qualche volta credendoci davvero, molto più spesso adoperando anche quella paroletta augusta come viatico per qualcosa di molto più importante: gli affari.
Carlo De Benedetti contro Scalfari e Repubblica, scrive giovedì 18 gennaio 2018 Il Post. L'ex editore di Repubblica ha detto che Scalfari è un ingrato e che il giornale ormai ha perso coraggio e rilevanza. Intervistato da Lilli Gruber durante la puntata di Otto e mezzo di mercoledì 17 gennaio, il fondatore e storico editore di Repubblica Carlo De Benedetti ha detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari, che di Repubblica è stato direttore dal 1976 al 1996, e dell’attuale linea editoriale del giornale. Dopo aver parlato della recente questione delle presunte informazioni riservate che De Benedetti avrebbe ricevuto da Renzi sul salvataggio delle banche popolari e dopo aver parlato del Movimento 5 Stelle, Gruber ha chiesto a De Benedetti se condividesse l’opinione di Eugenio Scalfari – primo storico direttore di Repubblica – secondo cui tra Di Maio e Berlusconi sarebbe meglio Berlusconi. De Benedetti ha detto che «la risposta ovvia da dare se uno non ha problemi di vanità» è che tra Di Maio e Berlusconi è meglio nessuno dei due, ma a quel punto è stato incalzato da Gruber sulla “vanità” di cui aveva accusato Scalfari e il discorso ha cambiato direzione. De Benedetti allora ha ricordato i molti favori economici che ha fatto a Scalfari e a Repubblica nel corso degli ultimi 40 anni e ha seccamente preso le distanze da Scalfari: Ho contribuito a fondarla, li ho salvati dal fallimento e ho dato un pacco di miliardi pazzesco – miliardi di lire – ma un pacco pazzesco a Eugenio quando ha voluto essere liquidato dalla sua partecipazione. Quindi Eugenio deve solo stare zitto tutta la vita, con me. Poi può parlare del Papa, di Draghi, di queste cose di cui lui si diletta parlare, ma non può parlare dei rapporti con me. Quindi pensa che sia un ingrato? Assolutamente sì. Pochi secondi dopo, De Benedetti ha interrotto Gruber per continuare a parlare di Repubblica, dicendo di aver «solo pagato dei prezzi» per esserne stato l’editore e di essere particolarmente triste «quando vedo che perde la sua identità». De Benedetti si è lamentato del fatto che su Repubblica non si faccia più politica – «Repubblica è un giornale politico nato per essere un giornale politico» – e del fatto che in un recente editoriale non firmato in cui il giornale prendeva le distanza da lui, lui stesso non fosse stato ringraziato per «l’indipendenza che sono io che ho dato a loro, non loro che hanno preteso da me».
Chiudendo l’intervista, Gruber ha chiesto: Come definirebbe i suoi rapporti con Repubblica, oggi? Assenti. [..] Mi dica un consiglio che darebbe oggi al direttore di Repubblica. Mah, sa, Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare.
Oggi il Comitato di redazione di Repubblica – ovvero l’assemblea di tutti i suoi giornalisti – ha risposto a De Benedetti con un comunicato in cui si dice: Il Comitato di Redazione respinge le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall’Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari. Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno del Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Ma vogliamo tranquillizzare Carlo De Benedetti: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda. L’assemblea dei redattori di Repubblica si riunirà oggi per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant’anni si è costruito.
La risposta di Repubblica a Carlo De Benedetti, scrive venerdì 19 gennaio 2018 Il Post. Mario Calabresi e Eugenio Scalfari hanno ribattuto alle accuse dell'ex proprietario: proprio con i toni di un litigio tra ex. Il direttore di Repubblica Mario Calabresi ha scritto un editoriale in cui risponde alle critiche che l’imprenditore Carlo De Benedetti aveva mosso al giornale, di cui è stato finanziatore e proprietario e di cui ora è presidente onorario. Intervistato da Lilli Gruber a Otto e mezzo lo scorso mercoledì, De Benedetti aveva detto cose sorprendentemente dure nei confronti di Eugenio Scalfari e dell’attuale linea editoriale di Repubblica: aveva parlato di perdita di identità e di un’assenza di riconoscenza nei suoi confronti, ricordando di aver sempre investito molto nel giornale, senza ottenere molto in cambio. Nell’editoriale pubblicato oggi, Mario Calabresi ha riconosciuto il ruolo fondamentale che De Benedetti ha ricoperto nella storia di Repubblica, ma ha anche stigmatizzato la sua scelta di criticare il giornale durante la trasmissione di un editore concorrente. Calabresi ha ribadito l’indipendenza della redazione e della direzione del giornale. Carlo De Benedetti è stato per oltre un quarto di secolo l’editore di questo giornale, finché cinque anni fa decise di dare la società ai suoi figli per tenerne solo la presidenza. Alla fine di giugno dello scorso anno ha lasciato anche quella mantenendo solo la carica di presidente onorario, senza alcun ruolo decisionale. Purtroppo questa transizione — è ormai sotto gli occhi di tutti — invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore. La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione. In queste settimane anche al New York Times un padre ha lasciato la guida della società al figlio. Non accadrà mai di vedere quel padre attaccare il giornale sugli schermi televisivi di un gruppo concorrente. Inconcepibile farlo mentre si dice di amare profondamente questa testata e la sua storia.
Sempre nel numero di Repubblica di oggi c’è anche un’intervista a Eugenio Scalfari, che oltre ad aver fondato il giornale lo ha diretto fino al 1996. Anche Scalfari ha risposto alle cose che aveva raccontato De Benedetti, contestualizzando alcune sue affermazioni sul ruolo che ebbe nel fondare e poi finanziare il giornale e ribattendo all’accusa di essersi un po’ rimbambito, come ha lasciato intendere De Benedetti nella sua intervista su La7.
Davvero non c’è De Benedetti tra i fondatori di Repubblica?
“No. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. E aggiungo che è la prima volta che glielo sento dire. Repubblica è figlia dell’Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri”.
Quanti soldi mise?
“Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L’altra metà toccava a noi, ma non ce l’avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l’altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: “Non lo racconti mai a nessuno” (allora ci davamo del lei). E infine: “Non lo racconti, ma non lo dimentichi”. E io non l’ho dimenticato”.
Vuoi dire che gli sei stato grato?
“Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica”.
Dice che il gruppo senza di lui sarebbe tecnicamente fallito.
“C’è stato un momento in cui avevamo fatto supplementi belli e costosi, tra cui “Mercurio” diretto da Nello Ajello. Ci eravamo indebitati e avevamo l’acqua alla gola. Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu”.
È questo il pacco di miliardi che dice di averti dato?
“Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica”.
Ne divenne l’editore.
“Quello dell’editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l’amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole”.
I giornalisti di «Repubblica» condannano De Benedetti. Duro comunicato contro l'ex editore: "Non è la prima volta che ci attacca". Oggi attesa la replica di Scalfari, scrive Massimo Malpica, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Guerra civile in Largo Fochetti. Il ciclone di critiche firmate Carlo De Benedetti e sganciate a Otto e Mezzo, dove l'Ingegnere, ospite dell'amica Lilli Gruber, ha attaccato sia il fondatore Eugenio Scalfari («Ingrato? Assolutamente sì») che la linea editoriale della «sua» Repubblica - e dunque la direzione di Mario Calabresi («Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare», il sarcastico «consiglio» riservatogli da De Benedetti su assist della Gruber) - ha innescato l'inevitabile reazione del quotidiano romano. La prima replica è quella del cdr, che in un comunicato ha respinto «le accuse lanciate ieri sera a Otto e mezzo dall'Ingegner De Benedetti nei confronti di Repubblica e di Eugenio Scalfari», ricordando anche che la storia non è nuova: «Non è la prima volta - prosegue la nota del comitato di redazione - che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all'interno del Gruppo, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale». Pure sull'accusa di aver «concesso» lui ai giornalisti l'indipendenza il cdr ringhia contro l'ex editore, ricordando che i colleghi «ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno gliela conceda». Lo sfogo a caldo precede, nel pomeriggio, l'assemblea dei redattori del quotidiano, convocata «per ribadire la propria determinazione a rispondere a ogni attacco che voglia mettere in dubbio la loro professionalità e il patrimonio di valori che il giornale in quarant'anni si è costruito». Ma al termine dell'assemblea non arrivano nuovi comunicati né una nuova presa di posizione del comitato di redazione. Mario Calabresi resta in silenzio. Viene però annunciata, per oggi, un'intervista a Scalfari, a firma di Francesco Merlo. Già di suo una replica del fondatore all'affondo dell'Ingegnere, visto che quest'ultimo l'aveva definito «un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte». Ma al di là del volo di stracci, le conseguenze del braccio di ferro tra De Benedetti e il quotidiano che l'ex editore sostiene di avere ancora «nel cuore» non sono chiare. Di certo la cura Calabresi seguita alla nascita del polo Repubblica-Stampa e al battesimo della Gedi non ha dato i frutti sperati in edicola dove, certo complice anche la crisi generale dell'editoria, il quotidiano continua a perdere copie, e ha già visto svaporare quasi del tutto il momentaneo picco di vendite coinciso con il lancio della nuova grafica. E l'attacco alla linea «poco politica» di Repubblica lanciato da De Benedetti andava proprio in questa direzione, rimarcando il distacco del quotidiano dalla propria storica identità. L'affiancamento a Calabresi del condirettore Tommaso Cerno, chiamato a «coadiuvare» il successore di Ezio Mauro, era stato letto come un segno di riavvicinamento proprio alla linea editoriale della precedente direzione. Ma evidentemente non ha soddisfatto i gusti da lettore «Pazzo per Repubblica» dell'Ingegnere. Sprezzante con Calabresi, attaccato senza nemmeno citarlo all'indomani del suo secondo compleanno sulla tolda di comando di Largo Fochetti. Di certo la frattura tra lo storico editore e il «suo» giornale è di quelle che fanno male. E tradisce come gli equilibri nel nuovo polo un po' scricchiolino. Non è da escludere, tra l'altro, che le bastonate televisive di De Benedetti avessero un destinatario preciso, fuori dalla redazione. Il suo secondogenito, Marco, che da sei mesi ha preso il suo posto alla guida di Gedi come presidente. Al «vecchio padrone», forse, non piace troppo il nuovo corso.
Scalfari replica a De Benedetti: "Non ha fondato Repubblica". Il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari duro contro De Benedetti: "Ama questo giornale come ami una donna di cui vuoi liberarti", scrive Chiara Sarra, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Un editoriale del direttore Mario Calabresi e un'intervista al fondatore Eugenio Scalfari. È la risposta - durissima - di Repubblica a Carlo De Benedetti. L'ennesimo capitolo di uno scontro che va avanti da mesi. Da quando, il giornalista aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio in caso di sfida tra i due. "Scalfari è un ingrato che con me dovrebbe star zitto perché gli ho dato un pacco di miliardi", ha detto l'Ingegnere a Otto e Mezzo qualche giorno fa, "Parla per vanità, è un signore molto anziano non più in grado di sostenere domande e risposte". Di parere opposto lo stesso Scalfari che non crede di essere "rimbambito", ma di appartenere alla categoria "dei vegliardi": "Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli", dice il giornalista a Francesco Merlo, "Il vanitoso è chi si gloria di qualcosa che ha fatto o peggio non ha fatto; chi si attribuisce meriti che non ha. Che cosa c' entra la vanità con la scelta tra Berlusconi e Di Maio? Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato". Secondo Scalfari, infatti, "i soldi che diede non legittimano la parola fondatore": "Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri", taglia corto il giornalista. Ricordando che per far nascere il suo giornale servivano cinque miliardi di lire: "La Mondadori ne mise la metà", spiega, "L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: Non lo racconti mai a nessuno (allora ci davamo del lei). E infine: Non lo racconti, ma non lo dimentichi. E io non l'ho dimenticato. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica".
E anche sul presunto "salvataggio" del gruppo da parte di De Benedetti, Scalfari racconta una storia diversa: "Ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie", assicura, "Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu". Altro che "pacco di miliardi", quindi. "Fu un affare per lui che divenne il proprietario di Repubblica", taglia corto il giornalista, "Quello dell'editore è un mestiere che non ha mai fatto. È stato l'amministratore dei suoi beni. Oltre a Repubblica aveva un patrimonio personale molto ragguardevole... E non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise. La sua abilità di finanziere gli ha consentito di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". Ancge sulla carica di presidente onorario del gruppo Scalfari inizia ad avere qualche dubbio. Pur essendosela meritata rispettando sempre la libertà del giornale, "non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori", spiega. E aggiunge: "Credo che quell' accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore". Infine la stilettata: "Repubblica la ama come quegli ex che provano a sfregiare la donna che hanno amato male e che non amano più".
Lo "sparatutto" tra De Benedetti e Repubblica. Cronistoria della battaglia dell'Ingegnere contro Eugenio Scalfari (e viceversa), scrive Enrico Cicchetti il 18 Gennaio 2018 su "Il Foglio". Quando Lilly Gruber chiede a Carlo De Benedetti, ospite di Otto e mezzo, se sia interessato a fondare un nuovo giornale, la risposta è perentoria: "Mai. Nella vita io sono un monogamo, in questo senso, la mia unica moglie é Repubblica". Oggi tuttavia i suoi rapporti con il quotidiano, ha spiegato l'Ingegnere, sono "assenti" ed "è per questo che soffro", ha aggiunto. Ma come si è arrivati a questo punto? Un veloce ripasso dello scontro tra il presidente onorario del Gruppo Gedi e Eugenio Scalfari e il direttore di Repubblica Mario Calabresi.
23 GIUGNO 2017. Carlo De Benedetti si dimette da presidente e consigliere del cda di Gedi Gruppo Editoriale Spa. Al suo posto diventa presidente il figlio Marco.
24 NOVEMBRE 2017. Ospite a diMartedì Eugenio Scalfari dichiara: “Tra Di Maio e Berlusconi sceglierei Berlusconi”.
3 DICEMBRE 2017. In un’intervista al Corriere della Sera, Carlo De Benedetti critica Scalfari: “Tra Di Maio e Berlusconi mi asterrei. Scalfari farebbe meglio a preservare il suo passato. Penso l’abbia fatto per vanità, per riconquistare la scena. Ma è stato un pugno nello stomaco per gran parte dei lettori di Repubblica, me compreso”.
10 GENNAIO 2018. Ospite di Bianca Berlinguer a Cartabianca, Eugenio Scalfari replica alle critiche di De Benedetti: “È stato molto critico con me. Da allora io non più rapporti con lui. Se mi dispiace di come siano andate le cose? Chi supera il decennio della morte e arriva al decennio dei 90, se ne fotte”.
13 GENNAIO 2018. Esplode il caso della telefonata tra l’allora premier Matteo Renzi e Carlo De Benedetti sulla riforma delle banche popolari. In prima pagina di Repubblica viene pubblicato un editoriale, non firmato, dal titolo “Indipendenza e libertà al servizio dei lettori”. “Nessun interesse improprio - si legge - ha mai guidato le scelte giornalistiche di Repubblica e nessun conflitto di interessi ne ha mai influenzato le valutazioni. Le posizioni che il giornale ha preso in questi anni sono il frutto della libera scelta dei giornalisti, nella linea tracciata da Eugenio Scalfari e poi proseguita da Ezio Mauro. I rapporti, i giudizi, le iniziative di Carlo De Benedetti sono fatti personali dell’Ingegnere”.
17 GENNAIO 2018. Ospite di Otto e mezzo, Carlo De Benedetti torna ad attaccare Scalfari: “Non voglio più commentare un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte. Con me deve stare zitto, gli ho dato un pacco di miliardi, è un ingrato”. E quando Lilly Gruber gli chiede di dare un consiglio al direttore di Repubblica Mario Calabresi aggiunge: “Don Abbondio diceva che il coraggio uno non se lo può dare. Se non ce l’ha non se lo può dare”.
17 GENNAIO 2018. Il Cdr di Repubblica risponde con un comunicato: “Non è la prima volta che Carlo De Benedetti, da quando ha lasciato gli incarichi operativi all’interno dl Gruppo Espresso, si unisce al coro di chi con cadenza quasi quotidiana attacca questo giornale e ciò che rappresenta. Vogliamo tranquillizzarlo: l’identità e il coraggio che Repubblica dimostra nell’informare i propri lettori e nel portare avanti le proprie battaglie sono vivi e sono testimoniati innanzitutto dal lavoro dei giornalisti che ogni giorno difendono e dimostrano la propria indipendenza senza bisogno che qualcuno”.
La risposta di Scalfari e Calabresi ai veleni di De Benedetti su Repubblica. Il direttore e il fondatore del quotidiano rispondono punto per punto a quello che l'ex editore ha raccontato al Corriere e in tv, scrive il 19 gennaio 2018 "Agi". Lo scontro tra Repubblica e il suo ex editore non sembra destinato a sanarsi. Dopo il duro affondo di Carlo De Benedetti, intervistato dal Corriere il 17 dicembre e poi in tv da Lilli Gruber rispondono sia il direttore del quotidiano, Mario Calabresi, che il suo padre fondatore, Eugenio Scalfari che con l'ingegnere aveva avuto un primo scambio di battute quando il giornalista, rispondendo a una domanda in tv, aveva spiegato di preferire Berlusconi a Di Maio.
Cosa scrive Calabresi. La transizione da Carlo De Benedetti ai suoi figli "invece di essere risolta in modo sereno, ha lasciato strascichi polemici contro il giornale ma che danneggiano innanzitutto il lascito e la storia di De Benedetti come editore". "La rottura con Eugenio Scalfari e le critiche ingenerose al fondatore di Repubblica non erano immaginabili, così come quelle mosse al giornale, alla sua identità e a questa direzione". De Benedetti "non ha gradito di non essere stato ringraziato per aver concesso l'indipendenza ai giornalisti di Repubblica, ma crediamo che questa libertà sia alla base come è oggi e come è sempre stato di un corretto rapporto tra editori e giornalisti". "Voglio rassicurare i lettori che l'impegno e l'orgoglio dei giornalisti di Repubblica, della sua intera redazione, sono intatti e che godiamo del sostegno dei nostri azionisti e del nostro vertice aziendale. Un gruppo focalizzato sul futuro". "Questo giornale deve molto a Carlo De Benedetti e alla sua passione, ma anche l'Ingegnere dovrebbe sentire un debito di gratitudine nei confronti di una testata che ha occupato una parte importante della sua vita. Le donne e gli uomini che lavorano a Repubblica lo meritano. Il presidente onorario deve difendere e tutelare l'immagine e l'onorabilità del giornale: il contrario di quanto è accaduto".
Cosa dice Scalfari. "La mia non è vanità e De Benedetti non ha fondato questo giornale. Mi spiace dirlo, ma è invece da vanitoso definirsi fondatore di un giornale che non hai né fondato né cofondato. I soldi che diede non legittimano la parola fondatore. Repubblica è figlia dell'Espresso che fu fondato da Adriano Olivetti, Carlo Caracciolo ed Eugenio Scalfari. Non ce ne solo altri»". "Sono arrivato a un'età, tra i novanta e i cento, che non è più quella dei vecchi né dei molto vecchi, ma quella dei vegliardi. Spesso sono rimbambiti, ma talvolta sono ancora più lucidi degli altri perché vedono di più e meglio. A volte sono bambini altre volte sono saggi e tra le cose che vedono meglio ci sono i rancori e le acidità. I vegliardi sanno riconoscerli e, se è il caso, anche aggirarli". "Repubblica era il meglio della stampa italiana. E quando dunque De Benedetti ne divenne il proprietario esclusivo non prese certamente un baraccone che perdeva soldi. Repubblica ha fatto attivi economici molto significativi. Ed è sicuro che De Benedetti non ci rimise". "La sua abilità di finanziere ha consentito a De Benedetti di vivere da ricchissimo. E bastino a dimostrarlo la strepitosa villa che ha in Andalusia e il grande yacht con cui fa le crociere in giro per il mondo. Il suo fiuto in Borsa è noto a tutti. E infatti, adesso che ha regalato le sue azioni ai figli, gli sono rimaste tutte le grandi ricchezze personali". "L'indipendenza di Repubblica è stata sempre garantita dalla forza della direzione, dalla libertà e dal prestigio delle sue firme e di tutti i suoi giornalisti, e dal successo in edicola. De Benedetti è stato rispettoso di questa libertà. Diciamo ché l'ha onorata. E però non so se quel che adesso va dicendo in tv e sui giornali sia compatibile con la carica di presidente onorario, non so se la onori". "Oggi Repubblica vive la crisi dei giornali di carta, e cerca con coraggio nuove strade, sperimenta, si rinnova, scommette sul futuro ma non è vero che ha perduto l'identità e che non aggredisce la politica. Non solo io ne sono la prova e la garanzia. Ci sono i suoi giornalisti e c'è il direttore che, lo ricordo con un sorriso, è stato scelto da Carlo De Benedetti. Lui sì, sta aggredendo l'identità del giornale di cui, come ho già detto, era stato a lungo il rispettoso proprietario. Credo che quell'accusa di avere speculato grazie alle informazioni riservate ottenute da Renzi abbia avuto un ruolo importante nel suo cattivo umore".
Ma quanti soldi ha dato De Benedetti a Repubblica? Eugenio Scalfari ha anche ricostruito la storia della partecipazione economica di Carlo De Benedetti a Repubblica. "Per far nascere Repubblica io e Caracciolo avevamo bisogno di cinque miliardi di lire. La Mondadori ne mise la metà. L'altra metà toccava a noi, ma non ce l'avevamo. Nella ricerca di danaro io mi rivolsi anche a Carlo De Benedetti che era allora il presidente degli industriali di Torino. Fu il primo che cercai perché a Torino tra l'altro mio suocero aveva diretto La Stampa, e dunque credetti così di sfruttarne il grande prestigio. De Benedetti mi diede cinquanta milioni, ma non voleva che si sapesse. Mi spiegò che lo faceva perché gli piaceva il progetto. Ma aggiunse: 'Non lo racconti mai a nessuno'. Ha contribuito con cinquanta milioni ad un capitale di 5 miliardi. Non sono abituato a fissare i prezzi della gratitudine. Sicuramente ce ne siamo ricordati quando poi gli abbiamo venduto Repubblica" Quando "ci eravamo indebitati e avevamo l'acqua alla gola ci salvò il presidente del Banco di Napoli, Ventriglia, che ci concesse un fido senza garanzie. Poi quando De Benedetti divenne proprietario della Mondadori gli vendemmo le azioni di Repubblica con il patto che alla fine della famosa guerra di Segrate, quella con Berlusconi, gli avremmo venduto tutte le azioni allo stesso prezzo. E così fu".
Quando Giulio De Benedetti disse a Valletta: “La Stampa deve piacere agli operai”. La lettera del fondatore di Repubblica ricorda il suocero a quarant’anni dalla scomparsa: “Fu tra i più grandi direttori”, scrive Eugenio Scalfari il 14 gennaio 2018 su "La Repubblica". Sono 40 anni dalla morte di quello che fu mio suocero, sepolto nel cimitero di Rosta il 15 gennaio del 1978. È stato uno dei più grandi direttori di quotidiani di quel secolo. Era molto giovane quando cominciò a fare il correttore di bozze alla Stampa, allora di proprietà di Alfredo Frassati. Le sue capacità di giornalista lo portarono da correttore di bozze al ruolo di inviato. In quella veste fu corrispondente di guerra e poi corrispondente da Berlino dove il nazismo era ancora nell’incubatrice storica ma già impressionava soprattutto i giovani. In quella sede riuscì anche ad intervistare Hitler che già meditava il proprio futuro e ne parlò in quell’incontro con De Benedetti. Rientrato in Italia, diresse la Gazzetta del Popolo ma dopo poco tempo dovette lasciarla e partire per l’estero perché non piaceva a Mussolini l’antifascismo che De Benedetti stava in qualche modo dimostrando. Passò in Svizzera il periodo bellico e rientrò in Italia a guerra finita e a democrazia finalmente ritornata. Fu nominato dalla Fiat e da Frassati vice direttore e poi, dopo un anno, direttore de La Stampa ed è da lì che comincia il suo periodo di giornalismo eccezionale, probabilmente il più eccezionale di tutti e, a mio avviso, anche di Albertini che aveva diretto il Corriere della Sera agli inizi del Novecento. Giulio De Benedetti mise insieme una serie di iniziative giornalistiche che non trova riscontro nella storia del nostro mestiere: la cronaca locale e contemporaneamente quella nazionale e internazionale assurse a un livello mai raggiunto prima, ma a un livello ancora maggiore assurse la cultura, la politica italiana, quella europea e quella americana. Altrettanto avvenne con lo sport, calcio e ciclismo in particolare, ed infine con la rubrica da lui non solo inventata ma messa in pagina e chiamata “Specchio dei Tempi”. Si raccoglievano in quella rubrica opinioni di cittadini dei quartieri torinesi e dei comuni del circondario su questioni di grande attualità locale alle quali De Benedetti rispondeva soltanto con il titolo che poneva sopra ciascuna delle risposte ottenute; sceglieva i testi più importanti e li titolava. A quell’epoca quella rubrica stava nella seconda pagina della Stampa ed era probabilmente la parte più letta del giornale. Desidero infine ricordare la linea politica: l’azionista di maggioranza del giornale era la Fiat ma la linea imposta da De Benedetti era socialdemocratica, avendo Saragat come punto di riferimento ed anche come amico. Ricordo ancora che Valletta, allora consigliere delegato della Fiat, gli chiese all’inizio della sua direzione come mai un giornale della Fiat fosse di ispirazione socialista. La risposta fu molto netta: Torino occupa il popolo operaio più importante e numeroso d’Italia. Se vogliamo vendere dobbiamo fare un giornale gradito agli operai e da loro comprato. Questo non danneggerà la Fiat ma anzi darà alla sua proprietà un colore liberale e socialista insieme. Questa originalità ampiamente positiva a quell’epoca, in quella città, con quella proprietà, fu il requisito più prezioso di Giulio De Benedetti. Invio questo saluto anche a nome delle mie figlie Enrica e Donata di cui lui fu il nonno più amato.
Una guerra che dura dagli anni Settanta, scrive Paolo Guzzanti, Venerdì 19/01/2018, su "Il Giornale". Che fra i due corresse pessimo sangue me ne ero già reso conto durante la lunga intervista con Carlo De Benedetti che pubblicai fa con l'editore Aliberti. Carlo De Benedetti aveva già licenziato in tronco Eugenio Scalfari nel corso di una cena a casa di Carlo Caracciolo, strappando da un momento all'altro era il 1996 Ezio Mauro dalla direzione della Stampa. Tanta furia inspiegabile e priva di garbo mandò in bestia il presidente della Fiat Gianni Agnelli che si trovò senza direttore dalla mattina alla sera, perché l'editore di Repubblica voleva assolutamente liberarsi del fondatore Eugenio Scalfari. Quel che adesso salta fuori con l'intervista di De Benedetti alla Gruber è soltanto la sferzata finale di una tensione che risale al tempo in cui la Repubblica (fine anni Settanta) andava a rotta di collo. In quei tempi Scalfari si presentò con l'editore Carlo Caracciolo da De Benedetti per chiedere aiuto. L'Ingegnere mise mano al portafoglio ma volle anche avere voce in capitolo sull'azienda. Seguirono anni tempestosi, gloriosi e nebulosi allo stesso tempo, durante i quali il quotidiano di piazza Indipendenza annaspò prima di decollare con la crisi del Corriere della Sera alimentata dallo scandalo della P2 di Licio Gelli, uno scandalo simmetrico a quello del tutto prefabbricato con cui fu costretto alle dimissioni il presidente della Repubblica Giovanni Leone. Il giornale fiammeggiava ma restava fragile. Eugenio Scalfari commise il suo più grave atto di ostilità nei confronti Di De Benedetti come lui stesso mi raccontò - andando da Silvio Berlusconi ad per far balenare al Cavaliere la possibilità di acquistare il quotidiano. De Benedetti se la legò al dito. Sborsò un bel malloppo di miliardi al fondatore facendogli credere di volerlo ancora tenere, ma cercando la sua sostituzione che trovò in Ezio Mauro. Eugenio incassò così il valore di cui aveva dotato la testata, vendendo però l'anima al diavolo, o almeno vendendo il proprio futuro all'Ingegnere. De Benedetti mi disse che quando prese la decisione di licenziare Scalfari fu costretto a recitare una stucchevole commedia di inchini e di riverenze, ma non voleva compromessi: era ora di guidare la sua proprietà pagata a caro prezzo, senza riconoscere il diritto alla perpetuità mitizzata di Eugenio. De Benedetti gli disse: non sei tu che tieni in piedi Repubblica, ma sono io. E posso farla anche migliore senza te. E dunque, compiuti i riti previsti, De Benedetti volle che Eugenio si levasse dai piedi. Ma il vecchio direttore ottenne sia la certificazione di fondatore sotto la testata che il diritto feudale al fondo della domenica. De Benedetti ha sempre mal digerito quella specie di pontificato perpetuo: «Qualche volta quel che scrive mi piace - disse - ma in genere gli sproloqui di Eugenio sono di una noia mortale». La tensione è diventata poi conflitto aperto dopo la dichiarazione televisiva di Scalfari pro Berlusconi. Quel che è accaduto dalla Gruber ha avuto l'effetto di una bomba nucleare sui resti dell'antico «partito di Repubblica».
Ebbene sì, siamo radical-chic, scrive Eugenio Scalfari il 10 aprile 2012 su “L’Espresso”. L'etichetta che la destra populista ci affibbia come un insulto, per noi è diventata un motivo d'onore. Perché si riferisce a una cultura laica, eterodossa e ironica. Che guarda a Voltaire, Keynes, Einstein e Roosevelt. Fino a qualche tempo fa per definire un tipo bizzarro e "con la puzza sotto il naso" rispetto alle mode e ai comportamenti altrui si usava la parola snob. Non c'era altro modo e altro termine. Sebbene l'origine di quella parole fosse "sine nobilitate" il significato semantico era cambiato, anzi si era capovolto. Lo snob una sua nobiltà l'aveva: disprezzava l'uomo medio, la cultura tradizionale, i luoghi comuni, l'oleografia del passato. Disprezzava anche i buoni sentimenti o comunque li metteva in gioco. Spesso gli artisti erano definiti snob quando rompevano le regole del consueto. Quello che fu marcato con questo termine con maggiore insistenza degli altri fu Oscar Wilde, un po' per il suo modo di pensare e di scrivere e molto per la sua dichiarata e ostentata omosessualità che gli costò la prigione e l'esilio. Ma anche Dalí, anche Ravel, i surrealisti e molte "avanguardie" furono giudicati esempi di snobismo e perfino Proust, "lo sciocchino del Ritz". Durante il fascismo e la sua cultura muscolare i giornali satirici descrivevano lo snob come un gentleman passatista con le ghette sulle scarpe e il monocolo all'occhio. Adesso però quella definizione è stata sostituita da un'altra: non si dice più snob ma invece radical-chic. Non è un sinonimo, c'è qualche cosa in più ed è una dimensione politica: il radical-chic è di sinistra. Di una certa sinistra. Per guadagnarsi quella definizione deve stupire e spiazzare anzitutto la vera sinistra che, per antica definizione, si identifica con l'ideologia marxista. Togliatti - tanto per dire - non è mai stato neppure lontanamente considerato un radical-chic né Berlinguer, né Amendola o Ingrao. Bertinotti? Lui sì, gli piacciono i salotti, gli piacciono i pullover di cashmere e va spesso in giro con Mario D'Urso che è uno "chic" riconosciuto. Ma i veri radical-chic sono gli amici e i consimili di Camilla Cederna. Dunque stiamo parlando di noi, che fondammo questo giornale 57 anni fa e ne facemmo quello che è ancora oggi, un giornale di ricerca costante della verità, di denuncia delle brutture e delle malformazioni del malgoverno, di difesa dell'etica pubblica e di impegno civile. Accoppiando però, nel linguaggio, nella grafica, nella scelta delle fotografie, una vena di ironia e di autoironia, una leggerezza di stile che nulla doveva avere del sermone da sacrestia. Vedi caso: il partito radicale nacque nelle stanze del "Mondo" e de "l'Espresso" nel 1956, visse sei anni e si sfasciò nel '62. Marco Pannella e i suoi amici, che ne facevano parte, decisero di continuare con lo stesso "logo" del cappello frigio, dandogli però un contenuto più libertario che liberale. I radical-chic sono una definizione coniata dalla destra populista e qualunquista che però ha trovato qualche corrispondenza anche nel marxismo ufficiale. Quando il gruppo de "Il Manifesto" fu espulso dal Pci, c'era contro di loro una vaga ma percepibile aura di puritanesimo luterano contro un'eterodossia che irrideva gli schemi ideologici e amava Lichtenstein, la musica di Schönberg e perfino - perfino - i salotti. Non erano affatto radical-chic quelli del "Manifesto" ma tali li considerò la segreteria del Pci che li buttò fuori. Quanto a cultura i radical-chic sono illuministi e voltairiani, tra i loro personaggi di culto campeggiano Einstein, Keynes e Roosevelt. La definizione di radical-chic all'inizio gli sembrò insultante ma adesso se ne sentono onorati vista la sponda da dove proviene.
Scalfari stana i "pappagalli". Eugenio Scalfari è davvero una carogna, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 24/11/2017, su "Il Giornale". Eugenio Scalfari è davvero una carogna. Una geniale carogna che ha trovato il modo di rovinare la festa a quello che considera un suo indegno successore alla guida della non più sua Repubblica. Proprio nel giorno in cui il giovane Mario Calabresi girava gli studi televisivi per presentare la nuova veste del giornale debenedettiano, il novantenne predecessore e fondatore se n'è uscito con una frase che ha raggelato il sangue di Calabresi e dei repubblichini (nel senso di giornalisti e lettori): «Dovessi scegliere se votare Di Maio o Berlusconi, tutta la vita Berlusconi». Poche parole che non solo hanno cancellato anni di duro lavoro per espellere Berlusconi dalla vita politica senza se e senza ma, ma che hanno oscurato il costosissimo lancio del restyling. Nei giorni successivi infatti, di Repubblica si è parlato per l'outing di Scalfari pro Berlusconi, non certo per il lavoro tipografico di Calabresi. Scalfari, 94 anni, si è comportato come il nonnetto ritenuto e trattato dai parenti come un rimbambito che al brindisi della cena di Natale in famiglia, per vendetta alza il calice «A quelle zoccole delle mie nuore» raggelando la tavolata. «Scusate, il nonno è andato e straparla, conosco la stima che nutre per tutte voi» è la frase che di solito in queste circostanze, dopo qualche istante di gelo, usa dire il capotavola per sdrammatizzare (esattamente quello che un imbarazzato Calabresi ha fatto nelle ore successive senza peraltro essere creduto). La verità è che il nonno non si inventa le cose, ha sempre saputo delle scappatelle coniugali delle nuore ma ha taciuto fino al giorno in cui il disprezzo per i figli cornuti non ha prevalso sull'onore della famiglia. Scalfari non solo è una carogna, ma pure una canaglia che a Berlusconi gliene ha fatte di tutti i colori. Ma alla sua età può permettersi di ammettere l'ennesimo fallimento della sua lunga e ondivaga vita. È come se non volesse concedere l'onore di continuare la battaglia al suo ultimo nemico storico (Berlusconi) a ragazzini - tipo Calabresi - che non sanno neppure di che cosa e di che pasta d'uomini stiamo parlando. Repubblica incassa il colpo e affida alla penna di un comico decaduto e triste, Michele Serra, il compito di redarguire sul suo giornale nonno Eugenio e ribadire che Berlusconi e Mediaset sono il male assoluto. Compito da studenti mediocri che una volta imparata la lezione a memoria la ripetono all'infinito senza avere mai ben capito che cosa stiano dicendo. Pappagalli dell'antiberlusconismo.
Antonio Gnoli e Francesco Merlo per “la Repubblica” il 23 ottobre 2019. Abbiamo passato molto tempo con Eugenio per preparare un libro che lui ha letto solo quando è stato stampato. Quasi due anni di lavoro per raccontare i mille Scalfari "che mi somigliano tutti un po' con una vita molteplice e ormai indipendente dalla mia". La cifra unica di questi mille Scalfari è stata l'allegria. E il racconto, anche quando diventa intimo, rivela sempre la sua gioia di vivere: "C'è stato molto divertimento nella mia vita. Nel lavoro mi sono sempre divertito. E quando ho smesso di fare qualcosa è perché non mi divertivo più". Anche noi ci siamo divertiti e ci auguriamo che queste confessioni sorprendenti e libertine ora divertano il lettore. Il capitolo che qui anticipiamo, intitolato "Io e Montanelli", è il penultimo. I capitoli sono 24, l'ultimo è il "Lungo addio". C'è poco di quel che si conosce, anche dell' amicizia con il Papa: "Di tutto quel che ho realizzato nella mia lunga vita, la cosa che piacerebbe di più alla mamma è l'amicizia con Papa Francesco. In questi anni mi è stato chiesto che senso ha per un laico parlare di religione e di Dio. Che ne sanno, loro, di me e di mia madre?". (a.g. / f.m.) Un giorno pronunciammo entrambi la stessa frase: «Ti immagini noi due insieme?», e non so se i nostri stupori fossero uguali; non so se lui si riferisse all' impossibilità di mettere insieme il suo carattere ribaldo di toscanaccio e la mia cocciutaggine di calabrese o la sua Italia di destra e la mia Italia di sinistra. Indro aveva rotto con il Corriere ed ero andato a trovarlo a Milano, a casa di una signora da cui viveva e che credo fosse la sua compagna. Gli proposi di fare insieme un giornale e gli offrii il posto di direttore. Mi disse che voleva scrivere articoli e non dirigere giornali e lo rassicurai promettendogli che così sarebbe stato: avrebbe fatto i suoi editoriali di direttore e al resto ci avrei pensato io. Le mie parole gli giunsero chiare, ma non colsi nessuna reazione emotiva. Dunque non so se restò lusingato dalla proposta. Mi assicurò soltanto che ci avrebbe pensato per un paio di giorni. E, quando ci salutammo, aggiunse che con ogni probabilità la risposta sarebbe stata no. E in effetti, come aveva promesso, e come a quel punto prevedevo, quarantotto ore dopo mi arrivò il suo no: non avrebbe fatto, mi spiegò, il direttore di un giornale che nella realtà sarebbe stato tutto mio. Montanelli realizzò il quotidiano facendosi finanziare da Berlusconi e questa è stata una delle ragioni per cui per molto tempo ce ne dicemmo di tutti i colori. Poi però, quando fu licenziato dal Giornale e fondò La Voce, ci rivedemmo ancora, due o tre volte. In un' occasione rievocò, con una punta d' ironia, quel nostro incontro milanese: «Credi che se io avessi accettato di diventare il direttore del tuo giornale, tu avresti avuto lo stesso successo?». Era sempre l' uomo mordace che avevo imparato a conoscere fin dagli anni in cui a Milano capitava di incrociarci al Covino, un ristorante dove mangiava spesso con Longanesi. Ricordo con simpatia il Montanelli novantenne, mi rivedo nei suoi sorrisi senza goffaggini, mai fuori contesto, mai giovanilisti, che è la peggior maniera di essere vecchi, negando sé stessi. Del vecchio Montanelli ricordo il viso lungo nell' intreccio scarnificato di solchi e di macchie: era stato sempre magro, ora era traballante e curvo. Non aveva i miei capelli né la barba bianca con qualche striscia lucente, ma la pelle era la stessa: sdrucita e sottile, non gli copriva ma gli scopriva le ossa, le sue più ancora delle mie. Mi è piaciuto il suo modo di invecchiare. Ma anche quando quello stesso Berlusconi che ci aveva allontanato ci avvicinò, continuammo ad avere punti di vista differenti sull' Italia e sul mondo. Curiosamente, il legame si rinsaldò allorché insieme partecipammo a un festival dell' Unità, ma non ci fu nessuna sbandata di Indro a sinistra, come in quell'occasione dissero i berlusconiani delusi. E soprattutto nessuna ruggine senile nel suo pensiero. La verità era che un uomo di destra del suo stampo si trovava molto meglio con una sinistra alla Prodi che con una destra alla Berlusconi. Non si riconosceva nella sinistra, che però non gli faceva più paura; al contrario, temeva la destra che era la sua bandiera, e dunque si sentiva tradito. Indro rimase il grande giornalista che era sempre stato, l' interprete più arguto del senso comune: quello che gli italiani di solito sentivano con la pancia, lui lo restituiva nell' inimitabile efficacia del suo stile. Ogni italiano aveva in casa uno zio brillante e pungente, un fratello caustico che somigliava a Montanelli. Io ho cercato invece di essere l' interprete del buon senso, che è cosa diversa dal senso comune, ma oramai eravamo entrambi vecchi e questo ci rendeva più compatibili, sebbene avessimo fantasmi diversi: lui con i suoi Longanesi e Prezzolini; io con i miei Pannunzio e Benedetti. Io di sinistra e lui di destra. E benché ce ne dicessimo di cotte e di crude, siamo stati, a modo nostro, amici e alla fine era vero che ci somigliavamo. Nonostante fossi più giovane, abbiamo vissuto nella stessa epoca e attraversato lo stesso fuoco, trasformando il nostro mestiere in un romanzo, al punto che il mondo reale e il mondo narrato non si distinguono più, con una folla di Scalfari e una folla di Montanelli, tutti veri, tutti falsi, tutti verosimili, tutti leggendari. Entrambi abbiamo fatto i conti con il liberalismo: lui da conservatore anarcoide, io da radicale libertino; lui divulgatore di storia e io scrittore di filosofia. Entrambi ci siamo fatti beffe di quella ipocrisia che chiamano «i fatti separati dalle opinioni», ed entrambi siamo stati circondati da servizievoli cloni ai quali abbiamo sempre preferito gli avversari, non gli insultatori e i quaquaraquà, ma la gente con cui ci si intende anche quando ci si morde. Avevamo in comune pure la pretesa dell' eleganza, quell' idea di indossare con semplicità un cachemire come fosse lana grezza. Siamo stati «la dualità italiana», come qualcuno ha detto, la mano destra e la mano sinistra del giornalismo del Novecento, due irriducibili ghibellini: il ghibellino bianco e il ghibellino nero. E anche due provinciali, aggiungo, uguali e diversi: la sua Fucecchio è il mondo che rimanda alla metafora dell' individuo, alla solitudine e alla singolarità, ma anche allo spazio chiuso che più resiste al tempo; la mia Civitavecchia è il mare aperto, l'orizzonte, lo sguardo. Da un lato la provincia chiusa di un toscanaccio che si liberava girando il mondo e andava a cercare il segreto dell' universo in Finlandia e in Ungheria; dall' altro la provincia aperta del Viandante di Caspar David Friedrich che cercava il segreto dell' universo scrutando l' orizzonte. La provincia gelosa e permalosa del sarcastico provocatore in faccia alla provincia paterna e dolce che dalla riva guarda le navi lasciare il porto e diventare punti lontani. Oggi sorrido immaginando me stesso con Montanelli accanto, a passeggiare nel secolo. Ma non voglio esagerare. E non solo perché i nostri modelli giornalistici restarono inconciliabili nello stile e nel modo di pensare. Nel ricordo non mi pesano le critiche e i giudizi aspri che per decenni ci siamo scambiati. Confesso però che mi dispiacque quando appresi che nei suoi Diari mi dipingeva come una specie di Bel-Ami, il personaggio che Maupassant immortalò assegnandogli il tratto della spregiudicatezza. Ora, per quello che ne so, la spregiudicatezza può essere tanto mancanza di scrupoli quanto libertà dal pregiudizio; può trasformarsi in cinismo oppure in indipendenza d'opinione e perfino in anticonformismo. Ritengo che la mia, anche quando ha sfiorato l' azzardo, non abbia mai forzato le regole del gioco. Qualunque partita da me affrontata è sempre stata condotta secondo le regole. Maupassant consegnò al lettore un tipo umano che, attraverso il giornalismo, scopre la seduzione del potere e se ne innamora al punto da volersi sostituire ai potenti che descrive. So bene che il mio mestiere è stato una forma di dominio che ho esercitato lungo sessant' anni. Tutta la mia vita è stata costellata di incontri con quella «razza padrona » che ho cercato non solo di combattere, ma anche di raccontare in maniera dettagliata. E non c' è mai stata la tentazione di sostituirmi a loro, di voler essere come loro. Lo dico senza snobismo, con la consapevolezza che la mia storia, come ho raccontato, nasceva da altre premesse. È vero, tuttavia, che a lungo ho avuto un potere reale. E, avendolo esercitato nella doppia veste di giornalista ed editore, è sembrato ancora più grande. Per me è naturale che la figura di Bel-Ami lasci il posto a qualcosa di più sfumato, perfino di malinconico. Nel senso che ho sempre avuto chiaro che il potere, rispondendo alle leggi della meccanica, per il semplice fatto che c' è, si può perdere. Ho combattuto molte battaglie: ho difeso quando c' era da difendere e ho attaccato quando ho avvertito la minaccia di un nemico deciso a insidiare le nostre postazioni. Non penso sia un' eccezione aver vissuto in modo alquanto tempestoso certi momenti dell' esistenza. Il Novecento, più di altri secoli, è stato il tempo delle burrasche e delle bonacce. Averlo attraversato per un lungo tratto mi consente di vedermi come un protagonista che ha lottato, patito, desiderato affinché le proprie idee, i propri progetti avessero la meglio in una competizione che non ha mai ignorato la correttezza. Ecco perché la spregiudicatezza alla quale alludeva Montanelli mi è parsa inappropriata. Quanto a me, non ho mai discusso l' autorevolezza del giornalista né la lealtà e la generosità dell'uomo che ha sempre conservato un certo sprezzo per la vita. Semmai ho preso di petto le sue convinzioni politiche. Sulla scia di Longanesi, Montanelli ha creduto che l' unica borghesia degna fosse la più conservatrice. Si sbagliava? Penso di sì. Ritengo che proprio di quel soggetto, al quale più volte ha fatto riferimento, spronandolo, sferzandolo e criticandolo, si sia sentito il legittimo interprete, depositario di una verità sociologica moderata che a me ha fatto soprattutto pensare alla difesa di un' Italia arretrata. Montanelli fu un italiano sui generis. Non lo avvicinerei, come pure è stato fatto, alla figura di Curzio Malaparte, il troppo avventurista autore della Pelle . Semmai, ritengo che abbia fatto parte di quella schiera di pessimisti che, oltre a Longanesi, ha avuto in Giuseppe Prezzolini un indiscutibile punto di riferimento. Perfino nel suo lavoro di divulgatore storico non seppe sottrarsi alla convinzione che l' Italia fosse un paese diverso dal resto dell' Europa, una zattera che si era staccata dalla terraferma per galleggiare e ondeggiare seguendo il flusso delle correnti. Anche nei momenti in cui più accese furono le controversie fra noi, non ho mai visto in Montanelli il mio nemico, e non solo perché mi pareva troppo grande come giornalista, troppo fuoriclasse, ma perché ci univa una passione comune: quella per la libertà.
Maurizio Belpietro per “la Verità” il 25 ottobre 2019. Il tempo aiuta ad alleggerire i ricordi, in qualche caso addirittura a cancellarli. È quello che dev'essere successo a Eugenio Scalfari superata la soglia dei 95 anni. Il fondatore di Repubblica ha appena dato alle stampe un libro di memorie, in cui, ripercorrendo la sua carriera, racconta del suo rapporto con Indro Montanelli, rivelando di avergli offerto la direzione di un giornale - presumibilmente la costituenda Repubblica - allorquando il Corriere lo licenziò. A leggere la ricostruzione, trapela una stima e una consonanza che negli scritti dell' epoca però non si ritrova. I due non erano amici fraterni e non avevano certo la stessa visione del mondo. Il primo era ardentemente filocomunista, convinto che il modello capitalistico sarebbe stato sconfitto e quello sovietico avrebbe trionfato. Il secondo, avendo visto i carrarmati di Mosca invadere l'Ungheria, l'Urss la combatteva e la temeva. Che stessero su sponde opposte lo dimostrano anche le cose scritte negli anni in cui Repubblica vedeva la luce. Quando il quotidiano romano prese il largo, i due si scambiarono un biglietto di auguri e proprio tra le lettere del fondatore del Giornale si ritrova un messaggio indirizzato a colui che negli anni i suoi giornalisti avrebbero ribattezzato Barbapapà. «Tu, quando noi nascemmo, mi gettasti addosso sacchi di merda, anche sul piano personale. Non ti domando perché l' hai fatto: conosco il tuo temperamento. Però non farlo più, perché su questo piano tu non hai lezioni da darmi e io non ho da prenderne da nessuno. Quindi, per riassumere: polemica aperta sul piano ideologico, che sarà benefica ad entrambi, ed istruttiva per i lettori: rispetto sul piano personale. Ma reciproco. Ti va bene?». Non si sa che cosa rispose Scalfari, in privato, a Montanelli. Si sa però che cosa scrisse in pubblico. Nella primavera del 1977, un anno dopo la nascita di Repubblica e dunque del monito di Indro, il quotidiano chiese che al direttore del Giornale fosse proibito di apparire in tv. Che cos' era accaduto? Due sere prima, Indro era stato ospite di Maurizio Costanzo, nella trasmissione che andava in onda su Rai 1. A Bontà loro - questo il nome del programma della televisione pubblica - erano sfilati tipi come Luciano Lutring, soprannominato il solista del mitra, o come Salvatore Samperi, il regista degli amori proibiti. Però Montanelli no: a lui doveva essere impedito il diritto di tribuna «per i suoi sfoghi personali». A suscitare scandalo era stato il fatto che Montanelli avesse detto quel che pensava senza adeguarsi al conformismo dell' epoca. Marcello Staglieno, che lavorò al Giornale, in un libro dedicato al direttore controcorrente annota: «A un solista del mitra, accoglienza festosa, ma un solista delle opinioni va messo a tacere». Scaramucce tra grandi firme, cioè polemiche aperte sul piano ideologico, ammesse come regole del gioco dallo stesso Indro nel suo biglietto a Scalfari il giorno della nascita di Repubblica? Niente affatto. E anche qui basta rileggere i diari di Montanelli, in particolare ciò che scrisse il giorno dopo essere stato gambizzato dalle Brigate rosse. «Anche L' Unità esce con un titolo a sette colonne in cui campeggia il mio nome. Lo stesso fa Repubblica, ma con un articolo di Scalfari ancora più infelice di quello che scrisse dopo Bontà loro per chiedere la mia esclusione dalla tv nazionale. Sostiene la strana tesi che l' attentato è stato organizzato contro i nemici di Montanelli, cioè contro di lui, insinuando così il sospetto che me lo sia organizzato da me. Il mio successo lo riempie di un furore che lo fa sragionare». Le vendite di Repubblica infatti languivano intorno alle 50.000 copie, quelle del Giornale, nonostante i boicottaggi, all' epoca superavano le 150.000. Oggi Scalfari scrive che «anche nei momenti più accesi in cui ci furono le controversie fra noi, non ho mai visto in Montanelli il mio nemico, e non solo perché mi pareva troppo grande come giornalista, troppo fuoriclasse, ma perché ci univa una passione comune: quella per la libertà». Sarà, ma Indro non la pensava così. Anche qui basta scorrere i suoi diari. «Di Scalfari non ho un' opinione precisa. C' è in lui un pizzico di Baldacci, un pizzico di Bel-Ami, e perfino un pizzico di Ramperti. So che ha fatto parecchi soldi (ne farà di più vendendo Repubblica a Carlo De Benedetti, come gli ha ricordato di recente l' Ingegnere, ndr). La sua ambizione è sfrenata e scoperta. Ma vuole arrivare a qualcosa o vuole fuggire da qualcosa? Nella sua frenesia c'è del patologico. Le sue polemiche (come questa con me) sono quasi sempre gratuite. Questo nemico di tutti è soprattutto nemico di sé stesso, animato da un irresistibile cupio dissolvi». Scalfari era in quegli anni un sostenitore del matrimonio «clerico-marxista» e Indro lo liquidò così: «È incredibile la carica d' intelligenza ch' egli investe in tesi così stupide». Quanto all' idea di un giornale da dirigere a quattro mani, negli appunti di Montanelli, così densi di informazioni e giudizi, non c' è la minima traccia. Forse, anche in questo caso, il tempo ha cancellato i ricordi. Di sicuro rimangono gli articoli.
Marcello Veneziani per ''La Verità'' il 26 ottobre 2019. Come Gesù Cristo anche Eugenio Scalfari lascia che a scrivere il suo Vangelo siano gli apostoli. Due bravi apostoli, come Antonio Gnoli e Francesco Merlo. L' opera, ben scritta in prima persona come se l'avesse dettata Lui, non s' intitola In verità vi dico o Parola del Signore ma in modo più mondano Grand Hotel Scalfari (Marsilio, 296 pagine). Da quando è apparso a papa Bergoglio, Scalfari ha completato il suo tragitto. È stato, come lui stesso rivendica con candore leggermente spudorato, fascista e antifascista, monarchico e repubblicano, anzi fondatore de La Repubblica, liberale e socialista, radicale e comunista, dannunziano e volterriano. Però non era mai stato cattolico. Ma da quando Bergoglio siede alla Sua destra, Scalfari lo ha eletto a Suo Vicario in terra, lo ispira e a volte gli attribuisce pensieri ed eresie che appartengono invece ai giochi teologici della Sua Mente libertina. Eugenio non è diventato credente ma è convinto che Bergoglio sia diventato un suo credente, oltre che inquilino nella sua Casa. Scalfari è un grande del giornalismo ma è un grandissimo come impresario, fondatore e direttore dei giornali. Non è un principe della scrittura - come per esempio i solisti Curzio Malaparte o Indro Montanelli - non è eccelso come politologo e profeta politico e non è quel colto umanista che da qualche tempo vuol apparire. Ma è stato un eccellente croupier di grandi firme e grandi avventure editoriali, con gran fiuto. In particolare con La Repubblica che fondò, portò a grandi vendite e persino al sorpasso del Corriere della Sera. La Repubblica ha influenzato tanto la politica e cultura e ha accompagnato più di ogni altro la trasformazione della sinistra da comunista in radical, da proletaria in neoborghese, da popolare in elitaria, da credente in supponente, da classe operaia in corpo docente, da massa in razza padrona. Scalfari, Umberto Eco & C. sono stati i battistrada di quella mutazione antropologica laicista. Portarono la sinistra da Mosca a New York, con scalo ideologico a Parigi. Non tornerò sul suo fascismo giovanile, che ora Scalfari ammette senza ritrosie, anche se lo giustifica curiosamente: «Tutto quel mio essere convintamente fascista ha poi reso solido il mio antifascismo». Come dire che l' antifascismo coerente di Vittorio Foa, scontato con la galera, fosse meno solido del suo, che diventò comodamente antifascista a babbo morto, o morente. Non vi dirò della sua infanzia, dei suoi amori e della sua sbandierata bigamia, della sua ammissione di essere narciso, innamorato del suo Ego, dannunziano e dandy, della sua «albagia» come lui ama ribattezzare quel che in modo meno alato si chiama superbia o presunzione. E non tornerò sui suoi scritti su Roma fascista, poi della sua ridicola resistenza, riparato in Vaticano in attesa degli americani. Né risalirò alle sue origini calabresi, a suo padre giocatore accanito di poker e direttore del Casinò di Sanremo, o agli esordi d' Eugenio come direttore del casinò di Chianciano e poi bancario. Non vi racconterò di suoceri, editori e compagni di scuola e di lavoro. Molti fascisti, da Nelson Page a Mario Tedeschi e Peppino Ciarrapico sfilano nella sua biografia o agiografia. Un tempo avrebbe fatto finta di non averli mai conosciuti. Questo testo ha il merito di risparmiarci la sua apoteosi come scrittore, filosofo, poeta e teologo; o la prosopopea per la grottesca pubblicazione nei Meridiani, come se fosse un classico. Anzi merita lode la sua sincerità quando racconta la doppia bocciatura di Roberto Calasso alla sua proposta di pubblicare con Adelphi. Meritano lode pure alcune pagine sulla vecchiaia e sulla malinconia. Il paragone con Indro Montanelli è forse la parte più viva del libro: l' occasione perduta di fare un giornale insieme, la trentennale polemica e la finale simpatia, rinata nel nome comune dell' antiberlusconismo. La sua ammirazione non parve però ricambiata: Montanelli paragonò Scalfari a Bel Ami di Maupassant, per sottolinearne il cinismo arrivista senza scrupoli. Ed Eugenio se ne duole. Il giornale di Scalfari vendeva molto più del Giornale di Montanelli, ma i suoi articoli non furono memorabili come quelli di Indro; Scalfari fu molto seguito ma non fu amato come lui; Scalfari fu uomo di potere, mentre Montanelli, pur senza mai contrastare davvero il potere, se ne tenne elegantemente lontano. Scalfari fece grandi profitti dai suoi giornali, Montanelli no. Di Scalfari restano i suoi prodotti, come La Repubblica, di Montanelli invece resta Montanelli, il suo stile, la sua prosa, il suo carattere. L' egoteismo di Eugenio in Indro si fa gigioneria, da pronunciare con la g fiorentina. Montanelli lo immagini tra Leo Longanesi, Giovanni Guareschi e Malaparte; Scalfari è di altra pasta. Negli anni Novanta Scalfari mi chiamò a scrivere su La Repubblica, mi cercò il suo vice, Antonio Polito; scrissi per un annetto, credo, una volta scrissi nel paginone culturale de La Repubblica perfino di Pier Paolo Pasolini «reazionario»; poi arrivò Ezio Mauro e interruppe bruscamente la collaborazione. Impensabile quella presenza aliena in questi anni rognosi e livorosi. Mi fa male oggi leggere alcuni suoi editoriali, le sue omelie domenicali, con alcuni passaggi imbarazzanti; suggerirei, se non vuole gettare la spugna per limiti d' età, di farsi aiutare dai suoi apostoli per finire in bellezza una gran carriera. Lo dico senza polemica, anzi col rispetto che si deve a una figura eminente e a un' età ragguardevole che merita premure e deferenza. Scalfari torna poi alla megalomania nel finale del suo Nuovo Testamento, quando si vede scomparire nel buio come il Gattopardo e sfumando «porta con sé la nobiltà, la saggezza, la prudenza, l' autorevolezza, il potere come visione del bene comune». Un necro-elogio superbo, in tutti i sensi. In principio era la barba, come si addice ai padreterni, poi venne Il Mondo.
Da “Libero quotidiano” il 31 ottobre 2019. «Ha deciso giustamente di andarsene. E una creatura singolare che io ho conosciuto, ci siamo voluti bene e abbiamo collaborato, poi piano piano i nostri destini si sono divisi». Così Eugenio Scalfari, fondatore e storico direttore del quotidiano «Repubblica», a margine della presentazione del libro "Grand Hotel Scalfari", scritto da Antonio Gnoli e Francesco Merlo, commenta la decisione di Carlo De Benedetti di lasciare la presidenza onoraria di Gedi, il gruppo che edita «Repubblica», «La Stampa» e «Secolo XIX». «Io non voglio dire che aveva tutti i torti, io stavo con i figli, lui litigò anche con loro, poi ha rinunciato - ha aggiunto Scalfari- Ha detto non sono un presidente effettivo e quindi è inutile che io sia presidente onorario». Per il direttore di Repubblica Carlo Verdelli l' addio di De Benedetti è un vero e proprio «lutto».
Cecilia Cirinei per “la Repubblica - Edizione Roma” il 31 ottobre 2019. Alle 18 già non si trovano posti a sedere. Pienone da grande evento ieri pomeriggio al Tempio di Adriano in Piazza di Pietra. È stato presentato alle 18,30 il libro sul fondatore di "Repubblica" Eugenio Scalfari "Grand Hotel Scalfari. Confessioni libertine su un secolo di carta" (edito da Marsilio). A leggere brani del volume l' attore Roberto Herlitzka mentre sul palco, a moderare l' incontro, Simonetta Fiori. Seduti accanto a lei i due autori Antonio Gnoli e Francesco Merlo, Paolo Mieli, storico ed ex direttore del Corriere della Sera, e Carlo Verdelli, attuale direttore di Repubblica. Alle 19,30 Eugenio Scalfari, 95 anni e mezzo (precisa), nato nel 1924, sale sul palco in jeans e pullover. Applausi del suo pubblico, della grande "famiglia" di Repubblica in sala da Raimondo Bultrini a Daniele Mastrogiacomo. Fra le prime ad arrivare le figlie Donata ed Enrica Scalfari, Alberto Asor Rosa, Irene Bignardi, Michele Ainis, Angelo Guglielmi, Selma Dell' Olio, moglie di Giuliano Ferrara e Jas Gawronski che dice: «Per me Scalfari è "il giornalismo" Ha reso questa professione qualcosa che la gente ammira ». Paolo Mieli racconta: «Ci siamo conosciuti che avevo 18 anni, sono cresciuto alla sua scuola, è stato il mio primo direttore all' Espresso. Ed è un amico da oltre 50 anni. Questo libro va letto come un romanzo». E ancora, Pietrangelo Buttafuoco: «Il libro è così festoso. Penso che sia perfetto per vincere il Premio Strega». Herlitzka comincia a leggere alcuni brani, si parla dell' infanzia, della storia della barba di Eugenio e dei suoi genitori. Paolo Guzzanti commenta: «Ci siamo rivisti un anno fa dopo tanto tempo. Mi fa piacere che abbia questa soddisfazione trionfale». Selma Dell' Olio sottolinea: «È un' icona del giornalismo. Non si poteva non venire». Il libro è scritto in prima persona. Verdelli dice: «Prima di diventare direttore non lo conoscevo e mi sono augurato di fare colpo su Scalfari. E lui mi ha stupito. Mi ha fatto un gran regalo, un pomeriggio a casa sua». E Scalfari guardando Verdelli precisa: «Non ci conoscevamo, ma direi che "ci siamo innamorati". A volte quando siamo insieme ci viene da piangere o perché abbiamo capito una cosa bella o brutta o entrambe. Questa è la vita e questo commuove ».
Silvia Fumarola per “la Repubblica” il 31 ottobre 2019. Una vita da romanzo in cui l' infanzia, il rapporto con i genitori, i ricordi lontani sono vivissimi e hanno lasciato il segno. Roberto Herlitzka legge le prime pagine di Grand Hotel Scalfari-Confessioni libertine su un secolo di carta di Antonio Gnoli e Francesco Merlo, edito da Marsilio, e il fondatore di Repubblica è un bambino che osserva il padre mentre si rade. Le pagine sulla barba («è stata una carta d' identità») raccontano l' uomo e il tempo che passa «sono novantacinque anni e mezzo, anche la barba si è fatta fragile». L' infanzia cattolica («Oggi mia madre sarebbe felice che sono amico di Papa Francesco »), la straordinaria avventura della nascita di Repubblica, le battaglie politiche, gli amori, il rapporto con gli amici e i nemici. «È un capolavoro scritto apparentemente da me, ma io non ho scritto una parola» dice Scalfari alla presentazione del libro, a Roma, in un incontro affollatissimo al Tempio di Adriano moderato da Simonetta Fiori, con gli autori, il direttore di Repubblica Carlo Verdelli e Paolo Mieli. In platea Alberto Asor Rosa, Piero Citati, Irene Bignardi, Paolo Guzzanti presenti tanti giornalisti - di ieri e di oggi - legati a Repubblica. Scalfari saluta la sala sorridendo: «Ma vi conosco tutti! È come stare a casa mia. Questo libro» dice «mi ha fatto capire cose che erano dentro di me e loro le hanno rese esplicite. È molto speciale. Una specie di Madame Bovary... Gli autori mi hanno fatto una quantità di domande, poi hanno raccolto altre informazioni ma non mi hanno detto che scrivevano un libro. Non ho scritto una riga ma mi sono riconosciuto». La passione per il giornalismo che segna la sua vita (dell' ingegner Carlo De Benedetti, presidente onorario del gruppo Gedi dice: «Creatura singolare, ha deciso giustamente di andarsene», riferendosi alle recenti dimissioni), Scalfari è raccontato da Gnoli e Merlo che scrivono in prima persona, come se fosse lui l' autore. «Mai mi sarei immaginato che Eugenio affidasse ad altri di scrivere la sua vita» osserva Mieli «è un romanzo in cui due bravissimi giornalisti trattengono quello che a lui sta a cuore. Viene fuori un quadro diverso, in cui il passato è importantissimo. Gli anni recenti lo sono molto meno. Lo hanno colpito più i nemici degli amici: Craxi è citato, Prodi una sola volta». «Abbiamo cercato il filo rosso che unisce i mille Scalfari - ha spiegato Merlo - . Secondo noi è l' ottimismo, la gioia di vivere che nemmeno il fascismo e la guerra hanno scalfito. Repubblica somiglia al casinò di Sanremo che il padre dirigeva, c' è la commedia umana del fascismo e dell' antifascismo. Con un po' di audacia abbiamo trovato la misura. Scalfari è lo spartito e noi lo abbiamo suonato». Già il titolo, Grand Hotel Scalfari, suggerisce lo scorrere la vita, gli incontri. «Dà l' idea delle storie che entrano in un ambiente e vengono restituite» dice Gnoli «un luogo letterario in cui si intrecciano divertimento, nostalgia, storia, racconto». Repubblica viene fondata nel 1976, diventa un punto di riferimento per le battaglie sociali, è la grande avventura di un giornale che diventa community. «Quando superammo il Corriere » ricorda Scalfari «ho avuto paura: eravamo attrezzati a fare i cani che inseguono, non le lepri che fuggono ». «Scalfari come Montanelli e pochissimi altri, è un maestro» dice il direttore di Repubblica, Carlo Verdelli «Quando sono arrivato al giornale, da barbaro, perché non appartengo alla grande famiglia di Repubblica, temevo molto il primo incontro con Scalfari, volevo fare colpo su di lui e mi ha stupito. Abbiamo passato un pomeriggio insieme e lo ricordo come un punto di svolta. Smisi di sentirmi un barbaro e cominciando a lavorare per capire quale giornale fare, sono risalito alle sorgenti per ricongiungermi a quel giornale». Scalfari ricambia: «Se me lo consente dico che ci siamo innamorati, al punto che spesso vado nella sua stanza e a volte, toccando quello che uno di noi pensa, ci viene da piangere. O perché abbiamo capito una cosa bella, o perché abbiamo capito una cosa brutta. E questo ci commuove. Io sono sentimentale ». Rivela che quando parla con Papa Francesco, il pontefice gli dice: «Prego per lei, la prego di fare altrettanto. Allora gli spiego: "Santità, non sono credente". E lui mi dice: "Pensi a me, è la stessa cosa pensare a una persona volendole bene"».
Aldo Cazzullo per “il Corriere della Sera” il 22 novembre 2019. C' è il piccolo Eugenio Scalfari che ricama all' uncinetto; ma quando un bambino gli butta i giocattoli dalla finestra, lui gli impone di andare a riprenderli, «e da allora so che cos' è per me il carattere». C' è il padre Pietro, giovane legionario di d' Annunzio a Fiume disgustato dal regime e da sé stesso, che talora facendosi la barba al mattino si sputa nello specchio. C' è la madre che piange e singhiozza quasi tutte le sere: «In casa non ci fu mai un' atmosfera veramente drammatica, ma melodrammatica sì». C'è Italo Calvino che scappa dal bordello con i pantaloni in mano, perché non vuol essere toccato da una prostituta. C' è Angelo Rizzoli che affida il giudizio di Dio sugli affari - compreso finanziare o no «Repubblica» - al suo pappagallo, che sentenzia: «Angelo, sei uno stronzo». C' è Lino Jannuzzi che va in America a intervistare Ella Fitzgerald, ottiene due posti in prima fila - l'altro è per Serena Rossetti -, ma durante il concerto si addormenta clamorosamente, Ella Fitzgerald se ne accorge e ritira l'intervista. Insomma, a leggere Grand Hotel Scalfari alla ricerca di aneddoti, se ne trovano tanti, e strepitosi. Ma il libro è molto di più. Era un' operazione editoriale ad alto rischio di reducismo e di celebrazione; è diventata il racconto di formazione non solo di un giornale e di una comunità, ma di uno stile e di una corrente politico-culturale che da sparuta si fa di massa, sia pure quasi sempre minoritaria e quindi all' opposizione. E se questo è accaduto significa che ognuno dei vari artefici dell' operazione editoriale ha saputo fare il suo mestiere: Eugenio Scalfari, il protagonista, racconta, Antonio Gnoli e Francesco Merlo domandano e scrivono, e l' editor Ottavio Dibrizzi con il know-how della Marsilio fa la sua parte. Il risultato è un libro che resterà. Il titolo viene dalla passione dichiarata di Scalfari per i grandi alberghi, dove talora si ritira - al Grand Hotel di Roma, al Crillon di Parigi - anche nelle città in cui ha casa, per il gusto di guardare chi passa, indovinare gli amori, partecipare alla vita dei Salon che gli ricordano i casinò della sua giovinezza: quello di Sanremo, diretto dal padre, e quello di Chianciano, la cui direzione gli viene affidata dal padre dopo la guerra, s' intende senza stipendio. Con la stessa tecnica del direttore di un casinò - o di un circo, o di un' orchestra: memorabile la riunione in cui fa ascoltare ai capiservizio il nastro con la furia di Toscanini verso i suoi musicisti - Scalfari dirige i giornali. E Grand Hotel Scalfari è «la descrizione di uno stile, di un gusto, di una cultura, di un mondo che erano soltanto suoi e che sono diventati nostri» come scrivono i due autori: dove la parola «nostri» include tre generazioni di lettori, e quindi milioni di persone, mentre erano appena 12 mila le copie vendute dal «Mondo» di Mario Pannunzio, dove tutto ha inizio. Ed è una storia molto diversa da quella della sinistra tradizionale. Una storia che parte da Gabriele d' Annunzio, passa attraverso Francesco Pastonchi, poeta e retore di cui gli studenti torinesi ridevano già ben prima del Sessantotto ma a cui i ricordi d' anteguerra di Scalfari restituiscono fascino e dignità, le riviste del frondismo fascista, la temperie radicale e anche radical chic, il libertinismo intellettuale, l' apertura prima al socialismo poi al comunismo, prima a De Martino poi a Berlinguer. Certo c' è anche l' individuazione del nemico, che per un giornale è sempre una grande semplificazione: per vent' anni Craxi, per i vent' anni successivi Berlusconi; ora c' è Salvini che promette bene. Ma anche stando all' opposizione Scalfari non ha mai perso il gusto di sorprendere, distinguere, e anche di cambiare idea o farne convivere due. Come le donne della sua vita. La sincerità è il tratto che lega il racconto: l' adesione al fascismo, la cacciata, la Resistenza in convento, fino alla debolezza della vecchiaia. Il culmine dell' introspezione è il capitolo che si intitola «Due donne di cuori», che così comincia: «Sono ormai lontano dall' amore fisico. La vecchiaia non mi dà gioie, mi lascia i desideri e mi priva della loro realizzazione. Il corpo non risponde più come una volta alle sollecitazioni della mente. Il suo lento deteriorarsi mi fa pensare alla barca che si allontana, governata da venti e correnti che non dipendono da me. Il mio desiderio resta sulla riva ma nulla, tranne la morte, potrà ricondurlo a quel nucleo che marcisce di nervi e sangue, di energia e muscoli». Eppure solo la vecchiaia, la malattia, la morte recano pace, prendono decisioni che l' uomo non riesce a prendere, sciolgono il nodo di una vita intrecciata tra due donne, entrambe amatissime, entrambe necessarie, inevitabilmente divise da una rivalità che si stempera nelle parole dolcissime e struggenti con cui Simonetta morente chiede a Scalfari di spargere un po' del profumo che le ha regalato Serena. E davanti a questo miracolo tutto il resto, il potere, la politica, la storia patria passano in secondo piano, «ora che la natura mi sta rosicchiando», ma non gli impedisce di portare al suo giornale, che so, un' intervista al Papa. Così di Scalfari, come dei sacerdoti, si può dire che sarà giornalista in eterno.
Papa Francesco, l'irritazione di Jospeh Ratzinger per i colloqui con Scalfari: la bomba di Luigi Bisignani. Libero Quotidiano il 10 Novembre 2019. I colloqui di Papa Francesco con Eugenio Scalfari avrebbero stufato, e parecchio, il Papa emerito, Joseph Ratzinger. La bomba viene sganciata da Luigi Bisignani, sempre informatissimo su Vaticano e dintorni, in un suo intervento su Il Tempo di domenica 10 novembre. "È Scalfari che vorrebbe essere Bergoglio o Bergoglio che è tentato di fare Scalfari - s'interroga Bisignani -? Entrambi sembrano concedersi la licenza di confutare la dottrina. È questo il dilemma sul quale ci si interroga nei Sacri Palazzi, dopo la pubblicistica in libreria sul Grande Vecchio del giornalismo italiano", spiega l'uomo che sussurrava ai potenti. Nel mirino insomma c'è Il Dio unico e la società moderna, libro firmato da Scalfari e che raccoglie i suoi colloqui con Papa Francesco e il Cardinale Martini. Bisignani sottolinea che "i più raffinati tra i prelati dentro le Sacre Mura - e, si sussurra, addirittura di autorevolissimi teologi come il Papa emerito Ratzinger e il cardinal Ravasi - applicano volentieri il lapidario giudizio che all'epoca L'osservatore romano riservò all'opera letteraria di Papini: un libro colmo di errori scapigliati e clamorosi". "Gelosia, irritazione per questa strana coppia rappresentata da un gesuita che dovrebbe essere rigoroso e uno straordinario intellettuale che si professa bigamo e libertino? In effetti, di errori ne sono stati sottolineati e alcuni clamorosi", sottolinea Bisignani. Dunque, quegli errori li passa in approfondita rassegna. Ma non è finita. Già, perché l'uomo che sussurrava ai potenti si interroga su come stiano davvero le cose, sulla verità circa quei colloqui. E scrive: "Ma dopo le ripetute smentite della Sala Stampa Vaticana, a proposito dei contenuti dei colloqui, io credo che la verità sulle amnesie dottrinali di Scalfari e le accelerazioni di Bergoglio, che pare Ratzinger poco gradisca, per come io ho conosciuto il giornalista alla fine degli anni '70, sia un' altra". Ovvero, secondo Bisignani, quanto scritto da Scalfari di fatto rispecchierebbe perfettamente il pensiero di Papa Francesco.
Ratzinger non ne può più del “teologo” Scalfari. Luigi Bisignani per Il Tempo 10 novembre 2019. È Scalfari che vorrebbe essere Bergoglio o Bergoglio che è tentato di fare Scalfari? Entrambi sembrano concedersi la licenza di confutare la dottrina. È questo il dilemma sul quale ci si interroga nei Sacri Palazzi, dopo la pubblicistica in libreria sul “Grande vecchio” del giornalismo italiano. In Vaticano, usi a osservar tacendo, qualcuno ricorda che neanche su Giovanni Papini, quando pubblicò il suo ultimo libro Il diavolo (in cui sosteneva che Gesù avrebbe perdonato anche Satana perché necessario all’opera della salvezza), furono sollevate questioni “per riguardo alla canizie dell’autore”. Quello stesso riguardo, evidentemente, esteso anche all’ultimo libro di Eugenio Scalfari Il Dio unico e la società moderna, incontri con Papa Francesco e il Cardinal Martini cui, i più raffinati tra i prelati dentro le Sacre Mura – e, si sussurra, addirittura di autorevolissimi teologi come il Papa emerito Ratzinger e il Cardinal Ravasi – applicano volentieri il lapidario giudizio che all’epoca L’Osservatore Romano riservò all’opera letteraria di Papini: «un libro colmo di errori scapigliati e clamorosi». Gelosia, irritazione per questa strana coppia rappresentata da un gesuita che dovrebbe essere rigoroso e uno straordinario intellettuale che si professa bigamo e libertino? In effetti, di errori ne sono stati sottolineati e alcuni clamorosi. Che gli Apostoli di Gesù Cristo fossero dodici, si studia nella prima lezione di catechismo: gli Atti degli Apostoli, infatti, testimoniano che, dopo il tradimento e la morte dell’apostolo Giuda, i discepoli di Gesù scelsero al suo posto Mattia, costituendolo “apostolo”. E, quindi, dodici erano e tali rimasero. Sul ruolo “fondativo” del cristianesimo di San Paolo discutono i dotti da quando questa tesi fu postulata dai positivisti del primo Novecento. Inoltre sull’“autoconvincimento progressivo” di Gesù Cristo di essere il figlio di Dio, meglio stendere un velo pietoso. Quello che Scalfari invece “azzecca” è la tesi, certamente non inedita, che «il Dio creatore non può che essere uno solo per tutta l’umanità». E’ esattamente quello che Pietro, primo Papa, e così tutti i suoi successori dopo di lui, ha affermato nella sua prima omelia davanti al tempio di Gerusalemme. E qui, forse, avviene il fatto più curioso: il politicamente corretto impedisce persino al Papa di dirlo, per così dire, papale papale. Obbligandolo a delle iperboli non sempre molto felici, come quell’ormai suo «Dio non è cattolico», Eugenio Scalfari, che per età e condizione può ormai infischiarsi anche del politically correct, è invece libero di dire. E rimandando il suo “Verbo” ai colloqui avuti con il Pontefice, si erge a maître à penser del mondo cattolico autorizzato a ripetere i concetti più ovvi del cristianesimo, evitando al tempo stesso di passare per bacchettone e codino. Ma dopo le ripetute smentite della Sala Stampa Vaticana, a proposito dei contenuti dei colloqui, io credo che la verità sulle amnesie dottrinali di Scalfari e le “accelerazioni” di Bergoglio, che pare Ratzinger poco gradisca, per come io ho conosciuto il giornalista alla fine degli anni ‘70, sia un’altra. Ricordo bene quando veniva a intervistare l’allora Ministro del Tesoro, Gaetano Stammati. Ero sempre presente ed avevo stabilito con lui, per un breve periodo coincidente con la nascita di Repubblica, un bel rapporto. Ebbene, ascoltava il Ministro, scandiva le domande con aria grave, prendeva pochi appunti e poi, dopo qualche ora, rimandava il testo. Era sempre lo stesso copione. “Ma io molte di queste risposte non le ho date”, mi riferiva Stammati sornione. “Chiedo al direttore di cambiarle…?”. Ci pensava un attimo, raggomitolandosi come un micione bianco sulla poltrona dietro la scrivania di Quintino Sella, e aggiungeva: “No, non l’ho detto, ma è esattamente il mio retropensiero…solleverà un vespaio, ma vediamo poi cosa succede…”. Richiamavo il direttore e davo l’ok. E il giorno dopo grandi polemiche con sindacati e Confindustria. Chapeau! Forse sarà così anche con Bergoglio “ripreso” per le sue dichiarazioni da teologi e uomini di Curia! E, a proposito di retropensieri, dove Scalfari raggiunge invece un livello di sincerità davvero alto è in alcune pagine di Gran Hotel Scalfari (Marsilio editore), una confessione scritta da Antonio Gnoli e Francesco Merlo. Sono le pagine in cui racconta come sia vissuto per anni da bigamo con Simonetta, la sua prima moglie, e Serena, la sua seconda. Una confessione palpitante che certamente il suo amico Bergoglio si sforzerà di perdonargli. Le vie del Signore sono infinite. Luigi Bisignani per Il Tempo 10 novembre 2019
Antonio Socci e l'attacco a Papa Francesco: "Eugenio Scalfari come Cristo, gliel'ha detto lui". Libero Quotidiano l'11 Ottobre 2019. Continuano le rivelazioni di Eugenio Scalfari sulle personali (mis)credenze di papa Bergoglio. Ieri ha sganciato un'altra bomba. Prima il giornalista ha riassunto con parole sue un colloquio: «Chi ha avuto, come a me è capitato più volte, la fortuna d' incontrarlo sa che papa Francesco concepisce il Cristo come Gesù di Nazareth, uomo, non Dio incarnato. Una volta incarnato, Gesù cessa di essere un Dio e diventa fino alla sua morte sulla croce un uomo». Fin qui si potrebbe glissare addebitando questa enormità all' impreparazione teologica di Scalfari, a scarsa memoria o a fraintendimento. Dopo però il Fondatore riporta un virgolettato, attribuendo a Bergoglio delle precise (ed esplosive) parole. In riferimento a certi episodi evangelici, il papa avrebbe detto a Scalfari: «Sono la prova provata che Gesù di Nazareth, una volta diventato uomo, sia pure un uomo di eccezionali virtù, non era affatto un Dio». Una simile affermazione è totalmente incompatibile col cattolicesimo: chi la pronuncia non solo non può più essere papa, ma nemmeno può dirsi più cattolico. È fuori dalla Chiesa. Quindi i casi sono due. Se è vera Bergoglio deve semplicemente andarsene. Nel caso in cui la frase attribuitagli non sia vera, per la sua gravità, essendo fra virgolette, quindi addebitata direttamente a lui da uno dei più famosi giornalisti italiani, sul quotidiano più venduto del paese, il Vaticano ha il dovere di smentirla chiaramente, ammonendo Scalfari a non attribuire più al papa frasi virgolettate false ed eretiche. Invece ancora una volta in Vaticano fanno i furbi. Ieri il direttore della Sala stampa si è arrampicato sugli specchi dicendo che «le parole che Scalfari attribuisce tra virgolette al Santo Padre durante i colloqui con lui avuti non possono essere considerate come un resoconto fedele di quanto effettivamente detto, ma rappresentano piuttosto una personale e libera interpretazione di ciò che ha ascoltato». Ma come può essere «libera interpretazione» la negazione della divinità di Cristo attribuita a un papa fra virgolette? Si può "liberamente" attribuire un' eresia a un papa con un virgolettato non vero? Se uno intervista il Capo dello Stato e gli attribuisce una dichiarazione di guerra alla Francia che non è vera, il Quirinale se la caverà dicendo che quel virgolettato è «una personale e libera interpretazione» dell' intervistatore? No. Smentirà categoricamente. Più di un miliardo di cattolici hanno il sacrosanto diritto di avere una smentita chiara o di sapere se alla guida della Chiesa c' è un signore che non professa (più) la fede cattolica. Invece il pastore se ne infischia del gregge. Dal 2013 si assiste a enormità sconcertanti e i fedeli che dissentono vengono insolentiti. Nessun papa è mai stato così. Un teologo di fama mondiale come padre Thomas Weinandy, già membro della Commissione Teologica Internazionale, su The Catholic Thing in questi giorni ha scritto: «La Chiesa, nella sua lunga storia, non si è mai trovata di fronte ad una situazione come quella in cui si trova ora». Poi ha aggiunto: «Ciò con cui la Chiesa finirà, dunque, è un papa che è il papa della Chiesa cattolica e, contemporaneamente, il leader de facto, a tutti gli effetti pratici, di una chiesa scismatica. Poiché egli è il capo di entrambi, rimane l' aspetto di una sola chiesa, mentre in realtà ce ne sono due». Il teologo descrive la situazione come «scisma papale interno», perché «il papa, proprio come papa, sarà effettivamente il leader di un segmento della Chiesa che attraverso la sua dottrina, l' insegnamento morale e la struttura ecclesiale, è a tutti gli effetti pratici scismatico. Questo è il vero scisma che è in mezzo a noi e deve essere affrontato». Secondo il teologo cappuccino, Bergoglio «vede l' elemento scismatico come il nuovo "paradigma" per la Chiesa futura. Così, nel timore e nel tremore» conclude il religioso «dobbiamo pregare che Gesù, come capo del suo corpo, la Chiesa, ci liberi da questa prova». Nella Chiesa ormai Bergoglio è vissuto come un flagello. Antonio Socci
Il vetro soffiato di Eugenio Scalfari diventa un libro. Leopoldo Fabiani su L'Espresso il 12 Agosto 2022.
A un mese dalla scomparsa del grande giornalista, un volume raccoglie una scelta della rubrica tenuta per vent’anni su L’Espresso. I temi che gli erano più cari intrecciati ai fatti della vita di tutti i giorni
In una società in cui tutto o quasi tutto fosse diventato comunicazione, esisterebbe soltanto il presente, cioè il tempo reale; il passato sarebbe stato cancellato insieme alla solitudine, al dialogo con sé stessi e alla memoria. Non resterebbe che ribellarsi a una vita così congegnata e appiattita». Così scriveva Eugenio Scalfari nel suo “Vetro Soffiato” del 5 novembre 1998 quasi profetizzando quello sarebbe accaduto molto tempo dopo, nell’epoca che stiamo vivendo.
Alla rubrica quindicinale che da quell’anno aveva cominciato a tenere su L’Espresso, alternandosi nell’ultima pagina con Umberto Eco, Scalfari ha affidato riflessioni, che vanno al di là degli eventi quotidiani da cui prendono spunto, sui temi che più gli erano cari: l’etica pubblica e privata, la classe dirigente italiana, la storia, la religione, l’economia, i mutamenti del costume. Affrontati senza troppa seriosità, come scrive lui stesso nella rubrica d’esordio, spiegando la scelta del titolo: «Il vetro soffiato vuole essere un'indicazione di leggerezza».
Per Scalfari la rubrica su L’Espresso è una sorta di discorso diverso e parallelo a quello tenuto la domenica su la Repubblica commentando l’attualità della politica, dell’economia, dei fatti del mondo. È un modo per dialogare con i lettori sugli argomenti che più lo appassionano e che spesso costituiscono la materia dei libri che sta scrivendo nel corso degli anni. Anche se non manca di offrire ai suoi lettori ritratti puntuti e fulminanti di personaggi come Andreotti, Berlusconi o Grillo.
Per ricordare a un mese dalla scomparsa questo grande giornalista, figura unica nel panorama del Novecento, i lettori troveranno in edicola, in libreria e su Amazon al prezzo di 9 euro e 90 una scelta (introdotta da un articolo di Eco che presenta il suo illustre dirimpettaio) agile e significativa degli articoli che per vent’anni hanno rappresentato la sua vena creativa più intima e autentica dove i grandi interrogativi dell’esistenza umana si intrecciano alla vita di tutti i giorni, ai personaggi del momento, ai mutamenti sociali, alle passioni politiche. Sempre con leggerezza.
· E’ morto il mago Tony Binarelli.
Da leggo.it il 12 luglio 2022.
Il mago Tony Binarelli è morto a Roma all'età di 81 anni. I suoi show di magia sono stati molto apprezzati in tv negli anni '90, quando ha impreziosito i programmi di Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo con la sua magia. Binarelli si è spento all'ospedale Pertini dopo una lunga malattia. Un anno fa, in un'intervista a Fanpage, aveva detto: «Temo la malattia. Arrivare a non capire più niente, perdere il proprio spirito».
Gli esordi e la carriera
La passione per la magia nasce durante l'estate dei suoi 13 anni, quando a causa di una brutta bronchite iniziò a coltivare l'interesse per l'arte della prestigiazione. Crescendo ha poi seguito una strada più "tradizionale", conseguendo il diploma di ragioniere e lavorando presso una ditta automobilistica. Dopo circa 14 anni da impiegato, però, ha mollato tutto e ha seguito la scia luminosa dell'illusionismo, facendo il primo passo di una lunga carriera artistica.
Dagli anni ’70 agli anni ’90, ha incantato gli spettatori con i suoi giochi di prestigio. Con numeri conditi di umorismo ha impreziosito i programmi di Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo fino a presenziare a Buona Domenica dal 1991 al 1995. Numerose le ospitate in Rai e Mediaset e le performance dal vivo in giro per l’Italia. Al suo fianco, la moglie Marina, conosciuta quando aveva 19 anni e conquistata con uno dei suoi magici trucchi.
L'incontro con Fellini
Riuscì ad affascinare persino Fellini: «Aveva una grande passione per la magia e disse ad una attrice, mia amica, che gli sarebbe piaciuto conoscermi. Ci incontrammo a una cena. Mi chiese di fargli vedere qualcosa. Presi un mazzo di carte e lui cominciò a spostare un tavolino, poi cambiò una luce, riposizionando le sedie e mi disse: “Adesso fai il tuo gioco”. Io gli chiesi il motivo di quello strano comportamento e lui mi spiegò: “Io voglio godere al massimo del tuo personaggio. Ti ho creato la scenografia affinché tu possa essere valorizzato”.
Le mani di Terence Hill
Non tutti sanno che prestò le mani a Terence Hill nella scena del film "…continuavano a chiamarlo Trinità" in cui mescolava le carte: «Io e Terence Hill - ricordò sempre Binarelli - avevamo a disposizione una maglia sola. Quella maglia bucata, sudata e sporca di polvere, dovevamo scambiarcela. Lui faceva la scena, poi la maglia la mettevo io e riprendevano le mani e così, tra fisarmoniche e ventagli, sembrava che Terence Hill fosse un grandissimo giocatore. Quando fecero la prima del film al cinema, dopo la scena della partita a carte, il pubblico fece un applauso. È un momento che ho appuntato al petto, più di molte altre medaglie».
È morto Tony Binarelli, il mago della tv. Aveva 81 anni. Si è spento in ospedale a Roma. La Repubblica il 12 Luglio 2022.
È morto Tony Binarelli, il mago della tv dagli anni 80 e 90. Antonio Binarelli, questo il vero nome, si è spento a 81 anni all'ospedale Sandro Pertini di Roma. Era nato a Roma il 16 settembre del 1940, nella fase di maggiore successo della sua carriera aveva collaborato ai programmi televisivi di Corrado, Mike Bongiorno e Pippo Baudo fino a presenziare a Buona domenica dal 1991 al 1995. In televisione ha anche recitato nella parte di se stesso nelle due puntate dello sceneggiato Rai del 1972 Serata al Gatto Nero. Numerose le partecipazioni a programmi in Rai e Mediaset e le performance dal vivo in giro per l'Italia.
Raccontava di aver cominciato con i giochi di magia da ragazzino, a tredici anni, quando una brutta bronchite lo avevo costretto a casa per una intera estate. Poi erano arrivati gli studi in Ragioneria, il diploma e il lavoro presso una ditta automobilistica. ma quel pallino per l'illusionismo l'aveva sempre tenuto vivo. Talmente vivo che dopo quattordici anni di vita da impiegato Binarelli aveva deciso di mollare tutto e di darsi, esclusivamente e definitivamente, alla magia. Nel frattempo, a 19 anni, aveva incontrato Marina, che sarebbe diventata sua moglie e gli sarebbe rimasta accanto tutta la vita.
Amava ricordare l'incontro con Federico Fellini, altro grande appassionato di magia, esoterismo, parapsicologia. "Disse a un'attrice, mia amica, che gli sarebbe piaciuto conoscermi - raccontava Binarelli - e organizzammo un incontro a cena dove mi chiese di mostrargli qualcosa. Io presi un mazzo di carte, lui spostò il tavolo, cambiò posizione a una luce, insomma creò una specie di set e poi mi disse “adesso fai il tuo gioco”. Io gli chiesi il motivo di quello strano comportamento e lui mi spiegò: 'Voglio godere al massimo del tuo personaggio. Ti ho creato la scenografia affinché tu possa essere valorizzato'”.
Festa per i vent'anni dello storico locale romano Piper, Binarelli è il primo da destra Non era, questo, il suo unico motivo d'orgoglio. Nel film ...Continuavano a chiamarlo Trinità, sono di Binarelli, in realtà, le mani di Terence Hill che mescola le carte con grande maestria. "Io e Terence Hill avevamo a disposizione una maglia sola, era sporca, sudata e piena di polvere come richiesto dal personaggio - aveva raccontato in un'intervista a Fanpage - e dovevamo continuamente scambiarcela. Lui girava la scena, poi mi passava la maglia e di me riprendevano solo le mani. E così sembrava che fosse lui il grandissimo giocatore. Alla prima del film, in sala, dopo la scena della partita a carte, partì dal pubblico un grande applauso: per me è come una medaglia che porto sul petto, più di molte altre".
Addio a Tony Binarelli, il mago della televisione che prestò le mani a Brigitte Bardot e Terence Hill. Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 12 luglio 2022.
Allenava le mani appallottolando i fogli di carta, stringendo le palline o sollevando le bottiglie dal collo, dopo averci infilato le dita. Un tempo lo faceva anche per quattro ore al giorno. L’abilità a maneggiare le carte, del resto, gli aveva aperto le porte del cinema come «contromani», la controfigura degli attori durante le partite di poker. Il primo fu Rex Harrison, ma si fecero sostituire da lui uomini e donne in oltre cinquanta pellicole, da Alain Delon a Charles Bronson, da Gina Lollobrigida a Brigitte Bardot, anche se la scena stracult resta quella in cui Terence Hill, seduto di fronte al sodale Bud Spencer, dà le carte sul tavolo verde di un saloon in ... continuavano a chiamarlo Trinità. Questo, prima che raggiungesse la popolarità sul piccolo schermo grazie a Corrado e alla sua.
I trucchi mai svelati
Antonio «Tony» Binarelli si è spento prima dell’alba del 12 luglio all’ospedale Sandro Pertini di Roma a 81 anni, dopo una lunga malattia di cui non amava parlare, anzi: con chi lo sentiva per un saluto sminuiva gli acciacchi, scherzandoci sopra. Illusionista, mago, attore, autore di libri, ha fatto «perdere la testa» anche alla duchessa Claudia d’Aosta (l’aveva fatta sparire, letteralmente). Una volta a Buona Domenica, su Canale 5, tenne con il fiato sospeso i telespettatori giocando alla roulette russa. Naturalmente c’era il trucco, ma per 11 minuti e 42 secondi da casa, se possibile, trattennero il fiato, finché una delle sei pistole calibro 32 a canna corta che aveva puntato contro di sé non sparò a vuoto.
La passione da ragazzino
Raccontava, cambiando un po’ l’aneddoto ogni volta, che si era appassionato alla magia a tredici anni, al mare di Follonica, a causa di una broncopolmonite che gli aveva impedito di fare i bagni. Entrando in una libreria avrebbe fatto crollare uno scaffale per ritrovarsi sulla testa esattamente il libro che lo aveva incuriosito: L’Emulo di Bosco. Confidenze di un prestigiatore, di Romanoff. Poco importa che il titolo cambiasse da un’intervista all’altra o che quel libro glielo avesse invece regalato suo padre, durante la convalescenza, come pure confessò. Vero è che da allora chiese di ricevere in dono solo saggi su magia, illusionismo, prestidigitazione, ai quali dedicò ogni momento libero dell’adolescenza, grazie ai quali cominciò a esibirsi sedicenne nelle parrocchie. Fu a uno di questi spettacoli che conobbe la futura moglie, Marina, di cui sul palco azzeccò il numero di telefono, conquistando il diritto di conoscerne l’indirizzo di casa: e le mandò, il giorno dopo, tante rose quante la somma dei famosi numeri indovinati.
I premi
Nel 2008 fu nominato Cavaliere della Repubblica, onorificenza che lo commosse e lo riempì di orgoglio, non meno dei tre premi ai Campionati Mondiali d’Illusionismo (nel 1967, nel 1970 e nel 1973) o del Telegatto che conquistò (unico tra i prestigiatori) grazie alla presenza fissa a «Buona Domenica», dal 1991 al 1995. Soffrì l’allontanamento progressivo dalla televisione. Ma, ammetteva, i tempi erano cambiati: quando aveva cominciato con Corrado aveva quindici minuti a disposizione, non tre. Però non perse mai il contatto con il pubblico, accettando gli inviti che arrivavano da circoli e piazze.
Il ricordo dei colleghi
Il «collega» Silvan lo ricorda così con il Corriere: «Sono immensamente addolorato perché ci ha lasciato un amico e un grande personaggio della magia italiana. Ci siamo incontrati migliaia di volte e la sua persona rimarrà per me indimenticabile». E uno degli allievi migliori, l’escapologo Andrew Basso: «Ci siamo sentiti l’ultima volta il 2 maggio, mi incoraggiava sempre. Riusciva a creare una tensione altissima, quando si esibiva, e poi la smorzava con una battuta in romanesco. Per noi giovani maghi che partecipavamo ai suoi corsi lui era come un papà: oltre che maestro, rappresentava davvero una figura magica».
· Addio il giornalista Amedeo Ricucci.
Addio ad Amedeo Ricucci, storico inviato di guerra della Rai. Il giornalista 63enne originario di Cetraro si trovava a Reggio Calabria per un servizio sulla ‘ndrangheta. Da tempo combatteva contro un male incurabile. su Il Quotidiano del Sud l'11 Luglio 2022.
Amedeo Ricucci, 63 anni, storico inviato della Rai, è deceduto stamattina a Reggio Calabria, colpito da un malore. Ricucci, che da tempo combatteva contro un male svelatosi incurabile, era giunto a Reggio Calabria per un servizio sulla ‘ndrangheta. Secondo quanto appreso, insieme a un operatore stava per lasciare l’albergo, quando si è accasciato al suolo. A nulla è valso il rapido intervento dei soccorsi.
Originario di Cetraro, in provincia di Cosenza, Ricucci era stato inviato di Professione Reporter, Mixer, Tg1 e la Storia siamo Noi. Inoltre, era stato anche inviato in zone di guerra, in Afghanistan, Kossovo, Algeria e Iraq.
Autore di numerose pubblicazioni, era con Ilaria Alpi e Miran Hrovatin nel viaggio in Somalia, che il 20 marzo del 1994 si concluse con l’assassinio della giornalista del TG3 e del suo cameraman. Era stato testimone diretto dell’uccisione del fotoreporter del Corriere della Sera, Raffaele Ciriello, avvenuta nel 2002 a Ramallah, raccontando l’episodio in un libro.
Morto Amedeo Ricucci, inviato di guerra Rai rapito in Siria nel 2013. Mauro Scrobogna su Il Domani l'11 luglio 2022
Il cronista è scomparso per una malattia che gli è stata diagnosticata tre anni fa, inutile la corsa all’ospedale di Reggio Calabria, dove stava realizzando un’inchiesta sulla ‘ndrangheta
È morto all'età di 63 anni il giornalista Amedeo Ricucci. Storico inviato di guerra della televisione pubblica, dal 3 al 13 aprile 2013 è stato tra i quattro cronisti italiani rapiti in Siria da una milizia vicina al gruppo Stato islamico.
A darne notizia, con una nota, è il Cdr del Tg1 nella quale si legge: «Ciao Amedeo, te ne sei andato mentre facevi quel lavoro che tanto amavi. Difficile qui trovare parole che non sembrino scontate, per esprimere il profondo dispiacere e la tristezza per la perdita di un compagno di strada straordinario. Appassionato nel suo essere giornalista, inviato speciale. Amava quello che faceva, raccontare la realtà che andava a scovare negli angoli del mondo e nei momenti più bui, come quelli della guerra. A rischio della propria stessa vita» si legge.
«Per tanti anni al Tg1 e alla Rai ha dato un contributo enorme non solo professionale ma umano. Sempre partecipe, sempre in prima linea quando si trattava di discutere insieme del presente e del futuro della nostra professione. Si è preso cura della redazione, impegnandosi come Cdr, si è sempre impegnato nelle battaglie sindacali. Appassionato, anche qui, come pochi. Difensore del mestiere più bello del mondo. Che ti ha accompagnato fino alla fine. Noi, tutti noi, cercheremo di portare avanti quel testimone».
IL PROFILO
Ricucci era nato a Cetraro, in provincia di Cosenza, nel 1958, ed è morto a Reggio Calabria a causa di una malattia diagnosticata tre anni fa. Sarebbe stato colpito da un malore mentre era in albergo, dove si trovava per realizzare uno speciale del Tg1 sulla 'Ndrangheta. Inutile la corsa in ospedale.
Nel corso della sua carriera ha seguito i principali conflitti degli ultimi trent’anni, dalla guerra civile in Algeria al conflitto in Bosnia e Kosovo, l’invasione dell'Afghanistan, il conflitto israelo-palestinese, le rivolte arabe e la guerra in Libia e Siria. È stato anche protagonista diretto di diversi eventi: nel 1994 era parte del viaggio in Somalia con i colleghi Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, che si concluse con la loro uccisione.
Nel 2022 è stato testimone della morte a Ramallah del fotoreporter Raffaele Ciriello, rimasto ucciso a causa di colpi d'arma da fuoco dell'esercito israeliano nell'ambito della seconda Intifada palestinese.
Ha lavorato come inviato per le trasmissioni Professione Reporter, Mixer, TG1 e La Storia siamo noi, mentre dal 2013 è entrato a far parte della redazione di Speciale Tg1.
· E’ morto il compositore Monty Norman.
Monty Norman, morto il leggendario compositore del tema di James Bond. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.
La notizia della scomparsa, dopo una breve malattia, è stata data alla Bbc dalla famiglia dell'artista. Nella sua carriera ha anche cantato con alcune band
Monty Norman, compositore e paroliere le cui opere includono il celebre tema della saga di James Bond, è morto all'età di 94 anni dopo una breve malattia. Lo comunica la Bbc citando la sua famiglia. Figlio di immigrati lettoni, Norman è cresciuto nell'East End di Londra, dove sua madre gli comprò la prima chitarra quando aveva 16 anni. Norman ha composto le musiche per gli spettacoli dei teatri del West End della capitale britannica, tra i quali «Expresso Bongo» e «Irma La Dolce», prima di passare al cinema.
Il celebre tema di Bond, commissionato per il film «Agente 007 - Licenza di uccidere» del 1962, è stato poi utilizzato per tutte le pellicole della saga. Fu il produttore di Bond, Cubby Broccoli, a chiedere a Norman di comporre la colonna sonora del primo film, essendo rimasto colpito dal suo curriculum musicale teatrale. Il compositore ha rispolverato una delle sue precedenti composizioni — «Bad Sign Good Sign», da una produzione non più realizzata di «Una casa per Mr Biswas» di V.S. Naipaul — e l'ha riscritta pensando a 007. «La sua sensualità, il suo mistero, la sua spietatezza — è tutto lì in poche note», ha ricordato in seguito Norman.
Nella sua lunga carriera Norman ha anche cantato con alcune band ed è apparso anche in spettacoli di varietà insieme a artisti del calibro di Harry Secombe, Peter Sellers, Spike Milligan e Tommy Cooper. Ha anche scritto la musica per il film del 1960 «Il mostro di Londra», diretto da Terence Fisher e tratto dal romanzo di Stevenson «Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde», e anche di «...e la terra prese fuoco» del 1961, del film del 1963 con Bob Hope e Anita Ekberg, «Chiamami Bwana», ma anche della miniserie tv con Ben Kingslay e Patsy Kensit, «Dickens of London» del 1976.
· E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.
E' MORTO ANGELO GUGLIELMI, STORICO DIRETTORE DI RAI3
(ANSA l'11 luglio 2022) - E' morto nella notte all'età di 93 anni Angelo Guglielmi. Si è spento nel sonno. Storico direttore di Rai3, lanciò programmi che hanno fatto la storia della rete e della tv pubblica, oltre che personaggi come Corrado Augias, Michele Santoro, Serena Dandini e Fabio Fazio. Oltre che dirigente, fu critico letterario, saggista e giornalista.
Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
• Arona (Novara) 2 aprile 1929. Mitico direttore di Raitre (1987-1994) e forte innovatore del linguaggio televisivo italiano (Blob, Cinico tv, Chi l’ha visto?, Milano Italia e relative star tv, tutte lanciate da lui: Chiambretti, Santoro, Lerner, Riotta, Ferrara, Augias, la Spaak, Lubrano, la Leosini, Fazio, la Raffai e poi la Sciarelli ecc.).
Critico letterario. Tra i fondatori del Gruppo 63. «Il nome ci venne per suggerimento dal Gruppo 47, nato in Germania dopo la guerra (…). Eravamo diversi ma avevamo le stesse impazienze: non ci piaceva il neorealismo piatto e predicatorio, di origine ottocentesco-naturalista; non ci piaceva il crepuscolarismo in poesia, dolente di umili lacrime; non ci piaceva il paese in cui eravamo diventati adulti (…) E tutto questo non perché soffrissimo di qualche esclusione, essendo già tutti ben sistemati nell’università, nelle case editrici, nei giornali, alla Rai.
Dunque niente rivendicazioni personali. Né obbedienze fideistiche: votavamo tutti per i partiti di sinistra (il Pci in testa), ma avevamo in orrore le loro idee sull’arte, cioè la pretesa che l’arte dovesse servire alla politica o, in forma più composta, che l’arte servisse a cambiare il mondo. Il romanzo che più deridevamo era Metello di Pratolini» [Alfabeta2 numero 33, nov-dic 2013].
In Rai dal 1955. Dal 1995 al 2001 presidente dell’Istituto Luce. Candidato sindaco a Pomezia nel 2002. Poi assessore alla Cultura di Bologna, giunta Cofferati (ha raccontato questa esperienza nel libro Carte bolognesi, pubblicato da Aragno nel 2010). Per anni critico letterario dell’Espresso, continua a scrivere recensioni su l’Unità e su Tuttolibri, l’inserto settimanale del sabato de la Stampa «Non è sufficiente un solo mestiere per dare senso alla propria vita».
• «Decisi di raccontare il paese con tutti i linguaggi, da quello giornalistico a quello satirico, da quello sociale a quello politico e nacquero trasmissioni di successo come: Quelli che... il calcio, Avanzi, Samarcanda, Linea Rovente, Telefono, Giallo, Mi manda Lubrano, Chi l’ha visto, Harem, Blob, Un giorno in Pretura, il Portalettere. Lo share della rete passa dal 2% al 12%».
• Mise le annunciatrici in video tra virgolette.
• «Guglielmi era un eterodosso, infatti l’Ulivo così liberal la prima cosa che fece quando prese il potere fu di ammazzarlo, televisivamente parlando, e metterlo in pensione» (Giuliano Ferrara).
• Nel 2004 la Bompiani gli dedicò il numero di Panta Blob Guglielmi (volume di testimonianze curato dallo stesso Guglielmi ed Elisabetta Sgarbi).
• Nel 2010, quasi a consuntivo dei suoi molteplici interessi, ha pubblicato Il romanzo e la realtà: cronaca degli ultimi sessant’anni di narrativa italiana e ripubblicato Senza rete. Il mito di Rai Tre 1987-1994 (scritto con Stefano Balassone). Entrambi i testi sono usciti per Bompiani.
• «La critica non serve più al pubblico: è finito il tempo in cui era sufficiente un articolo di Emilio Cecchi sul Corriere per determinare la fortuna di un libro. Oggi sono altri i parametri che contano e tutti hanno a che fare con la televisione, che non sa nulla del libro di cui parla e tutto della possibile seduttività dell’autore. Ma se non serve più al pubblico a chi serve? Non scandalizzatevi: serve all’ autore.
Gli dà la coscienza della situazione in cui sta operando, confortandolo nel suo progetto ma anche indicandogli gli inganni in cui può cadere, gli smarrimenti cui è esposto. E poi chi ha detto che, non potendo leggere tutti i romanzi che escono (nell’ anno appena passato sembra siano stati oltre cento), il critico non sia in grado di ipotizzare un abbozzo di canone o almeno di tratteggiare una indicazione di direzione e di indirizzo? (…) Il canone a posteriori è mestiere del professore, non del critico.
A lui (al critico) si chiede di dirci non quel che siamo stati, ma quel che stiamo tentando di essere, senza ovviamente la certezza del buon esito o della giustezza della strada inforcata. Così io (critico) suppongo di sapere dove il romanzo sta andando e so anche perché l’ autofiction (come la definisce Gabiele Pedullà) è oggi (e lo sarà per qualche tempo) la dimensione (o la pratica) vincente: è che c’è un grande bisogno di caricare di materialità le parole (che ci sfuggono da tutte le parti) e l’ unico modo per fermarle, se pure provvisoriamente, è agganciarle a qualcosa di incontestabilmente accaduto o che sta accadendo, quale è una vita umana e gli accidenti in cui si sviluppa o, meglio, può svilupparsi» (Angelo Guglielmi) [Cds 23/8/2010].
• «Non vi sono quasi mai nomi di scrittori interessanti, a proposito dei quali valga la pena leggere ciò che Guglielmi, o chiunque altro, ne pensa. Anzi, a questo livello di setaccio e riepilogo di una lunga, battagliera vicenda di critico, sorge spontaneo l’ ultimo dubbio, che a furia di indicare la retta via si siano dimenticati i prerequisiti, ovvero l’ elementare senso comune, ciò che (nello spazio estetico) chiamiamo gusto.
A Guglielmi, ahimè, manca il gusto. È la ragione per cui, alla fine, come accade a tanti scrittori d’avanguardia, risulta attraente, o coinvolgente, l’uomo; l’ uomo più che lo scrittore» (Franco Cordelli) [Cds 11/7/2010].
• «La realtà non è un fatto ma un concetto. Negli anni Cinquanta gli scrittori come Pratolini raccontavano la realtà sociale e politica, negli anni Sessanta Arbasino e Sanguineti sollecitati dal grande Gadda, guardavano alla realtà come invenzione linguistica, negli anni Ottanta, con Tondelli per esempio, si annuncia il ritorno alla realtà dell´esperienza» (ad Antonio Gnoli) [Rep 5/5/2010].
• «Guglielmi è quello che ha scritto (…), che, se avesse letto prima e in tempo Debenedetti, non avrebbe mai osato esercitare il mestiere di critico. Espressione che non l’induce a qualche atto di pubbliche scuse, mentre precipita tutti noi in uno stato d’imbarazzo, se non di vergogna: non è stato proprio Guglielmi quello che, con una sicumera stupefacente, nel nome di un’ideologia perennemente identica a se stessa come quella neoavanguardistica, incrollabile nelle sue certezze e nei suoi miti letterari, ha brandito contro gli scrittori la sua matita rossa e blue per più di quarant’anni? Tutta quest’arroganza e non aveva nemmeno letto Debenedetti» [Massimo Onofri, Sensi vietati, Gaffi editore 2006, p. 80].
• L’ultimo grande romanzo letto «Se parliamo di grandi romanzi e non dei brodini con i quali di regola ci nutriamo direi Fratelli d´Italia. Con quell´opera Arbasino inventa una lingua stracciata, flessibile e che si conforma al disordine, al non senso che ha invaso i comportamenti e le ideologie. Timbra così la modernità» (a Gnoli cit.).
• Fratello di Giuseppe Guglielmi (1923-1995), poeta e traduttore di Céline. Sposato con Alberta Montanari. Due figli: Annalisa e Carlo.
Conteneva moltitudini. L’egemonia culturale di Guglielmi e la pretesa fessa di replicare la sua tv. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 Luglio 2022.
È morto l’intellettuale che in soli sette anni (28 anni fa) ha cambiato la televisione italiana costruendo programmi decisamente irripetibili (a meno che non si creda nei corsi e nei ricorsi storici)
«Se il Potere vi dovesse offrire di dirigere una rete televisiva accettate senz’altro; potreste diventare migliori di quel che siete. Forse capirete cos’è la tv; e capirete perfino qualcosa del Potere». Lo scrivono, all’inizio di Senza rete: Il mito di Rai Tre 1987-1994, due signori che, qualunque altra cosa abbiano fatto, resteranno sempre quelli di quella stagione che cambiò la tv italiana, Angelo Guglielmi e Stefano Balassone.
Angelo Guglielmi è morto ieri a 93 anni, e se si cerca il suo nome su Google la prima mansione che viene fuori è “critico letterario”. Il che induce una domanda, visto che sì, Guglielmi è stato un letterato, un intellettuale (quel che più conta: un detrattore di Pasolini); ma – in quello che chiedo perdono se chiamo “immaginario collettivo” – sarà sempre quel tizio che, sapendo scegliere di chi avvalersi (poi ci torniamo), ha preso una rete irrilevante e l’ha trasformata nel luogo di Chi l’ha visto e di Quelli che il calcio, del Portalettere e di Avanzi, di Telefono Giallo e della Piscina (uh come ci torniamo, sulla Piscina).
Ecco: come succede che, di novantatré anni di mansioni intellettuali, di te si ricordino innanzitutto quei sette anni finiti ventotto anni fa? Perché la tv è egemone, d’accordo, ma non può essere solo quello.
Un anno fa faceva molto caldo e io stavo molto traslocando, quindi non sono andata in Triennale, a Milano, dove Guglielmi si era organizzato il funerale da vivo. È una cosa che fanno quelli la cui vanità è così grandiosa da non venire dissimulata. Nora Ephron non aveva detto a nessuno che stava morendo, ma aveva preparato le orazioni funebri che, appena morta, la sua famiglia ha comunicato a Tom Hanks e Meryl Streep che avrebbero dovuto tenere.
Guglielmi sapeva di avere a disposizione non certo Tom Hanks, e quindi la celebrazione l’ha voluta in propria presenza, acciocché l’ansia da prestazione facesse dare agli scappati di casa della tv italiana il meglio.
La ragione di cui sopra – quella per cui di Guglielmi si ricorda Rai 3, come di Vivien Leigh si ricorda Via col vento – è molteplice e vaga. Perché sì: se eravate carta assorbente (cioè: adolescenti o giù di lì) in quei sette anni finiti ventotto anni fa, non potete non averne fatto un feticcio culturale. Siete cresciuti con Corrado Guzzanti e coi film di Howard Hawks in lingua originale (quando l’altro giorno è morto Vieri Razzini ho pensato che a raccontarlo oggi non sembra neanche vero: la tv pubblica ci faceva vedere i film in bianco e nero non doppiati alle dieci e mezza di sera; dopo, sono venuti anni così inutili che un’intera generazione pensa che la lingua originale se la sia inventata Netflix). Siete cresciuti con Paolo Rossi e Corrado Augias. Quelli di oggi crescono con XFactor e Corrado Formigli: foss’in loro chiederei un sussidio per colmare questo svantaggio di formazione.
Epperò: è una ragione che non basta, perché pochi intellettuali sono stati più equivocati di Guglielmi. Prendiamo sempre da coloro che vogliamo celebrare ciò che ci fa comodo e si accorda con la nostra visione del mondo, ma in questo caso è un’operazione particolarmente fessa, perché Guglielmi conteneva moltitudini che snaturi se fai una selezione che credi culturale e invece è al massimo midcult. Ieri c’era un’intervista a Serena Dandini sul suo (di Guglielmi) valorizzare le donne. Si citavano lei, Donatella Raffai, Franca Leosini. Nessuno mai cita La piscina, eppure Alba Parietti e la sua selvaggeria (cit.) danno la cifra di quella Rai3 più di molte trasmissioni presentabili. («Andrea Barbato era sempre elegantissimo. Scriveva a macchina nell’ufficio di Via Settembrini, nella stanza accanto c’era la redazione della Piscina e ci guardava con disprezzo», racconta chi c’era: quella contiguità di stanze è la miglior polaroid di Guglielmi).
Una delle cose impressionanti, rileggendo Senza rete (lo pubblica Bompiani, e ve lo consiglio caldamente se volete capire un po’ di quella tv e molto di questa e quella Italia), è rendersi conto che il giovane funzionario del Pci che fa da mediatore quando al partito che apparteneva «alla cultura del latifondo, pur nullatenente» viene assegnata la terza rete, e si finisce per dare la direzione a Guglielmi (invece che a qualcuno di più organico), quel tizio lì, che determina i consumi culturali della mia adolescenza, non ha neppure trentadue anni. Si chiama Walter Veltroni, ma questo è secondario. Quel che ho pensato ieri è stato: ma te lo vedi un trentunenne di oggi avere quest’influenza senza essere sposato con la Ferragni?
Prima di proseguire devo fare quella cosa da articoli americani di denunciare i conflitti d’interesse dell’articolista. Stefano Balassone era il vice di Guglielmi. Bruno Voglino era il capostruttura del varietà (cioè quello che, da Fazio in giù, s’è inventato un po’ tutti quelli che abbiamo guardato nei decenni successivi). Non ho mai incontrato Guglielmi, ma Balassone e Voglino hanno la responsabilità di avermi procurato i miei primi due ingaggi radiotelevisivi retribuiti. Lo dico non per indicare ai miei detrattori i nomi da colpevolizzare se non ho più dovuto trovarmi un lavoro vero, ma per spiegare perché ieri ho telefonato a Stefano Balassone – dal quale venticinque anni fa ho imparato l’unica cosa che serve sapere della tv italiana, cioè: è figlia di Portobello e di Vermicino – per chiedergli cosa farebbe oggi il trentunenne del Pci.
«La nostra astuta generazione ha così ripartito i compiti: i trentenni dominano il consumo ma non le decisioni», mi ha risposto, e io per un attimo ho pensato che forse avrei dovuto scrivere di quella che è la vera questione generazionale, e non di quella parola unica che è laraitrediGuglielmi. Una rete in cui, appunto, c’erano programmi che ricevevano la ferma condanna di Umberto Eco (Un giorno in pretura) e programmi in cui la Parietti ansimava Etienne, eppure l’idea di una tv che volesse sporcarsi le mani con la realtà, sebbene ripetuta come slogan, sembra continuare a non essere chiara a chi sospira ah, la tv degli intellettuali, ah, la tauromachia.
Balassone elenca le persone che circondavano Guglielmi, «il cattolico morboso Beghin, il postmoderno d’ordine Voglino, il situazionismo molto controllato di Ghezzi», e vengono in mente due analogie. La prima è con la Repubblica di Ezio Mauro, che poteva anche avere un editorialista dichiaratamente fascista senza perdere nulla in identità. Questo perché Guglielmi aveva una forte personalità («era molto facile lavorare in un contesto di autorevolezza») ma anche per la formula che Balassone riassume in: «Serviva la libertà della ricerca, e quella era merito di Guglielmi, e la certezza del potere, e quella era merito della lottizzazione» (santiddio quanto mi manca il Novecento).
La seconda analogia è con l’unico altro dirigente televisivo italiano così immediatamente identificabile e così memorabile: Ettore Bernabei. Balassone dice che non è un accostamento poi così strano, nonostante l’evidente diversità culturale: «È una questione di metodo, più che di merito: si trattava della sublimazione di un’idea di progresso mischiata con molto controllo». Per dirla eziomauramente: anche Bernabei, come Guglielmi, aveva un’idea di mondo.
Le nostalgie sono fesse: quella tv non è replicabile, e non solo perché oggi gli intellettuali, come dice Balassone, invocano «i valori della competenza come una volta s’invocavano le pie donne, come fosse un mondo stabile», invece di capire che «i fenomeni vanno affrontati spacchettandoli e comprendendoli», confusi come sono dal «tanfo del popolare moltiplicato dall’effetto social, vogliosi di verità certe piuttosto che problematiche».
Non è replicabile perché nasceva verso la fine della guerra fredda, e il mondo è cambiato e lo stesso Guglielmi, nel 2010, scriveva: «Sempre più spesso negli ultimi tempi, di fronte allo stato di decadenza della nostra televisione, mi chiedono che cosa farei per uscire dal danno. Rispondo che non lo so e forse continuerei a non saperlo se toccasse a me pensarci».
Sarebbe facile concludere: non esistono corsi e ricorsi, il mondo si è evoluto. Ma il mondo è regredito ai tempi della tv in bianco e nero, quella che in Senza rete Guglielmi e Balassone descrivevano così: «In mancanza di fatti veri, sotto il dominio, anzi, dei fatti mancati, si sprecavano gli appelli: alla responsabilità democratica, alla responsabilità pedagogica, alla parsimonia, all’obiettività contro la faziosità». È una descrizione così precisa della militanza nei beati anni di Instagram che quasi quasi cambio idea: nei corsi e ricorsi, ora arriverà una qualche nuova laraitrediGuglielmi a redimere (o almeno a ravvivare) le nostre vuote ciance.
Angelo Guglielmi, coraggioso intellettuale che inventò la spettacolarizzazione della realtà in tv. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'11 luglio 2022.
Con Raitre rivoluzionò i canoni fin lì conosciuti, lanciando programmi e conduttori.
«Craxi e De Mita, i padroni del Paese, avevano deciso di concedere ai comunisti una rete minore ancorata al due per cento di share. Biagio Agnes, una volpe, una vera lenza, tradito dal duo Carrà-Baudo in fuga verso Mediaset, mi lasciò fare: “Sei libero”. Il problema a quel punto divenne interamente mio. “Posso fare tutto - mi dissi - ma cosa esattamente?”. Cominciai domandandomi cosa mancasse alla tv italiana». È il 1987 e Angelo Guglielmi, che fino a quel momento si era occupato per Raiuno di varietà, sceneggiati e talk show (lo aveva inaugurato lui, con Maurizio Costanzo) diventa direttore di Raitre, una rete che era nata per incarnare il mito del decentramento e del localismo, «la tv delle Regioni».
La grande rivoluzione di Raitre parte da una temeraria scommessa: quella di trasformare un meccanismo politico fondato sulla lottizzazione in un’officina linguistica: «Mi accorsi – continua Guglielmi – che mancava un’informazione seria sulle condizioni del Paese. Fino a metà anni ‘80 la tv era stata un nastro trasportatore. Portava nelle case romanzi, teatro, musica e film senza mai raccontare il contesto sociale né sfiorare il contatto con le persone. “Farò il contrario”, giurai. E fui criticatissimo, anche da quelli che stimavo. Peccato aver smarrito il carteggio con Strehler».
Guglielmi era già conosciuto in ambito letterario come critico esigente e raffinato (era stato esponente del «Gruppo ’63» insieme a Eco, Manganelli, Sanguineti, Barilli, Giuliani, Arbasino e altri). Da lui era lecito attendersi una tv attenta a temi culturali sistematicamente ignorati dalle altre reti. Spiazzando tutti, Guglielmi rinnova invece l’immagine di Raitre attraverso la più incredibile spettacolarizzazione della realtà. Programmi come «Io confesso», «Un giorno in pretura», «Telefono giallo», «Linea rovente», «Duello», «Camice bianco», «Chi l’ha visto?», «Samarcanda», «Ultimo minuto» diventano appuntamenti molto seguiti e soprattutto criticati (sono Umberto Eco e Beniamino Placido i primi a parlare di cinismo e violazione della privacy delle persone).
Incurante delle critiche, Guglielmi comincia a teorizzare la sua «tv verità». Come se fosse finita l’era della tv della finzione, molto scritta o molto lustrini e paillette. Finalmente era giunto il tempo di una tv più coraggiosa, capace di andare per le strade, di «rappresentare la realtà così com’era». Guglielmi citava infatti Pier Paolo Pasolini: «Raccontare la realtà attraverso la realtà». Successe veramente questo? I programmi di Raitre raccontarono la realtà mostrando la realtà? O piuttosto non si verificò un cambiamento più radicale ancora? Ciò che accadde fu che, per la prima volta, la tv cominciò a far vedere non tanto la verità del fatto - i fatti, cioè, sottratti al reale -, ma sé stessa nel momento in cui si realizzava. La tv, “giocando” a mostrare la realtà, mostrava sé stessa, facendo cadere quel retroscena che prima era una sorta di zona “off limits”, invisibile, di cui non bisognava sapere niente.
Dietro a questo cambiamento agiva un’astuzia: accompagnare con un apparato teorico i nuovi programmi, che non venivano più lasciati a sé stessi, al solo impatto sul pubblico. Nel caso di «Chi l’ha visto?», per esempio, Guglielmi faceva riferimento alla grande letteratura popolare dell’800: quella tv doveva rappresentare una nuova forma di romanzo. La «tv verità» compiva insieme tre gesti fondamentali: esibiva «la verità» dei fatti raccontati (Guglielmi teorizzava in quel periodo il «neo-neorealismo»), mostrava sé stessa nel suo farsi e si presentava accompagnata da un apparato teorico, da una giustificazione estetica. Col tempo, il mito della «tv verità» si è progressivamente offuscato e la «pretesa di realtà» ha preferito assumere il volto del reality. Conta sempre meno che la tv «dica il vero», conta sempre di più che la tv, nel suo insieme, sia percepita come vera.
Questo è stato il grande snodo della tv generalista di Guglielmi. A chi gli contestava il fatto che Raitre non fosse riuscita a produrre una solida trasmissione culturale, Guglielmi rispondeva teorizzando che «la televisione è un linguaggio. Se si adopera la televisione come una sala cinematografica o, come si faceva una volta, per trasmettere del teatro di prosa, diciamo che si usa la televisione in un modo non del tutto proprio. In ogni caso non si usa il linguaggio televisivo, ma si usa la televisione come contenitore di linguaggi “altri”. La difficoltà di far passare un discorso culturale è tutta qui».
È stato scritto che Guglielmi era un Gramsci prestato alla tv, una «prosecuzione televisiva della questione morale di Berlinguer», ma intanto ci ha regalato la satira irriverente di Serena Dandini e Corrado Guzzanti, un Piero Chiambretti nella sua fase più vitale, «Quelli che il calcio» di Fabio Fazio, il salotto di Catherine Spaak, il cinema notturno di Enrico Ghezzi, la quotidiana destrutturazione della tv operata da «Blob», lo sberleffo elevato a informazione, persino la «selvaggeria» di Alba Parietti e Svalutation di Celentano. Guglielmi era soprattutto un intellettuale. Grazie a un patrimonio di conoscenze, la sua tv è stata un luogo di incroci linguistici e di «rischi fortunati», magazzino di tutte le sperimentazioni ed empietà, terra di saccheggi, promessa di inesauribile disponibilità all’anticonformismo. Guglielmi ha saputo esasperare il desiderio infantile e crudele di «giocare» unendolo al desiderio più grande di «cambiare il mondo».
Michela Tamburrino per “la Stampa” - 3 giugno 2022.
Ha lo sguardo apparentemente distaccato Angelo Guglielmi quando parla di televisione. Ma la passione resta ciò che lo ha portato a governare con successo la sua terza rete dal 1987 al 1994.
Dire di guardare solo le partite di calcio è un vezzo che gli si perdona dato l'acume che poi mette nell'esaminare la tv, oltre lo sport.
Guglielmi, dopo l'insediamento di Carlo Fuortes, mi disse di essere molto fiducioso nel suo operato e di stimarlo. Lo sottoscriverebbe, oggi?
«Lo stimavo allora e lo stimo. Certo, non si è rivelato sorprendente, è innegabile. Ma tutto nasce dal fatto che gli hanno conferito l'incarico sbagliato».
In che senso?
«Ho letto che Fuortes era stato indicato come presidente della Rai e che Marinella Soldi avrebbe dovuto fare l'amministratore delegato. Ed era un'ottima decisione. Non comprendo questo switch dell'ultimo minuto. Penso che la direzione di una tv vada data a chi di tv ne capisce: e non è successo. Soldi è una donna di programmi e chi ha il compito di governarli deve sapere perfettamente di cosa si parla. Fuortes è una persona degna, ha risanato i conti del Teatro dell'Opera con mano ferma, sarebbe stato un ottimo Presidente. Impossibile prescindere da quanto si deve fare: la televisione».
Eppure in tanti sostengono che più della tv bisognerebbe conoscere la Rai, un universo a se stante. Concorda?
«No, certo. A me non è mai interessato nulla del mondo Rai e delle chiacchiere interne, politiche e non. Mi importava molto dei programmi e di come andavano fatti. L'unica cosa sana per fare la bella televisione che oggi quasi non esiste più».
A Mario Orfeo hanno tolto le deleghe della divisione Approfondimenti. Conosce Orfeo?
«È una scelta incomprensibile e bisognerebbe sapere da cosa è stata ispirata. Orfeo è la persona di più alta qualità presente ora in Rai. Lo stimo molto e non sapevo che lui stimasse me. Me ne sono reso conto un giorno alla stazione di Torino. Fu molto affabile con me che non ero più in Rai da tempo e che con lui non avrei mai avuto nessuno scambio professionale. Sono stupito di questa rimozione, non vedo buone ragioni per privare la Rai di un apporto tanto importante».
Infatti la Rai non se ne priva, è stato designato con ogni probabilità alla guida del Tg3 dal quale peraltro veniva.
«Ne sono contento. Mi pare una buona cosa per il Tg3. La mia ex rete miseramente decaduta ha invece continuato ad avere un buon telegiornale. Resta comunque un'insensatezza. Sovrintendere ai contenuti è importantissimo e lui era la persona più adatta».
Sovrintendere ai contenuti anche dei talk show. Che cosa pensa delle polemiche legate ai salotti televisivi?
«Me ne frego delle polemiche. Sono fuori dalla Rai da quarant' anni, non seguo le chiacchiere, guardo il prodotto. Oggi neppure più quello. A me la tv piaceva farla non vederla».
Allora i talk show?
«Li inventammo noi come terza rete i talk show, Milano-Italia, Santoro. Ora vedo decadenza, conduttori inadatti»
Non se ne salva neppure uno?
«Ne salvo due. "Piazza Pulita" di Corrado Formigli, cresciuto alla scuola di Santoro e "#Cartabianca" di Bianca Berlinguer, la più scanzonata, le sue sveltezze sono stimolanti».
I peggiori?
«Tutti gli altri. Il talk show deve essere stimolante, deve presentare un tema che poi viene sviscerato in ogni suo punto. Bisogna sentire cose che hanno il timbro della qualità».
Per alcuni talk si è adombrato il pericolo di filo-putinismo.
«Ridicolo anche solo parlarne. Non mi importa niente se si è filo o anti qualcosa. È una scelta di parte che il conduttore non deve assumere. Il conduttore porta la realtà o la percezione che ne ha, per poi discuterne».
È morto Angelo Guglielmi, storico direttore di Rai 3. Silvia Fumarola su La Repubblica l'11 luglio 2022.
Aveva 93 anni. Ha rivoluzionato la televisione con la "tv realtà" lanciando programmi e personaggi che hanno fatto la storia della tv.
Angelo Guglielmi, che si è spento a Roma a 93 anni, ha rivoluzionato la televisione con la "tv realtà". Entrò in Rai grazie a un concorso. "Mia madre ascoltando alla radio Il motivo in maschera condotto da Mike Bongiorno viene a conoscenza che la Rai ha bandito un concorso per autori e programmisti in vista dell'inaugurazione (prevista per quel maggio) della televisione italiana", ha raccontato nel suo libro Sfido a riconoscermi - Racconti sparsi (edito da La Nave di Teseo). Un racconto fitto di incontri letterari e personali: da Gadda ad Arbasino, da Calvino a Eco, da Moravia a Pasolini dal Neorealismo ai reality in tv.
"Io non ho mai scritto di me - spiegava nel libro - ho in odio l'autobiografia, ritenendola il male degli ultimi trent'anni della narrativa italiana, ma sento il bisogno di esternare alcuni ricordi della mia vita di bambino e di adolescente. Giacché molte cose non tornano nella mia vita, e ciò che pare certo diventa pericolante né impedisce esiti finali indesiderati. Forse il contenuto di quei ricordi ci fornisce qualche luce di chiarimento".
Quarant'anni a viale Mazzini: da politica e attualità
Il giovane laureato in Lettere all'Università di Bologna fece il concorso a Roma con i fratelli "Giuseppe, il più creativo e brillante" e "Guido il più intelligente e il più colto". Vinse Angelo. Quarant'anni a viale Mazzini, sei nel cinema come presidente dell'Istituto Luce e cinque da assessore alla cultura del Comune di Bologna quando era sindaco Sergio Cofferati. Il critico letterario del Gruppo 63 lascia un'impronta fortissima nel servizio pubblico. Curioso, ironico, tagliente, Guglielmi porta la politica - Samarcanda - e fa diventare il pubblico protagonista con i programmi della "tv realtà": Mi manda Lubrano (che sarebbe diventato Mi manda RaTre), Telefono giallo, Chi l'ha visto?. Oltre ai programmi di Gad Lerner da Profondo nord a Milano, Italia che fotografavano il paese che stava cambiando.
Il periodo della sperimentazione da Chiambretti a Baricco
Nella storia della televisione pubblica il nome di Guglielmi resta legato a un periodo glorioso, in cui si sperimentava. Il portalettere con Piero Chiambretti è un altro successo, definiva il conduttore "una sorta di Ariel della Tempesta di Shakespeare, un piccolo folletto le cui arti di leggerezza e di magia è costretto a metterle al servizio di coloro di cui è a servizio". Nella Rai 3 di Guglielmi la satira è protagonista con La tv delle ragazze, Tunnel, Blob resta un titolo storico. Con Corrado Augias e Alessandro Baricco portò i libri in televisione. Rivoluzionario con un'anima pop, grande intellettuale, è sempre stato in sintonia con il pubblico, capendo i gusti e anticipando le mode. L'anno scorso spiegava che non guardava più la tv: "Si è tornati ai palinsesti prevedibili. Noi a Rai 3 creavamo un programma al giorno, andavamo incontro alle richieste del pubblico: 'inventare e mai assomigliare' era il motto".
Quando fece il varietà con Parietti e venne criticato
Era sicuro che Chi l'ha visto?, ispirato a una rubrica della Domenica del corriere, sarebbe rimasto. "Era un grande romanzo popolare che recava più registri al suo interno, concentrava tutte le forme linguistiche della televisione: racconto, fiction, inchiesta". Linea rovente metteva sotto i riflettori un politico che aveva fatto discutere; le polemiche non mancavano. Ma l'allora direttore generale della Rai Biagio Agnes lasciò sempre mano libera, "la massima libertà editoriale". Stimava Sandro Curzi "il più grande direttore di tg" e Michele Santoro. Nel 1991 decise che si poteva fare anche varietà, e chiamò Alba Parietti per la Piscina, show ambientato in uno studio trasformato in attico con, appunto, una piscina. Non c'entrava nulla con Rai 3, Gugliemi fu criticato ma una cosa è certa: la Rai in quegli anni non chiudeva per ferie, continuava a produrre.
Da Fabio Fazio a Enrico Letta: le reazioni
Della tv negli ultimi tempi si era disamorato, ma era rimasto allergico a qualsiasi censura - lo aveva detto a proposito di Cartabianca - e aveva confessato che seguiva Corrado Formigli, cresciuto con Santoro. "Angelo Guglielmi ha cambiato la tv rendendola contemporanea e imponendo una rigorosa linea narrativa alle cose che faceva: la tv come racconto della realtà. Gli devo moltissimo. 'La cultura non è una cosa ma un modo di fare le cose'. Questa la sua lezione più importante". Così in un tweet Fabio Fazio ricorda Guglielmi. Per il segretario del Pd, Enrico Letta "Con Angelo Guglielmi ci lascia un grande italiano. Un uomo che è riuscito a unire cultura e televisione e ha lasciato una traccia profonda e tutta positiva nel sistema mediatico italiano".
Angelo Guglielmi, da 'Telefono giallo' a 'Blob' una stagione irripetibile di programmi su Rai 3. Giovanni Gagliardi su La Repubblica l'11 luglio 2022.
Alla guida della terze rete dell'azienda dal 1987 al 1994 fece nascere, tra gli altri 'Samarcanda', 'Linea rovente', 'Un giorno in pretura', 'La tv delle ragazze', 'Chi l'ha visto?'
Sono stati molti i programmi e i personaggi lanciati da Angelo Guglielmi, morto nella notte a Roma a 93 anni, nei suoi sette anni alla guida di Rai 3, fra il 1987 e il 1994. Guglielmi fu il secondo direttore nella storia della rete, passata dal controllo della Dc a quello del Pci: Rai 3, alle'epoca, aveva ascolti bassissimi (era superata nell'audience anche dalle tv locali), priva di una chiara linea editoriale, Guglielmi la trasformò in pochi mesi in un canale dinamico ed innovativo.
Fece nascere programmi come Telefono giallo, Samarcanda, Linea rovente, Un giorno in pretura, La tv delle ragazze, Blob, Chi l'ha visto?, Mi manda Lubrano (poi divenuto Mi manda Raitre), Io confesso, Avanzi, Ultimo minuto, Quelli che il calcio (passato nel 1998 su Rai2). E ancora: Da storia nasce storia, Tunnel e Storie maledette. Tutti all'insegna di un concetto nuovo per il pubblico italiano: la tv-verità
Sotto la sua direzione vennero lanciati tra gli altri Corrado Augias, Michele Santoro, Donatella Raffai, Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti, Giuliano Ferrara, Roberta Petrelluzzi, Daniele Luttazzi e Franca Leosini.
Lo share medio della rete passò in pochi anni da meno dell'1 per cento a oltre il 10 per cento.
Una stagione innovativa
Sotto la guida di Guglielmi, la terza rete vide un periodo prolifico dal punto di vista degli ascolti (grazie all'equiparazione alle altre due reti) nonché la nascita di programmi destinati ad avere seguito e l'affermazione di nuovi volti: tra questi:
Telefono giallo, programma d'inchiesta sui maggiori fatti di cronaca irrisolti della storia italiana con Corrado Augias in onda dal 1987 al 1992;
Angelo Guglielmi (a destra) e Corrado Augias (fotogramma)Chi l'ha visto?, che riprendeva il format della rubrica Dove sei? di Portobello, in onda dal 1989 condotto nella prima edizione da Donatella Raffai e Paolo Guzzanti;
Fuori orario. Cose (mai) viste, contenitore di materiale cinematografico d'essai e di immagini varie;
Schegge, striscia notturna che riproponeva materiali di repertorio Rai;
Angelo Guglielmi (a destra) e Walter Veltroni (fotogramma)Blob, innovativa trasmissione satirica composta da un accurato e caustico montaggio della giornata televisiva precedente usando materiale in onda proveniente dalle maggiori emittenti italiane e talvolta anche straniere, in onda dal 17 aprile 1989 e ideato da Enrico Ghezzi e Marco Giusti.
I programmi satirici
La rete di Guglielmi ospita programmi satirici molto innovativi per la tv italiana: prima fra tutti quelli condotti da Serena Dandini come La tv delle ragazze, Scusate l'interruzione, Avanzi, Maddecheaò e Tunnel. Trasmissioni che hanno lanciato comici come Corrado, Sabina e Caterina Guzzanti, Angela Finocchiaro, Francesca Reggiani, Cinzia Leone, Pier Francesco Loche, Antonello Fassari, i Broncoviz e Stefano Masciarelli.
Cinico tv, altra trasmissione satirica ancora più surreale e cinica realizzata da Ciprì e Maresco.
Piero Chiambretti venne conosciuto dal grande pubblico con programmi come Va' pensiero, Complimenti per la trasmissione, Prove tecniche di trasmissione, Il portalettere, Goodbye Cortina in cui proponeva una comicità graffiante e irriverente (celebre l'intervista all'allora presidente della repubblica Francesco Cossiga in una puntata de Il portalettere in pieno scandalo Tangentopoli).
Angelo Guglielmi (a destra), a sinistra Eugenio Scalfari e al centro Michele Santoro (agf)E ancora: Il laureato - viaggio ai confini della facoltà, condotto sempre da Chiambretti con Paolo Rossi e Enzo Jannacci, dedicato al mondo universitario.
Magazine 3 di e con Gloria De Antoni, Oreste De Fornari e Daniele Luttazzi.
Le trasmissioni di servizio pubblico
Mi manda Lubrano (poi diventato Mi manda Raitre), programma con al centro la difesa dei consumatori condotto da Antonio Lubrano.
Samarcanda, in onda dal 1987 al 1992 e condotto da Michele Santoro, a cui seguiranno Il rosso e il nero e Tempo reale, sempre curati e condotti dal giornalista campano.
I talk show
Linea rovente è stato un programma televisivo italiano di genere talk show, in onda su Rai Tre nella stagione 1987-1988, che ha segnato l'esordio come conduttore del giornalista Giuliano Ferrara.
Harem, lo storico talk condotto da Catherine Spaak, che andò in onda per ben 15 stagioni, dal 1988 al 2002.
La tv-verità
La rete di Gugliemi diede vita anche ai primi programmi di tv-verità, con trasmissioni come Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, in onda dal 1988, in cui per la prima volta vengono documentati reali processi penali.
Telefono giallo andato in onda su Rai 3 dal 29 settembre 1987 all'8 dicembre 1992, condotto da Corrado Augias e, solo nella prima edizione, anche da Donatella Raffai.
Erede ideale di Telefono giallo fu Chi l'ha visto? andato in onda il 30 aprile 1989 con la conduzione di Paolo Guzzanti e Donatella Raffai. Il programma, dedicato alla ricerca di persone scomparse e ai misteri insoluti, ancora in onda il mercoledì in prima serata su Rai 3 e attualmente condotto da Federica Sciarelli, risulta essere, dopo il Tg3, Geo, Un giorno in pretura, Fuori orario. Cose (mai) viste e Blob, il sesto programma più longevo trasmesso sulla terza rete Rai.
Angelo Guglielmi (a sinistra) e Gad Lerner (fotogramma)Altro programma nato sotto la direzione di Guglielmi è Ultimo minuto, in onda il sabato sera dal 1993 al 1997 e condotto da Simonetta Martone e Maurizio Mannoni: la trasmissione è stata in Italia l'antesignana di programmi odierni come Real TV e Alive.
Cultura e divulgazione
Sul fronte culturale e divulgativo, la rete si impone con dei programmi realizzati in collaborazione con il Dipartimento Scuola Educazione come Il circolo delle 12, Parlato semplice e documentari di vario genere trasmessi nel pomeriggio (durante queste trasmissioni apariva sopra il logo del canale la dicitura "DSE").
Da Storia nasce Storia (1991) ideato e condotto da Ottavio Rosati con cui la Rai realizza un progetto già tentato negli anni cinquanta in Francia con Roberto Rossellini e Jacob Levi Moreno, padre dello psicodramma. "Il programma di Rosati mi sembra una faccenda complicata - disse Guglielmi - però lo psicodramma funziona in tv perché parla della vita della gente".
Intrattenimento
Non mancarono programmi leggeri come La piscina con Alba Parietti, andato in onda nel 1991 nella seconda serata della terza rete.
La festa a sorpresa per gli 80 anni di Angelo Guglielmi. Nela foto, tra gli altri, da sinistra: Enrico Ghezzi, Guglielmi, Alba Parietti, Piero Chiambretti e Umberto Eco (fotogramma)Nel 1993 nacque un'altra storica trasmissione: Quelli che... il calcio, che segnò l'affermazione definitiva di Fabio Fazio e rivoluzionò il modo di proporre il calcio in tv, in un miscuglio tra l'approfondimento sportivo e il varietà. La trasmissione andò in onda con successo fino alla primavera 1998 per poi trasferirsi dall'autunno dello stesso anno su Rai 2, dov'è tuttora in onda.
Sempre durante la direzione Guglielmi, la rete ospitò nel 1992 l'ultimo spettacolo di Franco e Ciccio con Avanspettacolo e, sempre nello stesso anno, lo show di Adriano Celentano Svalutation, che totalizzò oltre 13 milioni di telespettatori.
Angelo Guglielmi: "Alla fine ho imparato ad amare Pasolini". Simonetta Fiori su La Repubblica l'11 luglio 2022.
“Con lui sono stato feroce, ma era giusto così. Oggi l’ho rivalutato, rispetto al raziocinio di Sciascia meglio la sua magnifica creatività”. L'ultima intervista del critico apparsa lo scorso 26 febbraio sul numero di Robinson dedicato allo scrittore
“Sono stato feroce quando occorreva esserlo. Ma Pasolini resta un grande personaggio, destinato a vivere nel futuro”. Piccolo, magro, gli inconfondibili occhiali calati sul naso, Angelo Guglielmi si sporge agile sulla scrivania, quasi sdraiato sul muro di carte. “Su, veloce, metta qui l’Oscar altrimenti cade tutto”. La statuina che funge da reggilibri gliela portò Nuovo cinema Paradiso all’epoca della direzione di Raitre. Ma ora gli pare un riconoscimento ben più meritevole di attenzione la sequela di improperi a lui destinati da Pasolini, in una delle missive appena pubblicate nell’edizione integrale delle Lettere. “Critico detestabile”, “confusionario”, e “privo di gusto”: Guglielmi ne accoglie i giudizi poco benevoli con un sorriso compiaciuto, come a riassaporare le antiche battaglie culturali perdute nella selva del Novecento. “Mi detestava perché l’avevo criticato. In realtà detestava tutta la neoavanguardia. E noi detestavamo lui”. A quasi novantatré anni, continua a produrre libri che riflettono le tensioni del secolo passato - Un lungo viaggio (Aragno) e Sfido a riconoscermi (La nave di Teseo) - ma guai a definirli autobiografie, genere che gli appare del tutto disonorevole.
Pier Paolo Pasolini
Lei aveva stroncato Pasolini sul Verri, la rivista della neoavanguardia.
“Avevo le mie ragioni per farlo. Dopo l’uscita dei suoi romanzi, era diventato il padrone delle lettere, amato dalla critica e reso celebre dai processi. Ma le sue erano prove narrative fallimentari. Più che un romanzo Ragazzi di vita è un saggio di antropologia linguistica. E Una vita violenta è un romanzaccio che spaccia per sperimentalismo espressionista il più vieto verismo. Pasolini stesso fu consapevole del suo fallimento”.
Perché dice questo?
“Era angosciato dal fatto che le sue parole non riuscissero a captare “il brillio di cui scintilla la realtà”. Proprio lui che era ossessionato dalla realtà, ne provava un trasporto fisico e la viveva senza risparmiarsi, si rendeva conto che questa sfuggiva alla sua presa di scrittore”.
Ed è a quel punto che scopre il cinema.
“Le immagini gli sembrano più forti delle parole perché hanno lo straordinario potere di trasferire le cose nello schermo conservandone la forza prorompente. Il suo cinema rovescia radicalmente il racconto tradizionale ed è qui, non nella letteratura, che si realizza il suo sperimentalismo più autentico”.
Vuole dire che fu un mediocre scrittore e un grande regista?
“Questo è vero fino a un certo punto. Petrolio è il suo grande romanzo-mondo destinato a proiettarlo nel futuro. Negli ultimi anni Pasolini si rende conto che la realtà non è qualcosa di finito che si possa chiudere entro confini predisegnati, ma è un flusso continuo di accadimenti. E riversa questo caos nella sua opera letteraria più importante”.
Com’erano i vostri rapporti?
“Conflittuali ma rispettosi. Quando gli chiesi di poter disporre d’un suo brano in una mia antologia, prima mi trattò malissimo ma poi me lo concesse. Giorgio Bassani, al contrario, minacciò di denunciarmi. Pierpaolo era più vero. E più concreto”.
Vi frequentavate?
“No. Una volta al caffè Rosati in piazza del Popolo scappò via non appena mi vide arrivare. Moravia mi disse che non voleva incontrarmi. La neoavanguardia lo faceva impazzire”.
Perché a cent’anni dalla nascita continua a essere lo scrittore italiano più idolatrato?
“E’ stato un personaggio straordinario e unico, capace di modalità espressive tra le più diverse: narrativa, poesia, cinema, teatro, pittura. Non c’era cosa che non sapesse fare. I giovani avvertono un istintivo interesse per la forza della sua personalità, anche se dubito che l’abbiano letto. E certo la sua fama è stata resa eterna dalla misera disgraziata fine. A differenza di un Moravia o di un Calvino, Pasolini continua a fare chiasso”.
Più delle opere è conosciuto il personaggio.
“Fu lo stesso Pasolini a dirottare il riferimento dell’opera alla persona dell’autore, facendo di se stesso una parte importante del significante. Un po’ come avviene con un attore che si propone come realtà autosufficiente indipendentemente dal testo che sta recitando. Questo è forse il suo aspetto più inquietante. E serve a spiegare la sua difficoltà di scrittore”.
Però in questo modo ha anticipato la società mediatica che ruota intorno alla persona dell’autore.
“Sì, oggi è più facile riconoscere Pasolini perché consonante con una civiltà in cui contano il corpo e l’immagine. Ma a me piace pensare che sia l’intellettuale del futuro per due capolavori come Petrolio e Salò o le 120 giornate di Sodoma dove anticipò il ritorno del fascismo”.
Dopo le zuffe del passato mi sembra oggi prevalga un sentimento di ammirazione.
“Sì, non l’ho amato e forse non lo amo ancora. Ma preferisco la sua passione creativa al raziocinio di Sciascia. E non esito a riconoscergli una paternità. A una sua frase – “sono stanco di raccontare la realtà con le parole, preferisco raccontarla con la stessa realtà – deve molto la mia rivoluzione televisiva che metteva in scena la realtà più che narrarla. In fondo anche la “tv della realtà” è nata con Pasolini”.
È morto Angelo Guglielmi, la sua Rai Tre inventò la tv della realtà. Beatrice Dondi su L'Espresso l'11 luglio 2022.
A 93 anni scompare il dirigente che diede vita a una stagione irripetibile del servizio pubblico: Blob, La Tv Delle ragazze, Chiambretti, Santoro, Luttazzi, Chi l'ha visto
La Rai Tre di Angelo Guglielmi era tutta una parola. Perché il critico letterario de L'Espresso e saggista, giornalista e poi, solo poi, dirigente televisivo, aveva plasmato inventato, creato dal nulla programmi, idee, personaggi, dato vita a nuovi generi e dettato una linea della buona televisione al punto da essere ancora oggi, giorno della sua scomparsa, citato come esempio irripetibile.
La stagione d'oro cominciò nel 1987 e si concluse nel ‘94. In mezzo nacque Blob, per dire un programma tra mille. Ovvero quell'idea fatta di niente se non di puro pensiero inventivo di ritagliare, masticare e provare a far digerire al pubblico il pasto delle sere precedenti, tra plastici di Cogne, urla sguaiate, i ring improvvisati, pause, papere e altri orrori ricuciti e rimontati pronti per un pubblico stupefatto.
Ed è stato Angelo Guglielmi che con Bruno Voglino ha voluto la Tv delle ragazze, Serena Dandini, Linda Brunetta e Valentina Amurri, lui dirigente maschio in una televisione di soli uomini, capì che non doveva raccontare le donne in un modo diverso, ma dare alle donne uno spazio diverso. Così come è stato Angelo Gugliemi a investire nelle nuove generazioni, per rinnovare la televisione pubblica, aria nuova, finestre aperte. E a intuire che quel modo di entrare nelle case in giacca e cravatta, quel muro ancora catodico che separava lo spettatore dal chi in quella scatola parlava, andava abbattuto una volta per tutte.
Così mentre Chiambretti vestito da postino, inseguiva politici e cardinali per Roma, Michele Santoro, scopriva che il Paese aveva una pancia a cui si poteva dar voce nella pubblica piazza, Donatella Raffai creava un legame con il dolore a Chi l'ha visto, l'Italia dei misteri si aggirava intorno a un Telefono Giallo, la tutela del consumatore si affidava ad Antonio Lubrano e così via, in un gioco al rialzo da palinsesto in cui a pensarci bene, è rimasto praticamente tutto. La chiamarono tv verità, ma a Gugliemi è sempre piaciuta la definizione di tv della realtà, guardiamoci intorno, vediamo cosa succede e proviamo a raccontarlo.
Perché come disse lui stesso «La verità è un giudizio. La realtà invece comprende anche la bugia». Che bella televisione, che stagione irripetibile.
Marco Giusti per Dagospia l'11 luglio 2022.
“La televisione è un linguaggio”, sosteneva Angelo Guglielmi. “Se adoperi la televisione come sala per proiettare dei film o, come si faceva una volta, per trasmettere del teatro di prosa, diciamo che usi la televisione ma in modo non del tutto proprio. In ogni caso non usi il linguaggio televisivo, ma usi la televisione come un contenitore di linguaggi altri”.
Possibile che la massima rivoluzione in mezzo secolo di televisione italiana sia arrivata dalla Rai Tre di Angelo Guglielmi, il primo direttore comunista della prima rete comunista della Rai, intellettuale militante, veniva dal Gruppo 63, e critico raffinato e non facile, detestava i romanzi di Pasolini.
Ma Guglielmi, schiaffato dal potere e sottopotere democristiano, come molti intellettuali comunisti della Rai negli anni ’60 e ’70, nelle zone marginali del Palazzo a produrre fiction o film sperimentali, come l’incredibile piccola serie “Tre nel Mille” di Franco Indovina scritta da Luigi Malerba e Tonino Guerra con Carmelo Bene e Franco Parenti, girata nel 1970 e trasmessa tre anni dopo, o a dirigere la sede Rai del Lazio, a differenza di tanti direttori che abbiamo avuto, conosceva perfettamente la macchina Rai e gli uomini che aveva a disposizione.
Devo dire, anzi, che raramente ho incontrato qualcuno che fosse produttivamente così sicuro di quel che stava facendo, che conoscesse gli uomini che aveva scelto così intimamente, una vera squadra, da Stefano Balassone a Enrico Gabutti, da Stefano Munafò a Bruno Voglino, da Vieri Razzini a Enrico Ghezzi e che così rapidamente sapesse decidere che programmi fare e che linea dare alla sua rete.
Guglielmi non ti faceva perdere tempo in inutili attese. Decideva subito. Sì o no. Tutti quelli che hanno lavorato a quella Rai Tre lo hanno amato e considerano quell’esperienza la migliore della loro vita. Difficile non ammetterlo. Ma c’era, ovviamente, chi lo detestava. Perché non fu assolutamente tenero con il partito degli intellettuali e intellettualini, spesso un po’ imboscati in Rai, e fuori dalla Rai, che pensavano di poter ottenere qualcosa dal suo ruolo di direttore.
Non fu così. Guglielmi, anche se faceva naturalmente parte della sinistra in cachemire della Rai, e due giorni fa era in prima fila al funerale di Vieri Razzini, altra colonna della rete, negli anni della sua direzione a Rai Tre scelse sempre e soltanto programmi di puro linguaggio televisivo fuori da ogni piccola o grande lobby culturale.
Chiamando come testimonial personaggi del tutto diversi, spesso nuovi o nuovissimi, e completamente diversi tra di loro, come Piero Chiambretti o Giuliano Ferrara, che amava, Alba Parietti celebrata per la sua “selvaggeria” e Fabio Fazio, che non amava.
E altri, invece, cresciuti dentro la tv e dentro la Rai ma poco visti, come Donatella Raffai, la sua vera musa, o come Michele Santoro, la punta del talk politico e del giornalismo sulla realtà, o ripescati tra i grandi classici, come Andrea Barbato, nel ruolo di vecchio saggio in grado di spiegare la tv (“Fluff”), di scrivere lettere ai potenti (“La cartolina”), di fare il Corrado di Domenica In nel salotto rosso di Rai tre,
O ripescando tra la sinistra in cachemire personaggi perfetti per il ruolo che dovevano svolgere, pensiamo al finto inglese di Prati Corrado Augias che avrebbe dovuto risolvere con le sue giacche sempre perfette i grandi gialli della realtà della cronaca, o Gad Lerner, con birignao da Lotta Continua dei piani alti, che racconta al popolo della sinistra inorridito ma curioso i primi rutti di Bossi e di quei cafoni dei leghisti. Spesso Guglielmi sperimenta, programmi e presentatori.
Al punto che Santoro si mangia il coautore Mantovani (chi se lo ricorda più?), la Raffai si mangia tutti i suoi partner maschili. Alla “Tv delle Ragazze” di Amurri-Dandini-Brunetta-Costa vince chi rimane in sella. E’ la vita. Ma quel che Guglielmi e la sua squadra stanno creando è una rete, una tv, completamente nuova dove ogni programma, giornalistico, politico, di sguardo sulla realtà, non solo è originale, altro che format comprati, non solo ha dei volti nuovi in video, ma, soprattutto, è costruito come una fiction. Con un narratore e una sostanza narrativa, come è il grande modello del “Chi l’ha visto?” di Lio Beghin, programma manifesto della tv di Guglielmi, che oltre al racconto sparge con grande furbizia una serie incredibile di personaggi e situazioni da commedia all’italiana sempre diversi.
Che bisogno ha Guglielmi di fare il cinema o la prosa in tv quando ha “Chi l’ha visto?” e “Telefono giallo”, quando ha costruito per la sua prediletta Roberta Petrelluzzi la grande arena di “Un giorno in pretura”. Il processo a Pacciani è meglio di qualsiasi grande film comico o drammatico o horror italiano. Ma il cinema si farà, perché a quel tempo sono le tre reti della Rai a produrre in proprio con proprio budget, non come ora, e Rai Tre finirà pure per vincere l’Oscar con “Nuovo cinema Paradiso” di Giuseppe Tornatore in versione rimontata da Franco Cristaldi.
E ricordo bene che mettemmo gli Oscar d’oro al posto delle virgolette che accompagnavano le annunciatrici quel giorno nei programmi di Rai Tre. Trionfo assoluto per la rete comunista. Comunista poi? Quanto lo erano Giuliano Ferrara e Sandro Parenzo che produceva i suoi programmi. A tutto questo questo flusso continuo di fiction e eccessi di sguardi sulla realtà italiana, Guglielmi mette una specie di occhio magico che tutto vede, digerisce e restituisce in forma critica che è “Blob” di Giusti e Ghezzi, un occhio che deve spiegare allo spettatore cosa è l’Italia e la tv del giorno prima e a sua volta costruire un racconto che viva di vita propria.
Un programma bandiera che non può vivere fuori dall’idea di tv di Guglielmi, come dall’idea di contro-informazione militante che hanno i suoi autori. Chiuso nella prigione-montaggio di Blob non mi rendevo perfettamente conto di quel che Rai Tre stesse producendo nell’immaginario del paese. Ricordo che venne a trovarci Carlo Freccero, allora in Francia, ancora legato a Berlusconi, e ci fece una lezione sull’importanza di “Chi l’ha visto?”.
Qualcosa era cambiato per sempre e non sarebbe stato facile negli anni né demolire quello che Guglielmi e la sua squadra avevano creato, né far finta che nulla era cambiato. Tutto era cambiato, perché la tv aveva finalmente imposto il suo linguaggio. Che non era quello della Rai dei padri fondatori o dei democristiani più o meno illuminati o dei socialisti.
Quello che saranno i successivi venti, trenta anni di televisione lontano da quell’esperienza, è un’altra storia, dove, se volete, possono anche venire a galla i limiti dell’esperienza di Rai Tre. E Carlo Freccero fu il più bravo di tutti a ricostruire quell’esperienza, prendendone il meglio per progettare una Rai Due di grande livello alla fine degli anni ’90 chiamando a raccolta le Serene Dandini, le Sabine Guzzanti, i Corrado Guzzanti, i Piero Chiambretti, i Fabio Fazio, i Michele Santoro di Rai Tre. Dimostrando che se non c’è un lavoro sul linguaggio televisivo, sulla costruzione di un palinsesto, non ci può essere una rete.
Pur non essendosi mai amati, Guglielmi e Freccero, che sono stati per anni i miei direttori, avevano in comune un percorso critico sulla tv che Guglielmi aveva aperto, e Freccero riuscì a riportare avanti dieci anni dopo con la stessa lucidità malgrado il momento politico fosse completamente diverso.
E malgrado il fatto che Berlusconi, entrato in politica, che aveva fatto smantellare la Rai Tre di Guglielmi negli anni del suo maggior successo, aveva cancellato negli stessi anni anche la rete sperimentale di Carlo Freccero in Mediaset, Italia 1, dove era approdato Giuliano Ferrara, dove si faceva l’anti-Biscardi con Mosca e Herrera e dove venne lanciato clamorosamente il talk politico di Gianfranco Funari.
Un Funari che, poco prima, stava per essere preso in forze proprio da Rai Tre da Guglielmi, che, come Blob insegnava, ne aveva capito in pieno le potenzialità televisive. E ancora mi domando perché Funari non venne preso da Guglielmi, così attento ai nuovi linguaggi della tv. Troppo coatto? Troppo lontano dalla zona Prati-Parioli? Impresentabile a cena con Furio Scarpelli e Barbato? Chissà… Certo, dopo la cacciata di Guglielmi e del suo vice Balassone, per anni Rai Tre non fu più la stessa.
Senza fare la vedova inconsolabile, ce ne erano già a decine, era evidente che non sarebbe stato facile ritornare a quel tipo di libertà e felicità creativa. In qualche modo, e lo penso seriamente, l’arrivo di Berlusconi e delle forze della destra in Rai, ci chiuse in faccia la possibilità di inventare, di sviluppare nuovi programmi, di far crescere culturalmente quelli che stavamo facendo.
Ci fermò nel momento più bello della Rai degli anni ’90. E non fu facile, negli anni di Freccero, riprendere il discorso interrotto (per poi farci chiudere di nuovo nella salamoia del nulla e dell’ovvietà). Anche perché i lamenti della sinistra di Prati orfana di Rai Tre e della direzione Guglielmi erano negativi rispetto a ogni novità o a ogni possibilità di nuove idee originali.
E, come spesso capita, a volte è meglio tagliare completamente col passato che seguitare con i lamenti, Va detto però che la Rai Tre di Guglielmi, pur senza Guglielmi, è andata avanti fino a oggi, spargendosi su più reti, sviluppandosi anche in programmi nuovi su La7 come “Propaganda Live”, che mischiano il sub-dandinismo alla deriva da tardo-Espresso o da vecchia Prati in cachemire.
Ma credo in tutta onestà che è la rete generalista nel suo complesso, guglielmina o frecceriana o colettiana che sia, a non esistere più negli anni dei social e delle piattaforme, dove il mio Blob me lo faccio a casa con twitter o Instagram o Tik Tok, e i personaggi storici di Rai Tre sono quasi tutti pronti per Techetechete.
Dove contano più i tuoi agenti che le tue idee sulla tv, dove una Raffai e un Santoro non potrebbero mai essere scoperti. Magari, allora, la cosa che più ci lega a quell’ormai vecchio e glorioso modello di tv, cioè dove ritrovare il linguaggio televisivo, sono programmi come “X-Factor” o “The Voice” che Guglielmi non avrebbe mai fatto.
Per fortuna. Alla fine, e lo dico con tristezza, la tv la usiamo, se volete la uso, solo per vedere serie, tv, i tiggì e qualche raro talk con Cacciari e Travaglio usati come fossero Billi e Riva. Si è avverato, insomma, almeno per me, quello che Guglielmi aveva completamente tolto da Rai Tre. L’altro. Quello che non è televisione.
Il critico letterario che ha rinnovato la tv. Da "Telefono giallo" sino a "Blob" fece (neo)avanguardia. Matteo Sacchi il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.
Membro del "Gruppo 63", capì che serviva un cambio di passo per Raitre e intuì la potenzialità della "televisione verità", ma non riuscì ad evitare derive come quella di "TeleKabul"
È morto Angelo Guglielmi, l'uomo che ha portato Raitre dall'essere un progetto educativo molto polveroso e in stile Scuola Educazione, con una percentuale single digit di share, ad essere un canale televisivo vero. Guglielmi (classe 1929), che è deceduto ieri notte nel sonno, è stato direttore del terzo canale Rai da 1987 al 1994. Prese in consegna la rete dal fanfaniano Giuseppe Rossini, trovandosi per le mani un canale dai bassi ascolti, che non aveva una linea editoriale chiara (a parte la necessità di coprire l'informazione regionale), e la trasformò in una piattaforma dinamica e innovativa che, nel bene e nel male, resterà un unicuum nella storia della televisione italiana: lo share medio della rete passò in pochi anni da meno dell'1% ad oltre il 10%.
L'arma vincente della trasformazione? Unire l'alto e il basso, creare i presupposti per una televisione che si equilibrasse, un vero funambolismo del palinsesto, tra il pop e la cultura. Prima grande intuizione? Introdurre, per primo in Italia, il concetto di Tv verità - nacquero a strettissimo giro di posta e sotto suo impulso programmi come Telefono giallo, Samarcanda, Linea rovente, Un giorno in Pretura, La TV delle ragazze, Blob, Chi l'ha visto?, Mi manda Lubrano (poi spersonalizzato dal conduttore in Mi manda Raitre), Io confesso, Magazine 3, Avanzi, Ultimo minuto, Quelli che il calcio (passato nel 1998 su Rai 2), Tunnel e Storie maledette.
Un talento nell'intuizione dei format che era indissolubilmente legato alla capacità di individuare volti di conduttori capaci di bucare lo schermo, per simpatia, per professionalità, a volte anche per faziosità (la tv si fà anche così). Limitandosi ai nomi più noti: vennero lanciati personaggi come Corrado Augias, Michele Santoro, Donatella Raffai, Roberta Petrelluzzi, Serena Dandini, Fabio Fazio, Piero Chiambretti, Giuliano Ferrara, Daniele Luttazzi e Franca Leosini. Raitre trovò anche una identificazione forte a sinistra con il tg di Sandro Curzi, la parte più ideologica della rete, che all'epoca veniva scherzosamente chiamato «TeleKabul»
Come riuscì in questa alchimia, di cui la rete vive ancora anche se i suoi epigoni non sempre hanno avuto lo stesso talento? Da un lato forse Guglielmi era dotato di un occhio assoluto per il piccolo schermo. Dall'altro aveva una costruzione intellettuale solida che spaziava dall'immagine alla letteratura. Oltre che dirigente, fu critico letterario, saggista e giornalista. Nato ad Arona il 2 aprile 1929, si laureò, nel 1951, in Lettere, all'Università di Bologna e nel 1954 superò il concorso per entrare alla Rai. Come ricordava lui stesso nel suo libro Sfido a riconoscermi (La nave di Teseo): «Mia madre ascoltando alla radio Il motivo in maschera condotto da Mike Bongiorno viene a conoscenza che la Rai ha bandito un concorso per autori e programmisti in vista dell'inaugurazione (prevista per quel maggio) della televisione italiana». Vinse, abbandonò l'insegnamento e iniziò una lunga carriera in cui, sono di nuovo parole sue: «gli inizi per me sono sempre stati duri, perché manco di simpatia immediata». Alla base del suo modo di pensare la tv c'era un deciso sperimentalismo colto che fu quello che lo portò ad essere tra i fondatori del «Gruppo 63» assieme a intellettuali della caratura di Alberto Arbasino, Umberto Eco e Nanni Balestrini. Il gruppo, per usare le parole di Balestrini, si proponeva di dare forma a un cambiamento nato da «una vivace insofferenza per lo stato allora dominante delle cose letterarie: opere magari anche decorose ma per lo più prive di vitalità».
Guglielmi portò quello spirito in televisione. Dal 1976 al 1987 fu capostruttura di Raiuno. Tra i programmi da lui ideati ad esempio Bontà loro, storica trasmissione condotta da Maurizio Costanzo. Prima di divenire direttore di Rai3 si occupò del Centro di produzione Rai di via Teulada a Roma. Poi la grande scommessa, sponsorizzata da Walter Veltroni, che raccontava così: «Quando ho cominciato a dirigere Raitre, non avevo modelli a cui ispirarmi: ho dovuto avventurarmi in azzardi». Azzardi come Blob per intenderci. In onda dal 1989, è uno dei programmi più longevi di Raitre e della televisione italiana. Quando iniziò sembrava un'assoluta follia nata (forse) da un idea di uno dei figli di Guglielmi che voleva un mattinale dei telegiornali e che Ghezzi trasformò in un sapido polpettone di tutta la tv. Guglielmi fu entusiasta di rappresentare quello che secondo lui era «il fluido che uccide» che stava invadendo tutta la televisione. Televisione che Guglielmi nel '97 ha abbandonato senza troppi rimpianti apparenti. «Dopo otto anni alla guida di Raitre non riuscivamo più a inventare nulla». Dal 1995 al 2001 guidò l'Istituto Luce.
Ha unito alto e basso. Poi ha vinto il basso di tribuni e conformisti. Alessandro Gnocchi il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.
Angelo Guglielmi ha unito l'alto e il basso, la cultura e l'intrattenimento, attribuendo pari importanza al "cosa si dice" e al "come si dice"
Angelo Guglielmi ha unito l'alto e il basso, la cultura e l'intrattenimento, attribuendo pari importanza al «cosa si dice» e al «come si dice». Il problema è che poi ha vinto il basso, anzi: il rasoterra. Come direttore di Raitre, ha ampliato il vocabolario della televisione; ha sdoganato nuovi modi di proporre il balletto, la satira, i talk show; ha previsto il reality; si è spinto verso il futuro con il Blob postmoderno che anticipava la comunicazione frammentaria e ironica della nascente Rete. Innovare era il suo tratto distintivo, fin dal tempo della avanguardia letteraria, il Gruppo 63. Il critico militante Guglielmi, con Edoardo Sanguineti e Umberto Eco tra gli altri, svalutava l'impegno (troppo) dichiarato e il «noioso» realismo a vantaggio della libertà dei contenuti e della forma. Si pensi a Fratelli d'Italia di Alberto Arbasino, romanzo-palinsesto, da leggere dall'inizio alla fine ma anche aprendo a caso, con una trama evanescente e uno stile sperimentale. Il rovescio della medaglia era l'individuazione di bersagli polemici spesso sbagliati. Il Gruppo 63 criticò aspramente, ad esempio, il popolare Carlo Cassola o il manzoniano Giorgio Bassani. Risultato: Cassola e soprattutto Bassani sono ormai classici, al contrario della maggior parte degli aderenti al Gruppo 63, svanita nel nulla. Ampliare genialmente il linguaggio della cultura non significava aumentarne anche la libertà, specie nella televisione pubblica dove il pluralismo era (ed è) scoraggiato da un sistema fondato sulla lottizzazione. Tutto o quasi poteva essere fatto. Tutto però doveva essere fatto in un certo modo vale a dire un certo modo di sinistra. Meno stantio, meno bigotto, più frivolo ma comunque dalla parte giusta. Per questo, l'eredità di Guglielmi è insieme gloriosa e inconcludente. Infatti è Guglielmi ad aver aperto la strada al populismo tv, all'informazione più schierata, alla satira a senso unico quindi servile, alla cultura cortigiana, ossequiosa con il Partito o il Principe di turno. Guglielmi ha lanciato, tra gli altri, Michele Santoro, Serena Dandini, Fabio Fazio, Corrado Augias. Al suo magistero (diretto o indiretto) dobbiamo le gogne in piazza, le risse nei talk, le risate rigorosamente radical chic, le interviste accondiscendenti, la cultura del conformismo spicciolo. Il rasoterra, appunto. Il telegiornale simbolo di Raitre, quello diretto da Sandro Curzi, è passato alla storia come TeleKabul. Il nomignolo nasce per sottolineare il caos in redazione, ma finisce con l'indicare l'appiattimento sulle posizioni del Partito comunista, con critiche rare e comunque provenienti dalla famiglia allargata della sinistra. Quando arrivò Guglielmi, Raitre era ancora un canale senza una identità precisa. Guglielmi gliene diede una forte. I suoi discepoli non hanno avuto la stessa apertura mentale, e Raitre, invece di evolversi, è diventata un santuario del pensiero unico, sempre più inutile e malfrequentato.
"La grande invenzione è stata fare cultura aggredendo la realtà". Luigi Mascheroni il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.
Il massmediologo: "Spiazzò tutti e diede finalmente un'identità alla rete"
Giorgio Simonelli, docente di Teoria dei media all'Università Cattolica di Milano, critico e opinionista televisivo - e sterminata bibliografia sui temi della comunicazione cinematografica e radiotelevisiva -è fra i massimi esperti di storia della televisione. E l'era Guglielmi, a cavallo fra anni '80 e '90, se la ricorda bene.
Professore, cosa ha rappresentato Angelo Guglielmi per la televisione italiana?
«Un paradosso incredibile. Lui è l'uomo cui viene affidata Raitre, la rete culturale, in quanto scrittore e critico letterario. Ma quello che fa è cambiare completamente l'idea di cultura televisiva. Quando fu nominato, tutti pensavano che Raitre sarebbe stata una rete culturale in senso stretto, cioè una televisione in cui la cultura è mediata dalla letteratura, la storia, la scienza, il cinema, il teatro Invece lui fa tutt'altro: inventa una aggressione diretta alla realtà, senza mediazioni culturali tradizionali: lui fa cultura con Telefono giallo o Un giorno in Pretura, aggredendo la realtà, e facendolo da intellettuale».
Quale fu l'effetto?
«Spiazzante per tutti coloro che si aspettavano che avrebbe seguito la linea tradizionale. Il pubblico ci mise un po' a capire cosa stava accadendo, ma poi accettò con entusiasmo la novità, anche perché poi Guglielmi seppe introdurre una certa leggerezza, aggiunse un côté comico, pensiamo a un programma come La TV delle ragazze... Insomma fu un effetto quasi straniante. È che cambiarono tutti i parametri televisivi. E poi Guglielmi soprattutto s'inventò una rete: nel senso che diede una identità a Raitre dopo che tanti prima di lui non erano riusciti. Fallita l'idea della rete decentrata, fallita quella della rete culturale tradizionalmente intesa, lui diede a Rai3 un'identità d'avanguardia. Conquistando anche i giovani, cosa non facile».
Cosa abbiamo mantenuto e cosa perso della sua eredità?
«Abbiamo perso moltissimo, a partire dalla voglia di scommettere, perché la sua fu prima di tutto una grande scommessa. Oggi in televisione manca il coraggio di inventare una linea e di tenerle fede. Non si sperimenta nulla, prevale la prudenza, c'è la paura di buttare via soldi, non si rischia più. E poi abbiamo perso l'idea-chiave di Guglielmi della tele-realtà, che non significa reality i reality sono una fregatura ma una televisione che vive della realtà usando in una maniera nuova, originale, il linguaggio televisivo».
"Aveva autorevolezza e una testa politica ma non era ideologico". Matteo Sacchi il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.
La giornalista: "Sapeva scegliere: ha scoperto moltissimi professionisti"
Fredda, impeccabile per eleganza e per utilizzo della lingua italiana. Capace di raccontare i delitti più efferati servendosi del minimo delle parole, dosando le emozioni e senza mai indulgere nel macabro, che tanto va di moda nella «tv verità», Franca Leosini è uno dei volti storici di Raitre: ha partecipato alla rivoluzione portata avanti da Angelo Guglielmi sin dai tempi di Telefono giallo dove lavorava con Corrado Augias. Le abbiamo chiesto un ricordo personale del direttore di rete che l'ha scoperta.
Franca Leosini, come è stato il suo incontro con Guglielmi?
«Ho in mente come un fotogramma preciso. Ero alla mia prima esperienza televisiva a Telefono giallo condotto da Corrado Augias. Il programma era basato su inchieste costruite da noi giornalisti. Ero in diretta con Corrado commentando una mia inchiesta... È passato tanto tempo ma mi pare proprio fosse quella sulla contessa Filo della Torre. C'era Guglielmi in studio, mi guardava. Ricordo lui nel buio che mi sorrideva. Quando la trasmissione finì mi disse di passare il giorno dopo nel suo ufficio. Andai mi disse: Voglio che lavori per Raitre. Hai un'idea? Cosa vorresti fare?».
E Lei?
«Io dissi che avevo in mente Storie maledette. Mi rispose subito: Il titolo mi piace, voglio vedere cosa ci metti dentro. E quello che c'ho messo dentro sono state un centinaio di Storie maledette e tutto quello che poi ne è seguito».
Qual era lo stile da direttore di Guglielmi?
«Guglielmi era autorevole, non dava confidenza. Ma questa sua sorta di distanza era maieutica. Io ad esempio l'ho sempre chiamato «Direttore», mai per nome. Era davvero molto presente, un direttore che si vedeva. Ha lasciato un'impronta. Aveva questa capacità di scovare professionisti e di farli lavorare al meglio».
La sua Raitre era anche molto politica però...
«Aveva una gran testa e di conseguenza la sua era anche una testa politica. Chiaramente vedeva l'orientamento delle persone che lavoravano con lui. Ma non era ideologico. Non credo si sia mai messo a far calcoli su chi votasse per chi. Gli interessava il talento, la professionalità e la creatività. Ha costruito qualcosa che non c'era, una rete di contenuti nuovi. E le tracce del suo lavoro si vedono ancora ad anni di distanza. Ha scoperto un numero enorme di professionisti, alcuni dei quali adesso lavorano anche per altre reti. Ha lasciato un segno che si vede ancora. Per me la sua scomparsa è un dolore vero. Ci mancherà».
Non mi parlò per un anno...Claudio Siniscalchi il 12 Luglio 2022 su Il Giornale.
Angelo Guglielmi morì una prima volta nell'agosto del 2001. Ero a Londra, appena arrivato. Mi telefonò un collega dell'Istituto Luce. È morto Guglielmi. Ma com'era possibile, l'avevo visto la mattina, prima di partire. Dopo un'oretta di telefonate arriva la smentita. In realtà era morto Giovanni Grazzini ex-presidente del Luce. Il presidente del Luce, Guglielmi, stava bene. Lo chiamai per prenderlo in giro. Se la rideva. Allunga la vita. Sono passati ventuno anni. E stavolta Angelo se n'è andato per davvero. Con lui passato il periodo più bello della mia vita professionale. Sei anni di divertimento puro. Eppure, era iniziata malissimo. Per quasi un anno non mi rivolse la parola. Mi ignorava. Probabilmente qualcuno lo aveva informato che era mia la mano di alcuni corsivi anonimi usciti su un quotidiano, nei quali sbertucciavo la sua RaiTre e l'informazione comunista di TeleKabul. Poi lesse per caso un mio libro. Mi chiamò. Pensavo per darmi il benservito. Invece mi spiegò che era stupito dal mio lavoro. E non riusciva a capacitava di come una testa di **** come me (parole sue) avesse potuto scrivere un testo così interessante. Misteri della vita gli risposi. Da quel momento siamo diventai grandi amici. Gli ho voluto davvero bene e lui ne ha voluto a me. Nonostante le differenze di età, temperamento, convinzioni politiche, religiose e intellettuali. Non cinematografiche, perché di cinema non capiva niente. Ma era un genio, oltreché un uomo buono che mi ha aiutato tanto. Di recente mi ha telefonato con dieci giorni di ritardo per farmi gli auguri di compleanno. Purtroppo, parlare al telefono con lui era diventato impossibile. Non sentiva. Ma era lo stesso uno spasso. Nella conversazione faceva una domanda e si dava una risposta. Lo chiamavano il Vecchio. Ma era molto più giovane di noi. Anzi credo che sia stato sempre così, dai venti fino ai 93 anni. Chiedo scusa a lui e a Sandro Curzi per tutto quello che ho scritto contro di loro. Non rinnego nulla. Anzi. Sono ancora convinto di non essermi sbagliato. Potevo soltanto andarci più piano. Me ne pento. Ma è andata così. E, fortunatamente, l'amimia ha appianato tutto.
Dall'Avanguardia alla direzione di Rai3. Angelo Guglielmi, addio la padre colto delle tv populista: la sua idea ha generato “mostri”. Angela Azzaro su Il Riformista il 12 Luglio 2022
Di Angelo Guglielmi, morto ieri a 93 anni, si possono dire tante cose, ma una è certa: era coltissimo, pieno di idee e ha cambiato la storia della televisione italiana. Critico letterario raffinatissimo, attività che ha continuato ad esercitare negli anni, è stato tra i promotori del Gruppo 63 insieme – tra gli altri – a Umberto Eco, Nanni Balestrini, Edoardo Sanguineti, cioè l’ultima vera avanguardia italiana, a cui poi negli anni Novanta si ispirarono i giovani cannibali capeggiati da Aldo Nove. Ma il Gruppo 63 è l’ultimo tentativo di chi voleva mettere a soqquadro la cultura e la letteratura a partire dal linguaggio. E sono il linguaggio e la sperimentazione che guidano l’attività di Guglielmi anche quando arriva alla direzione di Rai3. È la più sfortunata delle reti della televisione pubblica, con ascolti da prefisso telefonico. Siamo nel 1987, sta per cadere il muro di Berlino e anche in Italia siamo alla vigilia di un mutamento profondo e radicale della vita politica e del quadro partitico. Guglielmi arriva e cambia tutto. Si inventa una nuova tv, quella che oggi è diventata maggioritaria, che vediamo in tutti i canali della tv di Stato e di quella privata.
Con lui nascono o diventano mainstream programmi come Chi l’ha visto?, Telefono giallo, Samarcanda, Mi manda Rai3, Un giorno in pretura, la telekabul di Sandro Curzi. Guglielmi teorizza l’idea della tv verità. Basta con la televisione maestra degli italiani che era stata la linea guida del potere democristiano. La tv diventa specchio della realtà, senta intermediazioni, senza filtri: essa stessa parte di quel reale che poi divorerà diventando non più specchio ma costruttrice di realtà. L’idea, essa stessa populista, con l’andare del tempo ha generato programmi sempre più giustizialisti, improntati al non rispetto della privacy. Tutto fa spettacolo, tutto finisce nel calderone delle notizie e chi se ne frega dei principi costituzionali come la presunzione di non colpevolezza. La macchina della fiction, spacciata per realtà, si mangia tutto. Ed è sbagliato, anzi sbagliatissimo, accostare agli altri programmi di Guglielmi anche Blob. Le cronache raccontano che Enrico Ghezzi lo inventa insieme al direttore di Rai3. Ma la concezione che sta dietro il programma che ci racconta il peggio della tv è l’opposto della sua filosofia.
Dietro Blob c’è Guy Debord, la critica alla società dello spettacolo. Il conflitto si sposta nelle immagini e il programma di Ghezzi (ancora oggi) smaschera la finzione: ci fa vedere come dietro l’illusione della realtà ci sia il linguaggio e quale sia il potere che lo utilizza. Al contrario la tv populista di Guglielmi illude il cittadino di essere protagonista del piccolo schermo come fruitore e come artefice; come consumatore e come cittadino. È la GENTE di curziana memoria. Il direttore di Rai3 capisce che sta per scoppiare la crisi delle ideologie, che dopo i grandi ideali c’è il vuoto, quel vuoto che nel decennio populista appena trascorso viene riempito dalla concezione che uno vale uno, che tutti siamo artefici della vita politica. Non è così. Non era così allora. Dalla fucina di Rai3 – perché comunque fu una fucina – nacque la giustizia spettacolo, quel processo mediatico che oggi è considerato uno dei mali della nostra epoca. Con Un giorno in pretura le telecamere entrano nei tribunali. Gli effetti saranno devastanti, anche se oggi quel programma – che ancora dura – sembra un’oasi di antigiustizialismo se paragonato al fratello Chi l’ha visto? dove il vero mood non è tanto la ricerca delle persone scomparse, quanto fare le indagini come se si fosse in procura e come se si fosse in tribunale emettere sentenze.
Guglielmi è stato un padre colto, che aveva una, mille idee e sapeva come supportarle. E quella intuizione della tv del reale non ha fatto altro che anticipare i tempi. Poi sono arrivati i barbari: coloro che di quella idea di tv non hanno capito il vero potenziale, ma la hanno cavalcata per mancanza di altre idee, per tornaconto personale. Sono gli anni del dominio Cinque stelle, gli anni in cui anche il populismo non ha più le sfumature che i grandi personaggi della prima Rai3 riuscirono a dargli. Oggi è facile criticare Guglielmi, è facile – a dire il vero – anche esaltarlo. Parliamo comunque di un’epoca della tv in cui si pensava, rischiava, osava. Ma il seme del populismo viene gettato allora. Succede anche per i talk. Samarcanda di Santoro è tra i primi che inventa la politica spettacolo. La tv si mangia tutto: giustizia, politica, catastrofi e anche le vite dei singoli messe in piazza a volte volontariamente come nei reality a volte obtorto collo come nei fatti di cronaca. Vite lanciate nel frullatore e divorate senza pietà. La risposta è allora Guy Debord: il conflitto agito all’interno del mondo dell’immagine, lo scarto che si può produrre nell’immagine e con l’immagine.
Da avanguardista Guglielmi lo aveva capito e oltre a creare il problema, ci aveva fornito la soluzione. Ma forse non aveva previsto che la GENTE, il pubblico, noi, a forza di venir triturati nella dimensione virtuale avremmo perso di vista la forza sovvertitrice del linguaggio. Oggi dire che molti programmi da lui inventati sono ancora vivi e sono tra i più longevi della tv, non deve essere elemento positivo. Ma di sconfitta. Perché si perde la sua eredità più importante: inventare una nuova tv, per una nuova epoca. Guglielmi lo ha fatto, noi no.
Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica
Quando Angelo Guglielmi voleva Venezia ma si ritrovò candidato a Pomezia…Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Luglio 2022
Era la campagna elettorale, se non ricordo male, del 2002. Lavoravo all’Unità e il direttore, Furio Colombo, mi chiese di seguire una giornata di Angelo Guglielmi, che era il candidato di sinistra a sindaco di Pomezia. Conoscete Pomezia? Un paesone industriale alle porte di Roma verso la pianura pontina. Raggiunsi Guglielmi che alloggiava in un Hotel che affacciava sulla superstrada. Oggi si chiama Hotel Antonella, allora aveva un altro nome. Con Guglielmi c’era Piero Chiambretti, che lo avrebbe aiutato in tutti gli incontri previsti per quel giorno. Li seguii per la mattinata e poi nel pomeriggio, in decine di incontri nel centro di Pomezia.
Era curioso il modo di porsi di Guglielmi. Aggressivo con gli elettori, sferzante coi commercianti, scocciato con gli operai. Non sembrava morir dalla voglia di vincere le elezioni. Verso le otto di sera si ritirò in albergo e mi chiese se volevo fermarmi a cena con lui. Accettai. Chiacchierammo di politica e quando si arrivò alla frutta, presa un po’ di confidenza, gli chiesi: ma perché ti sei candidato a Pomezia? Lui abbassò il tono della voce, si avvicinò come per parlare senza farsi sentire, e mi confessò il segreto.
“Sono un po’ sordo – mi disse – e quando mi telefonò Veltroni per propormi la candidatura io capii Venezia. Ero felice di fare il sindaco di Venezia. Pieno di idee. Tre giorni dopo scoprii che ero candidato a Pomezia, ci rimasi male ma siccome sono anche timido mi vergognai di ritirarmi…”.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
(ANSA il 13 luglio 2022) - "Si sono lette tante definizioni di Angelo Guglielmi in queste ore: direttore di rete, critico letterario, commentatore di quotidiani, intellettuale prestato alla tv, saggista e via a seguire.
Sono tutte vere. Oltre che tutto questo, lo definirei in quattro parole: un maestro di televisione. È stato un maestro di televisione, uno che la televisione la sapeva pensare, che aveva idee su come farla, ma anche uno che la faceva, nel senso più concreto del termine".
A sottolinearlo, l'amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes, alla commemorazione alla Casa del Cinema di Roma per lo storico direttore di Rai3, scomparso all'età di 93 anni.
"Quando un uomo della sua esperienza lascia la vita terrena se ne riepilogano le cariche assunte, e per lui non ne mancano. Amministratore Delegato dell'Istituto Luce, Assessore alla Cultura del Comune di Bologna, componente del Comitato di consulenza dell'Enciclopedia del cinema edita dalla Treccani. Tra queste cariche - ha aggiunto Fuortes - ce n'è una che dice molto: responsabile del Centro di Produzione della Rai di via Teulada.
È nella sua inventiva e, allo stesso tempo, nella sua capacità di realizzare materialmente le proprie idee di programmi televisivi che si trova la chiave principale della sua personalità professionale. Nel combinarsi dell'inventiva con l'esperienza, necessaria per tradurre in pratica la sua creatività.
Guglielmi aveva quell'eclettismo del secolo scorso che dovremmo stare attenti a non smarrire del tutto nel secolo attuale: una formazione culturale di larghi orizzonti, priva di alcune angustie che gli specialisti spesso possono avere, quando risultano incapaci di comunicare con efficacia con il resto del mondo".
Guglielmi "entrò nella Rai vincendo un concorso e dal 1955 al 1994 lavorò per la Tv pubblica. Quarant'anni di onorato servizio, non per questo accompagnati sempre dagli applausi di tutti e non privi di bersagli e avversari. Guglielmi si era laureato in lettere all'Università di Bologna.
La passione per la letteratura lo avrebbe accompagnato tutta la vita. Critico letterario, con Umberto Eco e Edoardo Sanguineti fondò il Gruppo 63 - ha ricordato ancora l'ad della tv pubblica - che fu nucleo di riferimento per l'avanguardia letteraria italiana. Scrisse molti libri.
Il salto, all'interno della Rai, avvenne nel 1987, quando Angelo Guglielmi venne nominato direttore di Rai3. Guidò la terza rete fino al 1994. Furono anni complessi, movimentati, caratterizzati da cambiamenti, e anche sconvolgimenti di assetti consolidati sia internazionali sia nazionali. Pensiamo al crollo del Muro di Berlino e al passaggio, anche traumatico, dalla cosiddetta Prima Repubblica alla Seconda.
In quegli anni Guglielmi seppe raccontare la complessità di un Paese in trasformazione avvicinando la televisione alle persone, lanciando nuovi programmi, nuovi volti, inventando nuovi linguaggi e vincendo le sfide dell'Auditel.
Mi limito a ricordare alcune delle trasmissioni che hanno fatto la storia di Rai3: Telefono giallo, Linea rovente, Un giorno in pretura, Chi l'ha visto?, Profondo Nord, Milano Italia, Il portalettere. E poi Blob, La tv delle ragazze, Avanzi, Tunnel. Programmi che ci hanno fatto sorridere e riflettere, fornendo strumenti per comprendere il tempo che si attraversava. Programmi mai banali.
In quella mancanza di scialba deferenza, in quelle sollecitazioni allo sperimentare e al ragionare, credo ci possano essere insegnamenti ancora utili oggi. Per questo, a nome dell'Azienda alla quale ha dedicato gran parte della propria vita, sento di dover dire: grazie, Maestro".
(ANSA il 13 luglio 2022) - "Questi palinsesti nascono nel segno dell'innovazione e questo ci fa ancora di più pensare ad Angelo Guglielmi, che ci ha lasciati ieri. Angelo Guglielmi è stato un maestro di televisione e di innovazione. Credo che avrebbe amato essere qui e vedere come stiamo cercando di cambiare la Rai".
E' l'omaggio della presidente della tv pubblica, Marinella Soldi, che ha ricordato l'ex direttore di Rai3, scomparso ieri, in occasione della presentazione della nuova offerta per l'autunno-inverno a Roma, nella sede di Spazio Novecento all'Eur.
Angelo Guglielmi: «Io, che per anni ho fatto finta di essere ebreo, e quella mia vita semplice al Ghetto di Roma». Angelo Guglielmi su Il Corriere della Sera il 6 agosto 2022.
Nel dicembre 1990 Guglielmi scriveva sul Corriere: « Da bambino e fino a qualche tempo fa, quando sono stato scoperto, ho portato avanti la bugia di far parte di un popolo che si presentava a me con il doppio fascino del martirio e dell’intelligenza: Freud, Marx, Proust erano ebrei»
Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo intervento di Angelo Guglielmi (scomparso lo scorso 11 luglio a 93 anni) ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 5 agosto
9 dicembre 1990
«Da bambino e fino a qualche tempo fa, quando sono stato scoperto, ho portato avanti la bugia di far parte di un popolo che si presentava a me con il doppio fascino del martirio e dell’intelligenza: Freud, Marx, Proust erano ebrei. Vivere tra i vicoli che sfociavano su via di Portico d’Ottavia era come abitare in un paese. Sul comodino tenevo il libro con la straordinaria cronaca di Giacomo De Benedetti sulla razzia nazista del 16 ottobre 1943 I l Ghetto a Roma, come forse in ogni altra città, è un piccolo paese con una strada centrale, via di Portico d’Ottavia, nella quale sboccano tutta una serie di vicoli laterali, stretti e bui, a loro volta tagliati da viuzze e altri passaggi, slarghi, angoli e spazi morti, che si intrecciano confusamente a formare un dedalo da cui è difficile uscire».
«All’estremità destra del suo perimetro si apre una piazza, anzi una doppia piazza, con al centro la sinagoga. Io vi ho abitato per alcuni anni, a un ultimo piano dal quale potevo guardare i cavalli d’oro (o così me li ricordo) del Vittoriano, un po’ di sguincio (e sporgendomi) i resti del Teatro Marcello, frontalmente e da vicino il Portico d’Ottavia e soprattutto una stupenda piccola terrazza, di disegno cinquecentesco, appartenente all’appartamento allora abitato dal regista Marco Ferreri».
«Quando uscivo incrociavo seduta, a custodia dello stabile, la vecchia portiera, totalmente analfabeta (firmava con la croce) e intelligentissima, con la quale scambiavo ogni sorta di facezie. Gli anni che ho abitato al Ghetto li ricordo con nostalgia: che piacere vivere in un luogo in cui le strade servono (servivano?) per camminare, per intrattenersi con i vicini, per perdere tempo! in cui la storia non è scritta solo sui monumenti ma sul volto e le parole della gente; in cui la comunità è prima un sentimento che la riunione di un certo numero di individui in un determinato luogo. E poi, abitando al Ghetto, davo realtà, ahimè! solo esterna, alla mia bugia».
«Io fin da bambino e poi da grande, fino a qualche anno fa quando sono stato scoperto, fingevo di essere ebreo, un po’ per malposto snobismo (mi piaceva far parte di una minoranza) un po’ per ammirazione verso un popolo che si presentava a me con il doppio fascino del martirio e dell’intelligenza. Freud, Marx, Proust, Svevo, Einstein erano ebrei! E il 16 ottobre 1943, la straordinaria cronaca che Giacomo De Benedetti aveva dedicato alla razzia nazista del Ghetto, era il mio libro di comodino, che non finivo mai di leggere e mi esaltavo, anche un po’ colpevolmente, davanti al grande dolore che quelle pagine racchiudono. Un po’ colpevolmente, anzi infantilmente, perché in me più forte della pietà per le vittime vinceva l’invidia per il loro eroismo».
L’AUTORE. Angelo Guglielmi, giornalista, critico letterario ma anche a lungo dirigente pubblico, nacque ad Arona (Novara) da genitori pugliesi nel 1929 ed è scomparso l’11 luglio scorso a Roma all’età di 93 anni. Laureato in lettere a Bologna nel 1951, nel 1954 superò il concorso per entrare in Rai, dove fu capostruttura di Rai1 dal 1976 al 1987. Da quell’anno al 1994 fu direttore di Rai3. Fondò il Collettivo letterario Gruppo63 con Umberto Eco ed Edoardo Sanguineti. Al corriere collaborò a fasi alterne tra il 1963 e il 2012.
· E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.
Marco Giusti per Dagospia l'8 luglio 2022.
Pochi come Vieri Razzini, scomparso ieri a Roma a 82 anni, potevano vantare una conoscenza così appassionata del grande cinema sofisticato americano degli anni 30 e 40, Ernst Lubitsch, Mitchell Leisen, Irving Rapper, i copioni di Billy Wilder quando scriveva in coppia con Charles Brackett. Eppure Vieri nel cinema aveva fatto un po' di tutto.
Giallista, suo è il romanzo da cui Lucio Fulci trasse "Sette note in nero", cult internazionale. Soggettista e sceneggiatore, sue due serie di successo per la Rai negli anni 70, ""Morte a passo di valzer" con Gianni Garko e "Una spia del regime" di Alberto Negrin con Vittorio Mezzogiorno. Capo della programmazione cinema di Rai Tre sia con la direzione di Giuseppe Rossini che di Angelo Guglielmi.
Distributore, assieme al marito Cesare Petrillo aveva fondato, uscendo dalla Rai nel 1996, la Teodora Film, portando in Italia film difficili come "Irina Palm", "Tomboy", Amour", "Pride", "Il figlio di Saul", aveva coprodotto film di Lucrecia Marcel, "La Nina Santa", "La donna senza testa", di Francois Ozon Ricky", Alezio Abranches, " Il cuore criminale delle donne".
Ma sia in Rai come programmazione cinema che da distributore coi DVD aveva fatto conoscere centinaia di grandi titoli di classici con un lavoro meticoloso di ricerca assolutamente encomiabile. Un po' l'altra faccia di Enrico Ghezzi nella Rai Tre di Guglielmi. Tra i due c'era una forte rivalità. Troppo diversi. Troppo distanti. Troppo primadonna Enrico . Troppo poco duttile Vieri, che era però molto più legato al mondo radical chic della Rai di Guglielmi.
Anche se Enrico era il pupillo del primo direttore comunista della Rai come lo era stato del democristianissimo Rossini. Ricordo che neanche trentenne, arrivato da Genova a Roma, non era facile per me dividere l'ufficio di Vieri (che allora era il capo) e di Enrico, che mi aveva chiamato a lavorare, tenendo un comportamento di affabile neutralità.
In anni di grandi fermenti e innovazioni, nel 1987 Vieri dette vita a un incredibile programma dedicato a Luchino Visconti, realizzato assieme a L'officina Filmclub, Roberto Farina e Caterina D'Amico che poteva vantare un centinaio (avete capito bene) di interviste che andavano da Burt Lancastera Silvana Mangano, da Paolo Stoppa a Rina Morelli, da Piero Notarianni a Delon e Cardinale. Il programma completava la più grande rassegna di film di Visconti che si fosse mai fatta in tv.
Qualcosa che andrebbe ritrovato e rimesso in onda perché era un Tutto Visconti di increbile valore perché toccava non solo il cinema ma anche l'Opera, il Teatro e la vita del Duca Rosso.
Vieri realizzò per RaiTre anche una grande intervista a Marco Ferreri che andò in onda diluita coi film e una a Rainer W. Fassbinder, che non si è più ritrovata, ma che allora andò in onda. Uscendo dalla Rai alla fine degli anni 90, Vieri riuscì non solo a reinventarsi professionalmente, ma utilizzò tutta la sua conoscenza e cultura cinematografica per puntare sia alla diffusione dei classici del passato che amava, sia per costruire una nuova linea di distribuzione, totalmente originale che spaziava sui nuovi autori nordici come Susanne Bier ai nuovi autori sudamericani come Lucrecia Marcel. Un programma impegnativo che dette però grandi risultati e favori da parte del pubblico. I funerali si svolgeranno sabato mattina alle 11 alla Casa del Cinema di Roma.
· E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.
Avanti un altro, lutto per Paolo Bonolis: è morto Emanuele Vaccarini. Libero Quotidiano il 09 luglio 2022
Lutto per Avanti un altro, il programma in onda su Canale 5 e condotto da Paolo Bonolis. È morto Emanuele Vaccarini, il Gladiatore parte del cast dal 2019. Sconosciute le cause del decesso, ma da quanto trapela dai social il 44enne aveva più volte parlato di problemi di salute. Emanuele, nato a Roma nel '77, era esperto di arti marziali. Tra i vari sport praticati, oltre il karate, il bodybuilding, MMA, e il pugilato. Oltre allo sport e alla tv, il 44enne lavorava nelle ferrovie.
Tanti i messaggi di cordoglio arrivati sulla sua pagina Instagram. Tra questi quella di Sonia Bruganelli: "Riposa in pace gigante buono". E ancora, quello di Francesco Nozzolino, anche lui parte di Avanti un altro: "Ancora non ci credo. Tu sei stato il mio primissimo amico ad Avanti un altro, quanto ci siamo divertiti là dietro ai camerini, tante risate! È così triste e strano sapere che non ci sei più, non mi sembra vero".
Anche Franco Pistoni, colui che interprete il ruolo dello "iettatore", lo ha ricordato: "Gigante buono, amico di lunghe giornate a chiacchierare del suo amore per i cani, della sua vita, di sua madre, della sua paura dei ragni, della strana febbre che ebbe da piccolo e che, da magrolino che era, lo trasformò in un gigante, del suo boa e dei suoi piranha".
· E’ morto l’attore Tony Sirico.
Morto Tony Sirico, il mitico Paulie Gualtieri dei «Sopranos». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 9 Luglio 2022.
L'attore era diventato celebre per i suo ruolo nella serie tv Hbo, sebbene avesse preso parte a molti film di mafia e di Woody Allen.
A pochi giorni dalla scomparsa, il 6 luglio scorso, di James Caan, se ne va un altro volto celebre della saga degli italoamericani: venerdì 8 luglio è morto Tony Sirico, il «Paulie Gualtieri» della serie tv dei «Sopranos» prodotta da Hbo. L’attore aveva 79 anni. La notizia è stata data dal suo agente, Bob McGowan, che però non ha fornito altri dettagli. Il manager ha definito Sirico «un cliente di lunga data molto fedele». La notizia è stata condivisa su Instagram anche dal co-protagonista dei «Sopranos», Michael Imperioli: «Tony — ha commentato l’attore — era unico: duro, fedele e generoso come non ho mai visto nessuno in vita mia. Sono stato al suo fianco nella buona e nella cattiva sorte. Ma la sua è stata soprattutto buona. E abbiamo riso tanto insieme».
Nato a Brooklyn, di origini campane, Sirico, il cui vero nome era Gennaro Anthony Sirico Jr, era diventato un attore popolare dopo una serie di ruoli in film come «Quei bravi ragazzi», «Pallottole su Broadway», «La dea dell’amore», «Gotti», «Cop Land», «Harry a pezzi» e «Mickey occhi blu». Sirico aveva portato sul set un po’ di vita vera: dopo aver trascorso gran parte della sua prima infanzia a mettersi nei guai con la legge, da giovane aveva poi lavorato per il boss della mafia Carmine Persico, legato al clan della famiglia Colombo, una di quelle che controllavano, e controllano tutt’ora, New York. La serie «Sopranos» resta la sua grande ribalta, e un compromesso con la vita.
Al momento della sua audizione per il ruolo di Gualtieri, aveva ricordato l'attore in una intervista del 2021, aveva 55 anni e dormiva sul divano di sua madre. Aveva fatto un casting per un personaggio diverso, ma il creatore David Chase si era avvicinato domandandogli: "Vuoi la buona o la cattiva notizia?". «Ho risposto: "Dammi la cattiva notizia". E lui: "Non hai avuto la parte. Ma ho qualcosa in mente. Saresti disposto a fare un ruolo ricorrente in una serie tv? Ho un personaggio chiamato Paulie Gualtieri"».
Anche Michael Gandolfini, figlio della defunta star dei «Sopranos» James Gandolfini, ha reso omaggio a Sirico su Instagram. "Tony Sirico era uno degli uomini più gentili, ferocemente leali e sinceri che io abbia mai conosciuto — ha scritto —. Per me è sempre stato zio Tony, e Tony si è sempre presentato per me e la mia famiglia. Mi mancheranno profondamente i suoi pizzichi sulla mia guancia e la sua risata contagiosa. Era un attore fenomenale e un uomo persino migliore».
È morto Tony Sirico, protagonista dei Soprano. Aveva 79 anni, si è spento in una casa di cura in Florida. La Repubblica il 9 Luglio 2022.
Tony Sirico, attore noto al grande pubblico per aver interpretato il mafioso Peter Paul Gualtieri, soprannominato "Paulie Walnuts", nella leggendaria serie "I Soprano" è morto all'età di 79 anni. Lo ha annunciato il fratello Robert su Facebook.
"È con grande tristezza, ma con incredibile orgoglio, amore e tanti bei ricordi, che la famiglia di Gennaro Anthony 'Tony' Sirico desidera informarvi della sua morte avvenuta la mattina dell'8 luglio 2022", scrive il fratello dell'attore nel post. "La famiglia è profondamente grata per le numerose espressioni di amore, preghiera e cordoglio e chiede al pubblico di rispettare la sua privacy in questo momento di lutto".
Il manager di Sirico per 25 anni, Bob McGowan, ha confermato la morte e lo ha descritto come un uomo "sempre pronto ad aiutare chiunque avesse bisogno". Non sono ancora note le cause della morte di Tony Sirico, che si è spento in una casa di cura in Florida.
· E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.
Kazuki Takahashi morto a 60 anni, addio al di Yu-Gi-Oh! Ilaria Minucci il 07/07/2022 su Notizie.it.
Kazuki Takahashi, il mangaka che ha creato Yu-Gi-Oh!, è stato trovato morto al largo della costa della prefettura di Okinawa, in Giappone. Gli inquirenti stanno indagando sia sull’ipotesi di una morte accidentale che di una morte criminale.
Il mangaka giapponese Kazuki Takahashi, creatore della fortunata saga shonen Yu-Gi-Oh! dal quale è stato tratto l’animale omonimo, è stato trovato morto al largo della costa della prefettura di Okinawa, situata nella parte meridionale del Giappone. Il corpo del mangaka è stato recuperato in seguito all’intervento della guardia costiera, allertata tramite una chiamata di emergenza.
Le autorità giapponesi stanno indagando al fine di determinare le cause della morte del padre di Yu-Gi-Oh! deceduto all’età di 60 anni: in questa fase, non è ancora stata scartata né la tesi della morte accidentale né quella della morte criminale.
Al momento, non si esclude che la morte possa essere imputata a un incidente subacqueo. Un membro della guardia costiera della città di Nago, infatti, ha dichiarato: “Aveva indosso una maglietta e una maschera da sub, un boccaglio e pinne”.
Noto soprattutto per Yu-Gi-Oh!, il manga di Kazuki Takahashi è stato pubblicato sulla rivista giapponese Weekly Shonen Jump tra il 1996 e il 2004.
Il manga aveva come protagonista Yugi, un adolescente che viene posseduto dallo spirito di un faraone egiziano dopo aver ricevuto in dono un puzzle all’interno del quale era rinchiuso. Il successo del manga ha portato alla produzione di due anime e di due lungometraggi di animazione, distribuiti nella maggior parte del mondo.
Da repubblica.it il 7 Luglio 2022.
È stato ritrovato morto il fumettista e creatore di manga e anime giapponese Kazuki Takahashi. Inventore del gioco Yu-Gi-Oh!, particolarmente popolare negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, aveva 60 anni. Era andato a fare snorkeling al largo di Nago, una delle città dell'arcipelago di Okinawa. Takahashi è stato ritrovato senza vita nelle acque del lago dalla guardia costiera.
Creatore del manga e anime Yu-Gi-Oh!, un gioco di carte che si svolge in un mondo fantastico in cui i personaggi si sfidano a duello tramite carte che prendono vita durante il combattimento e da cui è stato poi tratto anche un gioco di carte collezionabili. Il nome, Yu-gi-oh!, significa "re dei giochi".
Pubblicato in Giappone dalla Konami e in Occidente dalla Upper Deck Entertainment, era indirizzato a un pubblico molto giovane e negli anni ha ottenuto un grande successo anche fuori dal Giappone, pubblicato in oltre quaranta nazioni. Immediata la reazione nel mondo dei gamers.
Greta Privitera per il “Corriere della Sera” l'8 luglio 2022.
Gli appassionati di manga conoscono bene il suo nome, gli altri conoscono di più il titolo che lo ha reso famoso: Yu-Gi-Oh!. Kazuki Takahashi, 60 anni, mercoledì 6 luglio è stato trovato morto al largo di Nago, nella prefettura di Okinawa, in Giappone: indossava l'attrezzatura da snorkeling.
«Stiamo indagando sul caso, potrebbe trattarsi sia di un incidente che di un crimine», hanno commentato le autorità sulla misteriosa scomparsa. La morte del mangaka è un duro colpo per gli appassionati dei fumetti nipponici di tutto il mondo. Takahashi ha iniziato a disegnare all'inizio degli anni '80, ma la fama l'ha conosciuta nel 1996 con la pubblicazione del suo Yu-Gi-Oh! - tradotto: «Il re dei giochi».
È la storia di Yugi Muto, un ragazzino dai capelli a punta, giocatore di carte fantasy, preso in giro e bullizzato dai suoi coetanei che trova pace giocando. Ha al collo un oggetto misterioso a forma di piramide regalato dal nonno . In quell'oggetto - preso in un viaggio in Egitto - si nasconde lo spirito di un faraone che diventa il suo alter ego. Lo aiuterà nelle sue battaglie con i mostri e con i bulli a cui, oltretutto, insegna qualche lezione.
Le avventure di Yugi Muto - che ama gli hamburger e odia lo scalogno - hanno appassionato tantissimi bambini, adolescenti e adulti. In pochi anni, da solo manga è diventato un franchise con tanto di serie animate, videogiochi, libri, mazzi di carte e merchandise di grande successo. I suoi manga sono spesso apparsi tra la categoria dei best-seller e Yu-Gi-Oh!, il gioco di carte, ha generato un fatturato invidiabile, per la felicità dell'editore Konami. Le card hanno anche un mercato molto interessante, le più rare costano decine di migliaia di dollari.
Per capire la portata del fenomeno basta guardare il successo che ha avuto la nuova versione del videogioco rilasciata a gennaio: nei primi tre mesi è stata scaricata 30 milioni di volte. E la sua riuscita economica, sui social si è tramutata in centinaia di commenti commossi dove non è possibile non notare che quasi tutti i profili dei fan, accanto al nome (spesso occidentale), hanno idiomi giapponesi.
Sul profilo Twitter dedicato all'autore, si legge: «Indipendentemente dal fatto che tu sia cresciuto con Yu-Gi-Oh o meno, che tu abbia giocato solo al gioco di carte o letto solo il manga, se hai visto l'anime in inglese o in giapponese, siamo stati tutti uniti dalla passione di un uomo. Sarà sempre vivo nei nostri cuori». Rhymestyle, uno youtuber con più di un milione di follower, ha scritto sempre su Twitter che Takahashi gli ha dato «l'infanzia più bella di sempre».
Negli ultimi anni, Takahashi ha continuato a seguire da consulente tutto ciò che gira intorno al mondo di Yu-Gi-Oh! e ha allacciato nuove collaborazioni. Anche con il gigante Marvel per cui ha disegnato Marvel's secret reverse , che vede protagonisti Iron man e Spider-man. Mangaka, certo, ma Takahashi era anche un appassionato di giochi da tavolo, di carte e di ruolo, proprio come il suo Yugi Muto. Tra i fumetti che amava di più, c'erano i giapponesi Dragon Ball , JoJo' s Bizarre Adventure e Akira , ma nella sua lista del cuore c'era anche Hellboy , un fumetto americano dove il protagonista è il figlio di una strega e di un demone.
· È morto l’attore James Caan.
Da repubblica.it il 7 Luglio 2022.
È morto ieri a 82 James Caan. L'attore era maggiormente conosciuto per l'interpretazione di Santino "Sonny" Corleone, rabbioso e violento primogenito di Don Vito Corleone, nel film Il padrino (del 1972) diretto da Francis Ford Coppola. Per quella parte ricevette una candidatura al premio Oscar per il miglior attore non protagonista. La notizia è stata data dalla sua famiglia.
"È con grande tristezza che vi informiamo della morte di Jimmy la sera del 6 luglio", è l'annuncio pubblicato sull'account Twitter dell'attore. Il suo manager ha confermato la notizia.
Caan è apparso in molti film di successo, tra i quali Doringo! (1965), El Dorado (1966), 40.000 dollari per non morire (1974), Rollerball (1975), Quell'ultimo ponte (1977), Strade violente (1981), Misery non deve morire (1990), Giorni di gloria... giorni d'amore (1991), Omicidi di provincia (1993), L'eliminatore - Eraser (1996), Marlowe - Omicidio a Poodle Springs (1998) e Dogville (2003). Tra il 2003 e il 2007 ha interpretato il protagonista "Big Ed" Deline nella serie televisiva Las Vegas.
James Caan, morto il Sonny Corleone de «Il Padrino» di Coppola. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 7 Luglio 2022.
È stato il suo account Twitter ufficiale a comunicare la morte di James Caan, a 82 anni, attore americano nato nel Bronx il 26 marzo 40, il celebre Sonny manesco e violento figlio del Padrino nel film del ’72 di Francis Coppola, che fu suo compagno di studi universitari e infatti gli offrì la prima occasione in Non torno a casa stasera, ruolo difficile di un giocatore di football ritardato.
Figlio di immigrati ebrei tedeschi, papà macellaio, cresce nel Queens, ma quando, dopo aver studiato un po’ di diritto, scopre il fuoco sacro della recitazione. Lavora senza sosta (a Broadway è nella produzione off di La ronde), in Irma la dolce fa un’apparizione senza nome, incontrando star come Wayne e Mitchum ( El Dorado in cui si inserisce nella storica coppia di Hawks, che lo farà corridore in Linea rossa 7000). Ne farà di ogni, maltrattando la povera Olivia de Havilland chiusa in ascensore in Un giorno di terrore, ma evitando di fossilizzarsi, pur in una varietà di delinquenti, nel ruolo mafioso: è anche nel Padrino 2 e tutti lo credono italo americano. Gira decine e decine di film d’azione ma non solo, nonostante il suo aspetto macho, James non è sempre vincente ma spesso l’uomo coi dubbi, capace di lasciarsi sfuggire la Funny lady Barbra Streisand e amando una prostituta di buon cuore in Un grande amore da 50 dollari.
Il grande successo teen ager arriva con l in cui è un campione di un violento sport del futuro, eroe di partite carneficina. Un attore con due anime, una dedita alla banalità del Male, e l’altra introspettiva con salti mortali sull’inconscio come 40.000 dollari per non morire, in cui Caan è posseduto dal demone del gioco. In seguito difenderà Jane Fonda nel western crepuscolare di Pakula Arriva un cavaliere libero e selvaggio e s’innamorerà di Bujold nel 1878 per Un altro uomo, un’altra donna quasi remake americano di Lelouch.
Ma è Coppola che non lo abbandona nel corso di una lunga carriera e lo vuole come sergente in un film bello e amaro sul Vietnam . Altro successo di Caan sarà Misery da Stephen King in cui è uno scrittore sequestrato e torturato da Kathy Bates, mescolando horror, thriller e letteratura. La sua stazza atletica, lo sguardo in cui il perdono non è la prima scelta, non tolgono a Caan anche l’attracco al sontuoso cinema Usa anni 70 ( Killer elite di Peckinpah, Conto alla rovescia dove Altman lo manda nello spazio), compresi ruoli bifronti e intimisti in cui si incomincia a non essere più sicuri di nulla. Caan non si nega neppure qualche tuffo nel comico delle ultime follie Mel Brooks, esordendo poi alla regia con un buon film di vendette ( Li troverò ad ogni costo) in cui Caan è un operaio che vuol ritrovare i figli.
Ma se si parla di amore & famiglia titolo classico è con Marsha Mason, cronistoria della vedovanza, altro fuori gioco di una carriera action ma talvolta cara anche al pubblico romantico malinconico. Pochi i riconoscimenti: fu candidato all’Oscar come non protagonista del Padrino, ma vinse Joel Grey per Cabaret, il figlio della mafia contro l’entertainer del nazismo musical.
Cinema: è morto James Caan, mitico Sonny Corleone ne "Il Padrino". Il Tempo il 07 luglio 2022
Lutto nel cinema, addio a Sonny de "Il padrino". L’attore americano James Caan è morto nella serata di mercoledì 6 luglio a Los Angeles. Aveva 82 anni. A dare l'annuncio a The Hollywood Reporter della scomparsa dell'attore, noto anche per il suo ruolo in "Misery non deve morire", è stato il suo agente Arnold Robinson. Non sono note le cause del decesso, dal momento che né Robinson né la famiglia hanno voluto rivelarle.
Il ruolo che ha reso Caan immortale nella storia del cinema è senza dubbio quello di Santino "Sonny" Corelone accanto ad Al Pacino, Marlon Brando, e Robert De Niro ne "Il Padrino", il film del 1972 di Francis Ford Coppola, che gli è valso la nomination all’Oscar per il miglior attore non protagonista. Nel 1990 ha recitato in "Misery non deve morire" accanto a Kathy Bates che ha vinto l’Oscar come miglior attrice protagonista.
Caan era nato a New York il 26 marzo 1940 - James Edmund Caan il nome completo - e aveva iniziato la sua carriera negli anni Sessanta. Tra i titoli della sua filmografia da attore "Rollerball" (1975), "L’eliminatore - Eraser" (1996), "Marlowe - Omicidio a Poodle Springs" (1998), "Dogville" (2003). Tra il 2003 e il 2007 aveva interpretato il ruolo da protagonista "Big Ed" Deline nella serie televisiva "Las Vegas’". "Con grande dolore vi annunciamo il decesso di Jimmy, avvenuto nella serata del 6 luglio. La famiglia apprezza l’ondata di affetto e le sentite condoglianze, chiede di continuare a rispettare la privacy in questo momento difficile", ha scritto la famiglia su Twitter.
È morto a 82 anni l'attore James Caan. Il Giornale il 7 luglio 2022. "È con grande tristezza che vi informiamo della morte di Jimmy la sera del 6 luglio", ha annunciato la famiglia di James Caan in un tweet pubblicato sull'account dell'attore. Il suo manager ha successivamente confermato la notizia. Deve la sua notorietà principalmente all'interpretazione di Sonny Corleone nella saga de Il padrino, ruolo per il quale ebbe una nomination all'Oscar come miglior attore non protagonista. Tra le sue interpretazioni più note anche Misery non deve morire.
Ma la sua carriera inizia ben prima de Il padrino. James Caan ha partecipato alle riprese de Gli intoccabili nel 1962, anche se la sua prima vera interpretazione in un film è quella di un minaccioso criminale nel thriller Un giorno di terrore, nel 1964. Da quel momento la sua carriera inizia ad accelerare e appena due anni dopo appare in El Dorado con John Wayne. La sua visibilità è ormai ampia e da lì a poco iniziano ad arrivare anche i primi riconoscimenti. In particolare, la critica tesse per lui grandi lodi per la sua interpretazione di un giocatore di football che ha subito danni al cervello nel film Non torno a casa stasera, girato nel 1969 e diretto da Francis Ford Coppola, il regista che gli cambierà la vita.
La saga dei Corleone si rifà il look e torna nei cinema
Infatti, nel 1971 Coppola decide di chiamarlo per interpretare Sonny Corleone ne Il padrino. Con quel film, per lui inizia la grande avventura di Hollywood, che durerà per oltre un decennio. Nella sua carriera, James Caan ha avuto il grande pregio, e la straordinaria bravura, di non legare il suo nome a quello del mafioso e cattivo. Ha interpretato vari ruoli senza mai fossilizzarsi e dopo lo straordinario successo della pellicola di Coppola si annoverano Un grande amore da 50 dollari del 1973, Una strana coppia di sbirri l'anno successivo, 40.000 dollari per non morire nel 1974, Killer Elite 1975, in coppia con Robert Duvall, e Rollerball, sempre del 1975.
La sua bravura viene riconosciuta al punto che nel 1978 ottiene una stella sulla Hollywood Walk of Fame al 6.648 di Hollywood Boulevard. Nel 1981 appare in Strade violente, diretto da Michael Mann, dove impersona un ladro professionista. Questo film è oggi considerato un film noir classico e l'interpretazione di Caan è considerata vicina a quella fornita in Il padrino. Torna al cinema nel 1987 quando Francis Ford Coppola lo chiama per interpretare un sergente in Giardini di pietra, un film sugli effetti della guerra del Vietnam.
Aveva 82 anni. È morto l’attore James Caan, addio al Sonny Corleone del capolavoro “Il Padrino”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 7 Luglio 2022.
Era stato per tutti il volto di “Sonny” Corleone, il ruolo che da Il Padrino lo ha proiettato alla storia del cinema. James Caan, attore americano, è morto all’età di 82 anni. A dare la notizia il suo manager. “È con grande tristezza che vi informiamo della morte di Jimmy la sera del 6 luglio”, ha annunciato la famiglia pubblicando una breve nota sull’account dell’attore.
Caan era nato a New York, nel Bronx, il 26 marzo 1940. Aveva cominciato con la televisione in serie come Gli Intoccabili. La prima interpretazione a bucare lo schermo arriva con il thriller Un giorno di terrore, del 1963. Due anni dopo appare in El Dorado con John Wayne. Il suo talento cominciò a essere ben noto a critica e spettatori con Non torno a casa stasera di Francis Ford Coppola, del 1969.
Ancora più apprezzata è la sua interpretazione per La canzone di Brian in cui interpretava di nuovo un giocatore di football, in punto di morte. L’anno dopo la chiamata che cambierà la sua vita. Coppola lo vuole ne Il Padrino, nel ruolo di Santino “Sonny” Corleone. Per quel ruolo sarà candidato all’Oscar come miglior attore non protagonista. Memorabile la scena in cui viene finito da una pioggia di proiettili.
Inizialmente Caan aveva fatto il provino per il ruolo di Michael, che però sarebbe andato ad Al Pacino. Il capolavoro di Coppola proprio quest’anno compie cinquant’anni. Altre sue interpretazioni memorabili erano state in Misery non deve morire, Strade violente, Rollerball, 40.000 dollari per non morire.
“Jimmy è stato uno dei più grandi. Non solo è stato uno dei migliori attori che la nostra industria abbia mai visto, ma è stato anche divertente, leale, premuroso e amato“, la dichiarazione del manager del divo Matt Del Piano.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Marco Giusti per Dagospia l'8 luglio 2022.
Lo ricorderemo per sempre crivellato di colpi come Sonny Corleone ne “Il Padrino” di Francis Ford Coppola, forse non il suo personaggio migliore, ma certo quello più popolare e quella morte inaspettata fu per gli spettatori del tempo un duro colpo da assorbire.
James Caan, morto a 82 anni, era un attore di grande finezza e intelligenza, non sempre fortunato nei destini dei suoi film, cosa che gli provocò non pochi cali di successo, ma sempre in grado di riprese inaspettate con scelte di grande qualità.
Non a caso lo ricordiamo in film del tutto diversi come il meraviglioso “Thief” di Michael Mann con la musica dei Tangerine Dreams dove è il ladro protagonista, in “Misery” di Rob Reiner, dove è lo scrittore preso in ostaggio e torturato da Kathy Bates, in “Rollerball” di Norman Jewison, che anticipa i personaggi alla Stallone, in “Dogville” di Lars Von Trier e in “The Yards” di James Gray, nel ruolo del mafioso da commedia padre di Jeanne Tripplehorne in “Mickey Blue” di Kelly Makin.
Nato nel Bronx nel 1940 da due immigrati ebrei tedeschi, il padre era macellaio, si distinse negli anni dell’Università, dove studiò Economia, come sportivo, rugby, cintura nera di karaté e rodeo, tanto da esser chiamato “The Jewish Cowboy”, tutte passioni che porterà nel cinema negli anni successivi.
Scopre di saper recitare molto presto e appare in una serie di spettacoli off Broadway, ma nei primi anni ’60 lo troviamo già a Hollywood. Il suo esordio al cinema, dopo qualche apparizioni nelle serie tv, è come marinaio in “Irma la dolce” di Billy Wilder nel 1963, ma è già protagonista di “Lady in a Cage”, thriller di Walter Grauman con Olivia De Havilland e uno dei protagonisti di “Doringo!” di Arnold Laven.
Ancora meglio sarà nel piccolo film di corse automobilistiche “Linea rossa 7000” di Howard Hawks. Sarà proprio Hawks a portarlo sul set di “El Dorado”, con un buffo cappello a mezza tuba e una sputafuoco in mano, tra due miti come John Wayne e Robert Mitchum. Non solo non sfigurò, ma lo notammo tutti.
Al punto che la Universal ne fa il protagonista di una serie di film di genere piuttosto interessanti, come “Assassinio al terzo piano” di Curtis Harrington, giallo di grande culto con Simone Signoret e Katharine Ross o “I 7 del Texas” di William Hale, un western che allora ci apparve di grande novità.
Nel 1969, assieme a un paio di film interessanti, “Rabbit, Run” di Jack Smight con Anjanette Comer, “T.R.Baskin” di Herbert Ross con Candice Bergen, incontra Francis Coppola che gli offre un ruolo di ragazzone buono ma disturbato che accompagna la protagonista Shirley Knight in fuga dalla famiglia e dal ruolo di moglie in “Non torno a casa stasera”/”The Rain People”.
Grande successo gli portò anche in tv il ruolo di Brian Piccolo, giocatore professionista di rugby dei Chicago Bears malato di cancro, in “Brian’s Song”, 1971.Tutto questo lo porterà nel 1972 al ruolo di Sonny Corleone in “Il Padrino” di Coppola, ruolo che gli valse la sua unica nomination all’Oscar.
Visto come un attore di impostazione diversa, non legato all’Actor’s, rispetto ai Pacino, De Niro, anche a Duvall, James Caan dovrà dimostrare negli anni di non avere solo un fisico adatto al cinema degli anni ’60, ma di saper anche recitare ruoli più sottili.
Lo troviamo in coppia con Alan Arkin nel poliziesco “Freebie and the Bean”, 1974, nel favoloso “The Gambler” di Karel Reisz, una delle migliori versioni cinematografiche de “Il giocatore” di Dostoevskij, dove recita assieme a Lauren Hutton. In “Funny Lady” di Herbert Ross, 1975, è l’uomo della Fanny Brice di Barbra Streisand. Negli anni ’70 lo troviamo protagonista di “Rollerball” di Norman Jewison, girato in Germania, e, assieme a Robert Duvall, del bellissimo “Killer Elite” di Sam Peckimpah, dove si può vedere la sua passione per il karaté.
Non furono dei successi film come “Slither”, “Cinderella Liberty”, “Harry and Walter Go to New York”, “Comes a Horseman” e la commedia “Capitolo secondo”, ma ritrovò il suo status di attore di culto in “Thief” di Michael Mann nel 1981. Non facile da dirigere sul set, si ritrovò col suo regista preferito di sempre, Francis Coppola, nel bellissimo e tristissimo “Giardini di pietra” nel 1987.
Non funzionarono né “Alien Nation” né “Dick Tracy” di Warren Beatty, ma fu grandissimo in “Misery” di Rob Reiner nel 1990. Anche se negli anni ’90 la cocaina non lo aiutò molto nella carriera, lo ritroviamo in gran forma, in film diversi e decisamente più moderni come “The Yards” di James Gray e “Dogville” di Lars Von Trier, che una ventina d’anni fa lo riportarono alla luce, quando non aveva che sessant’anni.
Sonny e noi. Il talento sottovalutato di James Caan e lo straziante rito del decesso pop. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Luglio 2022.
L’attore di Misery non deve morire e del Padrino non ci veniva mai in mente quando facevamo l’elenco di quelli bravi, ma senza di lui quei capolavori non sarebbero stati gli stessi
Paul Sheldon aveva una bottiglia di Dom Pérignon in ghiaccio, e per aprirla aspettava di scrivere «fine» sotto al dattiloscritto del nuovo romanzo. Disciplinata attesa di finire di lavorare per cominciare a bere a parte, Paul Sheldon era taleqquale a noi. Questo però non lo sapevamo, allora.
Non lo sapevo io che avevo diciott’anni e facevo (il meno possibile) i compiti; ma non lo sapevano neanche gli adulti, che non avevano cellulari, piattaforme social, interazioni quotidiane con picchiatelli, reputazione costantemente a rischio.
Nessuno si aspetta l’inquisizione spagnola: nessuno sapeva che, tre decenni dopo, il mondo sarebbe stato diviso in Paul Sheldon, che crede di poter fare con l’opera del suo ingegno ciò che crede, e Annie Wilkes, che gli spezza le gambe perché lui, il suo romanziere preferito, vuole osare uccidere la sua eroina della finzione letteraria.
Misery non deve morire era una tempesta perfetta di talenti di quelli che non ci vengono mai in mente quando dobbiamo elencare i migliori, e poi quando muoiono li piangiamo. Il romanzo di Stephen King l’aveva sceneggiato William Goldman, quello del Maratoneta, di Tutti gli uomini del Presidente, e soprattutto di Butch Cassidy. Il film lo dirigeva Rob Reiner, che da Stand by me a Codice d’onore, passando per Harry, ti presento Sally, è stato sempre attentissimo a non farsi notare mentre faceva la storia del cinema. Annie Wilkes la interpretava un’ultraquarantenne con tre menti e nessuna fama: oggi, tra una ciancia sulla body positivity e l’altra, l’invasata che rapisce lo scrittore la farebbero interpretare a una tettona venticinquenne con milioni di cuori su Instagram, mica a una sconosciuta Kathy Bates.
E poi c’era James Caan. James Caan non ci veniva mai in mente. Non ci veniva in mente quando facevamo gli elenchi dei bravi, quasi neanche ci veniva in mente quando discutevamo del Padrino. Al Pacino vabbè, era Al Pacino, ma se dovevamo dire del Corleone intelligente dicevamo di Vito, e se dovevamo dire del Corleone scemo dicevamo di Fredo. Sonny mai. Quasi mai. Poi su quel «quasi» ci torniamo, ora non vorrei trascurare Paul Sheldon.
Il film era di Annie. Paul doveva stare a letto. Prima infermo, poi prigioniero. Il film era il crescendo d’isteria d’un tipo di carattere che oggi vediamo tutti i giorni e trentadue anni fa era terrorizzante. Raccontava James Caan che, prima dell’uscita, avevano fatto vedere il film a Stephen King. Goldman aveva ripulito la storia da molta della violenza che c’era nel libro, ma James Caan costretto a letto era comunque la più indifesa vittima che si fosse mai vista. Quando lei sta per ammazzarlo, nel buio della saletta di proiezione si sente la voce di King, coinvolto come uno spettatore qualunque: stai attento, ha una pistola.
Ci voleva uno che potessimo dimenticare, per ricordarci di empatizzare. Ci voleva uno del quale vent’anni prima avessimo pensato: ah, questo è il Corleone bello ma cretino. (Tutti i figli di don Vito sono cretini, com’è giusto che sia. Nessun uomo che abbia una qualche forma di potere, sia denaro o fama o malavita, ha figli non cretini. Michael è isterico, Santino è fesso, Fredo è sia isterico sia fesso, Connie è fessa, isterica, e pure femmina).
La cretineria di Sonny, così cretino da cascare nella trappola organizzata dal cretinissimo cognato, è il mio litigio preferito nelle discussioni sul Padrino (litigare sul Padrino è un’attività altamente ricreativa). I piccoli fan non sopportano che si dia del cretino a un protagonista del loro film preferito, non sapendo discernere che la stupidità è un meccanismo narrativo indispensabile: se Sonny non fosse cretino, non esisterebbe il film.
Giovedì su Twitter era una gara a ricordare che Caan non era italoamericano, ma era la prova che c’era una tolleranza identitaria tra ebrei e italiani, ci si potevano scambiare le interpretazioni. Temo che Occam suggerisca un’altra spiegazione: cinquant’anni fa, l’identitarismo era meno prescrittivo di oggi; oggi che si arena il progetto d’un biopic di Joan Rivers perché, santo cielo, l’attrice scelta per interpretarla non era ebrea. Sì, all’epoca c’era Jack Nicholson che diceva d’aver rifiutato Il Padrino perché era giusto il ruolo andasse a un italiano, ma era un’idea sua, non una regola che guai a violarla, e comunque la rinuncia di Nicholson esce dal dibattito tra identità culturali ed entra nel campo dei casting mancati su cui fantasticare. (Cosa sarebbe stato Via col vento con Bette Davis? O Il laureato con Robert Redford?)
Guardavo i coccodrilli social di James Caan, uguali a tutti gli altri – ehi, ho una foto col morto – ma diversi da molti altri – ad avere una foto col morto è Barbra Streisand, mica Vongola75 – e pensavo che sì, i social sono corresponsabili del quotidiano piangere qualcuno di cui magari non ci ricordavamo nelle classifiche dei nostri preferiti; ma c’è un’inevitabilità temporale che prescinde dalla malefica invenzione delle piattaforme dei cuoricini.
La cultura popolare come la intendiamo è un’invenzione degli anni Sessanta, che incidentalmente sono anche gli anni che hanno inventato la gioventù. Sono il decennio che ci ha convinti che essere ventenni fosse fighissimo, e il decennio che ci ha convinti che i film e le canzonette sono importantissimi. La prima generazione di poster della cultura popolare, quelli che avevano vent’anni allora, ora ne hanno ottanta, e muoiono con una certa frequenza.
James Caan ne aveva poco più di trenta quando interpretò Santino Corleone. E sì, va bene, la storia del cinema, i colossi che non avremo mai più, l’importanza oggettiva di certe opere. Ma, più di tutto, ci appassionano la giovinezza e l’ingenuità di dettagli come quello raccontato da Jennifer Tilly: Caan che, sul set del Padrino, nasconde dei peperoncini in mezzo al cibo, perché Coppola glielo ruba sempre dal piatto e così gli passa la voglia. Ogni funerale ci parla di noi, siamo le prefiche ma anche il cadavere. Non piangiamo Santino e non piangiamo neanche Caan: piangiamo, come tutte le volte che questo rito del decesso pop si ripete, la via Gluck in cui neanche sappiamo più se abbiamo mai abitato davvero.
· E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.
Arnaldo Pambianco morto a 86 anni: lutto nel mondo del ciclismo. Giampiero Casoni il 06/07/2022 su Notizie.it
Era talmente amato e talmente "romagnolo" che Secondo Casadei gli dedicò un pezzo: Arnaldo Pambianco morto a 86 anni: lutto nel mondo del ciclismo.
Lutto nel mondo del ciclismo, è morto ad 86 anni Arnaldo Pambianco e l’Italia e la Romagna dicono addio ad un corridore dell’era in cui vincere il Giro d’Italia significava diventare una canzone. In che senso? Nel senso che un altro grande romagnolo, Secondo Casadei, dedicò al suo eroe una canzone dal titolo Viva Pambianco dopo che Arnaldo vinse il Giro d’Italia 1961.
Poi aveva partecipato ai Giochi olimpici di Melbourne nel 1956, giungendo settimo. Nel 1958 diventò professionista e nel 1960 si classificò settimo sia al Giro che al Tour de France. Il Giro 1961 fu la sua apoteosi personale, doppia perché quello fu il Giro del Centenario dell’Unità d’Italia.
Il trionfo al Giro del Centenario dell’Italia
Dopo una caduta nella tappa di Taranto, recuperò il distacco con una fuga storica nella 14 tappa. Non vinse ma prese la Maglia Rosa con 24” di vantaggio sul favorito Jacques Anquetil. A quel punto difendere la testa della classifica generale diventò una faccenda di testa dura e di epica, due cose che i romagnoli hanno dentro di serie assieme ai pistoni: il secondo posto nella penultima frazione Trento-Bormio gli fece consolidare il vantaggio e nella tappa finale a Milano ci fu il trionfo con uno stacco di ben 3’ e 45’’ su Anquetil.
· E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.
Nicolas Lozito per la Stampa il 6 luglio 2022.
Maestra. Lisetta Carmi era una maestra: di fotografia, di verità, di bellezza.
La fotografa, tra le più celebri del Novecento e una delle più conosciute al mondo, ci ha lasciato ieri a Cisternino all'età di 98 anni.
«Tutta la vita ho lavorato per capire», diceva di sé e del suo lavoro lungo quasi un secolo.
Una ricerca continua, che lei sintetizzava con gli scatti: ogni foto una scoperta, una luce su un punto fino a quel momento oscuro. La verità è che siamo noi ad aver capito, grazie alle sue foto. Osservando e studiando i suoi reportage, abbiamo conosciuto un'Italia che prima di Carmi non era mai stata mostrata: ha dato vita e dignità agli ultimi, ai lavoratori più umili, alle bizzarrie, i quartieri inaccessibili, ai primi travestiti d'Italia.
Annalisa Carmi, detta Lisetta, era nata a Genova il 15 febbraio 1924 da una famiglia borghese di origine ebraica. Durante il ventennio è costretta ad abbandonare gli studi: proseguirà da lì in poi in autonomia, imparando a far tutto per sé, da autodidatta. La sua prima passione è il pianoforte, che l'accompagna dal 1934 in quelli che lei stessa definì «più di vent' anni di isolamento e di studio».
Studia in Svizzera, a Genova, a Milano e si esibisce in Europa così come in Israele.
Smette di suonare un giorno ben preciso, il 30 giugno 1960. Lei vorrebbe prendere parte a uno sciopero indetto dalla Camera del Lavoro di Genova, ma il suo maestro glielo vieta, fortemente in disaccordo. È spaventato, le dice, che si possa fare male a braccia e mani e così perdere alcune esibizioni. La risposta di Carmi racchiude tutta la sua personalità: «Ricordo benissimo di avergli risposto che se le mie mani erano più importanti del resto dell'umanità avrei smesso di suonare il pianoforte». Così è. Non toccherà più lo strumento.
Tra le sue mani, in compenso, finisce una macchina fotografica: «Uno strumento per ricercare la verità». Le prime foto sono scatti di scena, ma bastano pochi anni di prove per capire quale sia la sua vocazione: i reportage dagli angoli dimenticati d'Italia. Ospedali, fogne, porti, acciaierie. A Genova mostra le condizioni di lavoro dei camalli. La sua fotografia diventa strumento di denuncia, atto politico, tanto che alcuni suoi scatti finiscono in mostra in Unione Sovietica.
Nel 1966 incontra Ezra Pound, realizzando 11 ritratti che poi finiscono in un libro: L'ombra di un poeta. Con gli Anni 70 arrivano i viaggi in Sud America e Asia. Ma nel 1976 arriva un'altra grande cesura: dopo un reportage in Sicilia decide di smettere di fotografare. Passerà il resto della sua vita in una complessa ricerca di spiritualità, sulle orme del suo maestro yogi. A Cisternino, dove si trasferisce, assume un nuovo nome, Janki Rani. Oggi piangiamo Lisetta Carmi: la maestra che ci ha insegnato a guardare.
· E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.
Marco Giusti per Dagospia il 6 luglio 2022.
Imbambolati dal troppo caldo e dall’incontro di Draghi e Di Maio a casa Erdogan, ci era sfuggita la notizia della morte, il 28 giugno, della più grande star del cinema turco di sempre, il leggendario e ancora popolarissimo Cuneyt Arkin, 85 anni, super-idolo nazionalista, noto come “Il Superman della Via della Seta”, un misto un filo più cafone di Belmondo-Delon-Mastroianni, attore, ma anche regista, sceneggiatore, produttore, in qualcosa come 300 film.
Di qualsiasi genere, romantici, karate, kung fu, western, supereroi, horror, avventurosi, politici, dove Cuneyt Arkin, che per la distribuzione estera si firmava a volte George Arkin, faceva acrobazie a cavallo, forte della sua esperienza al circo Medrano, menava alla Bruce Lee, conosceva sette arti marziali, sparava come Giuliano Gemma, lottava con alieni e zombi e faceva impazzire le ragazze turche col ciuffo alla Mal che da vecchio era diventato bianco.
La maggior parte dei suoi capolavori venne girata in cinque anni, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, “Giravo film in sette, otto giorni. Spesso era il regista, lo sceneggiatore e l’attore”. Ha detto.
I personaggi dei suoi film, Battal Gazi, il Commissario Kemal, Malkoçoglu, diventano presto noti in tutto il paese. All’estero, ovviamente, il suo film più noto è quello più trash, il folle “The Man Who Saved The World”, noto anche come “Turkish Star Wars”, girato a Goreme in Anatolia, dove se la vede con gli invasori spaziali per salvare la Terra. Il suo vero nome era Fahrettin Cureklibatik.
Era nato l’8 settembre 1937 in un villaggio nella regione di Eskisehir da una famiglia modesta. Si laurea in medicina e sposa, ancor giovane una collega medico, Guler Mocan, che gli darà una figlia. Chiamato al servizio militare, conosce un regista che gli aprirà le porte del cinema, Halit Refig, che lo vuole per un ruolo in un film, “Safak Bercoleri”, che gli verrà vietato dai suoi superiori. Ma finito il servizio militare, dal 1964 in avanti, si dedicherà anima e corpo al cinema lasciando perdere la carriera di medico.
I primi film sono “Hulki Saner” di Turker Inanoglu, “Gurbet Kuslari” di Halit Refig, 1964, dove capisce quale sarà il suo ruolo nel cinema. Verso la fine degli anni ’60 è già una star, è protagonista della coproduzione turco-libanese “Besatesli Kadin” diretta nel 1968 da quel Faruk “Frank” Agrama, il regista e produttore egiziano che troveremo poi faccendiere nell’acquisto dei film americani di Berlusconi.
Nel 1968 divorzierà dalla moglie. Si risposerà nel 1970 con Betul Isil, per divorziare anche da lei neanche un anno dopo, tra problemi pesanti di dipendenza dall’alcol. Che supererà. E risposerà Betul Isil nel 1972 e sarà un matrimonio duraturo, con tanto di altri due figli e nipoti.
Ormai star popolare del cinema turco di genere, nel 1972, quando la giunta del 12 marzo, per motivi politici, deciderà di tigliere il meritato premio per il miglior film, il Golden Boll, al celebre regista Ylmaz Guney, lo rifiuterà, dicendo: “No, non posso accettare. Questo premio appartiene al grande regista Ylmaz Guney”. Sempre nel 1972 gira il primo dei film western turchi realizzato con la regia del nostro Guido Zurli parte a Cinecittà e parte in Turchia, “Cowboy Kid” (“Kuçuk Kovboy”). È uno dei film turchi più popolari degli anni ’70, prodotta dalla Erler Film, di propietà del regista e magnate Turker Inanoglu, una specie di Berlusconi turco, proprietario di tv, case editrici, ecc.
“Fu veramente una superproduzione”, ricordava Zurli, “Una troupe cinematografica turca venne a Roma per effettuare le riprese nel villaggio della Elios sulla Tiburtina. Protagonista era il piccolo Ilker Inanoglu, figlio di cinque o sei anni del produttore. Veramente un piccolo grande attore che avevo diretto già in un altro film, Un bambino terribile.
Ma il protagonista era il noto attore Cuneyt Arkin, che in Turchia era molto considerato. Vennero ingaggiati un paio di attori italiani, Alan Steel e Evelyn Stewart e, soprattutto Pascal Petit, che quando arrivò ad Istanbul ebbe un’accoglienza trionfale, degna di una diva famosa. Le riprese vennero effettuate in massima parte nella valle di Cappadocia, nei pressi di Goreme e Urgup”.
Negli anni ’70 il cinema popolare turco segue da vicino i rapidi cambiamenti di genere delle produzione italiane e internazionali.
Così Cuneyt Arkin passa dal film di kung fu, uscito anche in Italia, “Che carambole… ragazzi” diretto da Natuk Baytan nel 1976, con Franca Gonella e Alberto dell’Acqua, probabilmente coprodotto da Joe D’Amato come Dany Film, a “Kamurat, il ribelle dell’Anatolia” codiretto da Baytan e dall’austriaco Ernst Hofbauer. Gira pure follie come “Ninja Killer”, “Lion Man”, “The Magic Man”, “The Two Headed Giant”.
Ma il titolo più incredibile è per la coproduzione italo-turca prodotta e diretta dal Italo Martinenghi “Tre Supermen contro il Padrino” nel 1979, dove i tre Supermen sono Sal Borgese, Nick Jordan alias Aldo Canti, uno stuntman strepitoso che farà una brutta fine in Italia nel 1990, e Kuneyt “George”Arkin, mentre il Padrino è lo spagnolo Aldo Sambrell. Attenti invece a “Kriminal Porno”, film drammatico del 1979, girato da Melih Gulgen col titolo “Insanlari seveceksin”, che in Italia viene tagliato e infarcito di scene porno per giustificare il titolo sporcaccione.
Compaiono anche film seri, come “The Mine” del 1978. Negli anni ’80, anche se non con la quantità degli anni precedenti, Cuneyt Arkin è ancora molto attivo nel cinema di genere, grazie al successo del fantascientifico “Dünyay? Kurtaran Adam”, noto come “The Man Who Saved the World” o “Turkish Star Wars”, diretto da Cetin Inanc, “Wild Blood”, “Zombie 66: The Mega Death Punch” di Cetin Inanc, 1983. Molto amato dagli spettatori, Arkin alterna il cinema alla tv, comparendo in parecchie serie fino a oggi, ma il suo periodo d’oro è quella della pura exploitation filo-occidentale degli anni ’60 e ’70.
· È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.
Morto Paolo Grossi, ex presidente della Consulta. ANSA il 04 luglio 2022
E' morto a 89 anni Paolo Grossi, fiorentino, presidente emerito della Corte costituzionale, storico del diritto italiano e professore per oltre quarant'anni all'Università di Firenze. A dare notizia della scomparsa di Grossi la stessa Consulta con un tweet. "Pochi studiosi sono stati maestri autentici come lo è stato Paolo Grossi", il ricordo di Giuliano Amato, presidente della Corte costituzionale.
Cordoglio è stato espresso dall'Università di Firenze dove Grossi si laureò nel 1955 e dove ha insegnato dal 1966 al 2008. Grossi, ricorda l'Ateneo, ha "segnato la storia del diritto italiano con importanti innovazioni: sino al suo arrivo, nel mondo universitario la storia del diritto era storia del diritto medioevale; con lui quel 'grande polmone storico' si apre al moderno e sino al contemporaneo, e muta anche, con il suo arrivo al Consiglio universitario nazionale, il nome stesso della disciplina accademica. Fermamente convinto del dialogo interdisciplinare e della unitarietà della scienza giuridica, Grossi ha applicato la propria attività di studioso a un diritto socialmente orientato ed analizzato all'interno della dimensione costituzionale".
All'Ateneo fiorentino Grossi aveva anche donato la sua biblioteca: il fondo librario si trova a Villa Ruspoli e conta circa 10.000 volumi di diritto italiano, con un'ampia rappresentanza di letteratura giuridica straniera, in particolare dell'area tedesca, francese, spagnola e latinoamericana. (ANSA).
1933-2022. È morto Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale. Il Domani il 04 luglio 2022
L’annuncio con un tweet della Consulta, aveva 89 anni. Per più di quarant’anni ha insegnato diritto all’Università di Firenze a cui ha donato 10mila volumi
«Una notizia triste che non avremmo voluto dare: è scomparso Paolo Grossi, presidente emerito della Corte costituzionale, storico del diritto italiano e professore per oltre quarant'anni all'Università di Firenze». Con questo tweet la Consulta ha annunciato la morte del professore.
CORDOGLIO DA PARTE DELLE ISTITUZIONI
Parole di cordoglio sono arrivate da parte dell’Ateneo e dell’attuale presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato. L’Università di Firenze ricorda come Grossi ha «segnato la storia del diritto italiano con importanti innovazioni: sino al suo arrivo, nel mondo universitario la storia del diritto era storia del diritto medioevale; con lui quel “grande polmone storico” si apre al moderno e sino al contemporaneo, e muta anche, con il suo arrivo al Consiglio universitario nazionale, il nome stesso della disciplina accademica. Fermamente convinto del dialogo interdisciplinare e della unitarietà della scienza giuridica, Grossi ha applicato la propria attività di studioso a un diritto socialmente orientato ed analizzato all'interno della dimensione costituzionale».
Per Giuliano Amato: «Pochi studiosi sono stati maestri autentici come lo è stato Paolo Grossi: per i suoi scavi insuperati nelle radici e nel senso attuale del pluralismo giuridico al di là dello statualismo, per la scuola che ha creato attorno a sé, per gli studi che ha animato sulle sue riviste. E infine per il suo ruolo alla Corte costituzionale, dove ha insegnato a tutti noi la ricerca dell'equilibrio e quindi, ovunque possibile, della decisione consensuale; e dove, da presidente, con la sua naturale e riconosciuta autorevolezza, ci ha presieduto davvero, anche nei momenti più difficili».
LA CARRIERA ACCADEMICA
Nell’Ateneo fiorentino, il professore era un istituzione essendo diventato ordinario nel 1966. Ha poi proseguito con una carriera brillante, diventando preside di giurisprudenza dal 1972 al 197. Tra gli altri incarichi, nel 1979 (e fino al 1986), è stato rappresentante dei docenti ordinari delle facoltà giuridiche italiane nel Consiglio universitario nazionale.
Ha ricevuto vari riconoscimenti italiani, come il Fiorino d'oro dalla città di Firenze nel 2007 per il «mirabile contributo allo sviluppo del pensiero giuridico moderno». Grossi aveva anche ricevuto lauree honoris causa dalle università di Francoforte sul Meno, Stoccolma, Barcellona, Madrid, Siviglia, Bologna, dall'ateneo dello stato del Michoacan (Messico), dalla Cattolica, dall'Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, Universidade Federal do Rio Grande do Sul, Universidade Federal do Paranà e dall'Università di Macerata.
· E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.
(ANSA il 3 luglio 2022) - Antonio Cripezzi, cantante e tastierista dei Camaleonti, è stato trovato morto in una stanza di albergo di San Giovanni Teatino (Chieti). Il decesso, secondo le prime informazioni, sarebbe dovuto a cause naturali: un malore, nella notte, non gli avrebbe lasciato scampo.
Sul posto, lanciato l'allarme, sono intervenuti i soccorritori ed i Carabinieri. Cripezzi, 76 anni, in passato aveva già avuto problemi di salute. Ieri sera si era esibito con i Camaleonti al parco Villa de Riseis di Pescara. Dopo l'esibizione una cena con lo staff e alcuni fan e poi il rientro in hotel.
È morto Tonino Cripezzi, voce e tastiere dei Camaleonti. Malore in albergo dopo un concerto a Pescara. La Repubblica il 3 Luglio 2022.
Il musicista si era ritirato in camera dopo l'esibizione e la cena con un gruppo di fan
Antonio Cripezzi, cantante e tastierista dei Camaleonti, è stato trovato morto in una stanza di albergo di San Giovanni Teatino (Chieti). Il decesso, secondo le prime informazioni, sarebbe dovuto a cause naturali: un malore, nella notte, non gli avrebbe lasciato scampo.
Sul posto, lanciato l'allarme, sono intervenuti gli operatori del soccorso e i carabinieri. Cripezzi, 76 anni, in passato aveva già avuto problemi di salute. Ieri sera si era esibito con i Camaleonti al parco Villa de Riseis di Pescara. Dopo l'esibizione aveva cenato con lo staff e alcuni fan, poi era rientrato in albergo col resto del gruppo.
Tra i messaggi di cordoglio dei colleghi Mario Lavezzi - ex componente e fondatore della band - è stato tra i primi a scrivere: "Il mio caro amico di una vita tonino cripezzi se ne è andato nel sonno. Non posso crederci - scrive su instagram - sono sconvolto dal dolore. Tornano in mente i bei momenti vissuti insieme che terrò sempre nel mio profondo, caro amico".
Cripezzi, originario di Milano, è stato il pianista della storica band fin dalla fondazione, nel 1963. Nell'arco della loro lunghissima carriera, i Camaleonti hanno venduto oltre 20 milioni di dischi con l'aggiunta anche di quattro Dischi d'Oro.
Antonio Cripezzi dei Camaleonti, il dramma: come l'hanno trovato morto in albergo. Libero Quotidiano il 03 luglio 2022
Tremendo lutto nella musica italiana: è morto Antonio Cripezzi, leader e tastierista dei Camaleonti, mitico gruppo del Beat italiano fondato negli anni Sessanta. Il musicista è stato trovato senza vita in una camera d'albergo a Chieti, poche ore dopo essersi esibito con il gruppo a Parco di Villa di Riseis, a Pescara. Cripezzi, secondo le prime ricostruzioni, sarebbe morto nel sonno per cause naturali. Cripezzi aveva 76 anni e in passato aveva già avuto problemi di salute, ma aveva sempre continuato a girare l'Italia suonando.
Dopo il concerto, Cripezzi e i Camaleonti erano andati a cena con alcuni fan, quindi erano rientrati in albergo per dormire. Stamattina la drammatica scoperta. Tra i messaggi dei colleghi, è Mario Lavezzi, famosissimo paroliere della nostra musica leggera nonché ex componente e fondatore del gruppo - tra i primi a scrivere: "Il mio caro amico di una vita Tonino Cripezzi se ne è andato nel sonno. Non posso crederci - scrive su Instagram - sono sconvolto dal dolore. Tornano in mente i bei momenti vissuti insieme che terrò sempre nel mio profondo caro amico".
Poche ore prima era morta invece Irene Fargo, interprete diventata famosa a inizio anni Novanta per essere arrivata due volte seconda nella sezione Nuove Proposte sul palco dell'Ariston.
Lutto nel mondo della musica. È morto Antonio “Tonino” Cripezzi, storico fondatore e tastierista dei Camaleonti. Vito Califano su Il Riformista il 3 Luglio 2022
Antonio “Tonino” Cripezzi è stato trovato nella camera di albergo a Chieti dove alloggiavi con gli altri componenti dei Camaleonti. Il tastierista e leader della band è morto a 76 anni. Presumibilmente colpito da un malore. Poche ore prima il concerto al parco di Villa de Riseis a Pescara.
Cripezzi è stato lo storico pianista della band fondata nel 1963. Era originario di Milano. I Camaleonti nel corso della loro lunghissima carriera hanno venduto oltre venti milioni di dischi e hanno conquistato quattro Dischi d’Oro. In passato aveva già sofferto problemi di salute. Dopo il concerto si era fermato con lo staff e si era intrattenuto con alcuni fan.
A dare la notizia della morte, con un post su Twitter il cantante e autore Mario Lavezzi, tra i fondatori della band. “Il mio caro amico di una vita Tonino Cripezzi se ne è andato nel sonno. Non posso crederci, sono sconvolto dal dolore. Tornano in mente i bei momenti vissuti insieme, che terrò sempre nel mio profondo caro amico”.
Stando alle prime notizie battute dalle agenzie il musicista sarebbe stato stroncato da un malore. Sul posto sono intervenuti il 118 e i carabinieri. Il corpo senza vita è stato scoperto stamattina. Immediato il cordoglio del mondo della musica espresso soprattutto sui social.
Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.
Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 4 luglio 2022.
I Camaleonti sono il simbolo del boom dei complessi musicali negli anni Sessanta e Settanta. Voglia di offrire nella nostra lingua successi stranieri, voglia di agganciarsi a quel che succedeva in tutto il mondo: trovano una via italiana al Beat.
Nel caso dei Camaleonti, così come dei Dik Dik, proponevano un pop leggero e orecchiabile. Tutti facevano un po' di tutto. Il cambio in corsa di un elemento era ininfluente ai fini del risultato finale. Fra le canzoni che i Camaleonti hanno portato al successo L'ora dell'amore, con ampia citazione di un brano dei Procol Harum. E ancora Applausi , Perché ti amo , Eternità .
Ogni tanto indulgevano nel mellifluo, come nel brano Lei mi darà un bambino .
Il leader del gruppo, Antonio «Tonino» Cripezzi, è morto dopo un concerto. Probabilmente per un malore, aveva 76 anni. Lui e Mario Lavezzi, il nocciolo duro dei Camaleonti, abitavano nello stesso quartiere della periferia di Milano e lì era iniziato tutto. Il loro era un sodalizio che si era interrotto solo per la chiamata alla armi di Lavezzi. Ed è curioso che la band in cui avevano militato assieme si fosse data come nome I Trappers , anticipando di qualche decennio la Trap.
Il caso ha voluto che Tonino Cripezzi sia morto nello stesso albergo a Chieti in cui alloggiavano i Dik Dik impegnati anche loro in un concerto estivo. Tra i primi commenti ad arrivare quello di Pietruccio Montalbetti, leader del complesso: «Nessuna rivalità fra le nostre due band. Tonino era una persona gentile e un grande artista».
Ma che differenza c'è fra Camaleonti e Dik Dik? «Molto poca», per Mario Lavezzi, che scatta una fotografia degli anni d'oro di quei due gruppi.
«Tutti e due più beat che rock.I percorsi di crescita, poi: entrambi erano partiti facendo cover, versione italiana. Poi mano a mano che crescevano in credibilità, gli autori hanno iniziato a scrivere apposta per loro». Su tutti Battisti e Mogol, per esempio. «La distanza stilistica tra le due band era minima - continua Lavezzi -. Però la voce di Cripezzi era molto riconoscibile, con il suo vibrato inconfondibile, così come lo era quella di Vandelli nell'Equipe 84».
La composizione del gruppo ha subito vari cambiamenti negli anni. I Camaleonti sono stati un brand oltre che una band. Pur senza la spinta dei media, questi gruppi dal successo degli anni Settanta sono arrivati fino alle feste di piazza di oggi. «Le major del resto lo ammettono - spiega Lavezzi -: la maggior parte del fatturato non arriva dalle nuove produzioni ma dal catalogo, ovvero da opere del passato che hanno avuto grande successo e continuano ad essere riproposte ad esempio nei karaoke. Basta pensare a Battisti e Pupo. Il perché? Sono canzoni che si possono cantare. Niente rock, ma soprattutto niente rap così difficile da fare proprio. Il pubblico delle feste di piazza poi non è molto giovane e si fa coinvolgere soprattutto da brani del passato».
E Tonino Cripezzi? Lavezzi condensa il suo pensiero in una parola: «Tonino era l'entusiasmo - dice -. L'entusiasmo con cui ci tuffammo nell'avventura musicale: io e lui, con Gianfranco Longo (poi passato con I ragazzi della via Gluck), Mimmo Seccia, creatore di locali notturni, e Bruno Longhi, giornalista sportivo».
Montalbetti, invece, lo immagina sul palco al concerto dell'altra sera: «C'erano quasi ottomila persone. Il segreto? La scelta delle canzoni. Ai nostri tempi in Italia andavano ancora la lirica e la canzone napoletana. Ma noi giovani di notte ascoltavamo Radio Luxembourg sognando i Beatles. Un sondaggio rivelò che c'erano 3.200 complessi allora in Italia innamorati di quel quartetto. Non esisteva una produzione italiana e così riproponevamo, tradotte, canzoni straniere. Noi, come Dik Dik, avevamo inciso Sognando la California, dei The Mamas & The Papas. Veneravamo i Beatles. Soprattutto quando Lennon disse "Siamo più popolari di Gesù Cristo". Ed era vero». Da lì la spinta a importare la rivoluzione beat anche in Italia con una convinzione: «Se quelle canzoni piacciono a noi, perché non devono far sognare anche gli altri?».
· E’ morto il regista Peter Brook.
E' morto Peter Brook, gigante del teatro del Novecento. Anna Bandettini su La Repubblica il 3 Luglio 2022.
Ne dà l'annuncio Le Monde. Il regista britannico aveva 97 anni
E' morto sabato 2 luglio a Parigi il regista britannico Peter Brook. Aveva 97 anni. A dare l'annuncio è Le Monde. Il regista si era stabilito in Francia dal 1974. Nel teatro del Novecento, così ricco di “Maestri”, è stato uno dei più grandi, ai vertici del teatro di prosa ma insieme segnato da una vena di profondo sperimentalismo, l’inventore degli spazi disadorni e di un teatro di parola dove non senti che gli attori recitano anche se sono mattatori del calibro di John Gielgud, Lawrence Olivier, Paul Scofield per citare alcuni di quelli che ha diretto nella sua lunga carriera di regista.
Masolino D' Amico per “La Stampa” il 4 luglio 2022.
Nato da immigrati lettoni nel 1925, brillante studente (non di teatro), Peter Brook si rivelò già a vent' anni con una serie di regie di classici che sembrarono innovative in un contesto britannico dove regnava una tradizione polverosa e, con poche eccezioni, la routine; e già dieci anni dopo era famoso grazie a un allestimento dell'allora semidimenticato Tito Andronico di Shakespeare con due star come Laurence Olivier e Vivian Leigh, ammiratissimo anche a Venezia dove approdò come tappa di una tournée internazionale.
Seguirono successi in molti campi dello spettacolo, musical ed opera lirica non esclusi. Tra quelli in prosa diventati leggendari spiccano Re Lear con Paul Scofield (1962); Marat/Sade di Peter Weiss con Glenda Jackson (1964); il sublime Sogno di una notte di mezza estate (1972).
Nel '78, dopo un deludente Antonio e Cleopatra a Stratford-upon-Avon, però, Brook tagliò definitivamente i legami col teatro che si esegue nei luoghi consueti, con palcoscenico, sipario, poltrone e botteghino, e che ha certe esigenze produttive ed economiche.
Già in precedenza aveva dato vita a esperimenti audaci, come il memorabile Orghast (1972) a Persepoli, recitato in un idioma di puri suoni, scritto dal poeta Ted Hughes.
Ora, emancipandosi dalle condizioni in cui si era affermato, non voleva inaugurare un nuovo linguaggio, semplicemente, come confermato da tutta la sua lunga, luminosa carriera, mettersi in condizione di raggiungere meglio il suo obiettivo. Che era sempre stato e sempre sarebbe rimasto quello di arrivare al pubblico.
Non, attenzione, nel senso di esibire se stesso o la propria creatività, bensì in quello di portare allo spettatore un testo nel migliore dei modi: facendogliene comprendere i significati e la sostanza, e divertendolo: tenendolo continuamente avvinto e interessato.
Il suo perfezionismo era in funzione della comunicazione. E dopo avere imboccato un percorso di serietà - lavoro sugli attori, molte prove (alla lirica rinunciò per l'impossibilità di avere i cantanti a disposizione per il tempo necessario) - fece vedere quello che realmente voleva quando negli Anni Settanta ottenne a Parigi un teatro periferico in disuso, la Bouffe du Nord, e vi portò una compagnia internazionale di interpreti disposti a seguirlo ovunque.
Qui fece nuovi passi verso quella comunicazione che si diceva. Shakespeare era diventato arduo, legato a una lingua per certi versi obsoleta? Coraggiosamente, d'ora in avanti lo allestì in nuove traduzioni francesi, con tagli anche drastici, in bocca a parlanti di varie nazioni - una koinè che mirava a portare il Bardo a tutti.
Rinunciando a orpelli come scenografie e costumi, mantenne come priorità assoluta la simbiosi con lo spettatore. Le infinite prove che a questo punto poteva permettersi gli consentivano di saggiare, come teorizzò, la continua presa dello spettacolo. Se il pubblico ammesso alle prove si distraeva o, peggio, si annoiava, si correva ai ripari. E ricreò nel piccolo quella felicità, quella giocosità mai fine a se stessa, che aveva caratterizzato i suoi trionfi del passato.
Col tempo affiancò ai suoi Shakespeare o Cechov in lingua neutra e ridotti all'osso, ma tanto vivaci, anche qualche opera lirica come Carmen o Il flauto magico, suonate da tre o quattro strumenti e cantate con disarmante modestia di mezzi. Ma sul lato opposto affrontò anche la grandiosa epopea, con un pilastro della cultura mondiale come il Mahabharata (1985), il poema indiano con dèi, eroi e battaglie, tra gli interpreti anche il nostro Vittorio Mezzogiorno. Fu un kolossal lungo nove ore portato anche in America, visibile in tre serate e appassionante fino all'ultimo secondo.
In anni più vicini a noi pur continuando a visitare Shakespeare ogni tanto, realizzò, sempre con i suoi fedelissimi, piccole fiabe o aneddoti magari presi dal folklore del terzo mondo o estrosi adattamenti di testi improbabili come i libri di Oliver Sacks. Il risultato fu sempre una celebrazione della magia del teatro fatto di niente - due pezzi di legno sbattuti, un mestolo in un secchio d'acqua. Veniva spesso in Italia. Una volta, a Taormina, quando ebbe il Premio Europa 1989, qualcuno gli domandò come lavorava sulle luci. «Una cosa sola è importante - rispose -. Che i volti degli attori siano bene illuminati.»
Chiarezza, voleva; e energia. Diresse anche dei film, ma a parte il sempre inquietante Signore delle mosche (1963) dal romanzo di William Golding, furono soprattutto tentativi di dare qualche permanenza ai suoi spettacoli, che invece sono destinati a sopravvivere soltanto nella memoria di chi li ha goduti. Ma anche, e parecchio, negli spunti che hanno dato a generazioni di suoi discendenti e colleghi.
A 97 anni è morto Peter Brook, leggenda e mito del teatro del Novecento. Francesca Galici il 3 Luglio 2022 il 3 Luglio 2022 su Il giornale.
Si è spento Peter Brook, maestro del teatro europeo. Ha dedicato l'intera vita all'arte di prosa, viaggiando per il mondo e acquisendo cultura
Si è spento a Parigi a 97 anni il leggendario regista e sceneggiatore britannico Peter Brook. Dal 1974 si era trasferito in Francia ed è stato uno dei più importanti esponenti del teatro di prosa, capace di sperimentare e di inventare nuovi stili. Per l'importanza della sua produzione, Peter Brook è considerato uno dei grandi maestri del teatro del Novecento. Nacque a Londra il 21 marzo 1925 da genitori ebrei immigrati dalla Lettonia, che allora faceva parte dell'impero russo.
La storia della famiglia
Il cognome originario di suo padre era Bryck ma venne distorto in Brouk nella sua trascrizione dall'amministrazione francese, prima di diventare Brook all'arrivo in Inghilterra. I suoi genitori furono costretti a lasciare l'impero russo all'inizio del Novecento. Studiarono a Parigi e Liegi, prima di fuggire dal Belgio per l'Inghilterra nel 1914. Nonostante non abbia mai realmente consciuto l'impero russo, Brook ha sempre avuto un legame particolare con la Russia, Paese che fu anche al centro del suo incontro con sua moglie, l'attrice Natasha Parry, anche lei di origini russe. Hanno avuto due figli: Simon e Irina. La figlia è stata chiamata Irina in omaggio alla più giovane delle eroine di Tre sorelle, il dramma teatrale composto da Anton Cechov. Irina Brook ha assorbito la passione per la recitazione dei suoi genitori ed è stata direttore del Teatro Nazionale di Nizza dal 2014 al 2019.
La carriera
La carriera di Peter Brook è iniziata quando, appena ventunenne, firma la sua prima regia teatrale. A 22 anni firma con Romeo e Giulietta il suo primo spettacolo nel tempio shakespeariano di Stratford-upon-Avon. "Lo spirito, questa materia immateriale impossibile da giustificare e da mostrare, è l'unica giustificazione per l'evento teatrale", ha sempre affermato Peter Brook. Per spiegare la grandezza della sua produzione, basterebbe ricordare il suo Marat-Sade di Weiss a metà anni '60 e poi il colossale Mahabarata, spettacolo per Avignone del 1985 poi divenuto anche film e recentemente graphic novel, uno spettacolo poetico e rigoroso di nove ore, allestito in una cava di pietra, poema indù di 70mila versi sull'origine del mondo e la sua confusione e incertezza, restituendone, in una babele di lingue e razze, la verità profonda senza perderne il senso di favola. "La corda tesa è l'immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro", dichiarava, aggiungendo "non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie". Per lui l'importante è sempre stata l'impressione, far scattare la fantasia, che più è libera, più è essenziale e forte il punto di partenza. Francesca Galici
Da tgcom24.mediaset.it il 3 luglio 2022.
E' morto all'età di 97 anni Peter Brook, il maestro del teatro contemporaneo. Solo un anno fa era stato rappresentato nel nostro Paese un suo lavoro: a Solomeo, in Umbria, era infatti stata proposta la sua opera tratta dalla "Tempesta" di Shakespeare". Oltre che direttore di vari teatri, dalla London's Royal Opera House alla Royal Shakespeare Company, il genio britannico è stato anche attore teatrale e ha diretto diversi film.
Lo spirito del teatro secondo Brook - "Lo spirito, questa materia immateriale impossibile da giustificare e da mostrare, è l'unica giustificazione per l'evento teatrale". Così parlava Brook, una delle più grandi figure della scena teatrale interazionale, nato il 21 marzo 1925. Tra le pietre miliari della sua vita il "Marat-Sade" di Weiss rappresentato a metà anni Sessanta e il colossale "Mahabarata", spettacolo realizzato per Avignone nel 1985, divenuto poi anche film e recentemente graphic novel.
"Io non sono un maestro" - "La corda tesa è l'immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro - dichiarava -. Non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie". Per lui l'importante è sempre stata l'impressione, era far scattare la fantasia, che più è libera più è essenziale e forte il suo punto di partenza.
Brook si è sempre impegnato per riuscire a far scomparire in scena ogni artificio, per far sì che il diaframma tra la vita e l'arte venisse superato, praticamente annullando il concetto di finzione davanti alla rivelazione di una verità esistenziale profonda. Così con lui il teatro diventava esperienza intima collettiva di vita, perché "quando un gruppo di persone è riunito per un evento molto intenso, che deve esprimere tutto ciò che in poesia un grande autore può dare, lo spirito diventa tangibile come è tangibile che quest'impressione non si può avere in solitudine e il suo senso per tutti è che la vita può essere vissuta".
Enfant prodige: prima regia a 18 anni - Il teatro è entrato nella vita di Brook fin da ragazzo: il maestro firmò infatti la sua prima regia a 18 anni e quindi si fece notare come interprete delle opere di Shakespeare, tanto da diventare, prima, direttore del London's Royal Opera House, e, nel 1962, della Royal Shakespeare Company, dove affiancò ai classici una serie di opere moderne e lavori sperimentali ispirati in particolare al "teatro della crudeltà" di Artaud, come un celeberrimo "Marat-Sade" di Peter Weiss e "Us", lavoro che faceva riferimento alla violenza della guerra in Vietnam e si concludeva "scandalosamente" con un segno forte, bruciando viva una farfalla.
L'esperienza in Francia - Nel 1970 si trasferì in Francia dove fondò, a Parigi, il Centre international de creation theatrale: sotto l'influenza di Grotowski e del Living Theatre di J. Besk sono state sperimentate le possibili applicazioni teatrali di un linguaggio non significante, improvvisato e massimamente gestualizzato.
I viaggi e il "Mahabarata" - Viaggiò a lungo in Africa, improvvisando spettacoli nei posti più sperduti. Poi tornò a Parigi dove aprì Les Bouffes du Nord e cominciò a pensare e lavorare, anche con un lungo soggiorno in India, al "Mahabarata", che diventa uno spettacolo poetico e rigoroso di nove ore, allestito in una cava di pietra, poema indù di 70mila versi sull'origine del mondo e la sua confusione e incertezza, restituendone, in una babele di lingue e razze, la verità profonda senza perderne il senso di favola.
Il giro del mondo dell'innovatore - Da allora Brook non smise più di girare il mondo con i suoi spettacoli, da quelli ironici, giocosi e malinconici legati al suo mal d'Africa come "Sizwe Banzi est mort" di Fougard o "The suit", riduzione scenica di un romanzo del sudafricano Chan Themba, a un'invenzione sorprendente come la sua "Carmen", realizzata nel 1986 su una base di terra, trasformando i teatri in arene, con gli spettatori solo sulle balconate o in palcoscenico, cercando lo spirito autentico del personaggio di Mérimé e riducendo l'opera di Bizet quasi a un lavoro da camera, con 15 strumentisti.
Del resto il suo "Flauto magico" mozartiano, vagheggiato per anni e arrivato quasi come un testamento nel 2011 al Piccolo di Milano, si avvaleva di un solo pianoforte, fiaba simbolica, lieve e profonda, che resta ormai un po' come la summa esemplare delle teorie e del teatro di Brook, del suo "spazio scenico vuoto" in cui l'intuizione porta a distillare il senso dell'opera attraverso il corpo e la voce degli attori di tutte le culture. Un lavoro portato avanti fino all'ultimo come la sua sesta volta appena nel novembre 2021 a Solomeo, in Umbria, con la "Tempesta" rivista alla sua maniera, con una regia invisibile e assieme accuratissima nei particolari, in coppia con Marie-Hélène Estienne.
Peter Brook: Giovanna Mezzogiorno, un maestro, grande dolore (ANSA il 3 luglio 2022) – "Non ci sono parole per descrivere il dolore, lo sgomento e il senso di abbandono, di perdita immensa , non solo per noi che siamo stati i suoi attori ma per l'intera umanità. È stato il mio maestro, il mio secondo padre , gli devo tutto''. Lo dice Giovanna Mezzogiorno nel giorno della morte di Peter Brook. ''Spero che il suo viaggio sia felice. La sua vita è stata esemplare e quello che ha regalato a milioni di persone rimarrà punto di riferimento, esempio di rigore e genialità senza pari."
Addio Peter Brook, il teatro perde uno dei suoi grandi maestri. Il Quotidiano del Sud il 3 Luglio 2022.
“Lo spirito, questa materia immateriale impossibile da giustificare e da mostrare, è l’unica giustificazione per l’evento teatrale”, ha sempre affermato Peter Brook, una delle più grandi figure della scena teatrale internazionale, e oggi scompare a Parigi a 97 anni (era nato il 21 marzo 1925), con tutta la ricchezza del suo lavoro, la più mitica.
Basterebbe ricordare il suo “Marat-Sade” di Weiss a metà anni ’60 e poi il colossale “Mahabarata”, spettacolo per Avignone del 1985 poi divenuto anche film e recentemente graphic novel. “La corda tesa è l’immagine che meglio rappresenta la mia idea di teatro”, dichiarava, aggiungendo “non voglio insegnare nulla, non sono un maestro, non ho teorie”. Per lui l’importante è sempre stata l’impressione, far scattare la fantasia, che più è libera, più è essenziale e forte il punto di partenza.
Brook si è sempre impegnato per riuscire a far scomparire in scena ogni artificio, per far sì che il diaframma tra la vita e l’arte venisse superato, praticamente annullando il concetto di finzione davanti alla rivelazione di una verità esistenziale profonda. Così con lui il teatro diventava esperienza intima collettiva di vita, perchè “quando un gruppo di persone è riunito per un evento molto intenso, che deve esprimere tutto ciò che in poesia un grande autore può dare, lo spirito diventa tangibile come è tangibile che quest’impressione non si può avere in solitudine e il suo senso per tutti è che la vita può essere vissuta”.
Il teatro è stato nella vita di Brook sin da quand’era ragazzo, se firma la sua prima regia a 18 anni e quindi si fa notare come interprete delle opere di Shakespeare, tanto da diventare, prima, direttore del London’s Royal Opera House e, nel 1962, della Royal Shakespeare Company, dove affianca ai classici una serie di opere moderne e lavori sperimentali ispirate in particolare al “teatro della crudeltà” di Artaud, come un celeberrimo “Marat-Sade” di Peter Weiss e “Us” lavoro che faceva riferimento alla violenza della guerra in Vietnam.
Quando Peter Brook venne invitato a venire a Cosenza. ALESSANDRO CHIAPPETTA su Il Quotidiano del Sud il 3 Luglio 2022.
Alla fine Peter Brook a Cosenza non venne, ma un tentativo fu fatto, eccome se fu fatto. Il grande regista inglese, scomparso oggi all’età di 97 anni (LEGGI), fu contattato da Palazzo dei Bruzi nel tentativo di organizzare un viaggio a Cosenza per, magari, tenere una masterclass o un incontro con gli studenti.
Correva l’anno 2017. Il giorno della presentazione del cartellone di prosa del teatro Rendano si scoprì che erano in programma due spettacoli di due grandi autori contemporanei, Daniel Pennac (“Un amore esemplare”) e, appunto, Peter Brook. Fu Eva Catizone, in qualità di consulente per la cultura del sindaco Occhiuto, ad attivare le sue doti diplomatiche per portare in città entrambi. Ci riuscì solo con Pennac. Per Brook, già gravato dagli anni, l’operazione alla fine non fu possibile. L’operazione, si disse all’epoca, “è difficile” ma pure che “c’è qualche possibilità”, evidentemente poi sfumata.
Ai cosentini, che già pregustavano una passeggiata del Maestro tra le statue del Mab oppure una sua lezione dal palco del Rendano, rimase solo la possibilità di ammirare il suo “Battlefield”, in scena il 6 febbraio del 2018.
“Battlefield”, basato sul “Mahabharata”, arrivò a Cosenza nella versione riadattata da Brook insieme a Marie Hélène Estienne, per una produzione targata C.I.C.T./Théatre des Bouffes du Nord. Fu uno dei suoi spettacoli più riusciti e che conobbe, sia in teatro che al cinema, diversi riadattamenti. In scena, quattro attori: Karen Aldridge, Edwin Lee Gibson, Jared Mc Neill, Larry Yando, accompagnati dal tamburo giapponese di Toshi Tsuchitori.
· E' morta la cantante Irene Fargo.
E' morta Irene Fargo, la cantante bresciana aveva 59 anni. Nel 1991 e 1992 si classificò al secondo posto al Festival di Sanremo nella categoria "nuove proposte". E' stata anche attrice teatrale. Irene Fargo su Il Giorno l'1 luglio 2022 - E' morta Irene Fargo, la cantante bresciana aveva 59 anni. Irene Fargo, nome d'arte di Flavia Pozzaglio, nella sua carriera è stata anche un'attrice teatrale. E' stata l'amica Giovanna Nocetti con un post su Facebook ad annunciare la scomparsa dell'artista: "Ciao Irene, voglio ricordarti così. Ci siamo volute bene sinceramente. Mi mancherai.. Riposa in pace".
Nata a Palazzolo sull'Oglio nel 1962, debutta sul palco del Festival di Castrocaro nel 1987 con il suo nome d'anagrafe e la canzone "Fretta di te". Dopo l'incontro con Enzo Miceli assume il nome d'arte di Irene Fargo che comincia a definire il personaggio che permetterà di farla conoscere a livello nazionale. Dopo un ritorno nel 1988 al Festival di Castrocaro e il 45 giri d'esordio Dialoghi/Meccanismi, nel 1990 il disco d'esordio preceduto dal singolo estivo Le Ragazze Al Mare.
Nel 1991 Irene partecipa al Festival di Sanremo e si classifica seconda nella categoria nuove proposte con il brano La donna di Ibsen, il cui testo è ispirato a un testo teatrale del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen intitolato La donna del mare. Il 45 giri, che fa da traino all'album inciso l'anno precedente e opportunamente ristampato con l'aggiunta di un altro inedito, Ti do una canzone, in duetto con Grazia Di Michele, conosce un successo inconsueto per un partecipante alle nuove proposte. Gli inviti in varie trasmissioni Rai e Fininvest consacrano Irene tra le rivelazioni dell'anno. A fine anno viene pubblicato il singolo Ugo...domani mi sposo, che ha un discreto riscontro commerciale e oggi è una rarità tra i collezionisti, essendo rimasto inedito su album, nella sua versione originale, mentre un remix è presente nel secondo 33 giri.
Nel 1992 è ancora a Sanremo tra le nuove proposte, ancora secondo posto, con il brano Come una Turandot. Questa volta l'omaggio è all'opera di Giacomo Puccini. Il secondo album, pubblicato alla fine della rassegna, si intitola La voce magica della luna, e otterrà un discreto riscontro commerciale. Nello stesso anno Irene ottiene un terzo posto al Cantagiro.
Irene Fargo: morta la cantante che fece rivivere la Turandot a Sanremo. Andrea Croxatto su Il Corriere della Sera il 2 Luglio 2022.
La cantante bresciana aveva 59 anni, l’annuncio della morte, il primo luglio 2022, in un post via Facebook scritto dall’amica Giovanna Nocetti.
È morta nella serata di venerdì 1 luglio Irene Fargo, l’annuncio in un post via Facebook scritto dall’amica Giovanna Nocetti, che dice: «Ciao Irene, voglio ricordarti così. Ci siamo volute bene sinceramente. Mi mancherai… Riposa in pace».
Sconosciuto al momento il motivo del decesso, appena è uscita la notizia subito numerosi artisti e numerosi amici bresciani hanno voluto porgere le più sentite condoglianze attraverso i social. Irene Fargo, nome d’arte di Flavia Pozzaglio, nasce il primo novembre 1962 a Palazzolo sull’Oglio. Fa il suo esordio artistico al festival di Castrocaro nel 1987 con il brano Fretta di te, poi incide il suo primo album intitolato semplicemente Irene Fargo, trainato dal singolo Le ragazze del mare. Si fa strada nel 1991 sul Palco di Sanremo Giovani con il brano La donna di Ibsen, raggiungendo la seconda posizione e gran successo di critica e pubblico, come pure con Ugo, domani mi sposo.
L’anno successivo l’artista bresciana arriva ancora seconda a Sanremo, sempre tra le Nuove Proposte, con Come una Turandot, seguito dall’album La voce magica della luna. Ma anni dopo rivelerà in una puntata di Chi l’ha visto di aver subito ripetuti atti di violenza da parte di suo marito, e che non lo aveva denunciato per amore della figlia. Ecco perché si era allontanata dal mondo dello spettacolo.
Nel 2009 torna con un album di classici napoletani O core e Napule e, nel 2012 con un disco di inediti intitolato Crescendo, apprezzato soprattutto all’estero (in Canada vende 75 mila copie). Anche gli ultimi album di Irene trovano ottime ispirazioni: Luce nel 2014 e Il cuore fa nel 2016. Irene Fargo oltre a pubblicare canzoni fa televisione, musical e teatro ma soprattutto non smette di esibirsi dal vivo in giro per l’Italia, anche se in alcuni periodi si allontana dal suo pubblico. Nonostante tutto Irene vanta ben 11 dischi, duetti con artiste come Grazia di Michele nel singolo Ti do una canzone e numerose collaborazioni. Amara e ingiusta è stata invece l’esclusione da Sanremo tra i Big nel 1993 con il brano Non sei così, poi inserito nel terzo album Labirinti del cuore. Irene ci ha lasciati così, dopo averci onorato della sua arte, in punta di piedi, senza clamori.
Morta Irene Fargo, sfiorò per due volte la vittoria a Sanremo. L'artista se n'è andata a 59 anni dopo una lunga malattia. Renato Zero: "Era un'anima buona e generosa". La Repubblica il 2 Luglio 2022.
E' morta a 59 anni a Chiari in provincia di Brescia, dopo lunga malattia, la cantante Irene Fargo, nome d'arte di Flavia Pozzaglio. Ad annunciare la scomparsa dell'artista è stata la cantante e produttrice discografica Giovanna Nocetti. "Ciao Irene, voglio ricordarti così. Ci siamo volute bene sinceramente. Mi mancherai.. Riposa in pace. Tua Giò".
Irene Fargo aveva esordito nel 1989 con la partecipazione al Festival di Castrocaro. Due anni dopo, nel 1991, il suo primo Sanremo al quale si classificò seconda tra le nuove proposte con La donna di Ibsen. Con il 45 giri uscì anche la ristampa dell'album dell'anno prima, in cui c'era un altro inedito, Ti do una canzone, in duetto con Grazia Di Michele, che ebbe un notevole successo. Nel 1992 è ancora a Sanremo tra le Nuove proposte, ancora secondo posto con il brano Come una Turandot. Nello stesso anno ottiene un terzo posto al Cantagiro. Tra il 1997 e il 1999 pubblica altri tre dischi ed è spesso ospite nei programmi Rai di Paolo Limiti.
Nel 2009 è tra le artiste che salgono sul palco di San Siro per il concerto Amiche per l'Abruzzo. Negli ultimi anni era apparsa spesso in programmi di Tv2000. E nel 2012 aveva pubblicato un nuovo album, Crescendo.
Nelle ultime settimane numerosi artisti avevano speso parole di incoraggiamento per la cantante. Renato Zero aveva scritto: "Abbiamo amici fortunati ed altri a cui la sorte ha riservato un percorso più difficile. Irene Fargo è un'anima buona e generosa. Un'artista sensibile e appassionata. Il mio pubblico sa da sempre, dove posare lo sguardo e a chi consegnare il proprio cuore. Sono certo che la nostra carezza ad Irene le sarà davvero gradita e le farà un gran bene!".
Irene Fargo. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Irene Fargo, nome d'arte di Flavia Pozzaglio (Palazzolo sull'Oglio, 1º novembre 1962 – Brescia, 1º luglio 2022), è stata una cantante e attrice teatrale italiana.
Biografia
Dopo aver fatto parte di un coro polifonico, gli esordi da solista la vedono presentare sul palco del Festival di Castrocaro nel 1987 con il suo nome d'anagrafe la canzone "Fretta di te". È con il successivo incontro con Enzo Miceli ad assumere il nome d'arte di 'Irene Fargo' che comincia a definire il personaggio che permetterà di farla conoscere a livello nazionale. Dopo un ritorno nel 1988 al Festival di Castrocaro e il 45 giri d'esordio Dialoghi/Meccanismi, nel 1990 il disco d'esordio preceduto dal singolo estivo Le Ragazze Al Mare.
Nel 1991 Irene partecipa al Festival di Sanremo e si classifica seconda nella categoria nuove proposte con il brano La donna di Ibsen, il cui testo è ispirato ad un testo teatrale del drammaturgo norvegese Henrik Ibsen intitolato La donna del mare. Il 45 giri, che fa da traino all'album inciso l'anno precedente e opportunamente ristampato con l'aggiunta di un altro inedito, Ti do una canzone, in duetto con Grazia Di Michele, conosce un successo inconsueto per un partecipante alle nuove proposte che non avesse vinto, sfiorando l'ingresso nella Top Ten.
Gli inviti in varie trasmissioni Rai e Fininvest consacrano Irene tra le rivelazioni dell'anno. A fine anno viene pubblicato il singolo Ugo...domani mi sposo, che ha un discreto riscontro commerciale e oggi è una rarità tra i collezionisti, essendo rimasto inedito su album, nella sua versione originale, mentre un remix è presente nel secondo 33 giri.
Nel 1992 è ancora a Sanremo tra le nuove proposte, ancora secondo posto, con il brano Come una Turandot. Questa volta l'omaggio è all'opera di Giacomo Puccini.
Il secondo album, pubblicato alla fine della rassegna, si intitola La voce magica della luna, e otterrà un discreto riscontro commerciale. Nello stesso anno Irene ottiene un terzo posto al Cantagiro.
Nel 1993 viene eliminata all'ultima selezione dall'elenco dei Big del Festival di Sanremo, alla cui gara si era candidata con il brano Non sei così, poi inserito nel terzo album Labirinti del cuore, pubblicato alla fine di quell'anno. Con questo disco Irene dà un nuovo corso alla propria carriera: abbandonati il suo primo produttore Enzo Miceli (autore con Gaetano Lorefice di quasi tutte le canzoni fino ad allora incise), si trasforma in interprete pura, e canta brani di Mariella Nava, Roby Facchinetti, Kaballà, Daniele Fossati. Il brano Ma quando sarà viene presentato dal vivo durante la prima edizione della manifestazione Festival Italiano in onda su Canale 5. Dopo un'esperienza televisiva nel cast di Domenica in..., Irene si avvicina alla canzone napoletana pubblicando un disco dal titolo 'O core e Napule. Partecipa ad alcune manifestazioni canore quali Viva Napoli e Ma l'amore sì! che vince con la canzone Io che non vivo (senza te) di Pino Donaggio.
Tra il 1997 e il 1999 Irene pubblica altri tre dischi, venendo invitata spesso come ospite nei programmi di Paolo Limiti. Dal 2002 affianca l'attività di attrice teatrale di Musical. È del 2005 l'ultimo CD di Irene, una serie di cover dal titolo Insieme contenente alcuni inediti, tra i quali il tema portante del film Nel mio amore, che ha visto l'esordio alla regia della scrittrice Susanna Tamaro.
Irene ricopre il ruolo di protagonista in alcuni musical: Il ritratto di Dorian Gray (Maryanne), I promessi sposi (la monaca di Monza e la madre di Cecilia), Masaniello (la viceregina di Napoli) per la regia di Tato Russo, e Cleopatra (Carmian) per la regia di Claudio Insegno. Nel 2008 Irene partecipa alla serata di beneficenza per la Croce Rossa Italiana "Festa del mare e delle stelle" organizzato da Lucio Dalla & Nando Garozzo insieme ad altri artisti quali Patti Smith, Sting, Mario Venuti, Samuele Bersani, Farida, Babilon Suite, Ron e Max Gazzè. Nel 2009 Irene Fargo e Lucio Dalla organizzano un concerto per l'AIDO (Associazione Italiana per la Donazioni Organi) a Marina di Riposto. Il 21 giugno 2009 Irene Fargo partecipa, al concerto Amiche per l'Abruzzo presso lo Stadio San Siro in favore dei terremotati. Nel 2011 si esibisce in concerto per tre serate al Grande Teatro Bolshoi di Mosca. Nel 2012 partecipa alla VI edizione del festival delle Isole Tremiti "Il mare e le stelle" con Lucio Dalla, Renato Zero e Gigi D'Alessio. Nel 2012 è nel cast fisso della trasmissione Estate Con Noi condotta da Paolo Limiti su Rai 1.
Il 7 dicembre 2012 Irene torna in radio con il singolo Acrobati tratto dal nuovo album Crescendo, dopo aver riscosso grande successo all'estero (in Canada nelle prime settimane sono state vendute oltre 75 000 copie dell'album proposto eccezionalmente in supporto vinilico). Il brano, composto da Konrad Pulè e Alessandro Hellmann, è il terzo di un album nato dalla collaborazione con grandi autori. Non manca nell'album anche un omaggio al grande amico scomparso Lucio Dalla, attraverso una commovente interpretazione in spagnolo del brano Caruso.
Il 15 dicembre 2012 le viene conferito il premio "One Media Awards" per i 25 anni di carriera durante la serata di Gala organizzata dalla One Production Radio/TV in collaborazione con Kiss Radio Malta, evento svoltosi al Teatro MCC La Valletta.
Il 26 marzo 2013 prima della partita di calcio Malta-Italia valida per le qualificazioni ai mondiali di Calcio del 2014 canta l'inno di Mameli. Il primo giugno del 2013 esce il nuovo singolo Nata Libera interamente composto da Claudio Maifrini e prodotto dalla Pressing Music ltd direzione Artistica Sally McCartney e di Fredd Morisett, e distribuita in Canada in collaborazione con la Sony Music canadese. Il 10 aprile 2014 Irene Fargo torna in radio con un singolo scritto da Niccolò Agliardi dal titolo Le Cose Di Ieri prodotto dalla Pressing Music. Il 20 dicembre 2014 esce il nuovo Album intitolato Luce prodotto dalla casa Discografica Pressing Music. Il 28 marzo 2015 partecipa come special guest al concerto di beneficenza per la fondazione Pupi di Javier Zanetti - Malta.
Muore a Brescia il 1° luglio 2022 all'età di 59 anni. Ad annunciarne la scomparsa l'amica Giovanna Nocetti con un post su Facebook.
· E’ morto l’attore Joe Turkel.
Marco Giusti per Dagospia il 2 luglio 2022.
Anche i baristi fantasma scompaiono per sempre. Se ne va a 94 anni il mitico Joe Turkel, celebre come Lloyd, il barista fantasma di “Shining” di Stanley Kubrick (“Il vostro denaro non serve qui”), ma altrettanto noto al grande pubblico per il ruolo del Dottor Eldon Tyrell, l’uomo che ha costruito i replicanti in “Blade Runner” di Ridley Scott (“Più umani degli umani è il nostro motto”).
Due film epocali che, negli anni ’80, a carriera quasi finita, con all’attivo più di cento tra film e tv movie di ogni tipo, resero celebre un oscuro caratterista come Joseph Turkel detto Joe. Al punto che non puoi vedere o pensare un altro attore con un’altra faccia o un’altra voce, che il magro, sulfureo, con orecchie e occhi a punta nell’atto di servire il Jack Torrance di Jack Nicholson nell’Overlook Hotel di “Shining”.
Turkel era uno dei caratteristi più amati da Kubrick, che lo aveva scoperto per il ruolo di Tiny in “Rapina a mano armata” nel 1956 e lo aveva richiamato per il successivo “Orizzonti di gloria”, grande pamphlet pacifista contro tutte le guerre. Turkel dirà sempre, da bravo liberal sulle barricate fino a “Occupy Wall Street”, che proprio questo era sempre stato il suo film preferito di quelli girati con Kubrick.
Figlio di immigrati ebrei polacchi, nato a Brooklyn nel 1927, Turkel inizia il cinema subito dopo esser partito per la guerra, spostandosi da New York a Los Angeles alla fine degli anni ’40, ventenne. Gira davvero di tutto, sempre in piccoli ruoli, i primi titoli sono “Malerba”, “Spada del deserto”, “Cocaina”, “Cella 2455 braccio della morte”, fino all’incontro con Stanley Kubrick nel 1956 con “Rapina a mano armata”.
Gira anche western, “Ultima notte a Warlock”, ma si specializza nel film di gangster urbano e nel carcerario. Fa tanta tv e tante serie, ben tre film del king of B’s Bert I. Gordon, anche se lo troviamo anche in film importanti come “Qualcuno da odiare” di Bryan Forbes con George Segal o il bellissimo “Quelli della San Pablo” di Robert Wise con Steve McQueen. Roger Corman gli affida il ruolo di “Greasy Thumb” (Pollice oleoso) in “Il massacro del giorno di San Valentino”. Ma saranno solo i due grandi film a cavallo tra la fine degli anni ’70 e il primi ’80 a cambiargli la carriera, “Shining” e “Blade Runner”. Prima di morire ha scritto anche un libro di memorie, “The Misery of Success”, che dovrebbe uscire a fine anno.
È morto Joe Turkel, l’inquietante barista Lloyd di «Shining». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 2 Luglio 2022.
L’attore era apparso anche in altri due film di Kubrick: come pistolero nella sparatoria culminante di «Rapina a mano armata» e in «Orizzonti di gloria».
L’attore statunitense Joe Turkel, interprete dell’inquietante barista Lloyd di «Shining» di Stanley Kubrick e del creatore dei replicanti Eldon Tyrell di «Blade Runner» di Ridley Scott, è morto al Providence St. John’s Health Center di Santa Monica, in California, all’età di 94 anni. Turkel è deceduto lunedì scorso, come ha annunciato la sua famiglia a «The Hollywood Reporter». L’attore è apparso anche in altri due film di Kubrick: come pistolero nella sparatoria culminante di «Rapina a mano armata» (1956) e come soldato mandato al plotone d’esecuzione in «Orizzonti di gloria» (1957)- Diretto da Bert I. Gordon, Turkel ha recitato nei ruoli di Abu il Genio e di un gangster, rispettivamente nei film del 1960 «Il ragazzo e i pirati» e «Delitto al faro». Ha anche interpretato un prigioniero di guerra in «Quelli della San Pablo» (1966) di Robert Wise ed è stato il dispensatore di tangenti «Greasy Thumb» Guzik in” Il massacro del giorno di San Valentino” (1967) di Roger Corman.
La fama
Grazie a «Shining», Ridley Scott gli affidò il ruolo del dottor Eldon Tyrell in «Blade Runner» (1982). Tyrell, che vive in una gigantesca piramide, dirige una società che crea replicanti con una vita di quattro anni - «più umani dell’uomo», recita lo slogan della sua azienda. Alla fine del film, mentre è avvolto in una pesante vestaglia bianca e indossa grandi occhiali, Tyrell riceve la visita del suo replicante più prezioso e avanzato, Roy Batty (Rutger Hauer), che chiede una proroga della sua vita che sta per scadere. Tyrell gli dice che «la luce che brucia due volte più luminosa brucia la metà più a lungo, e tu hai bruciato in modo molto, molto luminoso, Roy». In uno dei momenti più sorprendenti del film, Batty, rendendosi conto che il suo creatore non può esaudire il suo desiderio, bacia Tyrell sulle labbra prima di schiacciargli la testa e gli occhi a mani nude. Nato il 15 luglio 1927 a New York, Turkel ha iniziato la sua carriera cinematografica alla fine degli anni Quaranta, apparendo in film noir come «Malerba» (1949), «Il muro di vetro» (1953), «Duffy of San Quentin» (1954), «Giungla umana» (1954) e «Brooklyn chiama polizia» (1955); in film di guerra come «Okinawa» e «I figli della gloria», entrambi del 1951. Ha interpretato il cugino Chuck Darrow in «Femmina e mitra» (1958), lo sceriffo in «La valle dei giganti» (1965) e un detective in «Hindenburg» (1975) di Wise. In televisione è apparso in numerose serie, come «Boston Blackie», «Public Defender», «The Lone Ranger», «The Lineup», «Bonanza», «Fantasilandia», «Miami Vice», «Il tenente Kojack». La sua ultima apparizione cinematografica risale al 1990 in «666 il triangolo maledetto» e ha ripreso il ruolo di Tyrell, solo con la voce, per un videogioco di «Blade Runner» del 1997.
· E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.
Marco Giusti per Dagospia il 2 luglio 2022.
Se ne va un altro dei piccoli maestri del nostro cinema di genere, Maurizio Pradeaux, romano, 91 anni, autore di film stracult come il western “Ramon il messicano” con Robert Hundar, lo spy “28 minuti per 3 milioni di dollari” con Richard Harrison, il macaroni war movie “I leopardi di Churchill” con Klaus Kinski e Richard Harrison, i thriller “Passi di danza su una lama di rasoio” e “Passi di morte perduti nel buio”, prodotti dal mitico Nonno Ugo Rossetti dell’omonimo mobilificio.
Girò perfino un film di cani, “I figli di Zanna Bianca” e il thriller hard “Thrilling Love” nel 1989. Come molti cinematografari inizia dal basso. Lo troviamo aiuto segretario di produzione su “Canzone d’amore”, assistente di produzione su “La Pica sul Pacifico” del 1959, ma anche su capolavori del tempo prodotti e diretto da Emimmo Salvi come “Vulcano, figlio di Giove”, o “Il ribelle di Castelmonte”, “Una storia di notte” di Luigi Petrini.
Il suo vero esordio da regista di genere è il western “Ramon il messicano” con Robert Hundar alias Claudio Undari, una delle prime star del genere. E’ un film poverissimo col Messico ricostruito tutto vicino a Roma.
Raccontava lo stesso Maurizio Pradeaux (a Gabriel Di Nunzio per TV Trash blog): “Io avevo finito di fare un film che si chiamava "I 4 cantoni" (i 4 cantoni di Via Veneto, a Roma, tra Via Ludovisi e Via Boncompagni), e il produttore, che era di Bologna, Marino Carpano, aveva scritturato un grande cast.
C'era Leroy, Scilla Gaber… ma il produttore perse tutti i soldi, e gli dissi che se voleva fare un film commerciale, doveva fare un western. E avevo pronto il soggetto, e gli ho detto, al produttore: ti faccio anche la regia! Avevamo preventivato 100 milioni di lire di costo”.
Secondo Oberdan Trojani, direttore della fotografia “Maurizio Pradeaux era uno che faceva l’autista con Emimmo Salvi, un direttore di produzione, quando facevamo i film mitologici. Salvi ha scritto questo soggetto [che però figura come di Pradeaux, ndr] e ha trovato un finanziatore di Bologna.
E poi volle fare sempre con Pradeaux Ventotto minuti per tre milioni di dollari, un film del tipo 007, e ci rimise, perché non era un film che si poteva fare in economia. L’unico modo di fare i film western in economia era quello di seguire sempre la corrente, di non cercare mai di metterci qualcosa di nuovo”.
Pradeaux racconta così la lavorazione: "gli interni alla De Paolis, gli esterni a Colle Pardo, vicino ad Alatri - Frosinone - e a Manziana, nel bosco di Manziana (vicino Bracciano) le scene con i cavalli, e a Monte Gelato vicino Mazzano, al fiume Treia, con cascate cascatelle; scelsi la location andando a pesca, c'era un sentiero di quelli per il pascolo delle capre, camminando dentro mi sono trovato di fronte a uno spettacolo della natura, ma fui il primo ad inaugurare quella location; moltissimi altri andarono a girare alle cascate del Treia e ancora oggi molte scene sono girate lì".
Il film andò pure benino. Qualche anno dopo scriverà per Roberto Bianchi Montero un altro western di coproduzione italo-spagnola, “I senza Dio” con Antonio Sabato. Funziona bene il bellico “I Leopardi di Churchill” con Klaus Kinski e Richard Harrison e ancor meglio il suo primo thriller, sempre di coproduzione italo-spagnola, “Passi di danza su una lama di rasoio”, uscito nel 1973 con Robert Hoffman Susan Scott alias Nieves Navarro, Anuska Borova, Simon Andreu, girato nella Barcellona dei fratelli Balcazar, anche coproduttori assieme a George Martin, che ha un piccolo ruolo.
Al punto che ne girerà subito dopo un altro dal titolo analogo, “Passi di morte perduti nel buio”, 1976, con Robert Webber, Leonard Mann, Vera Krouska, Barbara Seidel, questo prodotto da Ugo Rossetti, meglio noto come Nonno Ugo per la Salaria Film.
Fu infatti nei capannoni di Nonno Ugo sulla Salaria che trovai una marea di cassette del film, che doveva essere per Nonno Ugo uno sforzo non indifferente. Ultimo film, uscito nel 1989, dovrebbe essere il thriller erotico “Thrilling love – Tradimenti a Capri” con Tony Kendall alias Luciano Stella e la porno star Sharon Kane. Uscito in versione soft e hard. C’è anche una delle ragazze del Cacao Meravigliao, Thel Montenegro, particolarmente in azione. Negli ultimi anni, Pradeaux ha scritto romanzi senza più tornare al cinema.
· E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.
(ANSA il 2 luglio 2022) - E' morto nella notte Aldo Balocco, presidente onorario dell'omonima azienda dolciaria di Fossano (Cuneo). Aveva 91 anni, la maggior parte dei quali dedicati all'azienda che con ha contribuito a far diventare il colosso che oggi tutti conoscono.
Morto Aldo Balocco, presidente onorario del colosso dolciario di Fossano. Floriana Rullo su Il Corriere della Sera il 2 Luglio 2022.
Sotto la sua guida fu inventato il Mandorlato, dolce-simbolo della Balocco, e sua fu l'idea del primo spot pubblicitario, in onda durante Carosello, che coinvolse le gemelle Kessler
Addio ad Aldo Balocco, presidente onorario del colosso dolciario di Fossano, in provincia di Cuneo, che porta il suo nome. È morto a 91 anni, nella notte di venerdì primo luglio nella sua abitazione. Padre di Alberto e Alessandra, che oggi guidano l'azienda, il ragionier Balocco, così come lo chiamavano tutti in azienda ha avuto un ruolo fondamentale nel far diventare l’attività di famiglia un nome conosciuto in tutto il mondo. Una presenza costante, un punto di riferimento per i dipendenti anche nell’ultima parte della sua vita.
Nato nel 1930, diventa orfano di madre a una settimana di vita. Trascorre l’infanzia tra Genola, dove lo cresce la sorella della madre, e Fossano, sopra la pasticceria fondata nel 1927 dal padre, Francesco Antonio Balocco. Sfollato durante la guerra nelle Langhe, torna a Fossano nel 1949, dopo aver conseguito il diploma di ragioniere a Cuneo, dove cresce con il cugino Piero, artefice della rinascita del cioccolato Venchi. È sua l’idea, suggerita al padre, di insistere sulla pasticceria secca e di cominciare a produrre dolci da vendere all’ingrosso. Dal primo stabilimento, distribuito su quattro piani, con appena 30 addetti, parte la rivoluzione dei Balocco.
Le latte piene di dolci, le «tole» in piemontese, destinate ai grossisti di tutta Italia, sono l’immagine più eloquente del cambiamento che sta avvenendo. Sono gli anni del boom economico, e nella fabbrica di via San Bernardo, l’embrione della futura Balocco, vengono installati i primi forni a carrello estraibile per panettoni. Per spingere i panettoni oltre i confini di Fossano e della provincia, occorreva superare l’ostacolo della loro conservazione. Nel 1955 Aldo Balocco decide di assumere un giovane lombardo, sfollato a Cuneo negli anni bui della guerra, che aveva lavorato a Milano alla Motta e all’Alemagna, all’epoca due colossi dell’industria dolciaria. Ermanno Crespi, originario di Abbiategrasso, introduce a Fossano la tecnologia della «lievitazione naturale».
I due immaginano e progettano un panettone del tutto nuovo: alto come quello milanese, ma glassato come quello basso piemontese. In più ricoperto di mandorle tostate e granella di zucchero. Un mix di Lombardia e Piemonte che sedurrà i palati di tutta Italia. Aldo ne azzecca subito anche il nome: nasce il Mandorlato Balocco, un panettone che diventerà ambasciatore in tutto il mondo dell’azienda di Fossano. E sempre di Aldo Balocco fu l'idea del primo spot pubblicitario, che andò in onda durante Carosello e coinvolse le gemelle Kessler.
Insignito del titolo di Cavaliere del lavoro, Aldo era vedovo dal 2015, quando morì la moglie Anna Ferrero. Il funerale sarà celebrato alle 10 di lunedì 4 luglio, nel Duomo di Fossano; il rosario sarà recitato, sempre in Duomo, alle 19 di domenica 3 luglio.
Scomparso Aldo Balocco: l'addio a un grande esempio del made in Italy. Federico Garau il 2 Luglio 2022 su Il Giornale.
Morto nella notte il presidente onorario dell'omonima azienda dolciaria, conosciuta in gran parte del mondo. Dall'intuizione di produrre pasticceria secca all'invenzione del famoso Mandorlato Balocco.
Ci ha lasciati nella notte all'età di 91 anni Aldo Balocco, presidente onorario dell'omonima azienda dolciaria di Fossano (Cuneo). A darne notizia in una nota ufficiale è proprio il gruppo Balocco, che nel suo annuncio ricorda come sia stato proprio il loro presidente a rendere la società una delle realtà industriali più conosciute, moderne e solide d'Italia.
La vita
Inventore del famoso Mandorlato Balocco a "lievitazione naturale", Aldo Balocco è nato a Fossano (Cuneo) nel 1930. La sua infanzia passa fra Genola, dove viene cresciuto dalla sorella della madre, e Fossano, dove si trova la pasticceria del padre, Francesco Antonio Balocco. Poi arriva la guerra, e anche il giovane Aldo è costretto a sfollare per poi tornare a Fossano nel '49.
Termina quindi gli studi superiori insieme al cugino Piero, al quale si deve la rinascita del cioccolato Venchi. Aldo però ha un'altra idea, quella di preparare dolci secchi che possano essere venduti all'ingrosso, come i famosi biscotti della compagnia. Comincia con uno stabilimento di quattro piani con solo 30 impiegati, e da lì inizia il grande lavoro, con le latte ricche di dolci da destinare ai grossisti di tutto lo Stivale.
Tutto, quindi, comincia dalla fabbrica di Via San Bernardo, dove si cominciano a preparare anche i primi panettoni. Nel 1955, Aldo Balocco assume un giovane lombardo, Ermanno Crespi, che aveva precedentemente lavorato per la Motta e l'Alemagna. È di Crespi l'introduzione della lievitazione naturale, che convincerà Balocco a realizzare il primo panettone con questa nuova tecnica. Nasce dunque il Mandorlato a lievitazione naturale, arricchito con mandorle tostate e granella di zucchero. Una perfetta comunione tra Piemonte e Lombardia che conquisterà gli italiani.
L'azienda oggi
Aldo Balocco ha reso grande l'omonima azienda dolciaria, che oggi dispone di oltre 75.000 mq coperti, con dieci impianti di produzione per biscotti da prima colazione, lievitati da ricorrenza e wafer.
Tanti gli investimenti sostenuti dalla società, ben oltre 100 milioni di euro negli ultimi 10 anni. Per l'Italia rappresenta un vero e proprio fiore all'occhiello del Made in Italy. È una società efficiente, solida, nota in tutto il mondo (ben 70 paesi importatori), con un giro d'affari di circa 200 milioni di euro.
"Lo sviluppo industriale di quello che oggi è uno fra i più famosi marchi del made in Italy dolciario si deve a un imprenditore che sarà ricordato da tutti per le sue doti di onestà, umanità, altruismo e straordinario senso del dovere", riconosce il gruppo aziendale nella nota.
Tony Damascelli per “il Giornale” il 3 luglio 2022.
Narzole è un spicchio della provincia «granda» la terra che sta attorno a Cuneo. Fu occupata dai francesi, a metà dell'Ottocento ma anche da bande criminali che esigevano la tangente dai cittadini e di commercianti.
A Narzole c'era una confetteria e drogheria, secondo tradizione piemontese, di proprietà di Francesco Antonio Balocco sposato con Doimenica Dogliani. Vendeva liquori esteri e nazionali e offriva servizi per soirée e battesimi. Il documento, che appare sul sito dell'azienda Balocco, riporta l'ordine di ottanta dozzine di uova al signor Guglielmo Leone, un altro, intestato alla Intendenza di Finanza della Provincia di Cuneo, porta la data dell'agosto del 1863 e ordina a Balocco di provvedersi di carta bollata per cambiali.
Suo figlio, ottavo della famiglia, porta uguale nome di battesimo, nasce nel 1903 e cresce tra dolci, caramelle, confetti e spezie, da garzone va da Giuseppe Converso, in via Vittorio Emanuele a Bra, la pasticceria più famosa del tempo, ancora oggi punto di riferimento per i braidesi e non soltanto.
Balocco passa giorni anche alla cioccolateria Alessandro Giordano di Torino, la pratica si completa da Edmondo De Coster, fabbrica di confetti in via Cigna sempre a Torino. La cultura dolciaria sabauda è la migliore scuola e all'età di vent' anni Francesco Antonio, insieme con il fratello Alfredo, apre il suo negozio a Fossano, in via Marconi. Quando il fratello scelse la Liguria e Ventimiglia per una nuova attività, Francesco Antonio rilevò la proprietà di una pasticceria in piazza Castello sempre a Fossano. Sua moglie, Lucia Cussin, diede la vita ad Aldo ma morì per le conseguenze del parto.
La tragedia sconvolse la famiglia ma tre anni dopo Francesco Antonio volle aprire un altro negozio di dolciumi, in via Roma. Ormai l'attività era benissimo avviata, il cognome era garanzia di qualità e freschezza. La guerra portò il buio nel cuneese, i Balocco furono tra gli sfollati, squadracce fasciste, secondo la cronaca, distrussero i negozi, la famiglia trovò rifugio nelle Langhe ma le bombe e le morti non cambiarono il destino dell'azienda.
Padre e figlio tornarono a Fossano, stessi siti, stessi negozi ricostruiti dalle macerie, la liberazione, la pace, il ritorno alla vita significarono la crescita vertiginosa dei Balocco, trenta operai, un capannone di cinquemila metri quadrati, una produzione di paste secche da vendere all'ingrosso.
Vennero gli anni Cinquanta e poi il boom, venne la televisione, la pubblicità Carosello, le gambe delle gemelle Kessler che spuntavano dal panettone, quindi il mandorlato, idea suggerita da Ermanno Crespi, reduce dalle esperienze in Motta e Alemagna, un dolce con mandorle, ricoperto da glassa e granella di zucchero, un'idea, un business.
Circolavano per le strade del Piemonte le vetture Fiat con il nome dell'azienda dolciaria, furgoni carichi di biscotti, wafers, panettoni. Aldo ha la stessa energia del padre, la fabbrica dei sogni sta in un fabbricato di 32mila metri quadrati, il giro di affari va sui 14 milioni di lire, gli impiegati sono 135, cresce ancora a 44mila metri quadrati e a 200 milioni di fatturato. Balocco ha firmato la maglia rosa del Giro, quella della Juventus, il titolo di cavaliere è un riconoscimento semplice e dovuto. Cosimo Cinieri e Aldo Stella hanno interpretato nelle campagne pubblicitarie «il signor Balocco».
Francesco Antonio, nel 1994, lascia a novantuno anni, gli stessi raggiunti dal figlio Aldo che ieri se ne è andato nel silenzio discreto della gente piemontese.
La storia di una famiglia solida, vissuta nel lavoro, una fetta d'Italia che ha scritto la storia dell'impresa del nostro Paese. Sembra che tutti gli uomini di azienda di quel tempo abbiano la stessa faccia, la stessa espressione del volto, il sorriso appena accennato e mai sguaiato, il senso della vita e dell'opera, il rispetto verso i lavoratori corrisposto nei fatti e nei comportamenti. A Fossano la storia prosegue con Alessandra e Alberto «Bebe». La vita dei Balocco, dopo un secolo e mezzo, continua a essere dolce.
Isidoro Trovato per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2022.
Fate i buoni è uno degli ultimi claim pubblicitari della Balocco. Ma era anche una frase che piaceva molto ad Aldo Balocco, 91 anni, presidente onorario dell'omonima azienda, scomparso la notte tra venerdì e sabato.
Proprio la forza della comunicazione pubblicitaria è stata una delle rivoluzioni introdotte dal «ragionier Balocco» nella storica azienda dolciaria da lui portata ad essere una delle realtà industriali più note e solide del Paese. La storia inizia a Fossano, in provincia di Cuneo, nel 1930: la mamma muore durante il parte e Aldo viene allevato prima dalle zie e poi dalle commesse delle pasticcerie paterne.
Intanto però arriva la guerra che distrugge entrambe le pasticcerie di famiglia. Nel 1943 Aldo e il padre sono costretti a scappare a Dogliani, nelle Langhe, rifugiandosi in una cascina accanto ai poderi di Luigi Einaudi. Aldo studia a Cuneo dove lo accoglie lo zio Piero Cussino, fratello minore della mamma, che è anche l'artefice della straordinaria rinascita del cioccolato Venchi.
Terminati gli studi, Aldo Balocco ritorna al paese dove il padre ha rimesso in piedi le due pasticcerie. Finita la guerra, però, è tempo di pensare in grande e nasce il primo stabilimento con 30 addetti e vengono installati i primi forni per la produzione di panettoni. Aldo non ha ancora vent' anni, ma sin da piccolo è vissuto in mezzo ai pasticceri e ha già le idee ben chiare: l'attività dei negozi, con la pasticceria fresca è ben avviata, ma il lavoro si concentra perlopiù nei fine settimana. Come sfruttare al meglio la capacità produttiva del laboratorio?
Un giorno Aldo rivela a suo padre il suo sogno che si rivelerà un'intuizione imprenditoriale: «Dobbiamo insistere sulla pasticceria secca e cominciare a produrre dolci da vendere all'ingrosso». Ma per poter spingere i panettoni della Balocco oltre i confini di Fossano e della provincia cuneese, occorreva superare l'ostacolo della loro conservazione.
E arriva nel 1955 uno dei momenti chiave del successo: Aldo Balocco assume un giovane lombardo, sfollato a Cuneo negli anni bui della guerra, che aveva lavorato a Milano alla Motta e all'Alemagna, già all'epoca due colossi dell'industria dolciaria. Ermanno Crespi, originario di Abbiategrasso, introduce a Fossano la tecnologia della «lievitazione naturale».
I due immaginano e progettano un panettone del tutto nuovo, una sintesi tra le tradizioni regionali tra Piemonte e Lombardia: alto come quello milanese, ma glassato come quello basso piemontese. Nasce così il «Mandorlato Balocco», un panettone che diventerà ambasciatore in tutto il mondo dell'azienda di Fossano.
Nel 1970 la Balocco si sposta nella nuova sede di via Santa Lucia, sempre a Fossano: 20.000 metri quadrati contro i 5.000 del precedente stabilimento. Arrivano nuovi e più moderni macchinari e sotto la guida di Aldo l'azienda continua a crescere.
Proprio negli anni Settanta la pubblicità diventa una delle leve vincenti dell'azienda: si comincia con l'immancabile Carosello del '75 ma la svolta è quando Aldo Balocco decide di affidare le sorti del suo mandorlato alle soubrette più famose del momento, le gemelle Alice e Ellen Kessler: ed è sulle loro famosissime gambe che il mandorlato entra nelle case di tutti gli italiani.
Belle gambe da ballerina, soubrette e grande popolarità è una formula che si ripete parecchi anni dopo con Heather Parisi, protagonista di una campagna pubblicitaria che fece epoca negli anni Ottanta.
Nel 1990 entrano in azienda Alessandra ed Alberto, terza generazione della famiglia Balocco, che ha condotto il passaggio a un'azienda che produca non più soltanto dolci delle feste (panettoni e colombe) ma anche bakery e prodotti per la colazione. Oggi la Balocco dispone di oltre 75.000 mq coperti, con dieci impianti di produzione per biscotti da prima colazione, lievitati da ricorrenza e wafer. Negli ultimi dieci anni ha sostenuto investimenti tecnologici per oltre 100 milioni di euro. Sviluppa un giro d'affari di 200 milioni di euro, con 500 addetti, ed esporta in oltre 70 Paesi nel mondo. L'intuizione del «signor Balocco» era proprio corretta.
· E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.
Da corriere.it il 29 giugno 2022.
L’imprenditore Marcello Berloni è morto questa mattina all’ospedale di Pesaro, dove era ricoverato per una grave malattia. Aveva 84 anni. Insieme al fratello Antonio fondò, nella stessa Pesaro, alla fine degli anni Sessanta una piccola falegnameria poi diventata una fabbrica affermata a livello internazionale nella produzione di cucine. Il figlio Roberto lo ha ricordato in un lungo post su Facebook.
Negli anni Novanta, Berloni diventa un vero e proprio gruppo industriale, grazie all’acquisizione di altre società, nel settore dell’arredamento per uffici e per bagni. Nel 2013 dopo una crisi finanziaria conseguente alla crisi economica mondiale, l’azienda, che era arrivata a 200 milioni di fatturato e dava lavoro a 370 addetti, affronta una severa riorganizzazione a cui seguono i tagli alla produzione.
Nel 2013, i fratelli Berloni chiedono e ottengono dal tribunale di Pesaro il concordato preventivo. La maggioranza delle quote finì nelle mani del gruppo Hcg di Taiwan (50%) e di Intermedia (44%), mentre alla famiglia restò solo il 6%. Un equilibrio precario che salta con la successiva uscita della merchant bank di Giovanni Consorte: la nuova composizione sociale dura fino al 2019, quando la proprietà cinese decide la liquidazione volontaria dell’azienda.
· E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.
Si è spento un grande italiano, Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Giugno 2022
Imprenditore di primo piano della scena finanziaria italiana, Leonardo Del Vecchio era anche primo azionista di Mediobanca. Secondo uomo più ricco d'Italia era stato insignito Cavaliere del Lavoro nel 1986. Restano integri il suo progetto e la governance che lui ha voluto dare alle sue aziende e della Delfin, la finanziaria che raccoglie tutte le partecipazioni industriali e finanziarie
È morto Leonardo Del Vecchio fondatore di Luxottica e presidente del gruppo Essiliux aveva 87 anni. Del Vecchio, riferiscono fonti mediche all’Agi, era ricoverato in terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano da diverse settimane. Il patron di Luxottica lascia sei figli. Claudio (a capo del gruppo Brooks Brothers), Marisa e Paola, nati dal primo matrimonio con Luciana Nervo; Leonardo Maria, avuto con la seconda moglie Nicoletta Zampillo, dalla quale Del Vecchio si è separato ma che ha poi risposato; Luca e Clemente, nati dalla relazione con Sabina Grossi, ex investor relator del gruppo
Nato a Milano nel 1935 da una famiglia di emigrati pugliesi, ha passato la propria infanzia dai Martinitt orfanotrofio di Milano. A soli 26 anni giovanissimo ha creato dal nulla Luxottica, partendo da un piccolo terreno ad Agordo, in provincia di Belluno. L’azienda si è poi imposta negli anni come il colosso mondiale dell’occhialeria, fino alla fusione con il gigante delle lenti Essilor, nel 2017, che ha dato vita ad EssilorLuxottica.
Imprenditore di primo piano della scena finanziaria italiana, Leonardo Del Vecchio era anche primo azionista di Mediobanca, con una partecipazione del 19,4%. Secondo uomo più ricco d’Italia era stato insignito Cavaliere del Lavoro nel 1986. Restano integri il suo progetto e la governance che lui ha voluto dare alle sue aziende e della Delfin, la finanziaria che raccoglie tutte le partecipazioni industriali e finanziarie. Così come per Essilor Luxottica , per l’immobiliare Covivio, per la sua fondazione e per le sue partecipazione finanziarie.
Del Vecchio, insieme al suo storico avvocato Sergio Erede, aveva studiato da anni una “governance” della Delfin capace di rendere l’azienda impermeabile alle incursioni della sua famiglia, con un management già deciso, e con le linee guida della governance per continuare a sceglierlo nel futuro. I sei figli di Del Vecchio ereditano infatti il 12,5% del capitale della finanziaria Delfin, e la moglie Nicoletta Zampillo il 25%. Lo statuto prevede che ogni decisione venga presa con l’accordo di tutti e tre i rami della famiglia perché è prevista una maggioranza dell’88% della finanziaria per ogni decisione. E Lo stesso vale per la scelta del management, il suo braccio destro Francesco Milleri che dovrebbe ora succedergli in Delfin, oltre a continuare a essere il Ceo della Essilor-Luxottica.
Ora che l’imprenditore è venuto a mancare, è previsto che Milleri prenda il suo posto nel consiglio della finanziaria: tanto più che lo statuto di Delfin prevede che i 5 amministratori della holding lo siano a vita, nessuno della famiglia può sostituirli, a meno che essi non si dimettano spontaneamente. La filosofia di Del Vecchio resta immutata anche per le partecipazioni finanziarie, vale per il 19% di Mediobanca e per il 9,9% di Generali. Del Vecchio è sempre stato un collezionista di partecipazioni, non un “raider” del mordi e fuggi. La stessa partecipazione del 2% in Unicredit, è storica risale agli inizi degli anni 2000, ed è legata alla sua amicizia con Lucio Rondelli, banchiere che primo ha finanziato l’imprenditore negli anni Ottanta, e che per anni ha partecipato come amministratore indipendente al cda di Luxottica.
Redazione CdG 1947
Aveva 87 anni. È morto Leonardo Del Vecchio, il fondatore di Luxottica. L'Inkiesta il 27 Giugno 2022
L’imprenditore milanese, secondo uomo più ricco d’Italia, si è spento questa mattina al San Raffaele di Milano.
È morto Leonardo Del Vecchio. Il fondatore del più grande sistema distributivo del mondo dell’ottica aveva 87 anni: era ricoverato in terapia intensiva all’ospedale San Raffaele di Milano da diverse settimane.
Aveva creato Luxottica nel 1961, in una piccola bottega di montatura per occhiali aperta tre anni prima: quattordici dipendenti, specializzata nella produzione di parti metalliche per occhiali. Nel 1986 aveva ricevuto dal Presidente della Repubblica il riconoscimento di Cavaliere dell’Ordine al Merito del Lavoro. A maggio 1995, invece, aveva ricevuto una Laurea honoris causa in Economia aziendale dall’Università Ca’ Foscari di Venezia; nel 1999 un Master honoris causa in International Business dal MIB – Management School di Trieste. E nel 2002 la Laurea honoris causa in Ingegneria gestionale dall’Università di Udine. Nel marzo 2006, Leonardo Del Vecchio ha ricevuto un’altra Laurea honoris causa in Ingegneria dei materiali dal Politecnico di Milano.
È MORTO LEONARDO DEL VECCHIO, IL FONDATORE DI LUXOTTICA AVEVA 87 ANNI. Da corriere.it il 27 giugno 2022.
È morto Leonardo Del Vecchio. Il fondatore di Luxottica e presidente di EssilorLuxottica, oggi il più grande sistema distributivo del mondo dell’ottica, aveva 87 anni e si è spento lunedì mattina al San Raffaele di Milano.
Ex Martinitt, era uno degli uomini più ricchi d’Italia, Cavaliere del Lavoro dal 1986, maggior azionista di Mediobanca oltre che di Generali, tre lauree e due master honoris causa, ha costruito un impero a partire dalle montature degli occhiali e da una piccola fabbrica nel Bellunese, diventano un simbolo in tutto il mondo sia del saper fare italiano e di un modello di imprenditoria unico, così come del self made man.
Della sua vita, a cominciare dall’infanzia difficile, si è molto raccontato. Nato a Milano nel 1935, da genitori emigrati dalla Puglia, ha vissuto da bambino nell’orfanotrofio dei Martinitt, dove sono cresciuti altri grandi dell’imprenditoria italiana come Edoardo Bianchi e Angelo Rizzoli. Del Vecchio ha poi rivelato: «Sono cresciuto senza padre e in istituto. Crescere senza famiglia è qualcosa che non si può spiegare, se non lo si è vissuto. Ti segna».
A 14 anni trova lavoro come garzone alla Johnson: di giorno lavorava e di sera frequentava la scuola a Brera. Diventa capo terzista fuori Milano e qualche anno dopo si trasferisce ad Agordo, in provincia di Belluno, dove la comunità montana aveva offerto terreno a chi avesse avviato un’azienda sul territorio. Del Vecchio ha 26 anni ed è così che iniziò l’avventura di Luxottica, prima come terzista e poi come produttore di occhiali finiti.
Nella biografia di Del Vecchio, appena uscita e curata da Tommaso Ebhardt (Sperling&Kupfer), l’autore del volume lo descrive così: «Un billionaire: da un lato, è sempre pronto a cogliere le opportunità di crescita per la sua azienda, ad abbracciare il cambiamento tecnologico alleandosi con i leader globali dell’era social come dimostrano gli occhiali sviluppati con Meta, all’epoca Facebook, dall’altro rimane al centro dell’attenzione del mondo finanziario per il suo attivismo come investitore in banche e assicurazioni».
«Se ti distrai o ti culli sugli allori, come ho visto fare a diversi imprenditori che hanno cominciato insieme a me, senza che neanche te ne accorgi arriva qualcuno a portarti via il mercato. Diventa molto, molto difficile recuperare, una volta che ti hanno superato», amava dire Del Vecchio. Dal 1969 diventa proprietario unico dell’azienda. Da allora l’azienda non ha smesso di crescere a livello internazionale e tramite acquisizioni. Nel 2017 la notizia del matrimonio fra Luxottica ed Essilor: una fusione da 50 miliardi di euro.
Del Vecchio ha avuto tre mogli. La prima, Luciana Nervo, da cui ha avuto tre figli: Claudio, Marisa e Paola. Nicoletta Zampillo, è la seconda e quarta moglie di Del Vecchio, sposata nel 1997 e risposata a settembre 2010, da lei Del Vecchio ha avuto il quarto figlio, Leonardo Maria. Terza compagna di del Vecchio, Sabina Grossi, che non ha sposato l’imprenditore da cui ha avuto due figli (ancora minorenni): Luca e Clemente.
BIOGRAFIA DI LEONARDO DEL VECCHIO. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
Leonardo Del Vecchio, nato a Milano il 22 maggio 1935 (85 anni). Imprenditore. Fondatore di Luxottica, dal 1995 maggior produttore e distributore di occhiali al mondo
• «Orfano di guerra e cresciuto nel collegio dei Martinitt come Angelo Rizzoli» (Massimo Restelli, Il Giornale 14/10/2014)
• Iniziò a 23 anni aprendo una bottega che fabbricava montature
• Oggi la sua azienda ha sette fabbriche in Italia, una in Germania, tre in Cina, una in Brasile, una in India e una in Giappone. Al 2018, aveva 80 mila dipendenti, fatturava otto miliardi di euro, e aveva un utile di 900 milioni
• Tramite la sua holding, la Delfin s.a.r.l (società a responsabilità limitata di diritto lussemburghese) controlla: il 38,4% di EssilorLuxottica; il 28% di Convivio, immobiliare francese quotata in borsa a Parigi; il 6,84% di Mediobanca; il 4,87% di Assicurazioni Generali
• La classifica 2020 della rivista Forbes valuta la sua ricchezza in 25 miliardi di dollari, il che lo rende l’uomo più ricco d’Italia
• «Come spesso accade con gli imprenditori di prima generazione, chi lo conosce bene lo descrive come un super lavoratore (Forbes lo ha definito “workaholic”), attento a tutte le sfumature della società che possiede. Riservatissimo, si può dire che abbia una idiosincrasia nei confronti delle dichiarazioni ai giornalisti» (Il Foglio)
• «Non è solo uno degli uomini più ricchi – e più discreti – d’Italia. È anche l’antitesi di alcuni stereotipi sul nostro capitalismo nazionale: cioè il nanismo congenito delle nostre imprese, l’incapacità di diventare globali, l’intreccio con la politica. La sua storia dimostra che si può credere nel capitalismo familiare e al tempo stesso comportarsi come una public company» (Federico Rampini)
• «È famoso tra l’altro per aver tenuto lontani dall’azienda i parenti, niente figli o nipoti al comando come hanno fatto la maggior parte dei capitalisti italiani (in questo modo preparando, di solito, il funerale dell’azienda)» (Giorgio Dell’Arti, La Gazzetta dello Sport, 15/10/2014)
• Dice di lui Claudio Del Vecchio, il suo primogenito: «Per tutta una vita non ha dormito più di tre ore, prendeva le pillole per star sveglio e andare a fare le consegne di notte».
Titoli di testa «Chi mi conosce sa che non amo apparire» (a Maria Silvia Sacchi, CorrierEconomia, 21/11/2016).
Vita «Ultimo di quattro fratelli. Suo padre, commerciante di frutta di origini pugliesi, muore poco prima della sua nascita. Per questo motivo gli viene dato il nome paterno, Leonardo. Mentre i fratelli crescono sotto la guida della madre, Grazia Rocco, il giovane Leonardo viene affidato al collegio dei Martinitt» (Flavia Provenzani, money.it, 28/10/2019) • «Ho vissuto le bombe e la guerra, la fame e la povertà»
• Lascia il collegio a quattordici anni. Ritrova la famiglia, ma anche le ristrettezze economiche. «Propone a sua madre, che fa la cameriera: “Comprami una bicicletta, mi servirà a far soldi”. Viene accontentato e a furia di pedalare trova un’azienda che incide medaglie» (Luca Goldoni, Sette, n. 44/1997)
• Diventa garzone alla Johnson, una ditta che produce medaglie e targhe di metallo. «Erano altri tempi, non c’era il rispetto che si dà oggi ai dipendenti. Non mi chiamavano nemmeno per nome: non ero Leonardo, solo fioeu»
• «I padroni si accorgono che il ragazzo ha dei numeri e lo mandano a Brera perché impari a disegnare e a incidere. È la svolta della sua vita» (Goldoni)
• Per tre anni lavora di giorno e va a lezione la sera. Poi si stufa di fare l’incisore e decide di mettersi in proprio. «Specializzatosi in incisioni metalliche, si trasferisce a 22 anni in Trentino, dove trova occupazione presso una fabbrica del settore. L’ingresso nel mondo degli occhiali ha luogo nel 1958, anno in cui Del Vecchio decide di trasferirsi in provincia di Belluno, ad Agordo, dove apre una bottega che fabbrica montature per occhiali. Nel corso dei soli tre anni successivi, la bottega si trasforma nella società Luxottica S.a.s., occupa quattordici dipendenti e si specializza sempre di più nel campo delle minuterie metalliche per occhiali» (Provenzani)
• «Del Vecchio impiantò la sua fabbrica ad Agordo perché il Comune, intelligentemente, offriva terreni a quegli imprenditori che avessero voluto impiantare lì la loro attività» (Dell’Arti)
• «Ricordo quando sono arrivato la prima volta in Lambretta. Non pensavo che avrei raggiunto questi risultati. A 26 anni si ha questo coraggio. Adesso non lo farei di sicuro»
• «Inizia, insieme a due collaboratori, a tirar su l’impresa: fabbricare occhiali all’italiana, con montature originali artigianali d’eccellenza, incise a mano, e lenti molate da lui personalmente» (Sergio Di Cori Modigliani)
• Assume come capo-officina un certo Luigi Francavilla. Racconta: «Lui è il saggio, io il pazzo. Ma assieme abbiamo lavorato bene»
• Leonardo è tenace e temerario. «Allora aveva un laboratorio Metalflex in via Carlo d’Adda a Milano. “Sei o sette operai”. Gli stampi degli occhiali, quelli in metallo, andavano forte. Del Vecchio aveva dei soci in Cadore i quali accettavano di lavorare con lui solo in una società nella quale sarebbero stati in maggioranza. Non sapeva cosa fare. Un giorno, passeggiando in via Dante, vide l’insegna di uno studio legale.
Non conosceva nessuno. Salì. “Faccia un’accomandita, lei fa l’accomandatario, loro sono in maggioranza”, fu il consiglio dell’avvocato. “Io avevo in mente il progetto Luxottica. Loro volevano che continuassi a fare il terzista. Litigammo. La banca mi tolse il fido perché non più garantito dagli altri due soci.
Non sapevo che pesci prendere e allora presi la mia Peugeot e guidai per sette ore da Agordo a Cannes. Andai da un mio cliente che mi doveva 35 milioni. Aspettai ai bordi della piscina. Presi l’assegno e tornai alla Banca del Friuli di Agordo, ma non accettarono di riaprirmi il conto.
Allora mi precipitai alla Cassa di Risparmio di Belluno che mi diede fiducia e credito. Potei pagare così le paghe agli operai. Poi comprai le quote degli altri due soci, offrendo loro 45 milioni a testa. E diventai proprietario di Luxottica. Pensavano che non avessi i soldi e non si presentarono nemmeno dal notaio”. Era fine luglio del 1969. Alla riapertura, dopo le ferie, il ragioniere che faceva le paghe della piccola Luxottica si stupì. “Ma come, non vi avevano chiuso il conto? Non siete falliti?”. “No, ragioniere, siamo ancora aperti”» (Ferruccio De Bortoli, CorrierEconomia, 13/3/2017)
• «I suoi rapporti con le maestranze sono più da antica bottega che da colosso industriale. Quando viene rubato un camion di occhiali, gli operai rinunciano a metà ferie per sostituire la fornitura. E lui ricambia mettendogli l’aria condizionata (anche se ad Agordo fa caldo non più di 15 giorni l’anno). Ed è fra i primi “padroni” ad offrire ai dipendenti la possibilità di diventare azionisti» (Goldoni)
• «Fin dalla sua nascita, Luxottica produce piccole componenti semilavorate per occhiali per conto terzi. Ma nel 1967 Del Vecchio decide di dare la svolta: iniziare a produrre occhiali finiti firmandoli con il brand “Luxottica”. Il cambiamento di business registra un successo tale che nel 1971, a soli quattro anni dall’inizio della nuova produzione, l’azienda decide di abbandonare la produzione per conto terzi e dedicarsi interamente alla creazione e alla vendita di occhiali finiti» (Provenzani)
• «Ho sempre odiato la dipendenza da altri. Ho sempre preferito avere poco, ma che fosse determinato da me. Quando sei un terzista sei nelle mani del tuo datore di lavoro. Ho detto: vorrei che d’ora in poi le montature abbiano il nostro marchio. Ci siamo presentati al Mido con sette-otto modelli di metallo raffazzonati su a mano in venti giorni e là è partita la vera Luxottica»
• «Tutto è partito dalla mia paura di avere un futuro condizionato da altri. Mi ricordo che un anno, a novembre, un nostro importatore americano era venuto da noi per preparare la stagione del sole: ma mi aveva ordinato meno occhiali del solito. Non ho più dormito. Pensavo: ora se qualcun altro mi fa questo scherzo, rimango fregato. Ho cominciato a pensare che anche il distributore a me non andava più bene.
La decisione chiave è stata questa. Ho deciso di comperare – al 50, al 30, o al 100% - tutti i distributori che mi piacevano. L’ultimo passo è stato vendere direttamente al pubblico, quando siamo entrati nella rete retail»
• «Il modello aziendale Luxottica è il contrario di tutto quello che insegnano nelle Business School, ma con l’integrazione verticale che ci dà il controllo della rete distributiva noi ci sentiamo tranquilli e padroni del nostro destino»
• La filosofia di Del Vecchio è semplice: «Quello che ti dà tranquillità è arrivare al consumatore. Chiudono bottega i terzisti, chiude bottega chi ha una piccola catena, non chi ha una propria clientela»
• È un’intuizione vincente. Vent’anni dopo Luxottica è un’azienda florida. Nel 1990 si quota alla borsa di New York. «Va all’attacco del mercato statunitense che gli mette potenti sbarramenti. Li supera tutti. Stende la concorrenza più competitiva che si arrende. Acquista i tre più importanti marchi Usa e diventa la più potente multinazionale al mondo nel settore della produzione di occhiali» (Di Cori Modigliani)
• «Eppure con gli ottici i rapporti non sono stati sempre così idilliaci. In particolare, quando Luxottica comprò, nel 1995, la catena americana LensCrafters facendo loro direttamente concorrenza. “Persi subito negli Stati Uniti il 50 per cento dei clienti, passai tre mesi drammatici, meno male che andavamo bene nel resto del mondo”» (De Bortoli)
• Nel 1999 compra il marchio Ray-Ban dalla Bausch&Lomb per 640 milioni di dollari. «Trattai senza sapere una parola d’inglese. Ridevano anche di me». I Ray-Ban si vendono a 38 dollari, in promozione a 18. Luxottica li porta a 78. «Mi davano del pazzo, abbiamo venduto poco per tre anni, poi c’è stato il boom. Siamo riusciti a convincere gli ottici a comprarli e ci hanno guadagnato»
• Nel 2017 ha annunciato la fusione con Essilor, colosso francese delle lenti. «Al punto in cui siamo dobbiamo solamente gestire la crescita. Anche dopo di me ci sarà sicuramente qualcuno che farà andare avanti l’azienda».
Vita privata «Un grande adoratore di femmine» (Dell’Arti)
• Ha avuto sei figli da tre donne diverse. La prima moglie, Luciana Nervo, stava vicino a Del Vecchio nei primi anni Sessanta quando Luxottica era ancora una fabbrichetta. Da questo primo matrimonio nacquero Claudio, Maria e Paolo
• La seconda moglie, Nicoletta Zampillo, gli ha dato un solo figlio, Leonardo Maria
• Dopo il secondo divorzio, una terza donna, Sabina Grossi, che ha avuto una parte importante nello sviluppo dell’azienda, è stata membro del cda e gli ha dato Luca e Clemente
• Del Vecchio non l’ha mai sposata, poi l’ha lasciata e ha risposato la Zampillo la quale, nel 2014, disse di volere per sé il 25 per cento della holding di famiglia. Gli investitori temettero un assalto dei parenti all’azienda e il titolo in borsa precipitò
• «A mio parere i figli non devono avere responsabilità apicali in azienda e non devono sedere in cda. La ragione è molto semplice, un manager lo puoi licenziare, anche se costa parecchio, un figlio no.
I miei sei figli hanno la nuda proprietà sul 12,5% a testa della Delfin, mia moglie avrà in futuro il restante 25%. Il cda di Delfin è composto da cinque persone, me incluso, e per cambiarlo occorre l’88% dei voti, in pratica gli azionisti devono essere tutti d’accordo» (a Giovanni Pons, la Repubblica, 27/5/2015).
Politica Sempre corteggiato da destra e sinistra
• Nel 2008 vollero candidarlo sia il Pd sia il Pdl sia la Lega Nord. Rispose: «No grazie, non mi piacciono i balli a corte»
• Gli dispiacque che, nel 2014, il suo amministratore delegato dell’epoca Andrea Guerra avesse impiegato tre giorni a smentire le voci secondo le quali Matteo Renzi lo voleva ministro. «Sono forzature in cui, soprattutto la televisione, è maestra. Vedono due insieme e dicono subito che fanno l’amore...» (a Fabio Tamburini, Corriere della Sera, 2/9/2014).
Impegno civico «Il patron di Luxottica è diventato uno dei principali benefattori del pianeta. Non in proprio, ma lo è diventato il gruppo di Agordo che tra Stati Uniti, Australia ed Europa conta ben quattro fondazioni, tutte dedicate alla cura e alla prevenzione delle malattie oculari» (Carlo Cinelli).
Malefatte Imputato d’«elusione della normativa fiscale italiana» per fatti risalenti al periodo 1997-2006.
Nel 2009 ha chiuso il contenzioso con il fisco pagando la cifra monstre di 300 milioni di euro. Sara Bennewitz: «La fattispecie contestata a Del Vecchio, in termini tecnici, si chiama “esterovestizione” e riguarda una finanziaria, la Leofin, a cui facevano capo alcune delle partecipazioni dell’imprenditore tra cui i Gelati Sanson e appunto quella in Luxottica.
Ma in Germania, secondo il fisco, la Leofin non svolgeva nessuna attività che giustificasse il fatto di avere un passaporto tedesco e quindi di essere tenuta a sottostare a un regime fiscale più favorevole di quello italiano.
Dalle indagini è infatti emerso che la Leofin non aveva dipendenti, non aveva amministratori e non pagava nessun affitto, ma era controllata e gestita dalla Leonardo Finanziaria, un’altra scatola societaria costituita dai vari membri della famiglia Del Vecchio. Una prova schiacciante nell’indagine è stata poi la lettera della società di consulenza Artur Andersen che aveva suggerito ai Del Vecchio di tenere le assemblee degli azionisti della Leofin in Germania “al fine di ridurre il rischio che l’autorità fiscale tedesca possa considerare la società Leofin soggetto residente in Italia ai fini fiscali”».
Curiosità È interista
• «Da sempre attentissimo alla forma fisica: nel seminterrato dell’ex quartier generale di Milano aveva fatto realizzare una piscina olimpionica, mentre una seconda vasca occupa il tetto della casa di rappresentanza a Roma» (Restelli)
• Fece restaurare le stalle della Villa Crotta-De Manzoni di Agordo, dove ora c’è un museo dell’ottica: sono esposti più di 1200 esemplari, tra cui il cannocchiale astronomico di Giuseppe Campani del 1682 (lungo otto metri) e le lenti del conte di Cavour
• «Luxottica non mi ha mai dato rimpianti. L’unico rimpianto che ho è quando qualcuno per strada cerca un occhiale che non è il nostro. Vorrei mettere su gli occhiali a tutti».
Titoli di coda «Quando arrivo ad Agordo con l’elicottero mi dico: ma guarda che casino che ho combinato qua».
Luxottica e Essilux, l’impero e la morte di Del Vecchio: con i Ray-Ban stories punta su social e metaverso. Giuliana Ferraino su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
L’eredità di Leonardo del Vecchio è un gigante da 66 miliardi di capitalizzazione e 14,4 miliardi di fatturato (nel 2020) e 33 marchi in portafoglio, con 61 anni di storia alle spalle, ma pronto a competere sui social e a entrare nel metaverso grazie alla partnership negli «smart glasses» stretta con Mark Zuckerberg, il fondatore di Meta (ex Facebook). Oggi si chiama EssilorLuxottica, nome che riflette il matrimonio celebrato nel 2018 tra il gruppo francese delle lenti e il gruppo veneto delle montature e del retail ottico. Ma la storia è cominciata nel 1961, quando ad Agordò, piccolo paese ai piedi delle Dolomiti bellunesi, Del Vecchio fonda Luxottica, un nome che unisce le parole luce e ottica.
Lo sbarco al Mido nel 1971
All’inizio Luxottica produce componenti e accessori per aziende del settore ottico. Ma Del Vecchio ha un sogno: produrre l’occhiale finito con il marchio Luxottica, perciò amplia negli anni la gamma delle lavorazioni fino a gestire l’intero processo produttivo. Nel 1971 Luxottica presenta la sua prima collezione di occhiali alla Mostra internazionale dell’Ottica di Milano, il Mido. Il successo sancisce la sua trasformazione da terzista a produttore di occhiali.
Leonardo Del Vecchio intuisce l’importanza di commercializzare direttamente i propri prodotti e nel 1974, con l’acquisizione di Scarrone, distributore con una consolidata presenza sul mercato italiano, avvia un processo di integrazione verticale.
L’internazionalizzazione
Nel 1981 comincia l’internazionalizzazione del gruppo con l’apertura della consociata in Germania, mercato leader nella produzione di occhiali, e con l’acquisizione di Avant-Garde Optics, uno dei maggiori distributori dell’epoca negli Stati Uniti. L’acquisizione di altri distributori indipendenti, l’apertura di filiali e la creazione di joint-venture nei principali mercati esteri rafforzano la crescita.
L’alleanza con Giorgio Armani
Una data importante nella storia del gruppo è il 1988, quando Luxottica firma l’accordo di licenza con Giorgio Armani. E’ un periodo di particolare fermento creativo che cambia lo stesso concetto di occhiale da strumento di correzione della vista ad accessorio di moda. Leonardo Del Vecchio capisce subito le potenzialità di collaborare con i migliori stilisti e anticipa con grande capacità di visione quello che sarà un trend, siglando un accordo di licenza con Giorgio Armani. Questa prima alleanza, terminata nel 2003, avvia lo sviluppo di un prestigioso portafoglio di licenze, in cui nel 2013 torneranno anche i marchi del Gruppo Armani, che entra nel capitale della società come una quota di rilevo.
La quotazione a Wall Street
Nel 1990 Luxottica è la prima azienda italiana a sbarca in Borsa a New York. Gli Stati Uniti sono un mercato strategico per il gruppo e la quotazione a New York consente maggiore visibilità internazionale e la possibilità di accelerare ulteriormente la crescita di Luxottica.
Gli anni che seguono sono un crescendo di alleanze e acquisizioni: nello stesso 1990 Luxottica acquisisce Vogue Eyewear e rafforza la sua presenza nel settore moda e lifestyle. Nel 1992 viene siglato l’accordo di licenza di Brooks Brothers,il più antico retailer di abbigliamento degli Stati Uniti, fondato a New York nel 1818.
L’acquisizione di Persol, gli occhiali dei divi
Nel 1995 Luxottica compra Persol, marchio molto amato in Italia, celebrato da Marcello Mastroianni che lo indossa nel film Divorzio all’italiana. Ma del marchio diventano testimonial tanti altri attori famosi, inclusi Greta Garbo e Steve McQueen, che li scelgono sul set e nella vita privata.
Nello stesso anno Luxottica acquisisce LensCrafter, una delle principali catene di ottica del Nord America e diventa il primo produttore di occhiali a entrare direttamente nel retail ottico.
Lo sbarco in Cina
Nel 1997, Luxottica apre il primo stabilimento in Cina, a Dongguan nella provincia del Guangdong, in joint venture con un partner giapponese, poi interamente controllato dal 2001. Negli anni successivi Luxottica amplia la sua presenza nella provincia cinese, potenziando in modo significativo la capacità produttiva.
Ray-Ban , gli occhiali di top gun Maverick
Dopo aver siglato un accordo di licenza con Bulgari, nel 1999 il gruppo mette a segno il gran colpo comprando un mito americano: gli occhiali Ray-Ban, nati negli anni ‘30 per proteggere la vista degli aviatori americani abbagliati dal sole durante il volo. Il marchio Ray-Ban, che significa letteralmente «blocca raggio», viene registrato nel 1937 e comincia la vendita al pubblico. Sono gli occhiali di Top Gun Maverick. Ma piacevano anche a Marilyn Monroe. Con l’acquisizione della divisione eyewear di Bausch&Lomb. entrano nel portafoglio Luxottica, oltre a Ray−Ban, anche i marchi Revo, Arnette e Killer Loop.
Sempre nel 1999 entra nella scuderia di Agordo il marchio Chanel, grazie a un accordo di licenza con la maison di moda francese.
Piazza Affari e Sunglass Hut
Leonardo Del Vecchio celebra il 2000 con la quotazione di Luxottica in Piazza Affari, 10 anni dopo lo sbarco a Wall Street.
Il nuovo millennio comincia con un’altra acquisizione importante. Nel 2001, Luxottica si rafforza nel retail entrando nel segmento sole comprando Sunglass Hut, una delle principali catene specializzate nella vendita di occhiali da sole in Nord America, Australia e Regno Unito.
Prada e Versace
Il gruppo continua a espandersi nella distribuzione, quando nel 2003 compra Opsm, una delle principali catene in australia e Nuova Zelanda. Ma prosegue anche l’allargamento dei marchi in portafogli: il 2003 è anche l’anno degli accordi di licenza con il gruppo Prada e con Versace.
Contemporaneamente prosegue l’ampliamento della presenza retail in Nord America, con l’acquisizione di Cole National Luxottica si espande ulteriormente nel retail in Nord America e diventa proprietaria di Pearle Vision, Sears Optical e Target Optical. Poi in Cina attraverso l’acquisizione,nel 2005, delle catene di ottica Xueliang Optical a Pechino, Ming Long Optical nel Guangdong e l’anno successivo Modern Sight Optics a Shanghai.
Intanto entrano nel gruppo in licenza il marchio Donna Karana (Dkny), Dolce & Gabbana e Burberry.
Nel 2007 Luxottica toran a stupire il mondo dell’ottica con l’acquisizione della californiana Oakley, sinonimo di tecnologia innovativa, design inconfondibile e alte prestazioni.Con l’acquisizione di Oakley, entrano nel portafoglio Oliver Peoples e la licenza Paul Smith Spectacles.
Nello stesso anno viene siglata la licena con Ralph Lauren. L’anno dopo tocca a Tiffany. Poi nel 2009 a Tory Burch.
L’espansione nel mondo latino
Il 2011 segna l’espansione retail in America Latina. Luxottica acquisisce Multiópticas Internacional, società che controlla GMO, una delle principali catene di negozi di ottica in Cile, Perù, Ecuador e Colombia con i marchi Opticas GMO, Econópticas e Sun Planet. In Brasile nel 2012 il gruppo compra Tecnol, il principale operatore dell’eyewear nel paese sudamericano.
Il gruppo punta anche sulla penisola iberica con l’acquisizione nel 2012 dei negozi specializzati Sun Planet in Spagna e Portogallo, convertiti successivamente in Sunglass Hut. E’ anche l’anno della licenza con Coach.
Il 2013 porta l’acquisizione Alain Mikli International, società francese che opera nel settore dell’occhialeria di lusso e di tendenza. Mentre firma la licenza con Stack Eyes. Nel 2015 entra nella scuderia il marchio americano Michael Kors.
Salmoiraghi & Viganò
Nel 2016 nuovo colpo nel retail: Luxottica acquisisce il controllo della catena di ottica Salmoiraghi & Viganò in cui deteneva una quota di minoranza dal 2012. E completa anche l’acquisizone (nel 2017) della catena brasiliana Oticas Carol.
Le nozze con il gruppo francese Essilor
Nel 2017 Luxottica dà l’addio al Nyse, dove è rimasta quotata fino al 16 giugno 2017. Il delisting è propedeutico a una grande cambiamento: il matrimonio con il gruppo francese Essilor. Delfin, La cassaforte di Leonardo Del Vecchio e azionista di maggioranza di Luxottica e Essilor International (Compagnie Générale d’Optique) , il primo ottobre completano della combinazione tra Essilor e Luxottica. La nuova holding, EssilorLuxottica, è un leader globale nella progettazione, produzione e distribuzione di lenti oftalmiche, occhiali da vista e da sole.
Il matrimonio con francesi comporta l’addio a Piazza Affari e lo sbarco sul listino di Euronext di Parigi, dove la notizia della morte dell’imprenditore ha penalizzato il titolo (-1,61% a 143,95 euro alla chiusura). Ma i primi mesi di convivenza sono travagliati, perché Del Vecchio, che controlla la maggioranza del gruppo, vuole affidare la guida all’amico e manager di fiducia, Francesco Milleri. E anche questa volta, ci riesce. Spetterà a lui continuare l’opera.
La conquista di GrandVision
L’ultima grande acquisizione è ancora nel retail: Essilux acquista GrandVision e Vision Group, una delle principali reti distributive con l’insegna VisionOttica,che include il brand e tutti i negozi. Un’operazione lunga e complicata, perché avviene durante la pandemia, che con i lockdown e le restrizioni cambia il valore alla società. Si arriva allo scambio di carte bollate, ma alla fine si trova l’accordo. E EssilorLuxottica continua a crescere.
LA STORIA. Leonardo Del Vecchio, la storia: le 4 mogli, i figli, la carriera dai Martinitt alla fabbrica a super manager, ecco chi era. Maria Silvia Sacchi su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Il personaggio
Leonardo Del Vecchio, morto a 87 anni il 27 giugno 2022, è stato uno dei protagonisti assoluti dell’imprenditoria e della finanza italiane.
Ultimo di quattro figli, rimasto orfano di padre, venne mandato dalla madre dai Martinitt, dove rimase fino ai 15 anni, quando andò a lavorare come garzone in una fabbrica dove si incidevano coppe e medaglie. Per l’imprenditore, che poi fonderà Luxottica, sia i Martinitt sia il lavoro da garzone saranno una scuola di vita.
La fondazione di Luxottica
Del Vecchio ha fondato Luxottica nel 1961. La svolta arriva nel 1971 . Così l’ha raccontata: «Con una decina di modelli ideati e realizzati da me e Luigi Francavilla (uno degli uomini più vicini all’imprenditore) ci presentammo al Mido. Eravamo timorosi di non riuscire a vendere granché, invece fu un successo inaspettato. Tornammo ad Agordo stanchissimi e felici e con la consapevolezza che il nostro futuro era cambiato per sempre».
Le acquisizioni
Due le strategie che hanno fatto di Luxottica il leader mondiale degli occhiali. La prima è stata investire nel retail, ovvero nei negozi di proprietà. La seconda le acquisizioni di marchi propria. Soprattutto Rayban, celeberrimo brand americano rilevato dalla società italiana nel 1999.
Altra acquisizione fondamentale il brand USA Oakley (2007).
Luxottica produce inoltre in licenza per i maggiori marchi del lusso da Prada a Valentino ad Armani. Armani è anche socio di Luxottica.
Le famiglie
Se Luxottica ha avuto un percorso chiaro e delineato, più complesso è il sistema familiare di Leonardo Del Vecchio.
Sei figli da tre unioni diverse e un doppio matrimonio con una stessa donna, Nicoletta Zampillo, la moglie che ha risposato nel 2010.
Claudio, Marisa, Paola sono i figli nati dal primo matrimonio con Luciana Nervo; Leonardo Maria è il figlio avuto con Nicoletta Zampillo; Luca e Clemente, ancora minorenni, sono nati invece dall’Unione con Sabina Grossi.
La successione
Del Vecchio ha voluto pensare per tempo alla propria successione.
Fa un primo accordo con cui cede a ciascun figlio l’usufrutto di un sesto di Delfin, la holding che controlla oltre a Luxottica altre partecipazioni come Unicredit e Generali. Dopo il nuovo matrimonio con Nicoletta modifica gli assetti ereditari.
Del Vecchio cambia poi nuovamente le condizioni, reintestandosi il 25 per cento del capitale di Delfin, che viene riservato alla moglie nel testamento e riducendo di conseguenza le quote dei figli.
Il manager
Dopo anni in prima fila, Del Vecchio aveva scelto di passare il testimone ai manager.
Sceglie Andrea Guerra, in arrivo dal gruppo degli elettrodomestici di Vittorio Merloni. È il 2004. Guerra rimarrà in Luxottica per 10 anni. Lascerà improvvisamente nell’estate del 2014. Un’uscita contrastata. Ha detto Del Vecchio: «Avevo scelto un manager giovane, il dottor Guerra, pensando di non occuparmi più direttamente di Luxottica. Fino a quando l’amministratore delegato, che era il capo azienda, non ha iniziato a interessarsi ad altro. Gli ho fatto una domanda su quali fossero le sue intenzioni, come è normale che sia e come ha fatto oggi il consiglio anche con me. Mi ha risposto che volevo prendere il suo posto, mettendomi con le spalle al muro».
Il ritorno in scena
A gennaio 2016 dopo il periodo di turbolenza legato all’uscita di Andrea Guerra, sostituito da un vertice con due co-amministratori delegati, una nuova svolta.
Del Vecchio annuncia il ritorno in scena: dopo solo un anno esce uno dei due co-amministratori delegati e Del Vecchio diventa presidente esecutivo. Un ritorno da molti criticato vista l’età dell’imprenditore. Lui spiega che «l’azienda ha bisogno di essere più veloce e più semplice nel prendere le decisioni. Il vertice con i due co-amministratori delegati non consentiva questa velocità».
Uno degli uomini più ricchi
Secondo uomo più ricco in Italia e 62esimo al mondo nella lista di Forbes, la sua ricchezza era cresciuta da 16,1 miliardi nel 2020 a 25,8 miliardi di dollari nel 2021.
Del Vecchio e i giovani
«Di giorno lavoravo e di sera frequentavo i corsi dell’Accademia di Brera per imparare a disegnare e incidere. Quel periodo e il rapporto con i miei maestri mi hanno lasciato alcuni importanti insegnamenti: la disciplina, il metodo e le competenze che mi avrebbero poi consentito di avviare».
Ai giovani, per anni, ha ricordato l’importanza della fatica e della passione.
«Per anni il mio pranzo è stato a base di cavoli bolliti. Il loro odore mi ricorda la grande fatica, i sogni che avevo di fare qualcosa di mio, magari piccolo, ma dove mettere a frutto le mie idee e le mie capacità. Oggi troppi giovani tendono a dare la responsabilità della loro condizione ad altri pensando di non essere aiutati abbastanza dal Paese, dai genitori. Io ho sempre pensato di essere un privilegiato per la passione e per l’enorme voglia di fare. Ero certo che tutto sarebbe dipeso da me e dal mio lavoro» .
Il welfare
Buoni spesa, buoni libro, più permessi per maternità e paternità. Quando si parla di welfare aziendale, ovvero del sistema di incentivi aggiuntivi allo stipendio, Luxottica è il caso sempre citato.
Il bonus per gli 80 anni
22 maggio 2015: per i suoi 80 anni Del Vecchio donò a tutti i dipendenti italiani 140mila azioni Luxottica, per un valore complessivo di 9 milioni di euro. «Siete i veri artefici del successo della nostra azienda», disse.
A sostenere i costi direttamente la famiglia Del Vecchio attraverso la Delfin.
Azienda, famiglia e futuro
Quando per i suoi 80 anni regalò azioni ai dipendenti, Del Vecchio disse che “in tutte le fasi della mia vita e di quella di Luxottica i miei collaboratori hanno fatto la vera differenza. Più dei marchi, delle catene di distribuzione, dei macchinari di produzione. Le persone, in fabbrica o nei mercati, con la loro passione per il lavoro, l’attaccamento all’azienda e la capacità di fare squadra ci hanno permesso di affermarci in tutto il mondo, di resistere nei momenti difficili e di cogliere appieno ogni opportunità. Anche ora, quando ho bisogno di affrontare decisioni importanti cerco la necessaria concentrazione e la tranquillità ad Agordo, nella vallata dove tutto è iniziato e dove ancora lavorano molti dei miei storici collaboratori».
Chi è Nicoletta Zampillo, la seconda e quarta moglie di Del Vecchio a cui va il 25% della società. Francesca Gambarini su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Chi è Nicoletta Zampillo, la seconda e quarta moglie di Del Vecchio a cui va il 25% della società? Elegante e temuta, tanto che nei corridoi della finanza si diceva che ci fosse lei, Nicoletta Zampillo, dietro il divorzio con Enrico Cavatorta, amministratore delegato subentrato ad Andrea Guerra nell’allora Luxottica dopo un divorzio burrascoso. Il motivo? Fare spazio alla famiglia nella sala dei bottoni della multinazionale. Era il 2014 e all’epoca lei, già quarta moglie di Del Vecchio disse al Corriere: «Il mio ruolo? Uno solo: di madre dei miei figli e di moglie di mio marito. Il mio ruolo è tutto qui. Con Luxottica non c’entro proprio niente e leggere ciò che viene scritto mi amareggia tantissimo. Non solo per quello che si dice di me senza sapere niente, io sono una persona onesta e vengo da una famiglia splendida e con valori profondi».
La storia
Zampillo è stata la seconda e poi quarta moglie di Leonardo Del Vecchio, che si è spento a Milano il 27 giugno: milanese, classe 1958, l’imprenditore l’ha sposata nel 1997 e poi risposata a settembre 2010, ed è madre del quartogenito Leonardo Maria (che a sua volta si è sposato proprio negli scorsi giorni).
I due sono convolati a nozze quando Zampillo era 38 enne, ma la conoscenza era di vecchia data, infatti il padre di Zampillo era stato uno dei primi rappresentanti di occhiali Luxottica per Milano e la Lombardia.
Zampillo, però, aveva sposato in prime nozze Paolo Basilico, una sorta di enfant prodige della finanza milanese, prima in Mediobanca e alla filiale italiana della Giubergia Warburg e poi fondatore dei primi hedge fund tricolori, sotto il marchio Kairos.
Il matrimonio con Del Vecchio va poi in crisi alle soglie del Ventunesimo secolo quando il patron si invaghisce della investor relator che lavora in Luxottica, Sabrina Grossi: non la sposerà, ma la nuova relazione porterà alla nascita di altri due figli, Luca e Clemente, che si aggiungono ai tre avuti dal primo matrimonio, Claudio, Paola e Marisa, e a Leonardo Maria, avuto da Zampillo a metà degli anni Novanta, un paio di anni prima del matrimonio.
Dopo il divorzio, a Nicoletta era stata assegnata villa Mondadori, costruita negli anni Venti del Novecento, duemila metri quadrati tra via XX Settembre e via Tamburini a Milano. La villa era stata poi venduta nel 2008 per 24 milioni di euro.
La successione
Come stabilito dallo stesso patron Del Vecchio, a Zampillo andrà una quota pari al 25% della Delfin, la holding lussemburghese a cui fa capo tutto l’impero di Del Vecchio è la Delfin. In base a quanto stabilito dal fondatore di Luxottica, ai sei figli spetta il 12,5% ciascuno. La governance è stata però definita in modo che ogni decisione strategica venga presa con l’accordo di tutti e tre i rami della famiglia.
L’altra famiglia
In EssilorLuxottica lavora anche il primo figlio di Zampillo, avuto da Paolo Basilico, Rocco Basilico, con il ruolo di chief wearables officer e amministratore delegato di Oliver Peoples, il brand di lusso del gruppo (circa 90 milioni di fatturato). Laureato all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Economia e inserito da Forbes nell’elenco dei 30 under 30 - è entrato in azienda nel 2013 e da allora ha fatto diverse esperienze, fino a diventare nel 2016 amministratore delegato di Oliver Peoples, brand nato nel 1987 in California e acquisito da Luxottica nel 2007.
Leonardo Maria, laureato in Bocconi, dopo esperienze in Regno Unito e Usa è entrato nel gruppo nel 2017 e oggi è ceo della catena Salmoiraghi e Viganò.
La lettera che la mamma di Leonardo Del Vecchio scrisse al collegio: «Non voglio resti sulla strada». Redazione Economia su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Leonardo Del Vecchio da bambino: a 7 anni entrò nell’orfanatrofio Martinitt
«Spettabile direzione dell’orfanotrofio Martinitt. Io sottoscritta Rocco Grazia vedova Del-Vecchio faccio domanda acciò mi si potesse acconsentire di farmi presto ricoverare il mio bambino più piccolo Del Vecchio Leonardo, dovendo io andare a lavorare e non avendo nessuno a chi affidarlo il piccolo mi starebbe su la strada e prima che mi abbia a capitarle qualche disgrazia preferisco il suo ricovero anche per una più accurata educazione. Voglio sperare che questa spettabile direzione vorrà prendere in considerazione la mia domanda e potermi presto aiutare. Faccio le mie più umili scuse e ringraziamenti anticipati, con ossequi e doveri».
E poi la firma: «Rocco Grazia».
Come si comprende dalla lettera, chi scrive nel maggio 1942 alla celebre istituzione assistenziale milanese per orfani e bimbi abbandonati, è la madre di Leonardo Del Vecchio, il celebre fondatore dell’impero degli occhiali Luxottica, scomparso il 27 giugno 2022, a 87 anni, al San Raffaele di Milano. La lettera, ritrovata in tempi recenti negli archivi dell’Istituto dei Martinitt, è stata pubblicata per la prima volta nella primavera scorsa all’interno della biografia scritta dal giornalista Tommaso Ebhardt. Sono passati da
quel giorno 80 anni esatti, una vita intera da quando Grazia Rocco «vedova Del Vecchio» sperava di assicurare al piccolo Leonardo un futuro migliore di quello che lei, rimasta sola e costretta a lavorare, sentiva di potergli dare. In una nota scritta a mano da un dipendente dei Martinitt, in fondo alla stessa lettera, si legge che la donna era pronta a impegnarsi a versare 60 lire al mese all’orfanotrofio per il sostentamento del bambino.
Il padre di Leonardo, emigrato con la famiglia da Barletta a Milano, nel quartiere Baggio, negli Anni 30, era morto per una polmonite fulminante prima della nascita del bambino. La madre decide di dargli lo stesso nome, Leonardo, ma ha già tre bambini a cui dover badare e il lavoro che la tiene lontana da casa teme che sia un pericolo per il bambino: teme, insomma, che finisca per strade e con cattive compagnie. Il resto della storia la conosciamo: il Martinitt accoglie Leonardo Del Vecchio fino ai 14 anni, quando il futuro miliardario trova il suo primo lavoro come garzone nella bottega di un incisore, per poi diventare operaio. A 23 anni, già sposato e con due figli, Leonardo Del Vecchio si stabilisce a Milano per aprire un laboratorio di stampi industriali. “Tra le minuterie metalliche, le parti di occhiali erano quelle che mi davano più profitto. Quindi ho abbandonato le altre componenti e ho scelto la minuteria metallica che fa parte dell’occhiale”, ha raccontato a Ebhardt.
Ed è lì, in quel laboratorio, che comincia una corsa che lo porta ad aprire prima una fabbrica ad Agordo, sulle Dolomiti, poi a scoprire il vasto mercato americano, con la quotazione a Wall Street prima di quella in Italia e la conquista di marchi gloriosi come i Ray-Ban. A ottant’anni suonati unisce le montature con le lenti, creando il colosso EssiLux da una fusione della sua Luxottica con la francese Essilor. Cinque anni dopo Mark Zuckerberg lo sceglie per produrre gli occhiali da usare nel Metaverso. Alla fine, il suo impero arriva a valere 66 miliardi. «La mia fortuna è stata il collegio», raccontava. «Il collegio è diventato la mia famiglia. Stavo bene, mi hanno insegnato le regole e dato un lavoro. E poi l’azienda è diventata la mia famiglia. Solo adesso mi rendo conto che dedicando tutto me stesso alla fabbrica, ai miei collaboratori — perché ci tengo veramente, ho rispetto del lavoro e delle persone — ho passato poco tempo con i miei figli. Ecco il mio unico cruccio».
Quando Del Vecchio comprò la Persol, fabbrica degli occhiali dei tranvieri (e di Steve McQueen). Federica Vivarelli su Il Corriere della Sera il 27 Giugno 2022.
Il ricordo di un dipendente: «Quando venne per acquistare l’azienda, a Chivasso, chiese proprio a me di tenergli il metro. Doveva misurare se lo spazio andava bene con dei macchinari che aveva in mente»
Altro che Ray-Ban. In principio c’erano i Persol. Specchiati, le frecce in metallo sulle stanghette, made in Torino. Perché nella storia di Leonardo Del Vecchio — secondo uomo più ricco d’Italia, patron di EsserlorLuxottica, azionista di Generali, scomparso oggi 27 giugno al San Raffaele di Milano — ha molto a che fare con Torino, o meglio con Lauriano e Chivasso.
Da una parte c’è una piccola azienda aperta da Del Vecchio ad Agordo, vicino Belluno, che diventerà la principale azienda di occhialeria al mondo. Dall’altra lo stabilimento Persol a Torino in via Caboto fondato nel 1917.
Qui il fondatore Giuseppe Ratti aveva progettato un tipo di lente pensato per sportivi e aviatori, poi diventato il simbolo dei tranvieri di Torino. Fino a diventare l’accessorio della moda dagli anni ‘60 in avanti: Marcello Mastroianni, Steve McQueen. Fino al 1995: «Il Cavaliere ci ha presi in un momento di difficoltà dello stabilimento. Eravamo praticamente al fallimento — racconta Gigi Congiu, dipendente prima Persol e poi Luxottica, classe 1960 —. Ricordo ancora la prima volta che venne a Torino. Arrivò con la sua giacca, la camicia senza cravatta e suo figlio Leonardo Maria di sei anni per mano. Quando alla guardiola disse «Sono Del Vecchio» il vigilante non gli credette e non lo fece passare».
Una volta dentro in reparto «chiese proprio a me di tenergli il metro. Doveva misurare se lo spazio andava bene con dei macchinari che aveva in mente — continua Congiu —. Non credo si veda spesso una persona di così alto livello prendere di persona le misure e annotarsele».
I dipendenti da 120 arrivarono a 1000. Insieme alle quotazioni in borsa, le sedi in Francia ma solo amministrative, le grandi collaborazioni come Armani, i Ray-Ban, le altre azioni. Da quell’episodio a Chivasso tornò ancora solo una volta, circa cinque anni dopo. Ma nei suoi discorsi ai dipendenti parlava sempre di noi come i «maestri dell’occhiale», continua Congiu.
Nel bilancio annuale Del Vecchio riprende più volte il welfare piemontese a riferimento. L’espressione che ricorre è: «Ricordiamo i vecchi esempi dal territorio torinese». Ovvero la Olivetti di Ivrea. «Attraverso i sindacati ci chiesero di proporre delle idee per i dipendenti — spiega Congiu —, noi raccontammo dell’esperienza di quell’azienda. Arrivarono così le borse di studio per i dipendenti, i premi di produzione. Posso dirlo? Facciamo meno pubblicità rispetto a loro ma siamo al pari di Ferrero. Il Cavaliere ha sempre pensato a tutto».
La parola «Cavaliere» ricorre spesso. Nei racconti di Congiu, nelle pagine Facebook dei dipendenti Luxottica. Nessuno si rivolge per nome parlando di Del Vecchio. O capo, presidente. «Oggi mi sento quasi come quando morì mio padre», scrive Gabriella dello stabilimento di Chivasso. «Ma si sa perché è morto? Non mi sembra possibile» lamentano in molti. Anche se Del Vecchio aveva 87 anni.
È lunedì pomeriggio e le linee di via Testore a Lauriano sono piene. Al centralino non chiedono neanche il motivo della telefonata: prendono direttamente nota della mail con l’indicazione che faranno sapere a breve. «Abbiamo paura. Paura di che cosa succederà. Comunque è sempre una multinazionale — conclude Congiu — e i casi di successione familiare di solito non vanno bene. Ci conforta pensare alla squadra che Del Vecchio aveva creato». I sindacati raccontano: «Lunga vita a Del Vecchio, è quello che ci dicevamo sempre nelle riunioni».
Federico Fubini per il “Corriere della Sera” – 27 dicembre 2021 il 27 giugno 2022.
Si dice spesso in questi mesi che l’Italia potrebbe entrare in una stagione diversa, trasformando in meglio il proprio potenziale di crescita. Di solito però il pensiero va al sistema politico e al governo, perché in gioco sono quei 205 miliardi di fondi europei stanziati con la pandemia che vanno spesi rapidamente e bene.
Leonardo Del Vecchio invece ha una prospettiva diversa quando osserva: «Oggi abbiamo un’opportunità unica e irripetibile di trasformare questo Paese».
Di sicuro nel 2021 l’Italia ha goduto di una rara apertura di credito da parte molti osservatori europei e internazionali, riassunta nella nomina quale «Paese dell’anno» dell’Economist.
Ma la sua storia di imprenditore che non ha mai smesso di crescere e non ha mai cercato la protezione del settore pubblico dà alle parole di Del Vecchio una valenza che va oltre la politica economica di questi mesi.
«Il tempo a disposizione non sarà molto e una prossima occasione forse arriverà troppo tardi», dice il presidente del colosso italo-francese EssiLux, che oggi è protagonista delle partite più importanti per il sistema finanziario nazionale.
Quello che lui definisce il vero e proprio «senso di urgenza» per il Paese in questa lunga stagione pandemica — dice l’86enne Del Vecchio — «viene più dall’evoluzione delle tecnologie e dalla velocità della globalizzazione che non dalla mia età».
Il pensiero va al recente accordo di EssiLux con Meta-Facebook per una nuova generazione di «smart glasses» — occhiali Ray-Ban con funzioni intelligenti — e sicuramente Del Vecchio continua a esplorare la frontiera dell’innovazione digitale con più determinazione di molti in Italia. «Stiamo ancora inseguendo le vendite online — osserva — e non ci accorgiamo che quello che per noi sembra un traguardo è già il passato».
Nel quartier generale di EssiLux a Milano si parla già di Metaverso e di realtà aumentata, con un’attenzione continua a tutte le possibili applicazioni delle tecnologie del futuro.
Intanto il fondatore di Luxottica, l’uomo che oggi detiene circa il 6,5% di Generali, il 19,4% di Mediobanca e il 2% di Unicredit, oltre al 27,2% di Covivio con i suoi 26 miliardi di patrimonio immobiliare europeo, studia anche il sistema finanziario italiano.
Non è più la foresta pietrificata di un tempo ma — osservato dalla prospettiva di Del Vecchio — dopo la crisi dell’euro e la pandemia deve senz’altro accelerare sulla strada della crescita e della modernizzazione.
Dice l’imprenditore: «Abbiamo bisogno di scelte rivoluzionarie che scardinino tutti i vincoli che vengono dal passato». Lui lascia intendere che sente anche su di sé la responsabilità di svolgere un ruolo in prima persona: «Tutte le forze positive del Paese devono contribuire a costruire questo nuovo mondo, rinunciando a comode rendite di posizione».
Del Vecchio non entra nel merito delle scelte di questa o quell’istituzione finanziaria, sia essa banca o assicurazione. Non rivolge in questa fase critiche specifiche ai vertici di Mediobanca o tantomeno delle Generali, che hanno presentato di recente un piano industriale essenzialmente in continuità con gli ultimi quattro anni.
Ma quello che oggi è sicuramente il più grande imprenditore italiano, il solo ad aver imposto il proprio gruppo nei mercati mondiali con così tanta forza, mostra di avere una propria visione anche per il futuro del sistema finanziario italiano.
«Dobbiamo iniziare ad abbattere i muri e a creare campioni prima nazionali e poi europei, per competere alla pari con i colossi internazionali. Serve un’ottica da imprenditori più che da finanzieri. I dividendi oggi spesso sono a scapito della crescita dimensionale delle aziende», afferma. E da questa osservazione, a suo avviso, non può sentirsi escluso neanche il settore bancario e assicurativo: «Il mondo della finanza nazionale purtroppo è quello più fragile e in ritardo, protetto fino ad ora da regolamenti e relazioni forti che non potranno più garantirne la sopravvivenza».
Viene probabilmente anche da questa convinzione la certezza che la finestra di opportunità dell’Italia per mettersi al passo della globalizzazione è aperta adesso, ma non per sempre. Non è per sempre che la Banca centrale europea manterrà a zero o negativi i tassi d’interesse e così solide le quotazioni di un debito pubblico al 153% del prodotto interno lordo. Ed è adesso che l’Italia attraversa sui mercati finanziari e fra gli osservatori internazionali una stagione di fiducia che può anche volgere al termine. Può farlo perché, se si guarda sotto la superficie, molti dei problemi storici del Paese e del suo sistema produttivo restano aperti.
Di fronte all’avanzare delle nuove frontiere dell’innovazione digitale, Del Vecchio avverte: «Per questo e per molte altre ragioni lo slogan “piccolo è bello” non è solamente falso, ma diffonde una tranquillità illusoria che frena ogni urgenza di cambiamento». Invece il patron di Luxottica, ormai al comando di un gruppo da oltre 80 miliardi di euro di valore di Borsa, pensa che in Italia non ci sia più spazio per la retorica elusiva e consolatoria. Al contrario, è il momento di scelte decise: «È tempo di prendere i nostri rischi — sostiene Del Vecchio — nella certezza che, in mancanza di questa evoluzione, saremo destinati ad estinguerci».
Nell’immediato l’imprenditore agisce anche su altri fronti. Attraverso la fondazione che porta il suo nome, la sera della vigilia di Natale Del Vecchio ha annunciato che costituirà una joint-venture con la Fondazione per la Sanità cattolica, appena creata su impulso di Papa Francesco, per guidare e sostenere il salvataggio dell’ospedale Fatebenefratelli dell’Isola tiberina.
L’obiettivo è reso chiaro dall’inizio: riportare la struttura a livelli di eccellenza e farne un modello per il mondo, vasto, della sanità cattolica. «È una gioia immensa partecipare a questo progetto — dice Del Vecchio —. Spero ci saranno presto altre iniziative come questa che mi permettano di restituire al nostro Paese tutto il bene che ha saputo donarmi».
Valentina Iorio per corriere.it l'1 agosto 2022.
Nel testamento di Leonardo Del Vecchio, morto a Milano il 27 giugno scorso, compaiono fra gli eredi i nomi di Francesco Milleri, presidente e ceo di EssilorLuxottica oltre che presidente di Delfin, e di Romolo Bardin, ceo della cassaforte lussemburghese. Al primo l’imprenditore scomparso ha lasciato 2,15 milioni di azioni EssilorLuxottica (quasi lo 0,5% del capitale) che valgono circa 340 milioni di euro agli attuali valori di Borsa, al secondo 22.000 azioni, pari a 3,5 milioni di euro.
I documenti, visti dall’Ansa, confermano la divisione in otto parti uguali del capitale di Delfin ai figli e alla moglie di Del Vecchio, Nicoletta Zampillo. Gli azionisti della holding sono: Claudio, Marisa e Paola Del Vecchio (figli della prima moglie Luciana Nervo), Leonardo Maria (l’unico figlio di Nicoletta e di Del Vecchio), e Luca e Clemente (avuti dalla compagna Sabina Grossi), Rocco Basilico (nato dal matrimonio tra Nicoletta e il primo marito Paolo Basilico) e la vedova.
Le ville alla moglie
A Zampillo vanno anche i maxi appartamenti di Milano e Roma, Villa La Leonina di Beaulieu Sur-Mer, vicino a Nizza in Costa Azzurra, e la casa del buen retiro di Antigua, ai Caraibi. Zampillo è stata la seconda e poi quarta moglie di Leonardo Del Vecchio. L’imprenditore l’ha sposata nel 1997 e poi risposata a settembre 2010. Zampillo è madre del quartogenito Leonardo Maria. I due sono convolati a nozze quando lei era 38 enne, ma si conoscevano da tempo: il padre di Zampillo era stato uno dei primi rappresentanti di occhiali Luxottica per Milano e la Lombardia. Zampillo, però, aveva sposato in prime nozze Paolo Basilico, da cui ha avuto Rocco uno degli otto eredi del capitale della Delfin.
La lezione inascoltata di Leonardo Del Vecchio al capitalismo italiano: niente familiari in azienda. Il fondatore di Luxottica da poco scomparso si è preoccupato di garantire ai manager indipendenza rispetto ai suoi eredi. Perché il problema delle imprese familiari e della loro gestione è uno dei principali della nostra imprenditoria. Ugo Pagano su La Repubblica il 28 Giugno 2022.
Anche il Financial Times ha dato un notevole e meritato spazio alla figura di Del Vecchio e ha notato come i membri della sua famiglia non abbiano mai avuto un ruolo nelle sue compagnie. Il giornale riporta anche la motivazione che Del Vecchio diede in una intervista: «La ragione è molto semplice. Si può licenziare un manager ma non si possono licenziare i propri figli».
Avendo avuto sei figli da quattro matrimoni con tre donne (una, Nicoletta Zampillo, sposata due volte) Del Vecchio avrebbe una possibilità di scelta ben superiore a quella che hanno in media gli imprenditori italiani che nella grandissima parte continuano mettere a capo della impresa qualche membro la propria progenie. Del Vecchio ha intuito che, specialmente quando le imprese superano una certa dimensione, nominare i propri familiari dirigenti intacca l’efficienza della gerarchia manageriale. Potremmo anche aggiungere che contraddice un senso di giustizia che hanno i dipendenti dell’impresa che vorrebbe che i meriti fossero premiati indipendentemente dalla vicinanza al clan familiare.
Del Vecchio era da tempo ben cosciente che questa sua lucida visione della gestione dell’impresa sarebbe stata messa in crisi dalla sua scomparsa e ha provato a dare una soluzione individuale a questo problema prima di lasciarci. Le azioni della Delfin, la scatola lussemburghese che contiene il patrimonio di Del Vecchio, sono stati ereditate per il 25 per cento della (seconda e quarta) moglie Nicoletta Zampillo, e il restante 75 per cento è stato diviso in parti uguali tra i sei figli. Tuttavia sarà difficile interferire con le decisioni del management. In primo luogo lo statuto Delfin prevede che nessuna decisione sulla governance possa essere presa senza una maggioranza dell’88 per cento, cioè il consenso pieno di tutti gli eredi appartenenti a tre famiglie diverse. In secondo luogo la famiglia non può cambiare la squadra manageriale. Infine lo statuto Delfin prevede che gli incarichi dei manager Milleri e Bardin sono a vita.
I limiti della soluzione che De Vecchio ha escogitato per continuare a tenere separati la famiglia e il management sono evidenti. In effetti, rendendo quasi inamovibile il management, essi contraddicono anche il principio che “si può licenziare un manager ma non si possono licenziare i propri figli”. Solo il passare del tempo ci potrà dire quanto siano state valide le sue soluzioni ma il punto che ci preme sottolineare è un altro: con tutti i suoi limiti De Vecchio ha avuto il merito di cercare una soluzione individuale a un problema sistemico del capitalismo italiano in cui la conduzione familiare e la successione dinastica frenano lo sviluppo di grandi imprese manageriali.
Come ho avuto già modo di sottolineare in un recente articolo sull’Espresso altre economie a capitalismo avanzato hanno adottato istituzioni che risolvono questo problema a livello sistemico. Negli Stati Uniti esistono dei meccanismi per cui con la crescita dell’impresa la famiglia ne perde il controllo rendendo il management autonomo dai meccanismi di successione familiare. In Germania l’esistenza di un board di indirizzo strategico di cui sono membri proprietari e lavoratori che nomina i membri del comitato esecutivo garantisce in un modo diverso l’autonomia del management.
In Italia non esiste nessun meccanismo simile a livello sistemico per affrontare questo stesso problema che De Vecchio aveva così ben presente. Quanto egli ha fatto nel ricercare una soluzione individuale va molto apprezzato ma la continuità dell’impresa e del management e la sua autonomia della famiglia non possono essere il frutto di sporadiche decisioni individuali. Molti anni fa, ai tempi delle privatizzazioni, si pose il problema di scegliere un modello di capitalismo che risolvesse questo problema. Purtroppo si scelse allora di non scegliere ma quanto fatto da De Vecchio dimostra che una riforma del capitalismo italiano è più che mai urgente e necessaria.
Ugo Pagano, economista e Professore di Politica Economica presso l'Università degli Studi di Siena e membro del Forum Disuguaglianze e Diversità
Paolo Colonnello per “La Stampa” il 28 giugno 2022.
«Scusa, posso?». Se c'era una cosa che Leonardo Del Vecchio proprio non poteva sopportare erano gli occhiali storti. Così me li prese delicatamente dal viso, aprì un cassetto del Moneikos, il super yacht di una sessantina di metri su cui eravamo ospiti, tirò fuori un piccolo cacciavite e in un attimo li raddrizzò.
«Certi mestieri non si dimenticano» mi disse soddisfatto riponendo l'attrezzo. «Pensa che ogni tanto mi metto perfino dietro ai banconi dei miei negozi così capisco meglio le esigenze dei clienti...».
Era il 2002, e Del Vecchio regnava su un impero di oltre 40 mila dipendenti sparso in tutto il mondo. Il patto era stato implicito: ci si frequenta ma ciascuno dimentica i mestieri che fa. Conoscere Del Vecchio, diventarne quasi amico, fu una di quelle stranezze della vita che mi capitarono quando nacque il mio primo figlio.
Le nostre compagne - lui all'epoca stava con Sabina Grossi, donna di grande sensibilità e intelligenza - erano diventate amiche grazie al corso preparto e così per qualche anno ci siamo frequentati: io giovane papà con le ansie del caso, lui papà attempato e già con tanti figli.
In nome di Luca, l'ultimo arrivato, Del Vecchio combatteva la sua innata riservatezza aprendo casa e ville ai giovani amici della compagna nel tentativo di una vita "normale" che in realtà non gli era concessa essendo a 68 anni già un mito da un pezzo.
Week end passati insieme, quasi come due coppie qualsiasi, a chiacchierare di bambini e di imprese (le sue). Una sera venne anche a casa nostra, un appartamento di 100 metri quadrati, lui abituato a vivere in un palazzo di oltre mille metri dietro Piazza Duomo, per una cena di pesce offerta su una scomoda sedia di legno pieghevole in cucina.
Serata memorabile, piena di aneddoti e risate con un uomo di grande ricchezza interiore, che se ne andò ringraziando: «Sono stato a mio agio». La semplicità in fondo era il suo segreto.
Marco Sarti per “Verità & Affari” il 28 giugno 2022.
Esponenti politici, imprenditori, sindacalisti. Numerosissimi sono stati ieri i commenti di cordoglio alla notizia della scomparsa di Leonardo Del Vecchio. A parlare anche Francesco Gaetano Caltagirone, che aveva trovato nel patron di Luxottica un alleato nel suo tentativo, poi fallito, di cambiare il management delle Generali.
«Se n'è andato un grande italiano», ha detto. «Ne sentirò la mancanza come amico, come imprenditore e come uomo di princìpi. Ho sempre apprezzato la sua lealtà, la sua voglia di lavorare per il bene dell'azienda, con assoluto distacco dal potere che la forza economica può dare, la sua grande visione anche sociale».
«Dal suo e nostro amato nord-est ha saputo costruire una realtà che è oggi un modello a livello mondiale, tenendo fede, dal primo all'ultimo giorno della sua incredibile storia personale, ai propri valori», ha detto invece il presidente di Edizione Alessandro Benetton.
Mentre Andrea Guerra, manager di Luxottica che a un certo punto venne ai ferri corti col patron e lasciò l'incarico, mette da parte gli antichi dissapori: «Grazie di aver creduto e spinto tutti a far sì che Luxottica fosse sempre la più brava. Grazie per essere stato un esempio silenzioso continuo e costante.
Grazie per averci dedicato quel tempo intorno a una nuova cerniera o a un nuovo materiale. Una ossessione a non fermarci mai». Il presidente del Consiglio Ma-rio Draghi ha sottolineato come Del Vecchio abbia coniugato «l'apertura internazionale con l'attenzione per il sociale e per il territorio.
Del Vecchio è stato un grande italiano: ha portato la comunità di Agordo e il Paese intero al centro del mondo dell'innovazione». Il ruolo di simbolo dell'italianità nel mondo è stato sottolineato da molti. Di «esempio vincente e di successo dell'eccellenza italiana nel mondo» ha parlato il ministro degli Esteri Luigi Di Maio.
«Leonardo Del Vecchio è stato un grande italiano», ha detto il commissario Ue all'economia Paolo Gentiloni. «La sua storia, dall'orfanotrofio alla guida di un impero economico, sembra una storia di altri tempi. Ma è un esempio per oggi e domani».
Per la leader di Fdi Giorgia Meloni «ha portato il tricolore nel mondo». «Partendo da zero, ha creato un impero globale, Luxottica, con una storia personale che è per tanti aspetti in-credibile e affascinante. L'Italia perde uno dei campioni della sua industria», ha commentato il fondatore di Italia Viva Matteo Renzi.
E' stato «capace di costruire il proprio impero partendo dalla provincia di Belluno per poi espandersi nel mondo. Mai mettere limiti ai propri sogni: il suo dev'essere un esempio anche per le generazioni future», ha detto invece il leader leghista Matteo Salvini.
E anche il ministro leghista dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti guarda alle generazioni più giovani: «Spero che la sua storia personale possa essere di esempio per i giovani che decidono di provare (e vincere) la sfida dell'impresa». Mentre il presidente dell'Inps Pasquale Tridico ha sottolineato la politica innovativa in termini di welfare aziendale: Del Vecchio, ha detto, «si inseriva in quella tradizione di imprenditori illuminati che credono nel benessere dei lavora-tori», laddove «è straordinario avere una comunità di lavora-tori soddisfatti».
Gianluca Paolucci per “Verità & Affari” il 29 giugno 2022.
La holding Delfin è blindata da eventuali dissidi tra gli eredi di Leonardo Del Vecchio e la linea del gruppo nella principale partita della finanza italiana - la filiera Mediobanca-Generali, ieri in rialzo in Borsa dopo la sbandata della vigilia - non cambierà, assicurano le fonti interpellate.
Il primo tassello si è visto ieri, con la nomina di Francesco Milleri, già amministratore delegato, anche alla presidenza del gruppo fino alla scadenza del mandato. Leonardo Del Vecchio - domani mattina i funerali ad Agordo - ha lasciato indicazioni chiare e strategie già condivise da tempo con chi prenderà in mano le redini della cassaforte.
Il nome del successore designato si saprà ufficialmente solo con l'apertura delle disposizioni lasciate da Del Vecchio. Ma sulla strategia, si spiega, non dovrebbero essere sorprese e tutto resterà, almeno nel breve periodo, nella linea indicata dal fondatore del gruppo.
A farsi garante della continuità sarà appunto Milleri, il manager più vicino all'imprenditore nonché colui che le strategie della Delfin - anche in ambito finanziario -ha contribuito a formularle al fianco di Del Vecchio. Il primo e più importante scoglio è quello di convincere la Bce a salire ancora in Mediobanca dal 20% attuale fino al 25%, al di sotto della soglia di opa, senza trasformarsi in holding bancaria.
Progetto avviato da tempo e già stoppato dalla Bce (che ha chiesto appunto la trasformazione della Delfin in una holding bancaria) ma non ancora accantonato dall'imprenditore al momento della sua scomparsa.
I tempi sono comunque piuttosto serrati: il progetto iniziale prevedeva di arrivare con il 25% alla prossima assemblea di Mediobanca, in ottobre, ma l'obiettivo è tutt'altro che semplice da raggiungere. Discorso simile per Generali, dove dopo la sconfitta in assemblea della lista Caltagirone, appoggiata da Delfin, la linea è quella di valutare di volta in volta sulla base del ritorno dell'investimento.
La blindatura della holding è scritta con chiarezza nell'ultima versione dello statuto, del febbraio 2021. Per il trasferimento di azioni tra i soci serve il parere favorevole dei due terzi dell'assemblea. Mentre per la vendita a un socio «esterno» serve il voto favorevole dell'88% del capitale. Che data la composizione dell'azionariato alla luce della scomparsa del fondatore (ai sei figli il 12,5% ciascuno, alla moglie il 25%) equivale a un voto all'unanimità. Inoltre, l'offerta di una terza parte dovrà essere regolata obbligatoriamente per cassa e non con scambi azionari.
Daniela Polizzi per il “Corriere della Sera” il 29 giugno 2022.
Sarà Francesco Milleri a prendere il posto di Leonardo Del Vecchio come presidente di EssilorLuxottica. Lo ha deciso il consiglio di amministrazione del gruppo che si è tenuto ieri «rendendo omaggio» all'imprenditore «che sarà ricordato per sempre per i suoi valori».
E la nomina al vertice di Milleri è un po' anche parte di quell'omaggio a Del Vecchio che aveva scelto il manager come suo successore alla guida del numero uno mondiale dell'occhialeria che aveva fondato.
Classe 1959, nato a Città di Castello nella provincia di Perugia per Del Vecchio è stato molto di più dell'amministratore delegato della sua EssilorLuxottica che ha contribuito a far crescere fino a 21 miliardi di ricavi e a raggiungere una capitalizzazione di oltre 65 miliardi.
Che la successione dei poteri sia ormai iniziata secondo uno schema ben preciso -già disegnato da Del Vecchio - lo dimostra anche un'altra decisione presa dal board di ieri.
Vale a dire la cooptazione come amministratore non indipendente in consiglio di Mario Notari, ordinario di diritto commerciale in Bocconi. Un professionista che ha sempre lavorato a fianco della famiglia Del Vecchio ed è già membro del cda di Delfin, la holding della dinastia.
«Tocca noi ora scrivere i prossimi capitoli della nostra azienda, traendo ispirazione dalla sua visione e dalla incredibile eredità» che Del Vecchio lascia, ha scritto ieri Milleri ai dipendenti. Ne ha condiviso la strategia imprenditoriale, ha impresso la velocità tecnologica alla macchina distributiva e condiviso in passato anche la stessa visione sulle partecipazioni finanziarie in Mediobanca e in Generali. Convinto, al pari di Del Vecchio, che la missione di un imprenditore e dei suoi manager sia quella di creare grandi gruppi del made in Italy di respiro internazionale.
L'identità di vedute con Del Vecchio si ritrova anche nelle attività legate al sociale e al mondo della salute. L'imprenditore l'ha infatti voluto nel consiglio della Fondazione Del Vecchio, incarico che copre anche nello Ieo.
«Era difficile distinguere Del Vecchio da Milleri nelle partite della finanza, anche nel tentativo di creare un grande gruppo italiano della finanza, soprattutto negli ultimi anni», racconta chi li ha conosciuti entrambi. Del Vecchio ha sempre fatto parte del mondo finanziario fino a pochi mesi fa, quando è salito in Piazzetta Cuccia e nel Leone proprio per creare un polo tra banche e assicurazioni. E a testimonianza di questo ruolo domani ai funerali ci saranno anche l'imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone - l'alleato negli acquisti in Generali - Andrea Sironi, presidente della compagnia di Trieste.
Ed è atteso Alberto Nagel, il ceo di Mediobanca.
Ora anche il ruolo di presidente della cassaforte Delfin potrebbe passare a Milleri.
Occorrerà attendere i prossimi giorni quando verrà data lettura delle volontà di Del Vecchio, custodite dallo studio notarile milanese Zabban Notari Rampolla. La convinzione è che segua la strada tracciata dal fondatore. In Delfin Milleri non ha mai avuto ruoli formali ma ha sempre partecipato alle sue attività in qualità di garante e interprete delle linee strategiche condivise con Del Vecchio.
Certo è che dalla sua nomina nel 2017 alla guida operativa di Luxottica che ha portato alla fusione con la francese Essilor, Milleri ha giocato un ruolo chiave avvicinando Milano e Parigi, che non vedeva di buon occhio un socio italiano al comando. Se la nuova realtà è cresciuta lo si deve in buona parte anche al ruolo di traghettatore verso tecnologia e digitale che Milleri ha svolto. Una strada che ha portato anche all'accordo con Meta per il lancio degli occhiali smart Ray Ban stories.
Le sue radici sono d'altronde nell'innovazione. Nel 1996 aveva fondato Abstract, società di consulenza nell'ingegnerizzazione dei processi, con clienti come l'Ospedale San Raffaele di Milano, l'Azienda Ospedaliero-Universitaria di Ferrara e poi l'Ieo.
Abstract aveva rafforzato la sua partnership con Luxottica fornendo anche "Virtual Store": un'app che, aggregando i dati di vendita nel mondo, è in grado di restituire uno spaccato istantaneo, fino al singolo negozio. Se sarà confermato il suo nome, Milleri traghetterà Delfin nella nuova fase. E deciderà, supportato dalla famiglia (che resterebbe solo azionista ma che voterà sulle partite strategiche), anche se proseguire nella crescita in Mediobanca e Generali. O lasciare la presa.
Andrea Bassi per “il Messaggero” il 28 giugno 2022.
Nessuna incertezza. Leonardo Del Vecchio aveva da tempo progettato il dopo-di-lui. Affidandolo alle mani di due timonieri esperti, Francesco Milleri e Romolo Bardin. Il primo si può considerare l'erede imprenditoriale di Del Vecchio. Era stato lo stesso patron di Essilux a spiegare […] che Milleri è colui che «ha saputo tradurre la mia visione in azioni e poi in risultati, tenendo tutto assieme».
Bardin è stato da sempre l'uomo più fidato, messo a capo della Delfin, la cassaforte di famiglia. Ed è l'uomo delle partite finanziarie, Mediobanca e Generali, dove la sua voce continuerà a pesare. […] Il manager è stato sempre un passo indietro a Leonardo Del Vecchio. Ma il legame tra i due è stato più che solido. Più che un manager a servizio della famiglia, un manager ormai considerato di famiglia.
[…] Poco più di un anno fa, il patron di Essilux aveva voluto un'altra modifica allo statuto della cassaforte. In caso di sua scomparsa, avrebbe potuto designare con una comunicazione scritta un suo successore in Delfin. Il successore sarebbe automaticamente diventato un manager B. E un manager B, o una pluralità di cinque manager B, ha stabilito lo statuto, guideranno Delfin. Indiscrezioni accreditate indicano il nome di Milleri. Che andrebbe ad affiancare gli altri quattro manager B già presenti: Mario Notari, Aloyse May, Giovanni Giallombardo e, appunto, il fidato Romolo Bardin.
Estratto dell'articolo di Marigia Mangano per “il Sole 24 Ore” il 28 giugno 2022.
[...] Tecnicamente la nuova guida del sistema che ruota intorno a Delfin è stata già individuata da tempo in Francesco Milleri, fedelissimo del patron di Agordo e in prima linea nella gestione delle partite più delicate.
Nei fatti, però, i nuovi assetti di Delfin, con l’ingresso effettivo della numerosa prole del fondatore, sono ancora tutti da verificare così come la reale intenzione degli eredi di far parte di un nuovo progetto industriale nel lungo periodo.
Punto di partenza per capire la complessità del processo che si apre con la scomparsa dell’imprenditore è l’assetto di Delfin e la rete di partecipazioni che fanno capo al Granducato dove spicca la quota di controllo nel gigante degli occhiali Essilor Luxottica.
Un impero da 80 miliardi
Sotto la regia e i preziosi consigli dell’avvocato Sergio Erede, mente legale degli assetti di controllo di Delfin, e con la presenza costante di Francesco Milleri al suo fianco, nelle partite industriali e finanziarie più recenti, Leonardo Del Vecchio negli ultimi anni è riuscito a centrare tutti gli obiettivi prefissati.
Motivo di orgoglio dell’imprenditore di Agordo è stata la creazione di un colosso come EssilorLuxottica, con una capitalizzazione di 65,7 miliardi, ma seguita da lui da vicino anche dopo il trasloco effettivo a Parigi. [...]
Vicino allo storico business degli occhiali compaiono poi la francese Covivio, braccio immobiliare da 5,3 miliardi di capitalizzazione, quotato a Milano e Parigi, di cui Delfin detiene il 26% e la recente Fondazione, protagonista in passato della mancata conquista dello Ieo, forse uno dei progetti più cari all’imprenditore di Agordo, che vale circa un miliardo.
Il valore dei gruppi da lui controllati, dunque, vale oggi qualcosa come 72 miliardi di euro. Una base di partenza che in teoria arriva a 80 miliardi se si tiene conto che la Delfin è diventata il primo socio di Mediobanca con una quota del 20%, pur in questo caso ricoprendo il solo ruolo di investitore finanziario.
[...] Se gli assetti in Francia, dove ha sede il quartier generale di Essilor Luxottica, sembrano allo stato attuale blindati con la guida saldamente in mano all’amministratore delegato Milleri, nel dopo-Del Vecchio sarà tutto da verificare la posizione del successore, Milleri appunto, e della dinastia sulle due partite finanziarie più delicate, ossia Mediobanca e Generali. Una strategia che si deciderà in Delfin, protagonista di un riassetto figlio della successione ai nastri di partenza.
La successione in Delfin
Negli ultimi anni Del Vecchio, insieme a Erede, aveva già predisposto tutto per il passaggio di consegne, dall’individuazione del management e del board di Delfin fino alla perfetta divisione dei ruoli tra la proprietà, rappresentata dalla famiglia, e la gestione delle partecipazioni.
Convolato a nozze tre volte (di cui due con la stessa moglie), l’imprenditore lascia sei figli: Claudio, Marisa, Paola (avuti dal primo matrimonio con Luciana Nervo), Leonardo Maria (dall’attuale moglie Nicoletta Zampillo che ha sposato nel 1997 e, dopo il divorzio del 2000, ha risposato nel 2010), Luca e Clemente (nati nel 2001 e nel 2004 e avuti dalla ex-compagna Sabina Grossi).
I sei figli di Del Vecchio ereditano la proprietà del 12,5% del capitale della finanziaria Delfin in piena proprietà, mentre la moglie Nicoletta Zampillo il 25%, diventando la prima azionista della finanziaria. Lo statuto blinda però gli assetti di governance già a monte: è previsto che ogni decisione venga presa con una maggioranza dell’88%. In pratica l’unanimità.
Nel board di Delfin, formato da cinque membri (Mario Notari, Romolo Bardin, Aloyse May e Giovanni Giallombardo) al posto di Del Vecchio entrerà Milleri con i pieni poteri del fondatore. Non avrà azioni, ma il delicato ruolo, tracciato con largo anticipo, di traghettare la finanziaria in una fase di transizione assai delicata. [...]
Dall'orfanotrofio alla Borsa, gli occhiali per vedere lontano. Paolo Stefanato il 28 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il patron di Luxottica nacque povero, ma inventò un impero miliardario. Pensando sempre ai dipendenti.
Su YouTube c'è un breve filmato che documenta l'accoglienza strepitosa riservata dai dipendenti italiani di Luxottica a Leonardo Del Vecchio alla cena di Natale del 2019. Applausi, grida di gioia, entusiasmo, un'autentica ovazione. Dal suo ingresso è tutto un intrecciarsi di mani e di festosi saluti casuali. Ma c'è una mano guardatela che dalla folla gli si appoggia sulla spalla e poi lo accarezza lungo il braccio. Un gesto d'affetto, quasi intimo, di quelli che si riservano alle star o ai pontefici, raramente a un industriale. Non è il caso di fare confronti, ma quanti imprenditori italiani di oggi e di ieri potrebbero aver raccolto il virtuale, sincero abbraccio dei propri dipendenti? A Del Vecchio volevano bene tutti, perché lui voleva bene a tutti e lo dimostrava. Nelle lettere al personale si firmava «il vostro fondatore», e mostrava sempre di essere dalla loro parte. Luxottica è una delle multinazionali più generose, con un welfare aziendale forse senza pari. Un giorno Del Vecchio capì che un tecnico, padre di famiglia, aveva stoffa e avrebbe voluto fargli far carriera come dirigente: ma questi possedeva solo il diploma superiore, non la laurea, che nella prassi aziendale per il livello più alto era richiesta. Del Vecchio lo chiamò, gli illustrò il suo desiderio e gli propose: tu riprendi a studiare, ti laurei e io ti faccio dirigente; prenditi il tempo che ti serve, sarai pagato lo stesso. E così andò.
Chi lavora in Luxottica ha assistenza sanitaria integrativa, buoni spesa, libri di testo per i figli studenti, prestiti in denaro per far fonte a esigenze o emergenze, premi di risultato, un patto generazionale per favorire l'ingresso dei giovani, uno sportello interno per le esigenze più svariate, anche la babysitter. Per i 50 anni dell'azienda e poi per il suo 80simo compleanno LDV regalò a tutti azioni per 7 milioni, nella prima occasione, e 9 nella seconda. Durante il Covid la società integrò la cassa integrazione perché nessuno perdesse nulla. Il tutto con un grande rispetto e riconoscimento del lavoro, già in sé un grande valore.
Ma Del Vecchio era nato povero, e questo probabilmente gli aveva plasmato la sensibilità. Nacque dopo la morte del padre Leonardo (stesso nome) e la mamma faceva la fruttivendola in corso Garibaldi, a Milano. Le origini erano pugliesi. Crebbe in un orfanotrofio, quello dei Martinitt, cominciò garzone in un'azienda di incisioni metalliche, presto si mise in proprio. La storia degli esordi e del successo è stata raccontata mille volte, tanto è leggenda. Nel 1958 si trasferì ad Agordo («arrivai in Lambretta») e fondò una bottega di montature per occhiali, nel 1961 diventata Luxottica. Faceva dei componenti, non il prodotto finito. Ma fu il suo carattere a segnare la strategia: «Ho sempre odiato la dipendenza da altri. Poco o tanto ma un terzista è nelle mani del cliente». Nacque da qui la sua grande intuizione: verticalizzare e trasformare l'occhiale da una commodity sanitaria a un accessorio di moda; prima mettendo insieme ogni segmento della produzione, poi espandendosi nella distribuzione, fino a controllare tutti i passaggi dell'occhiale, dalla materia prima al cliente, per miopi, presbiti o da sole, in tutti i continenti. La fusione con la francese Essilor, avvenuta quattro anni fa, è stata l'apoteosi di questo concetto d'integrazione: la più grande azienda di montature si univa con la più grande azienda di lenti. Nell'arco di sessant'anni Luxottica nel frattempo aveva comprato tutto il comprabile, aziende, marchi, licenze Armani, Ray-Ban, Chanel Prada, Versace, Valentino...- catene di negozi ovunque. Quando fu annunciata l'operazione con Parigi i maligni dissero che Del Vecchio vendeva ai francesi. Si è visto che non era così: la sua quota oggi è del 32,1%, e gli italiani comandano. L'azienda, 180mila dipendenti, capitalizza 65 miliardi di euro, quindi la quota dell'imprenditore ne vale da sola 20,8. Già questo lo farebbe uno degli uomini più ricchi del mondo: Forbes gli attribuisce un patrimonio di 27,3 miliardi di dollari, secondo in Italia (dopo Giovanni Ferrero) e 62simo nel globo. Tuttavia si tratta di una stima per difetto, visto che poi ci sono svariati altri miliardi che riguardano le quote nell'immobiliare Covivio, in Unicredit, in Mediobanca e Assicurazioni Generali, due partite queste ultime che non è riuscito a chiudere. Più, c'è da immaginare, una cospicua quantità di beni personali difficilmente individuabili. Essilux nel 2021 ha fatturato 21,4 miliardi (dopo aver acquisito la catena Grand Vision per 7 miliardi), esponendo all'ultima riga del bilancio un utile netto di 2 miliardi.
Quanto alla successione, un delfino vero e proprio non c'è. C'è però un'ampia famiglia, sei figli da tre donne diverse, distribuiti in un arco di età molto ampio, più una nipote prediletta. La cassaforte è la Delfin, con sede in Lussemburgo, le cui quote, gravate fino a ieri dall'usufrutto, sono state già distribuite. «Anche dopo di me disse ci sarà chi farà andar bene l'azienda: al punto in cui siamo dobbiamo solo gestire la crescita. La cosa che più mi preoccupa è che un domani, per una crisi, i miei dipendenti abbiano qualche problema. Loro sono stati la leva importante per costruire Luxottica».
Vittorio Feltri, il racconto degli eroi cresciuti negli orfanotrofi (e il terrore di finirci). Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 30 giugno 2022
A noi uomini di questi tempi assai bui non piacciono gli orfanotrofi, che consideriamo luoghi tetri nei quali si ricoveravano ragazzi sfortunati, rimasti senza almeno un genitore. Quando ero piccolo, avevo sei anni e mio padre era già morto, in casa venivo regolarmente minacciato: se non fai giudizio, caro bambino, ti mandiamo in collegio. Ero terrorizzato di finire davvero lì dove supponevo avrei patito sofferenze micidiali. La sera, quando andavo a letto, le donne da cui dipendevo mi costringevano a recitare le preghiere, esercizio che mi deprimeva anche perché mi richiamava la tetraggine dell'istituto riservato ai ragazzi rimasti senza genitori.
Fino a una certa età vissi col terrore di finire nelle oscure camerate dove trascorrevano le notti i miei coetanei più sfortunati. Peraltro confesso: odiavo gli orfani e il loro abbigliamento grigio. Li osservavo con orrore quando seguivano i funerali. Allora usava così. Se uno moriva, veniva accompagnato al cimitero non soltanto dai familiari, ma anche dagli orfanelli ingaggiati dai preti per gonfiare la schiera dei dolenti.
Io guardavo stupefatto il corteo, studiavo lo sguardo avvilito di coloro che sfilavano e speravo che mi fosse risparmiata l'umiliazione di seguire i feretri. Mi è andata bene, il destino mi ha evitato questo ti po di terribile e temuta penitenza. Sennonché, crescendo, lentamente ho cambiato idea in base ai fatti.
Mi sono accorto che gli allievi dei Martinitt sono diventati grandi, rafforzati probabilmente dalla solitudine. Il collegio milanese, dove essi hanno imparato un mestiere o hanno studiato, ha fornito alla società una schiera di professionisti indefessi e di rara abilità. Cito due esempi clamorosi. Il primo, Angelo Rizzoli. Entrò in comunità ancora fanciullo e non smise mai di lavorare, senza lamentarsi né tantomeno protestare. Imparò ben presto l'arte tipografica, della quale divenne maestro ineguagliabile. Poco meno che ventenne comprò a credito un piccolo capannone dove installò i macchinari che servivano per stampare. Nel giro di pochi mesi l'attività sotto la sua guida esplose, si ingrandì parecchio e divenne uno dei primi stabilimenti tipografici del capoluogo lombardo. Un miracolo. Ma Angelone Rizzoli non si accontentò del primo successo. Si gettò nel ramo editoriale e fondò una serie di giornali, tra cui Oggi, poi L'Europeo, Anna Bella, Novella Duemila, e li portò a mostruosi livelli di tiratura, competendo con Mondadori. La sua casa editrice non ebbe mai bisogno di crediti bancari, infatti il suo fondatore usò soltanto soldi suoi anche quando si impegnò nel settore cinematografico.
Ebbi l'onore di conoscere Angelo il vecchio, col quale conversai alcuni minuti. Mi disse: vedo che lei è timido e parla poco, vada avanti così e andrà lontano. In realtà sono ancora qui a scrivere, però sia pure dal buco della chiave sono riuscito a cavarmela. Allorché Rizzoli morì, pensai: senza di lui creperemo tutti. Non sbagliai di molto. Negli ultimi giorni se ne è andato un altro formidabile campione dei Martinitt, Leonardo Del Vecchio, un imprenditore straordinario che era diventato un numero uno già in collegio. Quando ne uscì era pronto per volare, e volò talmente in alto da diventare l'uomo più ricco d'Italia producendo occhiali. Una persona speciale e generosa che ha voluto bene ai suoi dipendenti, rara avis. Approfitto di questa circostanza per tessere l'elogio degli orfanotrofi, benché sia contento di averli evitati.
"Dipendere da altri? Meglio poco e subito. Il vizio degli italiani è fare il lavoro altrui". Marcello Astorri il 28 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il fondatore di Luxottica non aveva rimpianti: "Solo quando vedo qualcuno con altri occhiali. Il successo è merito di chi lavora per me".
«Una volta essere garzoni era diverso, oggi c'è il rispetto ma allora non ti chiamavano neanche per nome». Leonardo Del Vecchio l'esperienza da garzone, in un negozio di medaglie e distintivi, l'ha fatta per tre anni e mezzo da ragazzino. Quel garzone è poi diventato uno dei più brillanti esponenti del capitalismo italiano: dall'impero costruito con la sua Luxottica, alle partecipazioni in Generali e Mediobanca.
Un uomo famoso per l'etica del lavoro e l'amore per la sua creatura: «Luxottica non mi hai mai dato rimpianti, l'unico rimpianto che ho è quando incontro qualcuno per strada con addosso un occhiale che non è nostro».
Partito da un collegio a cui era stato affidato da bambino, pezzo dopo pezzo ha messo in piedi un colosso dell'occhialeria mondiale. In Luxottica la venerazione per Del Vecchio è palpabile. E lui non ha mai perso occasione per coccolare i suoi dipendenti: «Anche dopo di me, ci sarà sicuramente qualcuno che farà andare bene l'azienda», ha detto in una recente videointervista. «La cosa che più mi preoccupa è che non succeda, un domani, una crisi che crei problemi ai miei dipendenti, loro sono stati una leva importante per la crescita di Luxottica».
La sua è una carriera imprenditoriale caratterizzata da una grande paura, che ha raccontato così: «Ho sempre odiato dipendere dagli altri, ho sempre preferito il poco e subito ma che fosse determinato da me». Questa è un aspetto che ha profondamente segnato anche le tappe di sviluppo della sua azienda, passata da semplice terzista, a diventare un produttore di occhiali e poi anche un distributore. «Un anno un nostro fornitore americano venne da noi e ci ordinò meno occhiali per la stagione successiva», raccontò una volta Del Vecchio. «Cominciai a pensare che anche gli altri distributori avrebbero potuto farci uno scherzo simile. Così decisi di comprare i distributori che più mi piacevano, che poi era l'ultimo passo per arrivare direttamente al pubblico». Poco importa se poi ci sono voluti quattro anni per tornare a vendere bene in America il marchio Ray-Ban, uno dei più famosi dell'azienda fondata ad Agordo nel 1961.
Lui, che di figli ne ha avuti sei, non ha mai voluto che sedessero con lui nel cda. «I figli non devono avere responsabilità apicali in azienda», ha spiegato. «La ragione è molto semplice, un manager lo puoi licenziare, anche se costa parecchio, un figlio no». Una scelta strana per il Paese del capitalismo familiare, ma che rivela la parte innovativa e più forte del suo carattere. Anche nella partita delle Generali, a cui anche di recente avrebbe voluto cambiare governance insieme a Francesco Gaetano Caltagirone, non ha mai risparmiato opinioni puntute. Nel 2012, infatti, lasciò il cda del Leone, per poi arrivare a criticare pesantemente la gestione dell'allora ad Giovanni Perissinotto. «Sono uscito dal consiglio delle Generali perché quando da assicuratori si vuole diventare finanzieri non si fa un buon servizio all'azienda. Purtroppo è un vizio nazionale: tutti vogliono fare il mestiere di altri».
DAGONEWS il 29 giugno 2022.
L’ottuagenario Leonardo Del Vecchio era ricoverato da oltre un mese al San Raffaele di Milano per una polmonite bilaterale, affidato alle cure di Alberto Zangrillo.
Tra un bagno e una gitarella sul suo mega-yacht Moneikos, il fondatore di Luxottica era stato colpito da un “insulto al cuore” nella sua villa di Beaulieu, in Costa Azzurra, dove trascorreva ormai gran parte del suo tempo, per trasferirsi poi ogni settimana, martedì e mercoledì, via elicottero, nella sua casa milanese in piazza San Fedele.
Al San Raffele, durante la degenza, accudito quotidianamente dalla moglie, l’italiano più ricco de’ noantri si era fatto portare nella sua stanza di degenza il suo letto da una piazza e mezza e la sua poltrona preferita, così ha potuto seguire sia i successi del suo impero Delfin che vale 30 miliardi sia le vicissitudini (fallite) per la conquista dei vertici della Generali Assicurazione del suo partner Francesco Gaetano Caltagirone, ma soprattutto il garbuglio (frustato dalle regole bancarie della Vigilanza Bce) per l’espugnazione di Mediobanca (che ha in tasca il 13% del Leone di Trieste).
La morte di Del Vecchio all’età di 86 anni piomba come un fulmine sulla partita di piazzetta Cuccia, che il paperone di Agordo intraprese malvolentieri (per 25 anni ha avuto sempre buoni rapporti con la banca d’affari di Cuccia) e lo fece soprattutto su sollecitazione del suo delfino Francesco Milleri, che gli fece sognare il ritorno del “salotto buono” sotto la sua corona di martinitt.
Sotto sotto, Milleri ha sempre malsopportato (eufemismo) l’ad di Mediobanca Alberto Nagel, per vecchie ruggini inerenti la sua società. Un’ostilità che si trasformò in astio quattro anni fa, all’epoca della fallita presa del gruppo sanitario milanese dello IEO e del Monzino da parte della Delfin. Non bastò un assegno di 500 milioni di euro firmato da Del Vecchio per far capitolare il duo Nagel-Pagliaro.
E iniziò la battaglia di Milleri contro Nagel, con l’avvocato Sergio Erede in prima fila, così accecato dai numeri delle parcelle di essere sicuro che la Bce avrebbe concesso alla Delfin di Del Vecchio l’autorizzazione a prendersi Mediobanca e tutto il cucuzzaro.
Del Vecchio e Milleri non avevano compreso bene che il Potere, quello con la P maiuscola, non è una montatura e non è dato dai miliardi sul conto corrente ma dal peso delle relazioni finanziarie, dall’intreccio dei rapporti politici, dalla rete di alleati, dalle proprietà editoriali. Così, il paperone di Agordo, dopo aver scucito la sommetta di 5 miliardi (3 su Generali e 2 su Mediobanca), è morto con il cruccio, instillato da Milleri, di non essere riuscito a riportare Mediobanca ai fasti di Cuccia.
A questo punto, tutto il mondo della finanza è goloso di sapere se i sette eredi permetteranno ancora al vispo Milleri di continuare a gettare miliardi sulla irta strada che porta a espugnare Mediobanca, conquistare Generali e cacciare Nagel da tutte le banche del regno o magari i sette discendenti lo convinceranno a cambiare idea.
Morto Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica. Libero Quotidiano il 27 giugno 2022
È morto il fondatore di Luxottica e presidente di EssilorLuxottica, Leonardo Del Vecchio. L'imprenditore aveva 87 anni. Lo riferiscono fonti mediche. Del Vecchio era ricoverato in terapia intensiva al San Raffaele da diverse settimane per una polmonite.
Secondo uomo più ricco d'Italia secondo la classifica di Forbes, era stato insignito Cavaliere del Lavoro nel 1986.
Vero principe dell'imprenditoria italiana Del Vecchio è stato un "self made man". Nato a Milano il 22 maggio del 1935 da una famiglia di origine pugliese; orfano di padre ancora molto piccolo viene affidato dalla mamma al collegio dei martinitt dove rimane fino al diploma di scuola media. All'età di 15 anni va a lavorare come garzone alla Johnson, una fabbrica produttrice di medaglie e coppe. I proprietari della fabbrica lo spingono a iscriversi ai corsi serali all'Accademia di Brera per studiare design e incisione. Del Vecchio lascia la fabbrica dove ha imparato il mestiere e ha scoperto la sua passione del 'creare' e apre una piccola bottega a Agordo, in provincia di Belluno.
Nel giro di soli tre anni la bottega diventa Luxottica, produttrice di semilavorati per altri produttori che poi assemblano gli occhiali finiti, con 14 dipendenti e ben presto un'ottima fama. Nel 1967 Del Vecchio decide di fare il grande passo e comincia a produrre la propria linea di occhiali con il marchio Luxottica: il business cresce sempre di più e si amplia nel mercato Usa. Dal 1995 Luxottica è il maggior produttore e distributore sul mercato ottico mondiale (marchi di culto come i Ray Ban fanno capo al gruppo): arriva prima la quotazione a New York poi nel dicembre 2000 a Milano. Via via fino alla fusione con la francese Exilor che porta il gruppo verticalmente integrato al top del settore a livello globale.
La statura di Del Vecchio come imprenditore capace e "illuminato" si nutre di decisioni come quella di regalare per i suoi 80 anni 40mila azioni, dal valore complessivo di circa 9 milioni di euro, agli 8mila dipendenti italiani del gruppo. Già nel 2011 per i 50 anni di Luxottica ai dipendenti furono assegnate azioni gratuite per un valore complessivo di 7 milioni di euro.
Un capitolo a parte merita la successione ereditaria strettamente legata alla vita privata del fondatore di Luxottica che ha sei figli: Claudio (a capo del gruppo Brooks Brothers), Marisa e Paola, nati dal primo matrimonio con Luciana Nervo; Leonardo Maria, avuto con la seconda moglie Nicoletta Zampillo, dalla quale Del Vecchio si è separato ma che ha poi risposato; Luca e Clemente, nati dalla relazione con Sabina Grossi, ex investor relator del gruppo.
Leonardo Del Vecchio, una galassia da 30 miliardi: soldi, quello che pochi sanno. Francesca Vercesi su su Libero Quotidiano il 29 giugno 2022
È morto Leonardo Del Vecchio. Il fondatore di Luxottica e presidente esecutivo della multinazionale EssilorLuxottica, gigante mondiale di lenti e montature per occhiali, aveva 87 anni, compiuti lo scorso 22 maggio. Era ricoverato al San Raffaele di Milano a causa di una polmonite e lì si è spento ieri mattina, lunedì 27 giugno. Lascia un patrimonio stimato in circa 30 miliardi di euro che spazia da EssilorLuxottica, alle partecipazioni finanziarie in Generali e Mediobanca, agli immobili della francese Covivio. Una eredità che ora andrà divisa fra gli eredi secondo un piano di successione già definito.
CASSAFORTE DELFIN
La società a cui fa capo tutto l'impero di Del Vecchio è la Delfin, holding lussemburghese (di cui lui possedeva il 25%) che conta quasi 11 miliardi di attivi, 254 milioni di liquidità e 4,8 miliardi di capitale e riserve che custodisce le partecipazioni in EssilorLuxottica (32,2%), l'azienda immobiliare Covivio (26%), Mediobanca (19,4%), Generali (9,82%), Luxair (13%), lo Ieo (Istituto europeo di oncologia) con il 18,4% e Unicredit (1,9%).
Una successione tutt' altro che scontata. Intanto, perché la complessità della progenie (sei figli da tre mogli) rende davvero compito arduo capire chi dovrà succedergli anche perchè, come in molta imprenditoria italiana, ha faticato in vita a staccarsi dalla gestione del suo patrimnio mantenendo fino alla morte il suo controllo e rendendo cosi difficile la designazione di un erede. Aposto Luxottica fusa con Essilor in un gruppo con sede in Francia dove comanda un azionista italiano, un fatto quanto mai raro per la nostra impresa, pubblica e privata. A posto la parte successoria con scelte già definite per i figli e la moglie. A posto i grandi investimenti immobiliari in Covivio. Se il quadro societario è definito resta invece ancora aperto il match su Mediobanca, che può coinvolgere anche Generali, della quale piazzetta Cuccia è primo azionista.
Una partita che Del Vecchio ha condiviso con Francesco Milleri, l'uomo che ha scelto per il comando operativo di EssilorLuxottica, lo stesso manager che a breve potrebbe entrare in Delfin con il ruolo di successore e di equilibratore tra le diverse componenti della famiglia. E il quadro con il quale la nuova Delfin si confronterà è quello posto dalla Bce: l'holding dei Del Vecchio, se vuole salire oltre il 20% di Mediobanca, deve trasformarsi in un soggetto bancario. O allearsi strettamente con una banca. Piazzetta Cuccia ha chiuso il prestito titoli ed è tornata azionista di Generali con il 12,7% dopo aver vinto la prima partita contro Caltagirone-Del Vecchio-Crt. Quindi per conquistare Generali la strada maestra resta quella di controllare Mediobanca. La holding dei Del Vecchio per ora rimane al 19,4% di piazzetta Cuccia e può guardare alla prossima assemblea per ottenere qualche risultato. Il cda scade invece nell'ottobre 2023: è possibile che i sei figli più l'ultima moglie di Del Vecchio condividano la stessa passione per gli investimenti nel mondo finanziario? La risposta verrà dalle prossime mosse di Delfin, che ha già impostato la sua strategia. Con due possibilità: spostare la quota detenuta in Mediobanca in un'apposita holding bancaria o allearsi con un grande gruppo del credito per crescere.
I PROSSIMI DOSSIER
Improbabile che l'alleato possa essere Unicredit guidato da Orcel, che anzi è uscito da Mediobanca. Sondata per ora senza definizioni concrete Intesa, che cinque anni fa studiò la conquista di Generali attraverso un'offerta pubblica di scambio, poi mai lanciata. Secondo diverse fonti finanziarie, oggi per Delfin l'obiettivo principale sarebbe una cordata con un grande istituto bancario per poi rilanciare, anche attraverso economie di scala, le attività di Mediobanca e le grandi masse gestite da Generali. La Borsa per ora vede comunque una ridotta combattività sui due gruppi: Mediobanca è scesa in Piazza Affari del 2,1% e Generali del 3%. Debole anche EssilorLuxottica a Parigi, dove il titolo ha chiuso in ribasso del 2,2%. «Del Vecchio ha creato una delle più grandi aziende del Paese», ha ricordato il presidente del Consiglio, Mario Draghi «partendo da umili origini, dall'accoglienza presso l'orfanotrofio dei Martinitt a Milano. È stato un grande italiano: ha portato la comunità di Agordo e il Paese intero al centro del mondo dell'innovazione». «Ne sentirò la mancanza come amico, come imprenditore e come uomo di principi», ha aggiunto tra gli altri Francesco Gaetano Caltagirone, che ha «sempre apprezzato la sua lealtà, la sua voglia di lavorare per il bene dell'azienda».
Del Vecchio: Consulenti lavoro, profondo cordoglio, addio a modello imprenditoria italiana. Il Dubbio il 27 giugno 2022.
(Labitalia) - I consulenti del lavoro esprimono profondo cordoglio per la scomparsa di Leonardo Del Vecchio, patron del gruppo Luxottica e presidente del gruppo Essilux, protagonista da oltre sessant’anni della scena imprenditoriale italiana. Correva l’anno 2017 quando Del Vecchio, [...]
I consulenti del lavoro esprimono profondo cordoglio per la scomparsa di Leonardo Del Vecchio, patron del gruppo Luxottica e presidente del gruppo Essilux, protagonista da oltre sessant’anni della scena imprenditoriale italiana. Correva l’anno 2017 quando Del Vecchio, alla guida dell’azienda che conquistò negli anni il settore dell’occhialeria, varò il welfare ‘su misura’ dei bisogni e delle esigenze dei lavoratori. Affidandosi a un’indagine sulle opinioni dei propri dipendenti, riuscì così a realizzare un programma di welfare aziendale con il lavoratore al centro. Un imprenditore che ha sempre creduto che i risultati migliori si raggiungono con la passione per il proprio lavoro, la tenacia e il lavoro di squadra. E’ quanto si legge in una nota del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro.
“Il mondo dell’imprenditoria italiana perde uno straordinario rappresentante, un uomo visionario, che ha messo al centro della sua organizzazione il valore delle persone, il legame emozionale con l’azienda e il senso di comunità”, ha affermato la presidente del Consiglio nazionale dell’ordine dei consulenti del lavoro, Marina Calderone, commentando la notizia della scomparsa del patron di Luxottica.
Aveva 87 anni. Morto Leonardo Del Vecchio, il fondatore dell’impero Luxottica: dall’orfanotrofio a uomo più ricco d’Italia. Redazione su Il Riformista il 27 Giugno 2022.
Uno degli uomini più ricchi d’Italia, capace di costruire un impero economico partendo da una piccola fabbrica in provincia di Belluno dove costruiva montature per occhiali. È stato questo e molto altro Leonardo Del Vecchio, l’imprenditore e fondatore di Luxottica, morto lunedì mattina all’ospedale San Raffaele di Milano all’età di 87 anni.
Da quella piccola fabbrica nel Bellunese, Del Vecchio aveva tirato su un modello imprenditoriale unico: la sua Luxottica è diventata un gigante a livello mondiale, la più grande holding produttrice e venditrice mondiale di occhiali e lenti che conta circa 80.000 dipendenti e oltre 9.000 negozi, consentendogli di sbarcare nel mondo dell’alta finanza italiana come maggior azionista di Mediobanca oltre che di Generali.
La sua ricchezza al 10 aprile 2022 è stata valutata dalla rivista Forbes per circa 27,3 miliardi di dollari, rendendolo il secondo uomo più ricco d’Italia e il 62º al mondo.
La straordinaria carriera
Nato nel 1935 a Milano da genitori emigrati dalla Puglia, da bambino ha vissuto nell’orfanotrofio dei Martinitt dopo la morte del padre, esperienza, quella di crescere senza famiglia, che come racconterà lo stesso imprenditore “è qualcosa che non si può spiegare, se non lo si è vissuto. Ti segna”.
A 15 anni va a lavorare come garzone alla Johnson, una fabbrica produttrice di medaglie e coppe, i cui proprietari lo spingono a iscriversi ai corsi serali all’Accademia di Brera per studiare design e soprattutto incisione. La svolta a 22 anni, quando si si trasferisce a Pieve Tesino, un piccolo paese del Trentino, dove trova lavoro come operaio in una fabbrica di incisioni metalliche. Da lì il passaggio ad Agordo, nel Bellunese, dove apre una bottega di montature per occhiali che nel 1961 diventa Luxottica, dando inizio ad una storia di incredibile successo.
Negli anni ’80 il primo sbarco nel mercato americano, dieci anni dopo la quotazione alla Borsa di New York che certifica Luxottica come maggior produttore e distributore sul mercato ottico mondiale, anche grazie alle acquisizioni di marchi come Persol, Ray-Ban, Oakley.
La vita privata
Del Vecchio è stato sposato tre volte. Dalla prima moglie Luciana Nervo ha avuto tre figli: Claudio, Marisa e Paola. Nicoletta Zampillo è la seconda e terza moglie di Del Vecchio, sposata nel 1997 e risposata poi nel 2010: da lei Del Vecchio ha avuto il quarto figlio, Leonardo Maria. Nel mezzo la relazione con Sabina Grossi, che non ha sposato, e da cui ha avuto due figli, Luca e Clemente.
Luca Gualtieri per milanofinanza.it il 27 giugno 2022.
La scomparsa di Leonardo Del Vecchio pone un'ipoteca sul futuro di un impero finanziario che nell'estate scorsa valeva quasi 30 miliardi in termini di ricchezza azionaria. Un futuro che passerà attraverso i delicati equilibri di Delfin, la holding lussemburghese con quasi 11 miliardi di attivi, 254 milioni di liquidità e 4,8 miliardi di capitale e riserve che custodisce le partecipazioni in EssilorLuxottica (32,2%), Covivio (26%), Mediobanca (19,2%), Generali (9,82%) e Unicredit (1,9%).
I soci di Delfin
Di Delfin Del Vecchio deteneva direttamente il 25% e possedeva diritto di usufrutto e quindi di voto per il restante 75% del capitale la cui proprietà risulta equamente divisa fra i sei figli, tutti con quote paritetiche del 12,5%: Claudio, Marisa, Paola, Leonardo Maria, Luca e Clemente. Un accordo raggiunto nel 2016 prevedeva poi che, in caso di scomparsa, il 25% detenuto dall'industriale passasse all'ultima moglie Nicoletta Zampillo. Non solo.
Lo scorso anno l'assemblea della holding ha deliberato alcune importanti modifiche statutarie che avrebbero dovuto favorire la successione: tali modifiche attribuiscono al fondatore di Luxottica la facoltà di indicare con atto scritto il suo delfino, che potrà essere anche un manager esterno alla compagnia.
Le modifiche per favorire la successione
«Nel caso in cui il Leonardo Del Vecchio cessi di detenere più del cinquanta per cento (50%) dei diritti di voto della società o di essere il dirigente A della stessa (anche in caso di incapacità)», recitavano i nuovi articoli dello statuto, l’imprenditore «sarà automaticamente sostituito, con effetto dalla data in cui cessa di detenere più del cinquanta per cento (50%) dei diritti di voto della società o cessa dalla carica, dalla persona eventualmente da lui designata in una dichiarazione scritta indirizzata al consiglio di amministrazione della società».
Questi entrerà a far parte del board della holding e concorrerà alla gestione con gli altri amministratori. Contestualmente, peraltro, è stato previsto un rafforzamento del cda di Delfin per dare stabilità alla gestione e assicurare rappresentanza. «In assenza di tale designazione» il nuovo statuto prevede poi che Del Vecchio sia sostituito «dal più alto in grado» dei tre osservatori previsti dallo statuto, oppure, «in assenza di tale osservatore, dalla persona che sarà designata con delibera dell’assemblea generale degli azionisti con la maggioranza» dell’88%, ossia sostanzialmente all’unanimità.
Il ruolo di Milleri
Quando le delibere sono diventate di pubblico dominio, molti hanno ipotizzato che facessero riferimento a Francesco Milleri. Manager e consulente molto vicino a Del Vecchio, Milleri è amministratore delegato di EssilorLuxottica e siede nei cda della Fondazione Leonardo Del Vecchio e dello Ieo Monzino. Sarà lui a prendere le redini di Delfin e, quindi, dell'impero? L'opzione ha certamente alte probabilità, anche se per il momento nulla trapela dalla famiglia. Di sicuro, come spesso accade nelle grandi dinastie, il passaggio sarà molto delicato e il rischio di tensioni tra i diversi rami della famiglia non andrò sottovalutato.
Da “la Repubblica” il 30 luglio 2022.
Caro Merlo, davvero opportuno il ricordo di Leonardo Del Vecchio, anzi Bel Vecchio, grande imprenditore e innovatore. Al di là della destinazione delle ricchezze, stimate in 25 miliardi di dollari, è importante sapere che gli eredi in Germania pagherebbero un'imposta di successione pari al 30%, negli Usa e in Gran Bretagna il 40%, in Francia il 45%. In Italia il 4%. Giuseppe Como - Milano
Risposta di Francesco Merlo: Queste percentuali non raccontano solo di una bella generosità del fisco italiano che, addirittura, nelle eredità sotto il milione di euro, non prevede alcuna tassa per i parenti. Ma dietro questa generosità si nasconde anche la demagogia. Quando infatti Enrico Letta, nel maggio del 2021, propose di aumentare la tassa, ma solo per le eredità superiori ai 5 milioni di euro (vale a dire, appena l'un per cento degli italiani), e finanziare la formazione dei neomaggiorenni con una dote di 10mila euro, il centrodestra insorse unanime: "La sinistra vuole mettere le mani nelle tasche degli italiani". E Mario Draghi, davanti a una delle prime turbolenze del suo governo, se la cavò così: "Questo non è il momento di prendere i soldi dai cittadini, ma di darli". In realtà, come il caso Del Vecchio illustra bene, in Italia i cittadini agevolati sono soprattutto quelli che non ne hanno bisogno.
Michele Serra per “la Repubblica” il 30 luglio 2022.
L'eredità di Leonardo Del Vecchio, anche per la sua favolosa consistenza - stiamo parlando di miliardi di euro - è destinata ad alimentare infinite chiacchiere e illazioni: sei figli da tre donne diverse, mogli, ex mogli, compagne, costituiscono un notevole rebus ereditario. Risulta che il defunto, evidentemente persona di grande misura, abbia lasciato disposizioni eque e precise (come non molti uomini ricchi, e dalla vita movimentata, sono stati capaci di fare), in modo da mettere gli eredi al riparo da ogni possibile dissidio e ogni possibile gossip.
Rimane sullo sfondo la vera domanda che questi colossali passaggi di fortune suscitano: che rapporto c'è tra il merito individuale, il valore professionale, e il vincolo familiare? Posto che (sia detto con tutto il rispetto per i protagonisti) di sei figli un paio siano geniali, un paio un po' meno, un paio ancora meno, in conseguenza di quale merito ereditano, tutti assieme, un impero? Si capisce che le esigenze di integrità aziendale e patrimoniale richiedono la debita protezione, così che non si disperda il lascito.
Risulta però macroscopica, nonché irrimediabile, la differenza di nascita tra il figlio del miliardario e il figlio del povero cristo, del tutto indipendentemente dalle qualità personali. Si parlò molto, qualche anno fa, di uno studio di due economisti di Bankitalia, Barone e Mocetti, dal quale sortiva che a Firenze le famiglie oggi più ricche sono le stesse del Rinascimento (più o meno 25 generazioni fa). Questo fa supporre che in futuro il Paese più civile, nonché il più dinamico socialmente, con ogni probabilità sarà quello in cui le tasse di successione sono più alte.
(ANSA il 2 luglio 2022) - E' ripartito in parti uguali tra la moglie e i figli l'assetto societario della Delfin, la cassaforte della famiglia Del Vecchio. Lo rende noto la stessa Delfin, a seguito dell'apertura delle disposizioni testamentarie di Leonardo Del Vecchio, morto lo scorso 27 giugno. Sia la moglie, Nicoletta Zampillo Del Vecchio, che i figli, compreso Rocco Basilico, figlio della moglie di Del Vecchio, risultano titolari del 12,5%
(ANSA il 2 luglio 2022) – Nel testamento Leonardo Del Vecchio non ha indicato chi dovrà prendere il suo posto di presidente di Delfin, la cassaforte della famiglia. A norma di statuto deciderà il cda se nominare un presidente o meno. Il Consiglio di amministrazione della Delfin si riunirà a breve per recepire il nuovo assetto azionario e per prendere atto dell'integrazione dell'organo amministrativo. Lo si legge in una nota di Delfin, secondo cui "non sono state comunicate altre disposizioni testamentarie".
Del Vecchio, il testamento: l’impero diviso in otto parti uguali. Entra Rocco Basilico. Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera il 02 Luglio 2022.
A due giorni dalla cerimonia d’addio a Leonardo Del Vecchio, la famiglia si è riunita per ascoltare le volontà lasciate. Allo studio Zabban Notaro è stata aperto il file testamentario alla famiglia che ha appreso il nuovo assetto societario della cassaforte Delfin. Uno schema rivisto probabilmente rivisto probabilmente negli ultimi tempi.
La vedova Nicoletta Zampillo che doveva essere destinataria del 25% della Delfin avrà il 12,5%, l’altro 12,5% andrà a suo figlio Rocco Basilico, 33 anni, nato dal matrimonio con il banchiere Paolo Basilico. In questo quadro, ogni erede — 8 in tutto — avrà quote paritetiche del 12,5% nell’ambito di una distribuzione paritetica.
Rocco Basilico è già inserito nell’organizzazione di Essilux nel ruolo di Chief wearable officer. Vive a Los Angeles dove tiene i rapporti con Meta per la realizzazione dei Ray-Ban Stories, gli occhiali connessi, già in commercio. Così come lo è anche Leonardo Maria Del Vecchio — figlio di Nicoletta Zampillo e di Del Vecchio — che nel gruppo è responsabile del retail Italia e anche amministratore delegato di Salmoiraghi & Viganò. Sono gli unici due eredi del Cavaliere al lavoro nel gruppo.
Nel testamento Leonardo Del Vecchio non ha indicato chi dovrà prendere il suo posto di presidente di Delfin, la cassaforte della famiglia. A norma di statuto deciderà il cda se nominare un presidente o meno. Il Consiglio di amministrazione della Delfin si riunirà a breve per recepire il nuovo assetto azionario e per prendere atto dell’integrazione dell’organo amministrativo. Lo si legge in una nota di Delfin, secondo cui «non sono state comunicate altre disposizioni testamentarie».
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I funerali di Del Vecchio, la moglie Nicoletta Zampillo: «I dipendenti erano come figli». Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera l'1 luglio 2022
«Leonardo, il vostro presidente, il vostro amico, il vostro padre per i figli. Vorrebbe che io dicessi che lui sarà sempre qui con voi, che potrà riuscire a darvi dei consigli e tanti ve ne ha già dati», con le parole della vedova Nicoletta Zampillo Del Vecchio è iniziata la cerimonia. Unita la dinastia davanti alla platea di persone arrivate ad Agordo per dare l’ultimo saluto a Leonardo Del Vecchio, l’imprenditore che ha fondato la multinazionale degli occhiali Essilux proprio partendo da qui. Oltre tremila quelle raccolte nel PalaLuxottica. Un numero ben più grande in realtà perché erano collegati i dipendenti da Agordo fino a Tokyo e Sidney. Davanti alla platea, i gonfaloni di Agordo, Belluno e del Veneto. Perché Del Vecchio ha costruito qui «la fabbrica, arrampicata sulle terre alte delle Dolomiti», come le ha descritte il vescovo di Belluno Renato Marangoni durante l’omelia.
Ha parlato soprattutto la famiglia. Parole di incoraggiamento, rivolte in special modo ai dipendenti. «Dovete essere forti, determinati nell’andare avanti», ha aggiunto la vedova in un succedersi di ricordi espressi anche dai figli dell’imprenditore. A partire da quello del primogenito Claudio, affiancato da Paola, Marisa, Leonardo Maria, Luca e Clemente. È lui che ha voluto raccontare le ultime parole del padre. «Era in ospedale e il suo volto si è illuminato quando gli ho comunicato che andavo ad Agordo. Mi ha detto: ‘La fabbrica, è così bella adesso’». La commozione ha fatto alzare in piedi la platea. «Vi ha spinto, tirato e incoraggiato e lo avete ripagato con sforzo e attaccamento, ha continuato Claudio —. Ha preso dei rischi che altri imprenditori non hanno voluto mai correre, perché sapeva che c’eravate voi». Sono stati alcuni tra i momenti più intensi di una cerimonia animata da affetto, stima e riconoscenza. I dipendenti sempre in prima posizione con il Circolo dei pensionati che ha vegliato Del Vecchio fino alle 6 di mattina.
C’erano gli imprenditori, tanti del settore: Vittorio Tabacchi della famiglia che ha fondato Safilo, e Cirillo Marcolin. Poi era presente Luciano Benetton, con il figlio Alessandro —, che come Del Vecchio è stato pioniere nel fare impresa. Poi, Domenico Dolce e i manager di Armani, partner negli occhiali di lusso, in una sorta di grande alleanza nel made in Italy.
In prima fila anche il mondo della finanza. Dal ceo di Mediobanca Alberto Nagel, accompagnato dal presidente Renato Pagliaro, ad Andrea Sironi, presidente di Generali («visionario, generoso, un azionista importante») e Francesco Gaetano Caltagirone — l’imprenditore a fianco del quale è entrato nella partita sul Leone di Trieste, sempre con un obiettivo: creare campioni. Poi, l’avvocato Sergio Erede e il notaio Mario Notaro, nel board Delfin.
E dell’impegno di Del Vecchio ha parlato anche Rocco Basilico, nato dal matrimonio tra Nicoletta Zampillo e Paolo Basilico, che da Los Angeles segue gli accordi con Meta: «Ha costruito un tetto solido come una roccia, il suo impegno era di far crescere un gruppo grande, niente a che vedere con la ricchezza».
Erano presenti tre generazioni di dipendenti: i più anziani, i loro figli, sempre al lavoro nel gruppo, e i loro bambini che già guardano a Essilux. Tra le lacrime sono arrivate le parole di Leonardo Maria, figlio di Nicoletta e Leonardo Del Vecchio, che guida il retail in Italia: «Mi ha regalato i sette anni più felici della mia carriera nel gruppo».
Non ha parlato in pubblico il management guidato dal ceo Francesco Milleri, appena nominato anche presidente e quindi successore del fondatore e che ha in mano le leve operative e strategiche per condurre la multinazionale verso una nuova fase di sviluppo. Ha lasciato spazio alla famiglia. Che nei prossimi giorni sarà chiamata ad ascoltare le volontà del fondatore.
L'ultimo saluto a Del Vecchio "Sarai sempre qui con noi". Stefano Zurlo l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.
Alle esequie di mr Luxottica il gotha della finanza ma anche operai e maestranze. Il dolore della vedova
Le lacrime. Gli abbracci. Gli applausi. Quello più lungo alla fine, quando il feretro lascia il Palaluxottica. Ci sono l'alta finanza, pezzi del gotha industriale e il popolo operaio. Sì, il funerale di Leonardo Del Vecchio, colorato da un mare di magliette blu, è anche una festa di popolo. Cinquemila persone arrivate fin lassù.
Qualcosa di simile era accaduto solo pochi mesi fa, non lontano da qui, sempre in Veneto, a Tombolo, con le esequie commosse e partecipate di un altro grande del capitalismo italiano, Ennio Doris.
Per un pomeriggio Agordo è la capitale del Paese e le cime incantate delle Dolomiti fanno da sfondo alla celebrazione di una saga irripetibile. A partire dagli anni Sessanta una valle periferica e povera diventa un avamposto del genio tricolore.
E ancora di più: perché gli occhiali di Agordo valicano i confini del distretto e conquistano il mondo.
Difficile riassumere un'epopea. La dimensione privata e quella globale. «Ricordo le ultime parole che mi ha detto papà - spiega il figlio Claudio Del Vecchio - durante la mia ultima visita in ospedale. Gli ho detto che sarei andato ad Agordo per vedere la fabbrica e allora il suo viso si è illuminato e con un sorriso bellissimo mi ha detto: La fabbrica è così bella adesso».
Il congedo di un patriarca. Semplice nella sua visionarietà. Ma era un patriarca che ancora poche settimane fa, a 87 anni, combatteva per scompaginare e ridisegnare gli assetti del salotto buono ed era entrato con piglio e senza alcun timore reverenziale nei santuari di Mediobanca e Generali. Ad Agordo ci sono anche alcuni generali di questa guerra ancora in pieno svolgimento: ecco Francesco Gaetano Caltagirone, compagno di cordata, e poi l'amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel. Insomma, un pezzo del potere, per definizione riservato se non invisibile, mischiato alle maestranze che hanno seguito il metronomo per sessant'anni.
Perché Del Vecchio teneva insieme miracolosamente anche nella sua biografia, da Martinitt senza padre a secondo uomo più ricco d'Italia con un patrimonio di circa 25 miliardi di dollari, tutto questo. E il presidente di Generali Andrea Sironi scolpisce con poche parole un ritratto indelebile del fondatore di Luxottica: «Era un azionista importante del nostro gruppo, forse il più grande imprenditore italiano di tutti i tempi». Ad Agordo ci sono capitoli interi della storia e delle relazioni industriali del Belpaese: ecco lo stilista Domenico Dolce, l'avvocato Sergio Erede e poi Luciano Benetton con il figlio Alessandro, due generazioni di una delle dinastie del Nordest. «Anche quando la corrente sembrava andare in un'altra direzione - nota Alessandro - lui sapeva proseguire dritto».
Certo, il giorno dell'addio rischia sempre di prendere le tonalità dell'agiografia, ma gli episodi che vengono raccontati, nel corso della cerimonia o davanti alle telecamere, sono tutti veri. C'è un dipendente che rievoca la sorpresa provata negli anni Novanta quando vide quel personaggio, ormai famoso, in ginocchio nel suo ufficio per spostare alcuni macchinari. Senza preoccuparsi di sporcare il vestito della festa che aveva indossato quella mattina. Il ministro per i rapporti con il parlamento Federico d'Incà illumina un altro paragrafo: «Ha salvato Ceramica Dolomite, capendo l'importanza di quelle persone che lavorano». Le stesse che hanno ricevuto le azioni del gruppo e un welfare all'avanguardia. A tutte si rivolge la vedova Nicoletta Zampillo: «Leonardo, il vostro presidente, il vostro amico, il vostro padre, vorrebbe che io dicessi che sarà sempre qui con voi». Una storia finisce, l'avventura continua.
Daniela Polizzi per il “Corriere della Sera” il 3 luglio 2022.
«Ha costruito un tetto solido come una roccia, il suo impegno era di far crescere un gruppo grande. Niente a che vedere con i soldi e il successo». Durante la cerimonia di addio a Leonardo Del Vecchio, che si è svolta giovedì scorso ad Agordo, Rocco Basilico ha anche raccontato che i sette anni di lavoro nel gruppo Essilux «sono stati i più belli della mia vita. Leonardo era un uomo non ordinario». Ha 32 anni ed è nato dal matrimonio tra Paolo Basilico, il banchiere che ha fondato il gruppo Kairos, e Nicoletta Zampillo, che ha sposato poi in seconde nozze Del Vecchio.
Con il 12,5% del capitale di Essilux, ricevuto a sorpresa in base alle volontà del fondatore del gruppo dell'occhialeria, Rocco Basilico entra ora nel capitale della cassaforte lussemburghese Delfin. E arricchisce anche la schiera degli eredi più giovani dell'imprenditore nel capitale di Delfin. Tra gli eredi, solo Rocco e Leonardo Maria Del Vecchio, l'altro figlio di Nicoletta Zampillo, lavorano in azienda.
Rocco, laurea all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Economia, è entrato nel gruppo nel 2013 e da allora ha fatto molteplici esperienze, fino a diventare nel 2016 amministratore delegato di Oliver Peoples, marchio nato nel 1987 in California e acquistato da Luxottica nel 2007. È già inserito nell'organizzazione di Essilux nel ruolo di chief wearable officer.
Vive a Los Angeles dove tiene i rapporti con Meta per la realizzazione dei Ray-Ban Stories, gli occhiali connessi, già in commercio. Era al fianco di Mark Zuckerberg quando il gruppo ha presentato gli smart glass al pubblico. Rocco fa parte quindi di quella rivoluzione tecnologica avviata nel gruppo con l'arrivo di Francesco Milleri, prima come consulente, ora come ceo e presidente di Essilux.
Un cambiamento profondo che ora continua, facendo anche riferimento alla nuova generazione della famiglia. Leonardo Maria Del Vecchio è invece a capo del retail in Italia, un altro pilastro dell'architettura voluta dal fondatore per l'azienda che produce occhiali. «Ho potuto conoscere la famiglia che si chiamava Luxottica o meglio Essilux come gli piaceva chiamarla, ha detto leonardo Maria ad Agordo -. Ora bisogna renderlo fiero e non c'è cosa più importante per lui della nostra unione come famiglia, come figli e come azienda».
Fosca Bincher per “Verità & Affari” il 3 luglio 2022.
C'è un pezzetto di un'altra grande e importante famiglia che si è incrociata sulla strada di quella di Leonardo Del Vecchio: è la famiglia di Tarak Ben Ammar, finanziere e tycoon franco tunisino noto in Italia fin dagli anni Ottanta grazie all'amicizia con Bettino Craxi e il leader dei palestinesi Yasser Arafat e poi per i rapporti anche imprenditoriali intessuti con Silvio Berlusconi.
La bellissima figlia di Tarak Ben Ammar, Sonia, classe 1999, è infatti felicemente fidanzata con Rocco Basilico, figlio di primo letto di Nicoletta Zampillo, e a sorpresa erede diretto di Del Vecchio con la stessa quota del gruppo (12,5%) lasciata agli altri sei figli naturali.
Sonia Ammar è una delle modelle preferite da Dolce&Gabbana, Fendi e dai grandi marchi della moda internazionale. Fa anche la cantante e nel suo profilo si definisce scherzosamente pure "astronauta".
La coppia Rocco-Sonia vive felice da anni, e lei ogni tanto si è prestata come modella nei filmati per il lancio di nuovi occhiali Ray-ban o di altre griffe della casata, partecipando con il fidanzato anche a eventi come quello della Ferrari.
Sonia è appunto figlia (una dei quattro) di Tarak Ben Ammar, conosciuto in tutto il mondo del cinema per avere fondato la Quinta communications, proprietaria di Eagle Pictures, la major che ha prodotto e distribuito capolavori della storia del cinema come La masseria delle allodole dei fratelli Taviani, Il discorso del Re di Tom Hooper e Passion di Mel Gibson, oltre a titoli di grande successo come Twilight, La Famiglia Addams e House of Gucci.
Ben Ammar è ben noto in Italia, dove si è occupato del lancio di Mediaset, prima tentando di coinvolgere Rupert Murdoch, poi riuscendo a fare entrare nel capitale il principe saudita Al Waleed (oggi fra i grandi azionisti di Twitter), che rappresentò in consiglio d'amministrazione.
Per anni è stato anche testimone a difesa di Berlusconi in tanti processi nati aperti dalla procura della Repubblica di Milano. Chiese di essere sentito come teste a patto che l'interrogatorio fosse svolto in Francia anche nel processo sui diritti tv che avrebbe poi portato alla condanna di Berlusconi.
Non fu interrogato dai magistrati, ma alla stampa disse: «Io sono l'unico socio di Berlusconi e ho risposto a tutte le accuse secondo le quali Frank Agrama è il suo socio occulto. Agrama non è mai stato socio di Berlusconi. Conosco tutti gli affari di Berlusconi negli ultimi trent' anni compreso quello dei diritti tv, e posso dire con certezza che Silvio è innocente. E vedrete: non sono finite le sorprese su questo argomento».
Grazie a un'altra amicizia, quella con Vincent Bollorè, Tarak (che è stato nella sua lunga esperienza professionale pure socio del leader libico Mohamar Gheddafi), ha ricoperto per anni la carica di consigliere di amministrazione di Vivendi, Mediobanca e Assicurazioni Generali e potrà sicuramente dare da questa sua esperienza grandi consigli agli eredi di Del Vecchio.
Nel 2017 è entrato nel capitale della Lux vide fondata da Ettore Bernabei pensando alle potenzialità che avrebbe avuto come fornitore di contenuti di piattaforme come Amazon video, Apple video e Netflix. Due anni dopo grazie all'amicizia con l'egiziano Nagib Sawiris si è alleato con WindTre per costruire una fitta rete di ripetitori del nuovo digitale terrestre che è divenuta operativa da venerdì 1 luglio 2022.
Del Vecchio, i segreti della cassaforte Delfin: ecco le regole per gli eredi. Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 5 luglio 2022.
Un riassetto senza rivoluzionare l’impronta familiare. L’ingresso di Rocco Basilico, 32 anni, nella lussemburghese Delfin, il sancta sanctorum dell’impero Del Vecchio, dà una piccola scossa, introducendo un cognome nuovo e abbassando l’età media. Sciolto il nodo della presidenza, affidata a Milleri, la regola azionaria del 12,5% resta sacra: otto soci tutti uguali, otto fette virtuali di una torta che vale 30 miliardi tra partecipazioni industriali, finanziarie e immobiliari (EssilorLuxottica, Generali, Mediobanca, Unicredit ecc). Fa capo a Delfin, tra l’altro, anche La Leonina, considerata una delle più belle ville Belle Époque della Costa Azzurra. Proprio nella villa ha sede secondaria una società del Delaware del primogenito Claudio Del Vecchio.
Gli 8 eredi di Del Vecchio
Riusciranno a convivere pacificamente gli otto soci? Cioè i tre figli di Del Vecchio avuti con Luciana Nervo (Claudio 65 anni, Marisa 63, Paola 61), i due con Sabina Grossi (Luca 21 e Clemente 18), quello con Nicoletta Zampillo, sposata due volte (Leonardo Maria 27), il figlio di Zampillo nato dalla precedente unione con Paolo Basilico (Rocco, 32) e infine la stessa vedova. È di 47 anni la differenza di età tra il primo e l’ultimo rampollo del fondatore di Luxottica. Non sarebbe sorprendente se vi fossero visioni diverse sulle strategie: per esempio su come gestire le partecipazioni o sulla politica dei dividendi.
I rischi
La sintesi spetta al management che, non a caso, ha amplissimi poteri. Ma l’esperienza insegna che la convivenza di tanti rami familiari talvolta è un terreno minato. Per ridurre i rischi ci sono gli avvocati «preventivi». Così è stata costruita una meticolosissima impalcatura di regole. Lo statuto dà continuità alla gestione attuale, voluta da Del Vecchio e «ingabbia» i soci, cioè li costringe alla compattezza e alla quasi unanimità.
D’altra parte, però, la regola dell’88% dei voti per modificare lo statuto e nominare (o revocare) un amministratore (atto fondamentale vista la centralità del board) rischia di ingessare la società. Basterebbe infatti che uno solo degli otto azionisti si mettesse di traverso con il suo 12,5% per bloccare delibere di quel tipo. È così? Probabilmente nelle prossime settimane si chiariranno molti aspetti della governance post-Leonardo.
Del Vecchio, chi sono gli otto eredi: il ruolo della moglie e l’incarico di Rocco Basilico. Daniela Polizzi su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2022.
Gli otto eredi di Del Vecchio
A ognuno degli otto membri della famiglia è andata una quota del 12,5% del capitale della Delfin, la cassaforte che possiede le quote in Essilux e le partecipazioni finanziarie in Generali e Mediobanca. A ciascuno fa capo un patrimonio del valore di 3,75 miliardi. Gli azionisti della holding sono Claudio, Marisa e Paola Del Vecchio (figli della prima moglie Luciana Nervo), Leonardo Maria (l’unico figlio di Nicoletta e di Del Vecchio), e Luca e Clemente (avuti dalla compagna Sabina Grossi) e Rocco Basilico (nato dal matrimonio tra Nicoletta e il primo marito Paolo Basilico). Secondo il principio di equità e di valore che Del Vecchio riconosceva alla famiglia, tutti gli eredi sono così sullo stesso piano. La guda di Essilux è affidata al ceo e presidente Francesco Milleri che condividerà con il board Delfin e con gli otto eredi la strategia del gruppo.
Nicoletta Zampillo
Nicoletta Zampillo è stata la seconda e poi quarta moglie di Leonardo Del Vecchio, che si è spento a Milano il 27 giugno: milanese, classe 1958, l’imprenditore l’ha sposata nel 1997 e poi risposata a settembre 2010, ed è madre del quartogenito Leonardo Maria. I due sono convolati a nozze quando Zampillo era 38 enne, ma la conoscenza era di vecchia data, infatti il padre di Zampillo era stato uno dei primi rappresentanti di occhiali Luxottica per Milano e la Lombardia. Zampillo, però, aveva sposato in prime nozze Paolo Basilico, banchiere, prima in Mediobanca e alla filiale italiana della Giubergia Warburg e poi fondatore dei primi hedge fund tricolori, sotto il marchio Kairos. Del Vecchio e Zampillo si sono sposati quando Zampillo era 38 enne, ma la conoscenza era di vecchia data, infatti il padre di lei era stato uno dei primi rappresentanti di occhiali Luxottica per Milano e la Lombardia. Il matrimonio con Del Vecchio va poi in crisi all’inizio degli anni 2000, quando il patron si si unisce alla investor relator che lavora in Luxottica, Sabrina Grossi: non la sposerà, ma la nuova relazione porterà alla nascita di altri due figli, Luca e Clemente. Dopo il divorzio, a Nicoletta era stata assegnata villa Mondadori, costruita negli anni Venti del Novecento, duemila metri quadrati tra via XX Settembre e via Tamburini a Milano. La villa era stata poi venduta nel 2008 per 24 milioni di euro. Infine, Del Vecchio e Zampillo si risposano dopo la fine dela relazione tra l’imprenditore e Sabina Grossi. (A cura di Francesca Gambarini)
Claudio Del Vecchio
Claudio Del Vecchio, 65 anni, figlio di Paola Nervo e fratello di Marisa e Paola è entrato in Luxottica nel 1978. Ha lavorato nella distribuzione dei prodotti in Germania e in Italia, incarico che ha tenuto fino al 1982, quando il padre Lonardo Del Vecchio iniziava a puntare sulla distribuzione degli occhiali Luxotti sul mercato americano. Nel 2001 decide di mettersi in proprio e compra da Mark&Spencer il famoso marchio di camicie Brooks Brothers, il più antico brand di abiti maschili degli Stati Uniti, fondato nel 1818, amato da attori e personaggi Usa della politica. All’epoca fatturava quasi 1 miliardo di dollari . Claudio Del Vecchio aveva poi dovuto ricorrere alla procedura di «Chapter 11», un po’ come la nostra amministrazione controllata. Nel 2015 decise di trasferirsi negli States e dedicarsi al rilancio dello storico marchio di camicie, Brooks Brothers Da allora non è più rientrato nell’azienda di famiglia. Ma come ha raccontato nel suo discorso durante la cerimonia di addio al padre, andava sempre a visitare la fabbrica di Agordo e a salutare i dipendenti. Ha tre figli.
Marisa e Paola Del Vecchio
Paola Del Vecchio, classe 1961, è sposata e ha tre figli. È la sorella di Claudio e Marisa, figli di Paola Nervo e Leonardo Del Vecchio. Nervo è stata la prima moglie dell’imprenditore che ha fondato Essilor Luxottica. La sorella Marisa Del Vecchio, classe 1958è responsabile del Museo degli Occhiali di Agordo dove è nata la prima fabbrica della Luxottica nel 1961.Marisa ha scritto vari libri sul museo e sulla storia degll’occhialeria: Bel vedere, Gli occhiali del museo luxottica e Lunga vista - I cannocchiali del Museo Luxottica
Leonardo Maria Del Vecchio
Leonardo Maria Del Vecchio è figlio di Nicoletta Zampillo, nato nel 1995, si è sposato recentemente con la modella Anna Castellini Baldissera. Laureato in Bocconi, ha vissuto negli Usa e Regno Unito. Entrato in Luxottica nel 2017, oggi è Head of Retail Italy del Gruppo e amministratore delegato della catena Salmoiraghi e Viganò. E’ l’unico figlio nato dall’unione tra Nicoletta Zampillo e Leonardo Del Vecchio. E’ a capo del retail del gruppo in Italia, una delle posizioni più strategiche nel sistema Essilux. Leonardo Maria e Rocco Basilico sono gli unici erede a lavorare nell’azienda fondata da Leonardo Del Vecchio.
Rocco Basilico
Ha 32 anni (ne compirà 33 a fine luglio) ed è nato dal matrimonio tra Paolo Basilico, il banchiere che ha fondato il gruppo Kairos, e Nicoletta Zampillo, che ha sposato poi in seconde nozze Del Vecchio. Con il 12,5% del capitale di Essilux, ricevuto a sorpresa in base alle volontà del fondatore del gruppo dell’occhialeria, Rocco Basilico entra ora nel capitale della cassaforte lussemburghese Delfin. E arricchisce anche la schiera degli eredi più giovani dell’imprenditore nel capitale di Delfin. Rocco, laurea all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano in Economia, è entrato nel gruppo nel 2013 e da allora ha fatto molteplici esperienze, fino a diventare nel 2016 amministratore delegato di Oliver Peoples, marchio nato nel 1987 in California e acquistato da Luxottica nel 2007. È già inserito nell’organizzazione di Essilux nel ruolo di chief wearable officer. Vive a Los Angeles dove tiene i rapporti con Meta per la realizzazione dei Ray-Ban Stories, gli occhiali connessi, già in commercio. Era al fianco di Mark Zuckerberg quando il gruppo ha presentato gli smart glass al pubblico. Rocco fa parte quindi di quella rivoluzione tecnologica avviata nel gruppo con l’arrivo di Francesco Milleri, prima come consulente, ora come ceo e presidente di Essilux.
Clemente e Luca Del Vecchio
Luca Del Vecchio è nato nel 2001 dall’unione con Sabina Grossi, è iscritto all’Università Bocconi. E’ il fratello di Clemente Del Vecchio nato nel 2004 dall’unione tra Leonardo Del Vecchio e Sabina Grossi. Durante il funerale del fondatore di Luxottica, Luca ha letto il Vangelo Secondo Matteo, la parabola del seme di senape che in una terra arida cresce più velocemente dando vita a un albero che tra i suoi rami ospita i nidi di uccelli. Il paragone è con la Luxottica, fondata ad Agordo, quando la popolazione rimase negli anni ’50-’60 senza lavoro per via della chiusura delle miniere della Val Imperina. Clemente ha invece parlato in pubblico restituendo l’immagine più intima del suo rapporto con il padre: “Ciao a tutti – ha esordito Clemente -, io non ho fatto parte della vita lavorativa di Essilux. Io e papà ci vedevamo a pranzo e lui mi salutava dicendo ‘ciao cucciolo’. Era euforico perché era felice di stare con noi. Aveva una purezza dello spirito tanto grande che si faceva amare da tutti”. Ha ricordato le cene con Luigi Francavilla, storico amministratore delegato di Luxottica, uno degli amici più cari di Del Vecchio, coetaneo, presente ai funerali.
Michela Proietti per corriere.it il 4 luglio 2022.
La caccia al (nuovo) scapolo d’oro si interrompe prima di iniziare. Perché il cuore di Rocco Basilico, 32 anni, figlio di Nicoletta Zampillo e del banchiere Paolo Basilico, che dallo step- father Leonardo Del Vecchio ha ereditato il 12,5 per cento di Luxottica, è felicemente occupato. La fidanzata si chiama Sonia Ammar ed è stata in passato la musa di Dolce& Gabbana: la modella di origine franco-tunisina fa parte della scuderia IMG e tra una sfilata e l'altra si diletta a cantare e anche a fare l'astronauta.
Almeno così lei racconta nel suo nutrito profilo Instagram @itsnotsonia popolato da 760 mila follower: perché di lei, come di lui, si sa ancora poco, o almeno non quanto si vorrebbe sapere. Di Rocco Basilico, fino a un paio di giorni fa, si sapeva più che altro qualche aneddoto legato alla straordinaria carriera intrapresa all’interno di Luxottica, dove è chief wereables officer e ad di Oliver Peoples.
Il trentaduenne milanese, ex studente di Economia alla Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, ha debuttato in azienda nel 2013, bruciando subito le tappe, fino al connubio con Mark Zuckerberg , con il quale ha presentato la novità degli smart-glasses. Questa nuova tappa professionale lo ha portato a trascorrere molto tempo a Los Angeles, dove probabilmente ha incontrato Sonia, che dopo la laurea all’American School of Paris ha iniziato a frequentare la University of Southern California nell’autunno del 2017. Non è soltanto la bellezza l’asso nella manica di questa giovane donna classe 1999.
La stessa Sonia avrebbe un pedegree di tutto rispetto: è la figlia del tycoon franco-tunisino Tarak Ben Ammar, conosciuto in tutto il mondo del cinema per avere fondato la Quinta communications, proprietaria fra l’altro di Eagle Pictures, la major che ha prodotto e distribuito capolavori della storia del cinema come La masseria delle allodole dei fratelli Taviani, Il discorso del Re di Tom Hooper e Passion di Mel Gibson, oltre a titoli di grande successo come quelli della saga di Twilight, o La Famiglia Addams e fra gli ultimissimi anche House of Gucci con Lady Gaga.
Nata a Parigi, ma in fondo cittadina del mondo, sarebbe parente alla lontana del primo presidente della Tunisia, Habib Bourguiba: i suoi numerosi interessi l’hanno portata a recitare in teatro nel musical Les Amants de la Bastille e nel 2013 è apparsa nel film Jappeloup. Nel 2016 ha firmato con IMG Models e da allora ha sfilato per, Miu Miu, Carolina Herrera, Topshop, Nina Ricci, Chanel e Dolce & Gabbana, con cui ha scattato numerose campagne scattate tra Capri e la Sicilia insieme a Zendaya e Cameron Dallas, all’epoca della campagna dei millennials.
Ad un certo punto avrebbe interrotto la carriera di modella per iniziare quella di cantante a Los Angeles, debuttando con il singolo «Joyride». La rivista Paper ha scritto che «si stava adattando bene alla scena del dark-pop» e ha continuato a confrontarla con artisti del calibro di Halsey e Banks.
(ANSA il 4 luglio 2022) - Il Consiglio di Amministrazione di Delfin ha preso atto dell'entrata in carica di Francesco Milleri quale nuovo amministratore della società, in sostituzione di Leonardo Del Vecchio, in attuazione delle disposizioni statutarie. Francesco Milleri, Presidente e Amministratore Delegato di EssilorLuxottica, è stato altresì nominato Presidente di Delfin, sulla base delle indicazioni del fondatore Leonardo Del Vecchio. Romolo Bardin mantiene le deleghe operative della Società, nel suo ruolo di Amministratore Delegato.
· E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.
I biglietti di La Capria per i posteri. I colleghi, i critici, i gusti, lo stile. E anche una guida al Novecento. Fabrizio Ottaviani l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Scomparso lo scorso giugno poco prima di staccare il tagliando dei cent'anni, Raffaele La Capria ha avuto un percorso singolare: dopo aver pubblicato Ferito a morte, il romanzo vincitore del Premio Strega nel 1961, ha imboccato una linea saggistica che ne ha fatto una sorta di Montaigne italiano, senza torre ma con tanti amici, i quali ne hanno accompagnato la vita sterminata, come suggerisce il titolo della scelta di lettere che ora Mondadori manda nelle librerie (Tu, un secolo, pagg. 168, euro 18,50) per ricordarne la parabola non solo letteraria, ma esistenziale. Predisposto dall'autore con largo anticipo, in modo da costituire un insieme di «biglietti» destinati a noi, i posteri, il carteggio genera più di un soprassalto perché vi compaiono le personalità essenziali del Novecento.
Si inizia con una missiva di Moravia a Bompiani in cui l'autore degli Indifferenti sponsorizza quello che allora era solo un giovane narratore di talento («Caro Bompiani, ti scrivo per annunziarti che ho scoperto uno scrittore nuovo...») e si continua con una lettera a Pasolini in cui La Capria stigmatizza il bullismo di alcuni cenacoli, sottolineando la propria autonomia: «Il mio primo romanzo Un giorno d'impazienza è del 1952. Allora l'avanguardia non poteva ricattarmi perché non esisteva. Anche con Ferito a morte l'avanguardia non avrebbe fatto in tempo a ricattarmi. È dell'aprile del '61. L'avanguardia cominciò a ricattare un po' più tardi...». C'è una nota di scuse di Montale, il quale in una recensione gli aveva dato del mediocre - «avrei dovuto usare un'altra parola» - e due straordinarie lettere di Anna Maria Ortese che rimarcano l'umanesimo affabile, mai abrasivo, del destinatario: «Una delle cose che ho sempre ammirato in te è la perfezione formale, anche del vivere»; osservazione che rende più drammatica la successiva confessione, in cui la Ortese dichiara di considerarsi «un errore di Dio», sensazione «che rende infelici per sempre alcune persone». Le lettere di Parise lasciano intravedere una grande amicizia e un periodo felice dello scrittore veneto: «Vado molto a caccia, in valle e altrove, sempre solo. Vado anche a sciare. Stupenda neve vergine a Cortina, solo, solissimo a 3200 metri e giù nella neve. Vedo scoiattoli già bianchi, anche lepri bianche...». Non mancano le lettere imbucate dai critici letterari puri, più o meno incardinati nell'accademia. Bella, per esempio, la pagina in cui Raffaele Manica racconta che sfogliando Letteratura e salti mortali fresca di stampa ha esclamato: «Ma sono le Lezioni americane di La Capria!».
A volte, fra le righe, affiora l'imbarazzo per la mancanza di abissalità dello scrittore napoletano, ma è solo, per usare il gergo dei tribunali, un atto dovuto, imposto dal radicalismo di tanti intellettuali del Novecento, poco compatibile con l'epicureismo di La Capria fatto di centralità dell'amicizia, invidiabile indifferenza alla morte, aderenza a un cielo pagano sgombro di divinità troppo ingombranti. Universale, invece, è l'ammirazione verso la «leggenda personale» che La Capria ha saputo costruire: l'infanzia napoletana cosmopolita a palazzo Donn'Anna, dalle cui finestre ci si poteva tuffare nel mare («È una cosa colossale, omerica!» gli scrive Sossio Giametta); il tema della «bella giornata», metafora assoluta parente dell'attimo immenso di cui parla Nietszche nella Gaia scienza; naturalmente la famosa scena di pesca subacquea che apre Ferito a morte. Nessun letterato degno di questo nome mette una spigola nel forno senza riandare con il pensiero a quella pagina memorabile.
Antonio Carioti per corriere.it il 27 giugno 2022.
Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato.
A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Una denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986).
Nato il 3 ottobre 1922, La Capria era cresciuto nello splendido palazzo monumentale Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto gli anni della sua prima formazione sotto l’influenza fuorviante del fascismo, nutrendosi però anche di letture poco ortodosse. Poi, durante la guerra, si era ritrovato ventenne dalle parti di Brindisi «in una divisa troppo larga, con un fucile troppo antiquato, uno zaino troppo pesante, goffo e impreparato in ogni senso».
Per fortuna l’esperienza sotto le armi era durata poco: anche se la Napoli occupata dagli angloamericani era una specie di Babilonia caotica e corrotta, quella vitalità selvaggia aveva offerto opportunità e speranze a ragazzi come lui e i suoi amici più cari, molti dei quali destinati a carriere importanti: nel giornalismo Antonio Ghirelli, Tommaso Giglio, Massimo Caprara e Maurizio Barendson; nel cinema il già citato Rosi; in campo teatrale Giuseppe Patroni Griffi; in politica Francesco Compagna e soprattutto Giorgio Napolitano, futuro capo dello Stato.
Allora forte era il fascino del Pci. Ma La Capria non ne era rimasto pienamente catturato, a differenza di alcuni suoi amici. Di certo guardava a sinistra ed era rimasto assai deluso dalla stabilizzazione moderata seguita alle elezioni politiche del 1948. Ai suoi occhi Napoli era riprecipitata nella mediocrità provinciale, era tornata ad essere un «mortorio» da cui aveva preferito andarsene. Frutto del disagio avvertito allora è il primo romanzo di La Capria, Un giorno d’impazienza (Bompiani, 1952), che avrebbe avuto diverse stesure. Un prodotto ancora acerbo rispetto al successivo e ben più elaborato Ferito a morte.
Nella sua opera più importante, uscita nove anni dopo l’esordio, La Capria sperimenta una narrazione su piani multipli, che sovverte la successione temporale degli eventi, nel caleidoscopio dei ricordi che attraversano il dormiveglia del giovane Massimo De Luca (personaggio in cui l’autore raffigura sé stesso) la mattina del giorno che lo vedrà partire da Napoli per trasferirsi a Roma. Non era un romanzo facile, anche se il pubblico lo aveva gradito ed era stato tradotto all’estero.
Scorre nelle pagine di Ferito a morte il fascino della natura «disabitata dall’uomo», cioè il fondo marino dove il protagonista pratica la pesca subacquea, ma anche il dolore sordo e lancinante della delusione amorosa, l’Occasione Mancata di Massimo con Carla Boursier. E poi la spensieratezza irresponsabile di un gruppo di ragazzi e la fatalistica sonnolenza di una certa borghesia partenopea, dipinta senza sconti. Su tutto dominano, come scrisse il critico Geno Pampaloni «la straziante dolcezza di ciò che è irrecuperabile» e «il perdere di senso della vita come un velivolo che perde inesorabilmente quota».
Erano passati molti anni prima che La Capria scrivesse un altro romanzo, Amore e psiche (Bompiani, 1973), che lui stesso giudicò poi un esperimento fallito per «eccesso di intellettualismo». L’intento era usare le tecniche della psicoanalisi per evocare indirettamente dal punto di vista del protagonista una vicenda che quel personaggio stesso rimuove perché troppo dolorosa.
Da allora non erano più usciti romanzi firmati da La Capria, ma molti libri d’altro genere, spesso ibridi: i testi autobiografici di False partenze (Bompiani, 1974) e La neve del Vesuvio (Mondadori, 1988), i brevissimi racconti di Fiori giapponesi (Bompiani, 1979), gli elogi della misura contenuti dei saggi La mosca nella bottiglia (Rizzoli, 1996) e Lo stile dell’anatra (Mondadori, 2001). Quasi tutti, come ha scritto Silvio Perrella, si possono considerare nati «da una costola di Ferito a morte».
Sarebbe però un grave errore considerare La Capria un autore ripiegato sulla terra d’origine. Sin da giovane aveva dato alla sua ricerca letteraria un respiro internazionale. Appassionato ammiratore di George Orwell, durante la guerra aveva stretto un’amicizia affettuosa con l’americano Bill Weaver, futuro traduttore in inglese di molti scrittori italiani, e ad Harvard negli anni Cinquanta aveva conosciuto Henry Kissinger.
Sposato prima con Fiore Pucci, poi con l’attrice Ilaria Occhini, La Capria aveva avuto dalla prima moglie la figlia Roberta e dalla seconda Alexandra. Era stato un animatore costante della vita culturale, sulle pagine del «Corriere» e non solo. Nel 2001 si era aggiudicato il premio Campiello alla carriera e non aveva mai smesso di intervenire, finché le forze lo avevano sorretto. Non gli piaceva la televisione, detestava i talk show urlati, ma ad ottant’anni aveva cominciato a usare il computer, nel quale aveva trovato «un alleato perfetto». Restava sempre curioso del mondo e della vita: «Dobbiamo accostarci con meraviglia alle cose. Come se fosse sempre la prima volta».
BIOGRAFIA DI RAFFAELE LA CAPRIA. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
LA CAPRIA Raffaele Napoli 8 ottobre 1922. Scrittore. Vincitore del premio Strega 1961 con Ferito a morte, autore di romanzi e saggi: Un giorno d’impazienza (1952), Amore e psiche (1973), Fiori giapponesi (1979). Fra le sue raccolte di saggi, perlopiù dedicati alla cultura partenopea cui è profondamente legato, Variazioni sopra una nota sola (1977), L’armonia perduta (1986), Letteratura e salti mortali (1990), Il sentimento della letteratura (1997)
• « proprio uno scrittore magico. ”Il premio Campiello alla carriera, che mi hanno assegnato lo scorso settembre vorrei proiettarlo verso il futuro. Mi lascio alle spalle quindici libri, da Neve del Vesuvio a Lo stile dell’anatra, e ricomincio con un nuovo libro sulla mia Napoli, riprendo il discorso di Ferito a morte, degli anni Sessanta […] Mi sento come quei pittori che prima buttano giù i colori, e poi fanno due passi indietro per vedere che cosa hanno dipinto. Voglio dire che, a distanza, Napoli la riesco a capire meglio. Ma quando ci ricapito dentro, mi coinvolge ancora troppo: col suo dialetto, i suoi mille mari del golfo
[…] Credo che ci sia un invisibile sipario aperto su Napoli: si rappresenta in continuazione uno spettacolo dialettale che anticipa i mali della nazione. Si assiste chiaramente a fenomeni di criminalità e disoccupazione. Senza le ipocrisie di altre città che stanno più a nord”. Da ragazzo, al liceo Umberto I, i suoi compagni erano Napolitano, Antonio Ghirelli, Patroni Griffi. ”Quando litigavamo, o giocavamo a calcio, dialetto stretto. Era la nostra identità ancestrale. Adesso la televisione ha creato un italiano-base grigio e banale.
Oggi un napoletano che va al nord non è più un emigrato: ma un viaggiatore costretto a nascondere il dialetto nello spirito e a parlare quella strana lingua televisiva […] Il numero uno rimane Roberto Murolo: lui fa sentire le melodie, ma ad una ad una anche tutte le parole col ritmo giusto del verso. Insomma è la poesia che genera la canzone napoletana […] Il dialetto mi riscalda come una specie di copertura materna. Quando scendo a Napoli, lo vado a cercare nelle zone più popolari, tra i venditori delle bancarelle di San Gregorio Armeno. Là si vendono i presepi tutto l’anno, riescono a trasmetterti il brivido di Natale anche a primavera […]
Papà era un commerciante all’ingrosso di grani, fu anche presidente del consorzio agrario, e quindi era costretto a parlare italiano. Mentre mia madre alternava l’italiano al francese. Io e mio fratello, che oggi vive a Sanremo con la moglie Isa Barzizza, rubavamo il dialetto e i suoi misteri a Rosaria, la nostra cameriera.
Lei era una cassaforte di napoletanità. Credeva agli spiriti, ai fantasmi, e cucinava ricette che purtroppo si è portata nella bara. Giocava al lotto la mattina prestissimo, perché non voleva dimenticare i sogni premonitori della notte: e vinceva pure. Mio fratello la chiamava ”l’usuraia’, perché ogni mattina, si faceva prestare da lei delle piccole somme che a fine anno diventavano un capitale” […] 1961. Con Ferito a morte vince il premio Strega. Ma lo ritira distrattamente. ”Da buon napoletano, per me viene prima l’amore della gloria e del potere. Durante la cerimonia dello Strega, ho conosciuto Ilaria, la donna che sarebbe diventata mia moglie: mi apparve subito così bella e sublime, che il primo istinto fu di cercare una macchina fotografica per fermare il suo sguardo”.
Ilaria, è la Occhini, attrice toscana, nipote del grande Giovanni Papini. Non c’è stato, tra voi, uno scontro di dialetti? ”Dopo quarant’anni, lei mi chiama ancora Raffaele, mentre per gli amici sono Dudù. Lei è rimasta cattolica papiniana e io laico crociano. Da buona toscana, ama i ritmi della campagna. Non si spaventa pensando che gli alberi restano e tu muori. Napoli è un’altra cosa. Il mare mi dà il senso di non finire mai, di trasformazione: mi piace quello in burrasca, quello calmo a specchio, o grigio come il piombo fuso. E poi l’onda reinventa in superficie, in continuazione, una nuova luce. Ma dallo scontro dei dialetti, comunque, è nata Roberta: il nostro ”capolavoro equilibrato", che adora la Toscana, ma appena può fa un salto a Napoli […]
Sono scettico, anche se rispetto la religiosità. Vede, io ho scritto con Franco Rosi la sceneggiatura di Mani sulla città, e anche di C’era una volta, con la Loren: film in cui ho studiato la mentalità scaramantica di Napoli. Nei vicoli più tormentati, il dialetto è come una membrana sottilissima tra superstizione e religiosità, sacro e profano. Parlarlo ti eccita […] Smitizziamo le presunzioni umane. Come Totò, che con i suoi ”parli come badi’, o ”chicche e sia’, sfotteva i perfezionisti dell’italiano. Ma sì, noi napoletani siamo per la democrazia spirituale. Napoli è come un’anfora antica, tirata su dal mare, tutta incrostata di conchiglie, apparentemente senza forma: ma se l’occhio è esperto, riesce a coglierne la bellezza originale. Perfetta, sinuosa, intrigante, modellata da un artista irripetibile, sicuramente napoletano” […] La motivazione del ”Campiello alla carriera’ con cui hanno premiato questo scrittore-farfalla che sfida, a ottant’anni, la lampada delle passioni: ”A Raffaele La Capria, che nelle forme della scrittura ha ridato al mondo l’armonia perduta”» (Paolo Mosca, ”Il Messaggero” 25/2/2002)
• «’Guaglio’, tu hai letto troppi libri”, ripeteva il nonno, preoccupato che l’anima cortese del ragazzo non resistesse agli urti della vita. Invece quella gentilezza lo ha accompagnato fin sulla soglia degli ottant’anni, rivelandosi un efficace antidoto contro i soprassalti del destino e la volgarità del quotidiano. E i tanti (mai troppi) libri masticati e digeriti nel corso dell’esistenza, hanno costruito un’impalcatura culturale del tutto anomala nel panorama letterario italiano. […] ”A casa mia, non c’era nemmeno un libro - racconta -. La prima biblioteca l’ho formata io, con i libri della Utet. Pensa che iniziai a leggere Edgar Allan Poe perché mi incuriosiva il nome”.
Navigando lungo questa rotta, lo scrittore sostiene d’aver capito che ”uno dei maggiori difetti degli italiani, non solo degli uomini comuni, ma anche degli intellettuali più generosi e raffinati, è quello di pensare in grande rimanendo, nonostante la grandezza dei pensieri, piccoli”, perché ”in nome di un’ideologia si riusciva con poche frasi a mettere a posto mezzo mondo, tralasciando la relatività e la complessità di tutte le cose che accadono”. Alla logica ideologica , che è la ”pratica dell’astrazione concettuale”, contrappone quindi quella che Goffredo Parise (l’autore italiano forse da lui più amato) chiamava la logica elementare .
”Cerco di non far sentire al lettore l’autorità intellettuale incombente di chi sta riferendo propri pensieri. Anche per questo, intervallo le riflessioni con racconti sullo stesso tema, cercando di rendere in qualche modo il senso di una verità. Oggi mi sembra siano tutti occupati a scrivere romanzi, dove in definitiva cambia un poco soltanto la storia... In questi romanzi ci sono pochi pensieri. Allora, da queste considerazioni e dalla mia voglia invece di dirli questi pensieri, di dirli nella accalorata maniera in cui li si può dire in un romanzo, è nato il mio stile saggistico-narrativo”.
E dire che spesso Duddù (come lo chiamano gli amici) viene ricordato quasi fosse l’autore di un solo romanzo, quel Ferito a morte che nel ”61 gli regalò un’improvvisa fama insieme alla conquista (per un solo voto in più) del Premio Strega.
”La consapevolezza della stupidità delle cose che mi circondavano, rimanendo sempre lucida - spiega rievocando la stesura del suo capolavoro - mi ha suggerito di complicare e rendere sempre più problematico e raffinato, quasi per una compensazione, il modo di descriverle: l’organizzazione dei piani del racconto, le strutture della rappresentazione. Ferito a morte fu il raggiungimento di questo strano equilibrio: alla povertà del materiale, delle situazioni umane di cui parlavo (l’infantile dissipazione di una giornata trascorsa al Circolo Nautico) si contrapponeva la ricchezza della mia scrittura, che non si distaccava da quel materiale ”povero’, ma voleva rivelarne nuovi aspetti attraverso un accanito lavoro formale”. […]
”Ho sempre immaginato un altro me stesso che sosteneva idee completamente opposte alle mie - sottolinea -. Mi piaceva addirittura figurarmelo, questo altro me stesso, perché tutte le domande che mi poneva mentre scrivevo richiedevano, provenendo da qualche parte di me, una pronta risposta”. Ma l’altro , l’opposto, Duddù se l’è ritrovato a fianco anche in famiglia: difficile, infatti, immaginare qualcuno più diverso da lui del fratello Pelos, il Ninì di Ferito a morte. ”Era lieve e svagato, pieno di verve, inventava continuamente la sua vita e il suo linguaggio”, confessa lo scrittore, mettendo a fuoco un personaggio che rappresentava ”la napoletanità più civile”, quell’impasto di leggerezza e ironia che segnò una generazione nel dopoguerra e diede lo spunto a Vittorio Caprioli per Leoni al sole, splendido (quanto dimenticato) film. Chi era Pelos? Si potrebbero snocciolare decine di aneddoti e di storie su di lui. Ma ne basta una, l’ultima. Affidata alla voce del fratello: ”Proprio alla fine, gli restava ormai meno di un’ora di vita, vedendomi stravolto perché lui non ce la faceva a respirare e io non sapevo come aiutarlo, mi dice, sempre con quel suo sorriso strafottente: ”Duddù, ti serve qualcosa?’”» (Enzo d’Errico, ”Corriere della Sera” 16/6/2002).
Antonio Gnoli per "la Repubblica" - 4 ottobre 2012
Se dovessi fornire un'immagine di Raffaele La Capria, qualcosa insomma che ne contenga l'essenza, non troverei di meglio che scioglierne il corpo nella letteratura. Tutto in quest'uomo dai modi gentili si traduce in parola letteraria. Penso che egli sia anche per questo un uomo fortunato.
Una di quelle creature che con docile determinazione sanno prendere il meglio dalla vita. Per i suoi novant'anni (li compirà dopodomani) La Capria pubblica un nuovo romanzo e un libro di fotografie che racconta lo scrittore a Capri. Belle immagini.
Testimonianza di una vita ricca di agi: l'incantevole moglie, Ilaria Occhini, la casa con terrazza sul mare, il cane Guappo, gli amici. Una foto mi colpisce. Si vedono Dudù (è il suo soprannome) e Moravia su un barchino. Non remano. Stanno fermi. «Nonostante la giornata fosse stupenda, Alberto mi guardava preoccupato: "Secondo te, pioverà?", mi chiese assurdamente. Questo era Moravia, pessimista fino all'inverosimile», dice ridendo.
E a lei capita di essere pessimista?
«Certo, ma la verità è che in letteratura si deve trovare un equilibrio tra pessimismo e ottimismo, tra la felicità e il dolore. Pensi al mio romanzo Ferito a morte: all'inizio tutto splende, poi accadono piccoli eventi che fanno capire che la bella giornata tanto bella non è. C'è in ognuno di noi un'attesa di felicità, poi la vita trascorre e la felicità certe volte diventa dolore».
Quando si cita La Capria si evoca costantemente Ferito a morte. La gratifica?
«No, mi offende. Perché si nomina solo quel romanzo. Ma io ho scritto venti libri, e perlomeno tre o quattro sono all'altezza di Ferito a morte».
Per pigrizia o che altro si parla così di lei?
«Perché sono napoletano. Mi perseguita l'identificazione con la città. Non sentirà mai qualcuno dire: Arbasino di Voghera. Ma tutti dicono: il napoletano La Capria».
A Napoli lei ha dedicato diversi libri.
«Ma nessuno se ne è accorto. Voglio dire nessuno ha percepito il modo anche fantastico con cui ne ho parlato».
Prova risentimento?
«Ma no, chissenefrega. Addirittura, certe volte penso alla mia voglia di essere dimenticato: non parlate di me, perché come parlate sbagliate».
Ce l'ha anche con Napoli?
«Solo se la capisci è una città meravigliosa».
Ci sono molti stereotipi?
«Troppi. La verità è che di Napoli è stato detto tutto: ormai le rappresentazioni della città si sono sostituite alla realtà. Ma resta quel sottofondo mitologico senza il quale non avrei scritto i miei libri».
Eppure, lei a un certo punto lascia definitivamente la città, lascia Palazzo Donn'Anna dove lei ha raccontato la sua adolescenza, e si trasferisce a Roma.
«Avevo bisogno di un lavoro e a Napoli non lo trovavo. La spiegazione mi sembra semplice. E invece quella scelta mi venne addebitata come un tradimento. A Napoli facciamo così».
Quando arrivò a Roma?
«Era il 1952. Non avevo né arte né parte. Perciò l'unico lavoro che potevo fare era la televisione».
La televisione o niente?
«Non ho nessuna attitudine al lavoro. L'unica cosa che so fare è, bene o male, usare le parole. So giudicare quello che leggo e infatti in Rai cominciai a visionare i copioni degli sceneggiati. In seguito divenni sceneggiatore in proprio. Ho scritto sceneggiature per Rosi e per altri registi importanti».
Scrivere una sceneggiatura è diverso dallo scrivere un romanzo?
«Diversissimo. Scrivere una sceneggiatura significa capire che un tavolo per stare in piedi deve avere tutte e quattro le gambe della stessa lunghezza. Questa parte di artigianato farebbe bene anche al romanzo. Invece molti autori contemporanei, soprattutto i giovani, spesso se ne dimenticano. Vanno per la tangente. Deragliano, creano opere squilibrate. Non faccio nomi, anche perché spesso sono amici carissimi».
Alla sua età verrebbe perdonato.
«Sarei massacrato».
Con Ferito a morte lei vinse lo Strega. Che anno era?
«Parliamo di un'altra epoca. Era il 1961. Vinsi per un punto su Giovanni Arpino. Terza, mi pare, arrivò Fausta Cialente».
Farebbe paragoni con lo Strega di oggi?
«Credo che la mia sia stata una delle ultime edizioni rappresentative di un mondo letterario ormai scomparso. Quel successo inaspettato mi ha reso indifferente, mi ha tolto l'ansia. Poi ho vinto il Campiello e il Viareggio. Con i premi ho chiuso».
Sembra lei il ferito a morte.
«Sono drammatico più che melodrammatico ».
È un sentimento che contrasta con un certa gioia di vivere che lei emana
«È l'immagine bonaria che offro di me. Ma i miei libri parlano continuamente della morte. La verità è che nessuno li ha letti in modo da comprendere il cammino che ho fatto».
Da dove nasce questo dialogo con la morte?
«Chi, come me, ama molto la vita e si immedesima con la natura sa che la morte è solo l'altra faccia. Mi struggo perché so che tutto sfugge e la pienezza non dura. E che ogni prova del morire si lega alla rinascita».
Cosa le dà questa certezza?
«Lo sperimentai su di me quando mi operarono al cuore. Malgrado tutto, mi sentivo leggero. Non c'era la paura di affrontare un viaggio che avrebbe potuto essere senza ritorno. Mia moglie interpretò quel mio stato d'animo come incoscienza. Mi diceva: ma non hai capito che ti devono squartare!».
E dopo?
«E dopo riprese la mia vita romana».
A cosa è dovuta la sua predilezione per Roma?
«Al fatto che ha rappresentato la mia giovinezza. Negli anni Sessanta era una città fantastica, culturalmente entusiasmante. C'erano Flaiano, Soldati, Moravia, Morante. Ricordi bellissimi di un mondo intorno a me straordinario».
Di Ennio Flaiano cosa ricorda che non sia stato detto?
«Altro che battutista, aveva il cuore nero di disperazione. A lui si può applicare la bellissima frase di Proust: la psicologia è nata in provincia».
E della coppia Moravia-Morante?
«Vivevano molto separati. Moravia, pessimismo a parte, era di un'ingenuità disarmante. Ma sapeva dire cose illuminanti in modo semplice. Elsa era una donna straordinaria, capace di imporsi con un sol gesto. Mi voleva bene e ogni volta che mi presentava a qualcuno diceva: ecco il poeta La Capria. Era del tutto inutile che io ricordassi a lei e agli altri che non ero un poeta, semmai uno scrittore. L'ho detto io, e questo basta, replicava Elsa».
Pasolini era molto legato a quel gruppo.
«Sì, ma non credo che mi amasse molto. Pensava che i borghesi erano dei fetenti e siccome a me piaceva vestire con eleganza, mi guardava con un certo disappunto. Del resto, non facevo nulla per ingraziarmelo. Sono troppo orgoglioso. Però ammiravo alcuni suoi lati».
Quali?
«Non tanto l'opera, quanto il ruolo che ha saputo svolgere. Secondo me non ha scritto niente di importante sul piano del romanzo, ma i suoi interventi civili furono in largo anticipo sui tempi. Era un vero individuo in un mondo in cui gli individui cominciavano a sparire».
Un'altra figura straordinaria che lei ha molto amato è Goffredo Parise.
«Seppe opporre il sentimento all'ideologia. Credeva al momento illuminante della scrittura senza sbandare nel sentimentalismo. In tal senso i Sillabari furono una grande prova letteraria».
E in privato com'era?
«Un incredibile ballista. Non sapevi mai se le storie che ti stava raccontando erano vere o no. Un giorno stavamo seduti da Rosati e a un certo punto mi dice: Dudù guarda dietro di me, ma non fartene accorgere. Lo vedi quell'uomo volgare a braccetto con quel puttanone dipinto? Sì, e allora? È mio padre. Goffredo sosteneva di essere figlio illegittimo e di aver incontrato una sola volta il padre per chiedergli se aveva malattie ereditarie».
A proposito di padri come fu il suo?
«Gli dedicai un racconto rimproverandogli l'eccessiva indulgenza. Gli scrissi una specie di lettera anti Kafka. Mi ossessionava quella sua cantilena che usciva ogni volta che commettevo un errore: e va bene, non fa niente, tutto si accomoda pacatamente, così diceva».
Cosa faceva suo padre?
«Il dramma della sua vita furono le carte da gioco. Ma lasciamo stare. Commerciava in grani che importava dall'America su intere navi. Poi con il fascismo l'import-export finì e lui divenne direttore di un consorzio agrario. La ricchezza decadde e si trasformò in un onesto borghese. C'era rimasto ben poco da festeggiare».
E lei, invece, come festeggerà il suo compleanno?
«Con un romanzo nuovo dal titolo Doppio misto. Due storie d'amore con cui ho voluto smontare l'immagine bonaria che do di me, raccontando le mie perversioni».
Una confessione inattesa.
«Un uomo non può essere una sola cosa».
Racconta la sua ombra?
«Come fosse un verso di Rimbaud: "Oisive Jeunesse / à tout asservie / par délicatesse / j'ai perdu ma vie". Ha capito?»
Capisco che tutto in lei finisce in letteratura.
«Sono impregnato di letteratura e senza di essa non avrei vissuto. La vita di cui ho scritto è una vita inventata. Per questo è vera».
Quanto è importante per lei la finzione?
«Ricorda i versi di Pessoa? "Il poeta è un fingitore / Finge così completamente / che arriva a fingere che è dolore/ il dolore che davvero sente". Più si è capaci di fingere e meglio si racconta la realtà».
Citare le piace.
«Tutto è déjà vu. Ci fu un tempo in cui il mondo era fatto di trasparenze. Ora che ho toccato i novant'anni sono tra i pochi che possono ancora fare il paragone tra quel passato innocente e oggi. La modernità, da un lato, è stata una soluzione comoda, dall'altro ha cambiato il cielo, il mare e la terra».
E cosa prova?
«Ogni volta che ci penso capisco cosa vuol dire la cacciata dal paradiso. Tutto è perduto, perduto per sempre. Questo è il sentimento che provo».
Stefan Zweig provò a raccontare qualcosa di simile e poi si suicidò.
«Non lo farei mai, a cosa serve? Quel gesto non migliora il mondo, ma aderisce allo sfacelo».
La letteratura non rischia così di essere solo un balsamo per l'anima?
«A me piace che la letteratura sia consolazione. Deve essere una preghiera e non solo rabbia e protesta».
Non la sento convinta.
«Non sono fino in fondo convinto di niente. Viviamo in un'epoca in cui la saggezza è improbabile. Sa come mi definisco? Un uomo perplesso».
Dall’account Facebook di Simona Izzo il 28 giugno 2022.
La Capria, ferito a morte dalla indifferenza . Oggi nella chiesa di Santo Ignazio di Loyola a Roma, si sono svolti i funerali del maestro Raffaele La Capria , uno dei più grandi scrittori del 900 , che si è spento sulla soglia dei cento anni. Molte le opere , molti i premi tra cui lo Strega e il Campiello , autore di sceneggiature indimenticabili, saggi che diventano libri di testo …tanti gli amici presenti : Siciliano, Trevis, Albinati, Martone, Perrella, D’Aloja, D’Elia, le figlie Alexandra e Roberta, i nipoti Alice e Tomaso venditti, Ricky ed io, consuoceri di Dudu’ ed Ilaria, Francesco Venditti, il professor Chiariello che lo operò al cuore, Corallo, Iaja Forte, Melchionna e tanti altri.
Chi non c era pero’, e pesa dirlo, erano gli uomini delle istituzioni… a dire il vero , il sindaco Gualtieri, era passato a casa per le condoglianze e anche il ministro Bianchi… ci aspettavamo pero’, che venissero a dare l’estremo saluto , all’ultimo vate del novecento, i rappresentanti delle istituzioni.
LA CAPRIA FUNERALI
E invece, complice forse il caldo, l'indifferenza, la mancanza di comunicazione, l’agognato ponte di Pietro e Paolo esclusiva dei romani, non sono intervenuti alle esequie, coloro che dovrebbero rappresentare questo povero paese, a tratti smemorato, sciatto, ingrato, incosciente, sacrilego e scalcinato, irrispettoso e maleducato (absit injuria verbis ) Resta , per fortuna ,l’Opera omnia di la Capria che, come ha detto, nella commovente orazione funebre il giovane Tomaso, avremo il privilegio di leggere in eterno, visto che é stata immortalata in 2 Meridiani.
Mi auguro che il Poeta, venga al più presto ricordato, con una cerimonia ufficiale, promossa dalle Istituzioni. Almeno questo.
Mirella Serri per “la Stampa” il 28 giugno 2022.
“Ma io a cento anni non ci voglio arrivare», mi aveva confessato un po' di tempo fa Raffaele La Capria, per gli amici Dudù, in un momento di abbandono e di profonda malinconia.
Si è spento a 99 anni - prima del 3 ottobre, quando avrebbe tagliato il traguardo del secolo - uno dei maggiori scrittori italiani, grandissimo cantore di Napoli ma non della «napoletaneria», il limite, a suo parere, dell'amata città natale.
Appena entravi nel suo appartamento romano, all'ultimo piano di uno storico palazzo di Piazza Grazioli, la cui contiguità con quella che è stata per anni la residenza di Silvio Berlusconi lo aveva parecchio infastidito, in bella vista c'erano i due volumi dove era raccolta una scelta della sua opera omnia, i Meridiani Mondadori (a cura di Silvio Perrella).
Vincitore del premio Strega nel 1961 con Ferito a morte, il suo romanzo più famoso, narratore e saggista prolifico, incoronato dal Viareggio, dal Campiello e da tanti altri riconoscimenti, La Capria era stato anche sceneggiatore per Francesco Rosi -Le mani sulla città e Uomini contro -, per Luigi Comencini e per Lina Wertmüller.
Tutto l'insieme dei suoi scritti - da La neve del Vesuvio a Colapesce, e della sua saggistica, da Il sentimento della letteratura a Lo stile dell'anatra e a La bellezza di Roma - rappresenta un'importante summa del suo impegno civile.
Scrittore engagé, raffinato e spesso dissimulato nelle sue battaglie, ha segnato più di una generazione e ha favorito la nascita di una scuola di grandi artisti che va da Paolo Sorrentino a Toni Servillo a Mario Martone, per arrivare a scrittori come Valeria Parrella, Emanuele Trevi, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Domenico Starnone e Paolo Di Paolo. Già, proprio così.
La sua narrativa, malgrado le affermazioni dello stesso La Capria, che si considerava un narratore volutamente ai margini in quanto non tutti i suoi libri avevano incontrato il favore del grande pubblico, utilizza in maniera straordinaria le tecniche narrative provenienti dall'avanguardia letteraria (flusso di coscienza, monologo interiore, polifonia, tempo della memoria) che si intrecciano con la descrizione di Napoli in chiave critica e anticonformista.
Gli ambienti dei suoi racconti, ma anche della sua saggistica, sono l'isola di Capri, la costiera amalfitana, il golfo di Posillipo su cui affaccia palazzo Donn'Anna, grandioso scenario di Ferito a morte dove La Capria aveva trascorso la sua infanzia. Anche il racconto d'esordio, Un giorno d'impazienza, dedicato al fallimento di tante speranze e attese resistenziali, ebbe come fulcro la sua città e le famiglie borghesi.
Dudù, nel 1942, era partito con il Battaglione Allievi Ufficiali per Brindisi e poi aveva cominciato a collaborare con Radio Napoli, cenacolo per la propaganda creato dagli Alleati intorno a cui si riunirono Antonio Ghirelli, Luigi Compagnone e Rosi, i quali si ritroveranno anche nella bella rivista Sud di Pasquale Prunas. La Capria manterrà per tutta la vita i legami della gioventù, come quello con Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica.
Dopo essersi laureato in giurisprudenza nel 1947 e aver soggiornato in Francia, Inghilterra e Stati Uniti, nel 1950 La Capria si trasferì a Roma. Qui conobbe la bellissima attrice Ilaria Occhini (scomparsa nel 2019, era nipote di Giovanni Papini). Nella capitale, il narratore coltivò nuove amicizie, da Italo Calvino a Goffredo Parise ad Alberto Arbasino e Giosetta Fioroni.
Abbigliato sempre in modo molto curato - d'estate, per esempio, panama, giacca e pantaloni bianchi -, era assai lontano dallo stereotipo del gentiluomo napoletano sfaccendato. «Non sono lo sgobbone letterario che costruisce il proprio monumentino giorno e notte, come Pasolini o Calvino. Io scrivo per esprimere le mie idee e i miei sentimenti, non per erigere l'altare a Raffaele La Capria», precisò per sottolineare la sua tempra di lavoratore.
Giornalista, collaboratore di riviste e quotidiani, da Il Mondo al Corriere della Sera, fu sempre teso nello sforzo «di far diventare poetico il senso comune». E si ritenne giustamente un paladino del ruolo dello scrittore pronto a svelare le menzogne e a denunciare le "false partenze" (come da titolo di un suo libro), i legami ideologici che a volte impediscono di scorgere la verità. Per questo fu anche un acceso polemista.
Così ecco Dudù scagliarsi, in numerosi scritti, contro la «napoletaneria», contro quell'estro così accattivante del partenopeo che finisce per coincidere con il cittadino servile o con l'intellettuale mandarino e sempre pronto a dire sì. A questo contrappose la nobile arte della «napoletanità» praticata da Eduardo De Filippo o da Totò. Eccolo poi partecipare ad accesi dibattiti contro gli imitatori dell'Ulisse di Joyce, di cui lui stesso si dichiarava debitore nella sperimentazione linguistica ma che trovava anche «indigesto e prolisso». La Capria opponeva al manierismo una concezione della letteratura «come memoria di ciò che gli uomini da oggi e fino a Omero e prima di Omero hanno sentito, sognato, immaginato».
Eccolo, infine, al fianco di Sorrentino, per dar vita con il regista alla sceneggiatura di Ferito a morte che poi non andò in porto. Quando era uscita La grande bellezza del premio Oscar, La Capria si era ritrovato nel protagonista: «Non c'è dubbio, Jep Gambardella un po' mi assomiglia».
Lo scrittore, ha dichiarato Sorrentino, è stato per lui «un faro», utilizzando un'immagine marina che tanto sarebbe piaciuta a La Capria. Ne La vita salvata (un dialogo con Giovanna Stanzione), Dudù parlava della scrittura come di un atto amoroso, «l'ultimo che mi sia rimasto», in cui oggi si riconoscono tutti gli artisti che vedono in lui un maestro o un faro.
La Capria, scrittura e bellezza nella metafora di un secolo. Scomparso a 99 anni l’autore napoletano che vinse lo Strega con «Ferito a morte». Fu compagno di strada generazionale di intellettuali come Ghirelli e amico di Napolitano.
Andrea Di Consoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Giugno 2022.
È morto ieri a 99 anni lo scrittore Raffaele La Capria (era nato nel 1922, e mancavano pochi mesi al centesimo compleanno). I funerali si svolgeranno oggi a Roma, a mezzogiorno, nella chiesa di Sant’Ignazio di Loyola di Campo Marzio. La Capria nacque a Napoli e fu compagno di strada «generazionale» di intellettuali e artisti di primissimo ordine come Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Giorgio Napolitano e Francesco Rosi, del quale sceneggiò quattro film: Le mani sulla città (1963), C’era una volta (1967), Uomini contro (1970) e Cristo si è fermato a Eboli (1979). Complice l’amicizia con lo scrittore e traduttore William Weaver (1923-2013), che fu di stanza a Napoli durante la seconda guerra mondiale, La Capria si confrontò precocemente con la letteratura moderna, anzitutto Proust e Joyce, che lo mise in aperto contrasto con la «letteratura napoletana» bozzettistica, folcloristica e sentimentalista – con i Giuseppe Marotta, tanto per essere chiari. Grazie a un’estrazione borghese malinconica e colta – crebbe a Palazzo Donn’Anna, una delle costruzioni più suggestive di Napoli – e studi aperti a orizzonti internazionali, La Capria sentì con sempre maggiore disagio la permanenza a Napoli, tant’è che nel 1950, dopo aver viaggiato in varie parti del mondo, decise di stabilirsi a Roma, dove lavorò continuativamente alla Rai, per la quale scrisse radiodrammi e seguì il settore degli sceneggiati.
Nel 1952 pubblicò il suo primo romanzo, Un giorno d’impazienza, che è ambientato in un solo giorno, a Napoli, nel 1950, e che racconta il «giro a vuoto» di un adolescente alle prese con l’iniziazione sessuale. Nel 1961 La Capria pubblicò il suo romanzo più celebre, Ferito a morte, che vinse quello stesso anno il premio Strega. In quel romanzo, anch’esso ambientato in un solo giorno – come del resto il terzo, Amore e psiche, del 1973, tra i meno amati dall’autore, e tra i più segnati da una «cervellotica» influenza neoavanguardista – emergevano proprio tutti i tormenti della buona borghesia napoletana, in bilico tra il restare a sprofondare nelle sabbie mobili di un’autoreferenzialità compiaciuta e rinunciataria e il partire per inseguire la cosiddetta «Grande Occasione». Ma è negli anni ’70 che La Capria trova pienamente la sua voce letteraria, proprio quando abbandona definitivamente il romanzo d’invenzione – qualcosa di simile accadde a Domenico Rea, di un anno più grande. La Capria trova la sua dimensione nel genere della prosa, del racconto, dell’elzeviro, del ricordo, del ritratto, del memoriale, della saggistica (una saggistica sottile e complessa, benché affabile, avvolgente, di rara limpidezza), della riflessione (alla Montaigne), del «discorso» (sognante e illuministico), questo sì napoletano (La Capria detestava profondamente quella che definiva «napoletaneria»). I grandi capolavori di La Capria appartengono proprio a questa lunga fase post-romanzesca, quando uno dopo l’altro escono libri cruciali quali False partenze (1974), Fiori giapponesi (1978), L’armonia perduta (1986), La neve del Vesuvio (1988), Letteratura e salti mortali (1990), Capri e non più Capri (1991), Napolitan graffiti (1998), Lo stile dell’anatra (2001), L’estro quotidiano (2005), L’amorosa inchiesta (2006) e Il fallimento della consapevolezza (2018). Libri che raccontano la vita e la letteratura con lingua umile e nobile, sobria e consapevole, e che hanno regalato alla letteratura mondiale metafore di rara intelligenza come la «bella giornata», il «salto mortale» e lo «stile dell’anatra».
Tutta l’opera di La Capria è una lunga riflessione sulla verità, sulla semplicità e sulla bellezza. Nonostante una formazione esistenzialista – conosceva bene Camus, e aveva tradotto Sartre – La Capria riuscì nel miracolo di contrastare il nichilismo moderno con un’ostinata e mai retorica riflessione sulla bellezza, l’intelligenza e la perfezione. Rimangono indelebili le sue pagine sull’amore (fu sposato con l’attrice Ilaria Occhini), sul suo cane Guappo, su Napoli, sulla malattia (ebbe un infarto nel 2006), su Capri, sul mare, sulla vecchiaia, sulla lettura e sulla morte. Spesso affidate alla terza pagina del «Corriere della sera», al quale collaborò per molti decenni, rimarranno tra le testimonianze in prosa più cristalline della letteratura italiana a cavallo tra ‘900 e nuovo millennio. Avverso a ogni forma di fanatismo politico o ideologico, La Capria tentò la strada della «prosa onesta», per parafrasare Umberto Saba.
Per ripercorrere efficacemente la sua opera si consiglia di leggere il Meridiano Mondadori curato da Silvio Perrella – uno dei grandi studiosi di La Capria – e di cercare i tanti libri-conversazione che ha realizzato con scrittori delle nuove generazioni a lui affini (scrittori post-romanzeschi e non-fictionali) come Emanuele Trevi. Se ne ricaverà l’impressione di uno scrittore imprescindibile, un grande «classico» moderno.
Marco Giusti per Dagospia il 27 giugno 2022.
E adesso chi ce li racconta più i Giugiù i Mimì gli Scisciò gli Zazà di Positano che ancora ci divertono così tanto in “Leoni al sole” di Vittorio Caprioli, i Foffo e i Lallo de “L’imperatore di Capri” o di “Totò a colori”. La Napoli chic, estiva, del dopoguerra.
Con Raffaele La Capria, scrittore ma anche finissimo sceneggiatore, scomparso a 99 anni, ma fino all’ultimo così vivo, incisivo e sottile, perdiamo anche l’ultima memoria di una Napoli pre-Martoniana, pre-Sorrentiniana, per non scomodare Starnone-Saviano-Piccolo e chissà quanti altri, che nasceva dalle ceneri della Napoli distrutta del primo dopoguerra.
I ragazzi di Via Chiaia, gli amici di liceo, figli di una Napoli ricca, borghese e intelligente, Giuseppe Patroni Griffi, Antonio Ghirelli, Vittorio Caprioli, Maurizio Barendson, Francesco Rosi e, appunto, i due fratelli La Capria, Raffaele detto Dudù come il Dudù di “Operazione San Gennaro”, sposato con la bellissima Ilaria Occhini, nipote dello scrittore Giovanni Papini, e Pelos detto Pelos, il fratello minore più scombinato e divertente, morto nel 2015 a San Remo, sposato invece con la soubrette più amata degli anni ’50, Isa Barzizza, figlia del maestro Pippo Barzizza, stella dei film più belli di Totò.
Un gruppo che, compattissimo anche politicamente, tra loro c’erano personaggi del calibro di Maurizio Valenzi, poi sindaco di Napoli, e Giorgio Napolitano, si trasferì in massa nei primi anni ’50 a Roma e molto si aiutò. Giustamente. Nella Italia democristiana del tempo, portando una ventata di novità e di verità.
Pensiamo solo a “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, nato da un’idea e da una sceneggiatura di La Capria, film manifesto di un nuovo realismo combattivo che indicava una strada che ci porterà più ai reportage televisivi di questi ultimi vent’anni che a un tipo di cinema di denuncia che si mischierà presto con il genere.
Se “Leoni al sole” di Vittorio Caprioli, scritto da La Capria e in gran parte ispirati a personaggi veri del tempo, a cominciare dal fratello Pelos, già protagonista del suo primo e celebre romanzo, “Ferito a morte” e dalle sue folle esibizioni, era stato il tentativo di descrivere la Napoli balneare borghese dei ragazzi bene, “Le mani sulla città” ci portava dalla parte opposta di Napoli, mostrando la corruzione dei politici democristiani e la loro complicità con i palazzinari truffaldini. Un malcostume che ci perseguita da sempre.
La Capria aveva questo dono incredibile di poter passare da un universo napoletano all’altro. “Per dire come era mio fratello Pelos”, raccontava, “e come affascinava l’immaginazione degli amici, ricordo che un giorno in barca, una ragazza che lui voleva conquistare, gli domandò che ora era e lui che aveva al polso un rolex d’oro le rispose. E’ mezzogiorno, ma secondo me va indietro di qualche minuto; allora prese l’orologio e lo gettò a mare”.
E’ Pelos si elegge “precettore d’immaginazione e gioia” di Luca De Filippo, il figlio di Eduardo, e lo spinge a sperperare i soldi paterni al grido di “Fatte accattà ’o Giaguàr”. E’ Rosi invece a riportare La Capria alla realtà. Non funzionò, però, come non funzionerà neanche quarant’anni dopo con il trattamento Garrone, la prima versione de “Lo cunto de li cunti” di Rosi, “Cera una volta”, riscritto per lo schermo da La Capria e Patroni Griffi, malgrado la fotografia di Pasqualino De Santis, i costumi di Giulio Coltellacci, la presenza di Sophia Loren e Omar Sharif.
Troppo lontano il mondo di Giovan Battista Basile dal realismo di Rosi. Trovai invece molto bello il giallo di Luigi Comencini “Senza sapere niente di lei” con Paola Pitagora e Philippe Leroy, dove troppi sono forse gli sceneggiatori, Suso Cecchi D’Amico, Leonviola, lo stesso Comencini, per poter capire l’apporto di la Capria. Lo ritroviamo con Rosi per il più riuscito “Uomini contro”, durissimo film pacifista sulla Prima Guerra Mondiale, e lo troviamo alle prese col mondo di Arthur Rimbaud nel lontano “una stagione all’inferno” di Nelo Risi.
Indeciso se diventare un vero sceneggiatore alla Tonino Guerra o uno scrittore, seguita a lavorare con Francesco Rosi a più riprese, “Cristo si è fermato a Eboli”, ma assieme tornano a Napoli per quello che all’epoca mi sembrò una delle loro produzioni più sentite, “Diario napoletano”, un documentario sulla città girato per la Rai Tre di Guglielmi nel 1992 di grande spessore storico.
Va da sé un’opera totalmente camp diretta dal vecchio amico Giuseppe Patroni Griffi con Liz Taylor protagonista come “Identikit”, tratta da un romanzo di Muriel Spark che già Luchino Visconti avrebbe voluto girare. Più che un film è una sorta di festa di amici, dove compare come attore anche Andy Warhol, che è stato recentemente recuperato in non so quale edizione della Festa di Roma pre-Monda.
Non era per nulla riuscito, anzi, “Gioco al massacro”, film d’autore moderno di Damiano Damiani dove si scontrano due vecchi amici interpretati da Elliot Gould e da Tomas Milian senza parrucchino. Meglio le sue sceneggiature per Lina Wertmuller, altra sua cara amica, dove recita come attore anche suo fratello Pelos, “Sabato, domenica e lunedì” nel 1990 e “Ferdinando e Carolina” nel 1999, che sarà il suo ultimo film. Ma in generale, l’apporto di La Capria al cinema sembra piuttosto una questione di amicizia con quel o quell’altro regista piuttosto che una vera professione, che invece, di fatto, era, vista la quantità dei film sceneggiati.
La libertà dell'autentico intellettuale. Luca Doninelli il 28 Giugno 2022 su Il Giornale.
Morto alla soglia dei cent'anni il grande romanziere (ed eccelso saggista) napoletano
«L'immaginario, proprio come l'ambiente, si sta inquinando, si è già inquinato, per un eccesso di produzione, e non c'è filtro bastante a depurarlo. Una volta questo filtro era la cultura che unita al talento individuale e avendo a disposizione una scala di valori, faceva una scelta tra le informazioni e le rappresentazioni da accogliere, e quelle da respingere. Ma oggi mentre la massa delle informazioni e delle rappresentazioni si è enormemente accresciuta, la capacità del filtro si è fortemente intaccata. Da qui quell'eccesso di sapere che produce non-sapere o un sapere indifferenziato, quella valanga d'immagini che produce il vuoto d'immaginazione, quell'inflazione di parole che produce svalutazione della parola».
Queste parole di Raffaele La Capria, uscite in volume nel 1990 (Letteratura e salti mortali), definiscono bene la posizione centrale che questo grande scrittore ha occupato, senza troppi strepiti, nella storia della nostra letteratura degli ultimi settant'anni.
Io e La Capria ci conoscemmo nel 1992, durante la cerimonia del Premio Napoli, che avevo vinto. Fu lui a venirmi a cercare, a farmi i complimenti. Ricordo le sue parole puntuali, il suo sguardo sottile, indagatore. Alcuni anni più tardi scrisse un libretto intitolato La mosca nella bottiglia, un elogio del senso comune. Nelle sue parole riconobbi il suo sguardo su di me. Riprendendo una frase celebre di Ludwig Wittgenstein («La filosofia a questo serve, ad aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia»), lo scrittore osserva che per poter uscire la mosca deve sapere com'è fatta la bottiglia. Niente è più difficile, per chi sta dentro la bottiglia, ossia per tutti noi. Già sapere di esserci dentro è, come si dice, tanta roba.
Ecco come mi guardava, Raffaele. E come guardava gli uomini, nei suoi libri come nella vita di ogni giorno. Capire un uomo significava per lui definire il grado di consapevolezza della mosca alle prese con il bisogno di uscire dalla bottiglia. Cosa ne sai di te stesso, e della bottiglia in cui ti trovi? Nel 2000, al Premio Strega, lo vidi arrivare al mio tavolo. Mia moglie e io ci alzammo, lui baciò la mano a mia moglie e le disse: «Buonasera, M.me Dostoevskij». Avevo scelto quella guida, quel Virgilio per uscire dalla bottiglia.
A sé stesso non riservò un trattamento di favore. La sua produzione come romanziere si riassume in tre opere, scritte a una decina d'anni di distanza uno dall'altro: Un giorno d'impazienza (1952), Ferito a morte (1961), Amore e psiche (1972). Dei tre, se ben capisco, amò soltanto Ferito a morte, un romanzo che fece parlare di sé prima ancora di uscire in volume, e che poi vinse il Premio Strega. L'ho letto due volte, negli anni Ottanta e una ventina d'anni dopo, e sono stati due libri differenti.
Il primo era un libro raffinato, in bianco e nero, dove una condizione umana alla fine deludente (riconducibile nell'atmosfera a certe scene d'area neorealista) veniva passata al vaglio di un metodo narrativo rinnovato (con liberi riferimenti a Joyce, Faulkner, Proust, Camus) capace di dilatare o stringere i tempi e passare con fluidità dal «dentro» al «fuori» dei personaggi. Il secondo era un libro a colori vivissimi, lucido e attento a definire un mondo esausto nell'autorappresentazione, un'Italia di personaggi «tipici» incapaci di abbandonare lo statuto di personaggi, ossia di comprendere la struttura della bottiglia dalla quale devono uscire.
La Capria fu anche uomo di cinema, sceneggiatore, e su marito di quella grande attrice che fu Ilaria Occhini, a sua volta nipote di Giovanni Papini (una cosa, questa, che ho sempre trovato molto significativa). Ma il La Capria più importante resta a mio parere il saggista, l'intellettuale. Pur avendo scritto pagine di straordinario acume sulla letteratura e l'arte di narrare, ho la sensazione che, col passare degli anni, la sua fiducia nelle possibilità di rinnovamento di quest'arte sia scemata: troppo difficile scrivere, troppo confuse le idee.
Il brano riportato in apertura, scritto ben prima dell'avvento di internet e più ancora dei social - scritto, voglio dire, al tempo in cui far sentire in pubblico la propria voce era un privilegio per pochi - illustra, con parole pesate al milligrammo, questa condizione di spaesamento, che lui stesso avvertì - prima degli altri - sulla propria pelle. Colpisce l'idea di «cultura», definita da due cose: il talento da un lato e, dall'altro, una scala di valori. Il talento esiste da sempre, ma senza una scala di valori si perde, si confonde, diventa irriconoscibile. Senza la cultura così intesa, non è più possibile stabilire a che punto della bottiglia ci troviamo, e cosa dobbiamo provare a fare per uscirne: il sapere produce non-sapere, le parole producono vuoto, le immagini uccidono l'immaginazione. David Foster Wallace avrebbe detto, molti anni dopo, cose simili.
Uomini come Raffaele La Capria - «Dudù» per tanti amici - muoiono sempre troppo presto. Possono avere trenta, ottanta oppure cent'anni come lui, ma è comunque troppo presto. Sono gli intellettuali, quelli veri, quelli che non sono «di» questo o «di» quest'altro (di destra, di sinistra, cattolici, laici ecc.) perché appartengono unicamente al loro pensiero, come - piacciano o meno - Pasolini, Testori, De André, Gaber. Uomini liberi, che non potranno mai essere del tutto «sdoganati» perché non sono personaggi, figure, e perciò non trovano casa nelle nostre coscienze.
Raffaele La Capria, l’intellettuale scomodo che libera dall’ignavia persino noi avvocati. A 99 anni se ne va lo scrittore che ha smascherato le miserie della borghesia napoletana e non solo. Il Dubbio il 27 giugno 2022.
È scomparso a 99 anni il grande scrittore Raffaele La Capria, nato a Napoli nel 1922 e vissuto per anni nel mitico ed affascinante Palazzo Donn’Anna, in bilico sul mare di Posillipo. All’inizio dell’ottavo capitolo di Ferito a morte, La Capria descrive così uno dei personaggi del romanzo, Rossomalpelo: “Eccolo là, seduto di fronte a me, più giovane di me, informato di tutto, e capace di indignarsi”.
Di qui una riflessione generale su quanti e quali, scrittori e non, al giorno d’oggi sono effettivamente capaci d’indignarsi. A parere di La Capria lo scrittore non dovrebbe mai conformarsi all’opinione generale, al vento che tira, ma dovrebbe avere una dissenting opinion, trovare in sé una capacità individuale di reagire alle cose che avvengono. Insomma, lo scrittore dovrebbe essere nella società uno che non è amato da nessuno in particolare, perché è una mina vagante di cui non ci si deve poter fidare. Lo scrittore è qualcuno che non può essere controllabile. L’ideologia, spesso, è un controllo che si stende sull’immaginazione di certi scrittori. Uno scrittore dev’essere all’altezza di un individualismo che è al di fuori di qualsiasi appartenenza, alias controllo.
A me non piacciono – diceva La Capria – gli scrittori che s’indignano per professione perché credo che spesso questo tipo d’indignazione serva solo ad autopromuoversi. Oggi ci sono più risentiti, poiché il risentimento rende. Io non voglio campare sul risentimento, voglio provarlo quando capita. La Capria sapeva quando e perché indignarsi. Se non avesse avuto tale capacità, non si sarebbe mai potuta realizzare un’opera di denunzia potente ed in netto anticipo sui tempi come fu il film “Le mani sulla città” di Francesco Rosi, di cui lo scrittore partenopeo fu formidabile sceneggiatore. Questo spiccato senso critico emerge anche, in tutta la sua evidenza, in Ferito a Morte, dove La Capria demolisce un’agiata ed ignava borghesia posillipina, descritta come personaggi simili ad un quadro rivisitato ed addolcito di George Grosz.
La riflessione maturata da La Capria a proposito della capacità (o dell’incapacità) dello scrittore di indignarsi pare possa essere mutuata anche all’interno del contesto forense, consentendo al giurista – e in primis all’avvocato – di recuperare quella capacità di lettura delle diverse mistificazioni del reale. Una rinnovata capacità critica che possa fornire delle chiavi interpretative alternative, più autentiche e capaci davvero di scuotere le coscienze, soprattutto in momenti di grande sofferenza sociale, e rappresentare il cuore pulsante di una rinascita culturale.
L’atteggiamento timido, quasi di chiusura, o peggio ancora di ignavia, di alcune menti colte, infatti, ha indubbiamente disincentivato con il passare del tempo lo sviluppo di spirito critico e di coscienza civile nell’ambito di una determinata comunità, contribuendo così a determinarne il progressivo imbarbarimento dei costumi. È essenziale per l’avvocatura – e in modo particolare per l’avvocato penalista – trarre insegnamento dalla lezione di La Capria per tornare ad esercitare quella funzione di rottura e di contrasto al progressivo appiattimento delle menti, che necessitano invece di restar deste innanzi agli innumerevoli ed evidenti tentativi di mistificazione – volti a garantire in ogni modo possibile lo status quo – che promanano dal potere. Ed è un monito che va indubbiamente rivolto soprattutto alle nuove generazioni di avvocati.
È proprio la capacità di indignarsi, è proprio tale profondo turbamento, infatti, che anima la voglia di denuncia e costituisce l’essenza ultima della vera cultura, che deve destare necessariamente inquietudine, non è mai semplice intrattenimento, non è mai distrazione di massa, non è mai comodamente neutrale.
Domenico Ciruzzi, già vicepresidente dell’Unione Camere penali e presidente della Fondazione Premio Napoli
Aveva 99 anni. È morto Raffaele La Capria, il grande scrittore “Ferito a Morte” da Napoli. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Giugno 2022
È morto, a 99 anni, lo scrittore napoletano Raffaele La Capria. Tra gli autori più significativi del Novecento italiano, è stato protagonista di un’intenza attività di narratore e di saggista, modello e fonte di ispirazione per le successive generazioni di scrittori. Oltre al Premio Strega per il capolavoro Ferito a morte, ha vinto il Premio Campiello alla carriera nel 2001 e il Premio Viareggio per la narrativa. La notizia del decesso è stata data da Il Corriere della Sera.
Era nato il 3 ottobre 1922 ed era cresciuto nel palazzo Donn’Anna a Posillipo. Aveva vissuto la giovinezza sotto il fascismo. Dal secondo dopoguerra vissuto a Napoli era stato ispirato il suo primo romanzo, Un giorno d’impazienza, pubblicato da Bompiani nel 1952. Aveva sposato in prime nozze Fiore Pucci e in seconde Ilaria Occhini, ha avuto dalla prima la figlia Roberta e dalla seconda la figlia Alexandra.
La Capria viveva dal 1950 a Roma ma aveva sempre raccontato Napoli, “una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme”. A Napoli aveva ambientato il suo capolavoro, Ferito a morte, che nel 1961 ha vinto il Premio Strega. Per la sceneggiatura di Le mani sulla città si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia.
Per anni aveva scritto sulle pagine della cultura per Il Corriere della Sera. Nel 2001 si era aggiudicato il Premio Campiello alla carriera. Con L’estro quotidiano si era aggiudicato il Premio Viareggio per la narrativa nel 2005. Era stato anche traduttore per il teatro e sceneggiatore per registi come Rosi, Luigi Comencini, Lina Wertmüller. Le sue opere sono state raccolte e pubblicate in un volume della prestigiosa collana “I Meridiani” della Mondadori.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
Chi era Raffaele La Capria, genio lieve che scriveva con lo stile dell’anatra. Filippo La Porta su Il Riformista il 28 Giugno 2022
Nell’estate del 2018 volli trascinare Raffaele (Dudù) La Capria allora 96enne in un dialogo pubblico a Porto San Giorgio, nelle Marche, entro una rassegna dal titolo molto “lacapriano”, “Il mare dentro”. Un autista andò a prelevarlo a Roma e lo portò, dopo tre ore, nella località balneare. All’inizio Dudù mi appariva molto stanco, un po’ frastornato – mi chiese troppe volte di quale tema avrebbe dovuto parlare – e temetti per l’incontro. Poi la sera di fronte a duecento persone cominciò a improvvisare fluentemente come un consumato attore shakespeariano e incantò quel pubblico con il suo inesauribile repertorio “mediterraneo”. La Capria, che nel 1963 vince lo Strega – dopo l’esordio di Un giorno d’impazienza, 1952 – con il bellissimo Ferito a morte, romanzo faulkneriano e narrativamente spiazzante, sapeva sempre riannodare il patto con i lettori e anche nella sua vena sperimentale non inseguì mai nessun oltranzismo formale.
Dopo Ferito a morte La Capria non ha più scritto romanzi (a parte Amore e psiche, poi ripudiato), per la ragione che non erano più nelle sue corde. Avrebbe avuto certo la “tecnica” per scriverne a decine (oggi ai narratori si chiede di sfornare un romanzo ogni due anni!). Invece lui, più onestamente, ha continuato la sua attività di narratore reinventandola in altri generi letterari: nella saggistica autobiografica, nella critica letteraria, nel memoir. Cito solo, alla rinfusa, L’occhio di Napoli, L’armonia perduta, Letteratura e salti mortali, L’apprendista scrittore, L’estro quotidiano, L’inchiesta amorosa.… Tutti esempi di una letteratura al confine tra generi diversi. Sempre inseguendo quello che definì lo “stile dell’anatra”, nel quale tutto ci appare miracolosamente semplice perché vi si nasconde la fatica e la complessità, proprio come l’anatra che scivola sul lago ma sott’acqua agita vorticosamente le zampette. Un’idea di bellezza che ha il suo antecedente nella “sprezzatura”(apparente trascuratezza) del Cortegiano cinquecentesco di Castiglione. Certo, si pone in modo antagonista rispetto alla concezione dell’arte che il ‘900 ha coltivato – pensiamo solo all’arte performativa dove fatica, imperfezioni e sofferenza si esibiscono – eppure non credo vi si possa rinunciare del tutto. Niente di elitario nel buon senso: si tratta di una disposizione che appartiene a ciascuno di noi, nella affollata, anonima società di massa, ma, si badi bene, a ciascuno preso in quanto “individuo”, con la sua attitudine critica, dissenziente, con la sua ragionevolezza e capacità di stupore.
Nelle vesti di critico militante – al tempo stesso severo e fraterno – ci mette in guardia soprattutto contro la “falsa buona letteratura”, più subdola della “cattiva letteratura”, poiché è “disanimata e complicata”. Inoltre, assai prima delle palinodie degli strutturalisti pentiti alla Todorov, ci mostra l’aridità dei dottori sottili dell’interpretazione, impegnati a smontare e rimontare pedantemente le opere letterarie. La Capria era anche un acuminato critico della società, delle mode e dei linguaggi: la sua “riscoperta” del senso comune fu poco meno che eversiva, in una cultura italiana innamorata di un radicalismo tutto retorico, lontano dall’esperienza. I suoi sono “scritti corsari” ma come in punta di piedi, senza clamori e senza alcuna esibizione di pathos. Intransigenti e ragionevoli, moralistici ma in nome di un edonismo quasi “naturale”, di origine mediterranea, ellenica, pagana.
Si è è sempre sentito come uno “straniero” in patria, è uno dei non molti intellettuali inappartenenti, del tutto disorganici in cui si trova il meglio della cultura italiana della seconda metà del ‘900 (Chiaromonte, Pampaloni, ma anche Parise, Flaiano…). La sua è una inappartenenza non solo politica ma direi metafisica: in un certo senso non appartiene interamente alla sua città, Napoli (con cui era da sempre “in poetico litigio”), né appartiene interamente a quella immagine di felicità radiosa che pure illumina tutti i suoi libri La sua “bella giornata” infatti lungi dall’essere una suggestione estetizzante si rivela come mito tragico perché ci mostra tutto ciò che nega oggi la bella giornata. Va bene, non è vissuto nel Bronx napoletano ma a Palazzo Donn’Anna di Posillipo, di fronte al mare luccicante pieno di dei e semidei, ma per criticare l’esistente (gli orrori, la bruttezza, la falsità della vita sociale), occorre una qualche esperienza della bellezza, della felicità, della verità che ci proviene dal passato.
Sono particolarmente affezionato a un libretto prezioso, A cuore aperto, meditazione autunnale sull’esistenza, esercizio spirituale e quasi trattatello yoga sulla nascosta “intelligenza” del corpo e infine miniricettario di cucina partenopea. Appunti quotidiani, riflessioni del dormiveglia, sogni, canzoni di moda tanto tempo fa, pensieri di un sonnambulo, apologhi politici, brani di dialogo (con la moglie, con un giardiniere…), compongono un diario esistenziale che finisce in una dichiarazione di pietas creaturale: “il corpo è sacro, qualunque corpo, quello di un animale e quello umano”. Si comincia con l’infarto, il by-pass e il risveglio dall’anestesia. Quando gli dicono tutti che dopo l’operazione è “rifiorito”, lui pensa a un albero che ebbe straordinaria rifioritura prima di morire e fa qualche scongiuro…Ed è la “superficialità” che lo ha protetto: l’aderire alle umili cose e alla fugace apparenza, quel “vivere nella prossimità” vanamente inseguito dal Nietzsche della Gaia scienza. Non resistere all’onda impetuosa del divenire, ma cedervi.
Il pensiero della morte dà valore all’istante vissuto. Immaginarsi un congedo da qualche cosa – anche se provvisoriamente – ce la fa amare di più. La Capria rievoca l’atto con cui fin dall’infanzia chiude gli occhi, fa sparire il mondo e poi quando li riapre “tutto ritornava com’era. Ed era bellissimo”. Già, “alla fine la vittoria è l’esserci”, è abitare – incuranti dell’eternità – questo unico mondo sublunare, caotico, indecifrabile, anche doloroso, ma a suo modo ordinato e tangibile, pieno di vita. Nei libri di La Capria si celebra una gaia e malinconica scienza dell’esistenza, la quale è sempre scarto, naufragio, ferita, ma naufragio generatore di sentimenti, sogni ed esperienze…Quale scrittore italiano recente è stato capace di una leggerezza così impalpabile, pur dentro il tragico? Filippo La Porta
I giornali tra letteratura e la forza dei soldi. Leonardo Del Vecchio e Raffaele La Capria: gli occhiali (e i soldi) restano, le poesie e i romanzi volano via. Piero Sansonetti su Il Riformista il 28 Giugno 2022.
È morto Leonardo Del Vecchio. Grande imprenditore, fabbricante soprattutto di occhiali. Uno degli uomini più ricchi d’Europa. Aveva 86 anni e nei suoi ottantasei anni aveva dato da lavorare a moltissime persone. Questo è un merito suo assoluto. Comunque, voi, che è morto Leonardo Del Vecchio già lo sapete, e conoscete bene anche tutta la sua biografia, se avete un computer. Ieri, per l’intera giornata, tutti i giornali online hanno aperto l’homepage sulla morte di Del Vecchio, e dopo il titolo principale hanno messo moltissimi altri titoli su tutti i particolari della sua vita e delle sue relazioni.
Forse invece non vi siete accorti che è morto anche Raffaele La Capria, proprio ieri. Che non era un imprenditore, non fabbricava né occhiali né nient’altro, non dava lavoro a nessuno e ha passato la sua vita impegnato nella più flebile delle attività umane: scriveva romanzi, racconti e poesie. Era napoletano: napoletanissimo. I giornali online già dopo mezzogiorno non davano più la notizia sulla homepage. Gli occhiali (e i soldi) restano, le poesie e i romanzi volano via come tutte le parole.
Mi ricordo quando ero giovane giornalista politico all’Unità che un giorno arrivarono due notizie drammatiche. Era morto Umberto Terracini e poi era morto Arturo Colombi. Probabilmente sapete chi era Terracini (uno dei fondatori del Pci, con Gramsci, Bordiga e Togliatti, e presidente della Costituente), comunista sempre un po’ dissidente. Probabilmente non sapete chi era Colombi, anche lui vecchio dirigente del Pci, un po’ oscuro ma potente. Era presidente della arcigna commissione centrale di controllo, il vertice della polizia interna del partito.
All’Unità iniziò uno psicodramma: come fare la prima pagina? Dare in modo più vistoso la morte del celebre ma dissidente Terracini o dell’oscuro, ma fedele e potente, Colombi? Si scelse di fare un solo titolo – se ricordo bene – usando l’ordine alfabetico: “sono morti i compagni Colombi e Terracini”. Credo che il direttore fosse Reichlin. Saggezza comunista. In questo caso invece no. I grandi quotidiani hanno deciso, senza tanti dubbi, che tra letteratura e la forza dei soldi contano più i soldi. Molto di più. Sono quelli il valore della vita. Si costruiscono lì le gerarchie. Del resto volete sapere in questi anni quanta pubblicità Del Vecchio ha offerto ai giornali? Tantissima. E La Capria? Zero.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Un napoletano antifrastico. La leggerezza di Dudù La Capria, capace di godersi la vita e ridere della morte. Marina Valensise su L'Inkiesta il 28 Giugno 2022
Lo scrittore era allegro, serafico, scanzonato e sornione. Abitava una regione intellettuale senza tempo, sospesa tra cielo e terra, impermeabile agli affanni, ai rimpianti alle inquietudini e al rancore.
Dudù La Capria era l’allegria, il sorriso permanente, il buonumore, la speranza, la saggezza, il gusto della vita. Era l’incarnazione vivente della bella giornata. Lo scrittore che meglio ha descritto l’anima napoletana, il mito del mare e del sole, era davvero un uomo speciale, attento agli altri, curioso della vita, indulgente quanto basta, indifferente quanto serve e comunque sempre pronto a dispensare intorno a sé i suoi sorrisi sornioni, pieni di stupore, facili all’empatia.
Per essere un napoletano, anche se era un napoletano espatriato, era dotato in eccesso di «quell’intelligenza sottile di un popolo che ne ha visti altri», per riprendere la famosa formula utilizzata da uno scrittore francese per definire un suo conterraneo. E per essere uno scrittore italiano, era straordinariamente dotato del senso della misura, dell’armonia, della sicura cognizione del limite che regala a chi l’esercita l’indulgenza nei confronti del prossimo, ingrediente sovrano della buona letteratura, e che gli facilitava grandemente l’arte sublime di saper sorridere della vita, delle sue ingiustizie, della sua inclemenza e della sua ferocia, mantenendo la capacità di prendere in giro innanzitutto sé stessi.
Per questo Dudù La Capria (per questo) sapeva offrire ai suoi molti amici, giovani, meno giovani, vecchi, trapassati e a venire il senso pieno di un legame indefettibile, unico, speciale, anche se li vedeva una volta l’anno, anche se non sapeva bene cosa facessero, cosa pensassero, come vivessero. Dudù La Capria era una giornata di sole, un vaso di gerani fioriti, una primula sempre verde, un albero grondante di limoni come quelli che coltivava sulla terrazza del suo attico a Palazzo Doria, sospeso tra il cielo e le rovine romane, con il Pantheon sullo sfondo, e mai altro luogo poteva indicare meglio l’essenza mitologica della sua vita, e fungere da insegna della sua stessa esistenza.
Poi c’era Capri, l’isola magnifica il cui nome era contenuto nelle lettere del suo cognome, e che lui si portava dietro, si teneva dentro, come lo scoglio di Fontelina da quale tuffarsi e rituffarsi, come i mille gradini da scalare per arrivare al poggio sul mare di Tiberio che per decenni ospitò il nido suo e di Ilaria, il suo rifugio, il luogo eletto delle sue estati interminabili e felici.
Quella casa, che torna come un sogno nelle foto dell’amico Lorenzo Capellini, era stata venduta, dopo essere stata forse disertata per anni causa senectutis, ma era rimasta la stella fissa della sua costellazione interiore. E infatti a Capri Dudù La Capria tornava e ritornava ogni anno, ma senza nostalgia, senza rimpianti, perché era un uomo dotato di saggezza e pieno di allegria, un uomo che amava e sapeva amare la vita, nonostante il dolore, gli acciacchi, la fatica, e la morte delle illusioni.
A Capri infatti Dudù La Capria ritrovava il suo elemento, lo splendore meridiano, la bellezza, la naturale gloria dell’arte come prodigio spontaneo, di cui occultare pervicacemente la fatica e gli sforzi necessari a farla apparire tale (e rileggete una volta per tutte il “Passo dell’anatra”, per capire quanto per lui scrittore contasse l’estetica del sussiego). A Capri Dudù La Capria credo ritrovasse la versione più risolta della fedeltà a se stesso. E infatti ogni volta che sbarcava sull’isola per il premio Malaparte, di cui era presidente, il favoloso premio letterario internazionale fondato da Graziella Lonardi e resuscitato dieci anni or sono dalla nipote di quest’ultima Gabriella Buontempo, con l’aiuto un mecenate generoso come Michele Pontercorvo e la sua famiglia proprietaria della Ferrarelle, quando si arrampicava sulle rampe del Gatto Bianco o si sedeva sulle terrazza del Quisisana, quando risaliva da Punta Tragara la via Camerelle, circondato dalle attenzioni dei suoi amici scrittori, come Emanuele Trevi e Silvio Perrella, aveva il cuore in festa.
Bisognava vederlo quant’era contento. Bisognava guardarlo mentre annuiva restituendo i saluti, o sorseggiando un calice di vino bianco; bisognava studiarne le rughe misteriose che con gli anni moltiplicavano i loro solchi, per capire come il passare del tempo lo lasciasse perfettamente indenne, quasi che Dudù abitasse una regione senza tempo, sospesa tra cielo e terra, impermeabile agli affanni, ai rimpianti, alle inquietudini e al rancore.
Un giorno, pensate, era l’ottobre del 2015, sull’isola pioveva a dirotto, aspettavamo l’arrivo dello scrittore norvergese Karl Ove Knausgård, quello dell’autobiografia quotidiana in presa diretta sotto forma di diario infinito pubblicato in più volumi da Feltrinelli, e ci ritrovammo in una saletta del Municipio di Capri col il suo amico architetto per disegnare il monumento funebre che avrebbe dovuto adornare la sua ultima dimora.
L’uomo più allegro del mondo, lo scrittore apparentemente più serafico del secondo Novecento, il napoletano più blasé, più scanzonato, più sornione e meno superstizioso che avessi mai incontrato, si divertiva come uno scolaretto a tratteggiare con un pennarello le perfette dimensioni del suo cenotafio. E nel farlo, sorrideva tranquillo tra sé e sé, pensando a chissà cosa l’aspettasse, e sorridendo mentre cercava con lo sguardo i suoi amici, quasi volesse invitare la morte a entrare anche lei nel novero della compagnia dei pochi eletti, quasi cercasse di irretirla per chiederle di far parte del gruppo, vezzeggiandola e prendendola un po’ in giro come succede quando ci si vuole bene. E pensare che era pure napoletano. Un napoletano senza ombre, un napoletano antifrastico.
Morto Raffaele La Capria. Lo scrittore avrebbe compiuto 100 anni il prossimo ottobre. La redazione su La Repubblica il 27 Giugno 2022.
Premio Strega nel 1961 con "Ferito a morte". Leone d’Oro a Venezia per "Le mani sulla città" di Rosi
Napoli nel cuore dalla nascita, Roma da sempre la sua casa. Raffaele La Capria, morto questa notte, avrebbe compiuto 100 anni il prossimo 3 ottobre. Le sue opere avevano al centro la città partenopea. Autore di Ferito a morte, con il quale ha vinto il premio Strega nel 1961, si è imposto come una delle voci più significative della letteratura italiana del secondo Novecento raccontando soprattutto la sua Napoli, una città che aveva nell’anima come ha sempre detto in tante interviste. Ferito a morte è poi confluito con il precedente Un giorno d'impazienza (1952) e con il successivo Amore e psiche (1973) in Tre romanzi di una giornata (1982).
La Capria: cinema e letteratura
Condirettore dal 1990 della rivista letteraria Nuovi argomenti, autore di programmi Rai e sceneggiature di numerosi film di Francesco Rosi tra i quali Le mani sulla città (Leone d'Oro a Venezia) e Uomini contro, ha collaborato con Lina Wertmuller alla sceneggiatura del film Ferdinando e Carolina. Nel settembre del 2001 ha ricevuto il Premio Campiello alla carriera e nel 2002 il premio Chiara. Nel 2005 vinse il Viareggio per la raccolta L’estro quotidiano e qualche anno dopo ancora il premio Alabarda d’oro e il Brancati.
Sposato con l'attrice Ilaria Occhini, morta tre anni fa, è stato consuocero di Antonello Venditti e Simona Izzo.
La Capria: le opere
Tra le altre opere, si ricordano le raccolte di racconti come La neve del Vesuvio, fiori giapponesi (1979), Colapesce (1997). Si è dedicato molto anche alla saggistica, pubblicando, tra gli altri, False partenze (1964), Il sentimento della letteratura (1964) e l'autobiografia Cinquant'anni di false partenze (2002). Nel 2003 le sue opere sono state pubblicate in un volume della collana I Meridiani a cura di Silvio Perrella. Una nuova edizione riveduta e aggiornata, in due volumi, è stata pubblicata nel 2015.
La Capria ha anche tradotto opere per il teatro di autori come Sartre, Cocteau, Eliot, Orwel e introdotto o prefato opere di Silone, Patroni Grffi, Veronesi e moltissimi altri autori italiani e internazionali.
1922-2022. Morto lo scrittore napoletano Raffaele La Capria. Il Domani il 27 giugno 2022
Vincitore del Premio Strega con Ferito a morte, La Capria avrebbe compiuto cent’anni il prossimo 3 ottobre
lo scrittore napoletano Raffaele La Capria all’età di 99 anni. È uno degli autori e sceneggiatori più significativi del secondo Novecento italiano ed è stato anche uno dei collaboratori delle pagine culturali del Corriere della Sera.
LE OPERE
Ha esordito in letteratura con il libro Un giorno d’impazienza nel 1952 mentre nel 1961 La Capria ha vinto il premio Strega con una delle sue opere letterarie più conosciute: Ferito a morte. Seguono poi Amore e psiche (1973) e Tre romanzi di una giornata (1982). Le sue opere, tantissime, erano spesso incentrate su Napoli, sua città natale, che definiva «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme».
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Raffaele La Capria accusava la vita di avergli fatto perdere tempo per scrivere
I PREMI
Dopo aver vinto il prestigioso Premio Strega nel 1961 per Ferito a morte. Nel settembre del 2001 ha ricevuto il Premio Campiello alla carriera e nel 2002 gli viene assegnato il Premio Chiara. Nel 2005 vinse il Premio Viareggio per la raccolta L’estro quotidiano. Nel 2011 gli è stato assegnato il premio Alabarda d’oro alla carriera per la letteratura; nel 2012 il Premio Brancati.
Nel 2004 ha anche ricevuto un’onorificenza della Repubblica italiana: la medaglia d’oro ai Benemeriti della Cultura e dell’Arte.
La Capria Avrebbe compiuto cent’anni il prossimo 3 ottobre.
CULTURA
L’ammasso di parole in un solo documento, scritto dall’amico Raffaele La Capria
Antonio Gnoli per La Repubblica - Estratto il 4 maggio 2015.
Forse ha perfettamente ragione Raffaele La Capria quando, rivolgendosi all'amore di quasi tutta la vita, le dice: "Ho l'impressione cara che dovrei allontanarmi. Non ascoltare quel che dici. A un estraneo si raccontano cose che è giusto non sentire".
E lei, Ilaria Occhini, lo guarda con tenerezza e imbarazzo. E gli dice di restare perché le sue parole non tradiranno. È una scena di una bellezza senza rimorsi. Come tra due amanti che ritrovino la ragione profonda dello stare assieme.
Sorridono. Raffaele con una leggera irrequietezza. Ilaria mostrando la tensione di un esordio: "Non mi abituerò mai a pronunciare la prima battuta. La sento tra la lingua e il palato. Come una sorsata di buon vino. La voce ne sciacqua il timbro. Cerco di modulare, ritmare, impostare. Ma ogni volta è morire". Pronuncia "morire" stringendosi le mani.
………..
Una grande storia è stata quella di lei con La Capria, che è qui presente.
"Mi fa piacere che ci sia. Lui dice che la verità quando si è vecchi diventa più importante della poesia".
Cosa vuol dire?
"Che in fondo non vale la pena dipingersi migliori di quello che si è. Io, ad esempio, sono stata si dice bellissima. Non credo di esserlo più. Mi dico, cosa penserà la gente quando esco in strada dopo ore di trucco? Non è ridicolo tutto questo affannarsi?".
Com'è il vostro rapporto?
"Dudù dice che siamo come questa foto: due vecchietti che sorridono. Lui si sente pacificato. Ha buoni rapporti con le persone e il mondo".
E lei?
"Meno. Molto meno. Dudù dice che sono una "scassacazzi". Non la classica moglie adorante. Dice che non mi piace mai niente di quello che scrive. Non è vero. Gli fa comodo pensarlo. Ma non è vero. Ma dopotutto io sono un'aristocratica e lui un borghese".
C'è un racconto di suo marito molto bello e molto crudo in cui mette un po' a nudo il vostro rapporto che iniziò nel 1961.
"Fu l'anno in cui vinse lo Strega. Ci innamorammo perdutamente e perdutamente siamo stati insieme".
In questo racconto parla anche di tradimenti.
"Ognuno ha il diritto di dire quello che vuole. Di confessarsi pubblicamente. È stato un rapporto lunghissimo. Capisco le rivendicazioni. I momenti alti e bassi. Ci siamo conosciuti. Ci siamo fatti del bene e del male. E questo è tutto".
Proprio tutto?
"Non ci sono più terre selvagge da sognare. O da conquistare. Magari a questo punto uno ricorre al viatico divino. Mi colpì molto mio nonno che dopo essere stato un fervente mangiapreti si convertì profondamente. È morto facendosi leggere i Vangeli. Come uomo passò gli ultimi anni della vita afflitto da una devastante sclerosi. Il male progrediva. Fino a quando perse tutto. Gli restò solo il movimento di un dito e con quello, per comunicare, indicava le lettere dell'alfabeto. Ecco cos'è un intellettuale eroico. Non quegli stronzi che ne fecero una macchietta".
Finiamo in gloria?
"Ma no, finiamo come abbiamo cominciato. Io che prendo la parola e balbetto. Mi emoziono. Rido e piango. Ilaria, mi dico, il guaio non è essere vecchi, ma sentirsi giovani ".
LA MORTE DI RAFFAELE LA CAPRIA. Raffaele La Capria e l’infinito lavoro di conoscere sé stesso. SILVIO PERRELLA su Il Domani il 27 giugno 2022
Raffaele La Capria ogni volta che poteva faceva uso d’ironia; il suo essere sempre un po’ sfottente non si fermava nemmeno davanti alla sua stessa morte.
Si figurava quel momento cadere nella falsa curiosità di chi a cena dice: è morto La Capria. Chi? Quello della bella giornata? Non so. Lo hanno detto stamattina al telegiornale. E hanno aggiunto che aveva Napoli nel cuore. Passami l’insalata. Per dopo ho comprato un buon dolce.
La Capria era nato insieme al fascismo nel 1922, facendo parte delle più fertile generazione del secondo Novecento, forse l’ultima che abbia ancora avuto la necessità di confrontarsi con la Storia, di tenere a bada l’ego al cospetto della Natura. Calvino, Pasolini, Sciascia, Fenoglio, Ortese, Natalia Ginzburg fino a Garboli e a Parise: si è trattato della generazione dei nostri antenati prossimi; di quegli indagatori del reale per virtù di alfabeto che hanno creduto nella letteratura come una forma di conoscenza insostituibile.
Raffaele La Capria ogni volta che poteva faceva uso d’ironia; il suo essere sempre un po’ sfottente non si fermava nemmeno davanti alla sua stessa morte. Si figurava quel momento cadere nella falsa curiosità di chi a cena dice: è morto La Capria. Chi? Quello della bella giornata? Non so. Lo hanno detto stamattina al telegiornale. E hanno aggiunto che aveva Napoli nel cuore. Passami l’insalata. Per dopo ho comprato un buon dolce.
LA CAPRIA, CHI?
In effetti un po’ ci “azzeccava”; per un altro po’, invece, sarà smentito. Per molti la notizia della sua morte a quasi cento anni avrà una risonanza davvero inaspettata, perché pochi scrittori sono stato amati dai lettori come lui; quasi fossero amici con i quali instaurare un vera conversazione e come le vere conversazioni mai esenti dallo spirito critico e dall’indipendenza di giudizio.
Il motto al quale si è sempre attenuto La Capria è il greco: conosci te stesso. E per farlo ci è voluto un gran lavoro; un lavoro infinito che metteva in gioco ogni cosa, sapendo però che un’opera era stata edificata e che nessuno l’avrebbe potuta demolire mai del tutto.
In similitudine con quel che accade con il venerato palazzo Donn’Anna; un mastodontico edificio seicentesco mai finito, sorgente direttamente dalle acque del Mediterraneo e dunque di Posillipo («Ridammi Posillipo e il mare d’Italia» cantava sconsolato l’amato De Nerval da Raffaele tradotto per puro regalo del cuore).
Palazzo Donn’Anna sempre bisognoso di cure, sempre pronto a sfarinarsi sotto l’onda d’urto degli elementi e sempre in piedi ad accogliere bonacce e tempeste.
Tra Raffaele e quel luogo si era stabilito un rapporto d’intimità immaginativa quasi sconcertante. Da quel luogo lo scrittore estraeva l’intera città di Napoli come da una radice quadrata.
E quante incomprensioni, quanti sberleffi inutili sull’armonia perduta, descritta da chi non aveva davvero letto le sue opere come il mito di un posticcio Eldorado, quando la vera armonia perduta era quella del corpo che si stacca dalla mente, dalla mutilazione dei sensi, dalla perdita della sensualità che il mare insegna ai suoi veri adepti.
Non a caso per il suo romanzo di esordio, Un giorno d’impazienza, aveva scelto i versi di Prevert in cui si sostiene che la mente lasciata da sola mente monumentalmente. Veniva soprattutto da Proust questa consapevolezza che mai andava teorizzata ma solo vissuta.
Vissuta con la cocciutaggine di un mediterraneo che sa quanto il mare sia il vero polmone del mondo. Le cose sott’acqua acquistano meraviglia, si legge in un passo di Ferito a morte; il romanzo dove il mito della bella giornata prende forma e si dirama e si diffonde nelle sue tante opere successive, migliaia di pagine da riempire ben due tomi dei Meridiani mondadoriani. E in ogni pagina sempre la stessa domanda: io chi sono davvero? Come posso stare al mondo con decenza?
DIFFIDARE DELLA FINZIONE
Da queste domande è venuto uno smottamento progressivo che ha portato La Capria a diffidare della finzione e del romanzesco. Da False partenze (1974) fino agli Esercizi superficiali (2012) passando per Letteratura e salti mortali, La mosca nella bottiglia e Lo stile dell’anatra, il romanziere si è ibridato con il saggista, il diagnostico della società ha camminato con lo smascheratore della vera falsa letteratura.
Tutto all’insegna dell’indipendenza (indipendenza anche da Napoli, la città del suo poetico litigio); tutto messo in discussione usando e riabilitando il senso comune, ben diverso dal buon senso, alla strenua ricerca della misura.
D’altronde il mito della bella giornata è basato sull’alternanza di hybris e nemesis, di luce e di ombra, di necessaria chiarezza da chiedere a sé stessi, pena le tante posture che circolano sulla scena culturale dell’oggi e che impediscono una veridica conoscenza.
La Capria era nato insieme al fascismo nel 1922, facendo parte delle più fertile generazione del secondo Novecento, forse l’ultima che abbia ancora avuto la necessità di confrontarsi con la Storia, di tenere a bada l’ego al cospetto della Natura.
Calvino, Pasolini, Sciascia, Fenoglio, Ortese, Natalia Ginzburg fino a Garboli e a Parise: si è trattato della generazione dei nostri antenati prossimi; di quegli indagatori del reale per virtù di alfabeto che hanno creduto nella letteratura come una forma di conoscenza insostituibile.
UN DILETTANTE D’INGEGNO
Proprio Parise in una lettera di grande risonanza emotiva chiedeva da Salgareda al suo amico napoletano di raccontare «il suo doloroso capire tutte le cose». In Italia essere sé stessi, come aveva sperimentato Giacomo Leopardi, l’antenato degli antenati, non è mai disgiunto dal dolore.
Deriva forse da questo che La Capria sia stato considerato come un corpo estraneo, un dilettante d’ingegno da leggere la mattina sul Corriere e dimenticarsene il pomeriggio. Ciò non toglie che la sua presenza nella città di Roma, dove si era trasferito negli anni Cinquanta, abbia contribuito ad allevare molti di quelli che negli anni Novanta erano giovani talenti: narratori, poeti, uomini di cinema e di teatro.
Si pensi, solo per fare un esempio, alla venerazione di un Paolo Sorrentino, che ha sempre sognato di mettere in pellicola Ferito a morte. D’altronde, pur tenendosi a debita distanza, La Capria ha sempre scritto anche per il cinema; sue le sceneggiature di alcuni film di Franco Rosi, prima fra tutte Le mani sulla città. E come dimenticare il sodalizio con Giuseppe Patroni Griffi, soprattutto per quel che riguarda la messa in scena di Eliot.
L’amore coniugale con un’attrice come Ilaria Occhini non poteva non figliare una duratura attenzione per quel che riguarda celluloide e tavole di palcoscenico. Prima di tutto però la lingua, l’oralità inventata per iscritto, l’inarcarsi della frase come un’onda: «Ogni volta che riesco a comporre una frase ben concepita, ben calibrata e precisa in ogni sua parte, una frase salda e tranquilla nella bella lingua che abito, e che è la mia patria, mi sembra di rifare l’Unità d’Italia e insieme di rendere omaggio al civilissimo senso comune de patrii numi», aveva scritto.
Ne derivava un lavoro infinito, mai pago dei risultati, un continuo riscrivere quasi più nella mente che sulla pagina, un’incessante pratica del me visto da lui stesso.
Raffaele La Capria accusava la vita di avergli fatto perdere tempo per scrivere
FREQUENTARE LA POESIA
Un lavoro che poteva accomunarlo a quello dei poeti. Lui però di versi suoi non ne scriveva; preferiva frequentare la poesia come traduttore. L’aveva fatto da giovane sulle pagine di Sud, la rivista di Pasquale Prunas, che aveva messo attorno allo stesso tavolo i migliori talenti napoletani del Dopoguerra, a cominciare da Luigi Compagnone fino alla napoletanizzata Anna Maria Ortese.
Su quelle pagine erano apparse le prime traduzioni di Auden (dal quale trasse l’esergo per Ferito a morte) e soprattutto di Eliot. I Quattro quartetti, tradotti prima in compagnia di Tommaso Giglio e poi da solo, hanno accompagnato tutta la vita di Raffaele La Capria.
Li ha limati e rilimati; ne ha fatto un’icona della sua mente, come un refrain da dirsi tra sé e sé: «Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine. / E segnare una fine è segnare un inizio».
Quando l’altro ieri sera sono andato da Raffaele per l’ultima volta, trovandolo nel suo lettuccio d’ospedale attaccato agli strumenti misuratori del battito cardiaco e del respiro, indomito nel suo volersi levare dal viso la mascherina dell’ossigeno, uccellino leggero tra le lenzuola, ho pensato che nella sua mente indagatrice nel buio, nel suo stare sulla soglia davvero ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine. / E segnare una fine è segnare un inizio.
Gli strumenti misuratori della vita malata mandavano suoni sinistri, ma Raffaele, nella sua proverbiale sordità non poteva sentirli; di sicuro non disturbavano il suo udito fattosi d’improvviso giovane e fiorente di cromie. Sono quasi certo che ascoltava il cri-cri dell’uccello che manda il suo canto nella solitudine del cosmo; quel cri-cri che aveva voluto come ultima parola nel suo Meridiano.
SILVIO PERRELLA. Silvio Perrella è uno scrittore e critico letterario. Ha scritto introduzioni ad Anna e Bruno e altri racconti di Romano Bilenchi, a L'aria della sera e altri racconti di Silvio D'Arzo, a Spaccanopoli di Domenico Rea e ai Sillabari di Goffredo Parise ). Ha curato il Meridiano Mondadori dedicato alle opere di Raffaele La Capria, l'antologia di saggi di George Orwell Nel ventre della balena e la riedizione di Il critico come artista di Oscar Wilde.
1922-2022. L’ammasso di parole in un solo documento, scritto dall’amico Raffaele La Capria. LEONARDO COLOMBATI su Il Domani il 27 giugno 2022
Lo scrittore, morto oggi, non amava la tecnologia. Scriveva i suoi testi di seguito in un unico file Word e preferiva le lettere alle email: «Non riesco a nascondere la mia delusione e quella sensazione di solitudine che mi assale quando al posto di una calligrafia curata e di una busta di carta pregiata, mi ritrovo ad osservare un indirizzo stampato o un elenco di messaggi che si inseguono sullo schermo del computer»
Il pezzo che segue è uscito sul numero 10 di «Nuovi Argomenti» di maggio-agosto 2022. È dedicato allo scrittore Raffaele La Capria, scomparso oggi – lunedì 27 giugno – a 99 anni.
Ho conosciuto Raffaele La Capria nel 2005. Ero un suo fan. Sono andato a Napoli e ho scavalcato il cancello di Palazzo Donn’Anna per ritrovarmi nel suo “teatro naturale”, senza il quale probabilmente non esisterebbe niente di quanto La Capria ha dato alle stampe.
Di ritorno a Roma, ho scritto un lungo saggio su Ferito a morte per «Nuovi Argomenti». La Capria lo lesse e un mattino mi telefonò per complimentarsi e incoraggiarmi. Da quel giorno è iniziata un’amicizia che continua a posare su una solida venerazione: più passano gli anni più si comprende il valore di quel romanzo, Ferito a morte, senz’altro tra i più significativi scritti in Italia nella seconda metà del Novecento.
DOCUMENTO 1
Ma voglio tralasciare la venerazione e soffermarmi sull’amicizia. Lo spunto me lo danno queste poche paginette che Raffaele ha riempito per rimpiangere la vecchia usanza di scrivere (e ricevere) lettere. Quando ho letto questo de profundis da parte di chi è «perfettamente consapevole dei profondi cambiamenti che sono avvenuti nel campo della comunicazione» – come scrive – ma che resta, per un fatto anche solo e semplicemente generazionale, piuttosto diffidente nei confronti delle nuove tecnologie, mi è tornato in mente quando un pomeriggio di una decina d’anni fa, dopo aver intonato con voce da crooner alcune canzoni napoletane a sua moglie Ilaria (che lo guardava, insieme a me e al gatto, con divertita ammirazione), Raffaele mi ha chiesto di dargli una mano a recuperare una cosa che aveva scritto al computer qualche mese prima.
«Non mi riesce di ritrovarla» mi ha detto, mentre mi metteva di fronte al suo MacBook bianco. Mi sono seduto, con lui dietro a sorvegliarmi, ho acceso il computer e dopo un attimo di stupore ho preso atto che sul desktop c’era una sola icona: l’icona di un documento Word chiamato Documento 1.
«Dove sono gli altri file?» gli ho domandato.
«Che vuoi dire?»
«Hai una cartella con i file dei tuoi pezzi da qualche parte?»
«È tutto lì dentro» mi ha risposto lui, indicandomi Documento 1 con un dito.
UNA NATURA RELATIVA
Così ho aperto Documento 1 e ho scoperto che per anni Raffaele ha scritto su quel file Word, di seguito, tutto quanto.
«Ma così ti credo che non trovi mai niente!» gli ho detto, mentre provavo in “cerca” con qualche parola-chiave.
Lui mi ha sorriso sollevando le spalle e ha commentato: «Tanto non era niente d’importante».
Una risposta, lieve e autoironica, in perfetto stile lacapriesco, che mi ha ricordato quella che Pierre Mendard dà nel racconto di Borges a chi gli chiede perché abbia deciso di scrivere un romanzo che coincida, «parola per parola e riga per riga» proprio ai «capitoli IX e XXXVIIII della prima parte del Don Chisciotte, e di un frammento del capitolo XXII: perché il Chisciotte – spiega Menard – «m’interessa profondamente, ma non mi sembra … come dire? … inevitabile».
Raffaele La Capria, con quel suo simpatico understatement, mi ha fatto capire una volta di più che la letteratura è per sua natura relativa e accessoria. E proprio per questo la amiamo.
Raffaele La Capria accusava la vita di avergli fatto perdere tempo per scrivere
LETTERE
Pubblichiamo qui un estratto di una preziosa e inedita raccolta di corrispondenze epistolari che Raffaele La Capria ha tenuto nel corso dei decenni con i principali autori e intellettuali italiani, e che Mondadori pubblicherà a settembre col titolo Lettere 1951-2022.
«Di tanto in tanto, quando decido di lasciare il fidato tepore della mia casa e avventurarmi in una quotidianità che sembra essere solo un ricordo lontano, prima di oltrepassare la soglia che mi separa dal mio personale “non luogo”, non posso fare a meno di avvicinarmi alla cassetta della posta speranzoso di trovare una lettera. Non una lettera qualsiasi, ma una bella lettera, come quelle di una volta, scritta a mano.
Ovviamente sono perfettamente consapevole dei profondi cambiamenti che sono avvenuti nel campo della comunicazione, e che è molto più semplice e immediato inviare un’email. Ciononostante, non riesco a nascondere la mia delusione e quella sensazione di solitudine che mi assale quando al posto di una calligrafia curata e di una busta di carta pregiata, mi ritrovo ad osservare un indirizzo stampato o un elenco di messaggi che si inseguono sullo schermo del computer.
In quei momenti ripenso a Seneca e allo scambio epistolare con il suo amico, il poeta Lucilio, e in particolare a una lettera, quella in cui lo invita a dare giusto valore al suo tempo, perché solo il tempo è nostro.
Per secoli scrittori, artisti, filosofi hanno affidato alle lettere il racconto della propria vita e del proprio lavoro. Certo, ci sono state epoche in cui era facile che ti venisse voglia di scrivere una lettera, di racchiudere i tuoi sentimenti in una busta, di dare sfogo alla passione, alla disperazione, di offrire una finestra sul lato più nascosto del cuore umano. Epoche in cui non era poi così inusuale concedersi del tempo per stare con se stessi, riflettere, abbandonarsi alla meraviglia, innamorarsi. Il mondo in cui viviamo oggi è più distratto, più indaffarato, e anziché seguire l’insegnamento di Seneca e prendersi cura del proprio tempo, preferisce essere schiavo del futuro, e lasciarsi sfuggire il presente.
Perché scrivere una lettera richiede tempo, richiede solitudine, ma soprattutto il desiderio di condividere qualcosa di personale, la natura intima di chi scrive.
La poetessa Wislawa Szymborska ha scritto “Conta più chi ti conosce di chi conosci tu” ed io, memore di questo insegnamento, ogniqualvolta ho ricevuto una lettera l’ho tenuta da parte, perché ogni pensiero, ogni emozione, ogni scambio di opinioni rappresenta ancora oggi un’àncora di salvezza a cui aggrapparmi nell’attesa di quel sereno che rompe là da ponente quando passata è la tempesta».
LEONARDO COLOMBATI. Leonardo Colombati è nato a Roma nel 1970. ha pubblicato cinque romanzi: Perceber (Sironi, 2005), Rio (Rizzoli, 2007), Il re (Mondadori, 2009), 1960 (Mondadori, 2014 – Premio Sila) e Estate (Mondadori, 2018 – Premio Pisa). Ha curato i volumi La canzone italiana 1861-2011. Storia e testi (Mondadori-Ricordi, 2011) e Bruce Springsteen: Come un killer sotto il sole (Mondadori, 2018). Suoi articoli sono usciti su «Corriere della Sera», «Il Messaggero», «Il Giornale», «Vanity Fair», «IL», «11» e «Rolling Stone». Nel 2016 ha fondato la scuola di scrittura Molly Bloom assieme a Emanuele Trevi.
La libertà dell'autentico intellettuale. Luca Doninelli il 28 Giugno 2022 su Il Giornale.
Morto alla soglia dei cent'anni il grande romanziere (ed eccelso saggista) napoletano.
«L'immaginario, proprio come l'ambiente, si sta inquinando, si è già inquinato, per un eccesso di produzione, e non c'è filtro bastante a depurarlo. Una volta questo filtro era la cultura che unita al talento individuale e avendo a disposizione una scala di valori, faceva una scelta tra le informazioni e le rappresentazioni da accogliere, e quelle da respingere. Ma oggi mentre la massa delle informazioni e delle rappresentazioni si è enormemente accresciuta, la capacità del filtro si è fortemente intaccata. Da qui quell'eccesso di sapere che produce non-sapere o un sapere indifferenziato, quella valanga d'immagini che produce il vuoto d'immaginazione, quell'inflazione di parole che produce svalutazione della parola».
Queste parole di Raffaele La Capria, uscite in volume nel 1990 (Letteratura e salti mortali), definiscono bene la posizione centrale che questo grande scrittore ha occupato, senza troppi strepiti, nella storia della nostra letteratura degli ultimi settant'anni.
Io e La Capria ci conoscemmo nel 1992, durante la cerimonia del Premio Napoli, che avevo vinto. Fu lui a venirmi a cercare, a farmi i complimenti. Ricordo le sue parole puntuali, il suo sguardo sottile, indagatore. Alcuni anni più tardi scrisse un libretto intitolato La mosca nella bottiglia, un elogio del senso comune. Nelle sue parole riconobbi il suo sguardo su di me. Riprendendo una frase celebre di Ludwig Wittgenstein («La filosofia a questo serve, ad aiutare la mosca a uscire dalla bottiglia»), lo scrittore osserva che per poter uscire la mosca deve sapere com'è fatta la bottiglia. Niente è più difficile, per chi sta dentro la bottiglia, ossia per tutti noi. Già sapere di esserci dentro è, come si dice, tanta roba.
Ecco come mi guardava, Raffaele. E come guardava gli uomini, nei suoi libri come nella vita di ogni giorno. Capire un uomo significava per lui definire il grado di consapevolezza della mosca alle prese con il bisogno di uscire dalla bottiglia. Cosa ne sai di te stesso, e della bottiglia in cui ti trovi? Nel 2000, al Premio Strega, lo vidi arrivare al mio tavolo. Mia moglie e io ci alzammo, lui baciò la mano a mia moglie e le disse: «Buonasera, M.me Dostoevskij». Avevo scelto quella guida, quel Virgilio per uscire dalla bottiglia.
A sé stesso non riservò un trattamento di favore. La sua produzione come romanziere si riassume in tre opere, scritte a una decina d'anni di distanza uno dall'altro: Un giorno d'impazienza (1952), Ferito a morte (1961), Amore e psiche (1972). Dei tre, se ben capisco, amò soltanto Ferito a morte, un romanzo che fece parlare di sé prima ancora di uscire in volume, e che poi vinse il Premio Strega. L'ho letto due volte, negli anni Ottanta e una ventina d'anni dopo, e sono stati due libri differenti.
Il primo era un libro raffinato, in bianco e nero, dove una condizione umana alla fine deludente (riconducibile nell'atmosfera a certe scene d'area neorealista) veniva passata al vaglio di un metodo narrativo rinnovato (con liberi riferimenti a Joyce, Faulkner, Proust, Camus) capace di dilatare o stringere i tempi e passare con fluidità dal «dentro» al «fuori» dei personaggi. Il secondo era un libro a colori vivissimi, lucido e attento a definire un mondo esausto nell'autorappresentazione, un'Italia di personaggi «tipici» incapaci di abbandonare lo statuto di personaggi, ossia di comprendere la struttura della bottiglia dalla quale devono uscire.
La Capria fu anche uomo di cinema, sceneggiatore, e su marito di quella grande attrice che fu Ilaria Occhini, a sua volta nipote di Giovanni Papini (una cosa, questa, che ho sempre trovato molto significativa). Ma il La Capria più importante resta a mio parere il saggista, l'intellettuale. Pur avendo scritto pagine di straordinario acume sulla letteratura e l'arte di narrare, ho la sensazione che, col passare degli anni, la sua fiducia nelle possibilità di rinnovamento di quest'arte sia scemata: troppo difficile scrivere, troppo confuse le idee.
Il brano riportato in apertura, scritto ben prima dell'avvento di internet e più ancora dei social - scritto, voglio dire, al tempo in cui far sentire in pubblico la propria voce era un privilegio per pochi - illustra, con parole pesate al milligrammo, questa condizione di spaesamento, che lui stesso avvertì - prima degli altri - sulla propria pelle. Colpisce l'idea di «cultura», definita da due cose: il talento da un lato e, dall'altro, una scala di valori. Il talento esiste da sempre, ma senza una scala di valori si perde, si confonde, diventa irriconoscibile. Senza la cultura così intesa, non è più possibile stabilire a che punto della bottiglia ci troviamo, e cosa dobbiamo provare a fare per uscirne: il sapere produce non-sapere, le parole producono vuoto, le immagini uccidono l'immaginazione. David Foster Wallace avrebbe detto, molti anni dopo, cose simili.
Uomini come Raffaele La Capria - «Dudù» per tanti amici - muoiono sempre troppo presto. Possono avere trenta, ottanta oppure cent'anni come lui, ma è comunque troppo presto. Sono gli intellettuali, quelli veri, quelli che non sono «di» questo o «di» quest'altro (di destra, di sinistra, cattolici, laici ecc.) perché appartengono unicamente al loro pensiero, come - piacciano o meno - Pasolini, Testori, De André, Gaber. Uomini liberi, che non potranno mai essere del tutto «sdoganati» perché non sono personaggi, figure, e perciò non trovano casa nelle nostre coscienze.
"Ciao Raffaele", un libro di "Repubblica" rende omaggio a La Capria. Ottavio Ragone e Conchita Sannino su La Repubblica il 24 settembre 2022.
Giovedì 29 settembre il volume dedicato al grande scrittore in abbinamento gratuito con il nostro giornale, nella edizione Napoli-Campania. L'evento di presentazione a Palazzo Donn'Anna
La casa di Palazzo Donn'Anna in cui Raffaele La Capria abitava da ragazzo a è rimasta uguale, almeno all'esterno. C'è un corridoio lungo, non molto illuminato, e, in fondo, la porta dell'abitazione. L'immagine madre che si impresse nella mente dello scrittore è nata lì. Ovvero il disegno tremolante del sole sulla parete della stanza. Da quel "geroglifico", La Capria lo chiama così, nasceranno "Ferito a morte", "L'armonia perduta" e la lunga filiazione di opere realizzate dopo il capolavoro premiato con lo Strega nel 1961.
In quegli stessi luoghi di Palazzo Donn'Anna, nella Fondazione Ezio De Felice che si trova proprio di fronte alla casa del grande autore scomparso a giugno, Repubblica ha presentato il 16 settembre scorso il libro con cui gli rende omaggio. Il prezioso volume, "Ciao Raffaele. I cento anni di La Capria", 136 pagine, con foto e testi inediti di grandi autori e protagonisti della cultura, attende i lettori in edicola e sarà gratis in abbinamento con Repubblica - edizione di Napoli e Campania - giovedì 29 settembre.
L'evento a Palazzo Donn'Anna - dove La Capria visse da ragazzo e in cui ambientò "Ferito a morte" - si è svolto in presenza della figlia Alexandra, del sindaco Gaetano Manfredi, dello scrittore Silvio Perrella, del critico letterario Matteo Palumbo, mentre l'attore Andrea Renzi ha letto due testi di La Capria, che la famiglia ha voluto fossero inseriti nel libro che arricchisce ulteriormente la collana Novanta/ Venti, nata in occasione dei trent'anni della nostra redazione napoletana, in collaborazione con l'editore Guida.
Il libro, a cura di chi scrive, con la prefazione del direttore Maurizio Molinari, contiene in primo luogo le testimonianze delle figlie di La Capria, Alexandra e Roberta. Seguono i piccoli racconti e i saggi critici aperti dalle pagine di Perrella, che negli ultimi anni strinse con lo scrittore un sodalizio artistico e coltivò con lui una profonda amicizia. Poi le altre, grandi firme che hanno collaborato a quest'opera con spirito affettuoso e liberale: Niccolò Ammaniti, Roberto Andò, Viola Ardone, Ruggero Cappuccio, Antonella Cilento, Leonardo Colombati, Antonio Franchini, Antonio Gnoli, Filippo La Porta, Matteo Palumbo, Elisabetta Rasy, Pier Luigi Razzano, Patrizia Rinaldi, Carolina Rosi, Domenico Starnone, Sandro Veronesi.
E poi c'è spazio anche per alcune bellissime immagini, in gran parte mai viste. Il fotografo Lorenzo Capellini firma l'inserto di 16 pagine: La Capria colto in momenti privati, conviviali, durante gli incontri con i nomi più prestigiosi della cultura italiana. Oppure nel posto che amò di più, Capri: dove trascorse periodi felici ( " un nuovo innamoramento ") con la moglie Ilaria Occhini nella meravigliosa villa in cima a duecento scalini. La frequentò finché le forze glielo consentirono. Proprio nel cimitero di Capri sarà deposta il 2 ottobre l'urna con le ceneri, per espressa volontà dello scrittore. La Capria avrebbe compiuto cent'anni il 3 ottobre prossimo. Per un soffio dunque non è riuscito ad afferrare il secolo di vita.
"Repubblica", con la presentazione del libro a Palazzo Donn'Anna, ha aperto simbolicamente la serie di eventi e manifestazioni, che ci accompagneranno fino alla data speciale. Ma questo piccolo, imperdibile libro ha l'ambizione di guardare oltre. Rendiamo omaggio a uno scrittore profondamente intriso di cultura europea, un classico con cui si rinnova ogni volta un'altra scoperta, sfogliando quelle pagine così sensibili e fresche. In apparenza leggere, sopra un nucleo di protetto dolore.
Alexandra La Capria: "Papà mi raccontava Napoli come qualcosa di intimo". Ilaria Urbani, foto Riccardo Siano su La Repubblica il 17 settembre 2022.
L'intervista: "Una forte emozione tornare a Palazzo Donn'Anna, mi chiese di accompagnarlo qui dopo la morte di mia madre"
"Per me è un pianeta, è parte dell'universo ora. Mi diceva quando non ci sarà più, sarò sempre accanto a te. Sapeva rendere visibile l'invisibile con la sua dolcezza e la sua grazia ". Alexandra La Capria si commuove, parla per la prima volta a Palazzo Donn'Anna dell'amato padre, per tutti Dudù La Capria, a meno di tre mesi dalla scomparsa in occasione della presentazione del libro omaggio di Repubblica " Ciao Raffaele" in allegato gratis con il giornale in edicola il 29 settembre.
"Sono emozionata - ammette commossa Alexandra, - l'ultima volta che siamo stati qui insieme è stato dopo la morte della mamma. In quel momento si è sentito smarrito e mi ha chiesto di tornare a Napoli, a Palazzo Donn'Anna. Era una bellissima giornata. Penso che lui sia voluto venire qui per sperare di ritrovare l'attesa della "bella giornata" che per lui era la felicità. Dopo la morte della mamma ha avuto uno smarrimento totale, pensava che questa felicità non fosse più attendibile".
La mamma è la grande attrice Ilaria Occhini. Alexandra la ricorda molto nello sguardo. La platea si commuove con lei. È il momento più alto della serata. Nel Palazzo di Posillipo, simbolo dell'immaginario di La Capria, il tempo si ferma per un attimo. Ai piedi dell'edificio il mare continua a infrangersi contro gli scogli. La figlia del grande autore di "Ferito a morte", che ha donato a Repubblica un testo inedito del padre, e scritto un ricordo suggestivo per il volume, continua il suo racconto: " Il rapporto con mio padre era estremamente intimo, non l'ho mai visto arrabbiato, anche se aveva una grande autorità e consapevolezza di se stesso e del confine tra lui e l'altro. Ha sempre dato spazio all'immaginazione, che toccava l'animato e l'inanimato. Cercava la bellezza che per lui aveva un senso preciso". Alexandra, classe 1966, quella lettera " x" nel nome mamma Ilaria ha voluto ci fosse per tributare un'attrice inglese e ricordare i suoi natali a Londra, è attrice e sceneggiatrice e oggi anche interior designer e imprenditrice del vino e della ricezione turistica.
"Durante il Covid siamo stati insieme per un anno - dice - il babbo mi ha insegnato tanto. Siamo stati davvero felici, la " bella giornata" è stata confermata, è stato uno dei periodi più belli della mia vita. Sento un vuoto incolmabile. Però lui mi ha detto che lo devo cercare dappertutto e io lo cerco " . Davanti al Golfo con il Vesuvio alle spalle, Alexandra spiega che per lei Napoli è suo padre, o meglio il babbo come lo chiamava lei, fiera delle ascendenze toscane della madre. " Che bella coppia erano - risponde sollecitata dalla domanda dell'inviata di Repubblica Conchita Sannino erano diversi, entrambi con una personalità forte, li univa il sentimento per la vita e l'allegria. Babbo con la sua ironia napoletana leggera e mamma più sarcastica. Napoli e Firenze, che unione. Babbo mi ha sempre raccontato Napoli come qualcosa di intimo, il mare, la natura, i colori". Per questo Alexandra, accompagnata dalla sua storica amica del liceo Ilaria Borrelli, napoletana, figlia del docente di filosofia Gianfranco, parla del grande scrittore come di un antesignano della difesa dell'ecologia.
"È stato uno scrittore che ha anticipato questo rapporto con l'ecologia - prosegue - la responsabilità sul clima, della Natura. Se ci pensiamo l'ha anticipato narrativamente e poeticamente. È un uomo e uno scrittore moderno, ancor più di quanto si pensi".
L'amata figlia di La Capria accoglie con entusiasmo la proposta del sindaco Gaetano Manfredi di far studiare la letteratura del padre nelle scuole partenopee. " Spero che questo serva a far conoscere il babbo ai giovani e a farlo diventare più popolare - commenta - sarebbe molto importante, lui ha inventato un tipo di saggistica legata alla filosofia, al pensiero e al sentimento, l'ha raggiunto con la semplicità, quindi i ragazzi sarebbero in grado di capirlo con estrema facilità. Ha conservato lo stupore e voleva che ogni cosa arrivasse viva davanti a sé".
Alexandra annuncia anche ci sarà un documentario prossimamente sulla sua famiglia ma "è ancora troppo presto ora per parlarne", dice. E sulla letteratura aggiunge: " Con mio padre non parlavamo di scrittura e letteratura, in realtà tutta la vita, anche le piccole cose con lui erano raccontate. Era come scrivere tutti i giorni, parlando. Insieme eravamo come una composizione musicale, ben accordati. Oggi scrivere di lui per me è liberatorio, un modo per elaborare il dolore, il silenzio mi dà dolore, non parlare di lui. Spero di continuarlo a fare. Mi viene tutti i giorni voglia di scrivere qualcosa su di lui, una sorta di diario sulla vita con mio padre".
Malcom Pagani per Il Messaggero il 27 giugno 2022.
Prospettive di Raffaele La Capria: «Tra due mesi avrò 95 anni e se avrò fortuna diventerò anche centenario. Ho quasi un secolo, ho visto tutto e mi tiene in piedi la curiosità. La morte non mi spaventa, a farmi davvero paura è la vita eterna. Non la vorrei e anzi aspetto con la fine con serenità. I limiti e i confini sono salutari, giusti, persino consolanti. Se non esistessero, non ci sarebbe neanche l'arte: il prelevare dalla vita che corre qualcosa che resti, un angolo di bello da mettere in cornice».
Nella casa alle spalle di Piazza Venezia, il tempo di uno degli scrittori più originali dell'ultimo mezzo secolo, scorre lento. La libertà di un pigiama di cotone a mezzogiorno. Una poltrona. Molti libri: «Un po' di solitudine che allevio rileggendo i classici. Ieri ho ripreso in mano I fratelli Karamazov, lo leggevo a Palazzo Donn'Anna, quando ero ragazzino e d'estate, più in là degli archi, il tufo abbracciava l'azzurro del mare».
È estate anche adesso.
«Ma è un'estate diversa. Non nuoto più. Esco pochissimo. E gli amici di un tempo se ne sono andati quasi tutti».
Che ricordi ha della sua adolescenza?
«Ricordi bellissimi. A Palazzo Donn'Anna vivevano persone di tutti gli strati sociali. I figli dei pescatori, i borghesi, i nobili. Io ero amico soprattutto degli scugnizzi. Cercavo un terreno comune. Un linguaggio per superare la diversa estrazione, ma interrogativi sociologici, per igiene mentale, non me li sono mai posti».
La sua famiglia?
«Mio padre, un uomo dolce a cui poi rimproverai l'eccessiva tolleranza, era diverso dal genitore severo e tutto d'un pezzo descritto nei suoi libri da Kafka. Commerciava in grano e divenne direttore del locale consorzio agrario».
E sua madre?
«Era snob e un po' aristocratica. Mio fratello Pelos, un profanatore, si divertiva a scandalizzare lei e le sue amiche altolocate con un linguaggio volutamente volgare. Aveva inventato alcune locuzioni disgustose e non appena poteva, si esercitava nello spettacolo della dissacrazione».
Esempi?
«Tornava a casa, buttava una giacca sul divano, si stiracchiava platealmente e poi diceva: Ho una fame da porco, mi mangerei un cesso di fagioli. Le dame chic inorridivano e lui, che lo faceva apposta, ne godeva».
Quando arrivò a Roma?
«Nel 1952. A trent'anni. Non sapevo fare niente di manuale e di concreto e quindi, come era ovvio, iniziai a lavorare per la televisione. La Rai di allora era un luogo ideale per gli aspiranti scrittori».
Quando capì che possedeva un talento per la scrittura?
«Il mio momento fondativo si perde nella notte dei tempi e nella smemoratezza. Da bambino, ero in un parco di Napoli, mi si posò addosso un uccellino. Tornai a casa eccitato e nel raccontarlo a mia madre, mi resi conto che con una sola frase non avevo trasmesso nessuna delle emozioni che avevo provato in quell'istante. Capii che mi sarebbero servite più parole e che quelle parole andavano organizzate. Mi domandai come fare, mi diedi da fare».
Il suo primo grande successo, nel 1961, Ferito a morte coincide con una combattuta edizione del Premio Strega.
«Superai Arpino per un solo voto, ma da ragazzo ero più presuntuoso di oggi e quella vittoria in qualche modo me l'aspettavo. Conquistai un Premio che a differenza di oggi poteva cambiarti la vita».
E quel Premio le cambiò davvero la vita?
«Per ragioni diverse da quelle che si potrebbero immaginare. Gli editori premevano per mungere lo scrittore di grido e io mi sentii a disagio. La mia indifferenza al plauso non era impostata, era reale. Mi ritirai all'improvviso e per un lungo decennio non scrissi più niente».
Come sfruttò quel tempo?
«Cercai di capire meglio chi ero. Volevo sapere chi fossi diventato veramente e mi impegnai per scoprirlo ogni giorno senza pretendere risposte certe. Fu come entrare in un territorio sconosciuto».
Chi è e chi è stato Raffaele La Capria.
«Per dirla con Menandro e con Terenzio, un Heautontimorumenos. Un punitore di se stesso. Sicuramente non ho mai avuto nessuna velleità di apparire diverso da quel che ero».
Lei rappresentava un tipo umano distante dagli intellettuali impegnati della sua epoca.
«Non a caso, Pasolini non mi amava. Le sue giacchette - diceva - i suoi pantaloni d'alta sartoria e intendeva qualcosa di lontanissimo da lui. Mi considerava un borghese altolocato, come d'altra parte erano - e lì brillava un paradosso - la maggior parte dei suoi amici. Ma i borghesi per gli intellettuali come Pier Paolo erano riprovevoli. Io intuivo l'anatema e per provocarlo, giocavo a interpretare la macchietta».
E a lei Pasolini piaceva?
«Non come romanziere perché non mi pareva che nei suoi libri ci fosse alcuna innovazione. Però era intelligente. Lo rispettavo. Sapeva leggere in anticipo i movimenti della società e lottava per renderla migliore in un'epoca in cui il conformismo sulle conquiste civili e lo struzzismo erano convenienti. Ero molto amico del suo amico Moravia invece».
Che memorie ha di Moravia?
«Era pessimista, di un pessimismo innato e indomabile. Per certi versi, camminava con un'ombra nera a fianco, non dissimile da quella che si proiettava su Ennio Flaiano. Grande talento pieno di intelligenza e ironia, con un fondo di tristezza inestinguibile che si avvertiva, si percepiva, si sentiva distintamente».
Il ricordo di Flaiano è legato all'epoca della Dolce Vita.
«Che era meno dolce di quanto non si potesse immaginare. Me lo ricordo ancora Ennio, al limitare di Via Veneto, mentre osserva dei gagà vestiti a festa dall'altro lato della strada e girandosi verso gli amici dice: Guarda quelli, credono di essere noi».
Lei ha conosciuto bene anche Gadda e Parise.
«Molto amici tra loro e al tempo stesso diversissimi. Il giorno e la notte. Gadda è stato uno scrittore enorme, un po' barocco, meno grande di Parise perché forse Parise è stato il più straordinario in assoluto dal secondo dopoguerra a oggi. Tanto Gadda era introverso e sospettoso, tanto Parise era balzano, spiritoso e instancabile animatore di scherzi feroci».
A chi erano diretti gli scherzi?
«Proprio a Gadda. Goffredo conosceva il percorso quotidiano che Gadda compiva da Via Blumenstihl all'edicola e si divertiva nottetempo a ridisegnare le strisce stradali. Gadda, preoccupato, ci costruiva sopra percorsi dietrologici: Ma credi mi debba preoccupare - gli diceva - pensi che qualcuno mi stia seguendo?. Non erano gli unici scherzi armati da Parise».
Ci racconti gli altri.
«Una volta ritagliò giornali scandalistici fino a formare dei finti falli di carta, poi, proprio dall'ufficio postale da cui Gadda spediva le sue lettere, inviò plichi pieni degli stessi falli in forma anonima alle amiche di Gadda. Carlo Emilio era sconvolto. Era certo che le signore avrebbero attribuito il colpo di testa proprio a lui».
In cosa ha creduto nella vita?
«Sicuramente non nella politica. Ho creduto nell'amore. Ho amato molto e sono stato anche amato o rifiutato. Conosco tutti gli aspetti di quella fenomenologia. Il territorio dell'amore per me è stato molto importante. Per me l'amore è conoscenza perché non si conosce veramente qualcosa se non la si ama».
Da tempo immemore si accompagna con Ilaria Occhini.
«Quando fuggivamo al mare guardavo sempre in alto per capire da dove fosse piovuta la fortuna di poter dividere il tempo con una donna così bella. Io ero bruttarello, lei una dea. Una dea che all'epoca incarnava un'eroina della tv e che veniva riconosciuta ovunque. Non potevamo fare un passo da soli, gli ammiratori la assediavano. E sempre a proposito di divinità, temevo che gli dei potessero avercela con me».
Come mai?
«Per invidia. Con Ilaria ho attraversati momenti così felici che a tratti mi sembrava di essere proprio un dio. Sono stato un uomo felice e fortunato. Al mio novantesimo compleanno, circondato dall'affetto di tanti amici, ho fatto anche un piccolo esorcismo. Se esiste la nèmesi- ho detto- siamo proprio inguaiati».
Il suo soprannome è Dudù.
«Oggi è il nome del cane di Berlusconi, ma ben prima del quadrupede, ho sempre sospettato che con un nomignolo del genere non sarei mai stato considerato un vero scrittore. Gli amici mi tormentavano. Flaiano diceva: Dudù, non sei più dù e Gadda raccontava di due amanti d'albergo inglesi che - complici le pareti sottili e le esortazioni della ragazza: Do-do-do gli avevano fatto trascorrere una notte d'inferno con la musica del mio soprannome nelle orecchie: Dù, dù, dù. Così, per ore e ore».
A quasi 95 anni le ore hanno un ritmo diverso?
«Vedere la vita trasformarsi a ogni minuto e osservare questa continua metamorfosi che non si può fermare né catturare continua a piacermi».
Avrebbe mai immaginato di giungere fino a qui?
«Sono nato in un'epoca in cui si andava a piedi e adesso vivo nell'era dell'intelligenza artificiale. È avvenuto tutto in maniera così rapida, così subdola, di certo ho visto tutto. Alla vecchiaia da ragazzo, ma anche da cinquantenne, non ho mai pensato. Ci penso adesso perché sono veramente vecchio».
E a cosa pensa?
«Che la vecchiaia, come in quel bel film di Sorrentino, ha tanti momenti che riportano alla giovinezza. Ho tanti amici più giovani di me. Amo ascoltarli. È un privilegio. Loro rappresentano il futuro. Anche il mio futuro».
Cosa le manca?
«Gli amici. Se non li avessi incontrati, non sarei quel che sono. Ne ho avuti tanti, da Peppino Patroni Griffi fino a Francesco Rosi, il più caro, il più lieve d'animo: il fatto che non sia più qui mi fa soffrire. Non sono i padri a insegnarci qualcosa, ma i nostri coetanei».
Le rimangono I Fratelli Karamazov.
«La scoperta dell'anima, Dio, gli uomini, la morte, la vita. I romanzi di allora non parlavano dei piccoli avvenimenti casalinghi, dei tinelli, delle cose inutili».
Ha mai litigato con qualcuno?
«Credo di sì, l'importante è non ricordarselo. Mio fratello Pelos - per dirla con Thomas Mann - un beniamino della vita, me lo ripeteva sempre».
Pelos passò la seconda parte della sua vita con Isa Barzizza, l'attrice preferita da Totò: con De Curtis girò ben undici film.
«Pelos era unico, eccezionale, uno spiritosissimo mercurio shakespeariano. Pazzo e scatenato. A Rosaria, la governante, rubava i denti d'oro».
Come?
«Prima la blandiva: Con quei denti d'oro non avrai mai il sorriso che meriti. Sei bellissima, se me li dai ti farò avere in cambio una dentiera bianchissima. Lei che aveva un aspetto tremendo e bella non sarebbe mai stata si lasciava convincere e Pelos con i proventi dei denti d'oro andava in giro a gozzovigliare.
Quando Rosaria capì l'inganno, incazzatissima, andò a lamentarsene con mio padre: Signoria - gli disse - suo figlio mi ha truffato, adesso posso mangiare soltanto le minestrine e lui, comprensivo: Ma Rosaria cara, non lo sai che è un mascalzone nato?. Al figlio di Eduardo De Filippo, notoriamente parsimonioso, Pelos diceva sempre: Fatti accattà o Giaguàr. Intendeva Dal tuo padre che ha i soldi, fatti comprare una Jaguar».
Lei infilò l'episodio dei denti d'oro nella sceneggiatura di Leoni al sole di Vittorio Caprioli.
«Ho scritto a lungo per il cinema e mi sono molto divertito. In Africa, con Nelo Risi, vidi uno spettacolo che mi portai dietro per molti anni. Il film che avevo sceneggiato per lui si intitolava Una stagione all'inferno e raccontava l'amore tra Rimbaud e Verlaine. Gli attori inscenarono una battaglia e sopra iniziarono a volteggiare gli avvoltoi. A ostilità concluse, rimasero a bocca asciutta e per sfogare frustrazione e aggressività iniziarono ad attaccarsi tra loro fino a uccidersi. Mi è sempre parsa una potentissima metafora dei nostri tempi».
Che tempi sono?
«Avere un'idea della contemporaneità oggi è più difficile di ieri: È tutto più indecifrabile, liquido, indistinto».
La politica l'ha sempre lasciata indifferente?
«Francamente sì. So che è un'arte e come tale pretende creatività, ma ne sono sempre stato alla larga».
Lei ha avuto l'onore di due distinti Meridiani Mondadori a lei dedicati. La aspettano le celebrazioni per i suoi 95 anni a inizio ottobre. È pronto?
«Ma ormai credo che le celebrazioni per me non le voglia fare nessuno».
Perché dice così?
«Per realismo. Mi sembra di essere già stato consumato, masticato e digerito».
· E’ morto il musicista James Rado.
Da corriere.it il 23 giugno 2022.
James Rado, che insieme all’amico Gerome Ragni ha scritto «Hair», uno dei grandi successi internazionali di Broadway e al tempo stesso il musical che più ha influenzato la controcultura hippie negli anni ‘60 con il mainstream dell’«Era dell’Acquario», è morto «serenamente martedì sera per arresto cardio-respiratorio» nella sua casa di New York «circondato dalla famiglia».
Aveva 90 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato oggi dall’amico e pubblicista Merle Frimark. Rado e Ragni, morto nel 1991, hanno scritto il libretto e i testi dello storico musical (titolo completo: «Hair - The American Tribal Love-Rock Musical») con le musiche composte da Galt MacDermot, morto nel 2018.
La carriera
Il musical, che debuttò nell’Off Broadway nell’ottobre 1967 e a Broadway nell’aprile 1968, ha contribuito a diffondere una serie di canzoni che sono diventati delle hit entrate nell’immaginario collettivo come «Aquarius», «Let The Sunshine In», «Hair», «Ain’t Got No/I Got Life», «Good Morning Starshine», «Easy To Be Hard». Oltre a creare insieme il musical, Rado e Ragni hanno recitato nella produzione originale di Broadway del 1968, interpretando rispettivamente i ruoli principali di Claude e Berger
L’anno successivo, Rado, Ragni e MacDermot vinsero un Grammy Award per la migliore colonna sonora di uno spettacolo con cast originale, oltre a due candidature al prestigioso Tony Award, per il miglior musical e il miglior libretto di un musical. Nel 1979 il regista Miloš Forman ha diretto la versione cinematografica di Hair. Attore, librettista, regista teatrale e compositore statunitense James Rado era nato il 23 gennaio 1932, a Venice, in California.
· E' morto l'architetto Jordi Bonet.
E' morto Jordi Bonet, l'architetto che ha proseguito la Sagrada Família. Ilaria Zaffino su La Repubblica il 21 Giugno 2022.
Ha dedicato la vita all'opera di Gaudí che considerava suo maestro e ha portato la cultura catalana in tutto il mondo: aveva 97 anni.
"C'è un senso di trascendenza nell'opera di Gaudí che è una spirale crescente nel corso della sua esistenza: quando accettai l'incarico di continuare i lavori della Sagrada Família avevo il timore di essere incapace di far fronte a tale immensa responsabilità". E invece non solo il timore di Jordi Bonet, scomparso ieri a Barcellona all'età di 97 anni, non si è avverato: rimanendo fedele alla volontà di Gaudí, l'architetto che ha diretto per 25 anni, dal 1987 al 2012, i lavori per il completamento della Sagrada Família ha avuto il merito di "portare la Catalogna e il grande maestro catalano in tutto il mondo", come ha ricordato la nipote Mireia sui social: "Era un uomo buono...
E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.
(ANSA il 21 giugno 2022) - E' morta la poetessa Patrizia Cavalli. Aveva 75 anni. E' quanto si apprende dalla casa editrice Einaudi.
Morta Patrizia Cavalli, la sua voce un infinito canzoniere d’amore. PAOLO DI STEFANO su Il Corriere della Sera il 21 Giugno 2022.
Nata a Todi nel 1947, appassionata di teatro, sapeva trasmette con i suoi versi emozioni profonde. È scomparsa a Roma il 21 giugno.
Patrizia Cavalli (1947-2022)
Forse intorno a nessun poeta della sua generazione come intorno a Patrizia Cavalli si è alimentata l’aura della leggenda, una sorta di culto d’altri tempi anche presso il lettore comune, che ha mostrato di gradire la sua voce superando l’arcigna diffidenza attuale per la poesia. L’ha scritto giustamente Roberto Galaverni recensendo l’ultima sua raccolta, Vita meravigliosa (2020). Alfonso Berardinelli, un critico molto severo, per non dire impietoso, verso la confusa contemporaneità poetica ha sempre posto Patrizia Cavalli tra i valori più sicuri del nostro tempo: quasi un modello di «naturalezza espressiva» in un’epoca afflitta dalla posa dell’oscurità opaca e intellettualoide.
Disse di aver scritto le prime poesie a sei anni per Kim Novak, di cui era innamorata. Ma in effetti, fin dal libro d’esordio (Le mie poesie non cambieranno il mondo è del 1974), Patrizia Cavalli si distingue sia rispetto alla temperie ancora vitale (o già morente) dello sperimentalismo neoavanguardista sia dal cosiddetto neo-orfismo entro cui si iscrivevano tanti suoi coetanei. Si distingue per una spontaneità dall’andamento diaristico, colloquiale e ironico, nato e cresciuto sotto l’egida di Elsa Morante, cui è dedicato l’esordio e alla quale si deve l’imprinting e la benedizione a futura memoria: «Patrizia è la poesia», disse. Senza dimenticare l’accostamento frequente (e inevitabile) a Sandro Penna oltre che, naturalmente, alla poesia «onesta» di Umberto Saba.
Altri suoi estimatori entusiasti sin dalla prima ora sono Cesare Garboli, Alberto Asor Rosa e il filosofo Giorgio Agamben, che ha parlato di «poeta disincantato e quasi preistorico, maestro incomparabile dei metri e delle rime interne, sovranamente privo di scrupoli morali...». Per questi critici la fedeltà a sé stessa è una ammirevole coerenza estrema nel fondere disperazione e umorismo, mentre per altri è pura ripetizione e in sostanza deficit di ispirazione.
Non è escluso che tra gli inni e le eccessive diminuzioni, la lettura più corretta si trovi a dare ragione ora agli uni ora agli altri, oppure stia nel giusto mezzo. Per esempio quella di Enrico Testa, che riconosce nell’opera di Patrizia Cavalli un «arguto e feriale canzoniere d’amore» in cui si descrivono analiticamente gli opposti: la vicinanza e il distacco, la presenza e l’assenza, il desiderio e il tradimento, l’istinto e il raziocinio, soprattutto la sincerità e la finzione.
Nata nel 1947 a Todi, Patrizia Cavalli si trasferisce già nel 1968 a Roma, dove è morta ieri dopo lunga e feroce malattia. A Roma ha studiato, laureandosi in filosofia e dedicandosi poi alla traduzione di testi teatrali (per Carlo Cecchi tradusse l’Anfitrione di Molière nel 1981 e La tempesta di Shakespeare nel 1984, per il Teatro dell’Elfo di Milano nel 1988 Sogno di una notte di mezza estate). Ha collaborato per la Rai con due radiodrammi, La bella addormentata (1975) e Il guardiano dei porci (1977). Il cielo è la sua seconda raccolta poetica, che arriva solo nel 1981 e che verrà riunita con la prima in un volume antologico del 1992, con l’aggiunta di una terza tappa, L’io singolare proprio mio, dove risalta ancora di più la convivenza di costruzioni quasi labirintiche (anche sintatticamente) e di soluzioni fulminanti, arguzie epigrammatiche: «Penso che forse, a forza di pensarti/ potrò dimenticarti, amore mio».
Pur riconoscendo che «non c’è niente di naturale nella letteratura», distingueva, Patrizia Cavalli, tra la rapidità di alcuni suoi versi e il «ragionamento ispirato» di altri: «Io scientificamente mi domando/ come è stato creato il mio cervello,/ cosa ci faccio io con questo sbaglio./ Fingo di avere anima e pensieri…». In realtà, a volte sembra che la sua poesia voglia abbandonare il racconto di un io privatissimo, come in Sempre aperto teatro (1999), ma per ritornarvi quasi ossessivamente formando una sorta di commedia di «crudeltà e spavalderia» (Berardinelli) tutta interiore, che se gioca abilmente a cambiare le forme utilizzando la tradizione con grande consapevolezza e spingendosi sempre più verso il poemetto, lascia inalterati i motivi di fondo. La personale «stanza della tortura» di Patrizia Cavalli è fatta di rime e di endecasillabi ora facili ora angosciosi, da cui non si vede via d’uscita se non attraverso il gioco o l’acrobazia spettacolare delle parole: «Mi fingo morta, e sono già risorta. / Ma almeno per un po’ ti stupirai?».
Stupì nel 2019 pubblicando una raccolta di prose («una storia morale parallela, a rovescio»), intitolata Con passi giapponesi, con cui entrò nella cinquina del Campiello. Intervistata da Roberta Scorranese, due anni fa, disse: «Non scrivo da almeno quattro mesi. La malattia, dicono, al momento s’è ritirata ma queste maledette cure che ho fatto mi hanno portato via l’energia e la memoria. Come si fa a fare poesia senza memoria? La poesia è prendere qualcosa e togliere il superfluo per farlo risplendere».
Patrizia Cavalli, la poetessa bambina che si innamorò di Kim Novak. Emanuele Levi su Il Corriere della Sera il 7 Agosto 2022.
La scrittrice raccontata da Emanuele Trevi: le interessava solo la libertà di essere ciò che si vuole. Ti aspettava sulla soglia con il suo modo inconfondibile di scrutarti, leggendo quella che definiva «l’anima facciale»
La poetessa e scrittrice Patrizia Cavalli nel 2006 nella sua casa di Roma. È morta lo scorso giugno all’età di 75 anni
A pochi passi da Campo de’ Fiori, la casa di Patrizia Cavalli era una di quelle vecchie case del centro di Roma così intrise di tempo e stratificate di memorie che finiscono per assumere le caratteristiche del labirinto, del luogo puramente onirico, o ancora di quegli stravaganti musei barocchi che si chiamavano «gabinetti di curiosità». Vi si accedeva affrontando, con spirito alpinistico, una lunga e irregolare serie di ripide rampe di scalini di pietra consunta. Arrivati con il fiatone all’ultimo pianerottolo, c’era Patrizia ad aspettare sulla soglia, con la sua maniera inconfondibile di scrutarti e metterti a nudo, leggendo i segni di quella che una volta definì «l’anima facciale» come una fattucchiera avrebbe potuto fare con le linee della mano o un fondo di caffè. Esattamente come il suo stile poetico, che è una grande armonia di contraddizioni, Patrizia nelle sue relazioni con il prossimo era insieme ironica ed empatica, cinica e sentimentale. Col tempo, mi sono convinto che esercitasse un vero e proprio contagio psicologico: il suo individualismo e l’imprevedibile susseguirsi e accavallarsi dei suoi umori spiazzava l’interlocutore, finendo per portare anche lui sull’unico terreno che le interessava veramente, quello della singolarità, della libertà di essere ciò che si vuole e nient’altro.
Si potrà ben capire come, in un mondo letterario e artistico dove prevalgono le maschere e i giochi di ruolo, Patrizia Cavalli rappresentasse, agli occhi di molti, una sconcertante anomalia. È per questo motivo che le cene che organizzava da lei erano sempre, per un motivo o per l’altro, serate memorabili, spesso protratte fino alle ore piccole in conversazioni capaci di tirar fuori dai commensali tesori generalmente nascosti di umorismo, sincerità, intelligenza. Negli anni, avevo finito per attribuire alla casa stessa, con le sue innumerevoli stanze e stanzette infilate l’una dentro l’altra, il potere magico di rendere interessanti e seducenti anche persone che, incontrate altrove, avevo a malapena notato. Patrizia regnava sulla compagnia, facendo avanti e indietro tra la tavola e la mitica cucina decorata da una invidiabile collezione di frammenti di marmi pregiati romani. Era una cuoca sublime, imbattibile in quel fondamento della cucina che è l’arte di fare la spesa e trovare gli ingredienti giusti. E se si andava al ristorante, i suoi giudizi potevano essere spietati.
Il suo primo libro di poesie lo aveva pubblicato nel 1974 per Einaudi. Aveva ventisette anni, e come tanti artisti della Roma di allora, si era lasciata alle spalle un’infanzia e un’adolescenza in provincia (era nata a Todi nel 1947) che non sembrava suscitarle nessuna nostalgia. Il titolo di quell’esordio, Le mie poesie non cambieranno il mondo, poteva risultare già di per sé scandaloso, in un periodo così pervaso di ideologia ed estremismo politico ed estetico. Era, inoltre, un irriverente sberleffo a Elsa Morante (alla quale il libro è comunque dedicato) e al suo Mondo salvato dai ragazzini . In realtà, l’incontro con la Morante fu decisivo nella formazione del destino artistico e umano di Patrizia Cavalli. Ma sarebbe difficile parlare di una vera e propria influenza sul suo originalissimo stile lirico, che semmai, a volergli attribuire per forza dei debiti, risente molto di più della lezione di Sandro Penna e Giorgio Caproni. La verità è che la poesia di Patrizia Cavalli, fin dall’inizio, possiede la rara qualità dei classici, che danno sempre l’idea di essersi generati da se stessi, senza bisogno di suggestioni esterne.
Nel corso del tempo, via via che uscivano i nuovi libri, la cerchia dei lettori si è allargata in modo costante, fino all’ultimo Vita meravigliosa, uscito nel 2020, quando ormai la malattia aveva preso il sopravvento, separandola forzatamente dai piaceri della vita che pervadono i suoi versi. Primo fra tutti, quella condizione di perenne disponibilità all’innamoramento, alle montagne russe della passione, che nessuno ha saputo descrivere con tanta enciclopedica arguzia, con tanta consapevolezza che «il cuore non è mai al sicuro». D’improvviso l’amore torna sempre, si legge in un’altra poesia, «come fosse un raffreddore». I detrattori della poesia di Patrizia Cavalli (ogni vera grandezza comporta anche qualche accanito diniego) le hanno rimproverato proprio una ipotetica angustia di prospettive e una monotonia che deriverebbero proprio da questo costante ripiegamento sui propri sentimenti e sugli umori che ne derivano. Ma basta abbandonarsi a una qualsiasi delle sue raccolte per accorgersi che questo incantevole diarismo è tutt’altro che una forma di limitazione. Non è mai l’occasione esistenziale in sé ad avere un qualche valore poetico, ma il rapporto che Patrizia Cavalli sapeva costruire tra l’occasione e la perfezione della forma, con la ricchezza delle sue soluzioni metriche e le risorse della rima, che sboccia alla fine dei versi come un sigillo di verità (un solo esempio memorabile, tra le centinaia che potrei citare: «Vita meravigliosa/sempre mi meravigli/che pure senza figli/mi resti ancora sposa»).
Ecco il fecondo paradosso che innerva da un capo all’altro l’opera di questa scrittrice così libera e inclassificabile: da una parte c’è una condizione di perenne disponibilità all’avventura erotica e sentimentale; dall’altra questa materia intima così incandescente e irragionevole viene sapientemente calata nei freddi stampi dei ritmi, delle strofe, delle rime. Perché è vero che l’anima innamorata, insaziabile e tormentata da ogni forma di mancanza, si lamenta sempre; ma a contare davvero è la bellezza del lamento, che lo trasforma nella più dolce delle musiche. È come una forma di perpetua auto-terapia che non produce guarigioni, ma si lascia dietro una scia iridescente di illuminazioni provvisorie, piccoli gorghi luminosi che punteggiano l’impetuoso fluire della vita. Non si può negare che il dolore esista, ma forse la poesia è un modo per scartarne l’urto diretto, l’ironica possibilità di non identificarsi completamente con la propria sofferenza. «Amor che fa la rima», infatti, «sta un po’ meglio di prima». Quanto più si va a fondo nella conoscenza di se stessi, tanto più bisognerà imparare anche a guardarsi da fuori, e sorridere di ciò che si è scoperto. È una poetica, ma nello stesso tempo è una forma di vita, un modo di stare al mondo.
La persona, per come l’ho conosciuta, e l’opera coincidono con impressionante precisione, nel caso di Patrizia Cavalli, tanto che riesce impossibile stabilire un confine, il punto esatto in cui l’una diventa l’altra. Aveva cominciato a cinque anni, con una poesia d’amore per Kim Novak, ispirata dalla visione di un film. Se quello fu il primo amore, c’è da scommettere che fu anche il primo dolore, e quei versi affidati a un quaderno di scuola furono il primo, omeopatico rimedio. Anche quando la malattia aggredì la memoria, Patrizia li ricordava e li citava volentieri, come per abbeverarsi ancora una volta a un’origine, a un batticuore inaugurale. «Amor che rima fa/tanto male non sta».
E' morta la poetessa Patrizia Cavalli. La Repubblica il 22 Giugno 2022. Aveva 75 anni. Amica di Elsa Morante, grazie alla quale - diceva - si era dedicata alla lirica, ha coniugato versi, teatro e musica con un linguaggio contemporaneo. Tradotta in tutto il mondo, le sue letture all'Auditorium di Roma sono rimaste celebri.
E’ morta all’età di 75 anni Patrizia Cavalli, la poetessa che ha saputo trasformare i suoi versi in un fenomeno pop senza perdere il plauso della critica. Nei suoi componimenti tutte le variazioni dell’umano sentire: amore, dolore, piacere. Nata a Todi nel 1947, Cavalli arriva a Roma nel 1968, dopo essere passata per Ancona. Nella capitale conosce Elsa Morante ed è a lei, racconterà, che deve l’essere diventata poeta. A Roma intanto studia all’università Filosofia. La sua prima raccolta di poesie, Le mie poesie non cambieranno il mondo, nasce proprio dalla frequentazione di Elsa Morante, alla quale aveva chiesto un parere. Escono per Einaudi nel 1974, dedicate a Elsa, come poi altre raccolte.
Amore e musica diventano le sue muse. Della sua lingua, immediata ma classica, il critico letterario Alfonso Berardinelli ha detto: “Il suo lessico è misto e ibrido, ma la sua dizione è immancabilmente pura. Si intuisce subito che è proprio la purezza delle dizione lo scopo per cui scrive. Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla malattia dell’imprecisione”.
Il suo traduttore in inglese Geoffrey Brock ha detto di lei: “Una delle cose che amo di più nell’italiano delle sue poesie è il modo in cui la sua lingua, così contemporanea, fa uso e ridà vita a certe tecniche tradizionali”.
Cavalli ha scritto poesie e riempito i teatri, dando alla letteratura una dimensione scenica. Non a caso una sua raccolta di poesie s’intitola Sempre aperto teatro (1999): “La scena è mia, questo teatro è mio / io sono la platea, sono il foyer / ho questo ben di dio, è tutto mio / così voglio, vuoto / e vuoto sia. Pieno del mio ritardo”. Le sue letture all’Auditorium di Roma hanno attirato migliaia di persone. Veri e propri spettacoli in cui cantava e recitava poesie a sua scelta, tra cui l’amata Emily Dickinson.
Le raccolte poetiche di Patrizia Cavalli sono pubblicate da Einaudi e tradotte nel mondo. Negli Stati Uniti dalla prestigiosa Farrar, Straus & Giraux. Tra i titoli più recenti: Pigre divinità e pigra sorte, Datura e Vita meravigliosa.
Nel 2019 si era anche sperimentata per la prima volta con la prosa, dando alle stampe Con passi giapponesi, pubblicato sempre da Einaudi, in cui confluivano testi inediti e vecchie sue scritture. Vi scriveva: “Non sono nata per essere ragionevole, sono nata per amare, per essere felice…”.
La camera ardente di Patrizia Cavalli sarà allestita venerdì 24 giugno dalle 10 alle 12.30 nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma
Silvia Ronchey per “la Repubblica” il 22 giugno 2022.
È morta a 75 anni dopo una lunga malattia. Attenta interprete del linguaggio ci lascia in eredità il talento assoluto di coniugare versi, teatro e musica «La morte vorrei affrontarla ad armi pari / anche se so che infine dovrò perdere, / voglio uno scontro essendo tutta intera, / che non mi prenda di nascosto e lentamente». Ad armi pari Patrizia Cavalli ha affrontato la morte, in un lungo duello ingaggiato e sostenuto da quel guerriero che era sempre stata e ancora era.
La deroga che duellando ha spuntato alle pigre divinità e alla pigra sorte è durata sette anni, tanti quanti Odisseo trascorse nel tempo sospeso dell'isola di Calipso prima di rifiutare definitivamente l'immortalità e partire sulla sua zattera per il lungo viaggio. Per il suo viaggio Patrizia Cavalli è partita nel mezzogiorno del solstizio d'estate.
L'onda della sua vita e della sua poesia, che si identificavano, si è alzata, è crollata, è rientrata nelle acque profonde «dove prepara attraverso i millenni / la sua prossima identica uscita / il suo prossimo identico crollo». Tutta la vita l'aveva passata combattendo contro una diversa, ma non del tutto, malattia, quella contro cui lotta ogni poeta: la patologia del linguaggio, la sua originaria imperfezione, il disordine che gli è connaturato e in cui solo un'enorme fatica, un corpo a corpo di mente e psiche, può depurare la piaga dell'imprecisione.
Solo una lotta serrata e continua per districare dal caos la purezza di ciò che chiamiamo poesia può guarirlo. Come ha scritto di lei Alfonso Berardinelli: «Quando una cosa è precisamente detta, la mente guarisce dal malessere, dalla malattia dell'imprecisione».
La purezza della dizione era lo scopo per cui scriveva. Perché è questo a distinguere poesia e non poesia: raccogliere il massimo del significato nel minimo del significante, usare l'estrema economia. E così «la purezza non è altro che il risultato dell'energia e vitalità linguistica e l'energia è anche la possibilità di ottenere il massimo con la minima quantità di parole».
Nata a Todi nel 1945, approdata a Roma poco più che ventenne, nel fatale '68, fu Elsa Morante, come lei stessa amava ricordare, «a farla poeta»: a riconoscere in lei la poesia. Da allora le sue raccolte di versi, quasi tutte pubblicate da Einaudi, hanno scandito la storia della letteratura e anche quella della cultura popolare italiana: Le mie poesie non cambieranno il mondo ( 1974), Il cielo ( 1981), L'io singolare proprio mio (1992), riunite nello stesso anno in Poesie (1974-1992) . E poi Sempre aperto teatro (1999), La guardiana (2005, pubblicata da nottetempo), Pigre divinità e pigra sorte ( 2006), Datura ( 2013), Vita meravigliosa (2020), cui si aggiungono la raccolta di prose Con passi giapponesi (2019) e le traduzioni teatrali ( Anfitrione di Molière, il Sogno di una notte di mezza estate e l'Otello di Shakespeare).
Traduceva l'indicibile in lingua, traduceva dall'una all'altra lingua, ma soprattutto volgeva in musica la lingua; e anche il contrario. Da bambina suonava il pianoforte. Nella canzone incisa con Diana Tejera ( Al cuore fa bene far le scale ) e in quella composta con Chiara Civello ( E se ) come nelle versioni jazz delle poesie di Emily Dickinson che cantava incantando gli amici, era strenuo il suo rapporto con la musica. Nell'immediatezza lessicale e sintattica del linguaggio quotidiano e contemporaneo in cui scriveva, nel suo uso ibrido della dizione letteraria e del parlato, le misure metriche classiche entravano, entrano, in modo così naturale da restare nascoste, quasi clandestine; salvo l'agguato, a tratti, delle rime.
E anche per questo Patrizia Cavalli è stata, è, il massimo poeta italiano contemporaneo. Perché la sua poesia non è stata, non è, un esercizio fatto per sé, né tanto meno per essere analizzato dai critici, ma un'armoniosa medicina universale dispensata per curare tutti. A migliaia - di ogni età, sesso, mestiere, estrazione sociale, formazione culturale - hanno affollato le sue performance nei teatri e nelle sale da concerto. In migliaia conoscevano e conoscono e portano a memoria i suoi versi.
Più numerosi delle foglie di qualunque corona d'alloro di poeta laureato sono i fogli fermati dagli scatti dei cellulari che cospargono la rete di sue singole poesie o singoli versi sottolineati dai lettori, postati senza commenti, come un farmaco collettivo messo silenziosamente in circolo: un segreto antidoto al dolore universale, «ai misteri di ciò che solo in apparenza è chiaro», in cui «le ragioni e le condizioni del piacere e del dolore, i mutamenti impercettibili e decisivi che confondono o che intensificano quello che sentiamo e siamo », per citare di nuovo il suo primo esegeta, sono sottratti all'ombra e arresi all'evidenza.
Perché il sentire e l'essere di Patrizia Cavalli si erano esercitati anzitutto in una vita pienamente e impavidamente vissuta. Giocava a poker da professionista, con grandi vincite e grandi perdite, così come in amore. Conosceva la verità sull'amore - che non esiste l'amore, esiste chi ami - ma anche il richiamo e la ragione di spogliarsi in fretta per riposare dentro l'accecante dolcezza di un corpo che ci aspetta. Scavalcava Catullo: ti odio perché non ti amo più, perché non posso perdonarti di non riuscire più ad amarti. Sapeva che sarebbe sopportabile ogni male se non ci fosse l'interpretazione: sarebbe quel che è, non quel pugnale che uccide e vuole pure aver ragione.
Cosa non doveva fare per togliersi di torno la sua nemica mente, ostilità perenne alla felice colpa di essere quel che era, al suo felice niente. Poteva rimanere a guardare come si scioglie una nuvola e come si scolora, come cammina un gatto per il tetto. Ascoltare i suoni ampi e lontani che non aprono il mattino, diversità del fuori, ma sono lo spavento del giorno e dei rumori. Annotare la sfusa felicità che assale le facce al sole, i gomiti e le giacche, le dolcezze sparse nel mercato sotto casa, la bellezza degli uomini e le donne. Andare dietro all'uno e guardare l'altra, sentire il profumo, inseguire la sua traccia, raggiungere il troppo; ma il troppo - diceva - non mi abbraccia.
Era una professionista della vita come della poesia, ed è l'indistinzione tra l'una e l'altra, alla fine, il vivere poetico. Essere testimoni di se stessi, sempre in propria compagnia, mai lasciati soli in leggerezza, doversi ascoltare sempre, in ogni avvenimento fisico, chimico, mentale, è questa la grande prova, l'espiazione, è questo il male.
Sapeva che ogni interruzione di abitudine è dolore, e che la morte lenta è un lento cambiamento di abitudine, lento dolore che si esercita all'evento. Che tutti i futuri morti sono già morti abbandonati e che noi stessi, presaghi della nostra morte, ci esercitiamo con largo anticipo all'abbandono. Ma prima di morire - si diceva - forse potrò capire la mia incerta e oscura condizione. Forse per non morire - sospettava - continuo a non capire, sicura in questa chiara confusione.
«E me ne devo andare via così?/ Non che mi aspetti il disegno compiuto / ciò che si vede alla fine del ricamo / quando si rompe con i denti il filo / dopo averlo su se stesso ricucito / perché non possa più sfilarsi se tirato. / Ma quel che ho visto si è tutto cancellato. / E quasi non avevo cominciato».
La camera ardente di Patrizia Cavalli sarà allestita venerdì 24 giugno dalle 10 alle 12.30 nella Sala della Protomoteca in Campidoglio, a Roma
Patrizia Cavalli, la poesia che (non) cambia il mondo. Davide Brullo il 22 Giugno 2022 su Il Giornale.
Fra le massime poetesse del nostro secondo '900, era chiara, diretta, "vera": e perciò popolare.
Di una donna è difficile lodare l'intelligenza. In poesia, per lo meno. Il canone, in effetti, è fitto di poetesse-mantidi, di poetesse-amazzoni, di vergini leggiadre come una fiala di vetro. Le poetesse-pitonesse per cliché matrilineare scrivono usando il corpo, rimano nel sangue; Patrizia Cavalli preferiva la testa, l'acido lattico del cecchino. Non sbraitava; sapeva colpire con esattezza ennesima. Amava, nel lettore, l'uomo colpito a freddo da un colpo di genio, che s'inchina, gergo di abbandono geometrico. Forse per questo voleva farsi chiamare «poeta»: sostantivo che degenera i generi, declina un destino, consegna l'erma di una responsabilità.
Dicono sia poeta «facile», che piaceva «al grande pubblico»: tutte cose che fanno felici gli editori e i detrattori della poesia, ma che i poeti per presunzione assolti, assoluti tengono in sospetto. Diceva che era stata Elsa Morante a riconoscerla, «sei un poeta», riconoscendo, dunque, che la poesia richiede un'investitura, pretende che le sia investita una vita intera. A Silvia Ronchey disse che la musa «è un empito ragionante, un empito che ragiona»; insomma, non è effervescenza biancovestita, fluorescenza che sorride e invade, ma la brutalità del pensare. Eppure, pur maschia, non era virile, Patrizia Cavalli: probabilmente ritrosa, forse schiva, sorrideva con nitore nipponico, aveva gli occhi larghi di chi ne contiene a migliaia, di occhi, perfino sui polpastrelli, sui gomiti, nelle anche.
Esordì nel 1974, per Einaudi, con Le mie poesie non cambieranno il mondo. Un titolo congeniale ovviamente donato alla Morante che sarà ripreso nella notevole traduzione dei selected poems stampati per Farrar, Straus and Giroux come My poems won't change the world. In copertina, la Cavalli è seduta su una sdraio, maneggia una tazza di tè, i piedi tradiscono tensione, forse imbarazzo, ma il viso è quasi inespressivo, pare l'icona della Giustizia e quella della Melancolia. È stata tradotta da alcuni tra i più noti poeti d'oltreoceano, Jonathan Galassi, Mark Strand, Susan Stewart, Jorie Graham. Tutti citano Datura (Einaudi, 2013), Sempre aperto teatro (Einaudi, 1999), perfino il romanzo, Con passi giapponesi naturalmente anti-, sillabico, sibillino, istrione , che ottenne un Campiello, nel 2020. Io consiglio di riprendere in mano, piuttosto, Il cielo (Einaudi, 1981) e L'io singolare proprio mio (Einaudi, 1992), che ha al centro il poemetto omonimo, gioco di fibrillante arguzia, che stempera la presunzione in nubifragio di cristalli (esempio: «Se quando parlo dico sempre io/ non è attenzione particolare e insana/ per me stessa, non è compiacimento,/ ché anzi io mi considero soltanto/ un esempio qualunque della specie,/ perciò quell'io verbale non è altro/ che un io grammaticale»). La Cavalli, cioè, non era come è stato decretato, in un puzzle di tributi incrociati una specie di Wislawa Szymborska meno spiritosa, una Emily Dickinson de noantri: a me pare una donna (anche fisicamente) fuori tempo, attratta dalla fisiologia verbale del Seicento, una specie di poeta «metafisico», più vicina a George Herbert che al John Donne idolatrato da Cristina Campo (la geniale algida della letteratura nostra), con i blasoni di una Juana Inés de la Cruz, un'altra che sovvertiva gli intellettuali per sovrappiù d'intelletto, rimbambiva le tenebre tra delizie d'arguzia.
Ma queste sono quisquiglie, cibo per quaglie. La Cavalli piaceva ad Alfonso Berardinelli, uno a cui non piace quasi nessuno e ha il talento di dire in modo forbito concetti altrimenti banali (esempio: «La vera e migliore poesia sta in piedi da sola, basta leggerla, non ha bisogno di esplicazioni, analisi, commenti e perorazioni avvocatesche»). In effetti, di lei hanno scritto quasi tutti, a volte in modo misteriosamente accademico (questo è Stefano Giovanardi: «Dramma e ironia, sofferenza e spallucce, desideri e irrisioni, si confrontano costantemente senza che mai l'una dimensione danneggi o riduca l'altra, ma anzi in modo che si arricchiscano vicendevolmente: un personalissimo miracolo... una delle più originali esperienza diaristiche della poesia del secondo Novecento»), di solito in forme superficiali.
Dicendo di Vita meravigliosa (Einaudi, 2020), l'ultimo libro di quella «autrice di culto», Roberto Galaverni non ha taciuto i «momenti di stanca, interlocutori», di una poesia che rischia la monotonia, perché non di sola mente vive l'uomo. Se devo scegliere, mi piace come di lei ha parlato Andrea Di Consoli, in un profilo pubblicato un paio di anni fa su Pangea: «La poesia della Cavalli io la vedo come una donna che fa l'amore senza mai chiudere gli occhi. Anche nell'abbandono più evidente l'occhio rimane sempre vigile sui dettagli più terreni, più umani, più prosaici. Si sente che questa poetessa ha molto vissuto, perché solo chi ha molto vissuto è distante dall'atto poetico come atto religioso».
Non priva di versi perentori, gravidi di grazia epicurea («Rendi comunque onore a ciò che hai amato/ anche quando ti sembra di non amarlo più»), la Cavalli, forse, si rispecchiava in questa antica poesia, che ha il nitore di un epitaffio: «Ha preso un'aria strafottente/ come chi ormai conosce/ altri mondi e a questa vita/ comoda e tranquilla/ non ci crede più».
«Non si muore d'estate», rivela Cesare Pavese in Mito, poesia di frugale bellezza. Patrizia Cavalli se ne va sul ciglio della nuova stagione, bella come un frutto appena sbucciato, aprendo la porta. Nei campi mietono il grano, i covoni sembrano molteplici soli, qualcuno mozza la testa alla vipera. Ai poeti va tributato il timore: spariscono, proprio quando c'è più luce e le finestre, mature, esplodono.
La scrittrice aveva 75 anni. È morta Patrizia Cavalli, la grande poetessa che fu ispirata da Elsa Morante. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Giugno 2022.
Patrizia Cavalli aveva raccontato che a farla poeta era stato l’incontro con Elsa Morante. Aveva riconosciuto nella scrittrice romana la poesia, e lo stesso aveva fatto con lei la scrittrice. Spronandola, ispirandola. “Lei mi ha tirato fuori dalla mia infelicità e mi ha fatto essere poeta”. Ed era diventata lei stessa una delle protagoniste della poesia italiana del secondo Novecento. È morta all’età di 75 anni, in un ospedale, a Roma. Era malata da tempo. È stata tra gli autori più popolari, dalla parola autentica, a metà tra il classico e il quotidiano, con una libertà creativa che non tradiva il rigore stilistico.
Cavalli era nata a Todi, in provincia di Perugia il 17 aprile 1947. Si era trasferita a Roma all’inizio degli anni ’70, per studiare Filosofia. L’incontro con Morante durante quegli anni di studi. La prima raccolta di versi, Le mie poesie non cambieranno il mondo, del 1974, pubblicato da Einaudi, l’aveva dedicato proprio alla scrittrice.
“Dopo un paio d’anni di frequentazioni quasi giornaliere Elsa, andando dal ristorante a Piazza Navona, si ferma all’improvviso e con l’aria più minacciosa della terra mi guarda e dice: ma insomma tu, che fai? Allora non so come mi è venuta questa imprudente e perfida idea di dire, sapendo che per lei la poesia era il massimo: scrivo poesie. Lì è cominciato l’incubo. Mi ha guardato e ha detto: ah sì? beh, fammele leggere, non perché mi interessino dal punto di vista letterario, voglio solo vedere come sei fatta”.
Con la seconda, Il cielo, aveva pubblicato un volume – Poesie (1974-1992) – che comprendeva anche una terza raccolta intitolata L’io singolare proprio mio. Con Sempre aperto teatro, del 1999, ha vinto il Premio Viareggio. La raccolta di prose Con passi giapponesi nel 2020 era arrivata in finale del Premio Campiello. Le sue poesie sono state tradotte in varie lingue tra cui francese, inglese, spagnolo e tedesco. Nel 2013 è uscito presso la casa editrice statunitense Farrar Straus & Giroux l’antologia My Poems Won’t Change the World: Selected Poems.
L’ultima sua raccolta, pubblicata con Einaudi, era stata Vita Meravigliosa, uscita nel 2020. Cavalli è stata anche traduttrice: per il teatro ha tradotto La tempesta, Sogno di una notte di mezza estate, Otello, La dodicesima notte di William Shakespeare – tutti raccolti in Shakespeare in scena – e Salomè di Oscar Wilde e Anfitrione di Molière. Con la musicista Diana Tejera aveva pubblicato Al cuore fa bene far le scale, Dati Voland, un cd più libro con poesie e musiche originali nate dalla collaborazione tra le due artiste.
Aveva raccontato in un’intervista a Il Foglio che la prima poesia l’aveva scritta in quinta elementare per Kim Novak, dopo aver visto Picnic, ed essersi innamorata. “Del resto la base fisiologica delle mie poesie è fondamentale. Io non sono mai ispirata da una cosa astratta. Non mi ispira un ragionamento, un pensiero – aveva raccontato al quotidiano – ma mi ispira una forma di percezione fisica del suono delle parole e della sensazione che accompagna queste parole, come si incarnano. Non nasce mai una mia poesia da un ragionamento, anche se le mie poesie ragionano molto. La nascita viene da un forte stimolo psichico, nervoso, quasi materiale, e da qui si muove la lingua e va fisicamente dove viene condotta. Questa è l’ispirazione. Non tutti hanno la stessa scaturigine, io ho questa e non è astratta: è fisica, ci sono le persone, l’amore, l’odio, il disprezzo, il gioco, casa mia. Poi grazie alla lingua l’ispirazione prende un corpo, un’evidenza”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
LE MIE POESIE SONO RESPIRI E IO RESPIRO PER TROVARE LE PAROLE. PATRIZIA CAVALLI SI RACCONTA
Annalena Benini per il Foglio - 21 AGO 2017
"Se vuoi proprio saperlo – dice Patrizia Cavalli, e sembra una minaccia – io le poesie le ho sempre scritte: le prime le ho fatte per Kim Novak, in quinta elementare, dopo aver visto Picnic”. Kim Novak che scende le scale battendo le mani a tempo di musica, nuvola bionda in abito rosa, William Holden che lascia l’altra donna per ballare con lei. “Mi sono innamorata, sono andata a casa e ho detto alla mamma: voglio conoscere Kim Novak. Lei mi ha detto: ma come faccio? e io: ah sì, e allora non mangio più.
E non ho mangiato per una settimana”. Ride, e dice: povera mamma, ero una bambina così infelice. “A un certo punto, dopo il digiuno, ho scritto due poesie, che ho ritrovato in certi vecchi taccuini. Una si intitola: Se morisse Kim Novak. Dove sono gli abiti miei neri? Dov’è il lutto che fuor si vede? Non c’è? Beh, non fa nulla. Avrò lutto precoce nel cuor profondo mio”.
Parlare con Patrizia Cavalli significa abbandonarsi alla possibilità di essere presi in giro per ore, quasi maltrattati e poi gratificati da un segreto rivelato a voce bassissima, e significa ascoltarla cantare, vederla distrarsi e poi ritornare velocissima sulla terra, a un centimetro da qui. “In realtà io non ho fatto altro, in tutta la vita, che fare una sorta di racconto fisiologico: nasce tutto da qualcosa di fisico perché io non ce l’ho l’anima”. Sei totalmente senz’anima? “Sì, io ho solo i sensi, e le parole”.
Ma quando hai smesso di amare Kim Novak hai continuato con le poesie? “Per un periodo ho pensato che scrivere poesie volesse dire alterare un po’ le parole, la lingua, inventarla, e scrivevo cose che non significavano niente, assolutamente niente”. Mi recita un’altra poesia, fatta di parole tronche e misteriose, e nella sua bocca tutto diventa ipnotico, mi pare di capire versi che in realtà non esistono, significati impossibili, e le chiedo che cosa pensavano i genitori, verso la fine degli anni Cinquanta a Todi, di quella bambina malinconica che scriveva poesie incomprensibili.
“Erano cose mie, neanche se ne accorgevano, ero una ragazzina infelice e pazza: non esiste di me bambina una foto in cui sorrido. Verso i 14 anni invece ho ricominciato a scrivere poesie molto cariche, molto espressioniste, brutte assai, tutte finte, e ho continuato sempre, con l’idea però che la mia vera ambizione sarebbe stata scrivere la prosa, ma sono sempre stata troppo pigra, ho sempre avuto bisogno di una soddisfazione immediata. Poi ho conosciuto Elsa Morante ed è cambiato tutto”. Elsa Morante è stata una grande amica di Patrizia Cavalli, una musa, un modello, “lei mi ha tirato fuori dalla mia infelicità e mi ha fatto essere poeta”.
“Era il 1969, studiavo Filosofia a Roma, mantenuta dai miei genitori, tornavo sempre a Todi dopo quindici giorni perché finivo i soldi dello stipendio molto velocemente: andavo sempre in taxi, compravo violette candite. Ero molto infelice, non conoscevo nessuno tranne questo gruppo di froci americani molto sofisticati, perché un mio amico di Todi era fidanzato con uno di loro. Uscivo con loro la sera, unica donna, non sapevo nemmeno l’inglese, chiedevo: e dove sono le lesbiche? Possibile che non c’è una donna?, e loro dicevano che ero così funny, che avrei avuto così successo a New York, mi trovavano buffa, non si sa perché. Io ero disperata”. Io ho paura che Patrizia Cavalli si annoi, ho paura di dire qualcosa che la faccia smettere di raccontare, quindi taccio.
“Un giorno volevano farmi incontrare Elsa Morante, ma sono arrivata in ritardo: l’ho incrociata sulla porta mentre se ne andava, e con aria un po’ sprezzante mi ha detto: telefonami se vuoi. Così ho fatto. Lei mi ha dato un appuntamento per andare a pranzo insieme e abbiamo subito litigato: io avevo la certezza di assomigliarle perché aveva scritto Il mondo salvato dai ragazzini, ma lei già stava da un’altra parte mentre io ero una conformista ancora ferma al Sessantotto. In ogni caso, lì è cominciata la mia vita. Da quel momento è cambiato tutto, da così a così”.
Patrizia Cavalli fa il gesto con il palmo della mano, seduta su un divano a righe di questa vecchia bellissima casa a Campo de’ Fiori, dove già quarant’anni fa viveva in affitto come studentessa, in una stanza vicino all’ingresso. “Con Elsa andavamo a mangiare insieme tutti i giorni, lei aveva trentacinque anni più di me ma si metteva sempre alla pari. Ho conosciuto tutti i miei amici più cari grazie a lei, gli amici della vita: Carlo Cecchi, Angela Ippolito, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani. Mi guardavo bene dal dirle che scrivevo poesie, io studiavo Filosofia e mi sembrava sufficiente, non pensavo di dover giustificare la mia esistenza con altre cose: sapevo quanto Elsa fosse difficile e quanto sarebbe stata pronta al disprezzo e all’ostracismo.
Lei non avrebbe mai mentito, se le avessi mostrato le mie brutte poesie avrebbe detto: ma non ti vergogni? ma secondo te queste sono poesie?, e io più di tutto tenevo alla sua amicizia”. Andavamo spesso a Piazza Navona, e a pranzo alla Campana, con amici o da sole. “Ero appagata da quel che avevo: per me quello che contava era l’amicizia ed erano le persone, non avevo il fuoco dell’arte che mi bruciava e nemmeno l’ambizione, ma non perché fossi umile: ero presuntuosissima, ma era una presunzione di me stessa, una specie di superbia del mio essere”.
Per la serie “Gli scrittori del sole” sono uscite finora sul Foglio le interviste a: Edoardo Albinati, il 24 giugno; Valeria Parrella, il 1° luglio; Sandro Veronesi, l’8 luglio; Domenico Starnone il 15 luglio, Francesco Piccolo il 22 luglio, Melania Mazzucco il 29 luglio, Michele Mari il 7 agosto, Alessandro Piperno il 14 agosto
Non poteva durare per sempre. “Dopo un paio d’anni di frequentazioni quasi giornaliere Elsa, andando dal ristorante a Piazza Navona, si ferma all’improvviso e con l’aria più minacciosa della terra mi guarda e dice: ma insomma tu, che fai? Allora non so come mi è venuta questa imprudente e perfida idea di dire, sapendo che per lei la poesia era il massimo: scrivo poesie. Lì è cominciato l’incubo. Mi ha guardato e ha detto: ah sì? beh, fammele leggere, non perché mi interessino dal punto di vista letterario, voglio solo vedere come sei fatta”.
"Quando Elsa mi ha detto: ma insomma tu, che fai?, per me è cominciato l'inferno. Ho risposto: scrivo poesie, e sono sparita"
Patrizia Cavalli riesce a trasformare i ricordi in un teatro, vedo il sopracciglio di Elsa Morante che si alza, vedo il terrore negli occhi di Patrizia ventenne. “La peggiore delle minacce: per me è stato l’inferno. Ho cominciato a svicolare. Non andavo più a pranzo. Non mi facevo trovare, prendevo mille scuse, poi andavo a pranzo e lei subito: ma queste poesie? E io: le sto ricopiando. Ogni volta: e queste poesie? E io sempre: le sto ricopiando.
E lei: e che ricopierai mai! Ma io non le stavo ricopiando, le stavo scrivendo! Perché non ero stupida e avevo capito che quello che avevo scritto era orribile, era quanto di meno potesse piacere a Elsa”. Quindi hai scritto nuove poesie solo per lei? “Sapevo che lei non poteva essere imbrogliata, così ho fatto un esercizio spirituale: ho riconosciuto e raggiunto quello che doveva essere da un lato vero e dall’altro doveva accordarsi a ciò che Elsa avrebbe riconosciuto come autentico. Quindi ho fatto un esercizio tra la menzogna e la verità. Dopo sei mesi di svicolamenti sono arrivata al ristorante con un fascetto di trenta poesie, tutte brevi, poi sono tornata a casa e dopo mezz’ora ho ricevuto una telefonata: ‘Patrizia, sono felice: sei una poeta’.
Ho provato una tale felicità, anche se non me ne importava niente d’esser poeta. Ma ero stata assolta, e dunque ero stata accolta: per me quello fu un sollievo tale che poi tutto il resto, quello che è successo dopo, mi è sembrata la cosa più naturale del mondo. Mi importava di essere finalmente al sicuro: non potevo più essere cacciata perché ero poeta. Mi davo delle arie tremende”. Quelle poesie sono state pubblicate nel 1974 da Einaudi, la prima di sette raccolte, e sono dedicate a Elsa.
“Quando poi questo libretto di poesie è uscito, non me ne importava molto. Ho avuto sempre un lato calcolatore un po’ cinico, non sono mai stata veramente innocente. Non mi importava degli altri, volevo solo essere accettata e amata da Elsa, che era per me il massimo che ci potesse essere. Lei ha trovato il titolo, io ero a New York, lei mi ha telefonato e mi ha detto: sono qui a correggere le bozze della Storia, ho guardato il tuo libro e penso che dovrebbe intitolarsi: Le mie poesie non cambieranno il mondo, ti va bene? E io ho detto: va benissimo, ma l’avrei detto di qualunque titolo”. Dico a Patrizia Cavalli che quel titolo è di Elsa, va bene, però è il verso di una poesia di Patrizia Cavalli.
Qualcuno mi ha detto
che certo le mie poesie
non cambieranno il mondo.
Io rispondo che certo sì
le mie poesie
non cambieranno il mondo.
“Certo certo – dice Patrizia Cavalli – era stata Elsa stessa a dirmi: guarda, non credere che le tue poesie cambieranno il mondo. Perché lei era così: da un lato ti esaltava, dall’altro ti diceva: non ti montare. Mi ricordo che una volta sono andata al ristorante con un panama, mi credevo di avere chissà che in testa, arrivo e lei mi fa: ma figurati, questo cappello, ai miei tempi lo mettevano i ragionieri. Vanitosissima com’ero mi sono offesa a morte, ho cominciato a fare musi sovrannaturali. Stavamo con altri amici, Carlo Cecchi, lo scenografo Sergio Tramonti, e Elsa dice: ‘Guardate questa cretina: le ho appena detto è nato un poeta e adesso fa i musi per un cappello’. Però lei in realtà di questo era felicissima, per lei uno che fa il muso per un cappello ha qualcosa di meglio di uno a cui piacciono le poesie, è davvero un poeta.
Ma il mio problema è la pigrizia e la fannullaggine: posso dire che ho lavorato, ma senza mai accorgermene, ho pubblicato poco, ho i cassetti pieni di fogli orfani”. Mi sembra che questo sia un vezzo, un modo per denigrarsi e non prendersi sul serio, in una vita caratterizzata, sempre, dalla forza espressiva, sia che Patrizia Cavalli canti una canzone, legga una sua poesia, reciti a memoria L’Inferno di Dante, traduca Shakespeare per il teatro.
“Quando leggo di scrittori che tutti i giorni si mettono al tavolo per ore, qualunque cosa succede, proprio li invidio: io sono stata capace di stare mesi senza scrivere una parola, o almeno senza accorgermi di farlo”. Nemmeno per un bisogno economico? dico guardandomi intorno, ammirando le lampade che sembrano rose, i quadri e gli oggetti usurati e belli.
Patrizia Cavalli ride: “Ma perché, con le poesie guadagni? Io ho venduto un numero notevole di libri, considerando che sono poesie, ma non è così che diventi ricco. Certo, sarebbe bello essere ricchi, e adesso mi è venuta la mania di farmi pagare. Adesso ho vinto il premio Feltrinelli, e ne sono felicissima. Però io mica ho guadagnato con le poesie, ho fatto tutt’altro”.
Che cosa hai fatto? “Per un periodo ho fatto la mercante d’arte, soprattutto negli anni Ottanta era molto facile. Qualcuno aveva un quadro o un oggetto da vendere, io facevo da tramite con il compratore e prendevo la percentuale, in due minuti guadagnavo anche molti soldi. Ho fatto transazioni con un grande antiquario di Torino che in una sola volta ha venduto quadri per dieci miliardi di lire. Rispetto ai soldi sono sempre stata fortunata: pura fortuna senza fatica. Poi mi sono venuti gli scrupoli e non ho più fatto una lira.
Bisogna avere l’innocenza del delinquere per guadagnare. E sono stata per cinque anni mantenuta da una fondazione americana di una mia amica, simpaticissima e molto stravagante. Dovevo scrivere qualche riga di progetto e mi arrivavano quarantamila dollari, cinquantamila dollari, trentamila dollari.
Poi sono diventata giocatrice di poker, e lì è cominciata la rovina. Poker scoperto. All’inizio vincevo, ero fortunatissima, massacravo tutti i pittori di San Lorenzo, avevano il terrore di me, poi mi sono un po’ rovinata – dice Patrizia abbassando la voce, ma rallegrata dal mio stupore – e ho smesso. Ecco questa è la mia dimensione economica, tutta affidata alla sorte. Giocavo fino alle sette del mattino, fumavo miliardi di sigarette, mi sono rovinata la salute: se penso alla mia malattia adesso, non è stato uno scherzo”.
Patrizia si tocca la testa, è senza parrucca perché fa caldo, l’aria condizionata va tenuta bassa perché dà fastidio, ogni tanto Patrizia la spegne, poi la riaccende, si lamenta di questa casa con un unico bagno in cima a una scala, mi chiede come posso stare seduta su questo divano che in realtà è un materasso, “di una scomodità sovrannaturale”, e mi spiega che nel caffè devo mettere il miele di elicriso.
“Mi hanno trovato il cancro nel 2015 – racconta – ma ero malata da prima, e quello che non mi va giù è che c’è un responsabile del mio stato: il mio medico, lo odio. Non si è accorto del cancro, ed è un radiologo. Io essendo un’ipocondriaca e fumatrice facevo le radiografie ogni anno, non ho fatto altro nella mia vita che fare controlli, capisci la beffa? Della mia malattia c’è evidenza già nel 2011, ma lui non aveva guardato le lastre. Se questa cosa fosse stata vista quando doveva essere vista, io non sarei certo in questo stato”.
Patrizia mi dice continuamente: non noti quanto sono laconica? e forse mi prende in giro. Dice che le cure le hanno assaltato la memoria, le sembra di avere dei cartoni nella testa, “sono anche diventata ordinata, non è normale, no? Cerco di usare questa malattia a mio vantaggio, sto ricopiando tutto quello che ho scritto a mano, anche cose di insignificanza assoluta, quasi come un esercizio di auto dispetto. Mi misuro con le mie goffaggini, le insipienze, con quella che sono, perché quello che ho scritto è anche quello che sono”. Tu hai paura? “Quando ci penso molto bene, sì, ho paura, poi faccio finta di niente, perché so che non gioverebbe vivere nel terrore”.
Le dico: sei famosa anche per l’amore per gli oggetti. “Ah sì, sono famosa? Non lo sapevo”, dice con civetteria. “Sì sono una quality queen, io amo gli oggetti, infatti se penso alla mia morte quasi quasi mi dispiace più per gli oggetti che per le persone. I miei occhi non si poseranno più su quella poltrona dove c’è quella stoffa che ogni volta che la vedo dico ah quanto è bella. Neanche mi manca l’arte, i quadri, ma proprio la bellezza degli oggetti, un vaso lo guardo e dico: come ho fatto a comprare una cosa così bella. L’opus incertum della cucina, composto di pezzi di marmo antico e di ceramiche l’ho fatto io, è il mio capolavoro: l’incontro dell’intenzione e del caso è proprio un paradigma della mia vita anche poetica.
Qualcosa che deve incastrarsi con un’altra ma senza prepotenza: devi ascoltare, anche in modo passivo, la forza dell’oggetto in sé. Le poesie sono spesso una forma di opus incertum, una specie di ascolto duttile, non è semplicemente la volontà a crearle”. Quindi sono le poesie che ti possiedono? “Le mie poesie sono tutte respiri, a parte i poemetti che sono respiri a lungo termine, respiri che pensano. In un certo senso sì, sono posseduta, mentre scrivo c’è un tempo in cui non penso.
Quando avevo le aure, quei grandi mal di testa, quasi preludi a crisi epilettiche, come li descrive Dostoevskij, con un’alterazione della percezione dei sensi, precipitavo in una specie di visionarietà, stando dopo malissimo. Prima una felicità incontenibile, qualcosa che ti alza, dove senti l’universo, i continenti, le stagioni, l’infanzia e all’improvviso BOM, come se ti arrivasse una botta in testa e questa forma estatica si trasforma in dolore, dolore, dolore. Era una concentrazione che mi faceva lievitare, ho fatto quarantacinquemila elettroencefalogrammi, ma forse senza saperlo ero un po’ pazza.
Non ce le ho più, le aure. Sarà un bene o sarà un male? Parafrasando Sandro Penna: il problema della testa prende tutta la mia vita, sarà un bene o sarà un male mi domando ad ogni uscita”. Quindi adesso vuoi farmi credere che eri pazza e non lo sei più? “Forse non lo ero, perché ho sempre ragionato.
Del resto la base fisiologica delle mie poesie è fondamentale. Io non sono mai ispirata da una cosa astratta. Non mi ispira un ragionamento, un pensiero, ma mi ispira una forma di percezione fisica del suono delle parole e della sensazione che accompagna queste parole, come si incarnano. Non nasce mai una mia poesia da un ragionamento, anche se le mie poesie ragionano molto. La nascita viene da un forte stimolo psichico, nervoso, quasi materiale, e da qui si muove la lingua e va fisicamente dove viene condotta.
Questa è l’ispirazione. Non tutti hanno la stessa scaturigine, io ho questa e non è astratta: è fisica, ci sono le persone, l’amore, l’odio, il disprezzo, il gioco, casa mia. Poi grazie alla lingua l’ispirazione prende un corpo, un’evidenza”. La tua lingua è molto limpida, come se tu riuscissi a ridare un’innocenza e una lucentezza alle parole. “Le parole per me sono tutte belle, tutte. Se riescono ad esistere, e a vibrare, la lingua è una cosa meravigliosa, un miracolo dell’umano, è tutto bellissimo se riesce a stare nel punto in cui la parola si dispone in un corpo evidente, necessario e sorprendente. Non ci sono parole brutte e non esistono sinonimi.
La parola è quella. E’ un’idea ridicola che esistano i sinonimi. Le parole possono solo assomigliarsi parzialmente. Ogni parola ha la sua proprietà, quando hai detto la parola che è proprio quella tu lo sai, lo senti”. Ed è il contrario, della letterarietà: c’è la costruzione della naturalezza, ma la costruzione nelle poesie di Patrizia Cavalli non si avverte mai: “Far sembrare come se tutto dovesse essere così e che per la prima volta che uno ha aperto bocca è uscito questo fiato. A volte è proprio così ed è come se ci fosse una grazia che proprio te lo regala. Altre volte no. Ma è il risultato che conta. Senti com’è bello questo distico:
Penso che forse a forza di pensarti
Potrò dimenticarti amore mio.
Senti che può fare la poesia: va verso l’aria. Che cosa c’è di più bello delle parole, della lingua?”. E’ come una storia d’amore, è come il gioco dell’amore. “E’ proprio l’amore che mi muove, e magari non è la verità intesa in un senso letterale, ma c’è sempre una forma estatica di adorazione, di disprezzo o di odio. L’amore spirituale non so che cosa sia, mi dura mezza giornata. O sono affected, impressionata, oppure non so cosa sia l’amore”. E ti impressioni facilmente? “Adesso purtroppo no, ma in passato ero molto impressionabile”, ride Patrizia, e ricomincia:
Impressionabilissima io scivolo
Addosso a te incerata e mi perturbo
Del tuo imperturbabile restare,
dissipo ogni sostanza materiale
da non aver più nulla da turbare.
Le chiedo quali sono i suoi modelli, chi sono i poeti con cui si confronta. Si infastidisce. “Io non mi confronto con i miei contemporanei perché per lo più mi annoiano, mi confronto solo con i grandissimi poeti, o meglio li leggo. Con Umberto Saba, con Sandro Penna, con Giorgio Caproni. Adesso sto leggendo Mandel’stam, ma è un inferno non poter leggere il russo, non poter godere delle rime, è così anche per Marina Cvetaeva: la metrica è così importante, la poesia è la sonorità.
Le mie poesie brevi se non avessero quel suono non sarebbero nulla. Ma quando apro dei libri di poesie e i miei occhi scivolano come su uno specchio e non si fermano su nessuna parola e se ne vanno via perché è una parola insignificante o sembra sottrarsi a ogni emozione e non sai perché stia lì, è come se scivolassi in un pozzo nero. Quando leggi i veri poeti le parole ti vengono addosso, esistono, si aprono, non si chiudono. Mi succede con Dante, con Cavalcanti, con Leopardi: li leggo sempre con estasi, li imparo a memoria perché è importante, è fondamentale, mi fanno compagnia: cammino per strada e loro a un certo punto mi soccorrono”.
Le parole soccorrono, ma anche l’amore soccorre, perché ispira le parole: “Per amore ho avuto momenti terribili: all’improvviso cominciava questa sofferenza allucinante, stavo per ore a fissare la parete. Non mi succede più, questa cosa si è interrotta, ma io sono diventata meno intelligente, più opaca, adesso ho la sensazione di non essere niente, perché non sento più quello che sentivo. Non so se sono queste cure, ma ho addirittura la sensazione di aver cambiato carattere”. Forse è soltanto che non sei innamorata. Però dammi, adesso, ancora una poesia. Patrizia Cavalli sorride, si sistema la camicia blu.
Come morta, meno che morta,
più che morta. Vivente
a due passi, scomparsa
ai miei occhi. Dio degli incontri,
ritornami amico!
Il ricordo. Chi era Patrizia Cavalli, la voce più bella della poesia contemporanea. Filippo La Porta su Il Riformista il 22 Giugno 2022.
Per ricordare Patrizia Cavalli, scomparsa a 75 anni – la voce più bella della nostra poesia contemporanea (tradotta in tutto il mondo) – vorrei partire da un ricordo personale, delle sue leggendarie cene con amici e persone a lei care (molti anni fa vi conobbi Elsa Morante, ma da quando Patrizia si era ammalata non ci eravamo più visti). Quelle cene, nella casa di Campo de’ Fiori, avevano qualcosa di esageratamente sontuoso, di sfrontatamente lussuoso: ricordo solo poggiata su un tavolo una enorme ciotola, quasi una zuppiera, ricolma di pinoli… Non perché fosse ricca. Tutt’altro. Non credo avesse mai lavorato né godeva di un reddito stabile: la sua sussistenza veniva assicurata dalla generosità di amici benestanti. Mentre la sua filosofia si potrebbe riassumere nella frase che una volta mi disse: “Più spendi e più ti arrivano i soldi!”. C’era qualcosa di anarchico e dissipativo in questa filosofia.
La sua poesia però era tutt’altro che dissipativa. Anzi, una geometria spinoziana delle passioni, un sapere antropologico in versi da tutti fruibile, una palpitante “commedia umana” che racconta meglio di tanti romanzi la nostra società di questi anni, in particolare le tonalità emotive e gli spostamenti progressivi del piacere entro questa società. Una poesia felicemente inclassificabile, o comunque difficile da collocare (anche perciò non dispone di una letteratura critica adeguata), priva di padri e modelli riconoscibili, anche se certo si potrebbero indicare alcune suggestioni (un nome per tutti: Sandro Penna, come lei umbro, e poi l’amica Elsa Morante, ma anche saggisti e filosofi contemporanei che frequentava, da Berardinelli ad Agamben, che la definì titolare di una “sapienza prosodica stupefacente”). Una poesia diaristica, di aforistica densità riflessiva, di settecentesca grazia, aperta al teatro: “Finalmente me ne andavo alla conquista / Di che cosa, avanti, dimmi, di che cosa? /Della sposa? /Ah questo no, non della sposa” (da Vita meravigliosa, 2020). Ricordo anche la sua attività di traduttrice del teatro, specialmente dei drammi shakespeariani e delle commedie di Molière. Di sé ha scritto: “Non sono nata per essere ragionevole…essere ragionevoli vuol dire adattare i propri pensieri a quel che gli è contrario… sono nata per essere felice”.
Ora, la sua poesia non è ragionevole però ragionante sì. E anzi ogni suo componimento ci ricorda che solo nella nostra tradizione “ragionare” è sinonimo di “poetare”. Certo, si tratta di un pensiero ben diverso da quello concettuale e speculativo, e anzi è continuamente innervato dalle emozioni, da una musica dell’anima. D’altra parte sulla origine probabilmente “malata” della stessa coscienza umana scrisse versi ironici e memorabili: “Io scientificamente mi domando / come è stato creato il mio cervello, / cosa ci faccio io con questo sbaglio. / Fingo di avere anima e pensieri per circolare meglio in mezzo agli altri / (…)” (da Poesie, 1999). Una volta volle esporre la sua personale poetica, che ha nobili precedenti teorici, ma che lei formulò con estrema limpidezza: nel linguaggio poetico, insieme moderno e arcaico, accade che il pensiero umano decide di essere preso per mano e guidato da quella cosa così primordiale che è il suono, e proprio in ciò riesce a produrre effetti strabilianti.
Anche se poi la sua utopia era una felicità smemorata, regressiva , liberata perfino dall’obbligo del pensiero: “Cosa non devo fare / per togliermi di torno / la mia nemica mente: / ostilità perenne / alla felice colpa di esser quel che sono, / il mio felice niente” (da Vita meravigliosa, 2020). Ognuno di noi ha un suo privato archivio di versi imparati a memoria, più o meno ampio. Di Patrizia Cavalli mi ridico spesso un verso stupendo, che comincia una poesia dedicata al mercato vicino, dove lei andava al momento della chiusura, tra mucchi di foglie di carciofi e frutta marcia, per godersi l’”occasione persa”. Il verso dice così: “Era alla luce terribilmente sabato” (da L’io singolare proprio mio, 1992).
Più recentemente era uscita una raccolta di prose – Con passi giapponesi (2019 Einaudi) – che delle sue poesie rappresentano un controcanto meditativo, dove si narra di case, soldi, bagagli, destino, scrittura, amore, morte…. E molti i ritratti: amici, gattare, genitori, sconosciuti… L’autrice intreccia profondità e svagata leggerezza di tocco. Straziante la pagina sulla madre, dopo una operazione che le toglie l’utero si ritira dal mondo, invecchia precocemente e si lascia andare del tutto. Alla fine somiglia a un cadavere: “Proprio lei, che avrebbe dovuto difendermi dal tempo e dalla morte, in un sol colpo mi conduceva impreparata a quella terribile visione…”. Lì Patrizia Cavalli apprende in modo traumatico la verità dell’esistenza, e avverte il passare del tempo come una rovina. Al tempo inteso come rovina e perdita si può opporre solo l’amore degli altri verso di noi, quasi garante della nostra esistenza.
Infine. La prima volta che la vidi fu in video, in una trasmissione televisiva del 1974 – “Settimo giorno”, condotta da Enzo Siciliano – , quando era uscita da poco la sua prima raccolta, Le mie poesie non cambieranno il mondo. In quell’occasione, ripresa nel soggiorno di casa sua, disse con un’aria da bambina impertinente, che il ‘68 era stato una immensa perdita di tempo! Ci ho pensato spesso. Quasi una sentenza beffarda, pronunciata proprio da chi amava vivere la propria vita come una gioiosa, estenuata, interminabile perdita di tempo, fino all’ultima, “terribile visione”: “Mi sveglierò domani. Ancora resto / nel lusso inconcludente del domani / E che farò domani? Spero niente. / Solo facendo niente ho il mio domani. / Adesso dormi però, e coscienziosamente” (da Pigre divinità e pigra sorte, 2006).
Filippo La Porta
· È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.
Da corriere.it il 17 giugno 2022.
È morto l’attore Jean-Louis Trintignant: aveva 91 anni. Celebre la sua interpretazione nel «Sorpasso» di Dino Risi a fianco di Vittorio Gassman. Il suo esordio al cinema risale al 1955 con «E dio creò la donna» di Roger Vadim a fianco di Brigitte Bardot.
Morto Jean-Louis Trintignant: l’attore aveva 91 anni. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.
Divenne celebre per l’interpretazione del film «Il sorpasso» di Dino Risi a fianco di Vittorio Gassman.
È morto a 91 anni l’attore francese Jean-Louis Trintignant, figura chiave del cinema e del teatro francese. Lo ha annunciato la moglie Mariane Hoepfner Trintignant. Nel suo comunicato all’agenzia France Presse, si legge che Trintignant «è morto serenamente, di vecchiaia, questa mattina, nella sua casa, nel Gard (nel sud della Francia), circondato dai suoi parenti». I funerali si svolgeranno in privato. Tra i primi a commentare la scomparsa il presidente francese, Emmanuel Macron, che ha salutato il «formidabile talento che ha accompagnato le nostre vite». La sua vita è stata segnata da diverse tragedie — tra cui la morte della figlia Marie, anche lei attrice, uccisa nel 2003 dal suo compagno, il cantante Bertrand Cantat. Qui sotto, il ricordo di Maurizio Porro.
Ci sono almeno tre opzioni per ricordare Jean Louis Trintignant : quando aveva 32 anni ma ne dimostrava dieci di meno e Dino Risi lo prese dalla sera alla mattina, vista una sua foto, per accostarlo nella spyder del Sorpasso a Gassmann per fare lo studentello timido vittima del farfallone; quando nel ’67 Lelouch gli offrì la parte romantica per eccellenza nel melò romantico per eccellenza, Un uomo, una donna anche qui spesso in auto (è un corridore) accanto ad Anouk Aimée, globale processo di identificazione del dare avere sentimentale di coppia (ma il sequel sarà un flop); quando nel 71 Bernardo Bertolucci lo volle magnifico protagonista del Conformist a in cui è Marcello Clerici che, arruolato nella polizia segreta fascista, deve uccidere per un’inconfessabile ambiguità un suo professore a Parigi.
L’attore francese nato l’11 dicembre 1930 a Point Saint Exprit de Gard, in Provenza, ha avuto in realtà diversi momenti tragici nella sua vita personale e altri magici in una carriera duttile, molto europea, molto ricca.
Una classica carriera italo francese, per le molte coproduzioni di allora (vedi Perrin, Delon, Belmondo): infatti nel 59 la grande occasione è offerta da Valerio Zurlini in Estate violenta, una lunga notte del 43 a Riccione dove ama disperatamente sotto le bombe madame Rossi Drago.
Nasce come i grandi con la passione del teatro e della poesia incorporate; studia legge e recitazione a Marsiglia poi a Parigi, è fan accanito di Prevert e Apollinaire, la cui poesia gli salverà la vita dopo la morte della figlia.
Debutta sul palco nel ’51 affrontando paziente la routine dei comprimari e si forma con precisione, professionismo, cultura e coltivando l’aspetto del bravo ragazzo timido, in realtà figlio del sindaco industriale della cittadina natale e nipote di due famosi corridori d’auto, Philippe (morto in incidente) e Maurice Trintignant.
Il primo ruolo d.o.c. in teatro glielo offre Robert Hossein in una sua commedia mentre al cinema fa parte dei cuori infranti da Brigitte Bardot in Piace a troppi di Vadim, marito della diva: è ben educato, nerd, ma con B.B. è amore vero, cui pone fine solo il servizio militare, arruolato per due non facili anni nella guerra d’Algeria.
Dopo l’inferno e dopo il congedo, ritrova una verginità morale interpretando a teatro Amleto, sua ossessione e poi arriva il miglior cinema italiano che gli offre magnifici ruoli.
Ecco il figlio del gerarca nel magnifico Zurlini e il famoso Le farfallon con Gassmann al volante nel cult più amaro della commedia italiana (con la voce di Paolo Ferrari).
Viene poi Lelouch, perfetto per Jean Louis: un trionfo coronato da Palma d’oro a Cannes e Oscar.
Torna sempre in Italia anche per girare uno strano western di Sergio Corbucci Il grande silenzio dove è un killer nel gelido Utah, così lontano dallo scrittore snob di Metti, una sera a cena di Patroni Griffi e dai titoli intellettuali francesi di Rohmer («La mia notte con Maud») e Robbe Grillet («L’uomo che mente», premio a Berlino), potere del dialogo, equilibristi della parola, del tempo.
Il conformistaè il film della sua vita ma rinuncia per pudore, con disperazione alla proposta di «Ultimo tango».
Si rifà col civile commovente «Z» del greco Costa Gavras con cui vince il premio di Cannes, con Jacques Deray (un accettabile comune senso del pudore), poi è un medico gay nella «Donna della domenica» di Comencini, il giallo torinese, e un altro medico deluso dalla vita nel «Deserto dei tartari» di Zurlini, dal romanzo di Buzzati.
I suoi personaggi son spesso pacati, vinti, contorti come lo sceneggiatore nella «Terrazza» di Scola, mentre si diverte nell’ultimo Truffaut in giallo con la Ardant «Finalmente domenica!». Dopo un isolato film americano («Sotto tiro» di Spottiswoode), è ancora un italiano, Gianni Amelio a proporgli il ruolo straziante del padre terrorista di «Colpire al cuore». Oltre a 150 film come attore, spesso di consumo, commedie e noir per lui pari sono, ma è stato anche regista di tre titoli modesti, mentre il finale di partita è strepitoso.
Già anziano gira nel 1994 «Film rosso» con il maestro Kieslowski, parte di una trilogia in cui si palleggia vita e destino; già anziano e malato, dopo un incidente d’auto, è il marito che cura la moglie in «Amour» di Haneke, prova memorabile anche per le memorie private dell’attore che vengono a galla. E nel ’17 il lungo addio sempre con l’austriaco Haneke in «Happy ending».
Trintignant fu tre volte padre e tre sposo, l’ultima con la pilota Marianne Hoepfner e la prima con Stèphane Audran, brava attrice per Chabrol che sarà il secondo marito; in mezzo Nadine Marquand, regista che usa il marito Jean Louis per tutti i suoi non intellettualistici film, finché l’apice del tragico, che lo segnerà per sempre, è toccato il 1 agosto 2003 con la morte della sua amata figlia Marie , attrice, uccisa dal compagno cantante di un gruppo, i Noir Desir di Bernard Cantat, allora sulla cresta dell’onda: «Sono quindici anni che sono morto» dirà già divorato dalla malattia ma ancora con la forza di recitare sul palcoscenico una sera i versi di Apollinaire, colui che con Shakespeare l’ha salvato.
Trintignant e la tragica morte della figlia Marie, uccisa dal cantante dei Noir-Desir. Barbara Visentin su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.
La vita del grande attore francese fu segnata irreversibilmente da questo delitto.
Una vita lunga e costellata di successi nel cinema e nel teatro, quella di Jean-Louis Trintignant , attore francese che si è spento oggi all’età di 91 anni. Morto «serenamente, di vecchiaia, questa mattina, nella sua casa, nel Gard, circondato dai suoi cari», ha fatto sapere la moglie Mariane Hoepfner alla stampa francese, Trintignant, accanto alle soddisfazioni di carriera, aveva dovuto affrontare però diverse tragedie nel privato. La più scioccante fu la perdita della figlia Marie , anche lei attrice, uccisa nel 2003 dal compagno Bertrand Cantat, cantante del gruppo francese Noir Désir.
Una vicenda che, oltre a segnare Trintignant per sempre («sono 15 anni che sono morto», dirà anni dopo in merito) suscitò grande scalpore sia per la dinamica dei fatti sia per la notorietà dei due. In quegli anni i Noir Désir erano all’apice della popolarità: «Le vent nous portera», singolo del 2002, li aveva fatti conoscere ampiamente anche in Italia, raggiungendo la vetta delle nostre classifiche. Pochi mesi dopo, il delitto (e, di fatto, la fine della band, anche se ci furono dei tentativi di ritorno): Cantat, all’epoca 36enne, la notte fra il 26 e il 27 luglio 2003 in preda agli effetti di droga e alcol colpisce selvaggiamente Trintignant, 40enne, durante una lite mentre si trovavano a Vilnius, in Lituania.
I colpi in viso la mandano in coma, ma lui, anziché chiamare i soccorsi, la lascia priva di sensi sul divano per un’intera notte. Quando viene portata all’ospedale la donna è in coma profondo. Viene operata più volte, ma muore il 1 agosto, mentre Cantat, che nel frattempo tenta di suicidarsi, viene condannato per omicidio, otto anni secondo la giustizia lituana. In prigione resta meno, tra le polemiche di chi valuta irrisoria una pena del genere per un femminicidio, a partire dalla madre dell’attrice : nel 2007 Cantat ottiene la libertà condizionale per buona condotta, nel 2011 è completamente libero.
Trintignant e la tragica fine della timidezza. Emanuele Trevi su Il Corriere della Sera il 17 Giugno 2022.
L’attore scomparso ieri era famosissimo per «Il sorpasso», nel quale interpretava uno studente riservato trascinato da uno straripante Vittorio Gassman in un’avventura mortale che è anche una fulminea iniziazione alla vita.
Aveva trentadue anni Jean-Louis Trintignant nel 1962, quando Dino Risi girò Il sorpasso, affiancandolo a Vittorio Gassman, più anziano (di otto anni) sia all’anagrafe che nella storia raccontata. La leggenda (poi confermata dallo stesso Risi) vuole che il sorprendente criterio, nella scelta dell’antagonista/vittima dell’esuberante Bruno Cortona, il personaggio di Gassman, sia stato quello della somiglianza dell’attore francese alla controfigura. Serviva, insomma, un biondino di bassa statura. Ma poi, quando Risi incontrò l’attore francese, mai visto prima, capì subito che era perfetto per la parte di Roberto Mariani, studente di legge timido e ritroso, trascinato in un’avventura mortale che è anche una fulminea iniziazione alla vita.
Parliamo di un grande film, quella che si definisce una pietra miliare nella storia del cinema, ma Il sorpasso è soprattutto una favola, illuminante e spietata come tutte le vere favole. Ogni volta che lo rivedo, ci riconosco immediatamente un grande archetipo italiano, ovvero il rapporto tra Pinocchio e Lucignolo. E nella via Aurelia, così avventurosa e ricca di promesse, mi è facile riconoscere una incantevole (e pericolosa) versione estiva e tirrenica del Paese dei Balocchi. Così come Pinocchio, al momento di incontrare Lucignolo, è tutto preso dai suoi buoni propositi scolastici, Roberto prepara gli esami di Giurisprudenza. Senza nulla togliere all’immenso Gassman, bisognerà anche ammettere che la parte di Roberto era molto più difficile di quella del loquace Bruno: il fatto è che è quello di Trintignant il carattere che muta nel corso della storia. Non è una mutazione eclatante: come tutti i timidi, Roberto si apre all’avventura come un fiore che sboccia, ma nello stesso tempo rimane quello che era all’inizio: realizzando uno di quei miracolosi equilibri di forze contrarie che sono come il marchio di fabbrica dei grandissimi attori.
Articolo di Leonardo Martinelli per “la Stampa” pubblicato da Dagospia il 20.12.2018
(…)
È il Ferragosto del 1962. E nel film «Il sorpasso» lei, Roberto, universitario fuori sede, incontra a Roma quel turbine di Bruno (Vittorio Gassman). Quanto c' era di Roberto in Jean-Louis?
«Molto. Io avevo 32 anni, ma sembravo più giovane. Timido lo sono ancora. E provinciale: vivo in Provenza a pochi chilometri da dove sono nato».
È stato corridore automobilistico, può giudicare. Come guidava Gassman?
«Al volante era terribile. Ma era così simpatico. Nella vita reale rifletteva un po' il suo personaggio e al tempo stesso era raffinato e colto. Entrambi recitavamo Amleto nei rispettivi Paesi, in maniera molto diversa. Discutevamo tanto di Shakespeare».
Le riprese di quel film rappresentarono per lei un' estate in Italia
«C' era sempre il sole ma per l' incidente Dino Risi voleva un cielo nuvoloso. Dovemmo aspettare. Il film era in bianco e nero ma lui aveva ragione: nella scena si sente qualcosa di tragico nell' aria».
Nel 1970 uscì un altro dei suoi film italiani, «Il conformista» di Bertolucci
«Il primo giorno delle riprese morì Pauline, mia figlia. Ero in un albergo a Roma, con lei e sua madre. Mi svegliai e vidi che la piccola, di pochi mesi, non respirava. I romani ogni tanto hanno quel guizzo da canaglie, ma lì furono formidabili.
Scesi per strada, un automobilista si fermò. Mise un fazzoletto al finestrino e iniziò a correre verso l' ospedale. Saliva sui marciapiedi: tutti lo lasciavano passare. Per Pauline non ci fu niente da fare. I romani non mi sembravano così disponibili, in quella tragedia scoprii la loro umanità».
Continuò a recitare?
«Credo di essere stato particolarmente sensibile in quel film a causa di quello che avevo vissuto. Un giorno Bertolucci girò una scena e mi trovò molto bravo. "A cosa pensavi?", mi chiese. Ovviamente pensavo a mia figlia. Ma io gli risposi: «Agli pneumatici della mia macchina». Lui dopo diceva: «Che fortuna ha quest' uomo, ha gli pneumatici in testa e recita così».
Doveva farlo lei il ruolo di Marlon Brando in «Ultimo tango a Parigi», è vero?
«Sì, avevo anche collaborato con Bertolucci alla sceneggiatura. Ma mia figlia Marie, che allora aveva otto anni, dette una sbirciata al copione e si rese conto della situazione. Mi chiese: cosa diranno le mie amiche a scuola? Rinunciai. E non ho rimpianti: Brando è stato bravissimo».
Da poco ha finito di girare un nuovo film, in realtà una vecchia conoscenza
«Sì, il sequel di Un uomo, una donna , con Claude Lelouch. Io e Anouk Aimée ormai siamo due vecchi! Siamo rimasti amici in tutti questi anni. Ho conosciuto Monica Bellucci, che recita nel film, una donna dal grande fascino».
Veniamo al suo spettacolo in teatro. L' amore per la poesia è nato in tarda età?
«No, fin dagli Anni 40. Jacques Prévert è stato il primo poeta che ho amato. Lo amo oggi ancora più di allora».
Lei com' è stato con le donne?
«All' epoca un po' gigione, anche egoista. Ero carino, ne approfittavo».
Nel 1956 sul set di «Et Dieu créa la femme» nacque una passione con Brigitte Bardot, in quel film girato dal marito di lei, Roger Vadim
«Quando le donne sono belle, si dice che sono stupide. Ma Brigitte era molto intelligente. Un giornalista una volta le chiese: "Fuma dopo aver fatto l' amore?" Lei rispose: "Non lo so, non mi sono mai guardata". Era troppo forte».
Nel suo spettacolo prevalgono la guerra e la morte
«Recito, tra le altre, Il disertore di Boris Vian. Io una guerra l' ho combattuta, terribile, in Algeria, durante il mio servizio militare. Per la morte, penso a mia figlia Marie, vittima di una fine violenta. Tanti mi dicono: ma è successo quindici anni fa, dovresti pensare ad altro. Non ci riesco».
Lei ha paura della morte?
«Prima dicevo che non me ne importava nulla. Ma adesso che è vicina, la temo, eccome, perché è incomprensibile. Nessuno è mai ritornato indietro. Nessuno ci ha detto se dopo è bello oppure no».
Indimenticabile nel "Sorpasso", è morto l'attore francese Jean-Louis Trintignant. Francesco Curridori il 17 Giugno 2022 su Il Giornale.
L'attore francese Jean-Louis Trintignant è morto oggi a 91 anni dopo aver combattuto a lungo contro il tumore.
Jean-Louis Trintignant ha perso la sua battaglia contro il cancro. Uno dei più importanti attori francesi del dopoguerra è morto oggi all’età di 91 anni.
L'infanzia e gli esordi di Trintignant
Protagonista di film di successo come Il sorpasso, Un uomo, una donna e Il conformista, Trintignant nasce nel 1930 a Piolenc, in Provenza in una famiglia benestante. Il padre era un ricco industriale che fu anche sindaco socialista del suo paese natìo mentre la madre era una donna borghese che, desiderando una figlia, lo vestiva sempre con abiti femminili. Lo zio, invece, era un noto pilota di Formula Uno che per ben due volte aveva vinto il Gran Premio di Monaco e la 24 ore di Le Mans. Dopo aver abbandonato l’università, si trasferisce a Parigi per studiare teatro ma è col cinema che, a metà anni ’50, la sua carriera decolla. Il regista Roger Vadim lo vuole nel film E Dio creò la donna, come protagonista accanto a Brigitte Bardot e subito tra i due attori nasce una storia d’amore. Nella biografia scritta dal giornalista e amico, André Asséo, Trintignant racconta di aver inghiottito ben quaranta bianchi d' uovo per evitare di partire in guerra e separarsi così dal suo amore Bibì. Tutto inutile. Trintignant, nel 1956, è costretto a interrompere momentaneamente la sua carriera cinematografica per servire il suo Paese come militare nella guerra d’Algeria.
Il successo arriva con il film-capolavoro Un uomo, una donna
Al suo ritorno Trintignant riprende subito a recitare: nel ’59 è protagonista del film di Valerio Zurlini, Estate violenta, mentre l’anno successivo si sposa con la regista Nadine Marquand che gli darà tre figli (Marie, Pauline e Vincent) e resterà sua moglie per 16 anni. La loro non sarà un’unione solo sentimentale ma anche artistica dato che Nadine lo vorrà in alcuni dei suoi film quali, per esempio, Mon amour, mon amour e Il ladro di crimini. La celebrità per Trintignant, soprattutto in Italia, arriva nel ’62 quando recita accanto a Vittorio Gassmann nel film-capolavoro di Dino Risi, Il sorpasso. Nel 1963 recita di nuovo per il regista Roger Vadim nella commedia Il castello in Svezia che vede Monica Vitti nel ruolo della protagonista femminile, mentre nel 1965 partecipa al film a episodi Io uccido, tu uccidi, diretto da Gianni Puccini. La vera consacrazione a livello internazionale, invece, arriva l’anno successivo con il capolavoro di Claude Lelouch Un uomo, una donna, pellicola che ottiene due Premi Oscar (tra cui quello di miglior film straniero), due Golden Globe, un premio Bafta, la Palma d’Oro a Cannes e un Nastro d’argento.
I film degli anni '60-'80
Dalla fine degli anni ’60 lavora per i più importanti registi italiani dell’epoca in pellicole quali Il grande silenzio di Sergio Corbucci, La matriarca di Pasquale Festa Campanile, Metti, una sera a cena di Giuseppe Patroni Griffi e Il conformista di Bernardo Bertolucci. Nel 1969 vince il premio come miglior attore al Festival di Cannes per la sua interpretazione nel film Z - L'orgia del potere, diretto da Costa-Gavras. A metà anni ’70 recita in altri due film di grande successo La donna della domenica (1975) di Luigi Comencini e Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini (1976), mentre La terrazza (1980) di Ettore Scola non ottiene i risultati sperati, nonostante il cast comprenda anche attori del calibro di Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi. Nel 1983 Trintignant è il protagonista dell'ultima pellicola di François Truffaut, Finalmente domenica! e, sempre nello stesso anno, compare nel film Sotto tiro di Roger Spottiswode, recitando con Nick Nolte, Ed Harris, Gene Hackman e Joanna Cassidy. Col passare degli anni, dirada sempre di più la sua attività cinematografica ma nel 1994 ottiene una nomination come miglior attore ai Premi César per la sua interpretazione nella pellicola di Krzysztof Kieślowski, Tre colori - Film rosso.
La morte della figlia Marie
Nel 2003 la sua vita viene sconvolta dalla morte della figlia Marie, uccisa dal suo compagno, il cantante Bertrand Cantat, leader del gruppo Noir Désir. Una tragedia che fa cadere Trintignant in una depressione profonda:“Mi era impossibile immaginare un giorno senza sentire la sua voce, senza vedere il suo sorriso. Niente al mondo avrebbe potuto farmi più male. Per due mesi sono stato come morto. Un morto vivente, incapace del minimo movimento. Due mesi senza praticamente aprire la bocca, senza emettere il minimo giudizio. La vita mi passava attorno senza che me ne accorgessi”, racconterà nella biografia scritta da André Asséo a cui rivela che a salvarlo è stata la poesia. Trintignant torna al cinema solo nel 2012 con il film drammatico Amour, diretto da Michael Haneke. Alla fine del libro, rivela: “Ho detto alla produttrice: non posso fare questo film. Non ho lo spirito giusto, penso piuttosto a suicidarmi. Faccia il film, mi ha risposto, e dopo si suiciderà”. In realtà Trintignant non si toglierà la vita ma, anzi, nel 2017, reciterà ancora per Haneke nella pellicola Happy End.
Quell'attore molto timido che ha sorpassato tutti...Stenio Solinas il 18 Giugno 2022 su Il Giornale.
Settant'anni di carriera in punta di piedi: dal film di Risi con Gassman alla delicatezza di "Happy End".
È difficile dire che cosa avesse Jean-Louis Trintignant, spentosi ieri di vecchiaia a 91 anni, di più rispetto ai «leoni» francesi della sua generazione, i Belmondo, i Delon, i Ronet, tanto per intenderci e con tre nomi indicare il tutto di un panorama attoriale emerso alla fine degli anni Cinquanta. Aveva Trintignant una bellezza meno sicura e più delicata, una minore fisicità, una timidezza di fondo che non riusciva mai a trasformarsi in sfrontatezza, esibita o reale che fosse Eppure bucava lo schermo Trintignant, semplicemente. Il ragazzo che tutti vorrebbero avere come amico, perché fragile e in fondo da proteggere, il compagno che ogni donna sogna di avere, perché dolce, comprensivo, troppo facilmente feribile per approfittarsene Era questa miscela, come dire, di buoni sentimenti, di capacità di soffrire in proprio che lo faceva unico, che lo faceva amare.
Era nato nel 1930 a Piolenc, piccolo centro del Sud della Francia vicino ad Avignone, e aveva esordito nel film di Roger Vadim Et Dieu créa la femme, del 1956, nel quale era esploso l'estro incantato e pagano di Brigitte Bardot. Vadim ne era allora anche il marito, e Christian Marquand il ragazzo più grande per età e più sicuro di sé di cui BB nel film si incapricciava, ma era Trintignant nella parte del suo timido spasimante e alla sua prima apparizione cinematografica, a rubare da terzo incomodo la scena al rivale in amore, nonché, nella vita, a sostituire il legittimo consorte, nonostante la sua fama di playboy
Tre anni dopo, in Un'estate violenta, era stata la volta del figlio di un gerarca fascista che si innamorava di una donna più grande di lui, vedova di un eroe di guerra, madre di una bambina, in quel 1943 così drammatico, e anche qui c'era la passione febbrile di uno che con la realtà non avrebbe mai voluto fare i conti, ma che proprio la realtà metteva di fronte alle sue debolezze e alle sue responsabilità
È questo aspetto di eterno, spaesato sognatore, a disagio e un po' ai ferri corti con la vita, che lo rendeva unico. Nel Sorpasso, uscito nel 1962, teneva magistralmente testa a un Vittorio Gassman al meglio della sua esuberanza menefreghista e un po' da canaglia, e lo faceva con quei sorrisi accennati, l'ombrosità di chi si sente insicuro e che quando per la prima volta si decide finalmente ad affrontare la vita, vede il destino presentargli subito e atrocemente il conto.
Chi non ha conosciuto quella cinematografia europea che almeno sino agli anni Settanta fu uno dei veri motivi del perché si amasse il cinema non sa che cosa ha perduto. Trintignant era in grado di passare da un mélo toccato dalla grazia, qual è Un uomo, una donna, di Claude Lelouch, un pilota di rally con il mal d'amore, a Z L'orgia del potere, dove era il giudice che non si rassegna alla violenza omicida delle ideologie, a La mia notte con Maud, di Eric Rohmer, uno di quei contes philosophiques in cui la morale, meglio il moralismo, e insieme il cinismo andavano a braccetto. E, naturalmente, da Il conformista a Flic Story, c'era anche spazio per un altro tipo di fascino, che sapeva essere sfuggente e gelido, assetato di falsa normalità come di lucida determinazione.
Dotato di una voce calda, che ne faceva l'interprete ideale di ogni recita poetica, Trintignant ha avuto una vita lunga, felice e insieme tragica, con una figlia morta che era ancor neonata, un'altra massacrata di botte e uccisa dal suo compagno, Bertrand Cantat, cantante del gruppo Noir desir, in un litigio scatenato dalla gelosia.
Una delle sue ultima apparizioni - prima del ritiro dalle scene nel 2018, annunciando di avere un tumore - era stata in Happy End di Michael Haneke, presentato a Cannes, nel 2017, un film dove interpretava un vecchio patriarca pieno di sussulti e di rimorsi, di improvvisi vuoti di memoria e di repentini salti di umore. La voce, lo sguardo, le rughe, l'incertezza fisica e psicologica, l'apparente smarrirsi e il cupo quanto improvviso ritrovarsi, disegnavano un formidabile ritratto di senilità quale fino ad allora non si era mai visto. Era, se si vuole, un modo di dire addio al giovane incantato che mezzo secolo prima ci aveva guardato dallo schermo con l'impacciato sorriso di chi non sa che cosa gli riserverà la vita e si illude che sarà soltanto una festa.
Marco Giusti per Dagospia il 18 giugno 2022.
In "Amour" di Michael Haneke, Jean-Louis Trintignant, che tornava al cinema dopo un'assenza di anni e anni di sofferenza per la morte così tragica dell'adorata figlia Marie, riusciva a chiudere assieme all'Emmanuele Riva di "Hiroshima mon amour" tutto un percorso sentimentale del grande cinema europeo iniziato alla fine degli anni 50. Come se nella fine di quella coppia si raccontasse anche la fine di tutto un cinema europeo più o meno nouvellevaguistico che aveva interamente attraversato dal dopoguerra a oggi. Con il successivo e meno fortunato "Happy End", sempre di Haneke, la morte dell'ultimo gran borghese di Calais, che sprofonda volutamente in mare con la carrozzella segna anche la morte di tutta la borghesia europea incapace di affrontare problemi come l'immigrazione e la pace civile. Il disastro di quella borghesia, la nostra, adesso fra pandemia guerra e non mutata immigrazione è chiara a tutti.
Ma c'è un piccolo filo rosso che unisce l"happy ending del film di Haneke, cioè la morte del vecchio Trintignant borghese all'happy ending e alla morte di un giovane Trintignant al termine del celebre "Il sorpasso" di Dino Risi, il film che meglio di qualsiasi altra opera più cerebrale del tempo riuscì a cogliere la corsa verso il vuoto dei tanti Bruno Cortona italiani e europei degli anni 60. Una commedia con finale tragico, dove il delicato, elegante, sottile, timido Trintignant è massacrato dall'esuberante, virile Vittorio Gassman, ma con la morte finale, come già intuiva Sordi, che scappò per questo dal film, capovolge la situazione per sempre.
Ah, nessuno come Trintignant riusciva a dare peso a opere leggere e leggerezza a opere pesanti, drammatiche, melo, noir. Poteva passare dall'ambiguo protagonista de "Il conformista" di Bernardo Bertolucci, un personaggio e un film che segneranno fortemente tutto il cinema successivo, soprattutto quello fatto in America da Coppola e Scorsese, a quello del thriller erotico di Umberto Lenzi, dal pistolero muto di "Il grande silenzio" di Sergio Corbucci, che finisce trivellato di colpi da Klaus Kinski contro ogni regola dello spaghetti western, all'eroe del superpolitico "Z l'orgia del potere" di Costa Gavras, dove venne premiato come miglior attore a Cannes.
Ma fu anche un film per nulla amato dai giovani critici più scatenati del tempo che invece amavano il Trintignant sperimentale di film assurdi come "La morte ha fatto l'uovo" di Giulio Questi o di "Col cuore in gola" di Tinto Brass Capace di incarnare l'eroe dei film di Claude Lelouch, non avete memoria del successo che ebbe "Un uomo una donna" dove faceva coppia con Anouk Aimee, come quello dei film erotici sperimentali di Alain Robbe Grillet, da "Trans Europ Express" a "Spostamenti progressivi del piacere", che oggi sarebbero impossibili da presentare tra le sicure e anche giuste proteste delle femministe, Trintignant è una delle prime e più importanti star tra Francia e Italia a cavallo degli anni 50 e 60. Sposato con Stephane Audran, che sarà la moglie e la musa di Claude Chabrol, poi partner e compagno di Brigitte Bardot, con lei reciterà in "Piace a tutti" di Roger Vadim, tocca la Nouvelle Vague solo marginalmente. Un episodio di Jacques Demy, un film con Jacques Doniol Valcroze, uno con Georges Franju, mai un Godard un Truffaut. Ha un buon ruolo però in "Mata Hari" di Jean-Louis Richard con Jeanne Moreau.
Diviso tra grandi film popolari, è partner di Michele Mercier nel feulletton "Angelica alla corte del re" si permette stravaganze come il peplum "Antinea" di Edgar Ulmer, sarà protagonista del mai completato "L'enfer" di Henri Georges Clouzot. Ma è troppo legato a Vadim, a Costa Gavras, a Lelouch per poter diventare un protagonista della Nouvelle Vague, anche se Claude Chabrol lo chiama per "Les biches" con l'ex moglie Stephane Audran e Jacqueline Sassard e Eric Rohmer per "La mia notte con Maud", ma siamo già nel 1968. La Nouvelle Vague storica è finita. E Trintignant è una star sia in Francia che in Italia, dove lo vediamo in film importanti come "Metti una sera a cena" di Patroni Griffi o "La matriarca" di Pasquale Festa Campanile. Dove è amico di Valerio Zurlini e di Marcello Mastroianni.
Sarà la sua recitazione perfetta, distaccata, fredda, modernissima a fare del personaggio moraviano de "Il conformista" una sorta di eroe-infame da antologia, di mostro costruito dalla borghesia europea che porta dentro di sé le mille contraddizioni di una gioventù che non è stata in grado di opporsi, di trovare una propria strada. Che ha visto la violenza, senza intervenire, dietro il vetro di una macchina. Dovrà essere Trintignant anche il protagonista del film successivo che Bertolucci vuole fare mischiando la figura e le idee del suo geniale montatore, Kim Arcalli, e la lettura dei testi di Bataille.
Ma "Ultimo tango a Parigi", che si doveva chiamare in un primo tempo bataillianamente "La petite morte" diventa qualcosa di più grande quando il produttore Alberto Grimaldi fa entrare da protagonista Marlon Brando, in fuga dal set di "Queimada". Per Bertolucci sarà il successo di pubblico e la consacrazione internazionale, anche se perderà il rispetto dei registi come Glauber Rocha più legati ai moralismi anti-hollywoodiani delle nouvelle Vague europee. Per Trintignant, che dirà negli anni di aver rifiutato il film perché troppo spinto, sarà però un colpo inaspettato. E non girerà più nulla con Bertolucci. Ne' girerà un film americani, con la sola eccezione di "Sotto tiro" di Roger Spottiswoode e un'apparizione assieme a Anouk Aimee in"Hustle" di Robert Aldrich. Del resto con quel personaggio lelouchiano, Jean-Louis Ricard chiudera' per sempre la sua carriera. Anche se i suoi due film preferiti saranno "Il conformista" e "Amour".
Jean-Louis Trintignant, la verità: "Una vita di lutti atroci". Cosa lo ha ucciso. Giorgio Carbone su Libero Quotidiano il 17 giugno 2022.
Jean-Louis Trintignant non c'è più. E tutti lo ricordano quando in Un uomo una donna correva più veloce del treno per rivedersi un'ultima volta con Anouk Aimee. O quando ne Il sorpasso pagava a caro prezzo le rodomontate del compagno di viaggio Vittorio Gassman precipitando colla fuoriserie da una scogliera. Ma la vita dell'attore francese (un monumento nel suo paese) è stata molto più atroce e drammatica delle vicende di ogni suo film. Trintignant ha poco più di 30 anni quando gli muore improvvisamente, tragicamente il figlio di nove. Una tragedia che lui cerca di esorcizzare col lavoro (Un uomo una donna arriva, provvidenzialmente, poco tempo dopo). E che la moglie Nadine (le donne sono sempre quelle che soffrono di più) cerca di elaborare dirigendo un film, Tempo d'amore.
I Trintignant sono interpretati da un'altra celebre coppia, Marcello Mastroianni e Catherine Deneuve, ma è il titolo originale a dar l'idea dello strazio: Ça n'arrive pas qu'aux autres ("Certe cose succedono solo agli altri). No, questa cosa era successa solo ai Trintignant, e questa tragedia era di quelle che bastano a segnare una vita. E invece la vita aveva riservato un altro tremendo agguato al grande Jean-Louis. E quando nessuno se l'aspettava.
A inizio secolo, Trintignant partecipa a una trasmissione in Italia (credo il Maurizio Costanzo Show). L'attore si presenta colla bellissima figlia Marie e insieme recitano delle poesie di Apollinaire. Incantano. E non solo perché le recitano da Dio. Incantano perché danno lo splendido, commovente ritratto di una famiglia che è riuscita a risorgere, a ritrovare amore e bellezza. Poco tempo dopo, nel 2003 Marie Trintignant è uccisa selvaggiamente a botte dall'amante, il rocker Bertrand Cantat leader dei Noir Desir: Jean-Louis ormai ha 70 anni. Sembra finita anche per lui. Non può la tempra di un uomo reggere a queste mazzate. E' ancora il lavoro a salvarlo. Due lustri dopo vince il primo premio a Cannes. Sembra davvero immortale. Ma quando è stato un cancro ad aggredirlo lui ha deciso di non lottare più.
L'attore francese aveva 91 anni. È morto Jean-Louis Trintignant, icona del cinema e protagonista dell’indimenticabile “Il Sorpasso”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2022.
Per gli italiani era e resterà soprattutto il mitico protagonista del viaggio di ferragosto al fianco del vulcanico e istrionico Bruno Cortona in Il Sorpasso. L’attore Jean-Louis Trintignant aveva 91 anni, è morto “serenamente, di vecchiaia, questa mattina nella sua casa nel Gard, circondato dai suoi cari”. La notizia è stata data dai media francesi, comunicata dalla moglie Mariane Hoepfner Trintignant in una nota stampa.
Era timido, timidissimo, e fu grazie al teatro se riuscì a superare questo scoglio nel suo carattere. È finito nella storia del cinema: è diventato un simbolo del cinema francese. Era nato nel piccolo comune francese di Piolenc in Provenza l’11 dicembre 1930. Figlio e nipote di una famiglia di piloti da corsa di simpatie socialiste. La sua infanzia fu segnata dai frequenti litigi dei genitori: la madre, figlia della piccola borghesia, era andata in sposa per un matrimonio combinato ed ebbe una storia d’amore con un soldato tedesco. Spesso vestiva il figlio da femmina perché desiderava una figlia.
La donna lo aveva spronato a recitare fin da quando era piccolo. Trintignant studiò legge e si trasferì a Parigi dove cominciò con i primi ruoli a teatro. Si impose sul grande schermo nel 1955 al fianco di Brigitte Bardot in E Dio creò la donna di Roger Vadim. Con la diva del cinema francese ebbe anche una breve relazione. Ha interpretato film come Un uomo e una donna di Claude Lelouch, Z – L’orgia del potere di Costa Gavras, Il conformista di Bernardo Bertolucci, La donna della domenica di Luigi Comencini, Il deserto dei tartari di Valerio Zurlini. Per Z ha vinto anche il premio come miglior attore al Festival di Cannes, quello al Cesar per Amour che vinse pure la Palma d’Oro.
Per sempre legato all’Italia, recitò nel capolavoro di Dino Risi Il sorpasso, del 1962, al fianco di un insuperabile Vittorio Gassman. “A Robé, che te frega delle tristezze. Lo sai qual è l’età più bella? Te lo dico io qual è. È quella che uno c’ha giorno per giorno. Fino a quando schiatta … si capisce”, consigliava Bruno Tortona la mattina di Ferragosto allo studente di legge Roberto Mariano interpretato da Trintignant. Per anni recitò le poesie di Jacques Prevert.
La sua ultima apparizione sul grande schermo risale al 2019 con Gli anni più belli di una vita in cui aveva ritrovato la compagna artistica Anouk Aimé e il regista Claude Lelouch. L’anno prima aveva comunicato il suo addio alle scene. Aveva raccontato di avere un tumore. “Nei primi giorni ho deciso di combattere ma poi sono diventato un po’ pigro, mi faccio accudire e aspetto. Non mi sento più sicuro, ho sempre bisogno di qualcuno che mi sorregga e soprattutto mi sento vecchio e inutile”, aveva confidato con nonchalance.
La sua carriera è durata più di 70 anni, ha recitato in oltre 120 ruoli. La sua vita fu segnata indelebilmente dalla tragedia della figlia Marie, nel 2003 uccisa dal compagno, il cantante Bertrand Cantat. Un delitto che scosse la società francese e che portò al centro dell’attenzione la violenza sulle donne. A riuscire a riportarlo sul set e sullo schermo, dopo quella terribile tragedia e anni di silenzio, fu Michael Haneke. Il suo funerale si svolgerà in forma privata.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
L’esordio al fianco di Brigitte Bardot, la passione per le corse. Jean-Louis Trintignant, l’indimenticabile divo del “Sorpasso” ha segnato la storia del cinema con la sua eleganza. David Romoli su Il Riformista il 18 Giugno 2022.
È difficile realizzare quale immenso attore e divo sia stato nella sua lunga e a tratti molto dolorosa vita Jean-Louis Trintignant, morto ieri a 91 anni dopo una battaglia contro il cancro che aveva scelto di non combattere. La sua immagine faceva a pugni con quella scintillante e fragorosa dei grandi attori della sua generazione: imponeva un carisma schivo, silenzioso, quasi dimesso. Bisogna rivisitare la lista impressionante dei film che lo hanno visto protagonista sia in Francia che in Italia, ma era altrettanto assiduo in teatro, per accorgersi di quanto dominante sia stato nel cinema europeo della seconda metà del Novecento e oltre.
Cinque anni fa, nel 2017 aveva annunciato lui stesso la malattia che lo ha ucciso ieri. Pochi mesi dopo era tornato sull’argomento: “Dopo i primi giorni sono diventato un po’ pigro: mi faccio accudire e aspetto”. Di fronte alla macchina da presa però ci era tornato nel 2019, per girare l’ultimo film di Claude Lelouch, I migliori anni della nostra vita con Anouk Aimée nel terzo capitolo della serie iniziata nel 1966 con Un uomo, una donna, probabilmente il film della sua vita, quello che fece il pieno di premi, dall’oscar alla Palma d’oro e che raccontò come pochi altri la sua generazione. Interpretava un campione d’automobilismo e non dovette faticare molto per entrare nella parte. Piloti erano stati davvero due suoi zii, uno ci aveva rimesso la pelle sulla pista quando il futuro attore aveva solo tre anni ma l’altro era diventato un campione di Formula uno e del resto anche lui era un appassionato di corse e negli anni ‘70 finì anche per gareggiare nei rally, specialmente a Monte Carlo. Tra una corsa e l’altra incontrò anche la terza e ultima moglie, Marianne Hoepfner, una pilota celebre.
Trintignant è stato interprete di moltissimi grandi registi francese, da Lelouch a Truffaut, da Erich Rohmer, con il quale aveva girato il bellissimo La mia notte con Maud a Roger Vadim che lo aveva scoperto nel 1956 imponendolo in coppia con un’altra ragazza destinata a grandi cose, Brigitte Bardot, in Et Dieu… crea la femme, un film che fece scandalo, intitolato in Italia, secondo il discutibile gusto dell’epoca, Piace a troppi. Ma con l’Italia Trintignant ha sempre avuto un rapporto particolare. Al cinema italiano ha dato molto e dal cinema italiano ha anche ricevuto molto. Ha recitato con Scola nella Terrazza, con Comencini nella Donna della domenica, con Bertolucci nel Conformista, con Amelio in Colpire al cuore. Era un grande attore internazionale e una stella del cinema e forse ancor di più del teatro francesi. Ma i grandi ruoli della sua carriera li ha interpretati in Italia, a partire dal film della resurrezione, nel 1962, Il sorpasso, a fianco di un Gassman supersonico. All’esplosività incontenibile del mattatore Gassman, l’attore francese, nella parte dello studente secchione travolto dalla vitalità cialtrona del partner, contrappose il suo stile più schivo che sobrio, volutamente timido. Il contrappunto rese il film di Risi forse il massimo capolavoro della commedia all’italiana.
In quel momento la carriera di Trintignant stentava a riprendere il volo dopo l’interruzione dovuta al servizio militare. Era figlio di un industriale partigiano durante l’occupazione tedesca e di un’ereditiera accusata di collaborazionismo per la relazione con un soldato tedesco negli stessi anni. La conseguente tensione in famiglia lo avrebbe segnato per sempre. Grande ammiratore di Prévert, scoperto da adolescente e mai dimenticato, tanto che per tutta la vita ha continuato a recitare sul palcoscenico le sue poesie, all’inizio degli anni 50 Jean-Louis sognava di diventare attore di teatro e regista al cinema, e due film li ha poi diretti davvero. I primi ruoli arrivarono prestissimo e il successo mondiale con Vadim seguì a stretto giro. Poi però la leva lo aveva catapultato nel cono d’ombra. Era riuscito, fingendosi malato, a evitare l’Algeria, ma tornare al successo, dopo la naja, sembrava impossibile, nonostante l’aiuto del solito Vadim. Fu il film di Risi a rilanciarlo una volta per tutte e per sempre.
Se c’è un’altra interpretazione degna di figurare con Il Sorpasso e Un uomo, una donna come emblema della sua carriera è Z-L’orgia del potere, del greco Costa Gavras, il film sulla Grecia del golpe negli anni 60 che fu uno dei titoli di culto per la generazione del ‘68. Anche in quel caso Trintignant puntò, con pieno successo, sull’understatement, su una recitazione che s’imponeva partendo quasi dall’ombra. Per l’attore che si definiva “anarco-comunista” non era una parte come tante, era un modo per dare il suo contributo alla lotta contro fascismo e dittature. Diede il meglio. Vinse il premio per il miglior attore a Cannes. Spopolò al botteghino. Si vide offrire un ruolo dopo l’altro. Molti ne accettò, qualcuno no: come la parte del protagonista di Ultimo tango a Parigi, poi andata a Marlon Brando.
Trintignant ha avuto molte relazioni, da Brigitte Bardot a Romy Schneider, tre matrimoni e due grandi amori: la moglie Nadine Marquand, attrice e regista, rimastagli vicina sino all’ultimo anche se erano divorziati dal 1980, e la figlia Marie, attrice anche lei, uccisa nel 2003 dal suo compagno. Trintignant, che aveva già diradato le sue apparizioni nel decennio precedente, quasi abbandonò lo schermo. Fece comunque in tempo a interpretare l’ultimo dei suoi grandi film, Amour, di Michael Haneke, premiato con la palma d’oro e cinque oscar. Se ne è andato ieri secondo il suo stile: con una discrezione e grandissima classe. David Romoli
Addio a Jean-Louis Trintignant, l'indimenticabile attore di "Il sorpasso". Il Quotidiano del Sud il 17 giugno 2022. E’ morto a 91 anni l’attore francese Jean-Louis Trintignant. Lo ha reso noto la moglie Mariane Hoepfner Trintignant, attraverso un comunicato diffuso dall’agente.
Figura chiave del cinema e del teatro francese, Jean-Louis Trintignant si è spirato “serenamente, di vecchiaia, questa mattina, nella sua casa, nel Gard, circondato dai suoi cari”, ha precisato la moglie.
Protagonista di oltre 120 film nel corso di una carriera settantennale, ha lavorato con alcuni dei registi più importanti della storia. Si era ufficialmente ritirato dalle scene nel 2018, annunciando quasi con nonchalance di dover combattere contro un tumore che gli succhiava le forze. “Nei primi giorni ho deciso di combattere – ha raccontato – ma poi sono diventato un po’ pigro, mi faccio accudire e aspetto. Non mi sento più sicuro, ho sempre bisogno di qualcuno che mi sorregga e soprattutto mi sento vecchio e inutile”. A maggio 2019 però era tornato al festival di Cannes per “I migliori anni della nostra vita”, diretto dallo stesso regista, Claude Lelouch, con cui nel 1966 vinse la Palma d’Oro con “Un uomo, una donna”, in coppia con Anouk Aimée.
Ma quando si parla di Trintignant non si può non pensare alle scene de “Il sorpasso” di Dino Risi, mentre con Vittorio Gassman scorrazzano per una Roma deserta. Nato nel sud della Francia, Trintignant è figlio di un industriale ma non segue le orme del padre. Abbandona gli studi di legge e si trasferisce a Parigi per studiare recitazione. L’esordio al cinema avviene grazie a Roger Vadim, suo mentore, che nel 1955 lo vuole in “E Dio creò la donna” al fianco di Brigitte Bardot. Di lì a poco i giornali riportano la notizia della presunta relazione che legherebbe i due attori. Tanta è l’insistenza della stampa, che per sottrarsi al gossip si arruola nell’esercito per la guerra di Algeria.
Tornato, nel 1962 recita con Vittorio Gassman nel capolavoro di Dino Risi “Il sorpasso” e qualche anno dopo, nel 1966, ottiene la fama internazionale con “Un uomo, una donna” di Claude Lelouch, che colleziona 42 premi internazionali, tra cui la Palma d’oro a Cannes, gli Oscar come miglior film straniero e miglior sceneggiatura originale e il Golden Globe ad Anouk Aime.
Numerosi registi famosi, anche italiani, se lo contendono. È uno scrittore per Giuseppe Patroni Griffi in “Metti una sera a cena” (1969); un tormentato piccolo borghese in “Il conformista” (1970), di Bernardo Bertolucci; il raffinato omosessuale ne “La donna della domenica” (1975), di Luigi Comencini, al fianco di Marcello Mastroianni e il medico disilluso de “Il deserto dei tartari” (1976), di Valerio Zurlini, al fianco di Vittorio Gassman. La collaborazione italo-francese prosegue fino agli anni Ottanta, quando è protagonista per Ettore Scola in “La terrazza” (1980). Ma Trintignant è rimasto nel cuore degli spettatori anche per film memorabili come “Z – l’orgia del potere”, “Metti una sera a cena” o “La mia notte con Maud”, confermando a più riprese un amore reciproco con il cinema italiano.
La costante è quel tratto sommesso, malinconico e gentile che sono la sua cifra più ricorrente. Costa Gavras gli mise addirittura un paio di occhiali scuri in “Z” per accentuare il tratto felicemente ordinario della sua presenza. E alla fine si pentì perché in fin troppe scene Trintignant sembrava sparire dallo schermo, intimidito tra la folla. Ma è proprio questo ad attrarre l’attore: un modo di essere che non appare, che non si fa notare e per questo lo fa diventare intimo con lo spettatore. Nel 1983 torna in patria con “Finalmente domenica”, ultimo film di Truffaut, al fianco di Fanny Ardant. Approda, poi, oltreoceano con “Sotto tiro” (1983), di Roger Spottiswode, con Nick Nolte. Lelouch lo riscrittura per “Un uomo, una donna oggi” (1986) nuovamente in coppia con Anouk Aimée. Nel 1994 Krzysztof Kieslowski lo vuole per “Tre colori: Film rosso” e il suo ruolo del giudice maligno, demiurgo e patetico si conquista un posto negli annali della storia cinematografica.
Negli ultimi anni, prima del ritorno a Cannes con Lelouch nel 2019, recita anche in due film di Michael Haneke: “Amour” del 2012 e “Happy End” del 2017. Presentando quest’ultimo, rivela: “Questo personaggio mi ha toccato enormemente. Sono alla fine della mia vita, come lui. Penso molto al suicidio, come lui”.
La sua vita privata è stata segnata dalla tragedia. Dopo il primo matrimonio nel 1954 con l’attrice Stéphane Audran (da cui si è separato nel 1956), e una breve relazione con Brigitte Bardot, sposa nel 1960 Nadine Marquand, attrice, scenografa e regista (da cui divorzia nel 1976). Dall’unione nascono Marie, Pauline e Vincent. Pauline scompare nel 1969 a soli dieci mesi per la sindrome delle cosiddette morti bianche, mentre Marie muore tragicamente nel 2003 per le lesioni inflittele dal compagno Bertrand Cantat, voce del gruppo Noir Désir. Nel 2000 l’attore si sposa per la terza volta con la pilota Marianne Hoepfner.
Jean-Louis Trintignant, l'attore francese è morto a 91 anni. Il Tempo il 17 giugno 2022.
Eclettico ed elegante, dotato di un fascino conturbante, Jean-Louis Trintignant, morto all’età di 91 anni, nella sua casa nella regione del Gard, è stato uno dei grandi divi del cinema francese, diventato famoso con il ruolo del timido innamorato della protagonista di «Et Dieu créa la femme» (1956; «Piace a troppi» il titolo italiano) di Roger Vadim, film che lanciò la seducente Brigitte Bardot a livello internazionale. L’attore è riuscito a passare con eguale intensità dal giovane riservato e ingenuo di «Il sorpasso» (1962) di Dino Risi, all’ambiguo professore di «Il conformista» (1970) di Bernardo Bertolucci, all’assassino cinico e glaciale di «Flic story» (1975) di Jacques Deray.
La sua capacità di interpretare un’ampia varietà di personaggi ha permesso a Trintignant di cimentarsi con i film semi-sperimentali, il poliziesco francese degli anni Settanta, la Nouvelle vague di Eric Rohmer e François Truffaut («Finalmente domenica!»). Nel 1968 ha vinto l’Orso d’argento al Festival di Berlino per il film «L’uomo che mente» di Alain Robbe-Grillet, nel 1969 ha ricevuto il premio per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes per «Z - L’orgia del potere» di Constantin Costa-Gavras e nel 1972 gli è stato conferito uno speciale David di Donatello.
Nato a Piolenc l’11 dicembre 1930 in una famiglia alto-borghese e nipote di un famoso pilota di Formula uno, Maurice Trintignant (per un certo periodo lui stesso si dedicò alle gare automobilistiche), Trintignant arrivò a Parigi nel 1950 per studiare teatro e tre anni esordì sul palcoscenico recitando drammi di Jean Racine e Molière. Nel 1955 debuttò al cinema e l’anno dopo la consacrazione al fianco della Bardot. Dopo un periodo di lontananza dal cinema a causa del servizio militare in Algeria, Trintignant ritornò a recitare con Vadim in «Relazioni pericolose» (1959), cui fece seguito una felice stagione divisa tra la Francia e l’Italia, durante la quale prese parte a film come «Estate violenta» (1959) di Valerio Zurlini, «Il sorpasso» di Risi e «Il successo» (1963) di Mauro Morassi. Nel drammatico film di Risi Trintignat è un timido laureando che incontra casualmente un giovane esuberante e sfrontato (Vittorio Gassman), un ruolo che gli permise di portare a completa maturazione la tipologia dei personaggi fino ad allora interpretati. Con «Un uomo, una donna» di Claude Lelouch, che riscosse un grande successo internazionale, Trintignant si dimostrò perfetto come protagonista romantico e seducente. Nei film della seconda metà degli anni Sessanta il divo mostrò il suo lato ambiguo in film come «Le cerbiatte» di Claude Chabrol e «La matriarca» di Pasquale Festa Campanile, entrambi del 1968. Significative sono state le sue apparizioni nei film sperimentali diretti da Robbe-Grillet come «Trans-Europ-Express - A pelle nuda» (1966), a cui ha fatto seguito la commedia «La mia notte con Maud» (1969) di Rohmer in cui interpreta un ingegnere moralista e rigoroso e due film politicamente impegnati, «Z» di Costa-Gavras, dove è un giudice incorruttibile, e «Il conformista» di Bertolucci.
Negli anni '70 Trintignant ha recitato sia in commedie sia in polizieschi, come «Voyou - La canaglia» (1970) di Lelouch, «Senza movente» (1971) di Philippe Labro, «La donna della domenica» (1975) di Luigi Comencini. Ha recitato poi in «Finalmente domenica!» (1983), ultimo film diretto da Truffaut. Negli anni Ottanta e Novanta Trintignant ha recitato soprattutto nel cinema d’autore: tra gli altri film «La terrazza» (1980) di Ettore Scola, «Colpire al cuore» (1982) di Gianni Amelio, «Rendez-vous» (1985) di André Téchiné, «Merci la vie - Grazie alla vita» (1991) di Bertrand Blier e «Tre colori - Film rosso» (1994) di Krzysztof Kiešlowski. E ha continuato a essere una presenza fissa del cinema francese e quasi sempre al fianco dell’amico regista Lelouch.
Jean-Louis Trintignant si sposò in prime nozze nel 1954 con l’attrice Stéphane Audran, da cui si separò due anni dopo. Dopo il divorzio e una breve relazione con Brigitte Bardot, si risposò nel 1960 con Nadine Marquand, attrice, scenografa e regista, da cui divorziò nel 1976, e da cui ha avuto tre figli Marie, Pauline e Vincent. Pauline morì nel 1969 all’età di dieci mesi per la sindrome delle cosiddette morti bianche, mentre Marie, che recitò al fianco del padre in una decina di produzioni cinematografiche e televisive, morì tragicamente nel 2003 per le lesioni inflittele dal compagno Bertrand Cantat, voce del gruppo Noir Désir. Nel 2000 aveva sposato la pilota Marianne Hoepfner.
Il non conformista. Per fare l’antitaliano meglio di Jean-Louis Trintignant non c’era nessuno. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Giugno 2022.
Dal mite studente del Sorpasso allo sceneggiatore della Terrazza, l’attore francese morto ieri a 91 anni è riuscito a interpretare tutto quello che non siamo, che non sapevamo e che non sappiamo essere.
L’italiano che non esisteva lo interpretava un francese. L’italiano mite, ligio, schiacciato dall’altrui veemenza, mitomania, istrionismo, italianità. A fare l’antitaliano, nessuno era bravo come Jean-Louis Trintignant.
Sì, bisognerebbe parlare di Amour, forse l’unico suo film che dica qualcosa ai viventi d’un’epoca che non ha memoria: mica pretenderemo il pubblico conosca le filmografie di quando c’era la lira, suvvia. (A chi era vivo nel secolo scorso, Amour pare la versione elegante di Betty Blue, uno dei punti di riferimento kitsch d’ogni formazione novecentesca).
O magari bisognerebbe parlare di Un uomo, una donna, il sentimentalismo che piaceva a tutte, alle intellettuali e alle massaie, il Casablanca del cinema a colori, la storia d’amore che non c’era ma che tutte volevamo.
Avendoci mai capito qualcosa, forse si dovrebbe citare Il conformista, ma purtroppo l’unica cosa mai risultatami chiara di quel film è che meraviglia fossero i vestiti della Sandrelli.
Sarebbe inutile chiedersi come si sopravvive a una figlia che ti muore così, ammazzata di botte dal tizio con cui sta, uno strazio che è impossibile immaginare, una di quelle cose di fronte alle quali ci si vergogna di dire frasi di circostanza quali «So cosa provi»: la risposta l’aveva già data lui, era il titolo della sua autobiografia. Alla fine ho deciso di vivere.
La vera verità è che ciò in cui è stato più prezioso Trintignant è stato raffigurare quello che non siamo, che non sapevamo e non sappiamo essere. Che fosse in capolavori come Il sorpasso o La terrazza, o in titoli minori che cercavano di mungere collaudate coppie di successo (Il successo, appunto), Trintignant faceva come nessuno il mite vessato dal cialtrone. Erano personaggi italiani, scritti da sceneggiatori italiani, e pensati come italiani. Ma erano talmente antitetici al carattere italiano che serviva un forestiero per dar loro corpo.
Lo studente del Sorpasso, così timido che per conoscerlo servì la voce fuori campo: serviva sentirne i pensieri mentre meditava di sottrarsi all’invadenza di Vittorio Gassman che compariva in strada e, rivolgendoglisi alla finestra, finiva per monopolizzargli la giornata (e ucciderlo, sia detto senza che vi agitiate accusandomi d’avervi svelato il finale d’un film di sessant’anni fa).
Progettava ribellioni, Roberto di cui Bruno Cortona non si degnava d’apprendere il cognome, che non metteva in atto mai. Era uno che stava a casa a studiare a Ferragosto, e si ritrovava in balìa di uno che non sapeva cosa fosse il senso del dovere, che non sapeva cosa fosse l’attendibilità, che non sapeva cosa fosse il superio. Di un italiano.
Avrebbe potuto farlo Mastroianni? Forse di tutti quelli lì era l’unico che sarebbe stato pensabile come mite; ma la vera verità è che, al suo meglio, il cinema italiano era fatto d’italiani, di Sordi, di Tognazzi, di Gassman: di perfettissime incarnazioni di mitomani.
C’è una scena nel Successo, un filmetto con cui Risi tentò di mungere il successo del Sorpasso, in cui a Trintignant non tira con la ragazza che gli piace. Gassman gli porta due mignotte, e a Trintignant non tira neanche con loro. Certo che Sordi avrebbe potuto fare uno cui non tira (che cos’è Il vedovo, se non una continua allegoria dell’uomo cui non tira?), ma non ti saresti mai intenerito per lui, non gli avresti mai voluto bene, non avrebbe avuto quel candore, quella fragilità.
Quella mitezza pure nell’incazzatura con cui, nella Donna della domenica, chiede ad Anna Carla Dosio se lei e Massimo non si stanchino mai di essere intelligentissimi (e s’intravede una ricorrenza: la più torinese delle torinesi la interpretava Jacqueline Bisset, una francese).
Il mio Trintignant preferito è quello che sta nel mio film preferito, negli anni in cui l’epoca d’oro della commedia all’italiana andava a declinare. Era il 1980, e nella Terrazza (sta su RaiPlay, mollate questo articolo e andate a vederlo) si conoscevano tutti, andavano tutti alle stesse cene, tutti rendevano la vita di tutti un inferno.
Il più in balìa di tutti era Trintignant, uno sceneggiatore al quale il produttore interpretato da Ugo Tognazzi chiedeva ossessivamente, del film che stava scrivendo, «Fa ridere?». Nessuno che di mestiere scriva, ma anche solo nessuno che non sia completamente ottuso, dopo aver visto La terrazza potrà mai più sentir chiedere «Fa ridere?» senza trovarla la più angosciante delle domande.
Non è che nella Terrazza manchi il tragico – c’è persino un funzionario Rai anoressico che si lascia morire – o il grottesco – Tognazzi viene trattato come il figlio della serva dalla moglie, e si tinge i capelli con una disperazione che vede gli uomini del futuro e li pitta impietosamente – ma Trintignant è un’altra cosa. Trintignant – sto per guastarvi la sorpresa d’un film di quarantadue anni fa – prende il temperamatite elettrico e ci si macina una mano, per la disperazione del foglio bianco, della consegna che non riesce a rispettare, del superio che non riesce a essere così italiano da non avere.
È lo stesso personaggio che nello stesso film diceva al figlio «Continua a non fare un cazzo, non studiare, non lavorare, tanto c’è papà che ci pensa: ma papà s’è stufato!», e quello rispondeva «Papà, sono due anni che lavoro in banca». Giacché, come diceva Gassman sempre in quel film, e riassumendo quegli anni di cinema italiano meglio di quanto potesse mai farlo la critica, «Ormai siamo tutti così: personaggi drammatici che si manifestano solo comicamente».
Però con quella fragilità lì, con quello smarrimento lì, con quell’aria di chi sta in un angolo non certo perché lo si noti di più, così sapeva farlo solo un forestiero in prestito.
Da "La Stampa" il 19 giugno 2022.
Avevano recitato insieme nel Conformista, il film di Bernardo Bertolucci, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, in cui Jean-Louis Trintignant è Marcello Clerici, spia dei fascisti e docente di filosofia, e lei, Stefania Sandrelli, è Giulia, ragazza leggera e spensierata della media borghesia.
Uniti in un matrimonio non d'amore ma di reciproche convenienze, Marcello e Giulia sono il simbolo del clima avvelenato del regime, di apparenze salvate a dispetto di immoralità diffuse.
In una delle sequenze più note del film, Giulia balla un tango conturbante con Anna Quadri (Dominique Sanda), la donna che, invaghita di lei, cerca di sedurre lui. Marcello se ne innamora e, quando Anna e suo marito stanno per essere consegnati ai sicari fascisti che li ammazzeranno, cerca di metterla in salvo, senza riuscirci. Di quei giorni, sul set, Stefania Sandrelli conserva mille ricordi, anche se, oggi, troppo spesso chiamata a parlare di grandi che se ne vanno, non ha troppa voglia di rievocare e parlare.
Che ricordo ha di Jean-Louis Trintignant?
«È stato uno degli attori che ho amato di più, un uomo estremamente sensibile, elegante, discreto. Un attore grandissimo. La notizia della sua scomparsa mi colpisce molto. Mi prendeva in giro per le mie spalle grandi, pensava fossero per il nuoto perché sono nata a Viareggio, invece erano per la tanta danza che avevo fatto da ragazzina, era un continuo sfottermi e tutti a ridere con lui».
Tra pochi giorni a Bologna avrà modo di ricordarlo, proprio grazie al «Conformista». Che cosa dirà?
«Sabato prossimo, per l'inaugurazione del 36° Festival del "Cinema ritrovato" verrà proiettata la versione restaurata del Conformista. Mi sembra l'occasione migliore per omaggiare una persona come lui. Sarà un tributo mio, ma anche di tutto il cinema italiano».
Da allora eravate in contatto?
«Dopo Il conformista siamo rimasti molto amici, ci sentivamo, abbiamo passato bei giorni insieme e quando capitavo a Parigi lo andavo sempre a trovare. Tranne l'ultima volta, era il 2018, io ero andata per l'omaggio a me dedicato dalla Cinematheque Francaise e lui era a teatro, ma non riuscimmo ad incontrarci, lui era già molto malato. Certo quell'esperienza con Bertolucci è stata fondamentale per tutti e due. Ero molto giovane, Jean-Louis invece era già notissimo, ma, appunto, era rimasta una persona semplice, con cui è stato bellissimo recitare».
Ha sempre dato l'impressione di essere timido. È d'accordo?
«Direi che fosse piuttosto riservato, ci teneva a passare inosservato. Amava moltissimo il teatro, questo sì, per un attore il teatro è nutrimento, si hanno soddisfazioni uniche, specialmente in Francia».
La sua non è stata una vita fortunata. Ha attraversato dolori importanti.
«La mia impressione è che dopo la morte della figlia Marie non si sia mai ripreso veramente. D'altra parte chi potrebbe avere la forza di superare un dolore così immenso? Ci ho pensato tante volte in questi anni, deve aver vissuto momenti terribili. Amava moltissimo sua figlia, ricordo week end in campagna vicino Parigi, con tutti loro, lui era felice, si sentiva amato, protetto, dalla sua bella famiglia e Marie era la più amata. Dopo la sua morte ho chiamato spesso Jean-Louis, provando a essere di conforto, conservo una lettera che mi aveva scritto in quei momenti terribili».
· E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.
Addio a Giuseppe Cairo. La passione per il calcio, l’impegno nel ciclismo. Paola Pica su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.
«Caro Papà ti ho adorato, sei stato il mio mito, avrei voluto essere come te. Da bambino la cosa più bella per me era quando mi portavi con te. Mi hai insegnato tanto, tutto quello che sapevi e io mi sono sempre sentito una cosa sola con te. Resterai sempre con me». Sono queste le parole della lettera-necrologio con la quale Urbano Cairo saluta il padre Giuseppe, vicepresidente del Torino, mancato ieri ad Alessandria all’età di 90 anni compiuti il 29 aprile scorso. «Devo tutto a mio padre, un uomo di grande talento al quale ho cercato sempre di assomigliare. Ma lui è sempre stato più bravo di me», racconta il presidente di Rcs e patron del Torino dalla casa di famiglia di Abazia di Masio, piccolo comune in provincia di Alessandria al confine con l’astigiano dove Giuseppe era nato e poi tornato a vivere, dopo una lunga parentesi milanese, con la moglie Maria Giulia Castelli mancata 10 anni fa, nel 2012, a 79 anni. La celebre Mamma Cairo alla quale Urbano insieme al fratello Roberto e alle sorelle Isabella e Laura, e allo stesso papà Giuseppe, hanno intestato il Trofeo delle squadre Primavera.
Con Maria Giulia, l’amore di tutta la vita, Giuseppe Cairo aveva condiviso la fede per il Grande Torino. «Le nostre domeniche erano tutte pane e calcio», ebbe a raccontare Giuseppe. Entrambi erano tra i tifosi corsi in lacrime sulla collina di Superga il giorno della tragedia, il 4 maggio del ’49, lo schianto dell’aereo che stava riportando in città la squadra granata dopo una partita giocata a Lisbona. Giuseppe era stato calciatore da ragazzo, nell’Alessandria. Il figlio Urbano trova in casa una foto storica che ritrae il padre con i compagni in maglia grigia. «Giocava bene e stava per essere venduto alla Fiorentina — racconta — ma non ci andò mai perché il nonno non volle. Non voleva che interrompesse gli studi e così fece altro. Come la mamma, fu entusiasta della mia decisione di acquistare il Torino. E anzi mi seguì in tutta la trattativa restando poi alla vicepresidenza. Una cosa bella e importante che abbiamo fatto insieme, ancor più significativa — continua Cairo — perché in quegli anni mio padre aveva avuto un problema di salute e quell’impegno ci ha aiutato anche a superare le preoccupazioni». Il Torino Football Club, da parte sua, ieri ha ricordato «l’uomo buono e generoso, un esempio per molti: ha dedicato la sua vita al lavoro e grazie alla tempra e alla tenacia che l’hanno sempre contraddistinto ha raggiunto notevoli risultati professionali. Mancherà a tanti».
Ad Abazia di Masio ieri gli amici si sono raccolti con la famiglia. Domani alle 15 il funerale sarà celebrato nella chiesa della parrocchia del paese, Regina Apostolorum, in via Piacenza. «Ci conoscevamo da una vita e ci siamo visti non molto tempo fa. Giuseppe era sempre attento alle problematiche del paese», dice il sindaco Giovanni Airaudo.
«Ma il calcio non era la sua sola passione sportiva — racconta ancora Urbano Cairo —. Nella sua vita il ciclismo è stata un’esperienza straordinaria e forse quella che più mi resta nel cuore con le immagini della gloriosa “Sei giorni di Milano” che corrono nella mente in queste ore. Come dirigente della Mobilgirgi, molto attiva nelle sponsorizzazioni sportive, curò i ciclisti che trionfarono nel 1969 e nel 1970 all’importante competizione su pista milanese: si trattava di Dieter Kemper che vinse le due edizioni prima in coppia con Horst Oldenburg e poi con Norbert Seeuws. Per me ragazzino è stata un’avventura e una favola, mio padre il mio eroe. A quelle emozioni, a quella meraviglia per come lui svolgeva il suo lavoro, a quei valori che mio padre trasmetteva, devo quello che sono oggi. Lui è stato davvero lo stimolo a fare di più a scuola e poi nella vita professionale. Come ho scritto nel mio messaggio personale, ognuno di noi fratelli ha scritto il suo, il conforto più grande adesso è il ricordo di me bambino per mano a un gigante».
· E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.
Da ansa.it il 14 Giugno 2022.
Abraham Yehoshua, scrittore israeliano di fama internazionale, è morto questa mattina. Lo ha annunciato l'ospedale Ichilov di Tel Aviv. I funerali si svolgeranno nel pomeriggio. Aveva 85 anni.
Da cinquantamila.it
Abraham Yehoshua (Abraham «Boolie» Y.), nato a Gerusalemme il 19 dicembre 1936 (85 anni). Scrittore. Drammaturgo. Accademico. «Io sono contento d’essere arrivato al romanzo dopo i 40 anni. E dico: aspettate. Per scrivere un romanzo non basta una buona storia: ci vuole una visione del mondo, bisogna capire la realtà»
• «Abramo era il nome del padre di mia madre, un uomo molto ricco che ebbe undici figli. Lasciò Mogador, in Marocco, per venire in Israele quando ancora non c’era lo Stato e gli ebrei erano più o meno duemila. Fu uno dei primi visionari, uno dei primi promotori della creazione di Israele. Per cui per me è un nome molto impegnativo, pesante da portare, per l’eredità familiare. Poi ovviamente ha molti significati per il riferimento all’Abramo biblico, ed è per questo che mi faccio chiamare comunemente con il nomignolo di "Boolie", che non vuol dire nulla ma è diventato il mio nome più "leggero"» (a Eleonora Lombardo)
• «“Ogni volta che mi viene richiesto il curriculum vitae, comincio con queste parole: “nato a Gerusalemme nel 1936, quinta generazione a Gerusalemme”. Non solo ripeto due volte il nome di Gerusalemme, ma sottolineo il fatto di essere la quinta generazione. […] È un vantaggio, considerando il fatto che la maggior parte dei miei amici coetanei appartiene alla prima o alla seconda generazione di ebrei in Terra d’Israele. […] I miei avi sono arrivati qui da Salonicco e da Praga a metà dell’Ottocento, quando a Gerusalemme gli ebrei erano pochissimi, ma neanche gli arabi erano numerosi. Allora la città era piccola e misera, posta al limite del deserto, chiusa nelle Mura, le cui porte venivano sigillate ogni notte. […] A Gerusalemme sono vissuto per ventisette anni, fino al 1963. […] Nella mia coscienza, Gerusalemme è divisa in tre città: ognuna un po’ diversa dalle altre. Ognuna fonte sia della mia produzione letteraria sia del mio pensiero ideologico e politico. […] La prima è la Gerusalemme della mia infanzia, fino al 1948 (l’anno della nascita dello Stato d’Israele). Città unita, araba ed ebraica, soggetta al potere dell’Impero britannico. È la Gerusalemme della Seconda guerra mondiale, dove si sta risvegliando il conflitto tra ebrei e arabi da un lato, e tra i due popoli e le autorità britanniche dall’altro. Ma, nonostante le prime avvisaglie del terrorismo ebraico e palestinese, c’è ancora l’armonia di una città unita, dove i quartieri arabi ed ebrei si abbracciano l’un l’altro nella tranquillità relativa; aspettando tuttavia con angoscia il futuro”.
Yehoshua fa una pausa, poi riprende il discorso parlando del padre, Yaakov. “Era orientalista e insegnante della lingua araba. Aveva non pochi amici tra gli arabi di Gerusalemme. Qualche volta mi portava da loro. […] Con la fine del potere britannico, nel maggio 1948, è cominciata una guerra crudele tra i due popoli, in tutto il Paese, e in particolare a Gerusalemme. Ogni strada e ogni quartiere erano teatro di battaglie. Il quartiere ebraico nella Città Vecchia è stato conquistato dagli arabi. […] Per due mesi siamo stati in un rifugio sotto la nostra palazzina. Quando gli assedianti arabi vennero sconfitti dalle forze israeliane, si arrivò a una tregua e fummo autorizzati a uscire dal rifugio. Ma davanti a noi è apparsa un’altra Gerusalemme; divisa da muri di cemento armato, da filo spinato e da campi minati. La Gerusalemme araba è diventata per gli israeliani la faccia nascosta della Luna, e così la parte ebraica per gli arabi. […] Per me […] comincia qui la seconda Gerusalemme, la Gerusalemme della mia giovinezza e dei miei anni da studente. È una Gerusalemme più piccola, omogenea, laica nella maggioranza della sua popolazione, città dei ministeri, tipicamente universitaria. […] La città è senza segni di sacralità, senza il pesantissimo retaggio della storia, si è liberata dai suoi miti così esigenti e insieme all’effervescente Tel Aviv ha cominciato a costruire la nuova identità israeliana. In quella Gerusalemme ho cominciato a concepire i miei primi racconti, un po’ astratti, senza tempo e luogo definiti”.
All’epoca Yehoshua era influenzato dalla letteratura surrealista. Forse per fuggire la realtà di un luogo mutilato? Commenta: “Qualche volta alzavo lo sguardo verso la città dell’Est, la Città Vecchia: proibita ed enigmatica. Cercavo di ricostruire nell’immaginazione il ricordo delle visite con mio padre nei vicoli, nei mercati pieni di colori, e ovviamente nelle case dei suoi amici e nei palazzi sontuosi dove avevano sede le autorità delle varie denominazioni religiose”. […]
E la terza Gerusalemme, signor Yehoshua? “È la Gerusalemme nata, a sorpresa, nella tempesta della Guerra dei sei giorni. […] In quel mese drammatico, giugno 1967, io, mia moglie e nostra figlia eravamo a Parigi. Nel giro di due settimane saremmo dovuti tornare nel Paese. Ma già da lontano, mentre stavamo facendo le valigie e salutavamo gli amici, seguendo i media israeliani, sentivo la nuova estasi, spiacevole, di stampo messianico, una specie di risveglio di miti latenti attorno ai luoghi sacri. Espressioni come ‘Gerusalemme eterna’ o ‘Cuore del popolo ebraico’ stavano assumendo un’identità religiosa sciovinista, in particolare nelle preghiere di massa sotto il Muro del Pianto. Quelle preghiere erano accompagnate da brutte allusioni sull’eventualità di distruggere le moschee della Spianata e di ricostruire al loro posto il Tempio raso al suolo dai romani duemila anni fa. Ero ancora a Parigi, ma già mi accorgevo del fenomeno della rapida distruzione dei codici laici israeliani, costruiti nei 19 anni precedenti in una Gerusalemme divisa, la mia ‘seconda Gerusalemme’. Si stava affacciando sulla scena pubblica qualcosa che certamente non poteva favorire la pace: visto che sono stati annessi a Gerusalemme unita, senza peraltro chiedere il loro parere, decine di migliaia di arabi palestinesi, intrappolati dentro la nuova estasi messianica della popolazione ebraica. Così, io e mia moglie abbiamo pensato di non tornare a Gerusalemme, ma di mettere su casa a Haifa, città del tutto laica e del tutto israeliana e piacevole» (Wlodek Goldkorn)
• Da piccolo «volevo fare l’avvocato, una professione che mia madre approvava; avrei voluto essere come gli avvocati delle mie opere. In tutti i miei libri c’è almeno un personaggio che esercita una professione legale. Ne appaiono nel Signor Mani, in Cinque stagioni; in La sposa liberata c’è persino una donna giudice. Sono affascinato dalla questione della legge, dagli interrogativi su chi ha ragione e chi no. Con mia madre ho sempre dovuto dimostrare di aver ragione, perché lei ogni volta sosteneva che avevo torto. A pensarci bene, dev’essere questo il motivo per cui da bambino volevo fare l’avvocato: per imparare come si fa ad aver ragione. Anche se sino alla fine ha avuto ragione solo lei. Il mio desiderio di scrivere ha avuto due origini. La prima sono state le storie che mio padre mi raccontava quando ero piccolo. Il libro Cuore, di De Amicis, ha avuto un’influenza fondamentale su di me. […]
Per me, e non solo per me, averlo sentito raccontare da bambino rappresenta un’esperienza indimenticabile. Il piccolo scrivano fiorentino, la storia di un bambino che porta avanti il lavoro del padre, di notte, a sua insaputa, e finisce per andare male a scuola, causando un conflitto col padre, è alla base del mio primo racconto, Il poeta continua a tacere, in cui un figlio ritardato scrive per suo padre. Racconti come questo mi colpivano molto, mi facevano piangere. Leggevo e mi commuovevo, piangevo sul momento e anche dopo, quando ci ripensavo. […]
Il secondo elemento che ha suscitato in me il desiderio di fare lo scrittore si trova nei brevi pezzi umoristici che scrivevo a scuola o nei movimenti giovanili, più o meno una volta ogni dieci o quindici giorni, nei quali collegavo le nostre realtà particolari con realtà universali. Li leggevo poi ad alta voce, e mi rendevo subito conto che il legame fra l’immaginario, l’assurdo, e ciò che era noto a tutti – fatti avvenuti in classe o nel movimento – toccava il pubblico con una forza particolare, che mi incoraggiò a scrivere. In seguito, durante il servizio militare, ero in un’unità dove il venerdì si organizzavano sempre delle feste, e allora i miei superiori mi davano due ore di permesso perché scrivessi una storiella. Il privilegio di quelle due ore di libertà guadagnate grazie alla scrittura mi faceva talmente piacere che ho continuato questa attività».
«“Il mio primo libro era scritto nello stile di Shmuel Joseph Agnon, vale a dire un po’ come se voi oggi scriveste in un linguaggio settecentesco. La lingua ebraica, che sembrava quasi morta, si è sviluppata in un secolo con una straordinaria velocità, come il francese o l’italiano dal ’700 ad oggi. Io ho iniziato scartando i padri e guardando ai ‘nonni’”. Ma anche ai tre grandi fari internazionali del secolo, la sua costellazione ideale: Kafka, Faulkner e Camus. Il primo gli ha fornito, spiega, “la chiave”, gli ha fatto intuire la forza del paradosso logico; il secondo gli ha insegnato il “romanzo polifonico”; il terzo gli ha fatto capire, con Lo straniero, “la vera novità del dopoguerra, l’alienazione”. Sembra essere Kafka il vero inizio, col suo salto dalla concretezza della realtà all’immaginazione. Insiste: “Quando sono riuscito a creare il paradosso logico, ho avuto la forza per essere scrittore”» (Mario Baudino).
«Ho scritto i racconti con grande lentezza, e credo anche con una difficoltà non indifferente. Per ogni racconto mi ci sono voluti spesso alcuni mesi di lavoro, e ad alcune novelle […] ho consacrato un anno intero. Il motivo potrà sembrare banale. Nell’Israele di quegli anni non c’era un solo scrittore che si guadagnasse da vivere con la sua penna. Fin da giovane mi sono trovato a dover mantenere una famiglia, con mia moglie anch’essa impegnata in un’importante carriera. Per questo sono stato costretto a destreggiarmi con la lentezza della mia scrittura in mezzo a innumerevoli altre occupazioni quotidiane. Tuttavia, ripensandoci meglio, mi sembra che non sia questo il vero motivo. Ho scritto i racconti con una straordinaria lentezza, forse, in quanto il mio mondo spirituale, sentimentale e intellettuale non era ancora completamente maturo e pronto alla scrittura di un romanzo. Ho cercato di ricavare il massimo dalle risorse che avevo allora a disposizione, per non disperdermi in una prosa al di là delle mie forze. Il surrealismo e l’astrattezza dei racconti non solo si adeguavano allo stato d’animo letterario diffuso degli anni Cinquanta e Sessanta, nell’immediato dopoguerra tanto in Europa quanto nel resto del mondo, sulla scia di Beckett, Kafka, Camus, Buzzati e altri, ma corrispondevano anche a una personale volontà di staccarsi in modo netto dall’intensa esperienza collettiva e dal realismo socialista che avevano permeato la generazione precedente, quella della Guerra d’indipendenza. Questo era l’unico e il miglior modo di realizzare il distacco. Sebbene all’inizio mi sia opposto alle convenzioni, scegliendo per i miei personaggi nomi grotteschi e infondendo alle mie storie un’atmosfera onirica e irreale, a poco a poco e per vie traverse sono ritornato alla realtà israeliana. […] Nel 1974 ho scritto il mio ultimo racconto, poco dopo aver concluso due opere teatrali che mi avevano preparato, attraverso il trattamento di diversi personaggi e non di un solo eroe, ad affrontare la scrittura del mio primo romanzo, L’amante, costituito da una serie di monologhi. Da allora non ho più scritto un solo racconto».
Fu proprio L’amante (1977) a segnare la svolta nella sua parabola di scrittore. «Il tuo primo libro e assieme il tuo primo grande successo, L’amante, è un romanzo che può essere letto in tanti modi diversi: la reazione di un Paese alla guerra, i rapporti sociali e personali tra arabi e israeliani, la cronaca di un amore in disfacimento e di un altro che nasce. Qual è la “giusta” chiave di lettura, se ce n’è una sola? […] “Il cuore de L’amante è in realtà la mia scelta di proteggere il matrimonio, nei miei libri. Vedevo che negli anni ’70 tutti facevano a pezzi il matrimonio come istituzione: tra divorzi e tradimenti, anche nei romanzi il matrimonio era davvero molto maltrattato. Io […] ho avuto un matrimonio felice, e credo che anche il matrimonio dei protagonisti de L’amante lo sia, a suo modo, e abbia un senso. Il marito porta un amante alla moglie non perché lei si annoia o è inquieta, ma per amore: lei ha perso la libido dopo la morte del figlioletto, e lui spera così di risvegliare in lei il desiderio sessuale”» (Goldkorn).
Anche negli undici romanzi successivi di Yehoshua (tutti pubblicati in traduzione italiana presso Einaudi), da Un divorzio tardivo (1982) a Il tunnel (2018), quello del matrimonio è un tema fondamentale, intimamente legato, nella concezione simbolica dell’autore, all’altro grande fulcro tematico, costituito dalla questione israelo-palestinese. «Sono persuaso che le relazioni tra un uomo e una donna siano tra le più difficili e impegnative, proprio perché si possono rompere in un attimo. Questo le rende uniche. Non puoi certo recidere una relazione tra una madre e un figlio, o tra un padre e la sua prole. Il matrimonio richiede nutrizione costante, soluzione calibrata di continui dilemmi morali. È ciò che mi affascina, e m’induce a farne un simbolo esteso a questioni politiche e sociali» (a Simonetta Fiori). «La separazione, la frattura, la guerra sono condizioni non solo assai diffuse nella società contemporanea, ma quasi a essa consustanziali, e di ciò si incontrano frequenti testimonianze nell’opera di Yehoshua. Molti dei suoi personaggi sperimentano situazioni concrete di separazione coniugale: il conferenziere protagonista del racconto Base missilistica 612; Adam e Asya nell’Amante; i due coniugi Kaminka in Un divorzio tardivo; il professor Rivlin nella Sposa liberata, che non comprende le motivazioni reali del divorzio di suo figlio Ofer dalla moglie Galia; il responsabile delle risorse umane nel romanzo eponimo, che tenta di redimersi dal fallimento della sua vita matrimoniale assumendosi le proprie responsabilità per la morte misteriosa di una dipendente della sua azienda. Nelle sue opere, di felicità coniugale si può parlare soprattutto nella fase della maturità della coppia, verso i sessant’anni di vita. […] Quando si è giovani, probabilmente non è possibile misurare in maniera attendibile la stabilità di un rapporto: troppo forti sono ancora le ambizioni personali, la diffidenza, la fiducia in se stessi. E troppo forte è anche l’idealismo, che non consente di accettare i propri errori, che fa credere che il rapporto matrimoniale debba adeguarsi all’idea che se ne ha, mentre è piuttosto vero il contrario. […] Yehoshua non nega la necessità del confronto anche aspro. Il confronto richiede pazienza, determinazione, e facilmente degenera in conflitto. Ma è un conflitto sempre incentrato sul dialogo, aperto allo scambio dialettico, disposto al compromesso: una guerra non santa, non giustificata da un’ideologia, non sancita in maniera dogmatica; che non oppone alla concretezza di una necessità l’astrattezza di una tradizione, che non rinnega l’effervescenza della diversità in nome di un’identità che non possa essere messa in discussione» (Luca Alvino). «I grandi temi di Yehoshua: il matrimonio, la religione, l´amore, la guerra, l´ebraismo, la politica, più semplicemente la vita» (Fiori)
• Laureato in Letteratura ebraica e Filosofia all’Università ebraica di Gerusalemme, dal 1972 Yehoshua insegna Letteratura comparata e Letteratura ebraica all’Università di Haifa, dove è tuttora professore di ruolo; nel corso della sua carriera accademica ha inoltre visitato Oxford, Harvard, Chicago e Princeton. «Iniziare a lavorare in università mi consentì di avere più tempo per scrivere, ma anche di non sentirmi mai costretto a scrivere per guadagnare. Anche se in questa professione non abbiamo pensione, quindi persino ora a 80 anni non posso smettere di scrivere. […] Non sono mai stato un professore “guru”, anzi ho sempre cercato di mantenere un rapporto non dico distaccato, ma di certo non intimo con gli studenti. E poi ho sempre evitato di insegnare la cosiddetta scrittura creativa che adesso va tanto di moda. Non ci credo molto, ma non posso dirlo ad alta voce perché molti giovani scrittori stanno avendo molto successo proprio grazie a essa. Le nuove generazioni preferiscono scrivere che leggere» (ad Alvise Losi)
• Nel 2016, dopo quasi cinquant’anni trascorsi ad Haifa, si trasferì con l’amatissima moglie (la psicanalista Rivka Kirninski, sposata nel 1960) a Tel Aviv, per stare più vicino ai tre figli (una femmina e due maschi) e ai nipoti. Poco dopo la moglie morì, lasciandolo in uno stato di profonda prostrazione. «Siamo stati insieme per 56 anni: un grande amore, un grande attaccamento. […] Ormai sono un uomo solo e vecchio»
• «Mi sento israeliano al mille per mille, la mia famiglia vive qui da generazioni: se questo Paese venisse distrutto io non saprei più qual è il mio posto nel mondo. Nessuno dei miei figli ha lasciato Israele, sono grandi e vivono tutti qui. Penso che l’identità ebraica, da millenni, sia il passaporto più efficace che esista: noi ebrei possiamo sentirci a casa ovunque, se c’è una casa ebraica e una comunità che ci apre le sue porte. L’identità risiede nella nostra testa e nel nostro cuore» (a Fiona Diwan). «Mio padre aveva scritto una dozzina di libri sulla vita a Gerusalemme tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso. E Gerusalemme è sempre presente nei miei libri. La principale protagonista di Il signor Mani, il mio più importante romanzo, è proprio lei, Gerusalemme»
• «Mio padre […] mi ha insegnato, pur non facendosi illusioni romantiche su questi temi, che i palestinesi sono per noi una sorta di “cugini” che abbiamo il dovere di integrare nella nostra società. Anzi, è una sorta di missione per noi, perché abbiamo preso una parte delle loro terre: è il minimo che possiamo fare». «Anche se è una posizione che ho sostenuto per anni, ora non credo più nella soluzione dei due Stati, israeliano e palestinese. L’unica via è quella di un unico Stato che dia, per gradi, la cittadinanza anche ai palestinesi della Cisgiordania ed eviti, così, l’apartheid. Questo perché non penso sia più possibile né evacuare il mezzo milione di israeliani che vive in quelle zone, né che i palestinesi accettino e si accontentino di una piccola parte dei territori. […] Io non voglio più parlare di pace, ma di partnership. È necessario percorrere la strada delle buone relazioni e della cooperazione, tra noi e i palestinesi, ma dentro uno stesso Paese» (a Laura Pezzino). «Ho paura per la crescita dei sentimenti di odio da ambedue le parti e mi spaventa l’aumento del razzismo tra gli israeliani. […] L’alternativa è solo questa, apartheid o democrazia: padroni e sottomessi oppure cittadini pari diritti. Il resto sono chiacchiere»
• «Sono socialdemocratico da quando avevo 12 anni. […] Per me la socialdemocrazia è la giusta via: significa più giustizia sociale» (a Carlo Puca)
• «La religione ebraica è stata il centro della nostra identità per gli ultimi duemila anni: senza un territorio e un’unica lingua era il solo collante. Io non sono religioso, sono ateo, ma cresciuto in famiglia moderatamente religiosa, e per la mia storia, a differenza di alcuni amici di sinistra che arrivano da famiglie assolutamente non religiose, non posso limitarmi a odiare la destra religiosa. Devo provare a capirla»
• «Il più grande scrittore dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo (e uno dei più bravi del mondo intero). […] Narra esistenze di persone normali, non belle, magari bruttine (come le persone normali), e dei loro drammi di lavoro, di famiglia, d’amore. La sua grandezza si può spiegare con una tautologia: Yehoshua è un bravo romanziere perché scrive romanzi» (Antonio D’Orrico)
• «Lei si prende parecchi anni tra un libro e il successivo, mentre altri scrittori ogni anno pubblicano qualcosa. “Ci sono due tipi di scrittori: quelli che hanno un mondo da esplorare dentro cui poi ambientano le loro storie e quelli che invece lavorano su soggetti ogni volta diversi. Io appartengo al secondo tipo. Ecco perché ogni volta per me è una sfida fare ricerca per ambientare le mie storie”» (Losi). «Quando inizio a scrivere un romanzo, ci metto circa cinque mesi solo per scrivere le prime pagine. Cinque mesi! Perché? C’è un motivo, ed è che all’inizio di un romanzo si decidono un sacco di cose, per esempio chi è il protagonista, cosa pensa e così via. E allora scrivo e riscrivo, ancora e ancora, cerco di capire, di approfondire. Dopo va tutto più veloce, la scrittura va da sé. La cosa importante però è che, quando ho finito la stesura del romanzo e rileggo le prime pagine, noto sempre che tutto è già lì, la chiave del libro era lì, in quelle pagine, ma non l’ho capito subito quando le ho scritte». «Yehoshua riflette: “Faccio il romanziere perché sono convinto che la letteratura permetta di esprimere idee complesse, non come discorso filosofico, ma dando vita e voce a personaggi veri e narrando situazioni esistenziali”. Sorride: “C’è un lato simbolico, kafkiano nella mia scrittura”. In La scena perduta (2011), […] è inserito per intero un racconto di Kafka, Nella nostra sinagoga. Vi si narra di un piccolo e arcaico animale, una marmotta che abita in una sinagoga. L’animale è fuori luogo e fuori tempo, e tuttavia senza quell’animale fuori luogo e fuori tempo quel luogo e quel tempo non potrebbero esistere. “Quell’animale nella sinagoga dà il senso all’identità ebraica come nessun saggio filosofico e storico è in grado di fare. C’è uno strato metafisico in quel racconto che nessun altro autore è in grado di trasformare in scrittura”. […] “Parlo di metafisica da scrittore, non da filosofo. È questo il mio surrealismo. Ed è questa la mia libertà”» (Goldkorn)
• «La letteratura ha un potere straordinario, ci prende e ci trasporta in una realtà del tutto diversa, immaginaria, e riesce a farci reagire come se vivessimo personalmente le vicende che leggiamo; niente altro ha una forza simile. […] Il potere della suggestione letteraria e il legame fra il quotidiano e la fantasia sono stati alla base della mia scrittura, e questo vale ancora oggi. Il più grande complimento che possa farmi qualcuno che ha letto un mio libro non è dirmi che l’ha trovato bello o interessante, ma che ha pianto. Un lettore del genere, lo abbraccerei!».
È morto Abraham Yehoshua. «Noi ebrei, Israele e la questione palestinese». Wlodek Goldkorn su La Repubblica il 14 Giugno 2022.
Il celebre scrittore è scomparso a 85 anni. In questa intervista spiegava la sua soluzione per il conflitto in Medio Oriente, con una provocazione. «La via dei due Stati non è più praticabile: nessuno caccerà i coloni dalla Cisgiordania. L'unica strada è l'uguaglianza davanti alla legge. E la cittadinanza con tutti i vantaggi»
Lo troviamo a casa sua, con i nipotini: stanno preparando la cerimonia per ricordare la moglie Rivka, chiamata da lui e dagli amici Ika, scomparsa un anno fa. Abraham Yehoshua, ogni volta che si parla di lei piange. Donna saggia, ironica, bella, psicoanalista di successo: hanno vissuto insieme per più di cinquant’anni. Racconta che sta lavorando a un nuovo romanzo dove si narra dell’essere nonni e dell’incertezza della memoria; si dice contento per la qualità dello spettacolo tratto dal libro “Il responsabile delle risorse umane” in scena al Teatro Cameri di Tel Aviv. Con un pizzico di orgoglio e molto amore per l’Italia (Paese che adora) dice che a novembre riceverà il premio Antonio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei; occasione per tornare a Roma, magari coi figli e nipoti.
Ma poi, esaurite le questioni personali, preso atto delle soddisfazioni professionali, con il grande scrittore che l’anno scorso ha compiuto gli 80 anni, un intellettuale in prima linea nel dibattito pubblico su Israele e sull’ebraismo, si apre una conversazione sul futuro, appunto dello Stato degli ebrei. Yehoshua è sempre stato netto al riguardo: è solo in Israele che gli ebrei possono vivere una vita normale; perché la normalità contempla un’adesione a una lingua e a un territorio; la Diaspora invece produce nevrosi e smarrimento. Logico quindi che per 50 anni, tanto dura l’occupazione dei Territori, auspicasse la separazione dai palestinesi: due Stati per due popoli, ciascuno secondo le regole di casa propria. Ora ha cambiato idea e sta pensando a un’abitazione in comune. Ma prima di arrivarci partiamo dalla cronaca, da Benjamin Netanyahu, il premier nei guai giudiziari: coinvolto in casi di corruzione su cui indaga la polizia. In questi giorni, Bibi, è questo il nomignolo del leader, in giro per gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania, ha ripetuto che mai le colonie verranno smantellate.
Yehoshua
La gente è d’accordo con lui. Perfino la sinistra non prende più in considerazione lo smantellamento degli insediamenti. Non so se Netanyahu sia amato. Ma so che la gente lo vede come un leader forte che ha portato Israele a successi nell’ambito dell’economia e che dà l’impressione di muoversi bene nel campo internazionale. Israele ha ottimi rapporti con l’India, con la Cina, Trump è amico. E per quanto riguarda la corruzione: voi italiani avete una certa esperienza con Berlusconi. Ogni volta che venivo da voi sentivo dire: ecco i magistrati stanno per inchiodarlo alle sue responsabilità; dovrà dimettersi, ritirarsi dalla politica. Ma poi non si dimetteva ed è sempre in politica. Sarei quindi cauto rispetto a Netanyahu. Aggiungo: non esiste oggi una proposta politica alternativa alla sua. Lo so, sta per citarmi il mantra caro alla sinistra: due Stati per due popoli. E magari mi vuol parlare delle pressioni internazionali. E allora: oggi tutti sono d’accordo nel perpetuare lo status quo. A nessuno interessa trovare una soluzione al conflitto. E non interessa neanche ai palestinesi.
Goldkorn
Viaggiando nei Territori, visitando le città della Cisgiordania (i campi profughi sono un’altra cosa) si ha l’impressione di una certa e strana normalità. C’è un boom edilizio, ci sono startup palestinesi, la vita è tranquilla. Le persone nei caffè dicono che dopo aver sacrificato due generazioni a due intifade, ora si debba pensare a come costruire il Paese; e che è meglio mandare i giovani nelle scuole e nelle Università che a combattere. La capacità imprenditoriale sembra una nuova forma di patriottismo. Per chi è nato in Polonia è immediata l’associazione con la borghesia nascente che nella seconda metà dell’Ottocento, dopo due insurrezioni fallimentari contro la Russia, decise di costruire fabbriche, aprire teatri dell’Opera, investire nelle Università. Il patriottismo del gesto pacifico e quotidiano e che in genere si rivela vincente.
Yehoshua
Il fatto è che i palestinesi ripetutamente hanno rifiutato le varie offerte dei vari premier israeliani; da Rabin a Barak a Olmert. La loro leadership non è mai stata in grado di prendere decisioni difficili. E così oggi gli stessi palestinesi sono consci del fatto che, nel quadro di una ipotetica spartizione della Palestina storica (Israele più Cisgiordania) il massimo che possono ottenere è un territorio frammentato, discontinuo. Ho detto che sono consci, ma talvolta ho invece l’impressione che la leadership palestinese speri in un miracolo, un qualcosa di prepolitico che risolva i problemi. Ma poi, al di là delle mie critiche e della sua narrazione della quotidianità (e vorrei ricordarle che ci sono interi strati della popolazione che soffrono) va detto che la realtà dell’occupazione militare è disgustosa e perversa. E non se ne vede la fine. Il numero dei coloni è in crescita e loro sono sempre più arroganti. Ogni tanto mi viene la voglia di dire ai palestinesi: ma vi rendete conto che più dura l’occupazione e più terra vi viene confiscata, rubata? Mi permetta di aggiungere un altro elemento: i palestinesi cittadini israeliani. Sono quasi due milioni, potrebbero avere 25 deputati sui 120 in Parlamento e cambiare fin dalle fondamenta la stessa struttura della nostra politica. Invece ci sono solo 13 deputati palestinesi che litigano tra di loro. Prendiamo il caso dell’Irlanda ai primi del Novecento: i deputati irlandesi al parlamento di Londra hanno saputo lavorare dentro le istituzioni inglesi per favorire la nascita di una repubblica nel Sud della loro isola. I palestinesi nostri non ne sono capaci e mi dispiace
Goldkorn
Lei sta raccontando due storie. La prima: una certa incapacità dei palestinesi di costruire una leadership che non esprima solo la voglia di riscatto di una nazione, ma che sia in grado di assumersi l’onere di prendere decisioni impopolari. In fondo, Ben Gurion, il fondatore dello Stato d’Israele acconsentendo alla spartizione del Paese nel 1947 rinunciò (e ne fu rimproverato da moltissimi) a un immaginario antico della Terra d’Israele nella sua pienezza, cui si riferiva il movimento sionista, e che era sempre presente nella spiritualità degli ebrei. Lo fece perché gli interessava più lo Stato e la sua legittimità che non appunto l’immaginario. La seconda storia è quella dei coloni che lei da sempre considera avversari, gente pericolosa avvantaggiata però dall’incapacità dei leader palestinesi di uscire dalla situazione delle vittime per assumersi responsabilità vere.
Yehoshua
Al netto delle sue analisi: oggi una soluzione di due Stati non è più possibile. Dobbiamo cambiare il paradigma se non vogliamo diventare una società e uno Stato di apartheid. Mi spiego: nel 2005 siamo fuggiti da Gaza. I palestinesi ci hanno sconfitti. Il nostro esercito aveva perso. E cosa è successo? Ci hanno sparato addosso i razzi. Il precedente di Gaza ha fatto sì che molti israeliani hanno paura di un possibile ritiro dalla Cisgiordania. E questo, ripeto, mentre continua l’espansione degli insediamenti. Ecco, non è più possibile sradicare i coloni. Non c’è oggi un’autorità in grado di costringerli a lasciare le terre che hanno rubato. Ora come ora la situazione (prendendo in considerazione Israele più la Cisgiordania) è complessa. Potrei descriverla così: gli arabi israeliani hanno quasi tutti i diritti; quelli di Gerusalemme Est, qualche diritto, quelli dell’Autorità nazionale palestinese (che controlla il 40 per cento della Cisgiordania) un pezzettino di sovranità. Resta la realtà dell’occupazione militare. Ci sono palestinesi privi di qualunque diritto. Ed è una situazione insopportabile per qualunque persona voglia definirsi un democratico.
Goldkorn
Nella storia del sionismo ci sono stati gruppi e organizzazioni che auspicavano uno Stato binazionale...
Yehoshua
Non mi riferisco a questa storia né alle paure e utopie degli anni Quaranta. Io parlo di oggi. E oggi, da democratico, da persona razionale e illuminista, voglio l’uguaglianza dei palestinesi di fronte alla Legge. Israele deve offrire ai palestinesi della Cisgiordania la cittadinanza; con tutti i vantaggi: dal servizio sanitario al sistema pensionistico. Ma, ripeto: la cosa più importante è l’assoluta uguaglianza davanti alla Legge. Non sono un ingenuo. È probabile che molti non vorranno prendere la cittadinanza israeliana. Molti diranno: accettarla significa approvare l’annessione della Cisgiordania a Israele. Ed è ovvio che io non posso imporre loro la cittadinanza. Ma l’importante è il gesto, l’intenzione: per me voi siete cittadini con pari dignità e uguali. Ed è importante dire un’altra cosa: se per miracolo, un giorno dovesse nascere uno Stato palestinese loro saranno liberi di rinunciare alla cittadinanza israeliana. Quello che io propongo non deve essere percepito come un gesto espansionista. Si tratta di cose delicate e dobbiamo procedere con tatto e rispetto della sensibilità di chi ha vissuto per 50 anni sotto l’occupazione. Aggiungo: non sono un costituzionalista, ma le idee su come fare ci sono. Per esempio, fondare una repubblica presidenziale con due rami di parlamento, l’uno che esprimesse le esigenze di ciascun gruppo nazionale e l’altro come rappresentanza di tutti i cittadini; oppure una serie di Cantoni, o anche una confederazione. Lasciamo lavorare gli esperti e fermiamoci alla constatazione che se un pachistano musulmano può essere sindaco di Londra...
Goldkorn
Sarebbe quindi disposto ad avere un capo dello Stato palestinese?
Yehoshua
Non voglio essere ipocrita: un capo dello Stato arabo palestinese non è all’ordine del giorno. Per ora mi basterebbero ministri del governo. E del resto oggi in Israele ci sono palestinesi giudici (compresa la Corte suprema), magistrati, ambasciatori e via elencando. E credo di aver un alleato, o se vogliamo un simpatizzante del mio progetto. È Reuven Rivlin, l’attuale capo dello Stato. È un amico, un uomo che ha sempre voluto un Grande Israele, visto che viene dalla destra. Ma è una destra liberale che ha sempre auspicato i diritti di cittadinanza ai palestinesi, a tutti i palestinesi. Non entro nelle sue vicende ideologiche. Ma dal punto di vista dei comportamenti politici e personali, lui, prima da presidente del parlamento e ora da capo dello Stato si è sempre battuto per l’assoluto rispetto dei diritti civili dei palestinesi, senza se e senza ma. Ora, il capo dello Stato da noi non ha prerogative direttamente politiche, ma ha un potere etico. E lui lo usa, e bene.
Goldkorn
Rivlin e lei, siete quasi coetanei, siete la quinta generazione di ebrei nati a Gerusalemme. Nelle vostre rispettive famiglie avete la memoria di una vita non senza conflitti e violenze, ma comunque di una convivenza in condizioni di parità con gli arabi. Quindi non ne avete paura. Ecco, c’è un paradosso insito nell’impresa sionista. Il sionismo ha vinto: esiste lo Stato d’Israele, uno Stato forte che ha prodotto una cultura e una letteratura formidabili; dove la scienza è all’avanguardia; l’esercito è potente; l’economia fiorisce, eppure a parlare con gli israeliani della prima o seconda generazione si ha l’impressione che vivano come gli ebrei nella Diaspora. Hanno paura. Il proverbiale ebreo diasporico di successo ha sempre timore di venir cacciato dal salotto buono; trattato da abusivo, riportato allo status di paria. Così, spesso gli israeliani temono che un domani qualcuno li caccerà dalla loro terra...
Yehoshua
Le nostre paure sono fondate. C’è una gran parte del mondo arabo che non riconosce la nostra legittimità. E del resto, guardi come si stanno disfacendo la Siria e l’Iraq. E l'Iran è sempre in mano ai religiosi. Il fatto che abbiamo scienziati e scrittori, musicisti e medici non significa che possiamo dormire sonni tranquilli. Ciò detto, abbiamo un debito nei confronti dei palestinesi. Loro sono figli di questa terra, di questa patria. Qui nel 1917, ai tempi della Dichiarazione Balfour (che ha promesso una Patria in Palestina agli ebrei) c’erano 50 mila ebrei e mezzo milione di arabi. E ai palestinesi è stato detto: vedete, qui ora arriveranno 16 milioni di ebrei da tutto il mondo; fate spazio per favore. Non sono arrivati i 16 milioni e 6 milioni sono morti nella Shoah. Ma il principio è rimasto lo stesso: a un popolo è stato detto di sloggiare per far spazio a un altro popolo. È una situazione che non ha precedenti e a cui non assomiglia nessun altro conflitto al mondo.
Goldkorn
Dovete quindi chiedere scusa?
Yehoshua
L’unico rimedio concreto, non retorico è l’uguaglianza: essere tutti cittadini.
Goldkorn
I palestinesi potranno comprare una casa in una città ebraica d’Israele così come oggi un ebreo può vivere a Hebron?
Yehoshua
Intanto l’ebreo a Hebron vive non perché ha comprato casa, ma perché lo protegge l’esercito. Chiamasi occupazione militare. Ciò detto, certo, chiunque, nel quadro di una struttura che sto raccontando potrà vivere dove gli pare e piace. Ma, ancora una volta; non voglio essere ipocrita. Non ci sarà nessun diritto al ritorno dei profughi, perché quelle case che loro hanno lasciato non ci sono più e perché comunque non sarebbe una soluzione giusta né realistica. Così, come penso, che tutto quello di cui stiamo parlando per ora non può riguardare Gaza. Ma dovremo affrontare la miseria dei profughi all’interno della Cisgiordania; quei campi vanno smantellati, la gente sistemata in condizioni di dignità. Vorrei concludere così: ho paura per la crescita dei sentimenti di odio da ambedue le parti e mi spaventa l’aumento del razzismo tra gli israeliani. Da bambino ho vissuto l’assedio di Gerusalemme da parte della Legione araba. Sono stato per due mesi in un rifugio e ogni giorno morivano decine dei nostri soldati. Ma non odiavamo gli arabi. Oggi invece la gente li odia per due motivi: perché loro sono deboli e perché noi ci sentiamo in colpa. Si odiano i deboli e le vittime, è un meccanismo universale. Lei prima ha citato l’esempio polacco; ecco i polacchi hanno odiato gli ebrei più nel 1945 che non nel 1939. Ovviamente non si può paragonare la Shoah a quello che succede da noi, ma la dinamica dell’odio e della colpa è analoga. E per tornare a noi: l’alternativa è solo questa, apartheid o democrazia, padroni e sottomessi, oppure cittadini pari diritti. Il resto sono chiacchiere.
Il lungo addio di Abraham Yehoshua: «Mi auguro che la morte sia veloce e indolore». “Questo mondo non fa più per me”, diceva negli ultimi tempi. E continuava a scrivere, inventando altri mondi. Quegli universi che lo hanno reso uno dei romanzieri più grandi. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 20 Giugno 2022.
Sia perdonato il tono personale, ma Abraham B. Yehoshua che si è spento poco prima che il sole sorgesse il 14 giugno, qualche volta, a chi veniva a casa sua per intervistarlo, regalava invece affetto e amicizia. Ecco, negli ultimi tempi, Buli, così lo chiamavano coloro che lui considerava amici, quando lo si cercava al telefono diceva immancabilmente: «Vuoi sapere qual è il mio desiderio? Te lo dico. Voglio morire. E la cosa che mi auguro è che sia una morte veloce e indolore». E anche un bellissimo documentario girato pochi mesi fa dal regista Yair Kedar – autore di una serie di film su scrittori e poeti israeliani e israeliane- racconta e testimonia questo: una lunga cerimonia di addio di uno dei più grandi romanzieri della seconda metà del Novecento e dei primi decenni del Terzo Milennio; una lunga cerimonia d’addio da questo mondo e dai lettori. Vi vediamo il protagonista a una serie di incontri pubblici dove tira le somme della sua vita e della sua produzione, per dire: non sono dispiaciuto per me, ma questo mondo non fa più per me.
C’è qualcosa di simbolico, forse una metafora (quando gli parlavo delle metafore che pensavo di scoprire e interpretare nei suoi romanzi lui diventava sospettoso ma pure divertito; qualche volta ammetteva: «Sì, hai indovinato», e si vedeva che dirlo gli costava un certo sforzo ma al contempo gli piaceva), c’è un segno dei tempi dunque, se la scomparsa di Yehoshua coincide con la fine di un mondo come l’abbiamo conosciuto dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale e la ricostruzione dell’Occidente, Israele compreso. E lui, da tenero narratore, da sismografo sensibile dell’universo che abitava, avvertiva questa strana (uno scrittore geniale, ebreo polacco, Bruno Schulz morto ammazzato nel ghetto di Drohobycz, avrebbe detto “mostruosa”) coincidenza. E forse più che dispiaciuto di questa coincidenza, appunto, ne era incuriosito.
Negli ultimi tempi, a partire dalla pandemia, ma forse da poco prima, le conversazioni cominciavano con la confessione di vivere un lutto, oltre che di essere malato. Certo, per la moglie Rivka, che lui chiamava Ika, e che era l’amore della sua vita. Un giorno mi disse (al presente, Ika era ancora in vita): «Lei da psicanalista sostiene che io scrivo romanzi per avere il controllo assoluto della situazione». In altre parole: la moglie gli spiegò il suo desiderio di essere una specie di deus ex machina, un dio che governa le vite altrui, sebbene immaginarie. Succede a tanti scrittori ma pochi sono capaci di prenderne coscienza e di confessarlo con serenità. E allora, c’era il dolore per la scomparsa di Ika nel 2016 (sublimato nel romanzo “Il tunnel”, a mio avviso metafora del rapporto fra loro due). E poi continuava: «Mi manca Amos». Amos, era ovviamente Amos Oz, scomparso nel dicembre 2018. C’è stato un miracolo in Terra Santa. I tre grandi scrittori: Yehoshua, Oz e David Grossman non solo non sono (non sono stati, bisognerebbe dirlo) rivali ma anzi sono stati legati da rapporti di amicizia, altruismo, solidarietà. E allora, una volta a settimana Oz faceva una lunga passeggiata con Yehoshua e di cosa parlassero possiamo solo fare supposizioni. L’elenco continuava con Yirimiahu Yovel, un filosofo importante, grande esperto di Baruch Spinoza, eretico espulso e maledetto dalla comunità ebraica di Amsterdam e senza cui il pensiero moderno non esisterebbe, e forse il pensiero di Yehoshua non sarebbe stato lo stesso.
E possiamo continuare con Yehoshua Kenaz, romanziere sublime ma fermiamoci qui. Fermiamoci, perché dopo quell’elenco Buli spiegava quanto la pandemia ponesse la questione del nostro rapporto con le tecnologie e con il futuro (non entrava nei dettagli, li dava per scontati); seguivano considerazioni sulla mancanza di una solida prospettiva di pace con i palestinesi, della deriva a destra della società israeliana e sulla guerra in Ucraina. Un giorno gli chiesi: ma stai scrivendo? Lui alzò la voce: «Ma che ti importa se io scriva? Ho scritto abbastanza nella vita, posso anche smettere». Seguì un lungo silenzio e poi: «Sì, sto scrivendo. Ciao». E allora, in mezzo alla fine di un mondo, lui ha continuato a immaginare un altro mondo. In fondo, diceva, questo era il compito dello scrittore: immaginare altri mondi. E ci ha regalato un breve romanzo, «una novella» precisava, “La figlia unica”, ambientato in Italia e diceva di essere contento che da quel testo verrà tratta una serie tv. E poi ha lavorato a un altro testo: “Il terzo tempio”.
Ora che se n’è andato e non si può più dirgli: guarda che qui abbiamo bisogno di te, per avere in cambio il regalo di un suo sorriso, restano - oltre all’affetto - alcuni ricordi fondamentali. Per esempio, questo, di una conversazione: «C’è qualcosa di terribile riguardante Auschwitz. I tedeschi hanno detto agli ebrei: voi dite che siete un popolo senza patria? Allora vi portiamo ad Auschwitz, perché quel luogo è una non patria, un luogo che non è luogo».
Ecco, Yehoshua era ossessionato dalla questione dell’identità ebraica e israeliana. E lodava la normalità. La normalità degli ebrei significava territorio, sovranità, lingua ebraica. Per lui, l’alternativa alla patria era davvero la morte. Questo mi disse, una volta, ma poi l’ha ripetuto più volte, dopo una sua visita ad Auschwitz.
Tuttavia, la Terra d’Israele era anche la patria di un altro popolo, dei palestinesi. Su come arrivare a un accordo di pace ha cambiato più volte idea. Ma era capace di dirlo, di ammetterlo con onestà: «Sì, ho cambiato idea». Negli ultimi anni non credeva più nella formula dell’amico Oz di due Stati per due popoli, di un divorzio consensuale, insomma; pensava invece a una specie di Stato binazionale, un’utopia, dettata paradossalmente dal senso di realismo (non è possibile smantellare le colonie ebraiche in Cisgiordania). E ancora: laico, si lamentava dell’eccessivo ruolo della religione nella vita dello Stato, auspicava una definizione dell’identità ebraica che separasse l’appartenenza alla nazione da quella alla fede. E, soprattutto, era nemico della nostalgia: parlava di eccesso di memoria, criticava lo sguardo rivolto all’indietro, verso le presunte glorie della vita ebraica negli shtetl della Polonia e Ucraina o dei quartieri ebraici in Marocco, e del culto dei rabbini taumaturghi. Amava sottolineare di essere «la quinta generazione di ebrei nati a Gerusalemme», andava fiero di suo padre Yaakov esponente della comunità sefardita della città, con tenerezza parlava della madre Malka Rosilio, nata in Marocco in una famiglia importante, e che mai ha imparato bene la lingua, l’ebraico, di cui suo figlio era maestro assoluto. Soprattutto, rimangono i suoi libri, i mondi che inventava e reinventava, l’attenzione - degna di un Balzac e di un Manzoni - al dettaglio, la capacità, simile a quella di Camus, di raccontare la luce del Mediterraneo. Quinta generazione a Gerusalemme, Yehoshua era un uomo del Mediterraneo, appunto. E l’Italia la considerava una seconda patria. Ma questa è un’altra storia.
La scomparsa dello scrittore israeliano. Abraham Yehoshua, lo scrittore che voleva fare l’avvocato morto senza il meritato Nobel. Francesco Longo su Il Riformista il 15 Giugno 2022.
Abraham Yehoshua, morto ieri a Tel Aviv a ottantacinque anni, arriva al romanzo tardi, ma appena pubblica il suo primo libro, L’amante (1977), è subito evidente che la sua scrittura è gravida di novità. Basta il solo l’incipit per capire l’ampiezza di sguardo delle sue pagine e di cosa tratterà tutta la sua letteratura: “… e noi nell’ultima guerra abbiamo perso un amante”. Guerra e innamoramenti, dimensione pubblica e questioni private, tutto il suo immaginario è contenuto in quella prima manciata di parole. Nato a Gerusalemme, lettore di scrittori israeliani, russi, americani, con una menzione speciale per Toni Morrison, italiani, europei, con un debole per Kafka, i suoi due autori di riferimento sono Shmuel Yosef Agnon e William Faulkner. Tanto da considerare L’urlo e il furore di Faulkner il libro più importante del Novecento: “Senza i suoi libri non avrei potuto scrivere né Il signor Mani, né Un divorzio tardivo, né L’amante”, dirà.
Insieme ad Amos Oz – morto nel 2018 – e a David Grossman, ha reso la letteratura israeliana un faro, per capire la loro forza basterebbe osservare i frutti del loro lavoro, leggere gli scrittori considerati gli eredi, come Eshkol Nevo, attualmente tra i più importanti autori israeliani e mondiali. Yehoshua è stato capace di rinnovare la forma romanzo pur convinto che tutte le strade delle sperimentazioni fossero già state percorse. Nei suoi libri indimenticabili, L’amante (1977), Un divorzio tardivo (1982), Cinque stagioni (1987), Il signor Mani (1990), Viaggio alla fine del millennio (1997) c’è sempre un elemento di invenzione che riguarda la struttura del libro: la scomposizione del punto di vista in più voci narranti, dialoghi di cui il lettore ascolta una sola voce, romanzi senza dialoghi in cui è tutto riportato in un indiretto libero.
“La letteratura, con la sua potenza e suggestività retorica, riesce ad allargare gli orizzonti del nostro universo morale sino a limiti che non avremmo mai potuto immaginare”, scriveva Yehosua in un saggio del 2000 intitolato Il potere terribile di una piccola colpa. Universo morale, dilemmi etici, scrupoli della coscienza, ricerca della verità, rabbini che intervengono per decretare la validità di valori e la legittimità delle azioni sono presenti in tutti i romanzi di Yehoshua, sarà che da giovane voleva fare l’avvocato e i suoi personaggi si arrovellano sempre su cosa è giusto fare e cosa no. La recente storia di Israele, i conflitti, le intifade, i rapporti con gli arabi, sono sempre incarnati in personaggi e diluiti in trame che durante la lettura rivelano improvvisamente altri livelli, risvolti metaforici, piani allegorici. Non c’è stato momento politico delicato o burrascoso degli ultimi decenni in cui Yehoshua non sia intervenuto impegnandosi per risolvere il conflitto con i palestinesi, per molti anni ha sostenuto il ritiro unilaterale degli insediamenti illegali nei territori, e non si contano le volte, negli ultimi anni, in cui si è mostrato deluso e sfiancato davanti a soluzioni pacifiche sempre più lontane.
Sorridente, viaggiatore, professore di Letterature comparate all’università di Haifa (nel romanzo La sposa liberata il protagonista va a un convegno su Edward Said), figlio di un orientalista autore di dodici libri su Gerusalemme, sposato con una psicoanalista, è stato adorato in Italia anche dal mondo del cinema. Sono tutti belli i libri di Yehoshua, diceva Nanni Moretti nel film Aprile, ed è di Roberto Faenza il film girato nel 1999 L’amante perduto, tratto dal libro. In Italia i suoi libri, tutti pubblicati da Einaudi, hanno trovato l’ammirazione del pubblico e un consenso dei critici. Proprio in Italia è ambientato La figlia unica del 2021, “Yehoshua è pure un uomo innamorato dell’Italia. La considera una seconda patria”, scriveva allora Wlodek Goldkorn. Un amore quindi ricambiato.
Al centro di tutta la sua letteratura restano L’amante e Il signor Mani. Comincia a scrivere L’amante dopo la guerra del Kippur. Il libro è invaso da una luce tiepida, rarefatta, assonnata, i sogni rivelano desideri e paure, le notti insonni rivelano altrettante angosce e speranze, le donne dei libri di Yehoshua si aggirano spesso scalze e spettinate, che siano nottambuli o che dormano tanto, di notte tutti aspettano rivelazioni. L’idea dell’Amante, vagamente pirandellinana, è che qualcuno possa approfittare di una guerra per sparire. Lo compone a partire dal monologo finale, poi scrive il celebre incipit e alla fine tutta la storia così come la si legge. Mentre lavora al Signor Mani invece, dedicato alla memoria del padre (“cittadino di Gerusalemme e studioso del suo passato”), si interrompe, per scrivere Cinque stagioni. Poi fortunatamente lo riprende. Risultato: “Penso che Il signor Mani sia il mio miglior lavoro e che non riuscirò mai più a eguagliarlo”, racconterà in un’intervista a Francesca Borrelli.
Nel 1997 pubblica Viaggio alla fine del millennio, un viaggio per mare nel cuore del medioevo, da Tangeri a Parigi, in cui si deve stabilire la legittimità della bigamia: “Col passare degli anni sempre più credo che la letteratura debba affrontare in modo diretto le questioni morali” disse. Dopo questa favola diversa da tutti i libri precedenti, non tutti i nuovi romanzi saranno dei capolavori. Però le sue pagine hanno sempre contenuto una grazia e una profondità di analisi dell’essere umano assai rara. Si incontrano matrimoni rotti e matrimoni sorretti da silenzi, gelosia, suicidi, elaborazione di lutti, piccoli scandali, i protagonisti provano sentimenti oggi spesso assenti nella letteratura: pietà, vergogna, amarezza, senso di colpa e non manca mai la dimensione religiosa, spirituale, rapporti tra ebrei e cattolici, tra ebrei e musulmani, tra sefarditi e ashkenaziti. Ogni cosa nelle sue pagine appare palpitare, come se anche gli oggetti sotto al suo sguardo rivelassero un’anima. Ecco la famosa automobile, la vecchissima Morris celeste in arrivo nel garage di un personaggio dell’Amante: “Scivola lentamente nel garage senza guidatore. Senza far rumore, come un’apparizione soprannaturale”. Per anni si è parlato di un premio Nobel per Yehoshua. L’unico riconoscimento che gli manca, e gli spettava. Francesco Longo
· È morto l’attore Philip Baker Hall.
Morto Philip Baker Hall, attore di «Magnolia» e «The Truman Show». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 14 Giugno 2022.
Caratterista apprezzato dai più grandi registi, aveva fatto il traduttore dell'esercito Usa in Germania e l'insegnante prima di dedicarsi alla recitazione, all'età di 40 anni.
Philip Baker Hall, attore caratterista noto per i suoi ruoli in film come «Boogie Nights» e «Magnolia» e sit-com come «Seinfeld» e «Modern Family», è morto domenica 12 giugno. Aveva 90 anni. La famiglia ha confermato la notizia con una d ichiarazione: «Il nostro amato Philip è morto tranquillamente a casa sua a Glendale, in California, circondato dall'amore della sua famiglia».
Nato a Toledo, Ohio, il 10 settembre 1931, Hall inizia la sua carriera come traduttore dell'esercito degli Stati Uniti in Germania e insegnante di scuola superiore, prima di dedicarsi alla recitazione all'età di 40 anni. Da allora non si è più fermato, prendendo parte a serie televisive come «Mash», «Una famiglia americana», «Dream On!», «Quincy», «Seinfeld», «Miami Vice», «La signora in giallo», «West Wing», «Modern Family», fino alla sua ultima partecipazione, nel 2020, a «Messiah». Ma Baker Hill è riconoscibile anche per i suoi ruoli cinematografici: Paul Thomas Anderson lo ha voluto protagonista nel suo debutto nel lungometraggio, «Sydney». Poi in «Boogie Nights» e «Magnolia», dove l'attore offre una delle sue più famose interpretazioni, quella del conduttore televisivo Jimmy Gator, tormentato dall'alcol, da un passato torbido e dall'imminente morte per cancro.
Amato e stimato dai più grandi registi, Baker Hall è stato Richard Nixon in una pièce teatrale per Robert Altman, che lo ha diretto anche nell'adattamento cinematografico, «Secret Honor». Tra i cineasti che lo hanno apprezzato, anche Peter Weir che lo ha voluto in «The Truman Show», Lars Von Trier che gli ha affidato un ruolo importante in «Dogville», mentre Gus Van Sant lo ha diretto in «Psycho», Michael Mann in «Insider - Dietro la verità», William Friedkin in «Regole d'onore», David Fincher in «Zodiac», Anthony Minghella in «Il talento di Mr. Ripley». Nel 2017 è apparso nei suoi due ultimi film, «Person to Person» e «Un'adorabile nemica».
· È morto il produttore musicale Piero Sugar.
È morto il produttore musicale Piero Sugar, marito di Caterina Caselli. La Stampa il 12 giugno 2022.
È morto stanotte nella sua casa di Milano Piero Sugar, editore e produttore musicale, marito di Caterina Caselli. Classe 1937, era figlio di Ladislao Sugar, noto per aver fondato le Messaggerie Musicali e gestito la CGD. Entrato nell'azienda paterna a fine anni Sessanta, Piero ne è diventato in seguito amministratore delegato, guidandola con successo. I funerali si svolgeranno domani pomeriggio nella chiesa di San Marco a Milano, in forma privata, per decisione della famiglia che in queste ore ha scelto il più stretto riserbo. Piero Sugar e Caterina Caselli si sono conosciuti molto giovani e si sono sposati nel 1970, quando lei aveva 24 anni. L'anno successivo è nato il figlio Filippo. Nel 1989 Caterina Caselli Sugar ha fondato la Insieme-Sugar, poi Sugar. Attualmente, a capo della società c'è Filippo, che è stato anche presidente della Siae dal 2015 al 2018. Tra gli artisti della scuderia, Andrea Bocelli, Malika Ayane, i Negramaro, Raphael Gualazzi, Madame, Motta, Sangiovanni. «Con Piero Sugar il mondo dello spettacolo italiano perde un grande protagonista: un editore musicale e produttore discografico che in tutta la sua lunga carriera ha saputo anticipare i tempi, sperimentare e scommettere su nuovi talenti. In questa triste giornata mi stringo al dolore della moglie Caterina Caselli, del figlio Filippo e dei tanti amici e colleghi che lo hanno accompagnato nella sua vita», dice il ministro della Cultura, Dario Franceschini.
Chiara Maffioletti per corriere.it il 12 giugno 2022.
È morto nella notte il produttore musicale e editore Piero Sugar, marito di Caterina Caselli: i due si erano conosciuti molto giovani e si sono sposati nel 1970, quando lei aveva 24 anni. L’anno successivo è nato il figlio Filippo, oggi a capo dell’azienda di famiglia. La coppia è sempre stata molto unita e Nel 1989 Caterina Caselli Sugar ha fondato la “Insieme-Sugar”…
Il produttore musicale e editore Piero Sugar, marito di Caterina Caselli è morto nella notte del 12 giugno nella sua casa di Milano. Nato nel 1937, era figlio di Ladislao Sugar, noto per aver fondato le Messaggerie Musicali e gestito la CGD. Entrato nell’azienda paterna a fine anni Sessanta, Piero ne era diventato amministratore delegato, guidandola con grande successo. I funerali si svolgeranno il 13 giugno, nel pomeriggio nella chiesa di San Marco a Milano, in forma privata, per decisione della famiglia che in queste ore ha scelto il più stretto riserbo.
Il matrimonio
Piero Sugar e Caterina Caselli si sono conosciuti molto giovani e si sono sposati nel 1970, quando lei aveva 24 anni. L’anno successivo è nato il figlio Filippo, oggi a capo dell’azienda di famiglia. La coppia è sempre stata molto unita. Nel 1989 Caterina Caselli Sugar ha fondato la Insieme-Sugar, poi Sugar. Filippo Sugar è stato anche presidente della Siae dal 2015 al 2018. Tra gli artisti della scuderia ci sono Andrea Bocelli, Malika Ayane, i Negramaro, Raphael Gualazzi, Madame, Motta e Sangiovanni.
È morto il produttore musicale Piero Sugar, marito di Caterina Caselli. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 12 giugno 2022.
L’editore era il figlio del fondatore delle Messaggerie Musicali. Con la cantante, diventata presto sua moglie, hanno avuto un figlio, Filippo, oggi a capo dell’azienda.
Il produttore musicale e editore Piero Sugar, marito di Caterina Caselli è morto nella notte del 12 giugno nella sua casa di Milano. Nato nel 1937, era figlio di Ladislao Sugar, noto per aver fondato le Messaggerie Musicali e gestito la CGD. Entrato nell’azienda paterna a fine anni Sessanta, Piero ne era diventato amministratore delegato, guidandola con grande successo. I funerali si svolgeranno il 13 giugno, nel pomeriggio nella chiesa di San Marco a Milano, in forma privata, per decisione della famiglia che in queste ore ha scelto il più stretto riserbo. Riserbo che, da sempre, caratterizzava l’imprenditore, capace di plasmare con il suo intuito il mondo della musica ma tenendosi sempre a distanza dai riflettori. Nemmeno il suo matrimonio all’epoca così mediatico aveva indotto in tentazione questo galantuomo dello spettacolo, per niente affascinato dalla fama o dalla ribalta.
Il matrimonio
Doti che hanno subito conquistato Caselli, scoperta da quello che poi sarebbe diventato suo suocero. Era stato Ladislao Sugar a notare la cantante al Piper di Roma, nel 1965, e a farle incidere l’anno dopo la hit «Nessuno mi può giudicare». Piero Sugar e Caterina Caselli si sono dunque conosciuti molto giovani e si sono sposati nel 1970, quando lei aveva 24 anni. L’anno successivo è nato il figlio Filippo, oggi a capo dell’azienda di famiglia. La coppia è sempre stata molto unita, dando vita a un sodalizio anche lavorativo. Nel 1989 Caterina Caselli Sugar ha fondato la Insieme-Sugar, poi Sugar. Filippo Sugar è stato anche presidente della Siae dal 2015 al 2018. Tra gli artisti della scuderia ci sono Andrea Bocelli, Malika Ayane, i Negramaro, Raphael Gualazzi, Madame, Motta e Sangiovanni. Tra i tanti ricordi pubblici, anche quello del ministro della cultura Dario Franceschini, che ha fatto sapere: «Con Piero Sugar il mondo dello spettacolo italiano perde un grande protagonista: un editore musicale e produttore discografico che in tutta la sua lunga carriera ha saputo anticipare i tempi, sperimentare e scommettere su nuovi talenti. In questa triste giornata mi stringo al dolore della moglie Caterina Caselli, del figlio Filippo e dei tanti amici e colleghi che lo hanno accompagnato nella sua vita».
I messaggi degli artisti
Molti messaggi anche da parte degli artisti. «Sincere condoglianze a Caterina Caselli ed al figlio Filippo per la perdita del marito e padre Piero Sugar», ha scritto sui social Tonino Cripezzi, il cantante e tastierista dei Camaleonti. Mentre Mario Lavezzi ha detto: «Oggi è arrivata la triste notizia che Piero Sugar ci ha lasciato. È stato per molti anni, insieme a Caterina Caselli, editore e discografico di molti miei successi ed anche un amico. È per me un profondo dolore. Ciao Piero».
Mario Luzzatto Fegiz per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2022.
È morto l'altra sera, a Milano, Piero Sugar.
Era figlio di un grande editore, Ladislao Sugar, ungherese naturalizzato italiano, e di Marta Soleri. Il padre, dopo aver fondato Messaggerie Musicali e aver gestito la CGD, aveva dato vita alla casa discografica Sugar. Ladislao era un uomo di grande classe, proprietario di decine di canzoni e musiche note nell'intero Pianeta. Che non disdegnava le luci della ribalta. Il suo impero editoriale comprendeva classici come Petrassi o Berio, ma anche canzoni leggere e musical.
Piero Sugar, invece, aveva un carattere molto diverso dal padre. Nato nel 1937, non sembrava assolutamente interessato al mondo discografico, però aveva molta cura nel tenere i rapporti con gli artisti e nella scelta di collaboratori fra cui figurano nomi come Alfredo Cerruti e Franco Crepax.
Ma il richiamo dell'arte evidentemente lavorava dentro di lui: tanto che nel 1970 sposa un'artista come Caterina Caselli, conosciuta al Piper di Roma. Un personaggio spumeggiante e anticonformista, cantante in rapida scesa, scoperta ancora una volta dal padre. Piero però non si presta a copertine o interviste. Riservato non si concede alla stampa e nemmeno ai fotografi. In azienda conquista però rapidamente fiducia e popolarità.
La Sugar con lui si stacca dalla multinazionale CBS e diventa una azienda tutta familiare.
Un anno dopo le nozze nasce il figlio della coppia, Filippo (anche lui, gradualmente, entrerà nell'azienda). Dopo alcuni anni Caterina Caselli sceglie di allontanarsi a sua volta delle scene e fondare l'etichetta discografica Ascolto, scoprendo molti artisti fra cui Pierangelo Bertoli.
Il passaggio di Caterina da cantante a produttrice discografica solleva critiche e malumori, ma Piero continua ad appoggiarla, marito affettuoso e padre molto presente.
Anche il figlio diventa così parte del loro sodalizio: studente universitario modello, da poco laureato cura il rilancio dei negozi Messaggerie Musicali che verranno poi ceduti a condizioni molto interessanti.
Le decisioni importanti, nel gruppo, da decenni venivano prese da questa affascinante trinità composta da padre, madre e figlio. Nelle riunioni Caterina era esuberante e propositiva. Piero e Filippo spesso ascoltavano in silenzio, scambiandosi occhiate mute nelle quali però si leggevano bene stupore, orgoglio e vero amore.
Era un grand'uomo Piero, defilato, riservato, discografico per caso, scampato per una serie di colpi di fortuna a un sequestro nei pressi dello stabilimento di via Quintiliano a Milano. Come raccontato anche nel film documentario «Caterina Caselli - Una vita, cento vite». Con lui scompare uno dei massimi imprenditori della musica italiana «a capo di una azienda che quest' anno compie 90 anni», come ha sottolineato il figlio Filippo. I funerali si svolgono oggi, alle 14.45, nella chiesa di San Marco a Milano, in forma privata, per decisione della famiglia che in queste ore ha scelto il più stretto riserbo.
«Con Piero Sugar il mondo dello spettacolo italiano perde un grande protagonista: un editore musicale e produttore discografico che in tutta la sua lunga carriera ha saputo anticipare i tempi, sperimentare e scommettere su nuovi talenti», ha ricordato il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Tra le testimonianze di cordoglio anche quella di Mario Lavezzi, che sui social ha scritto: «Oggi è arrivata la triste notizia che Piero Sugar ci ha lasciato. È stato per molti anni, insieme a Caterina Caselli, editore e discografico di molti mie successi e anche un amico». Parole a cui si sono unite quelle di Tonino Cripezzi, cantante e tastierista dei Camaleonti: «Sincere condoglianze a Caterina Caselli e al figlio Filippo per la perdita del marito e padre Piero».
· E’ morta la cantante Julee Cruise.
Marco Giusti per Dagospia l'11 giugno 2022.
E’ stata la voce angelica di “Blue Velvet” e di “Twin Peaks”, l’unica in grado di cantare “Mysteries of Love” o “Falling” o “Into the Night” o “The World Spins”. Se ne va a 65 anni la meravigliosa Julee Cruise, la voce chiara del cinema scuro, scurissimo, di David Lynch, ricorrente nel suo cinema dal 1986. Bionda, eterea, sofisticatissima, sia che la vedessimo in scena, sempre nel ruolo della cantante, sia che la sentissimo, alle prese con la musica di Angelo Badalamenti, contribuiva alla costruzione del fascino di quel tipo di cinema che ancora oggi troviamo insuperabile.
E che è difficile ricordare senza la sua voce. Nata nel 1956 a Creston, nell’Iowa, inizia a cantare a 11 anni. Si diploma all’Università di Drake specializzandosi nel Corno Francese. Compare in quattro piccoli film televisivi fantastici prima di farsi notare da Angelo Badalamenti e da David Lynch. In “Blue Velvet” canta “Mysteries of Love”, ma esplode davvero solo in “Twin Peaks”, la serie, 1989-90, con le sue interpretazioni delle canzoni scritte da Lynch sulla musica di Badalamenti, “Falling”, “The Nightigale”, “Into the Night”.
Lynch e Badalamenti costruiscono per la sua voce una sorta di sinfonia, “industrial Symphony No 1: The Dream of the Brokenhearted” nel 1990. Ritornerà a più riprese seguendo le evoluzioni di “Twin Peaks”, cioè il film “Fuoco cammina con me” e la serie “Twin Peaks: Il ritorno”, dove torna a cantare per Lynch. Troviamo la sua voce anche in altri film, come “Fino alla fine del mondo” di Wim Wenders, dove canta “Summer Wishes, Winter Tears”. Pubblica quattro album con le sue canzoni dal 1989 al 2011. Ma non è mai diventata una star, solo una grande cantante di culto. Tanto da collaborare negli anni con gli artisti più diversi, da DJ Dmitry e le band Hybrid e Delerium.
Ha dato notizia della sua morte sulla pagina facebook della band B-52, dove Julee aveva cantato tra il 1992 e il 1995, il marito, il giornalista Edward Grinnan, che le è sempre stato vicino. “La sua voce angelica ci trasportava tutto in un’altra dimensione”, ha scritto oggi Kyle McLachlan, “Adesso, lei sta fluttuando fra gli angeli. Mandando amore alla sua famiglia, agli amici e ai fan”. Il commento che ha fatto invece il suo regista, un commosso David Lynch, sembrava provenire direttamente dal mondo di Twin Peaks.
· E’ morta la pittrice Paula Rego.
Rachele Ferrario per Dagospia il 9 giugno 2022.
Lo spaventapasseri è una tra le opere più irriverenti che Paula Rego abbia dipinto: una donna crocefissa sulla collina del Golgota, le mani guantate di bianco che le penzolano dalla croce, al posto del volto il teschio di una mucca; in basso alla croce la testa di un maiale e tutt’intorno un grillo parlante femmina, la morte vestita da contadina con un cappello lezioso e la falce scura. Di fianco una donna sogna.
Paula Rego ci sta raccontando il suo incubo visionario. “Disegnare è un’attività erotica. Lo fai con la tua mano. È la stessa sensazione di essere posseduti dal desiderio”, ha dichiarato. Ed era anche uno dei modi per essere libera in un mondo che alle donne imponeva compiti o ruoli prestabiliti: la cura della casa, del marito, dei vecchi, la donna ballerina che Paula Rego ha rappresentato come Struzze ballerine.
S’è ritratta davanti allo specchio con una maschera da scimmia, ironica e disarmante. Il suo studio sembra quello dei grandi maestri che assemblano maquettes che servono alla costruzione delle immagini. Paula Rego ha vissuto in un mondo in cui la scenografia era ancora costruita e non guardata attraverso lo schermo.
Nella tela in cui s’è ritratta nel suo studio ha il candore e la potenza dei pittori naif: ieratica come una madonna (ricorda alcuni dipinti messicani) gli abiti folcloristici rosso e viola, stivaloni neri. Alle spalle calchi in gesso; di fianco a se stessa ha dipinto una donna con una zappa e una mantide, l’animale che dopo l’accoppiamento ammazza il compagno. C’è la fiaba e c’è il mondo reale.
Il contatto con lo spettatore, far capire ciò che dipingeva. Questo era importante per lei perché “se il pubblico capisce il tuo lavoro, allora capisce molto bene anche te”, ha detto nel film che ha girato con suo figlio. Delle immagini era innamorata come solo gli artisti sanno esserlo. Non a caso era amica di David Hockney, tra i migliori ritrattisti contemporanei e sperimentatori di nuove tecniche.
Nata in Portogallo nel 1935, ma inglese d’adozione, Paula Rego a quattro anni già voleva dipingere, a otto si sentiva artista e a diciassette era allieva nello studio di Lucien Freud da cui ha ereditato la maestria nella pittura la sensualità cui lei ha aggiunto la capacità di dipingere figure al limite del caricaturale; i suoi interni, le donne, i bambini gli uomini fantocci nelle loro mani non provocano, inquietano.
Il potere delle immagini Rego l’ha imparato da bambina, nella solitudine dell’infanzia vissuta da figlia unica con la nonna e una zia in Portogallo, lontano dai suoi genitori. Le fiabe, i fairytales, erano il suo mondo, non così distante dalla realtà degli adulti. Da grande Paula ha dipinto tele dedicate a Pinocchio o a Biancaneve. Evocano abusi, giochi psicologici e le ferree regole delle convenzioni.
Pinocchio è un bimbo nudo di spalle, coi pugnetti chiusi dietro la schiena; sta davanti alla fata autoritaria, che di fiabesco ha solo la coroncina e la bacchetta magica. Biancaneve invece di essere la più bella del mondo è un uomo bambino, grottesco nella sua sottomissione davanti a una donna che gli sta togliendo enormi mutande da bambina.
Dipinti in cui si mischiano registri stilistici diversi, dalla satira di Goya al fumetto di Walt Disney. L’infanzia è rappresentata come paura, istinti violenti, affetti ambigui, cui non è estranea la mancanza di libertà in un paese come il Portogallo ai tempi della dittatura di Salazar.
Paula Rego sapeva davvero raccontare storie, non tanto le sue, o non solo le sue. Sapeva essere incisiva nel farlo tanto che il Financial Times l’ha riconosciuta tra le voci più influenti della contemporaneità, mentre la sua mostra alla Tate Modern ha fatto conoscere anche al vasto pubblico le sue donne accovacciate per terra che si comportano come cani, “Dogwomen” (1990) e quelle sdraiate che si contorcono dai crampi, dal rimorso e dalla vergogna per un aborto clandestino contro il quale lei si è battuta a lungo dopo che il referendum per la legalizzazione in Portogallo era stato disertato: Rego pensava che l’aborto fosse anche una questione maschile: “Non restiamo incinte da sole, o no?”.
Il suo sguardo sulla condizione femminile o sulle situazioni di disagio familiare, però, non è mai morale, semmai politico, dissacrante, volutamente eccessivo proprio come le grandi opere e il “retablo” ora in mostra alla Biennale di Venezia, una parodia quasi teatrale. Questo ha fatto Paula Rego fino alla sua morte a 87 anni.
Ha privilegiato alla propria le storie dell’universo femminile, fino a diventare una voce autorevole nelle battaglie a favore di ogni individuo.
· E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.
Rosalba Emiliozzi Paolo Martocchia per “il Messaggero” il 6 giugno 2022.
Addio al re della liquirizia. È morto Pietro Barabaschi, 88 anni, che con i suoi due fratelli, aveva preso le redini della Saila, la fabbrica di Silvi Marina diventata famosa per la produzione e la vendita di tronchetti di liquirizia purissima e mentine.
Per il centro abruzzese è quasi la fine di un'epoca, quella della Silvi sulla bocca di tutti, in tutti i sensi.
Fondata nel 1937 dal padre Angelo, la Saila ha creato decine di posti di lavoro.
«Pensi che in fabbrica ci lavorò anche mia nonna - dice il sindaco di Silvi, Andrea Scordella - Pietro e i suoi fratelli avevano proseguito l'attività fondata dal padre Angelo e con i loro prodotti, entrati nelle case di tutti, hanno fatto conoscere la città di Silvi a livello nazionale e poi nel mondo». È proprio così, se dici Silvi dici Saila, tanto è il legame tra territorio e azienda. «E anche se oggi è passata di proprietà, diventando tedesca - aggiunge il primo cittadino - la sede è ancora a Silvi, in via Garibaldi dove lavorano circa 35 operai e gli amministrativi».
I PRODOTTI L'industriale Pietro Barabaschi, l'ultimo dei fratelli ancora in vita, con le sue capacità di manager innovativo aveva fatto sviluppare sempre più la Saila - acronimo di Società Anonima Italiana Liquirizia Abruzzese - che divenne in poco tempo azienda leader nella produzione di liquirizia e della favolosa mentina. Pietro Barabaschi è stato anche presidente di Confindustria Teramo dall'85 al 90, e d'Abruzzo fino 94. Si candidò, poi, a sindaco di Silvi e perse per una manciata di voti.
«Una grande persona» dicono in paese dove tutti sanno cosa è stato e cosa ha fatto alla sua città. «Generoso, sempre attento alle dinamiche di sviluppo della città, uomo dalla grande umanità, amico di tutti», è il ritratto che viene dalla sua Silvi. Barabaschi ha segnato profondamente il tessuto socio economico cittadino con le sue innate doti di dirigente e imprenditore. Da quando il papà Angelo trasformò il vecchio Kursaal in Saila, la fabbrica ha fatto passi da gigante conquistando l'Europa. Da quell'epoca i segreti della produzione Saila vennero tramandati dal padre ai figli Pietro, Emilio e Gianni, di generazione in generazione.
Bastoncini, caramelle, tronchetti a km zero. «Le colline di Silvi e di Atri sono piene di radici di liquirizia ancora oggi» dice il sindaco. I tre fratelli continuarono la loro opera fino a portare all'apice la produzione e la vendita dei prodotti, come l'Orsetto Saila. Ancora oggi il marchio Saila è patrimonio della storia industriale italiana. E nel tempo ha contribuito al processo di crescita della cittadina in provincia di Teramo, dando lavoro ai suoi residenti e portando lustro.
Per mezzo secolo ha rappresentato l'unica industria locale capace di garantire lavoro a una moltitudine di persone con il suo storico brand della confetteria italiana, diventato nel tempo inconfondibile. Pietro Barabaschi lascia tre figli Monica, Angelo e Perla. I funerali sono oggi alle 11, nella chiesa di Santa Maria Assunta di Silvi.
· E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.
Gianni Clerici è morto, addio al giornalista e scrittore: aveva 91 anni. Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.
Una vita dedicata al tennis, che aveva anche raccontato in tv assieme a Rino Tommasi: a luglio avrebbe compiuto 92 anni.
Si è chiuso la porta alle spalle infilandosi tra i suoi grandi amori, il Roland Garros e Wimbledon, in punta di piedi come per non disturbare l’impresa mostruosa di Rafa Nadal, vincitore domenica a Parigi del 14esimo titolo, e la prossima di chi alzerà la coppa sull’erba di Church Road. Se n’è andato Gianni Clerici , il campione della bella prosa, l’aedo dei gesti bianchi, lo scriba capace in un diluvio di parole forbite di non lasciarsi mai sfuggire lo spunto tecnico, la pennellata felice che ti aiutava a capire perché Boris Becker aveva vinto Wimbledon a 17 anni e Andre Agassi perso per l’ennesima volta da Pete Sampras, avendo lui stesso giocato a tennis (anche nel giardino dell’All England Club, «immeritatamente» come diceva Gianni: correva il 1953) e bene.
Una partecipazione a Wimbledon
È morto a Bellagio, sul lago di Como, quarantotto giorni prima del 92esimo compleanno (i numeri gli piacevano fino a un certo punto ma se erano funzionali alla narrazione venivano piegati con maestria alle esigenze delle storie), ex tennista, giornalista (penna storica di Repubblica insieme agli altri due enormi Giuan, Brera e Mura), scrittore, una vita dedicata al gioco della pallacorda, uomo intelligente, colto e garbato. Aveva vinto due titoli nazionali juniores di doppio insieme all’amico Fausto Gardini (‘47 e ‘48), raggiunto la finale del singolare (‘50), conquistato la Coppa de Galea a Vichy, successi con cui in sala stampa intratteneva i giovani colleghi senza prendersi mai troppo sul serio, infarcendo i racconti con aneddoti esilaranti e iperboli raffinate, e chi aveva la fortuna di fargli compagnia a cena li riascoltava ridipinti di nuovi colori, quegli aneddoti mai uguali a se stessi, come le corrispondenze che ha inviato a Repubblica dai quattro angoli del tennis (Melbourne, Parigi, Londra, New York) per oltre trent’anni. Sempre da singolarista, vantava una partecipazione a Parigi (‘54) e Wimbledon (‘53): aveva raggiunto Church Road con un avventuroso viaggio in macchina e perso al primo turno. E che quell’avventura non fosse andata oltre era un piccolo, sottile, rammarico.
Giornalista e scrittore
In quei ruggenti anni Cinquanta, già scriveva sulla Gazzetta dello Sport. Poi, nel ’56, il passaggio al Giorno, dove aveva trovato un fuoriclasse del suo livello, Gianni Brera, come caporedattore. Ma è su Repubblica che la sua produzione — inframmezzata dalla pubblicazione di libri che sono rimasti nella storia della letteratura sportiva (il suo «500 anni di tennis», andato in libreria nel ‘74, aggiornato e ripubblicato in continuazione, è un totem venerato da generazioni di appassionati), da romanzi diventati opere teatrali (uno su tutti: Divina, Suzanne Lenglen, storia della prima personalità esuberante ed eccentrica del tennis femminile, donna di fine 800 per la quale Gianni aveva un dichiaratissimo debole) e persino da raccolte di poesie —, ha toccato l’apice.
Da Bill Tilden alla Santissima Trinità, Federer-Nadal-Djokovic, non c’è giocatore di tennis fenomenale o scarso che Clerici non abbia accarezzato con i suoi giri di parole, fino all’evento cui noi tutti credevamo non avremmo mai assistito — Francesca Schiavone prima tennista italiana a conquistare uno Slam, a Parigi nel 2010 —, quando la strepitosa Next Gen di azzurri (Matteo Berrettini, Jannik Sinner, Lorenzo Musetti) era ancora un pensiero che la mente non considerava. E chissà quali nuovi neologismi si sarebbe inventato per raccontare l’ascesa nei top 10 di Matteo e Jannik, a lungo allenato da Riccardo Piatti, coach lacustre come Gianni e suo buon amico, che oggi lo piange come tutto il mondo dello sport e della cultura.
Istrionico alla tv
Chi ha avuto il piacere di ascoltare le sue telecronache insieme a Rino, l’amico di una vita, sa che l’era del tennis alla televisione si divide in due periodi: le trasmissioni di Clerici e Tommasi (il poeta e lo scienziato, Gianni sempre scanzonato e Rino aggrappato alla logica stringente dei numeri, delle statistiche, dei record) e tutto ciò che è venuto dopo. Celebre la volta in cui, raccontando un match dall’Australia, l’istrionico Clerici riuscì a trascinare l’algido Tommasi in un’esilarante versione di «Bingo bango bongo» che — proposta oggi — solleverebbe onde di indignazione social e interrogazioni parlamentari.
Considerato uno dei maggiori esperti di tennis al mondo, Gianni Clerici nel 2006 era stato inserito nella International tennis Hall of Fame a Newport, secondo italiano nella storia dopo Nicola Pietrangeli. Pochi hanno amato il tennis, riamato, come lui. E se la pallina di certo continuerà a rimbalzare per i courts del pianeta, oggi che Gianni non c’è più la rete sembra un po’ allentata, l’erba di Wimbledon di un verde meno brillante, il rosso della polvere di mattone di Parigi più spento e la sua amata Venus Williams («splendida modella disallenata» la definì un anno al Foro Italico durante gli Internazionali d’Italia, che gli dedicheranno la sala stampa) un po’ più vecchia. Come noi tutti, d’altronde.
Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti
• Como 24 luglio 1930. Scrittore. Giornalista. Famoso commentatore del tennis (su Repubblica e, fino a Wimbledon 2011, su Sky con Rino Tommasi). Dal 15 luglio 2006 nella Hall of Fame del tennis di Newport (California), primo giornalista europeo ad avere questo onore, secondo italiano in assoluto dopo Nicola Pietrangeli. Motivazione: «Per il suo contributo alla diffusione del tennis, per aver seguito 170 tornei del Grande Slam in più di 40 anni di attività, per aver scritto oltre seimila articoli seguendo a bordo campo le gesta degli eroi della racchetta».
• Nonni materni tessili, paterni vinai, «l’amore di Clerici per il tennis comincia con l’immagine di un bambino di nove anni, Giovannino. È il protagonista del suo romanzo Alassio 1939, parte della trilogia I gesti bianchi edita da Baldini e Castoldi. Il Giovannino di buona famiglia gioca al Tennis club Alassio, presieduto da un gentiluomo inglese, Daniel Hanbury, fratello di quel Thomas Hanbury che diede il nome ai celebri giardini presso il confine francese. Giovannino non vuole fare il balilla né partecipare al sabato fascista. “All’orbace preferivo la flanella bianca”, racconta oggi il vero Gianni Clerici: “Mi piacque subito il mondo degli inglesi, imparai a bere il tè, a dire ‘ready’ prima del servizio. Mi attrasse quello spirito sportivo che era un’etica di comportamento”» (Enrico Arosio).
• «Sarà stato il 1953 o il 1954. Nonostante la diagnosi di morte per disturbi epatici fattami dall’esimio professor Frugoni, mi ritrovo numero 10 in Italia nel periodo in cui eravamo primi in Europa con Gardini, Merlo, Pietrangeli, Sirola. Ero un giocatore modesto, ma con un bel record giovanile di 13 vittorie su 15 incontri. Ho l’occasione di andare a Wimbledon con Antonio Maggi, che però rinuncia: “Mia mamma sta male, non vengo”. “Ma ti hanno ammesso!”. Niente, parto da solo, un venerdì mattina, con una 500 giardinetta color marroncino, quella con il legno sulla carrozzeria. Il rimborso previsto era di cinquanta sterline. Ci ho messo due giorni. La domenica mattina arrivo a Londra e voglio allenarmi. Poco dopo sono davanti ai cancelli di ghisa nera, le Doherty Gates di Wimbledon, Doherty sono i fratelli che hanno vinto lì nove tornei. E i cancelli sono chiusi. Sì. Era domenica. Una perfetta figura da provinciale. Nel pomeriggio mi allenai al Queen’s club. Al torneo mi ritrovai al campo 16 contro uno jugoslavo: fuori per crampi al quarto set, non ero abituato all’erba».
«Sarà il 1950 e viene a Sanremo per seguire un torneo dove giocavo Luigi Gianoli della Gazzetta dello Sport, allora diretta da Brera. Un grande, Gianoli. Diplomato al Conservatorio, espertissimo di cavalli e vivamente omosessuale, ciò che gli creava non pochi problemi nell’ambiente del giornalismo sportivo. Io gli ho dato una mano, non capiva di tennis. Legge gli articolini che pubblicavo gratuitamente su Il Tennis Italiano, fra parentesi la rivista esiste dal 1928, e dice: “Però, tu devi scrivere sulla Gazzetta”. Dubbio: gli sarò piaciuto io? Ma no, a Gianoli piacevano i maschioni. Brera mi fissa un appuntamento al giornale: non c’è e mi indigno: “Non scriverò mai per questo giornale”.
La sera stessa mi telefona e riusciamo poi a vederci in galleria a Milano, dove studiavo all’università. Sono laureato in Storia delle religioni, ho anche fatto un master alla Sorbona: volevo diventare monaco buddista. Scrivevo sulla Gazzetta degli elzeviri in terza pagina, ricordo i disegni di Ottorino Mancioli, un artista. Quando Brera mollò, lo seguii a Sport Giallo, un quotidiano che aveva fondato per far concorrenza al Guerino. Durò poco. Nel 1956 nacque Il Giorno e da Sport Giallo ci travasammo tutti lì. Una vita al Giorno, con Brera, Giulio Signori, Mario Fossati, Pilade Del Buono, il fratello di Oreste. Eravamo amici, goliardi anche, quasi un club, ma lavoravamo duro. L’ho lasciato quando non ho potuto farne a meno, erano alla frutta, con certe firme...».
• «Autore di romanzi, commedie teatrali e un volume, 500 anni di tennis, semplicemente indispensabile. Il poeta Clerici rimanda ad Ariosto, Leopardi, Saba. Rilegge l’odi et amo di Catullo, ed è un bel leggere. E rileggere. Pure sotto questa pudica veste, lo “Scriba” mostra quello sconfinato bagaglio di conoscenze e guittezze che solo una critica miope può non vedere. “Quando avevo 27 anni, accompagnandomi al Premio Strega, Soldati e Bassani mi dissero che, se volevo continuare con il giornalismo sportivo, dovevo inventarmi un nom de plume. Avevano ragione.
Negli ambienti letterari vengo ancora guardato con un certo fastidio: ‘Ma lei è quello del tennis?’”. Non distante Italo Calvino: “Clerici è uno dei più grandi scrittori che abbia mai conosciuto. Purtroppo scrive di sport”. Un “vizio” che non gli ha fatto smarrire la propria grandezza. E unicità» (Andrea Scanzi).
• Ultimi libri: Wimbledon. Sessant’anni di storia del più importante torneo del mondo (Mondadori, 2013), Australia felix (Fandango, 2012), Il suono del colore (Fandango, 2011).
• «In vita mia ho scritto ventuno libri, di cui solo cinque sul tennis. Ma ormai sono sommerso da un’identità di “raccattapalle”. Ho un contratto con Repubblica per 100 articoli all’anno, ma sono stanco di seguire i protagonisti della racchetta. Ho in cantiere un romanzo con cui spero di vincere il premio Nobel! Si tratta di un libro rivoluzionario sulle donne, ma non posso fornire altre anticipazioni. Una cosa è certa: non scrivero mai più un libro sul tennis».
• «Sono cresciuto oltre che con il marchio di infamia del giornalista sportivo, con quello dell’omosessuale. Questa tenue vocina non ha aiutato. Certe frequentazioni poi - Zeffirelli, Visconti, Arbasino, Luigino Gianoli il più grande scrittore di cavalli - neppure. Con loro, a volte si mangiava assieme, discutevamo. Ero accettato, sebbene non fossi omosessuale».
Il tennis, Gianni Clerici, e la telecronaca perfetta (in coppia con Rino Tommasi). Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.
Le loro cronache mescolavano la forza di un dritto lungolinea e la grazia di una volée, la cultura e l’ironia. Dopo di loro solo imitatori.
Il giornalista e scrittore Gianni Clerici è morto a 91 anni, a Bellagio, sul lago di Como. Ex tennista (ha partecipato a Wimbledon) ha iniziato la carriera di cronista sportivo sulla Gazzetta dello Sport.
La maledizione della telecronaca perfetta. Eravamo ancora nell’altro secolo, quando Rino Tommasi e Gianni Clerici hanno inventato la telecronaca a due, dopo di loro solo tristi epigoni, fatalmente.
L’uno, Tommasi, sembrava un computer umano, non sbagliava una data o il risultato di un incontro o un confronto statistico (ma sotto sotto covava un’attitudine istrionica). L’altro, Clerici, dispensava il suo immenso sapere con quell’arte difficile che si chiama sprezzatura, il rarissimo dono per cui la cultura non deve mai parere tale, ma nascosta, creata quasi per gioco. A Clerici, ex tennista di livello, piaceva motteggiare, scherzare, raccontare aneddoti esilaranti (ma sotto sotto covava il cronista coscienzioso cui nulla sfuggiva).
Le loro telecronache mescolavano la forza di un dritto lungolinea e la grazia di una volée, la cronaca e l’ironia, il commento tecnico e la divagazione preziosa. Tempo fa, durante la finale di Wimbledon fra Matteo Berrettini e Novak Djokovic, la telecronista Sky Elena Pero e il commentatore tecnico, Paolo Bertolucci hanno voluto ricordare la coppia Tommasi-Clerici, quasi un risarcimento per come, anni prima, era stata brutalmente messa da parte: «Ci fa piacere iniziare con un pensiero a Rino Tommasi e Gianni Clerici, che ci hanno insegnato serietà e leggerezza». Nessuna coppia, dopo di loro, è più riuscita a compiere questo miracolo, la serietà unita alla leggerezza o viceversa, anzi la telecronaca a due è spesso regredita, cambiando genere: dal racconto (una narrazione ha bisogno di pause, di silenzi, di respiri, soprattutto di grande fiducia nello spettatore) è passata alla parafrasi.
Se consideriamo ancora l’incontro sportivo come un testo (“mistero senza fine bello”, così Gianni Brera definiva il calcio, rubando un verso a una poesia di Guido Gozzano dedicata alla donna), la funzione della telecronaca è regredita a livello scolastico, come se gli spettatori-alunni non fossero più in grado di comprendere quello che stanno vedendo. Bisogna spiegare loro tutto, con piatta verbosità.
Il grande merito di Gianni Clerici (uno scrittore prestato allo sport, secondo Italo Calvino) è stato quello di non vergognarsi della sua cultura. Come non sanno fare oggi quei molti che parlano di cultura non sentendosene all’altezza: la banalizzano in maniera tale da porsi al riparo dall’ironia e dal sorriso.
È morto Gianni Clerici, scrittore giornalista e storica firma di Repubblica del tennis. Paolo Rossi su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Da giovane aveva giocato a tennis, lo sport che ha raccontato per tutta la vita. Aveva 91 anni, è morto a Bellagio. Per il numero e la qualità delle sue pubblicazioni è stato inserito nel 2006 nella Hall of fame del Tennis, secondo italiano dopo Nicola Pietrangeli.
È morto Gianni Clerici: lo scrittore giornalista e storica firma di "Repubblica" del tennis si è spento a Bellagio, sul Lago di Como. Avrebbe compiuto 92 anni a luglio.
("Ho passato una vita/a guardare una palla/divenuta nel tempo/da bianchissima gialla/rimbalzava leggera/lungo i prati di Wimbledon/risaliva dorata sopra i tigli di Auteil/nei tramonti vermigli /di stati affascinati/ che credevano che fosse/il campione il re/ma cosa resterebbe/della Divina e Tilden/di McEnroe e Martina/senza quella pallina/mi dicono persone/affaccendate colte/come hai fatto/a sprecare le tue doti native/per una vita vana/avranno ragione forse/ma a ciascuno tocca una sua religione").
Così scriveva in uno dei suoi ultimi libri, "Postumo in vita". Le sue parole. Ci sono momenti, nella vita, in cui il dolore prevale. Meglio, molto meglio, il silenzio. D'altronde Gianni aveva già scritto tutto, perfino di se stesso: "Quanto a me ritengo di poter paragonare la mia vicenda a quella di un tale che, rinvenuto un brandello di spartito, si sia reso conto di avere di fronte alle note di una sublime sinfonia dispersa per il Capriccio degli dei e si è sentito in dovere di ricucire quanto più possibile l'intera composizione: è quello che ho cercato di fare da solo, e con l'aiuto di altri appassionati".
Gianni, un maestro per intere generazioni
Beh, ha forgiato un esercito, consapevolmente o inconsapevolmente: un paio di generazioni di appassionati del tennis, e di aspiranti giornalisti di tennis. Ha indicato a tutti noi la strada maestra. E gliene saremo sempre, infinitamente, grati. Ma forse tutto questo è perfino riduttivo per raccontarne la grandezza, la lezione. Non solo di sport, non solo di tennis.
Chi era Gianni? Per Brera era l'homo burgenses comecinus. Le sue parole possono essere sposate da tutti: "Si ritenne votato alle Lettere, coltivandole con amorevole incostanza. Perché considerarsi votato alle Lettere significa veder chiaro in se stessi, ma non al punto da ignorare che il genio chiede paziente fatica, e Gianni Clerici è più sovente geniale quando si spazientisce e i suoi amici lo sanno, ma non trascurano di vessarlo con autentiche intimidazioni pratiche".
Era sottile e fragile, la sua prosa era potente
Tra i vessatori c'era ovviamente anche lui, l'altro grande Giuan, che gli aveva aperto la terza pagina della vecchia Gazzetta dello sport e ne era orgoglioso. "Gianni Clerici ha la condizione burgenses che permetteva agevolmente a suo padre di mantenere anche lui ma, essendo un comacino schietto, certi orgogli di natura pratica non poteva allenarli dal proprio animo così Gianni è giornalista regolare e inviato di un grande quotidiano. La sua specializzazione è sempre stata il tennis, ne ha scritto con piena cognizione di causa mai rinunciando a un concetto tecnicamente esatto per una frase letterariamente lusinghevole. Il ragazzino Clerici il suo gioco l'ha scoperto: era sottile e quasi gracile, e altri sport fuori del nuoto non gli convenivano tutto l'anno. L'orgoglio fisico lo ha indotto a soffrire fino a diventare abile come pochi, e quando poi Gianni ha dovuto scegliere tra il dinoccolato centromediano dei Boys del Como calcio e l'elegante livrea del tennis Club Como, lo stesso allenatore del calcio lo ha consigliato per il tennis. Purtroppo Clerici era un atleta naturale, ma non abbastanza solido per garantire un asso al tennis italiano. L'agonismo del Prima categoria lo ha portato comunque a conoscere tutti gli ambienti e i campioni del tennis mondiale, aiutando a distinguere ogni atteggiamento stilistico. Il particolare amore per le lettere, e la deviazione giornalistica, hanno fatto di Clerici un critico tra i meglio preparati ed efficaci del mondo a scrivere un trattato ancorché molto semplice. Gli sorrideva l'idea che giovanissimi lettori entrassero nel recinto fatidico, avendo un'idea chiara dello sport che stavano per scegliere e che impugnassero la racchetta conoscendo almeno i colpi fondamentali".
Sante parole. Anzi, sacrosante. Le parole di Gianni Clerici sono lì a testimoniarlo, oggi e per sempre, tutte intinte nell'inchiostro. Che fossero articoli, o libri. Ogni respiro, ogni pensiero di Gianni Clerici (persino nelle telecronache) è stato uno spot per il tennis. Un inno alla sua bellezza di questo sport di cui ne è stato campione di divulgazione. Ora i Gesti Bianchi possono riposare nella casa lassù, nell'alto dei cieli.
Morte Gianni Clerici, Pietrangeli: "Mi hai lasciato solo nella Hall of Fame, mi manchi già". Bertolucci: "Mai amati, ma grande rispetto"
Gianni Clerici, il maestro che si autodefiniva "lo scriba". Paolo Garimberti su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Gianni Clerici, scomparso a 91 anni (ansa)
Il grande giornalista e scrittore, firma di Repubblica, morto a 91 anni, attraverso libri e articoli ha raccontato il tennis, è stato nominato nella International Hall of Fame. E ha inventato nelle sue telecronache con Rino Tommasi definizioni destinate a rimanere per sempre nell'immaginario degli appassionati
Ho davanti a me alcuni dei tanti libri di Gianni Clerici, Quello del tennis, dal titolo di una "storia della mia vita e di uomini più noti di me", che reca in copertina la fotografia di un ragazzino che si produce in una volée di diritto in avanzamento con tecnica impeccabile (eppure non era il diritto il suo colpo migliore per via di un'impugnatura troppo chiusa, che, diceva, aveva imparato a modificare "da vecchio").
Pietrangeli: "Gianni Clerici era un genio e una volta mi ha battuto". Paolo Rossi su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Intervista al vincitore di due Roland Garros: "Solo lui aveva i mezzi letterari ed economici per scrivere un bestseller sulla storia del nostro sport".
Tre anni di differenza, praticamente coetanei. Nicola Pietrangeli rappresentava quello cui Gianni Clerici ambiva: essere un bicampione Slam, con i suoi due Roland Garros. Sono cresciuti insieme, si sono anche incrociati sul campo di tennis da giovani. Poi l’uno ha seguito le vicende dell’altro.
La voce di Clerici non piaceva a Berlusconi, ma con Tommasi divenne il Dottor Divago. Antonio Dipollina su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Quando c'erano Tommasi e Clerici in tv e il tennis era Tommasi e Clerici in tv per moltitudini di appassionati che oggi guardano tutto il tennis possibile, si divertono, ammirano i fuoriclasse e alla fine gli scappa un pensiero su quando tutto era iniziato, ovvero quando c'erano Tommasi e Clerici in tv. Opposti, certamente, perfetti, sicuro, lo yin e lo yang fusi perfettamente nel simbolo, le curve che combaciano.
Gianni Clerici, la vita fra poesia e tennis, l'adorazione per Lenglen e il "Club delle Balette". Dario Cresto-Dina su La Repubblica il 6 giugno 2022.
Gianni Clerici, scomparso a 91 anni
È stato una delle firme inimitabili di un giornalismo vicino alla letteratura quasi scomparso. Sarà per questo motivo che se ne è andato un poco alla volta, in punta di piedi.
Gianni Clerici è stato una delle firme più seguite e inimitabili di un giornalismo romantico e prossimo alla letteratura quasi scomparso e sarà per questo motivo, quello di essere una delle ultime tigri bianche, che ha deciso di lasciarci in punta di piedi svanendo un poco alla volta. Gianni era un uomo elegante e buono che dissimulava i gesti d'affetto, perché considerava la discrezione il tratto migliore del valore.
Paolo Rossi per repubblica.it il 6 giugno 2022.
Ho passato una vita/a guardare una palla/divenuta nel tempo/da bianchissima gialla /rimbalzava leggera/lungo i prati di Wimbledon/risaliva dorata sopra i tigli di Auteil/nei tramonti vermigli /di stati affascinati / che credevano che fosse /il campione il re/ma cosa resterebbe / della Divina e Tilden /di McEnroe e Martina / senza quella pallina /mi dicono persone /affaccendate colte /come hai fatto /a sprecare le tue doti native/ per una vita vana /avranno ragione forse/ ma a ciascuno tocca una sua religione.
Ci sono momenti, nella vita, in cui il dolore prevale. Meglio, molto meglio, il silenzio. D'altronde Gianni aveva già scritto tutto, perfino di se stesso: "Quanto a me ritengo di poter paragonare la mia vicenda a quella di un tale che, rinvenuto un brandello di spartito, si sia reso conto di avere di fronte alle note di una sublime sinfonia dispersa per il Capriccio degli dei e si è sentito in dovere di ricucire quanto più possibile l'intera composizione: è quello che ho cercato di fare da solo, e con l'aiuto di altri appassionati".
Beh, ha forgiato un esercito, consapevolmente o inconsapevolmente: un paio di generazioni di appassionati del tennis, e di aspiranti giornalisti di tennis. Ha indicato a tutti noi la strada maestra. E gliene saremo sempre, infinitamente, grati. Ma forse tutto questo è perfino riduttivo per raccontarne la grandezza, la lezione. Non solo di sport, non solo di tennis.
Chi era Gianni? Per Brera era l'homo burgenses comecinus. Le sue parole possono essere sposate da tutti: "Si ritenne votato alle Lettere, coltivandole con amorevole incostanza. Perché considerarsi votato alle Lettere significa veder chiaro in se stessi, ma non al punto da ignorare che il genio chiede paziente fatica, e Gianni Clerici è più sovente geniale quando si spazientisce e i suoi amici lo sanno, ma non trascurano di vessarlo con autentiche intimidazioni pratiche".
Tra i vessatori c'era ovviamente anche lui, l'altro grande Giuan, che gli aveva aperto la terza pagina della vecchia Gazzetta dello sport e ne era orgoglioso. "Gianni Clerici ha la condizione burgenses che permetteva agevolmente a suo padre di mantenere anche lui ma, essendo un comacino schietto, certi orgogli di natura pratica non poteva allenarli dal proprio animo così Gianni è giornalista regolare e inviato di un grande quotidiano. La sua specializzazione è sempre stata il tennis, ne ha scritto con piena cognizione di causa mai rinunciando a un concetto tecnicamente esatto per una frase letterariamente lusinghevole. Il ragazzino Clerici il suo gioco l'ha scoperto: era sottile e quasi gracile, e altri sport fuori del nuoto non gli convenivano tutto l'anno.
L'orgoglio fisico lo ha indotto a soffrire fino a diventare abile come pochi, e quando poi Gianni ha dovuto scegliere tra il dinoccolato centromediano dei Boys del Como calcio e l'elegante livrea del tennis Club Como, lo stesso allenatore del calcio lo ha consigliato per il tennis. Purtroppo Clerici era un atleta naturale, ma non abbastanza solido per garantire un asso al tennis italiano.
L'agonismo del Prima categoria lo ha portato comunque a conoscere tutti gli ambienti e i campioni del tennis mondiale, aiutando a distinguere ogni atteggiamento stilistico. Il particolare amore per le lettere, e la deviazione giornalistica, hanno fatto di Clerici un critico tra i meglio preparati ed efficaci del mondo a scrivere un trattato ancorché molto semplice. Gli sorrideva l'idea che giovanissimi lettori entrassero nel recinto fatidico, avendo un'idea chiara dello sport che stavano per scegliere e che impugnassero la racchetta conoscendo almeno i colpi fondamentali".
Sante parole. Anzi, sacrosante. Le parole di Gianni Clerici sono lì a testimoniarlo, oggi e per sempre, tutte intinte nell'inchiostro. Che fossero articoli, o libri. Ogni respiro, ogni pensiero di Gianni Clerici (persino nelle telecronache) è stato uno spot per il tennis. Un inno alla sua bellezza di questo sport di cui ne è stato campione di divulgazione. Ora i Gesti Bianchi possono riposare nella casa lassù, nell'alto dei cieli.
Gianni Clerici per “la Repubblica” pubblicato da Dagospia il 4 marzo 2016 il 6 giugno 2022.
Ho letto, in un articolo di un vero intellettuale, un ricordo critico di Giorgio Bassani, lo scrittore. Scrive il Critico che, oggi, Bassani avrebbe cent’anni. Mi domando come potrei rivolgermi a Giorgio, cosa potrei dirgli, io che sono stato un suo amico, e che, lungi dall’essere un intellettuale, sono solo uno scriba. Provo dunque a rivolgergli ricordi, domande, chiacchiere.
1)«Mandaglielo tu», mi disse un altro di quelli che chiamavo zii, Mario Soldati, perché i miei veri zii non mi soddisfacevano. «Mandaglielo tu alla Feltrinelli, la Casa Editrice dove lavora. Se glielo raccomando io te lo pubblica. Ma non sarebbe giusto, deve decidere da professionista».
2) Il romanzo si chiamava i Gesti Bianchi. Era una storia di tennis, con il tema centrale di un campione, alias Gottfried Von Cramm, e due giovanissimi tennisti, uno dei quali ero io. Era, in sintesi, una vicenda dei rapporti, e degli attriti, tra l’omosessualità e l’amicizia.
Passarono sei mesi. Mi lagnai con zio Mario. Mi informò che Bassani aveva grossi fastidi con il suo editore Feltrinelli, causa un importantissimo romanzo russo, il Dottor Zivago che alcuni intellettuali del Pci non volevano. Infine venni invitato alla Casa Editrice. Bassani aveva un’aria accogliente, non pareva proprio un Professore, di quelli che mi mettevano soggezione.
«Caro Clerici, sono tennista anch’io », mi disse. «Il suo, con la Costa Azzurra di mezzo, è un bel tema, non facile. Le ho scritto, con la matita rosso e blu, dei suggerimenti, non chiamarli correzioni. Torni quando ci avrà meditato, se crede che io abbia spesso ragione. E, soprattutto, se vuol fare lo scrittore, si prenda uno pseudonimo. Se no resterà per sempre un giornalista sportivo, un caratterista che non rientra negli schemi del nostro mondo di presunti intellettuali».
Me ne andai affascinato ma ancor più insoddisfatto. Era il mio primo romanzo, il primo di tutti quelli che mi sarei visto rifiutare. Mi sentivo offeso, come la volta che Francesca, congedandomi, mi aveva dichiarato che non ero un vero macho. Passò un anno. Corressi. Bassani aveva avuto quasi sempre ragione. Gli telefonai. Rimandai i Gesti Bianchi. Appuntamento.
3) «Mi spiace Gianni — diamoci pure del tu, tra tennisti — Non ti posso più pubblicare, perché me ne vado. Feltrinelli, Il “marxista per diletto” ha addirittura tentato di forzarmi questo cassetto, questo della mia scrivania». Me lo indicò. «Temo che dovrò cercare di vivere dei miei romanzi. Non sarà facile, dopo aver fatto il professore per avere uno stipendio. L’Editor per avere uno stipendio. Se avrai la mia pazienza, qualcuno ti pubblicherà i Gesti Bianchi. E la prima volta che vieni a Roma giochiamo insieme a tennis».
«Certo che Giorgio ce la farà — mi disse Mario, che era venuto ad abitare a Milano, profugo dal Cinema romano, in via Cappuccio, di fronte al pied- à- terre dove stavo io. «È un grande scrittore, anche se non basta per sopravvivere, in questo paese di illetterati. Ma tu fai come noi. Scrivi lo stesso».
4) Giocai, per la prima volta, con Giorgio, alle Cascine. Ad assistere alla partita c’era addirittura il Professor Longhi, anche lui tennista, che ci avrebbe invitati a casa, dopo il nostro set. Io ero da poco reduce dall’interruzione della mia carriera di giocatore, per una malattia molto grave. Temevo che Giorgio non fosse in grado di palleggiare al mio livello. Andò invece benissimo.
Aveva quello che Brera chiamava “senso geometrico “, colpiva agevolmente non solo di diritto, ma con un bel rovescio. Ci divertimmo. Longhi lo prese un po’ in giro, per qualche errore. Alla fine di quello che chiamò “dialogo con racchette“, Bassani mi disse di aver imparato alla Marfisa, aveva addirittura partecipato ai Littoriali «prima che uscissero le leggi anti-ebraiche, prima di essere allontanato dal Club. Sarei almeno arrivato alla seconda categoria, come mio fratello».
5) Mentre continuavo in quello che Giorgio e Mario definivano “un equivoco “, e cioè a scrivere di sport, Cesare Garboli accolse un mio romanzetto su un Centrattacco, tanto vero che due centrattacchi si indignarono, e Gianni Rivera mi scrisse: «Un giocatore del Milan non si permetterebbe mai di far qualcosa di simile » (conservo la lettera).
Giorgio e Mario lo presentarono al Premio Strega. Fui ricevuto dalla Signora Bellonci che ebbe a dirmi «Lei è quello del tennis? Ma sa che fa benissimo anche i congiuntivi». Ebbi tre voti. «Non fai parte di nessun gruppo», mi disse il terzo dei miei votanti, Gaio Fratini. «Hai mai visto un ciclista che corre il Giro da solo?».
6) A questo proposito, dell’ottenere una tessera di appartenenza a un Partito Letterario, mi giunse un invito, per partecipare a Palermo alla riunione di quello che sarebbe divenuto il Gruppo 63. Incerto, raggiunsi Roma, e scesi dal treno per salutare Bassani, che abitava di fronte ai Giardini di Villa Borghese. Finì che giocammo al Tennis Club Parioli, e io restai privo del sostegno di un Partito Letterario. Giorgio me ne congratulò.
7) Sempre a Roma, presi a incontrare regolarmente Bassani ogni volta che passavo di lì. In primavera, ci si vedeva regolarmente ai Campionati Internazionali di Tennis, al Foro Italico. Non ho mai più trovato un vicino, in tribuna stampa, tanto sicuro dei propri giudizi, capace di sezionare il gioco, e quel che passava nella mente di un campione, come un grande psicologo. «Non è difficile. Basta immaginare che il campione sia un personaggio», sorrideva lui.
7) Giorgio era ormai giunto ai riconoscimenti del Veillon, dello Strega, del Viareggio. Ci ritrovammo una volta a Bologna. Lo vidi animato di una insolita emotività, quasi gli fosse accaduto qualcosa di misterioso. Mentre camminavamo diretti non so più dove, mi prese per un braccio, trascinandomi in un portone. Ero attonito, ma pronto alla stravaganza di un amico. Mi recitò alcuni versi.
«La poesia», mi disse. «Certo, ne avevo sempre scritte. È il destino di tutti noi che scriviamo. Tutte le energie che prima consumavo in tanti modi, sciupavo, disperdevo, si coagulano, come mi siedo alla scrivania. Ho un rapporto diretto con quello che faccio».
Dissi che lo capivo. Da quello spiritualista che ero diventato. Ma Giorgio, sullo spiritualismo, non ci sentiva. «Ecco, ho trovato», mi disse, «è come se tutto un match di tennis si tramutasse in una successione ininterrotta di match point. E io riuscissi a affrontarli con la disinvoltura di un banale quindici, ma con l’attenzione trasfigurata di un match- point. È la religione della poesia, mio caro spiritualista».
8) «Basta, andiamo via. Questo non è il mio libro. Fa schifo! Via». Eravamo andati, con Giorgio, all’anteprima del film tratto dal suo romanzo più famoso, Il Giardino dei Finzi Contini. L’avevo visto, via via, infastidito, incredulo, corrucciato. Alla fine, quando si accesero le luci, esplose come mai l’avevo visto fare. Era stata, quella, la fine di una vicenda che nessuno scrittore dovrebbe affrontare, se non per estremo bisogno di denaro.
La sceneggiatura era stata infatti più volte rifatta da successivi specialisti, Zurlini, Laurani, Pinelli, e dai miei amici Brusati e Bonicelli. Vittorio Bonicelli, grande critico cinematografico traversato dal desiderio di sceneggiare, mi aveva anche invitato a una minima partecipazione, che avevo evitato dicendo «Non sarei capace».
Alla fine di rifacimenti e innovazioni, Vittorio De Sica era stato costretto a girare un film diverso dal libro. Fu l’unica volta che vidi un uomo dolce, ragionevole, comprensivo di errori suoi e altrui, perdere il controllo si sé. Capii che si era identificato a tal punto con il libro, da ritenersi ferito da un’opinione altrui, come da un tradimento.
9) Avrei rivisto Giorgio per l’ultima volta in un Club di Tennis, il nuovo Tennis Club Parioli. Sapevo che stava male, avevo chiesto notizie nella sua nuova casa, mi era stato risposto che era meglio non visitarlo. Mi recai al Parioli, e lo vidi, insieme a un badante, che osservava un doppio di vecchi consoci, ridendo ad ogni errore, disturbando il palleggio in corso, immaginando ad alta voce un punteggio che nulla aveva a che fare con quello reale.
Ad un cambio di campo mi rivolsi interrogativo ad uno dei giocatori. «Lo so che non è facile», mi anticipò, «ma gli siamo tutti debitori. Per quello che ha fatto, per quello che ha scritto». Alla fine della partita, trovai il coraggio di rivolgermi a Giorgio. Mi guardò dolcemente e «Chi sei?», mi domandò alla fine. Me lo chiedo spesso, in risposta a chi mi onorò di una grande amicizia.
Addio al giornalista e scrittore Gianni Clerici, voce storica del tennis. Antonio Prisco su Il Giornale il 6 Giugno 2022 .
Si è spento all'età di 91 anni. Fu protagonista di memorabili telecronache di tennis insieme a Rino Tommasi.
Lutto nel mondo del giornalismo: è morto Gianni Clerici, ex tennista, giornalista e scrittore italiano. Firma storica di Repubblica, era considerato uno dei maggiori esperti di tennis del mondo. Aveva 91 anni.
A darne notizia per primo, in un tweet, l’ex direttore di Repubblica Mario Calabresi. "Un gigante del giornalismo sportivo", scrive Calabresi. "Aveva eleganza, competenza e sapeva spiegare tutto. (Un giorno mi portò con lui a Wimbledon e mi insegnò che il vero spettacolo erano i picnic sull’erba con fragole e panna). Buon viaggio".
La carriera
Nato a Como nel 1930, aveva giocato a tennis, vincendo due titoli italiani juniores di doppio in coppia con Fausto Gardini e una coppa De Galea a Vichy nel 1950 e partecipando come singolarista a Wimbledon (1953) e Roland Garros (1954). Rivendicava con orgoglio il record di sei sconfitte e nessuna vittoria agli Internazionali di Roma.
Dopo aver collaborato dal 1951 al 1954 con La Gazzetta dello Sport, e nel 1954 con Sport Giallo e Il Mondo, nel 1956 passa al Giorno di Milano come editorialista e inviato, prestando i suoi commenti raffinati sul tennis anche alla tv. Nel 1988 inizia la collaborazione con l’Espresso e Repubblica. Per anni è stato anche la voce del tennis in televisione, commentando i principali tornei del circuito insieme a Rino Tommasi, con cui fu protagonista di memorabili telecronache. Ha firmato i grandi classici dedicati allo sport della racchetta: Il tennis facile (1972), 500 anni di tennis (1972, uscito poi in una nuova edizione nel 2007), la biografia Divina. Suzanne Lenglen, la più grande tennista del XX secolo (2002).
Ma è autore anche di testi narrativi (la trilogia I gesti bianchi, 1995; la raccolta di racconti Una notte con la Gioconda, 2008; i romanzi Australia felix, 2012, e 2084. La dittatura delle donne, 2020), di raccolte poetiche (Postumo in vita, 2005; Il suono del colore, 2011) e saggi storici (Mussolini. L'ultima notte, 2007). Nel 2010 Veronica Lavenia e Piero Pardini hanno pubblicato la sua biografia, dal titolo Il cantastorie instancabile. Gianni Clerici lo scrittore, il poeta il giornalista. Nel 2006 Clerici è stato inserito nella International Tennis Hall of Fame, secondo italiano presente dopo Nicola Pietrangeli.
Lo stile e le telecronache
Italo Calvino lo definì "uno scrittore imprestato allo sport". Il suo compagno di telecronache Rino Tommasi lo ribattezzò "Dottor Divago" per la sua nota passione per la divagazione e poi scrisse di lui: "Non sempre nelle sue cronache troverete il risultato dell'incontro, ma troverete sempre la spiegazione della vittoria di un giocatore sul proprio avversario".
Gianni Clerici era proprio così riusciva a cogliere l'estetica del tennis, con la sua capacità unica di raccontare la magia di questo sport. Ma soprattutto più si allontanava dal racconto del campo e più rapiva l'attenzione dei telespettatori, rapiti dal fascino dei suoi racconti. Una magia difficile da credere per chi non ha avuto la fortuna di godersi le sue telecronache.
Si racconta che nel 1987 andò a vedere sotto consiglio di Bud Collins una partita tra juniores per visionare uno dei due giocatori. A fine partita Clerici consigliò un tennista da sponsorizzare a Sergio Tacchini. Però non quello consigliatogli da Collins (si trattava di Michael Chang ndr), ma quello dell’avversario, che non era neanche tra i primi 100 all'epoca. Si trattava di un certo Pete Sampras.
Le frasi celebri
"Wimbledon è qualcosa di più di un torneo, è una religione. La gente va lì, fa la fila ai cancelli da due notti prima, ma non solo per andare a vedere Nadal piuttosto che Federer. Wimbledon è il Vaticano del tennis. È come per un cattolico andare in pellegrinaggio a San Pietro".
"Se fossi un po più gay di quello che sono, mi farebbe piacere essere accarezzato dalla volée di McEnroe".
"L'individualismo, l'internazionalità, le antiche origini regali, dovrebbero fare del tennis un gioco alieno dalle sanguigne passioni di sport più volgari".
"Ancora adesso, scrollo la testa. Quel passante, che forse Dino Zoff avrebbe deviato in angolo, Adriano (Panatta) arrivò a giocarlo, e a metterlo dove andava messo, fuori portata".
(Sulla finale di Wimbledon 1980 Borg - McEnroe) Sono stato tre ore e cinquantatré minuti senza fare la pipì. Non solo per questo, la finale mi è parsa indimenticabile. Prima di andar sotto, quella testa rossa e dura di Mac ha salvato qualcosa come sette match point. Prima di difendere in quel modo orgoglioso una sconfitta quasi sicura, aveva condotto il match per circa un'ora e dieci minuti, facendo apparire Borg goffo, inadeguato all'erba, a tratti impaurito".
Giorgio Gandola per La Verità pubblicato da Dagospia il 28.04.2017
È più importante la notizia o il modo di raccontarla? Per scrivere sull' epopea dei contrabbandieri è meglio travestirsi da parroco? Perché oggi anche il grande Roger Federer finisce per annoiare? Perché un libro non ha chance di vendere se non ti fai invitare da Fabio Fazio? Perché per salvaguardare il dialetto lombardo bisogna andare in Svizzera? Perché tutti potremmo rimpiangere Silvio Berlusconi, non solo i tifosi del Milan? Perché oggi le telecronache migliori sono a 2 voci?
Domande random per rispondere alle quali servirebbero quattro docenti universitari con l' autostima a pieno regime. A meno che, nella sala da pranzo dell' hotel Tre Re, il più antico di Como, non hai di fronte Gianni Clerici. Allora quel domino sconclusionato di quesiti si trasforma in armonia, quel coacervo di pensieri diventa una conversazione antica fra un piccolo scriba e un profeta della parola, della racchetta, della comunicazione e della cultura popolare.
«Ti rispondo facile perché sono un "giornatore". L' ho spiegato stamattina alla mia dentista che mi chiedeva cosa faccio nella vita. Il giornatore, giornalista-scrittore. E questo mi dà il diritto di spiegare ciò che ho vissuto, soprattutto una volta girato l' angolo degli 80 anni. Però devi darmi tempo perché mi ha detto il medico che ho l' ipotalamo pigro. Tu hai l' iPad, io un' irrorazione sanguigna insufficiente di quella parte del cervello che incide sulla memoria. Ero una persona colta, adesso faccio figure».
Il giornatore che ha scritto saggi, romanzi, commedie e una bibbia dello sport come 500 anni di tennis non è ancora sazio. È appena uscito per Mondadori Diario di un parroco del lago. Vogliamo confrontarci con un gigante come Georges Bernanos?
«Giammai, l' ho letto ed è inavvicinabile, troppo intellettuale per me. Volevo raccontare storie di contrabbandieri sul lago di Como. Ho conosciuto le storie messe insieme in una vita e ritrovate dentro alcuni taccuini in un trasloco. Sono andato a trovarne uno di 93 anni che si chiama Canzani e che a quella veneranda età passeggia ancora su quei sentieri fra Italia e Canton Ticino. Mi ha detto "Vemm su a pè", andiamo su a piedi. Ma non ho avuto il coraggio e mi sono fatto portare con l' idrovolante a guardare quei posti dall' alto».
Va bene, ma il parroco del paese di Lezzeno, lungo 7 chilometri come una infinita biscia d' acqua spiaggiata, cosa c' entra?
«Avevo le storie, ma non avevo la spina dorsale, il filo della collana, insomma l' io narrante. Allora Basilio Luoni, un genio della pittura citato da Giovanni Testori, che fa pagare i quadri a seconda della tua dichiarazione dei redditi, mi ha consigliato di usare il parroco. Confessione, misericordia e consolazione: mi è sembrata una buona idea. Mi sono dovuto immedesimare, ho riletto tutti i Vangeli e ho messo a frutto una laurea in storia delle religioni presa a Urbino».
Perché è affascinato dalla storia delle religioni?
«Perché mi interessa molto sapere dove andrò a finire una volta morto. Sul libro sono sereno, l' ho fatto leggere a monsignor Gianfranco Ravasi. Sul mio destino riguardo al dopo, molto meno».
È vero che per scrivere si ritira in un paesino del Canton Ticino, in una casa senza telefono?
«A Roveredo, che loro chiamano Rorè, 2.000 abitanti, domina il silenzio. Lì sto bene, parlano tutti in dialetto senza la vergogna che contraddistingue gli italiani. La loro tv propone tre trasmissioni in dialetto alla settimana, da noi è quasi proibito. Il dialetto è un valore primario, mia nonna parlava francese e dialetto. I dialoghi del mio libro sono in dialetto. Lo fa anche Camilleri. A Rovè sto bene e mi sfogo a battere sui tasti. Anche perché oggi i giornali ti chiedono sempre meno. A Repubblica sono gentili: "Gianni, hai scritto 40 righe, sono troppe. Per favore ce ne mandi 35?". È la società dello smartphone che detta tempi e lunghezze».
Un libro resta un oggetto di culto, lo si ama, lo si coccola. Ma bisogna anche venderlo.
«Vorrei raggiungere la mia media di 10.000 copie, ma non è facile. Per vendere devi andare a presentarlo in tv da Fabio Fazio. Ho chiamato Massimo Gramellini, un ragazzo che avevo lanciato io al Giorno, e gliel' ho proposto. Forse si farà e forse no. Loro hanno già prenotato Naomi Campbell e Matteo Renzi, mi devo mettere in coda».
I contrabbandieri di Lezzeno. Perché proprio quelli lì?
«Perché a Lezzeno negli anni Settanta ci trovavamo noi del Club del giovedì. Andavamo al Crotto del misto con Gianni Brera, Giovanni Arpino, Mario Soldati e Giorgio Bassani. Non potevo esimermi dall' imparare a scrivere. Una squadra da Champions league, loro. Ma il più speciale era l' oste, il Bondi, che Brera definì l' italiano più intelligente privo di licenza elementare.
Poi arrivò anche l' Ottavio Missoni che portò il club a Milano, al Boeucc. Ma con lui tutto diventò più mondano».
Il suo bestseller resta 500 anni di tennis, l' avrebbe mai immaginato?
«Sono stato fortunato. Devo ringraziare Dennis Rhodes, che lo ha amato e diffuso. Lui era bibliotecario alla Northern library del British museum. Quando stavo a Londra andavo lì a imparare l' inglese e a guardare le turiste. Un giorno mi dice: "Lei è Clerìci, scrive sul tennis".
Aveva imparato l' italiano nell' Ottava armata durante la seconda guerra mondiale. È stato gentile, anche se gli ho smontato un mito: il tennis non l' hanno inventato loro. Ne parla già un filosofo italiano, Antonio Scaino da Salò, nel primo libro su questo sport nel 1552. Poi loro hanno fatto finta di reinventarlo nel 1870 grazie alle palle di caucciù importare dal Sud America».
E arriviamo ai gesti bianchi. Una battaglia fisica e mentale con una rete in mezzo per non sbranarsi. Ma adesso domina la noia. Colpa del sublime (ed eterno) Roger Federer?
«Lui è un fenomeno, riassume in sé l' essenza del mio sport. Se rischiamo la noia non è colpa sua, ma delle racchette. Quando si passò dal legno al metallo si sbagliava molto meno. Ora carbonio, strumenti spaziali. I giocatori non sbagliano più e dal campo esce la variabile più affascinante della vita umana, l' errore. In laboratorio stanno provando racchette con microchip che comunicano al computer ogni impatto per azzerare gli errori. Tutto ciò è disumano e lo pagheremo».
Perché finisce il fascino o perché vinceranno sempre gli stessi?
«Qualche anno fa il baseball commise la stessa imprudenza. Negli Stati Uniti vennero adottate le mazze di plastica e per una stagione si videro solo fuoricampo. La gente si annoiò e gli spettatori si dimezzarono. Allora la Lega decise di tornare indietro, e lo fece di corsa. Business is business, altro che tecnologia».
Oggi non c' è tv che non trasmetta lo sport a due voci. Lei e Rino Tommasi inventaste un format.
«Merito anche di Berlusconi, che importò gli sport americani dove la doppia conduzione era obbligatoria. L' uomo era avanti, nella comunicazione aveva visioni premonitrici. Il resto l' abbiamo messo noi, raccontando ciò che accadeva come se fossimo in diretta da una tribuna stampa. Tommasi snocciolava le statistiche e io provavo a trasformarle in conversazioni. Nacque un genere».
C' è chi oggi, davanti al ventesimo palleggio, rimpiange la follia di John McEnroe.
«Non io, era uno sbruffone. Mi spiace dirlo perché ero amico di suo padre. Un giorno mi presentò la mamma di quel fenomeno e io non riuscii a trattenermi. Le dissi: signora, perché quando era bambino non gli ha mai dato quattro sberle? Lei mi rispose: "C' era da avere paura già allora"».
Preferiva Bjorn Borg?
«Un bravissimo ragazzo, un tennista immenso che non riuscì mai a sostituire il campo con la vita. Una sera, poco prima di ritirarsi, andammo a cena a Las Vegas con Rino Tommasi. Borg ci chiese: cosa fareste al mio posto? Era terrorizzato. Fu vittima di tutti e di tutto. Ricordo quando andai all' ospedale Fatebenefratelli di Milano e lo trovai distrutto da un cocktail di oppio e alcool. Firmò per uscire il giorno dopo e contenere lo scandalo».
Il giocatore che più l' ha impressionata?
«Eravamo agli Open degli Stati Uniti. Il giornalista Bud Collins mi disse di correre al campo 16 dove giocava la più grande speranza americana di sempre. Io vado e vedo due ragazzini, uno sembrava un cinese e l' altro un messicano. Uno era bravo e l' altro un fenomeno. Torno da Collins e lui mi chiede: visto il cinese? Si chiama Michael Chang, sarà numero uno. Per me il genio era l' altro. Era Pete Sampras».
E l' italiano più bravo di sempre?
«Nicola Pietrangeli. Due Roland Garros, grande personalità. E poi è l' unico che ho battuto».
Secondo un giornatore è più importante la notizia o il racconto?
«La scrittura tutta la vita. Le notizie sono dentro il telefono, sono solo un punto di partenza. Mia nipote Anita ha 7 anni, qualche mese fa mi ha detto: "Nonno, se mi insegni a giocare a tennis, io ti insegno a usare lo smartphone". Abbiamo il dovere di dare a chi legge qualcosa di più».
Alla fine della storia, l' uomo dei gesti bianchi è soddisfatto del suo lavoro?
«Lasciamo stare. Io mi sono divertito, ma non ho mai lavorato neppure un giorno. Ero allergico alle polveri sottili della tipografia».
Massimo Gramellini per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.
Se oggi un adolescente mi chiedesse chi sia stato Gianni Clerici, gli direi: che cosa ti sei perso. Lui era la prova che il talento è come l'amore, un dono che può annidarsi in luoghi improbabili, per esempio nell'individuo più sbadato dell'universo. Clerici ha passato la vita a perdere tutto ciò che umanamente si può perdere - chiavi, biglietti, passaporti, biglietti dentro i passaporti - ma non ha mai perso la faccia e tantomeno sé stesso.
Ciascuno di noi ha un talento, purtroppo pochi lo trovano e quasi nessuno, dopo averlo scoperto, lo accetta. Il talento di Clerici non era la tv, dove pure funzionava benissimo, ma la scrittura laterale, quella capacità innata di guardare un fatto da una prospettiva eccentrica per coglierne l'essenziale e tradurlo in una prosa limpida e magica.
Lo scriba, come amava definirsi (non gli facevano difetto né l'autoironia né l'autostima), sosteneva che solo due accidenti gli avevano impedito di diventare Scott Fitzgerald: l'uso della lingua italiana, ignota oltre Chiasso, e l'identificazione con il tennis, di cui era il massimo cantore al mondo. Per molti intellettuali seduti, il giornalismo letterario sportivo è sempre stato un genere minore, anziché la prosecuzione di Omero. Clerici poteva anche dimenticarsi di scrivere chi avesse vinto la partita, ma la verità è che dopo aver letto il suo pezzo ti sentivi meglio.
P.S. Ciao Gianni, grazie di tutto. Mi chiamavi «Junior» e tale sarò sempre, sulle spalle di un gigante come te.
Stefano Semeraro per “la Stampa” il 7 giugno 2022.
Da giovani volevamo essere Gianni Clerici.
Possederne il tocco, la leggerezza mista alla profondità che hanno solo i fuoriclasse. Volevamo capire il segreto del ritmo, della luce che usciva dai suoi pezzi, tanto simile a quella irrequieta e variabile di questi giorni sopra Parigi, sopra il nuovo Roland Garros, sciccosissimo, moderno, una chicca da archistar - che poi chissà se gli sarebbe piaciuto.
Per lasciarci orfani, noi tutti innamorati fradici di tennis, Gianni ha aspettato che Nadal disegnasse un altro pezzo di storia nello spazio che era stato dei quattro Moschettieri francesi, Lacoste & Co, e soprattutto della Divina Lenglen, la sua Lenglen, a cui aveva dedicato anni di vita e di ricerche condensati in una magnifica biografia. Poi se ne è andato a 91 anni, con un gesto silenzioso, bianco, scivolando con la solita classe nella storia che lui stesso ha contribuito a scrivere.
È stato un ottimo tennista, Gianni, compagno di doppio di Pietrangeli, Gardini e Sirola, sfiorando la Davis, negli anni in cui a Wimbledon si andava in Topolino, sperando di essere ammessi al Tempio. Alla conoscenza pratica del gioco aveva aggiunto quella storica e tecnica, compulsando il suo amato Scaino da Salò, il primo teorico del "Giuoco"; o passando giornate nella biblioteca del British Museum per comporre, giovanissimo, 500 Anni di tennis, Bibbia ineludibile per chiunque ami il tennis che gli è valsa un posto, unico italiano insieme a Nicola Pietrangeli, nella Hall of Fame, l'arca della gloria del tennis a Newport.
Da giornalista aveva debuttato diciottenne su Il Tennis Italiano, storica rivista di settore. Gianni Brera, direttore della Gazzetta dello Sport, ne aveva intuito subito il talento, facendolo scrivere anche di sci, di calcio, di altri sport.
Era poi passato all'indimenticabile redazione del Giorno di Italo Pietra - Brera, Clerici, Fossati, Signori, solo purosangue a cui da ragazzi ci si abbeverava - prima di approdare a Repubblica. «Res Publica Clerici vagantes» scriveva sul cartoncino segnaposto in sala stampa, e quello si sentiva, giocando con il proprio cognome.
Non un chierico traditore, alla Julien Benda, ma un amanuense raffinato, devoto e insieme disincantato, con una dose di Nabokov, una di Arbasino, suo ex compagno di classe, e molte di Evelyn Waugh - il suo vero doppio - capace di scovare e tramandare storie, di riconoscere le reincarnazioni del Budda del tennis, da Hoad e Rosewall a Laver e Borg, dalla Graf a Sampras, a Federer, a Nadal.
Non solo giornalista, però, ma un «buono scrittore», come si definiva senza falsa modestia; autore di pièce teatrali, di romanzi fortunati - la trilogia dei Gesti Bianchi, Cuor di Gorilla, Quello del Tennis, Una notte con la Gioconda - di poesie, di racconti. «Un articolo deve essere un po' un teatrino», ti spiegava, lui che insieme a Rino Tommasi aveva creato la coppia televisiva più irresistibile e inimitabile dello sport, dialoghi e tempi comici degni di Neil Coward e Billy Wilder, raggiungendo anche chi di tennis non masticava troppo.
Dottor Divago, come lo si chiamava per le continue distrazioni, i pezzi smarriti con sconforto inconsolabile nella memoria traditrice del computer; comunque maestro di competenza e stile. «Gianni magari si dimentica di dirti chi ha vinto», lo canzonava Tommasi. «Ma sa sempre spiegarti perché». E Gianni, ribadendo tutta la sua ironica ammirazione di diversissimo gemello: «Rino a volte si assopisce in telecronaca, poi si sveglia improvvisamente annunciando il punteggio: ed è quello giusto».
Per carpirgli i segreti del mestiere, oltre a quelli che dispensava con generosità a chi sentiva più affine, provavi a seguirlo nelle sue peregrinazioni fra i court, a Wimbledon come a Parigi, provare a ribattere qualche suo slice di servizio sull'erba spelacchiata del Kooyong - quando alle redazioni si poteva ancora spedire un fax con il pezzo di giornata e Internet ancora non esisteva - passargli accanto una serata sul Bund a Shanghai, a cena da Gallagher a New York, alla National Gallery a Londra, fra mostre e sedute d'asta (degli amatissimi futuristi o di un seicentesco Desubleo); o ancora appostarti nell'ascensore di Melbourne in cui, miracolosamente, ogni giorno incontrava qualche celebrità destinata a illuminare uno dei suoi pezzi. Che magari snobbavano la (cosiddetta) notizia di giornata, ma ti aprivano un mondo nel giro elegantissimo di una frase.
Perché alla fine è vero - Josè Mourinho perdonerà la parafrasi - chi sa solo di tennis non sa nulla di tennis. E se Gianni è riuscito a raccontarla così bene, questa disciplina mistica e freudiana che si pratica con la racchetta e lottando contro se stessi, con infinita grazia, passione da archeologo e obiettività da entomologo, è perché ha saputo anche vivere: non al 5 per cento, ma al meglio dei cinque set. Dialogando con i campioni dello sport e con i grandi dell'arte, come i suoi mentori Mario Soldati e Giorgio Bassani, Luchino Visconti o Karen Blixen. Un talento di cui gli siamo grati, e riconoscenti. Nella quasi speranza di essere riusciti a imparare qualcosa, e nella certezza di non avergli mai fatto, se non altro, il torto di volerlo imitare. Perché di Clerici, sia chiaro, non ce ne saranno altri.
Articolo di Gianni Clerici per “la Repubblica” del 26 giugno 2003. Clerici raccontò così l'incontro con Nadal.
Parliamo tutti inglese, of course . Non tanto perché l'inglese sia il latino di questi nostri tempi, ma perché è la lingua del tennis. Così, come ne arriva uno che parla qualcos' altro, viene guardato non dico con sospetto, ma con viva perplessità. I casi sono tanto rari, che alla fine il simil-analfabeta diventa oggetto della generale compassione, aiutato in tutto, dalle interviste a qualche scupettino.
Questo per gli addetti. Quanto ai tennisti, il caso non è meno raro. E riguarda per solito qualche doppista azerbaigiano, o un qualificato andino. Così, oggi siamo rimasti increduli nell'accedere ad una sala stampa nella quale l'oggetto della nostra curiosità si esprimeva non si dice in castigliano, e neanche in catalano, ma in un gergo meno comprensibile, che - mi dicono gli amici spagnoli - si chiama maiorchino.
Il sedicenne ragazzo che ci aveva mezzo ipnotizzati viene infatti dall'isola di Maiorca, un posto fin qui noto per gli amori di Chopin e George Sand, e per aver ospitato una raffinata colonia inglese, nella quale primeggiava il poeta Robert Graves: non certo per i tennisti.
A Maiorca, in un tempo non lontano, è nato però un bellissimo ragazzo, che in altri tempi sarebbe stato bagnino. La presenza di un club tennistico diretto dallo ex Davisman Alberto Tous avrebbe facilitato l'affermazione del giovanotto, a nome Carlos Moya. Per specializzarsi, Carlos sarebbe dovuto salire su un ferry boat, e trasferirsi a Barcellona, la Mecca del tennis iberico.
Nei periodi di vacanza a casa era costretto a portarsi dietro un allenatore e, un giorno che questi era influenzato, prestò la sua racchetta a un ragazzino, già bravissimo nel gioco del pallone, perché suo zio Miguel Angel aveva giocato nella nazionale spagnola. Il ragazzino, Rafael, è lo stesso che abbiamo ascoltato affermare di non essere poi tanto sorpreso di aver passato due turni a Wimbledon, battendovi oggi un certo Childs, e l'altro ieri Ancic, l'erede di Ivanisevic, figurarsi.
Questo tipetto dal viso paffuto, non dissimile da Charlie Brown, ha avuto in sorte un braccio mancino col quale avrebbe potuto gestire irresistibili affondo, centrare un canestro da tre, mettere ko un peso massimo. Per la nostra fortuna di aficionados, ha trovato sul suo percorso una racchetta, e un campione come Moya, bisognoso di allenarsi. E tanto bene lo ha allenato, che alla prima occasione, ad Amburgo, ne è stato battuto. Rimaneva il dubbio che questo piccolo arrotino potesse smarrirsi, trasportato sui prati dalle native spiagge.
Ma, con qualche ragionevole riluttanza nei riguardi della rete, il piccolo non solo allenta liftoni, ma, alla prima necessità, stacca la manina bruna dalla presa bimane, e perpetra taglietti avvelenati quasi fosse nato sulle rive del Tamigi. Di questo fenomeno ha raccontato un aneddoto interessante Cash al mio amico Cazzaniga: «Dovevo giocare una esibizione a Maiorca con Becker.
Mezz' ora prima della partita, Boris si nega, per una bua. Giocherai con un ragazzino quattordicenne, l'unico tennista disponibile, mi dicono. Vado in campo preoccupato di fargli fare qualche game, perché magari non mi si metta a piangere. Perdo facile, in due set, e solo allora gli domando come si chiami: Rafael Nadal». Rafael si troverà, ora, di fronte ad un esame non facile. Paradorn Shrichapan, nato sui prati thai, capace di rimontare oggi un handicap di due set al francese Mutis.
Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 7 giugno 2022.
Era nato nel 1930, lo stesso anno di Neil Armstrong, il primo uomo a posare piede sulla luna, l’anno della prima proiezione a Berlino de “L’angelo azzurro”, il film che fa conoscere al mondo Marlene Dietrich, la diva più lunare di ogni tempo, l’anno della prima coppa del mondo in Uruguay.
Avendone viste così tante di cotte e di crude, di belle e di orride, avendone raccontate più di quante ne avesse viste, per via della sua straripante vena da affabulatore, un giorno, improvvisamente, si è sentito vecchio e se n’è andato, chissà dove. Peccato non sia stato possibile ascoltarlo un’ultima volta. La sua voce inguaribilmente snob e miracolosamente lieve avrebbe lasciato il suo capolavoro raccontando il proprio finale di partita, l’ultima volée, divinamente sconfitta e finita in un sospiro. Sicuramente leggiadro. Passato lo scriba, restano gli scribacchini, nel migliore dei casi gli scriba chini.
Si dice che i due, e quando si dice “i due” e si parla di tennis, non possono essere che loro due, Gianni Clerici e Rino Tommasi, quasi coetanei, si fossero un giorno scherzosamente dichiarati la sfida su chi sarebbe campato più a lungo su questa valle di lacrime, di dritti e di rovesci, facendo il verso a Enzo Biagi e a Sergio Zavoli (sfida, in questo caso, ampiamente vinta dal secondo).
Magari ipotizzando scherzosamente un’uscita di scena alla Molière, simultanea, in diretta, della serie “dopo di noi” il diluvio, commentando l’ultimo colpo di Roger Federer, un altro che non riesce a dare il suo tennistico addio perché fin troppo consapevole dell’abisso luttuoso in cui scivolerebbe il mondo e, dunque, adottando la sapiente strategia della fine centellinata. Sottilmente abituarsi giorno dopo, stilla di veleno dopo l’altra, all’ineluttabile lutto, non avendo noi umani sufficiente capienza per contenere cose troppo più grandi di noi, belle o brutte che siano.
Ci resta Rino Tommasi, ma chi sa quanto distante da sé, dal mondo e ora più che mai dal suo amico. Così diversi i due da risultare così intimi, Raffaello e Michelangelo, a cesellare la pietra e a scolpirla. L’uno che rilanciava l’altro nell’affinità dell’inconciliabile. Troppo intelligenti ed eleganti i due per ostinarsi e dunque dedicarsi una fine alla Molière. Sono sgattaiolati via in tempo, da vivi, giocando d’anticipo, mentre il tennis stava diventando una roba da “arrotini”, androidi sparsi tra campo e microfoni, invaso da eserciti di picchiatori dalla spalla bionica dentro un loop di noia accecante e ben prima dell’ultima piaga, l’avvento dei padellatori.
Come Roger Federer, i due ci hanno dato il tempo di abituarci alla mancanza, in questo caso della loro voce, mirabilmente assortita, nella magia permanente di una “mala” intesa che non aveva bisogno di copioni. Lo scriba ci ha lasciato il tempo e la facoltà di abituarci alla sua mancanza e a quella di Rino, a lui che ci raccontava gli eroi e le storie di Wimbledon come fossimo in una sala del Louvre o dell’Hermitage, ma sarebbe stato lo stesso fosse stato l’anfratto di qualche bordello minore. La sostenibile leggerezza della commedia umana, nella sua totalità, Clerici non si dava limiti né tregua nel raccontare.
“Quello del tennis” resta per tutti noi. Figlio unico di Lucia e di Luigi, eroe malato d’Africa e padre mitico in sella a un cavallo bianco, nella foto che Gianni teneva nel suo scrittoio. Venuto al mondo dalle parti di Como in una buona famiglia della media e dignitosa borghesia dedita allo sport e alle buone maniere. Mai pacchiana nelle tragedia e nei giorni di festa. Bambino esemplare, a sei anni, la sua prima lingua, il francese e la sua prima racchetta di legno (tennis, scherma o equitazione, non si scappava). Il primo circolo di Alassio.
Tennista più che dignitoso, ma sempre fuorviato e poi sopraffatto dalla voluttà della scrittura, a lato dei suoi studi mai troppo convinti di legge. Il suo giardino mitologico? Non quello di Wimbledon, ma quello di Villa Camuzzi dove aveva incontrato da ragazzo il suo Hermann Hesse, di cui aveva letto tutto, ma proprio tutto, senza trovare il coraggio di chiedergli un autografo. Ci tornò cinquant’anni dopo per prendere atto che tutto era cambiato.
Allievo e fraterno amico di Gianni Brera, “il Gadda spiegato al popolo” in una definizione di Umberto Eco. “L’uomo senza il quale non sarei mai diventato giornalista”, parole sue. In quel laboratorio di scrittura esplosiva che era “Il Giorno” di allora. “…Fra le mie colpe meno veniali è proprio questa, di aver istigato uno scrittore di sicuro talento al giornalismo”, scriveva Brera nella sua prefazione a un libro del prediletto Gianni del ’65.
Provò a scrivere anche di calcio, Clerici, ma mai troppo convinto e mai, soprattutto, troppo rapito. Fino al giorno in cui l’allenatore Annibale Frossi, campione olimpico nel ’36, in seguito giornalista, gli disse lapidario: “Nel calcio arriverai al massimo in serie A, nel tennis a Wimbledon. Scegli”. Gianni Clerici fece la scelta giusta.
Da ilnapolista.it il 7 giugno 2022.
Tra i tennisti italiani degli anni Settanta e Gianni Clerici e Rino Tommasi non ci sono stati rapporti semplici. Paolo Bertolucci lo ha scritto chiaramente su Twitter:
Nemmeno Adriano Panatta ha mai amato Gianni Clerici (scomparso oggi, a 91 anni) né Rino Tommasi. Lo ha ribadito in una intervista tre giorni fa al manifesto.
Il tuo rapporto con i mass media non deve essere stato facile negli anni in cui eri sotto i riflettori.
Non solo io ma tutta la squadra, abbiamo avuto i giornalisti di tennis contro. Specialmente due soloni come Gianni Clerici e Rino Tommasi.
E, a parte qualche rara di eccezione di libertà intellettuale, gli altri si lasciavano influenzare da questi due. Oggi la stampa è molto più ben disposta verso giovani come Berettini e Musetti. Non dico che all’epoca mia non meritavamo le critiche, ma non ci faceva piacere leggere cose dure scritte con disprezzo e classismo…
Classismo addirittura?
Si, perché eravamo quattro ragazzi provenienti da famiglie modeste: figli di custodi, di ferrovieri, Zugarelli era cresciuto nella strada… Quel tipo di giornalisti, invece, pensava che si potesse essere intelligenti solo con una laurea, mentre sappiamo benissimo quanti coglioni laureati ci sono in giro.
Noi abbiamo sdoganato il tennis dei club, dei circoli un po’ chiusi, luoghi in cui l’italiano medio aveva pudore a entrare perché non si sentiva a proprio agio. Con le nostre vittorie abbiamo contribuito al boom del tennis e tutti hanno iniziato a giocare. Ecco, se c’è un grande merito, al di là delle coppe vinte, è stato rendere il tennis uno sport democratico, per tutti.
Nella serie si vede Gianni Minà darti il tormento durante la partita e poi negli spogliatoi.
Sai con Gianni eravamo molto amici, poi lui si poneva in una certa maniera e onestamente non mi ha dato nessun fastidio. Oggi se provi ad avvicinarti a un giocatore ci sono i body guard che ti sbattono immediatamente fuori dal campo.
Gianni Clerici, i giornalisti, gli scrittori e quei vizi retorici dei temi in classe. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera l'8 Giugno 2022.
O uno è giornalista che ha scritto qualche libro o uno è scrittore che collabora con i giornali.
Seguendo Italia-Ungheria mi è tornato in mente Gianni Clerici. Per contrasto, ovviamente: per lui il calcio era sport plebeo, non degno delle attenzioni di un signore volutamente snob, ricco, colto, insoddisfatto: «Io sono un ricco che ha vissuto felicemente giocando a tennis. Faccio il giornalismo non per brama di denaro ma perché mi diverte andare in giro a vedere qualche torneo». Ho scritto insoddisfatto. Clerici lo era, soprattutto per una ragione. Si autodefiniva «scriba» non per richiamare con autoironia il dispregiativo «scribacchino» ma perché si sentiva scrittore, il suo desiderio era quello di essere considerato tale, al pari degli amici Soldati e Bassani. Non «giornalista e scrittore», ma scrittore e basta: «Ho scritto solo ventun libri di cui dodici di narrativa, lì ho sempre venduti, ho avuto delle recensioni buonissime, però non faccio parte della lobby».
L’espressione «giornalista e scrittore» a Clerici ripugnava, visto l’uso turpe che se ne fa. O uno è giornalista che ha scritto qualche libro o uno è scrittore che collabora con i giornali. Questo diffusa pratica di autodefinirsi «scrittore e giornalista» nasce non solo dal compiacimento di nobilitare il proprio ruolo di «scriba», ma appartiene a un vizio retorico che i greci chiamavano «dicolon»: il termine indica una serie binaria, una coppia di vocaboli o una sequenza di due membri in una frase, coordinati dalla congiunzione. È la figura paradigmatica dell’accumulazione. Claudio Giunta la definisce «coazione al dicolon, ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere “Ci vuole molta cura”, ma è irresistibilmente portato a scrivere “Ci vuole molta cura e molta attenzione”; vorrebbe limitarsi a dire che “Restano vari problemi aperti”, ma la coazione al dicolon lo trascina ad aggiungere “e varie questioni irrisolte”». Se davvero avete amato Clerici, non usate più l’espressione «giornalista e scrittore».
Dagospia su Il'8 Giugno 2022.
Direttore,
il giorno dopo la morte è partito il processo di beatificazione di Gianni Clerici. Lo Scott-Fitzgerald de noantri (come lui stesso si definiva).
Ora a parte che a giudicare dai giudizi di quelli che hanno letto i suoi romanzi non mi sembra ci si trovi dinanzi a un Garcia-Marquez incompreso.
I suoi articoli "tennistici" erano spesso insopportabilmente spocchiosi. Tra l'altro non era molto stimato da diversi suoi colleghi d'oltremanica che gli rimproveravano di fare spesso in conferenza stampa domande inappropriate alle tenniste del gentil sesso (si può ancora dire?). Paolo Ferraresi
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.
Seguendo Italia-Ungheria mi è tornato in mente Gianni Clerici. Per contrasto, ovviamente: per lui il calcio era sport plebeo, non degno delle attenzioni di un signore volutamente snob, ricco, colto, insoddisfatto: «Io sono un ricco che ha vissuto felicemente giocando a tennis. Faccio il giornalismo non per brama di denaro ma perché mi diverte andare in giro a vedere qualche torneo».
Ho scritto insoddisfatto. Clerici lo era, soprattutto per una ragione. Si autodefiniva «scriba» non per richiamare con autoironia il dispregiativo «scribacchino» ma perché si sentiva scrittore, il suo desiderio era quello di essere considerato tale, al pari degli amici Soldati e Bassani. Non «giornalista e scrittore», ma scrittore e basta: «Ho scritto solo ventun libri di cui dodici di narrativa, li ho sempre venduti, ho avuto delle recensioni buonissime, però non faccio parte della lobby».
L'espressione «giornalista e scrittore» a Clerici ripugnava, visto l'uso turpe che se ne fa. O uno è giornalista che ha scritto qualche libro o uno è scrittore che collabora con i giornali. Questa diffusa pratica di autodefinirsi «scrittore e giornalista» nasce non solo dal compiacimento di nobilitare il proprio ruolo di «scriba», ma appartiene a un vizio retorico che i greci chiamavano «dicolon»: il termine indica una serie binaria, una coppia di vocaboli o una sequenza di due membri in una frase, coordinati dalla congiunzione.
È la figura paradigmatica dell'accumulazione. Claudio Giunta la definisce «coazione al dicolon, ed è tipica dei temi in classe. Lo scolaro vorrebbe scrivere "Ci vuole molta cura", ma è irresistibilmente portato a scrivere "Ci vuole molta cura e molta attenzione"; vorrebbe limitarsi a dire che "Restano vari problemi aperti", ma la coazione al dicolon lo trascina ad aggiungere "e varie questioni irrisolte"». Se davvero avete amato Clerici, non usate più l'espressione «giornalista e scrittore».
Da ilnapolista.it – 24 luglio 2020
Gianni Clerici compie 90 anni. Lo “scrittore prestato allo sport” che ha raccontato il tennis meglio di chiunque altro negli ultimi 70 anni, ha un’aneddotica che lo riguarda che solo a farne un veloce elenco non basterebbero due tomi Treccani, come dice Ubaldo Scanagatta. Angelo Carotenuto, per il Venerdì di Repubblica, ha intervistato Nicola Pietrangeli, l’unico italiano con Clerici nella Hall of Fame del tennis. Clerici col doppio ruolo: ex giocatore (ha giocato anche un Roland Garros e a Wimbledon) e soprattutto da giornalista.
“Ma lui non ha mai lavorato per soldi. Ha scritto almeno due libri (“500 anni di tennis” e “Divina”) che fra due secoli saranno ancora consultati per sapere com’è che andavano le cose nel nostro lavoro. Quelli sono capolavori”.
Poi, dice Pietrangeli, ci sono i “romanzetti” tipo “I gesti bianchi”, scritto “per far vedere che rispetto a me lui c’aveva più donne. Gli è sempre piaciuto passare per un dongiovanni più di me. Onestamente non c’era partita”.
Clerici è famoso per le sue descrizioni femminili…
“Il suo è un atteggiamento quasi teppistico. Come nell’atteggiamento giocoso a far la checca. Non lo è. Ma racconta le donne e parla delle donne come una checca. Ci ha sempre giocato molto su questo registro, come con certe maniere tipicamente settentrionali, il suo campanilismo, il suo accento. Un po’ c’era un po’ ci faceva. Gli piaceva essere e interpretare il gagà milanese, gli piaceva essere e interpretare Gianni Clerici”.
Clerici ha sempre dribblato le contrapposizioni epocali su chi fosse il giocatore più forte di tutti i tempi. Pietrangeli la mette così:
“Potrei fare il presuntuoso. Potrei dire che batterei Federer ad occhi chiusi ma non ci sarebbe la controprova. E allora se non c’è non vale nemmeno il contrario. Ma io ho vinto da solo più Slam di tutti gli altri italiani della storia messi assieme. Se guardiamo solo le vittorie. Io prima del computer fra i primi 10 del mondo ci sono stato per 10 anni, due anni al numero 3, per due anni numero 1 sulla terra. Non lo dico per vantarmi. Ma quando un anno fa è venuto fuori il ragazzo altoatesino, Sinner, sa cosa ha scritto Clerici? E’ nato un altro Pietrangeli. Non è per dir male di Panatta…”.
Da repubblica.it il 10 Giugno 2022.
Tre anni di differenza, praticamente coetanei. Nicola Pietrangeli rappresentava quello cui Gianni Clerici ambiva: essere un bicampione Slam, con i suoi due Roland Garros. Sono cresciuti insieme, si sono anche incrociati sul campo di tennis da giovani. Poi l’uno ha seguito le vicende dell’altro.
Nicola, può raccontarci Gianni Clerici?
«Un sentimento: gagliardo, come si dice a Roma. Gianni era Gianni. Come faccio a raccontarvelo? Solo chi l’ha conosciuto può capire la sua grandezza, non si riesce in poche righe».
Proviamoci, iniziando da quando siete cresciuti insieme.
«Sì, lui a Como e io a Roma, città diverse ma il tennis ci ha fatto incontrare. Ci conoscevamo da settant’anni. Aveva tre anni più di me, pensate che mi aveva anche battuto una volta, sul campo: credo fosse un match di prima categoria».
E poi lei è cresciuto...
«Vabbè, non è che diventiamo tutti Federer, manco io. Le strade hanno preso direzioni diverse, ma lui ha trovato il modo e ci ha seguito in tutto il mondo, ha descritto le nostre gesta».
Con articoli, libri, telecronache. Tutti favolosi.
«Vogliamo parlare del suo libro, 500 anni di tennis? Credetemi, soltanto lui — nel mondo — poteva scrivere quel best seller, perché solo lui aveva i mezzi, letterari ed economici, per poter effettuare le ricerche che quel libro necessitava: lo immagino come una specie di Indiana Jones alla ricerca di manoscritti, quadri, opere d’arte antiche sulla racchetta. Come se avesse un sesto senso, una cosa che gli veniva naturale».
Una vita fenomenale, dunque.
«Mi piace pensare, ed è assolutamente così, che abbia avuto una vita piena. Che se la sia goduta alla grande con i tanti viaggi, la frequentazione di bella gente e i tanti riconoscimenti ricevuti».
Infatti ne condividete uno: siete entrambi nella Hall of Fame a Newport.
«Sì, mi ricordo quel giorno del suo ingresso nelle Leggende. Ora mi ha lasciato solo, e già mi manca...».
Di lei scriveva che era un inguaribile “tombeur des femmes”.
«Ehh... nei suoi libri c’è sempre stata una piccola sfida con me per le donne. Ma era gagliardo, e non gli si poteva che volere bene. Difficile trovare uno che gli volesse male».
Poi lo scriba si è trasformato in telecronista, con Rino Tommasi.
«Memorabili quelle loro telecronache, qualsiasi commento era accettato da tutti, e questo vuol dire che c’era un grande rispetto. Erano come Totò e Peppino».
Nicola, si percepisce il suo dolore.
«Eh... purtroppo, e lo dico per esperienza personale, a un certo punto le cose finiscono, ahinoi la storia finisce. Sarà una frase banale lo so, ma non avere più Gianni in giro è una gran perdita: lui era un genialoide, gli riuscivano delle cose in modo davvero creativo. Un altro come lui sarà difficile che nasca».
· Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.
Morto Bubi Dennerlein, ha formato campioni di nuoto e pallanuoto. "E' stato un pò il papà del nuoto italiano - si legge nella nota di condoglianze della Fin - ha raggiunto il fratello Fritz. Tutto il movimento è più solo. Ciao Bubi".
(ITALPRESS il 5 giugno 2022) - In lutto il mondo del nuoto. E' morto a Roma il maestro Costantino Dennerlein che avrebbe compiuto 90 anni il 28 dicembre prossimo e che ha formato generazioni di campioni.
Madre romena e padre tedesco, nato a Portici, in provincia di Napoli, Bubi si dedicò al nuoto e alla pallanuoto: è stato il primo campione italiano assoluto di nuoto della Canottieri Napoli, con cui ha conquistato 10 titoli e stabilito 4 record nazionali, ha partecipato alla Olimpiadi di Helsinki del 1952 e vinto 2 scudetti di pallanuoto, nel 1957 e nel 1958. Ma soprattutto è stato tra i più grandi allenatori che abbia annoverato il nuoto azzurro, che portò ad esempio di progresso e modernità: Prometeo e Copernico assieme, introdusse in Italia l'interval training e, applicando il metodo scientifico, i metodi della moderna biomeccanica. In Nazionale Bubi vi rimase 24 anni, guida del nuoto italiano per sette edizioni olimpiche da Roma 1960. I suoi atleti vinsero oltre 50 titoli italiani; tra loro anche il fratello Fritz Dennerlein, artista della pallanuoto e ottimo nuotatore che arrivò quarto alle Olimpiadi di Roma 1960 nei 200 farfalla, conquistò due bronzi europei e stabilì anche cinque record continentali tra 100 e 200 farfalla, e Novella Calligaris, tre medagle olimpiche a Monaco 1972 e l'oro iridato col record del mondo negli 800 a Belgrado 1973.
Nello stesso periodo, come allenatore della squadra maschile di pallanuoto vinse lo scudetto del 1963, il terzo della storia del CC Napoli, precedendo in classifica la Pro Recco e la Lazio.
"Il presidente Paolo Barelli, che ne fu atleta in nazionale alle Olimpiadi di Monaco 1972 e Montreal 1976 conquistando la prima storica medaglia mondiale del nuoto maschile a Cali nel 1975 - si legge nella nota - formula le più sentite condoglianze a familiari, parenti e amici a nome personale e di tutto il movimento. Si uniscono al dolore del presidente Barelli, il presidente onorario Lorenzo Ravina, i vice presidenti Andrea Pieri, Giuseppe Marotta e Teresa Frassinetti, il segretario generale Antonello Panza, il consiglio e gli uffici federali e tutta la Federazione Italiana Nuoto, dirigenti e dipendenti, azzurri di ieri e di oggi. Ciao Bubi, salutaci Fritz e continua a vincere".
Bubi Dennerlein, morto il «papà» del nuoto italiano: ha formato Novella Calligaris e generazioni di atleti. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.
Costantino Dennerlein aveva quasi 90 anni. Fu per 20 anni il c.t. della Nazionale di nuoto che vinceva le prime medaglie iridate e olimpiche.
È morto questa mattina, 5 giugno, a Roma Costantino « Bubi» Dennerlein, per oltre vent’anni commissario tecnico della nazionale italiana di nuoto.
L’ex nuotatore e pallanotista che avrebbe compiuto novanta anni il 28 dicembre prossimo, fu il maestro di Novella Calligaris e di generazioni di nuotatori azzurri attraverso sette Olimpiadi affrontate da responsabile della squadra italiana. «È stato un po’ il papà del nuoto italiano — si legge nella nota di condoglianze della Fin —, ha raggiunto il fratello Fritz. Tutto il movimento è più solo. Ciao Bubi».
Madre romena e padre tedesco, nato a Portici, in provincia di Napoli, Bubi si dedicò al nuoto e alla pallanuoto: è stato il primo campione italiano assoluto di nuoto della Canottieri Napoli, con cui ha conquistato 10 titoli e stabilito 4 record nazionali, ha partecipato alle Olimpiadi di Helsinki del 1952 e vinto 2 scudetti di pallanuoto, nel 1957 e nel 1958. Ma soprattutto è stato tra i più grandi allenatori che abbia annoverato il nuoto azzurro, che portò ad esempio di progresso e modernità: Prometeo e Copernico assieme, introdusse in Italia l’interval training e, applicando il metodo scientifico, i metodi della moderna biomeccanica. In Nazionale Bubi rimase 24 anni, guida del nuoto italiano per sette edizioni olimpiche da Roma 1960.
I suoi atleti vinsero oltre 50 titoli italiani; tra loro anche il fratello Fritz (Federico) Dennerlein (scomparso in un incidente stradale nel 1992), artista della pallanuoto e ottimo nuotatore che arrivò quarto alle Olimpiadi di Roma 1960 nei 200 farfalla, conquistò due bronzi europei e stabilì anche cinque record continentali tra 100 e 200 farfalla, e Novella Calligaris, tre medaglie olimpiche a Monaco 1972 e l’oro iridato col record del mondo negli 800 a Belgrado 1973. Nello stesso periodo, come allenatore della squadra maschile di pallanuoto vinse lo scudetto del 1963, il terzo della storia del CC Napoli, precedendo in classifica la Pro Recco e la Lazio. Nel 1966 era in rotta con la Federnuoto: questo gli salvò la vita, dato che scampò alla Tragedia di Brema.
Sono arrivate prontamente le condoglianze della Federnuoto attraverso il suo presidente Paolo Barelli «che ne fu atleta in nazionale alle Olimpiadi di Monaco 1972 e Montreal 1976 conquistando la prima storica medaglia mondiale del nuoto maschile a Cali nel 1975». La nota personale del n. 1 della piscina azzurra si chiude con un « Ciao Bubi, salutaci Fritz e continua a vincere».
· E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.
Morto Roberto Wirth, proprietario dell’hotel Hassler a Trinità de’ Monti. Lilli Garrone su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.
E’ morto improvvisamente, probabilmente per un infarto, a 72 anni Roberto Wirth, proprietario dello storico Hotel Hassler a Trinità de’Monti, uno degli alberghi più celebri del mondo, da cui sono passati celebrità, attori internazionali e regnanti, da Ranieri di Monaco ai Kennedy. A dare l’annuncio è stato è stato uno dei figli, Roberto jr., i funerali si svolgeranno martedì alle 11 nella chiesa di Trinità de’Monti. Wirth era sordomuto dalla nascita, anche se riusciva a leggere il labiale in 5 lingue, e per aiutare i bambini con il suo handicap ha dato anche vita a una fondazione che si occupava di assistenza. Amava molto le tartarughe, tanto che su questa sua passione ha scritto un libro autobiografico, «Parlavo solo con le tartarughe».
Si legge nel comunicato emanato dall’Hassler: «Ha sempre avuto un sogno fin da bambino: gestire in assoluta autonomia un hotel e di diventare un grande albergatore. Con la sua tenacia, tenendo sempre a mente il suo obiettivo, è riuscito a far diventare il suo Hassler un’icona dell’hotellerie a livello mondiale. L’Hassler è sempre stata la sua passione e la sua casa. Con il suo motto “Never give up” (non mollare mai), poi, è riuscito nel corso degli anni ad espandere e sviluppare l’azienda di famiglia e ad ampliare il suo portfolio: Il Palazzetto, Parco del Principe in Toscana, Borgo Bastia Creti in Umbria e Hotel Vannucci a Città della Pieve. “I miei 5 gioielli”, questi erano e saranno per sempre per il Sig. Wirth. La sua educazione e le sue esperienze formative a Milano, alla Scuola alberghiera di Stresa ed infine alla Cornell University sono state le basi del grande uomo e imprenditore. Brillante, attento, lungimirante non ha mai smesso di impegnarsi in prima persona sia per la sua città di Roma, dove come Presidente dell’Associazione di via Sistina-via F. Crispi si è sempre battuto per la riqualificazione e il decoro del centro storico, che per la sua Onlus Cabss, che dal 2004 supporta i bambini sordi e sordociechi da 0 a 6 anni e le loro famiglie. Raccontando e facendo conoscere le tappe della sua vita anche attraverso la sua biografia scritta con Corrado Ruggeri, “Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi” ha portato avanti il suo messaggio: “Guardare sempre avanti con determinazione e fiducia. Nella vita tutto è possibile e, con impegno, tutti possono farcela. Noi sordi possiamo fare tutto, tranne sentire”. Nel 1992 ha istituito una borsa di studio “Fulbright – Roberto Wirth” dando la possibilità a giovani laureati sordi e udenti la possibilità di specializzarsi presso la Gallaudet University, Washington D.C. (USA), in un’area che apporti beneficio ai bambini sordi e sordociechi italiani. Gallaudet University è l’unico ateneo al mondo bilingue (American Sign Language e Inglese), accessibile anche agli studenti sordi e sordastri. Il miglior modo per onorare la sua memoria sia far tesoro dell’esempio che ci ha lasciato, coltivare quei valori di umanità, responsabilità e apertura mentale di cui è sempre stato il più convinto promotore. Sarà, ora, il grande compito dei suo figli, Veruschka e Roberto Jr, di portare avanti con estremo orgoglio l’eredità del papà».
La famiglia Wirth è ormai alla sesta generazione della celebre dinastia di albergatori svizzeri. I genitori di Roberto, nato a Roma, erano Oscar Wirth e Carmen Bucher Wirth, entrambi discendenti di due famiglie di albergatori: i Bucher della regione di Lucerna in Svizzera e i Wirth da Maulach, in Germania. Per Roma e il suo centro storico aveva un amore infinito: è stato per anni presidente dell’Associazione di piazza di Spagna, battendosi a lungo per il decoro della Scalinata, negli ultimi tempi era presidente dell’Associazione di via Crispi e via Sistina.
Roberto Wirth e le sue passioni: alberghi, tartarughe e il decoro di Roma. Lilli Garrone su Il Corriere della Sera il 6 giugno 2022.
Lo storico proprietario dell’hotel Hassler scomparso domenica a 72 anni. Sordomuto dalla nascita ultimamente riusciva a far sentire la sua voce. Aveva applicato alla perfezione il suo motto: «Non mollare mai...»
Sempre impeccabile, spesso vestito di blu, Roberto Wirth riusciva ad esprimere con i suoi occhi celesti sorridenti, quello che aveva difficoltà ad esprimere con la voce. Il proprietario di uno dei più famosi alberghi di Roma e del mondo, l’hotel Hassler in cima alla scalinata di Trinità dei Monti (dove ha accolto per lunghi periodi attrici come Audrey Hepburn, la famiglia Kennedy o il principe Ranieri di Monaco e Grace Kelly, oltre Henry Kissinger, Reagan, Bush, Gabriel Garcia Marquez, Pablo Picasso fino a Steve Jobs, Madonna, Bill Gates e George Clooney) improvvisamente scomparso ieri, 5 giugno, all’età di 72 anni, era nato sordomuto ma riusciva a leggere il labiale in 5 lingue: di questo suo handicap aveva quasi fatto un punto di forza, ed ultimamente riusciva a far sentire la sua voce e a comunicare direttamente con chi gli stava di fronte.
Il libro sul suo handicap
Aveva così raccolto il frutto di lunghi sforzi ed applicato alla perfezione il suo motto «non mollare mai...». E lui non aveva mai mollato come ha raccontato anche nel suo libro «Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi» dove ha scritto: «Bisogna sempre guardare avanti con determinazione e fiducia. Nella vita tutto è possibile e con impegno tutti possono farcela». Dal 2004 con la sua fondazione Cabss supporta i bambini sordi e sordo - ciechi da 0 a 6 anni e le loro famiglie, e dal 1992 ha istituito una borsa di studio «Fulbright – Roberto Wirth» dando la possibilità a giovani laureati sordi e udenti la possibilità di specializzarsi presso la Gallaudet University a Washington.
Centinaia di tartarughe
Di questa sua attività extra alberghiera era molto orgoglioso così come era orgoglioso della sua fantastica collezione di tartarughe: ne aveva a centinaia nelle vetrine dell’albergo ed ultimamente ne aveva comprato anche un modello di notevoli dimensioni, «un capolavoro» lo definiva, che aveva collocato in uno dei saloni dell’Hassler. Ed era un uomo ricco di amore: per la sua famiglia e per i suoi figli Roberto Jr e Veruschka, per il suo albergo che aveva quasi moltiplicato aprendo sulla scalinata il «Palazzetto» e anche il luxury resort Borgo Bastia Creti in Umbria. Dal 2018 era proprietario anche dell’hotel Vannucci a Città della Pieve, sempre in Umbria e il «Parco del principe» sempre in Toscana, un’antica residenza di lusso, e soprattutto per Roma.
La battaglia per il decoro del centro storico
È stato per anni il presidente dell’associazione piazza di Spagna e Trinità dei Monti, osservando ogni giorno quello che accadeva sulla scalinata, facendo foto, e arrabbiandosi per i bivacchi o per i ragazzi che vi lasciavano le bottiglie di birra la notte. Adesso lo era diventato di via Francesco Crispi e via Sistina e con la stessa passione si batteva per il decoro di queste due strade, arrabbiandosi perché secondo lui erano trascurate dal Campidoglio. E la sua ultima battaglia era per l’illuminazione della facciata della chiesa: si era rotta una parte dei fanali che dovevano dar luce alla Santissima Trinità e non si dava pace perché la vedeva scura in parte: e su questo continuava a scrivere lettere all’amministrazione comunale.
Erede di una dinastia di albergatori svizzeri
Persona di grande fascino, credeva nella ristorazione di qualità e su questo ha sempre investito molto nel corso degli anni, prima con Francesco Apreda e poi con il giovane Andrea Antonini per il suo ristorante Imago, il roof dell’albergo con vista a 360 gradi sulla città. Era nato a Roma nel 1950 era la quinta generazione di una dinastia di albergatori svizzeri. I suoi genitori Oscar Wirth e Carmen Bucher Wirth erano entrambi discendenti di due famiglie di albergatori: la famiglia Bucher della zona di Lucerna in Svizzera e la famiglia Wirth di Maulach, in Germania. I funerali si svolgeranno dunque qui nella Capitale, ma la data e il luogo non sono ancora stati stabiliti.
Da leggo.it su il 5 giugno 2022.
Morto Roberto Wirth, proprietario dello storico Hotel Hassler a Roma: aveva 72 anni. Nato a Roma nel 1950 rappresentava la quinta generazione di una famosa dinastia di albergatori svizzeri. Persona di grande fascino, era sordomuto ma riusciva a leggere il labiale in 5 lingue.
I suoi genitori Oscar Wirth e Carmen Bucher Wirth erano entrambi discendenti di due famiglie di albergatori: la famiglia Bucher della zona di Lucerna in Svizzera e la famiglia Wirth di Maulach, in Germania. Oltre all'Hotel hassler, tra le proprietà della famiglia di Roberto Wirth anche il luxury resort Borgo Bastia Creti in Umbria e l'antica residenza di lusso - risalente alla seconda parte del XVIII° secolo Parco del Principe in Toscana. Dal 2018 era proprietario anche dell'Hotel Vannucci a Città della Pieve, in Umbria.
L'a l'Hassler Hotel, sopra Trinità dei Monti, era il gioiello di famiglia. Il super hotel a 5 stelle ha ospitato i più grandi della storia. ll presidente degli Usa Eisenhower trasformò una delle sue suite nel proprio studio privato prima della guerra; re Gustaf di Svezia invitò il suo chef pasticcere al proprio palazzo di Stoccolma per poter gustare il suo zabaione: naturale punto d'incontro dell'elite politica, economica e culturale italiana e straniera, l'hotel Hassler Roma ha accolto, negli anni, centinaia di personalità di spicco, dalla famiglia Kennedy al principe Ranieri di Monaco e Grace Kelly, Henry Kissinger, Reagan, Bush, Gabriel Garcia Marquez, Pablo Picasso fino a Steve Jobs, Madonna, Bill Gates e George Clooney.
Corrado Ruggeri per leggo.it il 5 giugno 2022.
E’ vissuto seguendo un comandamento semplice e difficilissimo: “Never give up”, non arrenderti mai. Il suo cuore si è arreso ieri mattina, una settimana dopo il compleanno. Roberto Wirth aveva 72 anni, ma a vederlo e a conoscerlo bene comunicava l’entusiasmo e la forza di un ragazzino. E il fascino di un uomo sempre elegante e sorridente. Ha guidato il suo albergo “la mia signora”, come amava chiamarlo, con sapienza e senza mai una distrazione.
L’Hassler è il tempio dell’albergatoria mondiale, mai nessun dettaglio fuori posto, perché lui controllava sempre tutto, con maniacale attenzione: severo con i suoi e con se stesso, preoccupato di particolari che ad altri sarebbero sembrati insignificanti ma che per lui erano essenziali. Ogni mattina cambiava posto a una delle tartarughe che formano la sua enorme collezione: era il modo simpatico e scaramantico di avviare la giornata.
Le tartarughe sono state le sue compagne di vita: “Vanno piano, ma arrivano sempre fino a in fondo” diceva. E allora le tartarughe di cioccolato servite con il caffè, i gemelli a forma di tartaruga, perfino un grande puff comprato in Oriente, con quella forma simpatica e il collo lungo.
E’ stato un grande, coraggioso come pochi, anche nello svelare le sue intimità in un libro che abbiamo scritto insieme, “Il silenzio è stato il mio primo compagno di giochi”. Un successo editoriale, nel quale ha raccontato se stesso, non senza sofferenza: la sua famiglia, il rapporto d’amore ma anche complesso con i genitori, l’orgoglio per i gemelli, Roberto jr e Veruscha, ai quali ora spetterà il compito di proseguire la sua opera. E poi il mondo dei sordi, ai quale era legatissimo: “Ai sordi è consentito fare tutto – diceva - tranne che sentire”. Non voleva che venissero chiamati “non udenti”, non gli piacevano le facili concessioni al politicamente corretto.
Il mondo lo piangerà, da capi di Stato a Re, a star e donne ed uomini di cultura. Noi ci uniamo al dolore dei molti, perché Roberto resterà in tutti i nostri cuori.
· È morto il bassista Alec John Such.
È morto Alec John Such, primo bassista e fondatore dei Bon Jovi: aveva 70 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 6 Giugno 2022.
A dare la notizia sui social è stata proprio la rock band americana. Such aveva suonato con loro dal 1983 al 1994.
È morto Alec John Such, primo bassista nonché uno dei fondatori dei Bon Jovi. A dare la notizia, senza aggiungere dettagli sulle cause del decesso, è stato proprio il gruppo rock americano, in cui Such, spentosi a 70 anni, ha militato dalla nascita, nel 1983 fino al 1994. «Abbiamo il cuore spezzato alla notizia della morte del nostro caro amico Alec John Such. Era un originale. In quanto membro fondatore dei Bon Jovi, Alec era essenziale alla formazione della band - hanno scritto i Bon Jovi su Twitter -. A dire il vero, ci siamo trovati grazie a lui. Era un amico di infanzia di Tico (Torres, il batterista, ndr) e ha portato Richie (Sambora, il chitarrista, ndr) a vederci dal vivo. Alec era sempre scatenato e pieno di vita. Oggi quei ricordi speciali portano un sorriso sul mio viso e una lacrima nei miei occhi. Ci mancherà molto».
Such aveva lasciato la band di «Livin' on a prayer» e «Always» nel 1994 per motivi personali, sostituito dal bassista Hugh McDonald. Nel 2018 si era però riunito con gli ex compagni, capitanati dal cantante John Bon Jovi, quando il gruppo è stato inserito nella Rock & Roll Hall of Fame nel 2018: in quell'occasione aveva parlato con grande affetto del suo periodo insieme a loro dicendo «li amo da morire e sarà sempre così».
E' morto Alec John Such, storico bassista Bon Jovi. Aveva 70 anni. L'annuncio sui social è arrivato da Jon Bon Jovi. La Repubblica il 6 Giugno 2022.
È morto il bassista Alec John Such, membro fondatore dei Bon Jovi. Aveva 70 anni. Lo ha annunciato Jon Bon Jovi sui suoi social media.
"Siamo affranti nell'apprendere la notizia della morte del nostro caro amico Alec - ha scritto il cantante americano -. Come membro fondatore dei Bon Jovi, è stato parte integrante della formazione della band. Ad essere onesti, abbiamo trovato la nostra strada l'uno per l'altro attraverso di lui. Era un amico d'infanzia di Tico Torres e ha portato Richie Sambora a vederci esibire. Alec è sempre stato selvaggio e pieno di vita. Ora questi ricordi speciali mi portano un sorriso sul viso e una lacrima agli occhi. Ci mancherà moltissimo".
Fondati nel 1983, John Such è rimasto nei Bon Jovi fino al 1994. È stato sostituito dal bassista Hugh McDonald, diventato membro ufficiale della band nel 2016.
· È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund.
È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund che attaccò le teorie del nonno. Sophie Freud su La Repubblica il 4 giugno 2022.
Aveva 97 anni. Docente di psichiatria negli Stati Uniti, dove era approdata per fuggire dai nazisti, del padre della psicoanalisi disse: "Lui e Adolf Hitler falsi profeti del XX secolo". Tra i bersagli delle sue critiche, l'invidia del pene come elemento costitutivo della femminilità.
Sophie Freud, l'ultima sopravvissuta dei nipoti di Freud, è morta nella sua casa di Lincoln, nel Massachusetts. Aveva 97 anni. Il decesso è avvenuto venerdì 3 giugno, è stata la figlia Andrea a darne notizia al New York Times, spiegando che la madre aveva un tumore al pancreas.
Nata a Vienna il 6 agosto del 1924, era la figlia di Jean Martin Freud, il figlio maggiore di Sigmund Freud. Sophie era cresciuta in quello che sua madre Ernestine Drucker definiva un "ghetto ebraico di classe media superiore" a Vienna, in una famiglia in cui i suoi genitori conducevano vite separate. I suoi ricordi erano confluiti nel memoir Living in the Shadow of the Freud Family (Vivere nell'ombra della famiglia Freud), una raccolta di lettere familiari pubblicate nel 2007. Una famiglia turbolenta: le aspre liti dei genitori tra loro, quelle di Sophie con il fratello, il rapporto difficile con la madre che alla fine arriverà con fatica a una riconciliazione. Anche il suo matrimonio, finito dopo 40 anni, era stato complicato. Provando a spiegare quella separazione giunta dopo tanto tempo, pare che Sophie abbia detto: "Non potevo immaginare di diventare vecchia con un uomo al mio fianco".
Le critiche al nonno Sigmund
Ma la cosa più coraggiosa forse non è stata separarsi dal marito ma dall'eredità spirituale del nonno. Sull'efficacia terapeutica della teoria freudiana Sophie Freud aveva molti dubbi. Nel 2002 aveva detto al Boston Globe di essere "molto scettica", motivando così le sue opinioni: "Penso che sia un'indulegnza narcisistica". Da parte sua aveva affrontato la vita, i problemi coniugali, la crescita di tre figli, il confronto con la propria storia familiare, senza mai sottoporsi alla psicoterapia.
Professoressa di psicologia alla Simmons University di Boston, ha dedicato la sua carriera di psicosociologa alla protezione dei bambini e all'introduzione del femminismo nel campo del lavoro sociale, considerando superate alcune teorie del nonno, soprattutto riguardo alle donne e al loro ruolo. Non la convinceva il concetto di "invidia del pene" né l'impostazione di fondo che sembrava ancora non del tutto libera da preconcetti.
Sebbene abbia spesso sfidato la visione patriarcale dell'epoca vittoriana sulla sessualità femminile, scrisse la nipote, Sigmund Freud "ha rispecchiato nelle sue teorie la convinzione che le donne fossero secondarie e non fossero la norma". Fino ad un accostamento discutibile che creò comprensibilmente molte polemiche. In un'intervista per un film della televisione canadese, Neighbours: Freud e Hitler a Vienna (2003), Sophie Freud affermò: "Ai miei occhi, sia Adolf Hitler che mio nonno erano falsi profeti del XX secolo". Condividevano, secondo le sue parole, "l'ambizione di convincere gli altri uomini dell'unica e sola verità che avevano scoperto".
La fuga della famiglia dai nazisti
Gran parte della famiglia di Sigmund Freud fuggì dall'Austria in seguito all'annessione nazista del 1938. Anche il padre di Sophie fuggì da Vienna per Londra nel maggio 1938. Sophie e sua madre intrapreso un lungo viaggio a tappe, approdando prima a Parigi, poi in bicicletta fino alla Costa Azzurra, in nave in Marocco, in aereo in Portogallo e infine una traversata in terza classe fino agli Stati Uniti. Arrivarono a New York nel novembre 1942, senza casa e praticamente senza un soldo.
Nel 1945 riuscì a laurearsi in psicologia Radcliffe College, a Cambridge, nel Massachusetts, grazie a Edward Bernays, il pioniere delle pubbliche relazioni e anche lui imparentato con Sigmund Freud, che le pagò la retta.L'estate prima del suo ultimo semestre a Radcliffe, dove si laureò in psicologia, sposò Paul Loewenstein, un ingegnere ed emigrato ebreo fuggito da un campo di prigionia francese. Si erano conosciuti in Francia, hanno divorziato nel 1985. Oltre alla figlia Andrea, scrittrice, alla professoressa Freud sopravvivono un figlio, George Loewenstein, che insegna economia e psicologia alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh, un'altra figlia, Dania Jekel, direttrice dell'Asperger-Autism Network di Watertown, Massachusetts, cinque nipoti e due pronipoti.
Sophie Freud durante la sua lunga carriera ha lavorato, oltre che nell'accademia, anche in cliniche e ospedali psichiatrici e come specialista di adozioni in un'agenzia di assistenza sociale.
· E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata.
Da corrieredellumbria.corr.it - articolo del 28 gennaio 2021
Roberto Brunetti , conosciuto al grande pubblico come "Er Patata", è ora sul lastrico. L'attore romano, 53 anni, che ha partecipato a tanti film con i volti più noti della commedia italiana, ha dichiarato il suo stato di indigenza. Nell'intervista di oggi di Pomeriggio Cinque , il programma condotto da Barbara D'Urso, ha raccontato: " Vivo con il reddito di cittadinanza ".
Per sedici anni è stato il compagno di Monica Scattini, ma poi la loro storia è finita nel 2011. Nel 2017 un triste episodio di cronaca: l'ex attore è stato infatti arrestato nella capitale. Brunetti è stato fermato dai carabinieri in via Mameli: l'uomo, allora 50enne, è stato sorpreso mentre acquistava una dose di cocaina. Dopo la convalida dell'arresto, davanti al giudice monocratico, il magistrato ha accolto la richiesta del pm, disponendo per Brunetti gli arresti domiciliari. Già nel 2009 era stato trovato in possesso di droga: cento grammi di hashish nascosti nel motorino. Una quantità in grado di procurare 550 dosi.
Brunetti disse che erano per uso personale, ma i militari effettuarono anche una perquisizione nella sua abitazione, dove trovarono altri 100 grammi di hashish. Episodi, questi ultimi, che gli hanno precluso il ritorno sul grande schermo, che è sempre stato il suo grande sogno. Nel 2014 ha aperto una pescheria, provando così a reinventarsi. Ma le difficoltà non sono finite.
"Ho dovuto chiudere la pescherie perchè ho due protesi, una al ginocchio e una all'anca", ha spiegato a Barbara D'Urso.
"Ora voglio lavorare: dal 2019 sono uscito dalla vicenda giudiziaria e ora voglio ricominciare", ha detto Brunetti. La sua storia è stata affrontata in parallelo con Domenico Cantarini, il bambino del film "La vita è bella", che ora lavora in un call center. O con la storia del comico Mandi Mandi, anche lui ora in serie difficoltà economiche.
(AGI il 4 giugno 2022) – L'attore Roberto Brunetti, 55 anni, conosciuto come 'Er Patata', e' stato trovato senza vita ieri alle 22.30 nel suo appartamento in via Arduino, a Roma. Sul posto, oltre ai vigili del fuoco, i poliziotti del commissariato San Lorenzo e i colleghi del Distretto Salario.
L'attore è stato trovato riverso sul letto posizione supina e coperto da un lenzuolo. Sul cadavere nessun segno di violenza, ma la salma è stata messa a disposizione dell'Autorità giudiziaria.
Camilla Mozzetti per ilmessaggero.it il 4 giugno 2022.
Riverso sul letto, in posizione supina con addosso solo un lenzuolo. Così ieri sera intorno alle 22.30 gli agenti di polizia del commissariato San Lorenzo insieme ai vigili del fuoco hanno trovato il corpo ormai senza vita di Roberto Brunetti, classe 1967, conosciuto a Roma e non solo con il soprannome “er Patata”.
L’attore, per tanti anni legato sentimentalmente alla collega Monica Scattini, in una delle ultime interviste rilasciate alla tv aveva raccontato la sua sfortuna e una carriera che dopo tante soddisfazioni stentava a ripartire.
A dare l’allarme l’attuale compagna ed alcuni conoscenti che non lo sentivano almeno da giovedì sera, ovvero da quando per l’ultima volta, si era collegato a whatsapp. Il corpo è stato messo a disposizione della polizia giudiziaria mentre in casa è stata rinvenuta della droga. In casa sul tavolo hanno trovato residui di cocaina e due panetti di hashish.
Roma, le indagini sulla morte di Roberto Brunetti Er Patata: "In casa tracce di cocaina e hashish". Il Tempo il 04 giugno 2022
È stato ritrovato senza vita nella sua abitazione a Roma, in via Arduino, nella zona di Porta Pia, l’attore Roberto Brunetti, 55 anni, conosciuto come "Er patata". Era riverso sul letto, coperto da un lenzuolo e sul corpo nessuna traccia di violenza. Secondo una prima ricostruzione nell’abitazione gli agenti avrebbero ritrovato "resti di cocaina e due panetti di hashish". Ma sarà l’autopsia, disposta dalla Procura di Roma, a stabilire quali siano state le cause del decesso e se c’è una relazione tra le sostanze stupefacenti che gli inquirenti avrebbero rinvenuto in casa e la morte dell'attore romano. A chiamare i soccorsi, è stata la compagna dell’attore, preoccupata perché non riusciva a mettersi in contatto con lui. I primi ad arrivare a casa di Brunetti sono stati i vigili del fuoco che poi hanno allertato la polizia.
Sono tuttora in corso le indagini per cercare di ricostruire gli ultimi contatti e gli spostamenti di Brunetti prima del decesso. Da tempo ormai era lontano dalle scene, anche a causa dei problemi di dipendenza dalla droga. "Er patata" aveva conquistato le scene negli Anni ’90. Fu Ledonardo Pieraccioni a lanciarlo con il film "Fuochi d’artificio" nel 1997, e L’anno successivo, nel 1998, recitò in Paparazzi di Neri Parenti. Brunetti ha recitato anche in film più impegnati, come Fatti della banda della Magliana e Romanzo criminale di Michele Placido, entrambi del 2005. Ha avuto ruoli anche in «Distretto di polizia», «Un ciclone in famiglia». Abbandonate le scene, Brunetti aveva aperto una pescheria che però era fallita. Nel 2017 fu arrestato per detenzione di stupefacenti. «Ciao Patata - ha scritto su Instagram Leonardo Pieraccioni - Ci eravamo persi di vista ma saremo sempre insieme in questo film spensierato».
Morto "er patata": l'attore Roberto Brunetti trovato nel suo letto. Aveva 55 anni. La Repubblica il 4 giugno 2022.
L'attore romano trovato senza vita nella sua casa di Roma dalla compagna e da alcuni amici che non riuscivano a mettersi in contatto con lui. L'indagine: trovata cocaina in casa, l'autopsia dovrà indicare la causa di morte.
È morto "er patata", l'attore romano Roberto Brunetti. Aveva 55 anni. È stato trovato senza vita nella sua abitazione, vicino piazza Bologna, quartiere della Capitale, dopo che a dare l’allarme erano stati la compagna e alcuni conoscenti che non riuscivano a mettersi in contatto con lui. L’appartamento dell'attore è stato trovato in ordine e sul corpo di Brunetti non ci sarebbero segni di violenza. Ma in casa sono state trovate tracce di cocaina. Si attende comunque l'esito dell’autopsia per stabilire con certezza le cause del decesso.
"Er patata", questo il soprannome con il quale Brunetti era noto nell'ambiente del cinema e non solo, deve la sua celebrità soprattutto alla partecipazione ad alcune commedie di grande successo a fine anni novanta, come Fuochi d'artificio diretto nel 1997 da Leonardo Pieraccioni e Paparazzi di Neri Parenti uscito nel 1998, ma ha anche preso parte a film drammatici come Fatti della banda della Magliana e Romanzo criminale, diretto da Michele Placido nel 2005 e adattato dall'omonimo romanzo, entrambi ispirati alle vicende della banda della Magliana. Dal 2012, anno in cui uscirono nelle sale Il rosso e il blu e Baci salati, non era più apparso sul grande schermo e si era dedicato ad altri lavori.
Nel 2009 Brunetti fu arrestato dai carabinieri dopo essere stato trovato in possesso di hashish in scooter con un amico a Trastevere. Per molti anni, fino al 2011, è stato il compagno dell'attrice Monica Scattini, scomparsa nel 2015.
Amori, droga e il cinema di “Er Patata”, una vita da romanzo criminale. Enrico Sisti La Repubblica il 5 giugno 2022.
L’attore Roberto Brunetti morto a Roma. In casa trovata cocaina e hashish. La sua notorietà legata al personaggio di Aldo Buffoni nel film di Placido del 2005. Dal 2012 l’oblio.
Forse per quel giallo sporco fra i capelli, lo chiamavano "Er Patata", come altri mille a Roma. E Roberto Brunetti, una breve carriera di attore interrotta dieci anni fa, è morto lasciando una scia di giallo anche sulla sua vita: ieri mattina l'hanno trovato solo in casa sul letto, coperto da un lenzuolo. Nel suo appartamento vicino a piazza Bologna un po' di droga nascosta male o per niente. Si attende l'autopsia. Aveva una compagna. Aveva una figlia, Giulia. E aveva soltanto 55 anni, appena compiuti.
Brunetti era il maudit della porta accanto con una smorfia permanente sul viso, come se stesse sempre sul punto di sorridere: salvo poi ripensarci ogni volta. Ciondolava animato da un permanente rancore. Quando uscì dal carcere per una questione di droga, faticò a riprendersi. Girava per i bar di Trastevere e agli occasionali amici di tavolo raccontava sempre la stessa storia di malavita arrivata di striscio tra le sue cose e mai allontanata completamente (almeno così diceva). Ai suoi spettatori da aperitivo regalava una frase abituale per chi è stato "a bottega" (anche se per soli sei mesi a Velletri): "In galera ce so' stato e nun ciò problemi a tornacce!", sottintendendo di essere pronto a tutto e mimando chissà perché il gesto di chi sta per sparare un colpo di rivoltella.
Era arrabbiato con tutti, con chi lo teneva, a suo dire, lontano dalla figlia, con i vecchi amici delle produzioni cinematografiche che "...fanno tanto i simpatici ma poi non ti si filano più", col lavoro al banco del pesce (come suo padre). Era arrabbiato con la depressione e con se stesso, per non aver mai metabolizzato la fine del rapporto con Monica Scattini, scomparsa nel 2015. Un amore sincero, lei più grande di lui, attrice come lui era attore, finito nel 2011.
Brunetti ha un momento di fragile notorietà quando nel 2005 interpretò Aldo Buffoni in Romanzo criminale, dove viene freddato dal Freddo: la sua parte ideale, un briccone ingenuo, cattivo a metà e con un karma disarmante. "Romanzo criminale" non fu preceduto né seguito da momenti altrettanto degni sul set.
Col cinema smise, non per sua volontà, dieci anni fa. Faceva tenerezza per quanto era capace di trasmettere disagio: disagio che Brunetti trasformava in un sentimento di strada, da offrire al primo sguardo prolungato di uno sconosciuto. Ultimamente aveva ricominciato a vivere. Lavorava in un ristorante in piazza San Cosimato. Pensava alla figlia. Trastevere gli stava dentro. Ma dentro, per rubare le parole a Carlo Verdone, "...er Patata c'aveva 'na situazione teribbile!". Diceva che si sarebbe preso le sue rivincite. Nel senso buono. Completamente solo non era. Tanto è vero che la sua compagna e qualche conoscente l'hanno cercato a lungo prima di chiamare polizia e pompieri. Ma sono arrivati tardi.
Camilla Mozzetti e Gloria Satta per “il Messaggero” il 5 giugno 2022.
«L'ultima volta che l'ho visto sarà stato un paio di giorni fa: su per le scale con la bambina che correva e lui che le diceva aspetta nì che non ce la faccio, si fermava sempre per un saluto, una battuta, solo qualche sera fa avevo visto in tv un film in cui c'era lui, gliel'avevo detto e mi rispose, signò, sono finiti quei tempi».
Alle dieci del mattino in quel cortile di case popolari a pochi metri dalla stazione Tiburtina si sente solo il silenzio. Non c'è più il frastuono di sirene, di urla disperate, delle ruote di una barella che sbattono sul selciato portandosi via il corpo ormai senza vita di Roberto Brunetti, 55 anni.
Er Patata, così era conosciuto l'attore di natali romani, che da ultimo aveva dato il volto ad uno dei fratelli Buffoni nel film diretto da Michele Placido Romanzo Criminale. Il suo corpo è stato trovato venerdì sera, intorno alle 22, riverso supino sul letto, coperto soltanto da un lenzuolo: il cuore non batteva più da diverse ore.
La scoperta è stata fatta perché l'ex compagna ed alcuni parenti non lo sentivano da giovedì sera e preoccupandosi, hanno chiamato le forze dell'ordine.
Così al terzo piano di quell'edificio con le porte che affacciano sui ballatoi pieni di stendini e fiori poco curati, sono arrivati anche i vigili del fuoco che hanno sfondato la porta.
Da qui le urla della sorella e dell'ex compagna che sono rimbalzate per tutto l'edificio. Ma nessuno degli altri condomini poteva credere che Er Patata fosse morto. «Pensavo ad un incidente domestico - ricorda Marco Ricciotti, suo vicino - credevo che una donna si fosse scottata perché urlava, non pensavo proprio ad una cosa del genere». In casa di Brunetti la polizia ha trovato tracce di cocaina su un tavolo e due panetti di hashish nonché un bilancino di precisione.
Con la droga l'attore aveva combattuto in passato. Legato per tanti anni alla collega Monica Scattini, scomparsa nel febbraio 2015, Er Patata era stato arrestato per possesso ai fini di spaccio di stupefacenti. Nel 2009, infatti, a seguito di un controllo i carabinieri trovarono nel suo appartamento due panetti di hashish. Nel 2017 fu arrestato mentre acquistava della cocaina.
La sua carriera cinematografica ne risentì al punto che l'attore, da tempo lontano dagli schermi, percepiva il reddito di cittadinanza e da qualche mese lavorava in un ristorante di Trastevere. La Procura ha aperto un fascicolo per morte come conseguenza di altro reato mentre la polizia ha sequestrato il cellulare al fine di ricostruire telefonate e messaggi e capire da chi Brunetti abbia acquistato la droga.
Non si può escludere - ma sarà l'autopsia a dirlo nei prossimi giorni - che sia stata fatale un'overdose. Intanto il mondo del cinema ricorda Er Patata anche con tristezza.
«Fu Giovanni Veronesi, che lo conosceva come compagno di Monica Scattini, a suggerirmi di prenderlo per il ruolo del fidanzato agli arresti domiciliari di Barbara Enrichi - ricorda Leonardo Pieraccioni che lo fece esordire come attore in Fuochi d'artificio - Prima di proporgli il film, lo invitai a cena per studiarlo e capii che era perfetto.
Lui si adattò subito al set, si divertì molto e, mantenendo i piedi per terra, cominciò a pensare al cinema come sbocco professionale. Era semplice, solare, simpatico. La sua morte mi addolora molto».
Neri Parenti lo volle in Paparazzi: «Dopo averlo visto in Fuochi d'artificio, lo scritturai per il ruolo del paparazzo nipote di Christian De Sica. Bravissimo in cucina, sul set ci preparava delle cene favolose. Giravamo a Porto Rotondo e ogni giorno, dopo le riprese, andava sul pontile per dar da mangiare ai pesci - ricorda il regista - Malgrado il fisico massiccio, era un uomo sensibile.
Monica Scattini e lui, così diversi, formavano una coppia apparentemente improbabile, ma si amavano molto».
In molti non dimenticheranno la sua allegria «Era simpatico, modesto, anche un po' ingenuo: in albergo venne a sbirciare se avevo la camera migliore della sua... - aggiunge Massimo Boldi - quando giravamo la serie Un ciclone in famiglia, accompagnava sempre Monica Scattini. Se ne sono andati entrambi troppo presto».
Camilla Mozzetti per “il Messaggero” il 6 giugno 2022.
L'ultimo collegamento su Whatsapp c'era stato nella serata di giovedì, intorno alle 21. Poi il silenzio anche se quel cellulare non ha smesso di squillare neanche quando nell'appartamento erano già in corso i rilievi della Scientifica.
Com' è morto Roberto Brunetti, conosciuto da tutti con il soprannome di er Patata?. L'ipotesi più attendibile è che a stroncare l'attore, caduto in disgrazia, sia stata un'overdose. Droga dunque, all'origine del decesso, la stessa con cui il 55enne, faceva i conti, a fasi alterne, dal lontano 2009.
Oggi verrà conferito l'incarico per eseguire l'autopsia mentre si attende un nuovo sopralluogo nell'appartamento di via Arduino, pochi passi dall'autostazione dei bus della Tiburtina, dove Brunetti è stato trovato senza vita la sera di venerdì, poco dopo le 22 anche se il decesso risalirebbe ad almeno un'ora prima.
L'ex compagna ed alcuni parenti non sentendolo da un giorno intero hanno chiamato i soccorsi: la porta era chiusa dall'interno così è stato necessario l'intervento dei vigili del fuoco che l'hanno sfondata.
Quando gli agenti del commissariato Salario-Parioli insieme al personale delle volanti di San Lorenzo sono entrati nell'appartamento la luce era accesa mentre Brunetti, ormai senza vita, si trovava sul letto, supino, coperto solo da un lenzuolo. Proprio quella luce accesa lascerebbe supporre che il decesso sia avvenuto tra le 19 e le 22.
L'appartamento si trova in un vecchio condominio di case popolari e nonostante sia al terzo piano la luce filtra con difficoltà anche se fuori è ancora giorno. Sul tavolo la polizia ha trovato delle tracce di cocaina e due bustine contenenti dell'erba che però dovrà ancora essere analizzata, in quanto il narcotest non è stato eseguito nell'immediato.
Si presume sia hashish ma questo non uccide. Non è escluso che, considerati i residui di polvere bianca, Brunetti abbia assunto della coca tagliata male, si sia steso sul letto e sia morto di overdose.
L'appartamento non era a soqquadro, non c'era radio o televisione accesa, solo la luce. Ma non si può escludere ad esempio che nel pomeriggio qualcuno sia entrato magari per recapitare proprio quella cocaina. Motivo per cui sarà dirimente l'analisi sul cellulare sequestrato alla vittima.
La parabola di Er Patata che proprio per i guai avuti con la droga - arrestato più di una volta mentre acquistava cocaina e trovato con dei panetti di hashish a casa nel 2017 - ricorda la triste vicenda di Libero di Rienzo. All'epoca lo stupefacente della morte fu l'eroina e il pusher che gliel'aveva venduta e che fu trovato dai carabinieri anche grazie all'analisi del cellulare, è ora a processo. Ma con chi si era visto Brunetti venerdì?Chi gli aveva scritto o telefonato?
La Procura ha aperto un fascicolo per morte come conseguenza di altro delitto. Alcuni condomini ricordano di averlo visto uscire di casa al mattino «ma qui è un po' un porto di mare», dice un vicino.
Brunetti abitava in quel condominio popolare da un anno circa, sua figlia - nove anni appena - passava molto tempo con lui. Dopo aver chiuso la sua carriera cinematografica, Er Patata aveva provato a reinventarsi, tornando a fare il pescivendolo come da ragazzo.
Ma l'attività non andava bene, così come lui stesso dichiarò nel corso di un'intervista televisiva, viveva con il reddito di cittadinanza.
Da qualche mese faceva l'oste in un ristorante di piazza San Cosimato, a Trastevere e proprio dal locale venerdì hanno iniziato a preoccuparsi non vedendolo arrivare. Che Brunetti potesse spacciare dentro casa o conservare ingenti quantitativi è probabilmente da escludere vista la presenza quasi costante della figlia.
Ad ogni modo la scena è stata incapsulata: tutto ciò che c'era dentro a quell'appartamento, farmaci compresi, è stato sequestrato e a breve verrà svolto un nuovo sopralluogo dagli agenti del commissariato Porta Pia a cui Salario-Parioli ha trasferito gli atti essendo territorialmente di sua competenza. Altri accertamenti verranno svolti anche nel ristorante e tra i dipendenti che vi lavorano.
"Er Patata" trovato morto nel suo letto: droga in casa. Stefano Vladovich il 5 Giugno 2022 su Il Giornale.
Dramma nel mondo dello spettacolo. Roberto Brunetti, 55 anni, er Patata dei cinepanettoni, trovato senza vita venerdì sera nella sua abitazione in via Arduino 11, sulla Tiburtina. In casa due panetti di hashish, cocaina e un bilancino di precisione. A lanciare l'allarme la compagna dell'artista che per ore non era riuscita a mettersi in contatto con lui. «Non risponde al telefono e al campanello» spiega la donna al 112.
Quando gli agenti sfondano la porta lo trovano già cadavere, supino sul letto e coperto con un lenzuolo. La porta chiusa, nessuna traccia di scasso, mobili e suppellettili in ordine. Morto per un malore dopo l'assunzione di droga? Secondo il medico legale il corpo non ha segni di violenza e il decesso sarebbe avvenuto per arresto cardiocircolatorio. La Procura di Roma ha disposto l'esame autoptico per accertare le cause esatte della morte, con gli esami tossicologici. Se venisse accertato che a uccidere er Patata è stato un mix di coca e fumo, verrà aperto un fascicolo contro ignoti per «morte come conseguenza di altro reato». Oltre alla droga la polizia ha sequestrato il cellulare di Brunetti per ricostruire le ultime ore di vita e i suoi contatti. Caccia aperta, insomma, al pusher che gli avrebbe fornito la «roba» provocandogli la morte.
Brunetti, famoso per aver interpretato un componente della banda della Magliana, Aldo Buffoni, ovvero uno dei due fratelli Carnovale, il Tronco e il Coniglio, cognati di Edoardo Toscano, l'Operaietto, viene scoperto dal regista Leonardo Pieraccioni che lo scrittura per Fuochi d'Artificio. Da cuoco a pescivendolo, fino al cinema grazie all'amicizia con Alessandro Haber, er Patata diventa famoso con film tra cui Il Ritorno del Monnezza, Paparazzi e Commedia Sexy. «Mi chiamavano per le ospitate in discoteca e mi davano 5 milioni di lire solo per dire: Ah fiji de na. Subito dopo me ne andavo di corsa: se quelli ci ripensavano me toccava restituì i soldi» racconta Brunetti in una puntata del programma Nemo nel 2017.
Dal successo all'arresto: Brunetti viene fermato a Trastevere con un etto di hashish nello scooter. In casa altri 100 grammi di droga. È il 2009 ed è anche l'inizio della sua discesa. Per anni compagno dell'attrice Monica Scattini, da cui si separa nel 2011, a fatica riprende la carriera cinematografica.
Indagini sulla morte di «er Patata»: in casa dell’attore panetti di hashish, un bilancino e tracce di cocaina. Rinaldo Frignani e Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2022.
Roberto Brunetti aveva 55 anni. Guai giudiziari per droga, era rimasto senza lavoro.
Sarà l’autopsia disposta dalla procura di Roma a stabilire le cause della morte di «er Patata», l’attore Roberto Brunetti , 55 anni, ritrovato senza vita venerdì sera, intorno alle 22.30, nel suo appartamento a Roma, in via Arduino, a pochi passi da piazza Bologna. Ad allertare i poliziotti è stata la ex fidanzata di Brunetti, che vive a Trastevere, preoccupata dal fatto che l’attore non rispondesse né al telefono né al citofono.
È stato necessario sfondare la porta d’ingresso per accedere all’appartamento di «er Patata». Gli agenti lo hanno trovato sdraiato supino sul letto. In casa nessun segno di effrazione, né di violenza. Sul tavolo della cucina, tracce di cocaina. I poliziotti hanno anche rinvenuto alcuni panetti interi di hashish e un bilancino. Il cellulare dell’attore è stato sequestrato: servirà agli investigatori per ricostruire gli ultimi contatti avuti da Brunetti prima di morire.
Da tempo ormai lontano dal mondo del cinema , anche a causa dei problemi di dipendenza dalla droga, «er Patata» aveva conquistato le scene con alcune commedie negli anni Novanta. A lanciarlo era stato Leonardo Pieraccioni, che lo aveva voluto in Fuochi d’artificio del 1997, un successo al botteghino da oltre 60 miliardi di lire. L’anno dopo era stato Neri Parenti a volerlo sul set di Paparazzi al fianco di Massimo Boldi, Christian De Sica e Diego Abatantuono. Era apparso poi in Commedia sexy (2001) di Claudio Bigagli e Il ritorno del Monnezza (2005) di Carlo Vanzina.
Non erano mancati i ruoli drammatici: in Fatti della banda della Magliana (2005) di Daniele Costantini aveva interpretato Sandro Colangeli, personaggio ispirato a Marcello Colafigli, uno dei boss della banda; in Romanzo criminale di Michele Placido era il malvivente di piccola tacca ucciso dal Freddo (K im Rossi Stuart nel film) perché colpevole di aver tenuto per sé gli incassi della droga. Proprio per droga cinque anni fa Brunetti era stato arrestato dai carabinieri del nucleo operativo della Compagnia Trastevere mentre acquistava una dose di cocaina. Nel 2009 era stato fermato in circostanze analoghe: invece della coca, nascosti sotto la sella del motorino gli erano stati trovati cento grammi di hashish.
Aveva tentato di rimettersi in pista aprendo, lui, figlio di un pescivendolo famoso a Trastevere, una pescheria. Che era fallita. Aveva in programma di aprirne un’altra in Sardegna, con un amico. Un progetto rimasto sulla carta. Disoccupato, si era ridotto a vivere col reddito di cittadinanza, la casa in cui viveva prestata da un parente.
Tumultuosa anche la vita sentimentale: dopo sedici anni, aveva lasciato senza un perché la collega Monica Scattini (scomparsa nel 2015 per un melanoma), incontrata sul set nel 1995: «Se n’è andato, è scappato di casa senza dire niente — aveva raccontato lei —. Mi ha solo detto che sta male, sta in crisi, e che voleva prendersi una pausa di riflessione. Altro non so. Forse ha preso una sbandata per un’altra e non ha avuto il coraggio di dirmelo. Io sto malissimo, spero che torni da me. L’ho amato tantissimo e lo amo ancora». Ma Brunetti non era più tornato. Chi lo conosceva, ieri raccontava che il centro della sua vita era diventata la figlia avuta dieci anni fa da una donna conosciuta a Trastevere, dalla quale si era poi separato.
Viveva per lei, per lei progettava di ritornare nel mondo del cinema, dove coi suoi precedenti lo guardavano però con diffidenza. «Ciao Patata — ha postato ieri su Instagram Leonardo Pieraccioni —. Ci eravamo persi di vista ma saremo sempre insieme in questo film spensierato».
Luca Monaco per repubblica.it il 9 giugno 2022.
"Roberto non era così dipendente dalla droga come vogliono farlo passare, gli è venuto un infarto perché pesava 130 chili, era diabetico e trascurava la sua salute". Parla Daniele Brunetti il fratello dell'attore Roberto Brunetti, meglio conosciuto dal pubblico con il soprannome di "Er patata", che venerdì sera è stato trovato senza vita sdraiato nel letto del suo appartamento in via Arduino, alla stazione Tiburtina.
I magistrati della procura di Roma hanno aperto un fascicolo per "morte in conseguenza di un altro reato" perché la polizia scientifica in casa ha trovato tracce di cocaina, tre bustine di hashish e un bottiglia per fumare.
È stato sequestrato anche il cellulare, per ricostruire gli ultimi contatti dell'attore e risalire eventualmente al pusher che gli ha venduto le sostanza. Lunedì è stata eseguita l'autopsia all'istituto di medicina legale della Sapienza, ci vorranno delle settimane per conoscere l'esito delle indagini tossicologiche, che sarà determinante per stabilire con certezza le cause della morte e capire se siano legate alla droga.
Per i familiari non si tratterebbe di nulla di tutto questo. "La scientifica ci ha spiegato di aver trovato dell'hashish - ha detto il fratello a Pomeriggio Cinque - ci hanno detto che in casa non c'erano tracce di cocaina e che Roberto è morto nel sonno. Gli è venuto un infarto perché era diabetico".
Quest'inverno l'attore nativo del Quadraro, prosegue suo fratello, "era stato ricoverato per Covid allo Spallanzani, non riusciva a respirare. Trascurava la sua salute, diceva che aveva spesso dolori al petto, era preoccupato".
Il Patata "potrebbe essersi fatto qualche spinello - aggiunge Daniele Brunetti - ma per lui non era un culto, quello che hanno detto sono infamie".
Brunetti "era una persona buona, lo conoscevo da oltre 20 anni e avevamo un rapporto fraterno - ricorda l'assessore all'Ambiente del municipio I Stefano Marin - mi aveva mandato un messaggio la scorsa settimana, non gli avevo risposto. L'ho richiamato troppo tardi. Sono sconvolto è un altro pezzo di Trastevere che se ne va".
Marco Giusti per Dagospia il 4 giugno 2022.
Se ne è andato anche Roberto Brunetti detto “Er Patata”, 55 anni, che da pesciarolo romano, grazie a una bella storia d’amore con l’attrice Monica Scattini, ebbe una carriera cinematografica non solo da caratterista lasciando il banco al mercato, interpretando per lo più sé stesso, ma tentò anche qualche carta diversa nel seriale.
Come l’aveva sempre raccontata Monica Scattini, adorabile attrice morta anche lei prematuramente qualche anno fa, tutto nacque da un pollo ai peperoni che lui in piena notte le cucinò. Se non era una dichiarazione d’amore quella…
Così Er Patata entrò nel giro dei cinematografari romani, proprio nel momento clou dei primi rapper romani, come Er Piotta. Lo troviamo buffo e romanissimo in “Fuochi d’artificio” di Leonardo Pieraccioni. Non più di una particina, ma molto divertente con quella voce pesante, i riccioloni biondi, la risata sguaiata, le manone.
Aurelio De Laurentiis lo prende subito in uno dei ruoli principali in “Paparazzi” assieme a Christian De Sica, Massimo Boldi, Diego Abatantuono e Nino D’Angelo. E’ uno dei cinque paparazzi protagonisti. Non male. Anche se ha un ruolo un po’ imbarazzante, visto che dovrebbe far ridere aprendo la bocca ed eruttando alito fetente che tramortisce gli amici.
Ma lo troviamo anche in “Commedia sexy” di Claudio Bigagli con Ricky Tognazzi, Elena Sofia Ricci, Micaela Ramazzotti nel ruolo del tassista. Meglio nel ruolo di Er Caccola nel discusso, ma riuscito “Il ritorno del Monnezza” dei Vanzina. E ancor di più nei due film dedicati alla Banda della Magliana, “Romanzo criminale” di Michele Placido, dove è Aldo Buffoni, e in “Fatti della Banda della Magliana” di Daniele Costantini.
Da lì sarebbe potuto nascere una vera professione di attore? Chissà, magari si era un po’ illuso. Lo troviamo ancora in piccoli ruoli in una puntata de “Il commissario Rex” dei Manetti, in “Feisbum” di Alessandro Capone e Dino Giarrusso. Ha un ruolo quasi borghese, di genitore, in “Il rosso e il blu” di Giuseppe Piccioni, lo troviamo ancora in “Baci salati” diretto da Antonio Zeta con Sandra Milo e Monica Scattini, il suo ultimo film, del 2012.
Non ha girato più nulla, anche perché si era lasciato, e malamente, con Monica Scattini, che tanto lo aveva protetto e lanciato. Si era comportato male, non era riuscito più a recuperare la vecchia vita né a farsi un nome affidabile nel cinema. I problemi di droga, inoltre, non erano un mistero. Ciao, Patata.
Morte di Er Patata, parla il fratello: "Non è stata la droga". Novella Toloni il 10 Giugno 2022 su Il Giornale.
Daniele Brunetti non crede all'ipotesi che il fratello sia morto per colpa della droga. Lui parla di "trascuratezza" e pregressi problemi di salute dell'attore. Intanto la Procura indaga.
Le cause della morte di Roberto Brunetti devono ancora essere accertate. L'esito dell'autopsia eseguita sul corpo dell'attore arriverà solo tra due settimane. Ma il fratello Daniele si rifiuta di credere che a stroncarlo il 4 giugno scorso sia stata un'overdose di droga e rilancia: "Gli è venuto un infarto perché pesava 130 chili e trascurava la sua salute".
Il fratello dell'attore, conosciuto al grande pubblico come Er Patata, è stato ospite di Barbara d'Urso a Pomeriggio Cinque e durante il collegamento ha fatto chiarezza su quanto trovato nell'appartamento di Roberto Brunetti: "Gli agenti in casa hanno trovato dell'hashish e ci hanno detto che non c'erano tracce di cocaina e che Roberto è morto nel sonno. Gli è venuto un infarto perché lui era diabetico". Secondo Daniele Brunetti il fratello sarebbe morto in conseguenza delle patologie, che aveva da tempo e della trascuratezza. "Non era così dipendente dalla droga come vogliono farlo passare, gli è venuto un infarto perché pesava 130 chili, era diabetico e si trascurava", ha raccontato in tv l'uomo.
Secondo quanto riferito da Daniele Brunetti, Er Patata si era sottoposto di recente a un intervento chirurgico all'anca e al ginocchio e lo scorso inverno era stato ricoverato all'ospedale Spallanzani per debellare il Covid, che lo aveva colpito ai polmoni. "Trascurava la sua salute, diceva che aveva spesso dolori al petto, era preoccupato. Potrebbe essersi fatto qualche spinello ma per lui non era un culto, quello che hanno detto sono infamie". Nell'appartamento di Brunetti, però, la scientifica avrebbe ritrovato tracce di cocaina, tre bustine di hashish, un bottiglia per fumare e un bilancino.
Droga, telefonino, cadavere: s'indaga sulla morte di Er patata
Per questo la procura di Roma ha aperto un'indagine per morte in conseguenza di un altro reato. Il cellulare dell'attore è stato sequestrato e repertato insieme a altri oggetti rinvenuti all'interno dell'abitazione di Brunetti e serviranno a fare luce sulle ultime ore di vita dell'attore. Intanto lunedì è stato eseguito l'esame autoptico sul cadavere dell'artista presso l'istituto di medicina legale dell'università La Sapienza. Ma ci vorranno almeno due settimane per conoscere i risultati degli esami tossicologici, determinanti per stabilire cosa ha causato la morte di Roberto Brunetti.
Pochi giorni prima della sua morte l'attore aveva invitato il fratello Daniele a casa sua per festeggiare il suo compleanno. "Se vieni ci prendiamo un pezzo di pizza e ci beviamo qualcosa, un bicchiere di vino o un'aranciata non c'è bisogno che spendi molto, mi basta un pacchetto di sigarette", si sente nell'audio, che il fratello ha fatto ascoltare durante il collegamento con Pomeriggio Cinque. Le ultime parole prima di essere trovato morto nel letto della sua abitazione quattro giorni dopo.
Giancarlo Dotto per “Diva e Donna” - gennaio 2022
Niente trucchi, niente inganni, niente pose. Roberto Brunetti, per tutti Er Patata, 54 anni, è quello che è, quello che vedi, quello che senti, eventualmente quello che tocchi. Come dire, un uomo decisamente riposante, coerentemente sparso nei suoi centoventi chili.
“Sono quello che sembro, un bambacione fijo de ‘na mignotta” si definisce lui con una di quelle sintesi perfette che al Quadraro, la borgata in cui è cresciuto, piovono spontanee dalle tegole.
Che sia in cucina a squamare spigole o a lustrare le pentole, al mercato a scegliere la trippa e la verdura, a fare il cameriere ai tavoli o il padre all’uscita di scuola con Giulia, la sua amatissima bimba di otto anni, per la quale sente di potersi finalmente dire allo specchio: “Patata, ne hai fatte di minchiate, ma ora testa sulle spalle, il destino di questa piccola è nelle tue mani.”.
Le donne della sua vita, tutte tatuate sul braccio. Giulia, l’unica che resta. Le altre, passate. Portate via. Prima la mamma Luigia (Giulia, il suo anagramma), poi Monica Scattini, una vita insieme, quasi diciotto anni, un tumore al cervello, troppo giovane e troppo crudele per farsene una ragione.
Incontro Er Patata all’uscita di Corsetti, il ristorante storico a Trastevere dove lui ha trovato lavoro e rifugio da settembre. Piazza San Cosimato, due passi dal punto in cui spararono a morte Franco Giuseppucci, “il negro” della banda della Magliana. Storia che Er Patata conosce molto bene. Un passaggio importante della sua vita d’attore, uno di loro in Romanzo criminale di Michele Placido, 2005, prima di tornare a fare il “pesciarolo”. Attraversando negli anni buchi neri, lutti, disavventure che avrebbero steso un elefante, due protesi incluse al ginocchio e all’anca.
Una storia di famiglia quella del pesce.
“Io so’ cresciuto in mezzo al pesce. Mi piaceva proprio. Mio papà Fulvio a sei anni faceva già il pesciarolo”.
Tu quando subentri?
“A sedici anni. Quando mia madre è venuta mancare. Luigina De Sisti, cugina carnale del famoso Picchio de Sisti. Mi sono messo ad aiutare mio padre al banco del pesce al mercato. Prima ancora avevo fatto il gommista e il fruttarolo”.
Che ragazzo eri?
“Sono cresciuto in borgata a Porta Furba, di fronte al Mandrione. Ho dovuto imparare a difendermi. Però, buono come carattere. Così, mi giudicano gli altri”.
Il cinema nella tua testa e nella tua vita di quegli anni?
“Zero. Andavamo ogni tanto al Bristol, il cinema del Quadraro, a vedere le prime coscette. Con mille lire compravamo i biglietti e le noccioline per noi tre fratelli…Se vuoi ti racconto di Monica Scattini, l’amore vero della mia vita…”.
Raccontami.
“Era il ’95. Andavamo per locali di notte a ballare, io, er Banana e Claudietto. Fu er Banana a presentarmi Monica, che già faceva l’attrice. C’era una sfilata di trans, lei stava in giuria come Miss Cubo. Sai com’è, un bicchieretto dopo l’altro, un po’ d’allegria, fatto sta che da quella sera siamo rimasti insieme 18 anni.”
Lei non era coatta come te.
“Per niente. Lei era mezza toscana e mezza romana, faceva sempre nelle commedie questi ruoli da snob, anche un po’ antipatica”.
Le hai mai chiesto di cosa si era innamorata?
“Boh. So solo che era tanto innamorata. Forse della mia naturalezza. Io so’ sempre Roberto, così come mi vedi. Anche al cinema, non entro nei personaggi, so’ sempre io”.
Facevi ancora il pesciarolo quando stavi con lei?
“Sì, anche se avevo venduto le mie attività e mi ritrovavo qualche soldino da parte. Ho cominciato a frequentare il suo giro di amici, Stefania Casini Alessandro Haber, Francesca Marciano. Sempre insieme Monica e io, sempre allegri, in grazia di Dio. È stata e resterà per sempre la donna della mia vita”.
Perché a un certo punto finisce?
“Lei nell’ultimo anno cominciò a trattarmi male. L’ho saputo solo dopo del suo tumore al cervello. Ho concluso che questo suo improvviso sbroccare verso di me sia dipeso da questo. Ma era troppo tardi…”.
Non hai preso una sbandata per un’altra?
“Per niente. Lei, di punto in bianco, me sbroccava, mi trattava malissimo e allora me ne sono andato. Fu un trauma per lei. Ma che altro potevo fare? Il primo anno burrascoso di separazione, poi, quando s’era tutto addolcito, in tre mesi è morta”.
Come ci finisci nel carrozzone del cinema?
“Capodanno del ’97, con Pieraccioni e Giovanni Veronesi a casa di Alessandro Haber. Tutti amici di Monica. A ridere, scherzare e pigliare in giro Haber che s’incazzava di brutto. Qualche giorno dopo mi chiamano Pieraccioni e Veronesi: ti dobbiamo parlare”.
Hai pensato al cinema?
“Non ci pensavo proprio. Io ero famoso perché cucinavo bene. Gli ho detto: “Venite a cena da noi e parliamo, ve faccio una bella minestra d’arzilla”.
Nessuna idea di fare l’attore?
“Non me fregava niente. Anzi, da pesciarolo io volevo fare magari l’elettricista sul set. Chi ci pensava a fare altro…”.
E invece…
“Vengono a cena. “Devi fare il film nostro”, mi dicono. Il film era Fuochi d’artificio. Monica era felice, le brillavano gli occhi. “Voi siete matti!”, dico io. “Che se fa in questi casi?”. Il copione, un provino”.
Hai fatto il provino?
“Sì, per modo di dire. Ero ansioso e m’ero fatto due canne prima. Non sapevo niente. Il regista mi dice: “Fa conto che lì c’è un pappagallo. Dialoga con lui”. Sudavo. Non sapevo che fa’…Non ce l’ho fatta e me ne sono andato”.
Un fallimento.
“Poi ho chiamato Chicco Stella, un regista e produttore amico di Monica che mi ha insegnato un sacco di cose. Richiamo Pieraccioni. “So’ pronto, vengo a fare il provino. Stavolta vado senza canne, un successo. Pieraccioni e Veronesi l’hanno scritta su di me la parte”.
Mica male come debutto.
“Da non credere. 73 miliardi, l’incasso. E così parte er Patata in tutta Italia”.
Come succede che ti chiamano Er patata?
“Fu un amico di mio padre, Romolone, a chiamarmi così. Faceva il pesciarolo anche lui, un ex pugile. Avevo il naso a patata e mi regalavano le patatine. Così, so’ rimasto Er Patata fino a oggi”.
Tu e Massimo Ceccherini sul set, una bomba.
“Pure fuori dal set. Io ero la novità, lui matto fracico”.
Avete legato?
“Ci siamo menati da “Celestina”, il ristorante ai Parioli. Gli ho dato due o tre sganassoni. Stavamo allegrotti tutti e due. Lui si presenta e mi fa maleducato: “Fammi fare sesso con tua moglie” . In realtà ha usato un termine molto più volgare. Io me so’ girato e gli ho dato una cinquina. Gli ho menato proprio. M’hanno chiamato ottanta persone del cinema per ringraziarmi quando l’hanno saputo”.
Aveva bevuto…
“No, lui era così anche da non bevuto”.
Reazioni?
“È andato a chiamare la polizia, lì è partita un’altra pizza”.
Hai pensato che il cinema potesse diventare il tuo mestiere?
“Non ci ho mai pensato veramente, anche se lì è partito tutto. La televisione, il teatro, il contratto con Aurelio De Laurentiis per Paparazzi di Neri Parenti. Il mio secondo film con Christian De Sica e Massimo Boldi”.
Meno ansioso?
“Ero sempre un po’ ansioso. L’idea che dovevo studiare. Io non so’ mai stato una cima a scuola. Ma ormai avevo capito come funzionava. Ero già più sciolto”.
Arriva Romanzo Criminale con Michele Placido. Tu nella parte di uno della banda.
“M’era arrivata una dritta che Placido cercava uno per un ruolo. Da sfacciato so’ andato a bussare da lui. Lo conoscevo. “Non ce l’hai una cosa per me?”. Dovevano essere quattro pose, alla fine so’ diventate dodici”.
Hai incrociato pure Massimo Ferrero come produttore.
“Il Viperetta m’ha fatto fare otto pose in Commedia Sexy, quattro me l’ha pagate, per le altre me voleva da’ due computer”.
Finito nei guai. Brutta storia.
“Mi spiace per lui. È simpaticissimo, mi fa ammazzare dal ridere. La domanda di tutti era: “Ma dove l’ha presi questo i soldi per fare il presidente di una squadra?”. Di sicuro aveva un complesso d’inferiorità con Aurelio De Laurentiis. Ma Aurelio i soldi ce l’ha. È un grande imprenditore”.
Film di cassetta, televisione, teatro. Il successo. Poi tutto all’improvviso finisce. Dal 2012, più nulla. Prima ancora dei guai giudiziari.
“Si ferma tutto. Non mi chiamano più. Nel frattempo, finisce la mia storia con Monica. 18 anni ma vissuti come se fossero 36”.
Perché all’improvviso non ti chiamano più? Nemmeno il tuo amico Pieraccioni ti chiama.
“Forse perché ho menato Ceccherini. Sai com’è, quelle sono cerchie e io non sono un leccapiedi. Non fa parte della mia indole chiamare uno “maestro”. A casa mia venivano tutti a cena, Christian De Sica, Aurelio De Laurentiis, Paolo Conticini. Ma io non vado a raccomandarmi, non vengo a leccarti per avere un ruolo”.
Ti sei dato una spiegazione?
“Hanno scritto: Er Patata ha abbandonato il cinema. Scrivilo che non ho abbandonato niente. Monica stava male, c’eravamo lasciati, per rispetto a lei mi sono un po’ allontanato, quello era il suo mondo. Ma non m’ha cercato più nessuno”.
Er Patata poteva diventare una maschera romana, come Er Cipolla e tanti altri.
“Si, ma loro fanno anche cabaret, io no. Io, prima d’entrare in scena, a teatro, ero terrorizzato. Io so’ la Pretty Woman del cinema. La storia è la stessa solo che finisce all’incontrario”.
Hai provato a cercare un autore?
“L’ho cercato, ma sanno pure che so’ una testa matta. Magari sparisco, non mi trovi per tre giorni”.
Ancora cosi?
“Oggi no. Ho una figlia di otto anni. Giulietta. Ce l’ho tatuata sul braccio. Sta con me. Alle sette e mezza la sera a casa con lei, cena e bagnetto. Non si sgarra”.
La madre?
“Caterina. Tutto a posto. Tutto sereno. Ogni tanto la vede la figlia. Nella nostra vita bizzarra uno dei due doveva mettere la testa a posto”.
È toccato a te…
“Ho preso le redini in mano. Persi mamma e papà, persa Monica, mi è rimasta solo lei, Giulia. È tutta la mia vita. Ho due fratelli, ma ognuno va per conto suo”.
Te l’ha sconvolta la vita, Giulia.
“All’inizio no, andavo nel panico, non potevo darle quello che voleva. Poi, m’hanno arrestato e lì è cambiato tutto. Quando sono uscito dal carcere dopo due anni ho visto l’inferno. Mi ha salvato Giulia”.
Come ci finisci dentro?
“Non sono un trafficante, ero in difficoltà, me so’ messo a vendere un po’ di fumo, d’erba, agli amici, ma poi uno ha fatto la spia e me so’ ritrovato in carcere a Velletri”.
Racconta.
“Lavoravo pure là, facevo il piantone. C’avevo la busta paga, 400 euro al mese Guardavo Amedeo, uno più matto di me. Dava le capocciate al muro. L’ho calmato, l’ho preso tra le braccia”.
Quando sei uscito?
“Nel 2019. Un inferno. Non c’avevo più niente e nessuno. Senza una lira. Nel frattempo, me so’ fatto pre due protesi, al ginocchio e all’anca”.
Hai provato a bussare dagli amici?
“M’hanno girato tutti le spalle, inclusi quelli del cinema. Non faccio nomi, gente che veniva a mangiare sempre a casa mia con Monica. Avevano paura pure di prendere il mio telefono”.
Sei stato a un millimetro dall’abisso.
“Dal buttarmi giù dal ponte. Alle sei di mattina stavo già con una bottiglia di grappa in corpo. M’ha salvato un dottorino che mi ha fatto ricoverare tre giorni. Per non buttarmi dal ponte ero andato al centro accoglienza dell’Umberto I”.
Ti ha dato una mano Barbara D’Urso.
“Sempre caruccia con me. Era amica di Monica. Quando c’è da parlare coi detenuti mi chiama sempre. Non m’ha fatto mai fare brutte figure. Sempre trattato con delicatezza. M’hai fatto passare per lo spacciatore....”.
Nel frattempo hai preso il reddito di cittadinanza.
“Sei mesi di tirocinio al Comune come giardiniere, più il reddito di cittadinanza. Campicchiavo”.
Adesso hai ripreso a fare il tuo vecchio mestiere.
“Qui da “Corsetti” a Trastevere. Devo dire grazie ad Anton Giulio, sposato Corsetti, che m’ha dato fiducia. Qua faccio tutto, in cucina, piatti romani, la spesa, intrattengo i clienti ai tavoli”.
Il piatto che ti riesce meglio?
“Pasta con i broccoli e l’arzilla, la coda alla vaccinara, la trippa alla romana, però col sughetto dell’amatriciana e poi il pesce. Tutte le varietà di pesce”.
Ti manca una compagna al fianco.
“Sono aperto a tutto. Deve essere una persona che vuole bene alla pupa. Vedo più delle coetanee che hanno avuto le loro esperienze. Se prendi una pischella te manda al manicomio…”.
Aperto anche a una chiamata del cinema?
“Magari! Ci sono ancora oggi tante persone carine, affezionate che mi vogliono bene e si ricordano di me. Farei un film solo per loro, per regalarlo a loro”.
Come ti dichiari, alla fine dei giochi?
“Non mi dichiaro un attore. Sono un pesciarolo che ha vissuto e continua a vivere prendendo tutto della vita, il bello e il brutto”.
· E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.
(ANSA il 3 giugno 2022) - E' morta oggi a Roma a 89 anni Liliana De Curtis, la figlia di Totò. Lo si apprende da ambienti vicini alla famiglia. Liliana De Curtis è morta stamani nella sua casa romana, assistita dalla figlia Elena. I funerali si terranno a Napoli, ma la data non è stata ancora resa nota.
Liliana De Curtis era nata nella Capitale il 10 maggio del 1933, figlia di Totò e Diana Rogliani. Le fu dato il nome di battesimo in ricordo di Liliana Castagnola cui l'attore napoletano era stato legato e che si suicidò per amore di Totò.
Ha partecipato alle riprese di alcuni film come San Giovanni decollato e Orient express. E' stata anche attrice di teatro e ha scritto alcuni libri. A Napoli il 21 settembre 2013 ricevette un premio alla carriera in occasione della festa di San Gennaro.
(ANSA il 3 giugno 2022) - "Oggi mi fai piangere, ma fino a ieri mi hai fatto sorridere. La vita é fatta di opposti: gioia e dolore, vita e morte, sonoro e muto, giorno e notte. Sono due assi che si incrociano e in quel punto centrale é racchiusa l'essenza della vita:l'amore.
Senza amore la vita perde il suo significato. Mentre scrivo sento il tuo respiro flebile e stanco, a breve questo respiro non lo udiró piú, ma mi pervaderá il sollievo, sollievo perché la tua sofferenza é terminata, apparterrai alla morte, sei diventa seria hai abbandonato le pagliacciate dei vivi". E' il pensiero che la figlia Elena Anticoli de Curtis ha scritto per la sua mamma Liliana.
Elena sapeva che la sua mamma stava vivendo le sue ultime ore e così, il suo dolore, ha deciso di affidarlo ad una poesia che ha fatto leggere all'ANSA. "Mamma, la prima parola che pronunci. Mamma , quando ti chiamo , ti vedo correre verso di me , mi prendi in braccio , mi guardi e mi abbracci forte forte al tuo petto. Mamma so che ci sei sempre con me, il calore del tuo corpo mi accompagnerá a vita.
Oggi mi fai piangere, ma fino a ieri mi hai fatto sorridere . La vita é fatta di opposti: gioia e dolore , vita e morte , sonoro e muto , giorno e notte . Sono due assi che si incrociano e in quel punto centrale é racchiusa l'essenza della vita: l'amore. Senza amore la vita perde il suo significato . Mentre scrivo sento il tuo respiro flebile e stanco , a breve questo respiro non lo udiró piú , ma mi pervaderá il sollievo, sollievo perché la tua sofferenza é terminata , apparterrai alla morte , sei diventa seria hai abbandonato le pagliacciate dei vivi. Grazie mamma , mi hai permesso di starti accanto fino alla fine , mi hai permesso di restituirti tutto l'ammore di cui mi hai ricoperto. Ti voglio bene assaje".
(ANSA il 3 giugno 2022) - "Ora Pino e Totò sono insieme, è con Totò perennemente e si stanno dicendo che Napoli è un'altra cosa". Così Liliana De Curtis, la figlia di Totò, scomparsa oggi a Roma, il 7 gennaio del 2015 commentò la morte di un altro grande artista napoletano, Pino Daniele, che come Totò ebbe due funerali.
"Napoli con la morte di Pino perde tutto, come ha fatto papà ha raccontato la vera Napoli", aggiunse la De Curtis. Il 14 aprile del 2011, ricordando una storica battuta del padre, disse di essere "dispiaciuta perchè in giro vedo troppi caporali, e i caporali hanno tutti la stessa faccia".
E poi, uno sguardo ad alcune emergenze, come gli immigrati che "vanno accolti. Mio padre li avrebbe aiutati sicuramente". Toto' faceva tanta beneficenza. "Mio padre di notte si faceva accompagnare dall'autista e metteva i soldi sotto le porte dei bassi - aggiunse - aiutando la povera gente, senza mai farsi vedere".
(ANSA il 3 giugno 2022) - "Ho un ricordo affettuoso di Liliana de Curtis con la quale decidemmo di realizzare nel 2017 la mostra su Totò in occasione dei 50 anni dalla morte del principe della risata. Sono vicino ad Elena e alla sua famiglia". Così l'ex sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, nell'apprendere della scomparsa di Liliana De Curtis, figlia di Totò.
(ANSA il 3 giugno 2022) - "L'insegnamento più bello che mi ha lasciato mia mamma? Aiuto e amore". Antonello Buffardi de Curtis, figlio di Liliana morta oggi a Roma, descrive la sua mamma come una donna "meravigliosa, divertente, simpatica, piena di vita".
"Ha vissuto alla grande e purtroppo si è spenta lentamente, molto lentamente e questo è stato un grande dolore - racconta all'ANSA - il regalo più bello che mi ha dato è l'aiuto, che non si nega a nessuno. Era l'unica figlia di Totò, il suo più grande amore e lei era il più grande amore per il babbo". "Purtroppo nella vita si nasce e si muore - aggiunge - Ci ha insegnato tanto, l'aiuto e l'amore su tutto".
Morte figlia Totò: Manfredi, protagonista panorama culturale
(ANSA il 3 giugno 2022) - "Con la scomparsa di Liliana de Curtis, Napoli e l'Italia intera perdono una straordinaria protagonista del panorama culturale. Ha tenuto viva la memoria di suo padre, l'indimenticabile Totò, ricostruendone vita e opere a beneficio di chi lo amava e lo ama tuttora". Con queste parole il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi, commenta la scomparsa di Liliana de Curtis. "In tal senso - prosegue - è massimo lo sforzo dell'amministrazione comunale e delle Istituzioni nazionali affinché Totò possa avere presto il Museo che merita nel cuore della nostra città".
È morta Liliana De Curtis, figlia di Totò: «Papà non voleva che facessi l’attrice». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera il 3 Giugno 2022.
Liliana De Curtis, attrice e scrittrice, doveva il suo nome a Liliana Castagnola, cui Totò era stato legato e che si era suicidata per lui.
«Anche se mio padre non ha mai voluto che facessi l’attrice, penso che ora sarebbe contento di questo debutto». Con queste parole Liliana de Curtis annunciava quasi trent’anni fa, in un’intervista al Corriere della Sera, il suo «battesimo» teatrale al Sannazzaro di Napoli. Oggi l’attrice e scrittrice, unica figlia del mitico Totò e della sua unica moglie Diana Rogliani, si è spenta a 89 anni . Già vedova di Sergio Anticoli, lascia i due figli Antonello ed Elena che dice: «Mia madre si è spenta serenamente nella sua casa romana, non ha sofferto», poi aggiunge il suo ricordo con parole poetiche: «Mamma, quando ti chiamo, ti vedo correre verso di me, mi prendi in braccio, mi guardi e mi abbracci forte forte al tuo petto... so che ci sei sempre con me, il calore del tuo corpo mi accompagnerà a vita...».
Era nata a Roma il 10 maggio 1933 e il suo nome era dovuto al ricordo che il padre, Antonio de Curtis, nutriva nei riguardi della nota soubrette Liliana Castagnola, cui era stato legato sentimentalmente prima di sposare Diana, e che si era suicidata per lui. A causa di un padre artisticamente ingombrante, solo all’età di 60 anni aveva deciso di salire sul palco e provare l’emozione della recitazione, con lo spettacolo «Pardon Monsieur Totò», liberamente tratto dal libro autobiografico «Siamo uomini o caporali?», scritto dallo stesso Totò. «Non dico che mi piacerebbe essere all’altezza di papà - affermava Liliana - ma spero perlomeno di sfoderare soltanto un poco di quella “verve” che lo caratterizzava».
Le prime esperienze da attrice cinematografica risalgono al 1940, quando partecipò al film «San Giovanni decollato», di cui era protagonista il padre, e nel 1954 al film «Orient Express» di Carlo Ludovico Bragaglia. Avrebbe quindi voluto intraprendere la carriera attoriale, «ma papà, che era tanto geloso e che conosceva bene l’ambiente dello spettacolo, non mi diede mai il permesso di recitare». Alla memoria del padre, però, aveva dedicato libri biografici, tra i quali «Malafemmena» (e un tatuaggio come raccontò in un’intervista al Corriere del Mezzogiorno per i suoi 80 anni). Conclude il suo componimento poetico la figlia Elena: «Oggi mamma mi fai piangere, ma fino a ieri mi hai fatto sorridere e, mentre scrivo, sento il tuo respiro flebile e stanco: a breve questo respiro non lo udirò più. Ti voglio bene assaje». I funerali si svolgeranno a Napoli al rione Sanità .
Addio a Liliana de Curtis, sognava un museo per papà Totò. La Stampa il 3 giugno 2022.
Totò era il suo amore più grande. E lei lo era per lui. Aveva il viso pieno di rughe, Liliana de Curtis. E quando parlava del suo papà quelle rughe si distendevano in un sorriso, sempre. Era malata da tempo, Liliana. E sua figlia, Elena, ha visto la sua vita spegnersi ora dopo ora. Ore in cui, le ultime, ha deciso di scrivere una poesia per dirle addio. Per ringraziarla del suo amore, per ringraziarla di averla fatta sorridere. Aveva un sogno, Liliana, realizzare un museo su Totò. Ed ora, forse, quel sogno potrebbe realizzarsi. «Mentre scrivo sento il tuo respiro flebile e stanco, a breve questo respiro non lo udirò più, ma mi pervaderà il sollievo, sollievo perché la tua sofferenza é terminata, apparterrai alla morte, sei diventa seria hai abbandonato le pagliacciate dei vivi», ha scritto Elena. Aveva 89 anni, la figlia di Totò, e la sua vita l'ha dedicata a ricordare il padre, la sua arte ma soprattutto i suoi insegnamenti di vita. «Ha amato questa città, Napoli, ha amato il suo quartiere ha adorato tutto quello che era napoletano - diceva del padre in una delle ultime interviste -. Cosa lo avrebbe fatto soffrire della Napoli di oggi? La gente senza lavoro, senza nessuna possibilità di andare avanti». Era netta Liliana de Curtis. Tra i suoi desideri c'era da sempre l'apertura del Museo dedicato a suo padre, il principe De Curtis, nel Rione Sanità, un grande spazio nel palazzo dello Spagnolo, gioiello del barocco. Ma non è riuscita a coronare il sogno di una vita, anche se negli ultimi anni la battaglia era stata portata avanti dalla sua figlia terzogenita Elena Anticoli. «Era l'unica figlia di Totò, il suo più grande amore e lei era il più grande amore per il babbo - dice il figlio Antonello Buffardi de Curtis -. L'insegnamento più bello che mi ha lasciato mia mamma? Aiuto e amore, l'aiuto, che non si nega a nessuno». Era con la figlia Elena Anticoli de Curtis quando la sua vita si è spenta lentamente. «Mamma, la prima parola che pronunci. Mamma, quando ti chiamo, ti vedo correre verso di me, mi prendi in braccio, mi guardi e mi abbracci forte forte al tuo petto - ha scritto Elena nella sua poesia fatta leggere all'ANSA -. Mamma so che ci sei sempre con me, il calore del tuo corpo mi accompagnerà a vita. Oggi mi fai piangere, ma fino a ieri mi hai fatto sorridere. La vita é fatta di opposti: gioia e dolore, vita e morte, sonoro e muto, giorno e notte. Sono due assi che si incrociano e in quel punto centrale é racchiusa l'essenza della vita: l'amore. Senza amore la vita perde il suo significato». Quell'amore che ha segnato la vita di Liliana, soprattutto per Totò che aveva scelto per lei il nome di una donna che lui aveva tanto amato e che per lui si era suicidata. «Sarebbe sceso in piazza per sollevare questo Paese da questo degrado totale, sarebbe stata una grande sofferenza per lui vedere il suo paese così», diceva Liliana parlando di suo padre. «Una grave perdita» definisce la scomparsa della de Curtis il governatore della Campania, Vincenzo De Luca. Una morte, quella di Liliana, che paradossalmente potrebbe realizzare il suo sogno. «E' massimo lo sforzo dell'amministrazione comunale e delle Istituzioni nazionali affinché Totò possa avere presto il Museo che merita nel cuore della nostra città», dice il sindaco di Napoli, Gaetano Manfredi. «Il Ministero è a lavoro per rendere concreta l'idea di una grande sede museale a Napoli capace di rendere onore e celebrare Totò, uno dei più straordinari, immensi artisti dell'Italia del Novecento», dice anche il ministro della Cultura, Dario Franceschini. Un regalo, il più grande, per Liliana e per il suo immenso papà. I funerali di Liliana De Curtis, si terranno domenica 5 giugno alle ore 11 nella chiesa di via Vergini 45, a Napoli. Il feretro arriverà direttamente da Roma e al termine della funzione religiosa la salma sarà portata al cimitero di Poggioreale dove si trova la cappella della famiglia De Curtis.
Funerali domenica. Il nome scelto per ricordare l'attrice che si avvelenò per amore del padre. Morta Liliana De Curtis, figlia di Totò. Il sogno del museo e il ritornello decennale della politica: “Lo apriremo…” Redazione su Il Riformista il 3 Giugno 2022
Se ne è andata all’età di 89 anni Liliana De Curtis, unica figlia di Totò e Diana Bandini Rogliani, a cui venne dato il nome dell’attrice e ballerina Liliana Castagnola cui l’artista napoletano era legato sentimentalmente e che si avvelenò per amore. Liliana De Curtis è morta oggi a Roma dove era nata il 10 maggio del 1933. Era malata da tempo. A darne notizia è la figlia Elena che l’ha assistita fino alla fine.
“Oggi mi fai piangere, ma fino a ieri mi hai fatto sorridere – scrive – La vita è fatta di opposti: gioia e dolore, vita e morte, sonoro e muto, giorno e notte. Sono due assi che si incrociano e in quel punto centrale è racchiusa l’essenza della vita: l’amore. Senza amore la vita perde il suo significato. Mentre scrivo sento il tuo respiro flebile e stanco, a breve questo respiro non lo udirò più, ma mi pervaderà il sollievo, sollievo perché la tua sofferenza è terminata, apparterrai alla morte, sei diventa seria hai abbandonato le pagliacciate dei vivi“. La frase finale è in riferimento alla poesia “A livella” di Totò. I funerali si svolgeranno domenica nella chiesa di Santa Maria dei Vergini in via Vergini 45 alle ore 11.
In passato ha più volte espresso il desiderio di essere seppellita nel cimitero di Santa Maria del Pianto nel quartiere di Poggioreale, lo stesso dov’è tumulato il celebre attore napoletano. Attrice e scrittrice, ha partecipato alle riprese di alcuni film come San Giovanni decollato e Orient express e è stata attrice teatrale. Insieme a Matilde Amorosi, Liliana ha scritto vari libri dedicati al padre sulla scia dei suoi ricordi e dei suoi rimpianti, tra i quali per Mondadori “Totò mio padre” e “Totò a prescindere”. Il 21 settembre 2013 ricevette a Napoli un premio alla carriera in occasione della festa di San Gennaro.
IL SOGNO INFRANTO DEL MUSEO DI TOTO’ E LE SOLITE PROMESSE DELLA POLITICA
Se ne va via con un sogno irrealizzato anche ‘grazie’ al contributo delle istituzioni. Liliana sognava infatti l’apertura di un museo dedicato al padre nel Rione Sanità (Totò era nato in via Santa Maria Antesaecula e la sua casa oggi vive in stato di abbandono). Un museo all’interno dello splendido palazzo dello Spagnolo. Una battaglia portata avanti per anni, a partire dal 15 aprile giorno dell’anniversario della morte del principe della risata. Inascoltati gli appelli all’amministrazione comunale partenopea che non ha mai palesato la volontà concreta di realizzare il museo.
Un “ente museo di Totò” era stato deliberato nella seconda metà degli anni 90 dalla Regione Campania, stabilendone la sede al terzo e quarto piano del Palazzo dello Spagnolo, locali dati in comodato d’uso al Comune di Napoli. Ma i lavori partiti dopo il 2000 si interruppero e il museo non è mai partito. Due anni fa anche il ministro della Cultura Dario Franceschini dichiara, nel corso di una visita a Pompei, che si sarebbe impegnato per l’apertura del museo e che le risorse erano disponibili, ribadendolo ancora nel 2021.
A poche ore dalla morte di Liliana De Curtis, la politica torna a promettere nuovamente quello che non è riuscita a realizzare in tutti questi anni. Dal sindaco di Napoli Gaetano Manfredi allo stesso ministro Franceschini. “Il Ministero è a lavoro per rendere concreta l’idea di una grande sede museale a Napoli capace di rendere onore e celebrare Totò, uno dei più straordinari, immensi artisti dell’Italia del Novecento” è il ritornello che va avanti da tre anni da parte di Franceschini.
“E’ massimo lo sforzo dell’Amministrazione comunale e delle Istituzioni nazionali affinché Totò possa avere presto il museo che merita nel cuore della nostra città” ha sottolineato Manfredi, primo cittadino solo dallo scorso ottobre 2021.
Morto lo scrittore Joseph Zoderer.
Morto Joseph Zoderer, raccontò italiani e tedeschi. GIANCARLO RICCIO su Il Corriere della Sera Giorno l'1 Giugno 2022.
Lo scrittore italiano di lingua tedesca è morto a Brunico (Bolzano) dopo una caduta in casa. Autore de «L’italiana», «ha sempre difeso giustizia e tolleranza»
Lo scrittore altoatesino Joseph Zoderer, 86 anni, nato a Merano, protagonista della scena letteraria soprattutto nei Paesi germanofoni, è morto mercoledì primo giugno a Brunico (Bolzano) dopo una caduta in casa preceduta da un malore. Il decesso è sopravvenuto mentre i medici decidevano se operarlo oppure tentare di alleviare il dolore con la morfina. Da anni era cardiopatico e negli ultimi mesi era tornato a vivere nel maso di famiglia di Terento con la moglie Sandra.
Il suo primo romanzo risale al 1976 ma uscì in Italia nell’87 con il titolo La felicità di lavarsi le mani. Già noto nel milieu letterario di lingua tedesca, si era fatto conoscere in Italia nel 1985, con il romanzo L’«italiana» (Die Walsche) — protagonisti due giovani (lui italiano, lei di madrelingua tedesca) —, affollato di echi sui rapporti conflittuali fra italiani e sudtirolesi in Alto Adige, terra multilingue ma ancora oggi non poliglotta.
Lo scorso febbraio Zoderer, insieme con l’alpinista Reinhold Messner e la giornalista Lilli Gruber, aveva ricevuto ad Innsbruck l’onorificenza del Land austriaco del Tirolo.
Nato a Merano il 25 novembre 1935, visse dai 5 ai 17 anni in Austria e in Svizzera, affrontando il dramma delle Opzioni (la sua famiglia optò nel 1940 per la cittadinanza tedesca e si trasferì a Graz), poi completò gli studi in Alto Adige e a Vienna. Lavorò come giornalista per i quotidiani viennesi e fra il 1971 e il 1981 per i notiziari della sede Rai di Bolzano, quasi sempre turno dell’alba.
Nel 2010 fu organizzata a Brunico per il suo settantacinquesimo compleanno una festa: fra gli altri erano presenti Peter Handke, Tim Parks e Nanni Balestrini, suoi amici ed estimatori. Tra questi spicca la figura di Claudio Magris. I primi a piangere la scomparsa di Zoderer sono stati la sua casa editrice Haymon Verlag di Innsbruck e Vienna («Nella sua eccezionale opera letteraria ha sempre difeso la giustizia e la tolleranza: per tutti») e la giunta provinciale di Bolzano.
Joseph Zoderer — di cui la Bompiani allora guidata da Elisabetta Sgarbi ha pubblicato la versione italiana di I colori della crudeltà (2015) — era stato nelle librerie italiane con la traduzione di Il dolore di cambiare pelle (2005) e prima ancora con l’emblematico e crudo L’«italiana». Da alcuni mesi aveva dato l’assenso definitivo alla pubblicazione di L’inganno della felicità (La nave di Teseo) con testo tradotto dall’amica Giovanna Agabio e con uno sguardo proiettato su Tristan und Isolde di Wagner. Poche settimane fa, la casa editrice Haymon Verlag (impegnata nella riproposta dell’opera omnia zoderiana) aveva stampato la sottile antologia poetica Alberi nella stanza.
Erzähler Poet, ovvero poeta narratore, non poeta e narratore (come aveva tenuto a dire su «la Lettura» del 30 giugno 2019), Zoderer scriveva a mano con una stilografica nera. Poi sistemava centinaia di fogli sulle pareti della villa-studio che raggiungeva fino a poco tempo fa ogni mattina in bicicletta. «A piedi solo se nevica tanto», precisava.
I fuochi delle sue parabole si erano stabilizzati nelle parole Amore, Vecchiaia, Morte. «Di amore nella vecchiaia si parla ormai in tanti luoghi e occasioni diversi. Ci si scandalizza ancora oggi — ci aveva detto in un’intervista —, ma in verità la gente coltiva più che mai una gioventù eterna. L’amore non finisce più quando i figli sono grandi e allora i vecchi devono…sparire».
Due estati fa aveva accantonato il progetto di un romanzo ambientato nell’isola greca di Lesbo, teatro di tante vacanze nella realtà, con i due figli ancora piccoli. «Lesbo è diventata un campo profughi devastante — aveva confidato —: durante la mia ultima vacanza avevo raggiunto una spiaggia all’alba. Assistetti ai primi sbarchi. Questa storia dei migranti è troppo più grande e intensa di qualsiasi cosa che io avrei potuto scrivere. Dunque rinuncio».
Nell’ottobre 2017 era andato in scena il pezzo teatrale Das Haus der Mutter (La casa della madre), vero debutto di Joseph Zoderer come drammaturgo dopo un canovaccio steso ai tempi del liceo: «Lavorare a questo testo è stato per me come scrivere una lunghissima poesia».
· Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.
Morto Luigi Lombardi Satriani, l’antropologo della civiltà contadina. ELISABETTA MORO su Il Corriere della Sera Giorno il 30 maggio 2022.
Scomparso il 30 maggio a 85 anni l’accademico calabrese: con i suoi studi restituì dignità culturale a braccianti e migranti. Dedicò pagine memorabili a Pulcinella
Acuto, colto, eclettico. Ha ispirato intere generazioni di antropologi. Luigi Maria Lombardi Satriani se n’è andato in punta di piedi all’età di 85 anni. Un maestro del libero pensiero e dell’osservazione sociale attenta alle classi popolari e ai mutamenti del Belpaese. Lo chiamavano il «barone rosso», per i suoi nobili natali e per il suo orientamento politico, che lo ha portato ad essere eletto al Senato nelle liste del Partito democratico.
Era nato a San Costantino di Briatico in provincia di Vibo Valentia, il 10 dicembre del ’36 dalla famiglia dei Baroni di Porto Salvo. Fu Lo zio Raffaele, celebre studioso di tradizioni popolari, ad iniziarlo a quella scienza impalpabile e mutevole che è lo studio dell’uomo. Poi sono venuti gli studi universitari in Scienze politiche a Napoli e molto presto è iniziata una carriera accademica lunga e prestigiosa. Prima l’Ateneo di Messina, poi la Federico II di Napoli, l’Università della Calabria e infine La Sapienza di Roma dove la sua cattedra di etnologia è diventata un’importante scuola di pensiero.
Instancabile e vulcanico, ha insegnato contemporaneamente anche antropologia giuridica e antropologia del viaggio all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Zippava la sua agenda di soggiorni all’estero come visiting professor. A San Paolo, Austin e Montreal. Cui aggiungeva una intensissima presenza sui media nazionali, in primis il «Corriere della Sera» e la Rai. Le sue lezioni erano un fiume in piena di rimandi alla grande letteratura, alla storia, alle arti.
Infrangeva spesso e volentieri gli steccati disciplinari che considerava un male necessario, ma pur sempre un male. Tanto che quando al ministero dell’Università si doveva decidere il nome del raggruppamento disciplinare dell’antropologia, lui ha sostenuto con forza il più ampio e inclusivo. E di conseguenza il più lungo, quasi uno scioglilingua: discipline demo-etno-antropologiche. Perché la pluralità delle teorie era per lui l’humus dal quale nascono le buone idee e le migliori interpretazioni della vita collettiva. Era infatti lontanissimo dai muri divisori e censori del politicamente corretto che oggi monopolizza le scienze umane.
Il suo metodo era il rispetto di ogni diversità come regola universale. D’altra parte, il suo primo contributo di idee risale al Sessantotto, quando elabora il concetto di «folklore come forma di contestazione». Che, di fatto, fa uscire la civiltà contadina con le sue credenze, timori e valori, dall’angolo buio della storia, e la ripropone come una cultura del presente, non come una semplice sopravvivenza o un «relitto folklorico». Restituisce così agli occhi dell’opinione pubblica una dignità culturale a braccianti e veggenti, tarantolate e poeti contadini, migranti e proletari. Portando avanti il meglio dell’eredità di Ernesto de Martino, fondatore dell’etnologia italiana.
Nel 1982 pubblica con Mariano Meligrana Il ponte di San Giacomo (Rizzoli, Premio Viareggio), un’analisi delle credenze e dei rituali della morte nel Mezzogiorno centrata sulla metafora poetica di quel ponte sottile come un capello che conduce le anime nell’altro mondo. Ma la sua passione per la ricerca e la scrittura lo spinge a cimentarsi continuamente con temi nuovi. Come la contrapposizione tra diritto egemone e diritto popolare, cioè fra la legge dello Stato e le consuetudini locali. Ha dedicato pagine memorabili alla maschera di Pulcinella, al valore simbolico del sangue e alla tragedia dell’Aids. Al «dolente amore per la vita» di Carlo Levi, alla devozione mariana e al controverso caso della veggente calabrese Natuzza Evolo. Fino a qualche settimana fa stava lavorando a un libro sul viaggio. Insomma, la libertà del pensiero è la sua vera grande eredità.
· Addio all’attore Franco Ravera.
Addio a Franco Ravera, morto l’attore che aveva recitato in Boris. Giampiero Casoni il 02/06/2022 su Notizie.it.
È morto Franco Ravera, aveva recitato in Boris ed “era connesso in profondità con la sua lingua d’origine che portava in scena con autenticità assoluta".
Addio a Franco Ravera, è morto l’attore che aveva recitato nella serie tv Boris e nel film “Benvenuto Presidente”. Una lunga malattia di cui Franco non aveva parlato con i colleghi ha portato via il 62enne interprete teatrale che si è spento nella giornata del 31 maggio.
Quello di Ravera era un volto molto noto nel mondo delle serie tv ma il fulcro del suo lavoro restava il teatro, dove Ravera aveva recitato ultimamente ne “Il piacere dell’onestà” di Luigi Pirandello, portato nel 2021 allo Stabile di Torino con il suo amico Valerio Binasco.
Morto Franco Ravera, era l’editor in Boris
I ruoli di Ravera al cinema erano non di primo piano ma molto incisivi: molto apprezzata la sua parte in film di successo come “Benvenuto Presidente” e “Bentornato Presidente”, entrambi al fianco di Claudio Bisio.
Ravera aveva anche recitato accanto a Toni Servillo ne “La ragazza del lago” ed in “Texas”, diretto da Fausto Paravidino. Proprio quest’ultimo ha voluto ricordare Franco con toccanti parole riportate da La Stampa di Torino: “Franco era uno straordinario attore, un istintivo autentico, quel tipo di professionista che vorremmo essere tutti noi in questo mestiere”.
Una recitazione autentica e profonda
“Era connesso in profondità con la sua lingua d’origine che sapeva portare in scena con autenticità assoluta, ma mai pago e soddisfatto di sé, da intellettuale e poeta qual era”.
Un ruolo iconico Ravera lo aveva avuto in “Boris”. Lì aveva recitato in un solo episodio ma in un contesto clou della terza stagione. Franco era l’editor di “Machiavelli” destinato ad affiancare Renè Ferretti in quel lavoro che sarebbe risultato la sua rovina.
· Morto il partigiano Carlo Smuraglia.
È morto Carlo Smuraglia, ex parlamentare e presidente dell’Anpi. Alessandro Sala su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
Ex parlamentare, è stato presidente dell’Anpi, di cui ancora ricopriva la carica onoraria, e di recente si è detto favorevole all’invio di armi all’Ucraina. Ad agosto avrebbe compiuto 99 anni.
È morto a Milano Carlo Smuraglia, presidente onorario dell’Anpi, avvocato ed ex parlamentare. Nato ad Ancona nel 1923, avrebbe compiuto 99 anni ad agosto. Ha dedicato la sua intera esistenza alla memoria della guerra di Liberazione, alla difesa della Costituzione e ai diritti dei lavoratori. «Il suo nome resterà nella storia di questo Paese — scrive oggi l’associazione dei partigiani sul proprio sito in un intervento intitolato «CIAO CARLO» —. Ricordiamo l’umanità, la sapienza e la forza con cui ha presieduto l’Anpi e ci stringiamo al dolore della moglie Enrica, dei figli e dei nipoti».
L’esperienza partigiana
La sua è stata una vita ricca e intensa. Nel 1943, a 20 anni, dopo avere rifiutato la chiamata di leva del fascismo, si arruolò volontario nel gruppo «Cremona» del nuovo esercito italiano che faceva capo all’8a Armata britannica, combattendo sul fronte adriatico e nella zona di Venezia. Terminata la guerra e con il ripristino della democrazia riprese gli studi di giurisprudenza a Pisa, dove viveva allora, e divenne avvocato. Tra gli altri, si occupò di alcuni casi di difesa di ex partigiani accusati di violenze, si costituì parte civile per fatti di Reggio Emilia e per la morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, oltre che per il caso della diossina sprigionata dall’Icmesa di Meda a Seveso.
L’attività politica
Iniziò la sua attività politica a Pisa, negli anni Cinquanta e Sessanta, ricoprendo l’incarico di assessore alla giustizia della Provincia. Ma fu in Lombardia, dove tra il 1970 e il 1985 fu consigliere regionale per il Pci e anche per una fase presidente del Consiglio regionale, che il suo standing crebbe fino a proiettarlo sulla scena nazionale. È stato membro del Consiglio superiore della magistratura tra il 1986 e il 1990 e dal 1992 è tornato alla politica diventando senatore per il gruppo Sinistra Democratica-Ulivo, venendo rieletto per tre mandati consecutivi, fino al 2001. Nel corso dell’esperienza parlamentare è stato presidente della commissione Lavoro di Palazzo Madama.
L’Anpi e le polemiche
Tra il 2011 e il 2017 è stato alla guida dell’Anpi, l’Associazione nazionale dei partigiani d’Italia, e tuttora ricopriva l’incarico in forma onoraria. Nelle settimane scorse è stato protagonista di una divergenza di vedute con l’attuale presidente, Gianfranco Pagliarulo, sull’invio di armi e aiuti bellici all’Ucraina: Smuraglia aveva paragonato la resistenza degli ucraini oggi a quella degli italiani tra il 1943 e il 1945, sostenendo che le armi sono fondamentali per resistere e dicendosi pertanto favorevole al sostegno militare al governo di Kiev. Non aveva però accettato di essere messo in contrapposizione politica con Pagliarulo, precisando di condividere con lui «valori, principi, visione politica nonché la grave preoccupazione per la prospettiva di un allargamento del conflitto in corso». Nel 2016, da presidente dell’Anpi, era stato protagonista anche di una serie di scambi di vedute con l’allora premier e leader del Pd Matteo Renzi sulla legge Boschi di riforma costituzionale, che l’associazione aveva contestato schierandosi per il no al referendum.
Le reazioni
Molte le reazioni del mondo della politica, in particolare della sinistra. Il segretario del Pd, Enrico Letta, lo definisce «un grande italiano» nonché «testimonianza, pensiero, azione ed esempio per noi e per le nuove generazioni». Il capogruppo di Leu a Montecitorio, Federico Fornaro, lo ricorda come persona che «per tutta la vita ha difeso la Costituzione e la democrazia, frutto della Resistenza». «Difensore della Costituzione, della libertà e della democrazia» lo definisce anche Nicola Fratoianni, di Sinistra italiana. Il sindaco di Milano Beppe Sala, parlando a margine di un evento, ha ricordato di avere provato un grande affetto per Smuraglia: «Ho veramente sempre apprezzato il suo impegno, la sua dirittura morale e il suo coraggio. Ha sempre preso posizioni autonome, pensate e chiare e il suo impegno per la libertà, la democrazia e la difesa dei diritti lascia un segno nella storia della nostra città».
L’ultimo saluto
Non è previsto un funerale religioso. L’ultimo saluto a Smuraglia avrà luogo venerdì alle 11 alla Casa della Memoria di Milano. La camera ardente sarà aperta, nella stessa sede, a partire dalle 10.
Carlo Smuraglia, il partigiano-avvocato che per una vita ha difeso la Costituzione. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 31 maggio 2022.
Uomo di legge, parlamentare, già presidente dell’Anpi. È morto a 98 anni. Spirito libero, si è detto favorevole all’invio di armi in Ucraina. Nel 2016 sfidò Renzi sul no alla legge Boschi per la riforma costituzionale.
Era un uomo di legge, un fine giurista, vedeva nella Costituzione repubblicana la sua stella polare. Ma Carlo Smuraglia, scomparso all’età di 98 anni (ne avrebbe compiuti 99 ad agosto), era anche uno spirito ribelle, che aveva conservato fino all’ultimo la capacità d’indignarsi e il desiderio d’impegnarsi che lo avevano spinto a imbracciare le armi, ventenne, per partecipare alla guerra partigiana.
Esponente comunista, avvocato di spicco, membro del Consiglio superiore della magistratura, senatore della Repubblica, Smuraglia era stato a lungo presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia, contribuendo a farne un soggetto molto attivo nella vita pubblica, tutt’altro che neutrale rispetto ad alcune importanti contese politiche. Non era uno che rimanesse alla finestra, neanche in tarda età.
Nato ad Ancona il 12 agosto 1923, studente modello, Smuraglia aveva vinto il concorso per entrare alla Scuola Normale di Pisa e frequentare i corsi di Giurisprudenza, ma dopo gli eventi dell’8 settembre 1943 era tornato nelle Marche allo scopo di partecipare attivamente alla lotta contro l’occupazione tedesca. Alla chiamata di leva della Repubblica sociale fascista aveva risposto dandosi alla macchia, poi si era arruolato nel gruppo di combattimento Cremona, un reparto militare del Regno del Sud aggregato all’8ª armata britannica, con il quale aveva partecipato tra il 1944 e il 1945 alla liberazione dell’Emilia-Romagna e del Veneto.
Per lui la Resistenza, di cui andava spesso a parlare nelle scuole con i ragazzi, era stata un’esperienza centrale, il momento in cui tanti italiani spesso privi di ogni preparazione politica, nello sfacelo delle istituzioni statali dopo la fuga del re e del governo da Roma a Brindisi, avevano deciso di prendere in mano il proprio destino e di costruire per tutti un futuro migliore, di libertà e di pace.
Una caratteristica di quella svolta storica che Smuraglia sottolineava sempre con forte convinzione era il contributo che le donne avevano dato alla lotta partigiana, punto di partenza per un autentico processo di emancipazione femminile. Considerava importante anche il ruolo dei sacerdoti nel proteggere le popolazioni e sostenere i resistenti. Aveva una visione corale del movimento di Liberazione, ne richiamava con orgoglio lo spirito unitario, anche se non metteva certo tra parentesi le proprie idee di sinistra.
Da ricordare a tal proposito che all’epoca, con i suoi commilitoni del gruppo Cremona, aveva contestato nel 1945 Umberto di Savoia, il futuro «re di maggio», che era venuto a passare in rassegna alcune unità a conflitto terminato. Per Smuraglia alla sconfitta del fascismo doveva seguire come logico complemento la fine della monarchia, nel quadro di un radicale processo di cambiamento. Aveva gioito per il risultato del referendum istituzionale del 2 giugno 1946. Ovviamente poi, a Repubblica conquistata, la stabilizzazione moderata del centrismo lo aveva deluso, ma non aveva certo intaccato lo slancio del suo impegno pubblico.
Dopo la laurea ottenuta a pieni voti, Smuraglia aveva intrapreso la professione di avvocato e aveva in più occasioni assunto la difesa di partigiani messi sotto accusa per atti compiuti durante la Resistenza. Rivendicava con una certa fierezza di aver ottenuto numerose assoluzioni: non c’era da stupirsene, considerando la sua arte dialettica e la sua conoscenza approfondita delle leggi.
Tuttavia l’impegno principale di Smuraglia come avvocato aveva riguardato il mondo del lavoro e in particolare l’esigenza di far rispettare anche nelle fabbriche e negli uffici, tra notevoli difficoltà, i principi della Costituzione. Eloquente a tal proposito il titolo di uno dei suoi libri più importanti, Indisponibilità e inderogabilità dei diritti del lavoratore (Cedam, 1970). In virtù di questa sua specializzazione, Smuraglia si era occupato nella sua carriera forense di vari processi concernenti la sicurezza e l’igiene sul lavoro, temi purtroppo di grande attualità ancora oggi per la frequenza degli incidenti, delle malattie professionali e anche delle morti. Inoltre aveva ricoperto per oltre trent’anni la cattedra di docente di Diritto del lavoro all’Università degli Studi di Milano.
Nel contempo era stato eletto consigliere regionale per il Pci in Lombardia e tra il 1978 e il 1980 era stato presidente del Consiglio regionale. Quindi era entrato come membro laico nel Consiglio superiore della magistratura (1986-1990) e dal 1992 al 2001 era stato senatore del Pds e poi dei Ds, sempre con incarichi prestigiosi.
In tutti questi suoi ruoli si era prodigato per l’attuazione della nostra Carta fondamentale. Dissentiva dall’idea che la Costituzione fosse stata il frutto di un «compromesso»: gli sembrava che una definizione del genere sminuisse ingiustamente il valore di quello che reputava «un grande accordo sui fondamenti della convivenza civile, con un alto contenuto di socialità». Così, quando era stata approvata la legge Boschi di revisione del dettato costituzionale, Smuraglia aveva guidato l’Anpi in una convinta battaglia di opposizione nel referendum confermativo tenuto nel dicembre 2016. Ultranovantenne, si era misurato in un dibattito faccia a faccia con l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi, dimostrando lucidità e conoscenza di causa. Era per certi versi diventato il simbolo di coloro che si opponevano alla proposta di riforma da posizioni di sinistra. E gli elettori gli avevano dato ampiamente ragione.
Nel 2017, dopo sei anni, aveva lasciato la testa dell’Anpi e ne era diventato presidente emerito, ma era rimasto una voce autorevole, forse la più autorevole nel campo dell’antifascismo militante. Persona cortese e disponibile, non si sottraeva mai alle opportunità d’intervenire. Lo ha fatto anche di recente, sostenendo l’idea di un invio di aiuti militari all’Ucraina, ma rifiutando di essere considerato in contrapposizione con l’attuale presidente Gianfranco Pagliarulo, contrario al sostegno bellico, spiegando di condividere con lui «valori, principi, visione politica nonché la grave preoccupazione per la prospettiva di un allargamento del conflitto in corso».
Aveva subito anche gravi delusioni, ma la sua anima di combattente, nel foro come nell’arena politica, non si era mai piegata.
Morto Carlo Smuraglia, ex senatore e presidente Anpi: da avvocato difese i partigiani dopo la guerra. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2022.
E’ morto Carlo Smuraglia, presidente onorario dell’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (Anpi). Avvocato, docente ed ex parlamentare, avrebbe compiuto 99 anni il prossimo 12 agosto. Nato ad Ancona, Smuraglia è stato eletto senatore per tre volte (dal 1992 al 2001) e poi presidente dell’Associazione nazionale partigiani d’Italia dal 2011 fino al 2017 quando si è dimesso ed è stato poi eletto presidente emerito dell’Associazione.
Ha fatto parte del Csm dal febbraio 1986 al luglio 1990. “Il suo nome resterà nella storia di questo Paese per l’appassionata partecipazione alla Resistenza, lo strenuo impegno per la piena attuazione della Costituzione, dei diritti, della democrazia”. Con queste parole la segreteria nazionale dell’Anpi annuncia la scomparsa del proprio presidente emerito. “Tutta l’Anpi, nel ricordare l’umanità, la sapienza e la forza con cui Carlo ha presieduto l’Associazione – si legge in una nota -, si stringe al dolore della moglie Enrica, dei figli e dei nipoti”.
Negli anni conclusivi della seconda guerra mondiale si unisce 21enne alla Resistenza, arruolandosi nel 1944 come volontario nel Gruppo di Combattimento “Cremona” del nuovo Esercito Italiano, alle dipendenze operative dell’Ottava Armata britannica, con cui proseguì la guerra sul fronte adriatico fino a Venezia, sino alla resa finale delle forze nazifasciste in Italia.
Nel 1946, a 23 anni, si laurea presso l’ex Collegio Mussolini, attuale Scuola superiore di studi universitari e di perfezionamento Sant’Anna e l’Università di Pisa e, durante gli anni ’50, difende insieme a Lelio Basso diversi partigiani accusati di vari omicidi, facendoli assolvere. Difende gli studenti del caso La zanzara del 1966; si costituisce parte civile per i fatti di Reggio Emilia del 1960, per la morte di Giuseppe Pinelli del dicembre 1969, per la fuga di diossina avvenuta a Seveso del 1976, per il sequestro di persona e l’omicidio di Cristina Mazzotti, rapita dalla ‘ndrangheta nel 1975.
Il lavoro in carcere. Chi era Carlo Smuraglia, il padre della legge per il reinserimento dei detenuti. Rita Bernardini su Il Riformista il 7 Giugno 2022.
Partigiano, avvocato, accademico, Carlo Smuraglia, è stato senatore prima del PCI, poi del PD. Comunque la si pensi sui temi affrontati con passione nel corso della sua vita, è impossibile non riconoscergli un attaccamento viscerale ai principi della nostra Costituzione unito ad una grande intelligenza e lucidità di pensiero. Nell’archivio di Radio Radicale, per esempio, ritroviamo un suo intervento di un anno e mezzo fa, quando di anni il Presidente emerito dell’Anpi ne aveva 97, contro quello che definiva il referendum truffa sul taglio dei parlamentari. Lamentava soprattutto la mancanza di dibattito sui media, vitale se si vogliono portare i cittadini ad un voto consapevole. Ci risiamo oggi con il silenzio sui 5 referendum di prossima votazione per almeno avviare una improcrastinabile riforma della giustizia.
Chi si occupa di esecuzione penale e di carcere, il nome di Carlo Smuraglia lo ha sentito pronunciare infinite volte quale padre della buona e giusta legge, la n. 193 del 2000, che prevede importanti agevolazioni contributive per i datori di lavoro che assumono persone detenute. Una legge che, se fosse veramente utilizzata, contribuirebbe a far vivere e non languire (come accade oggi) l’art. 27 della Costituzione. «Cara Bernardini, a te che chiedi di raddoppiare i fondi della legge Smuraglia per incrementare il lavoro in carcere, rispondo che lo scorso anno non sono stati nemmeno spesi tutti quelli stanziati in bilancio!». Rimasi basita quando l’ex capo del Dap Dino Petralia mi diede questa notizia rispondendo ad una delle tante sollecitazioni radicali volte a migliorare le drammatiche condizioni di detenzione.
È incredibile, ma in Italia accade che le nostre imprese, pur in presenza di sgravi fiscali inimmaginabili soprattutto in un periodo di crisi economica come l’attuale, non approfittino dei vantaggi previsti dalla legge. Si dirà: i detenuti non hanno voglia di lavorare, non sono affidabili. Non è così! Ricordo quando incontrai l’ingegner Silvio Scaglia, ex AD di Fastweb, detenuto ingiustamente in carcere quale vittima di uno dei tanti processi finiti nel nulla con la completa assoluzione dell’imputato. Da imprenditore e dirigente d’azienda che di lavoro se ne intendeva, mi disse «qui, reclusi con me, scopro che ci sono tante potenzialità, tanti talenti, persone intelligenti e capaci: se si desse loro l’opportunità di lavorare anziché stare a disperarsi senza fare niente tutto il giorno, io credo che le condizioni di detenzione migliorerebbero molto e queste persone, una volta finito di scontare la pena, non tornerebbero a delinquere». Silvio Scaglia, un uomo di successo internazionale che ha dovuto pagare il prezzo della ingiusta giustizia italiana, la pensava esattamente come il senatore Carlo Smuraglia.
Un altro illuminato manager ha avuto un’idea brillantissima durante i due appena trascorsi anni di pandemia, anni che nelle carceri sono stati devastanti anche in termini di vite umane perse. Davide Rota, AD di Linkem (e da poco di Tiscali), durante il lockdown, con il blocco del commercio internazionale, aveva l’esigenza di rimpiazzare i modem rotti, necessari per i collegamenti veloci alla rete Internet. Trovò subito la disponibilità della bravissima direttrice del carcere di Lecce Rita Russo (ora promossa a Provveditore del Piemonte) e, mentre tutto era fermo, organizzarono la formazione di una ventina di detenuti per il riciclo dei modem. Al termine del corso, 15 di loro furono assunti con un regolare contratto di lavoro rivelandosi bravissimi. Ho avuto modo di vedere con i miei occhi cosa sono capaci di fare, dallo smontaggio, alla igienizzazione fino alla riprogrammazione e all’inscatolamento. Il fatto miracoloso è che ognuno dei 15 “ragazzi” è in grado di svolgere qualsiasi fase della lavorazione. Il “modello Lecce” è stato poi esportato in altri istituti italiani. Lavoro vero, spendibile una volta finita di scontare la pena.
Ma allora, cos’è che blocca il lavoro esterno che le imprese o le cooperative potrebbero portare dentro gli istituti penitenziari? La fotografia ad oggi ci dice che circa duemila detenuti svolgono questo tipo di lavori qualificanti, cioè meno del 4% della popolazione ristretta. Perché? I motivi sono tantissimi, ma occorre tenere presente che ogni penitenziario è una repubblica a sé, nel senso che molto dipende dalla bravura e determinazione del direttore nel ricercare le collaborazioni esterne, dalla disponibilità della polizia penitenziaria e dall’impegno degli educatori. La carenza di personale in ogni settore delle professionalità certo non aiuta. Basti pensare che i direttori, cioè coloro che dovrebbero essere un po’ manager del carcere, sono una categoria in via di estinzione: in Sardegna, su dieci istituti ci sono solo tre direttori titolari.
Il primo scoglio da superare è però quello del sovraffollamento, con migliaia di detenuti vicinissimi al fine pena sui quali è difficile investire, visto che non lo si è fatto prima. Purtroppo, le proposte di Nessuno Tocchi Caino e del Partito Radicale non vengono nemmeno vagliate dalla politica istituzionale italiana. Basterebbe quella della liberazione anticipata speciale, già adottata all’epoca della sentenza Torreggiani, per far “respirare” gli istituti penitenziari e trovare gli spazi fisici necessari per insediare le lavorazioni. Infine, c’è il problema dei problemi in un’amministrazione che storicamente dimostra di non funzionare. Mi riferisco alla mai attuata parte dell’Ordinamento Penitenziario del 1975 riguardante la costituzione presso ogni circondario di Tribunale dei “Consigli di aiuto sociale” che hanno (avrebbero) come finalità istituzionale proprio quella del reinserimento sociale e lavorativo della persona detenuta.
Si tratterebbe di trovare nel tessuto economico locale gli imprenditori che, risparmiando, intendano investire sugli ultimi, i dimenticati. Tutti ne trarrebbero beneficio anche dal punto di vista della tanto sbandierata sicurezza sociale. Finora solo il Presidente del Tribunale di Palermo, il dott. Antonio Balsamo, ha risposto all’appello e il prossimo 20 giugno si terrà una riunione del costituito Consiglio di aiuto sociale dentro il carcere dell’Ucciardone, alla presenza delle persone detenute. Che sia la volta buona? Spes contra spem, rispondo. Per onorare – non solo a parole – l’indimenticabile senatore Carlo Smuraglia. Rita Bernardini
"Fu innovazione legislativa importante". Smuraglia, la legge per dare lavoro ai detenuti che da quando è nata ha sempre pochi fondi. Redazione su Il Riformista il 31 Maggio 2022.
Avvocato e presidente dell’Anpi, Carlo Smuraglia, morto oggi a Milano all’età di 98 anni, è stato anche senatore dal 1992 al 2001 e, un anno prima della fine del suo mandato, fu promotore della legge, che porta il suo nome, che prevede sgravi contribuitivi per chi assume persone in stato di esecuzioni penali. “Fu la sua determinazione a consentire un’innovazione legislativa importante” spiega Patrizio Gonnella dell’associazione Antigone, da sempre in prima linea per la tutela e la dignità del mondo detenuto. “Il lavoro è fonte di reddito nonché di emancipazione dai circuiti dell’illegalità e Carlo Smuraglia, partigiano e uomo delle istituzioni, lo aveva capito”.
La cosiddetta legge Smuraglia (193 del 22 giugno 2000) promuove l’attività lavorativa dei detenuti con agevolazioni contributive in favore dei datori di lavoro che impiegano persone detenute o internate, ed ex degenti di ospedali psichiatrici giudiziari. ”Si onori la memoria di Smuraglia facendo funzionare al meglio la sua legge, ossia dotandola di fondi che ne consentano il funzionamento” aggiunge Gonnella. ”Oggi il numero di persone detenute che lavora è purtroppo non alto. La legge Smuraglia aveva invece l’obiettivo di favorire opportunità di impiego qualificato. Sarebbe bello se la si dotasse di fondi adeguati per raggiungere gli obiettivi che voleva Carlo Smuraglia”, conclude il presidente di Antigone.
Una legge quella di Smuraglia, che da avvocato negli anni ’50 difese numerosi partigiani dopo la seconda guerra mondiale, che tuttavia nel corso di questi 22 anni è stata applicata parzialmente a causa della carenza di fondi che impediscono all’amministrazione penitenziaria di pagare i contributi a favore di cooperative e imprese che hanno assunto detenuti dentro il carcere o detenuti fuori dal carcere.
La legge prevede la riduzione del 95% delle aliquote per l’assicurazione obbligatoria previdenziale ed assistenziale dovute per i detenuti o internati assunti all’interno degli Istituti penitenziari da parte di imprese private e cooperative o ammessi al lavoro all’esterno presso cooperative. L’agevolazione trova applicazione anche per i 18 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo del lavoratore assunto per i detenuti ed internati che hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro esterno, a condizione che l’assunzione sia avvenuta mentre il lavoratore era ammesso alla semilibertà o al lavoro all’esterno; per i 24 mesi successivi alla cessazione dello stato detentivo nel caso di detenuti ed internati che non hanno beneficiato della semilibertà o del lavoro all’esterno, a condizione che il rapporto di lavoro sia iniziato mentre il soggetto era ristretto.
Nel XVIII rapporto di Antigone sulle condizioni di detenzione, il quadro che emerge in materia di lavoro e formazione professionale è assai variegato. “Da un lato – si legge – troviamo situazioni virtuose in cui i detenuti svolgono tutti un’attività lavorativa (che sia alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o per datori di lavoro diversi dal carcere), e all’estremo opposto istituti in cui le poche attività lavorative presenti sono quelle cosiddette domestiche alle dipendenze dell’amministrazione, come le pulizie, la cucina e la spesa. Discorso più complesso è quello che riguarda la formazione professionale che appare essere davvero carente in linea generale”
“Dai dati da noi raccolti nel 2021 è risultato anzitutto che il budget medio annuale previsto per le mercedi sia di 645.049,6 euro ad istituto, per un totale medio annuo a dipendente, ovviamente lordo, di 7.414,2 euro. In media – spiega Antigone – nei 96 istituti visitati il 33% dei detenuti presenti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria; di questi buona parte è impiegato sempre in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti era invece in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Il dato è peraltro molto disomogeneo. In Emilia-Romagna questa percentuale era del 4%, in Campania dello 0,3%. In 37 istituti visitati, più di un terzo del totale, non abbiamo trovato alcun detenuto impiegato per un datore di lavoro diverso dal carcere stesso”.
Milano, scandalo comunista: "Bella Ciao", ecco a cosa hanno costretto i bimbi di 2° elementare. Miriam Romano Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.
In piazza gli iscritti dell'Anpi, con bandiere tricolore e fazzoletti al collo. Gonfaloni a lutto e i soliti volti noti nel mondo della sinistra milanese. Ieri a Milano si sono celebrate le funzioni funebri per Carlo Smuraglia, presidente onorario dell'Anpi ed ex partigiano, avvocato e parlamentare, morto lo scorso 30 maggio a 98 anni.
La camera ardente è stata allestita a Palazzo Marino, sede del consiglio comunale, per onorare l'ex partigiano con un tributo simbolico del capoluogo lombardo. Una cerimonia che si è svolta, quasi fino alla fine, senza troppi fronzoli. Cuscini di rose rosse sulla bara, qualche biglietto lasciato in ricordo del defunto.
Pochi presenti. Forse per colpa in parte del ponte e del brutto tempo. Ma tutti si aspettavano qualche persona in più. Landini, Camusso, Emanuele Fiano, Pagliarulo, non sono mancati. Tutto è filato liscio, fin quando in piazza Scala, dove alla spicciolata si dirigevano i pochi iscritti all'Anpi, non è arrivata pure una scolaresca. Bambini di seconda elementare di una scuola milanese. Una mattinata che per loro doveva essere dedicata a una gita scolastica. Erano diretti all'acquario civico di Milano, insieme alle loro insegnanti. Ma hanno deviato, in parte, il percorso.
INDOTTRINATI
Si sono fermati davanti alla camera ardente. Un po' confusi i bimbi si sono guardati attorno. Nessuno di loro conosceva Smuraglia. Nessuno di loro, molto probabilmente, della seconda guerra mondiale, di conflitti e della storia del nostro paese, sapeva nulla. Troppo piccoli per capire e per sapere. I programmi scolastici della seconda elementare si fermano molto prima. Eppure, si sono trovati nel mezzo di quella piazza insieme agli iscritti all'Anpi che celebravano la Resistenza. Così i membri dell'Anpi si sono stretti attorno a quella scolaresca e hanno fatto partire a sorpresa il canto Bella, ciao.
I bimbi ancora più confusi.
Al centro dell'attenzione della piazza, di microfoni e telecamere di giornalisti che riprendevano l'evento. Sono diventati protagonisti all'improvviso di quella cerimonia. Qualcuno di loro, conoscendo le parole della canzone, si è unito al coro. Le maestre non hanno esitato a intonare Bella, ciao, pure loro. Hanno eseguito l'intera canzone, tra applausi dei presenti e sguardi ancora più attoniti dei bambini. Per quei bimbi Bella, ciao è un canto come un altro, senza significato.
Eppure, viene da chiedersi se i genitori di quei piccoli alunni fossero d'accordo a fargli prendere parte alla cerimonia. E se, addirittura, madri e padri ne fossero a conoscenza. I loro bimbi sono diventati protagonisti della giornata insieme all'Anpi. Bella, ciao, infatti, è sicuramente un inno dei partigiani. Ma è pure una canzone carica di contenuti politici, considerato «l'inno dei comunisti». È dunque giusto che vada per bocca di bambini piccoli e inconsapevoli? La scolaresca è arrivata in piazza Scala ieri mattina guidata dalle maestre. Le insegnanti ci hanno tenuto ad assicurare che i bambini non hanno imparato Bella, ciao a scuola.«"Non siamo state noi a insegnarglielo. Gli alunni che conoscevano la canzone, infatti, non l'hanno imparata tra i banchi di scuola. Ma molto probabilmente l'hanno sentita cantare dai loro genitori. È un canto famoso e semplice da ricordare per i bambini», hanno spiegato. Sempre con Bella, ciao, bandiere di Rifondazione Comunista e il pugno chiuso, saluto comunista, alla fine della cerimonia, la folla ha salutato la salma di Smuraglia fino al carro funebre.
· Morto il conte Manfredi della Gherardesca.
Manfredi della Gherardesca muore a 60 anni. Gaddo: «Ora che potevamo stare insieme se ne è andato». Il Corriere della Sera l'1 giugno 2022. Il Conte si è spento a Castello della Gherardesca: cultore del bello, mercante d’arte apprezzato a livello internazionale
Muore nel sonno Manfredi della Gherardesca. Luca Filippi su La Nazione l'1 giugno 2022.
Non aveva ancora compiuto 61 anni. Si trovava a Castagneto da poche ore, era rientrato da un viaggio a Malaga.
Castagneto Carducci (Livorno), 1 giugno 2022 - Tragedia nella notte al Castello della Gherdesca. E’ morto nel sonno il Conte Manfredi della Gherdesca. Non aveva ancora compiuto 61 anni. Si trovava a Castagneto da poche ore, era rientrato da un viaggio a Malaga.
L’ultimo post sul suo profilo Istagram è una foto della splendida cattedrale spagnola.
Manfredi infatti era un appassionato d’arte.
Viveva nella sua casa a Londra, ma tornava spesso a Castagneto e in Toscana per incontrare il fratello Gaddo e la sorella Sibilla. Era il terzogenito di Guelfo della Gherardesca, il più giovane. Una stirpe, quella della Gherardesca che annovera anche un Santo, Walfredo, ed è stata immortalata nel celebre canto di Ugolino da Dante nella Divina Commedia .
Il Conte Manfredi era, non solo un appassionato, ma anche mercante d’arte apprezzato nell’ambiente internazionale. Per anni ha diretto la sezione italiana della nota casa d’aste Sotheby’s. Poi, managing director per il gruppo MDG Fine Arts and Interiors.
Era sposato con la principessa di origine bavarese Dora Lowenstein figlia dell’ex manager dei Rolling Stones e di Bryan Ferry.
Frequentazioni che avevano portato a Castagneto anche Mick Jagger e tanti altri artisti e personaggi famosi. Ma il Conte Manfredi della Gheradesca pur essendo una persona affabile e dotata di una spiccata simpatia, preferiva mantenere una certa riservatezza e ha vissuto le occasioni pubbliche nel paese di Carducci sempre mantenendo un basso profilo.
Il fratello Gaddo della Gheradesca, comprensibilmente abbattuto, ha ricordato il valore di Manfredi con una punta di amarezza: "Divisi per tanti anni da impegni di vita diversi, ora che potevamo stare più insieme, il destino ci ha diviso in questo modo crudele".
E purtroppo la famiglia della Gherdesca è stata colpita da un altro lutto negli anni scorsi: era il 2010, quando il figlio di Sibilla, Orlando, morì in un incidente di caccia. I funerali di Manfredi ci saranno nei prossimi giorni, ancora non sono state rese note dalla famiglia né la data né il luogo della cerimonia.
Addio a Manfredi della Gherardesca Il conte muore nel sonno a 60 anni. Il quotidiano.net l'1 giugno 2022.
Un’intera comunità in lutto, per la prematura scomparsa del conte Manfredi della Gherardesca, che si è spento improvvisamente la notte scorsa, nel sonno a Castagneto Carducci (Livorno). Aveva 60 anni. Manfredi, fratello minore di Sibilla e Gaddo, era appena rientrato dall’estero. È stato trovato morto nella camera da letto del castello di famiglia. "Una famiglia che è nella storia di Castagneto, legata profondamente a Castagneto, con tre fratelli molto uniti. È davvero una notizia tristissima per la nostra intera comunità", ha commentato il sindaco di Castagneto, Sandra Scarpellini. La famiglia dei della Gherardesca ebbe origine longobarda ed è una delle più antiche nobiliari della Toscana; ebbe fra gli antenati il conte Ugolino la cui leggenda Dante Alighieri immortalò nell’Inferno. Sposato con la principessa di origine bavarese Dora Lowenstein, nota pr britannica e figlia dell’ex manager dei Rolling Stones, Manfredi lascia due figli Aleotto e Margherita. "Ora che potevamo stare insieme se ne è andato", è il ricordo straziato del fratello Gaddo.
Della Gherardesca. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
Partito: nel 1º d'oro a mezz'aquila bicipite spiegata di nero, membrata, imbeccata e coronata d'oro movente dalla partizione; nel 2º spaccato di rosso e d'argento.
I della Gherardesca sono un'antica famiglia toscana di origine longobarda che ha avuto un importante ruolo nella storia di Pisa e della Toscana. Secondo alcuni storici deriverebbero da un singolo ceppo familiare comune con altre due famiglie comitali che ebbero ruolo importante nella storia toscana: i Cadolingi e i Guidi (quelli che tentarono ai tempi di Matilde di Toscana con Guido Guerra II di elevarsi a dinastia ducale toscana).
Il cognome della famiglia è un patronimico che deriva da un Gherardo, il primo membro della famiglia di cui si abbiano notizie sicure. Gherardo, vivente nel X secolo, fu Signore di Volterra e feudatario del castello di Donoratico. Discendeva da san Walfredo, fratello dei re longobardi Astolfo e Rachis, il cui nonno era Pemmone duca del Friuli. Questa nobile famiglia possedeva già nella seconda metà del X secolo feudi disseminati per tutta l'antica Tuscia. Furono investiti del titolo di conti di Volterra e, fedeli a Enrico II imperatore, videro ampliare, nel secolo successivo, le proprietà terriere e privilegi politici ed economici.
I Della Gherardesca, successivamente esercitarono più volte il vicariato per conto della Repubblica di Pisa sui territori della Maremma Pisana a capo della fazione dei Raspanti insieme alla consorteria degli Appiani. Ebbe il dominio di Bolgheri, Donoratico, Montescudaio, Guardistallo, Riparbella, Settimo, Castagneto, Segalari.
La famiglia vanta una serie di religiosi e santi come Pietro, cardinale morto nel 1145, il beato Guido, la beata Gherardesca, il beato Gaddo, ma si ricordano anche personaggi di valore in guerra come il conte Gherardo di Biserno che prese parte alla battaglia contro gli arabi alle isole Baleari occupate dai pisani nel 1113, e del primo podestà di Volterra Tedice di Castagneto.
Al tempo di Federico II i Gherardesca ghibellini combatterono contro i guelfi Visconti, e Gherardo combatté a Montaperti al fianco dei senesi contro i guelfi fiorentini.
I Della Gherardesca combatterono contro Genova e anche in Sardegna dove si insediarono: Gherardo e Ugolino acquisirono molte terre sull'isola tra cui la porzione del Giudicato di Cagliari corrispondente all'odierno Sulcis-Iglesiente, dove era ubicata la città di Villa di Chiesa (oggi Iglesias) e dove possedettero il castello di Acquafredda. Lo stesso Gherardo, e Silvano, si unirono allo sfortunato Corradino di Svevia lottando al suo fianco.
Il famoso conte Ugolino fu signore di Pisa. Partecipò alla battaglia della Meloria in difesa del porto pisano. Nella battaglia ci furono molti morti da parte pisana e Ugolino venne accusato di tradimento; scagionato divenne podestà di Pisa e dovette gestire la pace dopo la sconfitta della Meloria. In seguito il conte subì una congiura da parte di altri nobili che lo accusarono nuovamente di tradimento e il conte Ugolino venne imprigionato nel luglio 1288 nella Torre della Muda dove mori poco tempo dopo di fame insieme ai figli. Dante lo rese immortale nei versi della sua Divina Commedia.
Gaddo della Gherardesca era a capo delle truppe pisane quando, nel 1314, fu cacciato da Uguccione della Faggiola.
Tra il 1332 ed il 1336, i Della Gherardesca affrontarono alcune rivolte capeggiate prima dalla famiglia Orlandi e poi dalla famiglia Gualandi.
Con la caduta della Repubblica di Pisa avvenuta nel 1406, la famiglia della Gherardesca passò al servizio di Firenze. L'alleanza coi Medici fu sancita dal matrimonio tra Ugo della Gherardesca e Costanza, sorella del cardinale Alessandro de' Medici, il futuro "papa Lampo". In dote la moglie portò quel palazzo in borgo Pinti già di Bartolommeo Scala.
Sotto i Lorena la famiglia ottenne la conferma del titolo di conti di Donoratico, di Pietra Rossa e di Bolgheri, al termine di una battaglia legale che li contrapponeva ai regnanti, sostenenti che tali feudi non erano mai stati ufficialmente iscritti. I conti riuscirono a comprovare la donazione reale fin dal tempo dei Longobardi, evitando che potessero essere rivendicati come territori della Corona.
Negli anni trenta del Novecento Giuseppe della Gherardesca fu podestà di Firenze ed ebbe l'intuizione di nominare Eugenio Montale direttore del Gabinetto Vieusseux. In tempi più recenti Ugolino e Guelfo furono ingegneri, il secondo a lungo presidente del Circolo dell'Unione. Sibilla, figlia di Guelfo, fu animatrice delle fiere di Pitti Immagine. Costantino, noto conduttore televisivo, è figlio di Costanza.
I ramo.
Il primo ramo della famiglia Della Gherardesca godette dei seguenti titoli nobiliari: conte palatino, conti di Donoratico, conti di Castagneto, conti di Bolgheri, conti di Settimo, conti di Pietra Rossa. Nobile coi predicati di detti titoli, patrizi Fiorentini, patrizi di Pisa, patrizi di Volterra, nobili in Sardegna
II ramo.
Il secondo ramo della famiglia Della Gherardesca godette dei seguenti titoli nobiliari: conti, nobili col predicato di detto titolo, patrizi di Firenze, patrizi di Volterra, patrizi di Pisa, nobili in Sardegna.
Personaggi.
Ugolino della Gherardesca, personaggio storico medievale, cantato da Dante nella Divina Commedia (Inf. XXXIII)
Brigata, Gaddo, Uguccione e Anselmo della Gherardesca (Anselmuccio), citati da Dante nello stesso passo
Cosimo della Gherardesca
Costantino della Gherardesca, attore, giornalista, conduttore radiofonico, personaggio televisivo
Emilia della Gherardesca, sposò Ugolino Gonzaga, signore di Mantova
Giuseppe Della Gherardesca, senatore italiano
Tommaso Bonaventura della Gherardesca, arcivescovo
Ugolino della Gherardesca, politico italiano del XIX secolo
Ugolino della Gherardesca, politico italiano del XX secolo
· E’ morto il fantino Lester Piggott.
Piero Mei per “il Messaggero” il 30 maggio 2022.
«Ehi, Lester, a quest' ora già con il sigaro acceso? Ma così perderai l'appetito per tutto il giorno», gli dicevano i colleghi fantini e gli allenatori che lo incontravano all'alba, nella nebbia, sulle piste d'allenamento inglesi.
«Lo faccio per questo», rispondeva Lester Piggott, uno dei più grandi fantini del Novecento, tra i primi tre, gli altri sono Gordon Richards e Frankie Dettori. E' che il grande avversario di Lester, che chiamavano The long fellow, il ragazzone, perché era alto 1,73 metri, oversize per il suo mestiere di jockey, è sempre stato il peso. Per restare entro un limite accettabile, tra i 54 e i 55 chili, ha dovuto tirar via del suo corpo almeno 14 chili.
Anche per questo aveva quella faccia rugosa e quell'aria tra il triste e l'inespressivo che lo hanno fatto chiamare anche Faccia di pietra, o Poker face.
E' morto ieri in Svizzera dove risiedeva da tempo. Aveva 86 anni. Aveva anche 4.493 vittorie in Inghilterra, e più di 5.300 a metterci insieme quelle conquistate all'estero. La prima a 12 anni in sella a The Chase ad Haydock Park, l'ultima sull'isola ancora ad Haydock Park, in sella a Palacegate Jack, quando ne aveva quasi sessanta. Poi s' era regalato una coda nell'estate australiana e l'ultimo successo fu a Canberra.
Piggott ha lanciato un modo di montare in corsa: staffe corte, sedere per aria, nessun movimento per non turbare l'equilibrio proprio né quello del cavallo. Accompagnarlo alla vittoria. Magari nel Derby: a Epsom, dove si corre il più famoso al mondo, l'ha fatto nove volte cominciando 18enne con Never Say Die (quota 32 contro 1) e l'ultimo lo ha vinto nel 1983 con Teenoso. Ma sono stati suoi tutti i Derby: cinque in Irlanda, tre in Germania, tre in Italia (Bonconte di Montefeltro, Cerreto e Welnor), uno in Francia. Perfino uno ciascuno a Singapore e in Slovacchia.
E' stato 11 volte campione dei fantini in Gran Bretagna, lo definivano il cocco delle casalinghe perché le massaie inglesi non disdegnavano di entrare in un betting shop e scommettere sul cavallo montato da Piggott. Del resto, quando smise di impegnarsi con contratti di scuderia ma lanciò la moda del freelance, la sua scelta condizionava le quote dei bookmakers: se lo montava Piggott, quel cavallo diventava il favorito. Diceva che il più facile da montare era stato il campione Sir Ivor; con Nijinski ha vinto la Triplice Corona. La Regina lo fece baronetto e poi lo disfece quando Lester finì coinvolto in una condanna per evasione fiscale, un anno di carcere.
Era nato fantino: lo era suo nonno, lo era suo padre, lo erano suocero e cognati; la figlia Maureen ha sposato un allenatore di cavalli. Era anche nato sordo a un orecchio e cresciuto un po' balbuziente, tutte faccende che lo resero silenzioso e impenetrabile. Crebbe anche molto attento al denaro.
Una volta gli chiesero 5 sterline per una colletta e lui disse al questuante «dimmelo all'altro orecchio», questi lo fece, aumentando la richiesta a 10 sterline; e Lester: «Ridimmelo all'orecchio di prima, ti era venuto meglio». Non aveva bisogno di provare un cavallo: gli bastava salirci su e durante il canter per andare in partenza già capiva tutto di quel purosangue; della corsa, lo faceva lungo i metri previsti. «Era il mio eroe e un buon amico», ha detto Frankie Dettori. Lo acclameranno ancora i frequentatori di quei nove ippodromi inglesi nei quali c'è una statua dedicata a lui. Una la scoprì proprio la Regina a Epsom, dove sabato si corre il Derby e chissà quanti ricordi Piero Mei
Lester Piggott, il più grande fantino di sempre. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 6 giugno 2022.
“Cavalca il cavallo, non correre la gara”: era questo il consiglio che Lester Piggott, il più grande fantino di sempre, aveva dettato a Frankie Dettori, in una delle sue rare frasi: Piggott era sordo da un orecchio e mezzo balbuziente, perciò parlava poco e si esercitava nella lettura del labiale.
Si esercitava anche nel vivere affamato: era alto 1,73 metri, Gulliver nella terra di Lilliput nella sala bilance dove i fantini si misurano a peso. Doveva arrivare a poco più di 54 chili per essere nella media del peso che i cavalli debbono portare nelle corse classiche. Significava buttarne via tra i 10 e i 15 dei suoi naturali se non fosse stato un fantino.
Lo era. Dalla nascita, il 5 novembre 1935, ospedale di Wantage, nel Berkshire. A leggere il suo pedigrée, come si fa con i purosangue di cui fu re, papà Keith era un champion jockey in ostacoli, nonno paterno Ernie pure (lo fu tre volte e vinse tre Gran National), bisnonno Tom Cannon idem, la mamma di Lester era Iris Rickaby, della famiglia di fantini Rickaby. Lester montò la prima corsa a Salisbury nel 1948: non si piazzò. Due mesi dopo, sempre in sella a The Chase, vinse la sua prima a Haydock Park.
L’ultima in Gran Bretagna la vinse 46 anni dopo, sempre ad Haydock Park: il cavallo si chiamava Palacegate Jack ed era il vincitore numero 4.493 di Piggott in quel Paese. Superò agevolmente le 5.000 vittorie (dicono 5.300) calcolando quelle ottenute all’estero, dove lo chiamavano spesso quando avevano un cavallo da gran premio: chiedeva il rimborso spese e la percentuale del 15 per cento sull’eventuale premio vinto, quando gli altri fantini prendevano il 5 per cento.
Glielo davano perché Piggott voleva dire spesso vittoria. Tornando alla sala bilance, diceva di lui Steve Cauthen, americano, anche lui celebrità della frusta: “Passa che sembra Gesù: credo che potrebbe camminare sulle acque”. Ci passò 9 volte per vincere il Derby di Epsom, 116 volte quanti sono i suoi successi al Royal Ascot, il meeting di core più celebre del mondo, 30 volte per fare sue le corse classiche (ne ha vinta una per la Regina, le Oaks con Carrozza: Elisabetta scese in pista per accompagnare Lester al trionfo).
Il primo Derby lo vinse a 18 anni in sella a Never Say Die, che si poteva giocare a 32 contro 1. Ancora “The Long Fellow” non era quel che divenne poi: il favorito delle casalinghe britanniche. Tutte scommettevano un paio di sterline su quest’uomo rugoso e di poche parole, cui piacevano i gelati. Una volta entrò in un bare ne chiese uno. Lo guardarono tutti, era una celebrity: “Sei Wilson Pickett?” gli chiese la barista. E lui, fantino bianco confuso con il cantante soul nero, rispose semplicemente “yes”. “Non volevo una lunga discussione” disse poi.
Un’altra volta, a Londra, chiese a Lidley, l’amico fantino che guidava la macchina dove i due viaggiavano, di fermarsi davanti a un chiosco; scese, prese due coni, risalì in macchina. Se li gustò entrambi. “Credevo che uno fosse per me” fece Lindley; “Mica mi hai detto che volevi un gelato” rispose Lester leccandosi le labbra. I suoi partner a quattro zampe hanno fatto la storia dell’ippica: Nijinski che vinse la Triplice Corona, Sir Ivor, Petite Etoile, Shergar, Dahlia. I proprietari se lo contendevano, gli allenatori pure: Noel Murless, Vincent O’ Brien.
Era ricercatissimo. Anche dall’Agenzia delle Entrate che lo pizzicò per evasione fiscale: tre milioni di sterline non dichiarati. Un giorno di processo a Ipswich Crown Court, tre anni di prigione come condanna, uscita di cella dopo un anno. Lasciando il carcere di Highpoint disse: “Una perdita di tempo che alla fine ti lascia senza mostrare niente”.
La Regina, per legge, gli tolse un’onorificenza. A nulla valsero gli amici comuni: la “casta” dei cavallari. Uno di questi, Peter O’ Sullivan, scrisse: “Il regime di austerità ha ulteriormente isolato Lester dai suoi simili, ha promosso l’irritabilità e ha favorito l’illusione del pistolero di essere al di sopra della legge”. Montava a cavallo con uno stile speciale, staffe corte e sedere in aria, appollaiato sulla groppa del cavallo. “Perché tieni il sedere così alto?” gli chiedevano. Rispondeva: “Beh, da qualche parte lo devo pur mettere”. Metteva anche le mani da qualche parte: a Deauville, ippodromo francese, perse la frusta e con rapida mossa rubò quella dell’avversario Alain Lequeux. Quando lo chiamarono i Commissari disse: “Non potevo mica correre senza”. Fu punito.
Fu punito molte volte: “E pensare – diceva – che non c’erano tutte quelle telecamere che si sono adesso: non potrei più farlo”. Disse anche, un giorno che cadde di sella e si ruppe una clavicola: “Ho avuto ferite peggiori cadendo dal letto”. Fu avversario di generazioni di fantini: di Sir Gordon Richards, di Scobie Breasley che una volta lo batté per vittorie annuali (Piggott fu champion jockey 11 volte) per un solo successo nel fango dell’ultima giornata di corse a Manchester: “Aveva più esperienza di me: credo che si sia sposato il giorno che sono nato io” scherzò Piggott. Anche i Dettori, papà Gianfranco e figlio Lanfranco detto Frankie, sono stati tra i suoi avversari e amici.
Il giorno che Lester è morto a 86 anni, Frankie ha detto: “Era il mio eroe”. E quel suo amico del gelato mancato, Lindley, si era espresso su di lui: “Dicono che in guerra e in amore tutto sia consentito: Lester ha lasciato stare l’amore”. La guerra in questione era semplicemente una corsa di cavalli, meglio se un gran premio, meglio ancora se un Derby: in Italia ne ha vinti tre.
· E’ morto l’attore Marino Masé.
Marco Giusti per Dagospia il 30 maggio 2022.
Se ne va uno dei belli del cinema italiano degli anni ’60, il triestino Marino Masé, 83 anni, attivissimo sia nel cinema di genere, thriller, polizieschi, spy, peplum, che nel cinema d’autore, avendo recitato per maestri come Luchino Visconti, “Il gattopardo”, Liliana Cavani, “Il portiere di notte”, Marco Bellocchio, “I pugni in tasca”, ma anche Ettore Scola, “La congiuntura”, Dino Risi, “I mostri”.
E, soprattutto, Jean-Luc Godard, che lo volle protagonista di un suo bellissimo e rarissimo film concepito assieme a Roberto Rossellini, “Les carabiniers”. Da qualche parte devo avere ancora una lunga intervista a Marino Masé che mi tenevo da parte per quando avrei potuto fare uno special di Stracult su “Les carabiniers”.
Fu Rossellini a indicarlo a Godard per il ruolo di Ulysse, il contadino che diventa uno dei due carabiniers. Ma lavorò anche per Francis Coppola nel “Padrino – Parte III”, per Fernando Di Leo ne “Il boss”, per Vincent Minnelli in “Nina”, per il suo amico Piero Vivarelli nel tardo erotico con Moana “Provocazione”. Una carriera di oltre cento film, senza contare i caroselli e i telefilm.
Nato a Trieste nel 1939, a vent’anni entra nel mondo del cinema vincendo un concorso per giovani attori della Vides di Franco Cristaldi, poi entra nella sezione romana dell’Actors Studio assieme a altri attori della sua generazione e lo troviamo a teatro nell’”Arialda” di Giovanni Testori con la regia di Luchino Visconti.
Sarà Visconti a portarlo, assieme a tanti bei giovani del tempo, da Mario Girotti a Giuliano gemma, da Angelo Infanti a Pierre Clementi, sul set di “Il gattopardo”. Alto, bello, elegante, molto simile al modello degli 007 del tempo, il cinema lo sfrutta da subito, anche se gli mancherà sempre qualcosa per poter diventare un vero protagonista.
Il primo film dovrebbe essere il sandalone “Il ratto delle sabine” diretto da Richard Pottier, 1961, dove è protagonista Roger Moore, e assieme a lui ci sono le bellissime Mylene Demongeot e Giorgia Moll. Lo troviamo poi in “Un tentativo sentimentale” di Pasquale Festa Campanile e Massimo Franciosa con Françoise Prevost e Jean-Marc Bory, ne “L’idea fissa” di Mino Guerrini e Gianni Puccini.
Dino Risi ne “I mostri”, 1963, lo vuole nell’episodio “L’oppio dei popoli”, dove un marito, Ugo Tognazzi, guarda la tv fino alla fine delle trasmissioni, interessato solo al piccolo schermo, mentre la moglie lo tradisce in camera da letto. “Cara, cosa ti sei persa”, è il commento del marito prima di andare a letto.
Marco Bellocchio, alla sua opera prima, “I pugni in tasca”, lo sceglie nel ruolo del fratello borghese di Lou Castel. Passa dal peplum, “Golia alla conquista di Bagdad” di Domenico Paolella all’horror col. Notevole “Amanti d’oltretomba” cdi Mario Caiano con Barbare Steele, dalla spy, “Le spie amano i fiori” di Umberto Lenzi con Roger Browne, alla commedia all’italiana, “La congiuntura” di Ettore Scola con Vittorio Gassman.
Dopo aver recitato con Godard e Bellocchio, lo troviamo anche in coproduzioni francesi, come il divertente “Tre gendarmi a New York”, 1965, di Jean Girault con Louis De Funés, mentre la MGM lo mette sotto contratto per una serie di telefilm, “Jericho” (“Codice Gerico”, 1966-1967), che lo porterà addirittura a Hollywood come coprotagonista di Don Francis.
Anche se la serie non fu un successo, Marino Masé era diventato un nome da poter spendere per le coproduzioni internazionali. Lo ricordiamo in “A qualsiasi prezzo” di Emilio P. Miraglia con Walter Pidgeon e Klaus Kinski, “Commandos” di Armando Crispino con Lee Van Cleef, “Un esercito di cinque uomini” di Italo Zingarelli con Bud Spencer.
Diviso fra il cinema d’autore del tempo, “I cannibali” e “Il portiere di notte” di Liliana Cavani, ma soprattutto “N.P. il segreto” di Silvano Agosti e il cinema di genere, “La dama rossa uccide sette volte” di Emilio Miraglia, è molto attivo anche in tv, dove diventa presto un volto familiare. Nei primi anni ’70 gira anche molta pubblicità nel ruolo dell’uomo bello e sicuro di sé, ne ricordo una per gli abiti Monti diretta da Luciano Emmer, una per Recoaro diretta da Ruggero Deodato.
Funziona bene ovunque. Sia nelle stravaganze internazionali, come “Identikit” di Giuseppe Patroni Griffi con Elizabeth Taylor e Andy Warhol, sia nelle produzioni autoriali italiane più strampalate, “Maternale” di Giovanna Gagliardo, sia nel cinema di genere più ricco, “Zorro” di Duccio Tessari.
Negli anni’80 gira davvero di tutto, da “Assassinio sul Tevere” di Bruno Corbucci con Tomas Milian a “Contamination” di Luigi Cozzi, da “King David” di Bruce Beresford a “Provocazione” di Pieri Vivarelli o “Emanuelle: perché violenza alle donne?” di Joe D’Amato.
Lo troviamo anche in buoni film, sfruttando la sua esperienza hollywoodiana, da “Il ventre dell’architetto” di Peter Greenaway a “Il padrino parte III” di Coppola, da “Tenebre” di Dario Argento a “Cercasi Gesù” di Luigi Comencini, da “Il camorrista” di Giuseppe Tornatore a “Dimenticare Palermo” di Francesco Rosi. Ha lavorato fino all’ultimo nel cinema, sia come attore che come traduttore e adattatori. Infaticabile.
· E’ morto lo scrittore Boris Pahor.
(ANSA il 30 maggio 2022) - Il grande scrittore e intellettuale di lingua slovena di Trieste, Boris Pahor, è morto all'età di 108 anni. Ne dà notizia l'agenzia di stampa slovena Sta.
Nato a Trieste nel 1913, Pahor è considerato il più importante scrittore sloveno con cittadinanza italiana e una delle voci più significative della tragedia della deportazione nei lager nazisti, raccontata in Necropoli, ma anche delle discriminazioni contro la minoranza slovena a Trieste durante il regime fascista, L'intellettuale, testimone in prima persona delle tragedie del Novecento, ha scritto una trentina di libri tradotti in decine di lingue, tra cui Qui è proibito parlare, Il rogo nel porto, La villa sul lago, La città nel golfo
Carmelo Caruso per “Panorama” – 14 luglio 2014
E' un meraviglioso naufragio di 101 anni. «I fascisti mi hanno impedito di essere sloveno. I nazisti mi hanno condotto nei campi di concentramento. La malattia mi ha confinato in un sanatorio francese. La guerra mi ha portato a Bengasi».
Legge ancora? «Scrivo ancora». Non ha il passo incerto del patriarca e neppure il bastone che gli corregge i passi nonostante sia un fagotto di ossa e una foglia di carne, uno stoppino che più si consuma e più si accende di luce e memoria. «L'anno scorso ho avuto un infarto».
E a Boris Pahor, un magnifico incrocio di scrittore triestino e sloveno, a volte gli scivolano giù i pantaloni che si tira su come facevano i fantastici magri della comicità, quelli che si servivano del corpo per provocare la risata. «Mi peso continuamente anche se non riesco a leggere le cifre sulla bilancia. Adesso peso 52 chili prima ne pesavo 49».
Nell'editoria degli esordi letterari e che trova talenti destinati alla mortalità ogni mese, il suo lavoro più alto Necropoli, pubblicato nel 2007 da Fazi, è un libro che l'Italia ha recuperato ma non ha scoperto. «I miei libri sono sempre usciti con ritardo». Forse è uno scrittore ostico? «Sono uno scrittore serio». Quindi ostico. «Il mio primo libro italiano venne pubblicato non da un editore ma dal consorzio culturale monfalconese. Capisco gli editori italiani: ero uno scrittore triestino che in più scriveva in sloveno».
In Francia però lo hanno amato prima dell'Italia. «E' vero, hanno apprezzato il mio libroPrimavera difficile. Hanno detto che era un libro valevole». Ci sono ancora libri italiani valevoli? «Ci sono sempre libri valevoli ma rimangono nell'ombra».
Elisabetta Sgarbi, che dirige la Bompiani, la più esperta rabdomante italiana di testi e di grandi vecchi, si è innamorata come una golosa che entrata in pasticceria non desidera un dolce ma la pasticceria. «La Sgarbi ha voluto pubblicare la biografia della mia vita, ed è come se avesse fatto un compendio di tutta la mia opera» dice Pahor.
Così ho vissuto è infatti la prima monografia della Bompiani dedicata allo scrittore composta insieme a Tatjana Rojc (massima studiosa dell'opera di Pahor), ed è un mosaico dove dietro a ogni tessera ci sono i romanzi di Pahor, molti di questi pubblicati dalle pregevole Zandonai.
E anche adesso è Tatjana a porgergli la maglietta («Sudo sempre») come fosse lei la madre e lui un monello, ed è sempre lei che lo accompagna qui a Spoleto dove lo ha trascinato un altro Sgarbi, Vittorio, che lo monumentalizza «perché è l'ultimo degli arrabbiati» senza però essere arrabbiato come Sgarbi che forse proprio per questo lo coccola ritrovando in Pahor la mitezza che segretamente insegue lui.
Anche Primo Levi non l'ha compresa? «Gli mandai il dattiloscritto di Necropoli. Speravo che mi dicesse che fosse un buon libro, ma non ha mai risposto. Non ho avuto fortuna». Si sente un grande vecchio? «Vecchio è chi non comprende l'attualità. Ci sono molti giovani che non la comprendono». Ha paura dei giovani? «Ho paura di quei giovani che pensano che i vecchi debbano andare sottoterra».
E viene in mente quello che diceva, un altro vecchio (ancora loro) Gesualdo Bufalino, secondo cui i giovani mangiano i vecchi ma non sanno digerirli. «Non è colpa loro, semmai dei professori che non sanno insegnare» risponde Pahor. Magari i giovani non vogliono più ascoltare i vecchi? «In 4 anni ho girato 35o scuole per parlare della mia vita e della mia prigionia. Mi hanno sempre ascoltato tutti e in silenzio».
Pahor ha grosse lenti che sembrano due telescopi puntati sulla terra e chissà se al posto del nuovo senato non fosse più utile costruire il museo dei grandi vecchi e cominciare a mettere in fila tutti gli occhiali della cultura italiana e degli "antitaliani" come Pahor che «è diventato italiano per caso e per necessità».
Sradicato ancora come il Tunda di Joseph Roth? «Gli italiani non avevano bisogno di Trieste». Sogna ancora una Trieste austriaca? «Anche gli irredentisti una volta redenti si sono sentiti irredenti. Poi ci hanno pensato i fascisti a commettere un genocidio culturale. Mi hanno costretto a sette anni a imparare una lingua che non conoscevo. Tutta la mia opera è un tentativo di raccontare questo genocidio taciuto».
Le piace il nuovo governo italiano di Matteo Renzi? «Mi piace il suo decisionismo. Ha le idee chiare anche se bisogna vedere se le metterà in pratica. Mi è piaciuto quello che ha detto sull'Europa. Sogno un concilio laico degli stati europei, ma rimpiango il mondo asburgico. Oggi in Italia è una ruberia». E malgrado il caldo si toglie e mette il cappellone di feltro marrone a cui non rinuncia e che sembra una corona troppo grande che gli balla in testa e che a tratti ricorda la padella del Don Chisciotte con la quale il cavaliere si autoproclamava sire. «Mi protegge dal vento. Ma quando lo metto il vento se ne va. Quando lo tolgo il vento ritorna» dice Pahor.
Guarda la televisione? «Preferisco ascoltare la radio slovena. Quando era viva mia moglie guardavamo il meteo». Le manca sua moglie? «Mi manca quel dialogo che diventa abitudine. Oggi quando ritorno la casa è vuota e non è semplice». Va al cimitero a trovarla? «Raramente. Eravamo d'accordo che fosse necessario trattare meglio i vivi piuttosto che i morti. In memoria di mia moglie ho appena dato 60o euro alla Croce Rossa, 30o euro alla Caritas, 30o euro ad un'associazione per portare i bambini al mare».
Quanto prende di pensione? «1400 euro. C'è una donna che cucina per me. Mi lascia il cibo necessario per cinque giorni, sopratutto la minestra». Il corpo di Pahor è un involucro asciutto che dice sia merito delle terme slovene, mentre giacca e pantaloni sono almeno una o due taglie più grandi. E le stoffe di Pahor sono modeste ma profumano di pulizia e rigore, quel rigore che in Italia è sempre appartenuto ai grandi spiriti liberali.
Si sveglia presto la mattina? «Mi sveglio alle 5. Poi mi metto a scrivere fino a mezzogiorno. Dopo pranzo passeggio. Ogni giorno percorro una salita. Poi rientro e continuo a scrivere». Scrive al pc? «Scrivo su una vecchia macchina da scrivere, una Remington Deluxe». Dunque odia la modernità? «No, non mi piace il pc perché mi accorgerei subito dei miei errori. Sarei così tentato a correggerli e perderei il filo del ragionamento».
La Necropolidi Pahor è forse l'unico romanzo scritto da un sopravvissuto al lager che ritorna nel lager da visitatore e si imbatte in quel flagello che a volte sono le guide turistiche: "Ecco, diceva attraverso l'altoparlante la guida, la stanza riservata alle esecuzioni, come vedete il pavimento è leggermente inclinato allo scopo di far scorrere il sangue delle vittime". Che secolo è stato? «Un secolo sadico».
Si può condividere il dolore? «Albert Camus diceva che gli sarebbe piaciuto entrare in un campo di concentramento per condividere il male. E' un pensiero elevato. Ma chi dice che ne sarebbe uscito?». Le fa paura ancora qualcosa? «Mi fa paura quando vedo cacciare gli emigranti, quando sento la parola fannulloni».
Ha dei vizi? «Sono goloso della cioccolata. Prendo due caffè al giorno. Anzi, adesso sarebbe arrivato il momento di prenderlo». Lo prenda. Un ragazzo del bar si avvicina accettando un ammonimento che è una raccomandazione e nello stesso tempo una quadriglia tra generazioni: «Molti non lo sanno fare: vediamo se lei ci riesce».
Come deve essere? «Un centimetro orizzontale di caffè senza schiuma, ma con del latte. L'ultima volta che sono andato ad Amburgo nessuno è riuscito a farmi un espresso come chiedevo». Viaggia? «Spesso. C'è un autista che conosco e che mi accompagna all'aeroporto. Sabato invece viene una mia ex alunna che mi porta a fare la spesa. Sono stato professore di Lettere per molti anni». Ha insegnato per ripiego? «No. I miei genitori dopo le elementari mi mandarono in seminario. Pensavo di continuare. Ma non potevo rinunciare alla vita».
Pahor è un altro scrittore formato dal sanatorio, quella palestra di libertà e ragione che ha laureato gli scrittori e arricchito la medicina con umanità e pazienza. «Sono stato ricoverato un anno in Francia dopo la fine della guerra. E' grazie al sanatorio che ho imparato il francese, letto Sartre, Dostoevjskij e Cechov. Il sanatorio è stato la mia Sorbona sulla sedia a sdraio».
Crede? «Sono religioso non credente». Ha mai pregato? «Mi è capitato solo una volta nel campo di concentramento. Ho recitato tre "Ave Maria"». Le piace il nuovo papa ? «Mi piace, ma per cambiare la chiesa bisognerebbe eliminare i cardinali: fantasmi che si aggirano con quelle croci e mitre. Cristo aveva i sandali». Le capita di piangere? «Ho pianto quando sono salito l'ultima volta in montagna per la commozione di avercela fatta. Piango quando il bene vince sul male».
Mi faccia un esempio? «Quando un ingegnere è riuscito a salvare dei minatori intrappolati. Per farlo si è inventato una condotta esterna. Ecco, quel progetto era una vittoria del bene sul male. Meritava commozione». Qual è stato il più grande male che ha subito? «Quando i tedeschi mi chiusero 24 ore in un armadio». E non è vero che essere seri significhi essere aspri. Pahor di fronte al fascino della fotografia, e soprattutto della fotografa, dopo il corteggiamento, perché la fotografia è sempre un corteggiamento tra due amanti, si fa catturare da una corrida di scatti.
Pensa ancora alle donne? «Altro che. Mi piacciono. Mi piace l'amore e non solo quello sessuale. Ma ci deve essere attaccamento, ci deve essere un'esigenza». Ha mai tradito sua moglie? «Era una donna che mi lasciava libertà...». I premi letterari si rifiutano? «Mi fa piacere riceverli quando sono una cosa seria. Mi hanno candidato al Nobel, ma basterebbe il riconoscimento».
E' stato comunista? «Sono stato un social democratico. Bertrand Russel diceva che il comunismo è il cristianesimo laico. Purtroppo ha preso il peggio del cristianesimo, il dogma». Cosa ha perso in un secolo? «Il tempo che ho passato in compagnia della macchina da scrivere invece che con mia moglie. Ogni giorno alle 16 lei mi aspettava per prendere il caffèlatte. Io la lasciavo attendere per finire prima il capitolo che stavo scrivendo. Al dialogo con mia moglie ho preferito il dialogo con la macchina da scrivere. Le ho tolto tanto tempo». Cosa le piacerebbe ricevere per il suo prossimo compleanno? «Quei telefonini che con un tasto ti dicono quando sia nato uno scrittore.
Sarebbe bello ricordare in un istante la nascita di Ernest Hemingway». Un iphone? «Non so come si chiami». Come vuole essere ricordato? «Mi farebbe piacere che leggessero i miei libri. Ho lavorato tanto per dire la verità». Cosa vorrebbe scritto sulla sua lapide? «Vorrei che ci fosse scritto "Ha fatto del suo meglio per essere umano"». Com'era il caffè? «Ha fatto un buon caffè, questo giovane è stato bravo».
Morto Boris Pahor, lo scrittore sloveno che narrò l’orrore dei lager. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.
Triestino, era nato nel 1913 sotto l’impero asburgico. Durante l’occupazione tedesca era stato deportato e il suo talento in Italia era stato riconosciuto con grave ritardo.
Nascere in una regione di frontiera comporta dei vantaggi, occasioni d’imparare più lingue e frequentare diverse culture. Ma c’è anche il rischio di sperimentare conflitti etnici violenti, che possono sconvolgere la vita e aprire le porte dell’orrore. Lo scrittore triestino di nazionalità slovena Boris Pahor, scomparso nelle prime ore del 30 maggio all’età di 108 anni, aveva vissuto proprio quel tipo di esperienza, della quale i suoi romanzi sono lo specchio, fino ad essere deportato nell’universo concentrazionario nazista. E aveva pagato la sua appartenenza a una minoranza linguistica anche dopo la guerra, in veste di letterato, poiché il valore delle sue opere, soprattutto in Italia, era stato riconosciuto con un ritardo enorme e sconcertante.
Da questo punto di vista la doppia onorificenza, italiana e slovena, che gli era stata attribuita il 13 luglio 2020, in occasione dell’incontro tra i capi di Stato dei due Paesi per la restituzione alla minoranza slava del Narodni Dom, la sua Casa del popolo bruciata a Trieste dai fascisti cento anni prima, era stata una sorta di risarcimento, per quanto tardivo, riconosciuto a un uomo che si era sempre opposto agli abusi del potere.
Nato a Trieste il 26 agosto 1913 da suddito dell’Impero austro-ungarico, quando la città giuliana ospitava la comunità slovena più numerosa in assoluto, anche rispetto a Lubiana, Pahor si era ritrovato bambino sotto la giurisdizione del Regno d’Italia. Nello stesso periodo, come aveva raccontato a «la Lettura», era sopravvissuto al flagello dell’influenza detta Spagnola. E a nemmeno sette anni, nel luglio del 1920, aveva assistito appunto al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene, dato alle fiamme dagli squadristi dello spietato gerarca Francesco Giunta.
Subito dopo a Pahor era stata sottratta la lingua madre, perché il fascismo aveva chiuso d’imperio le scuole slave e costretto i loro alunni a frequentare quelle italiane: un autentico trauma. E s uo padre, impiegato pubblico, aveva perso il posto di lavoro in quanto aveva rifiutato il trasferimento in Sicilia: uno dei tanti tipi di angherie, spesso anche violente, cui la popolazione croata e slovena fu sottoposta dal regime di Benito Mussolini, che ne voleva estirpare l’identità.
Vennero poi per Boris gli studi nel seminario cattolico di Capodistria, istituzione almeno in parte sottratta alle ingerenze brutali dal fascismo. Una vita all’insegna della doppiezza: fingersi italiano in pubblico e coltivare la lingua e la cultura d’origine di nascosto, assieme ad altri giovani come lui. Quindi l’addio alla prospettiva del sacerdozio e il servizio militare durante la guerra, prima in Libia, sotto le bombe britanniche, poi in Italia come interprete degli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’8 settembre 1943 e la resa italiana agli anglomericani, vennero il ritorno a Trieste e l’adesione alla Resistenza, pagata con l’arresto e la deportazione.
Allora, nel 1944, era cominciato il periodo più tragico della vita di Pahor, con la reclusione in diversi lager, situati in Francia e in Germania. Essere un poliglotta (oltre all’italiano e allo sloveno, utile per comunicare con tutti gli slavi, conosceva il tedesco e un po’ di francese) probabilmente gli salvò la vita: venne addetto al compito d’infermiere ed evitò i lavori più pesanti, che riducevano i detenuti a larve umane. Di quei giorni terribili, trascorsi con il lezzo ripugnante della morte sempre addosso, avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli (1967), definito da Claudio Magris «un’opera magistrale», composta con «limpida sapienza strutturale», per il modo in cui riferisce, «con asciutta precisione fattuale», la realtà agghiacciante dell’«abiezione storica divenuta squallore cosmico, vuoto assoluto».
Nonostante la sua indiscussa eccellenza letteraria, che lo avvicina alle opere di Primo Levi, Necropoli, scritto ovviamente in sloveno, aveva dovuto attendere trent’anni per essere tradotto in italiano nel 1997, dalle semisconosciute e meritorie Edizioni del Consorzio culturale del Monfalconese, e solo nel 2008 era uscito presso un editore di statura nazionale, Fazi, con la prefazione di Magris. All’epoca Pahor aveva già 95 anni e l’anno prima aveva ricevuto a Parigi la Legion d’onore: i suoi ricordi del lager erano usciti in Francia nel 1990. In Italia per lungo tempo solo la piccola casa editrice Nicolodi (poi Zandonai) di Rovereto aveva preso in considerazione le altre sue opere, tra cui Il rogo nel porto (2001), La villa sul lago (2002), Il petalo giallo (2004), Una primavera difficile (2009). Di recente il suo romanzo Oscuramento era uscito presso La nave di Teseo, che riproporrà in giugno la sua autobiografia Figlio di nessuno.
Peraltro Pahor per lungo tempo non era stato ben visto neppure in Jugoslavia, poiché si mostrava assai critico verso il regime comunista di Tito. Nel 1975 aveva curato, insieme ad Alojz Rebula, un’intervista uscita a Trieste con il grande poeta sloveno Edvard Kocbek, nella quale quest’ultimo condannava le pesanti atrocità compiute in Slovenia dai partigiani titini dopo la guerra. L’episodio aveva scatenato le ire delle autorità di Belgrado e Kocbek, già in forte odore di eterodossia, era diventato oggetto di una pesante campagna diffamatoria. Solo dopo la nascita della Slovenia indipendente, nel 1992, a Pahor era stato assegnato il premio Prešeren, il più importante riconoscimento culturale del Paese.
Del resto anche in Italia, nonostante i molti onori che gli erano stati tributati, compresa la candidatura al Nobel, Pahor era rimasto un personaggio scomodo, senza peli sulla lingua. Non aveva esitato a biasimare il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, perché nel 2007 aveva condannato fermamente i crimini dei partigiani jugoslavi senza menzionare quelli compiuti in precedenza dall’Italia fascista sulle popolazioni slave. E nel 2010 aveva rifiutato un riconoscimento del comune di Trieste, perché nelle motivazioni si citavano le sofferenze da lui subite nei lager nazisti, ma non gli abusi cui aveva dovuto sottostare sotto il regime di Benito Mussolini. Non faceva sconti a nessuno dei movimenti totalitari sorti in Europa dopo la Prima guerra mondiale, perché nessuno ne aveva fatti a lui e al suo popolo.
Boris Pahor «A (quasi) 109 anni mi sento giovane. Vorrei portare la mia amica a Firenze». Marisa Fumagalli su Il Corriere della Sera il 15 febbraio 2022.
Il grande scrittore sloveno, in uscita con un libro tradotto ora in italiano, ha vissuto gli orrori della Storia: le due guerre mondiali, la repressione fascista, i campi di concentramento, l’ostracismo comunista della Jugoslavia di Tito. La lettera a Mattarella e la paura di morire: «Non so cosa troverò dopo».
Avere quasi 109 anni e... non sentirli. Non è proprio così, ma di fronte a un uomo come Boris Pahor (26 agosto 1913) che parla, lucido, degli argomenti a lui più cari, alzando a tratti la voce quando intende sottolineare un concetto, viene da pensarlo. Il saluto cordiale e la domanda: la sua è un’età da record, come si sente? «Mi sento giovane», replica subito, accennando a un sorriso. Puntualizza: «Sono cieco, l’udito va scemando, non la vitalità». E qui si lascia sfuggire un’allusione ad impulsi non propriamente senili (del resto, in una precedente intervista, all’età di 104 anni, ci aveva detto: «Ho fatto sesso attivo fino a 85 anni, le carezze restano anche da vecchi»). Siamo sulle colline di Trieste, lungo la Strada del Friuli che porta nella località di Prosecco, dove, in una villetta, abita il grande scrittore sloveno di cittadinanza italiana, nato nel capoluogo giuliano quando ancora dominava l’impero asburgico. Boris Pahor è semi-coricato sul letto della sua camera, indossa pantaloni scuri e maglioncino azzurro. Un leggero plaid lo copre a metà.
Paladino dell’identità e della lingua slovena
«Purtroppo è da molti mesi che non esco di casa», si rammarica. Nel corso della conversazione, di tanto in tanto appare Vera («la mia aiutante»), la signora che da alcuni anni lo accudisce giorno e notte con gentilezza. Eccola con la tazza di caffelatte di metà mattinata. Pahor la sorbisce lentamente, quindi ci aggiorna sulla sua dieta quotidiana: «Yogurt, piccoli pasti leggeri, mi nutro soprattutto di minestre con verdura», racconta. «Integro prendendo tante vitamine». Vera ascolta ma comprende molto poco l’italiano e non lo parla se non nelle brevi espressioni rituali. Del resto, non sarebbe concepibile altra scelta di personale domestico per un tipo come Pahor, fiero paladino dell’identità e della lingua slovena. E dire che è laureato in Letteratura italiana. Ma questa è un’altra storia. Scrittore prolifico, più volte candidato al Nobel, nella lingua madre ha dato alle stampe romanzi e saggi. Tradotti, poi, in varie lingue. I primi ad apprezzarli furono i francesi, ultimi gli italiani. Nel tempo trascorso con lui, circa un’ora, più volte cita il De vulgari eloquentia di Dante Alighieri, per sottolineare l’importanza della lingua parlata dal popolo. «Se la sosteneva Dante, sono in ottima compagnia», dice.
La trilogia
L’opera più famosa di Pahor è Necropoli , viaggio nella memoria dei giorni trascorsi nel lager di Natzweiler-Struthof. Qui va ricordato che lo scrittore ha vissuto sulla sua pelle gli orrori della Storia: la Prima guerra mondiale, la repressione fascista nella Venezia Giulia, la Seconda guerra mondiale, la prigionia nei campi di concentramento per aver collaborato alla resistenza antifascista slovena, l’ostracismo comunista all’epoca della Jugoslavia di Tito. L’incontro a Trieste avviene quasi in coincidenza con l’uscita di Oscuramento per La nave di Teseo. Romanzo inedito in lingua italiana, pubblicato in sloveno nel 1975, fa parte di una trilogia ( Una primavera difficile, Dentro il labirinto, gli altri due volumi), il cui protagonista è Radko Suban, alter ego dell’autore. L’amicizia, la guerra, la deportazione, l’amore, la morte violenta: temi che si intrecciano nella trama, ricorrenti nelle opere di Pahor, a sfondo autobiografico. «Fatti accaduti, persone da me conosciute, pensieri, drammi. C’è molto di vero nel mio romanzo» dice. «Dall’amicizia fra Radko e Mija che si trasforma in attrazione e poi in amore, mentre lei è già sposata con Darko, militante comunista. Purtroppo, per la coppia di sposi finirà tragicamente».
Libertà sentimentale
Nella realtà, la giovane borghese slovena di Trieste, bella e benestante (i genitori erano i proprietari del Buffet da Pepi che ancora esiste nei pressi di piazza della Borsa), si chiamava Danica. Ricorda Pahor: «Quando ci conoscemmo, entrambi liberi da vincoli sentimentali, mi confidò il suo desiderio di maternità. Dissi sinceramente che, al contrario di lei, non avevo intenzione di diventare padre. E Danica fece un’altra scelta. Successivamente, da sposata, mi raccontò di aver scoperto, con grande delusione, che il marito cercava di evitare di ingravidarla». Quello dei figli è un argomento delicato per lo scrittore. Dalla moglie Rada, scomparsa nel 2009 (uniti in matrimonio nel 1952 soltanto con rito civile, «un compromesso alla libera unione poiché, dopo l’esperienza dei lager, la libertà per me era un valore assoluto»), ebbe Maja e Adrian. Tuttavia, ha sempre dichiarato di essere “allergico” alla paternità. Ora lo ribadisce.
AI tempi dell’Impero
«Fin dall’inizio non sono stato un padre esemplare. Non andavo a prendere i bambini a scuola, gli dedicavo poco tempo. Mia moglie me lo rimproverava». Quando i suoi occhi vedevano ancora, Pahor batteva regolarmente i tasti di una vecchia macchina per scrivere, collocata come un trofeo sul tavolo del piccolo soggiorno. Adesso, pur avendo pensieri da esprimere, è costretto a rinunciare. «Potrei dettare ma occorrerebbe che qualcuno sapesse trascrivere compiutamente nella mia lingua». In casa può contare solo su Vera, serba, originaria della Bosnia. Non è in grado di assolvere il compito. Ad ogni modo, se gli chiedi che cosa vuole ricordare, di che argomento preferisce narrare, oggi come ieri va dritto al suo popolo, verso il quale nutre un amore quasi ossessivo. Sostiene che all’epoca dell’impero austro-ungarico c’era rispetto per l’identità e la lingua. «I nostri scrittori e poeti potevano pubblicare in sloveno. La nostra cultura non era sottovalutata o repressa come accadde con l’avvento del fascismo. Che rase al suolo il nostro patrimonio linguistico e culturale». A Trieste racchiuso in un edificio, il Narodni dom, la Casa della Cultura slovena.
Il riconoscimento da Mattarella
«Avevo 7 anni il giorno che la vidi ardere, incendiata dagli squadristi ancora prima dell’avvento del regime di Mussolini», ha ricordato più volte Pahor. «Parlo del fascismo, non dell’Italia, degli italiani e della lingua. Sono laureato in Letteratura italiana, materia che ho anche insegnato». Nella primavera del 2020 Pahor aveva confidato al Corriere, attraverso un suo scritto per la Lettura , di voler vivere almeno fino al 13 luglio dello stesso anno, così da poter presenziare davanti al Narodni dom, alla cerimonia di “riconciliazione” Italia-Slovenia. Missione compiuta. Non solo. Pahor, in quell’occasione, fu nominato Cavaliere di Gran Croce dal presidente Sergio Mattarella, ed ebbe analoga onorificenza da parte del presidente della Slovenia. Rammenta, tuttavia: «Nel febbraio del 2020 scrissi una lettera al Capo dello Stato, per fare alcune puntualizzazioni sul discorso che egli aveva pronunciato in occasione della Giornata del Ricordo, dedicata ai morti italiani delle foibe. In sintesi gli dissi: sta bene l’omaggio a quelle vittime, ma è inaccettabile che non si faccia riferimento al male provocato dal fascismo al potere e durante l’occupazione della provincia di Lubiana. Alla lettera non ebbi risposta ma, successivamente, le parole pronunciate da Mattarella nella Giornata del Ricordo del 2021 hanno dimostrato che l’aveva letta, prendendo in considerazione le mie osservazioni».
L’autobiografia
«Ad ogni modo gli sono grato per l’onorificenza. Che ho dedicato alle vittime innocenti di guerre e persecuzioni, di cui ho parlato e scritto». Ma avverte Pahor: «L’unico atto equo dello Stato italiano sarebbe stato, anzi sarebbe, pubblicare e diffondere il documento redatto dalla commissione mista storico-culturale italo-slovena». Istituita nel 1993, composta da studiosi dei due Paesi, e attiva fino al 2000, la commissione analizzò le relazioni italo-slovene dal 1880 al 1956. «Da quel rapporto i giovani potrebbero conoscere le reali condizioni in cui sono vissute le popolazioni slovena e croata durante il fascismo». È quasi l’ora di pranzo, ma al grande vecchio, che ha scritto molti libri, preme citarne uno fra i meno conosciuti, mai tradotto. S’intitola Moje suhote , letteralmente I posti asciutti nei quali ho dormito . È un’autobiografia, in forma di diario, pubblicata nel 2008, in occasione dei suoi 95 anni.
«Lì scorre tutta la mia vita, attraverso i luoghi in cui ho dormito. Comincia dalla casa di Trieste dove ha vissuto la mia famiglia, dove sono nato. E poi i posti visitati, gli incontri fatti, le persone conosciute. La Slovenia, i campi tedeschi, Parigi, le montagne del viaggio in Argentina tra gli sloveni emigrati, i festival letterari...». Ricorda e si commuove. Pahor, ha paura della morte? «Sì, poiché non so che cosa troverò dopo». Un desiderio personale? «Quando finirà la pandemia, mi piacerebbe portare la mia amica in viaggio. A Venezia e poi a Firenze, la città di Dante». Quale amica? Pahor tace. Siamo al congedo. Chiede a Vera di aiutarlo ad alzarsi dal letto per salutare. In piedi, con un caloroso abbraccio.
Quando Boris Pahor parlava della sua longevità: «Il segreto? Carne senza grassi e la vitamina della memoria». BENEDETTA MORO su Il Corriere della Sera il 30 maggio 2022.
Morto a 108 anni lo scrittore sloveno nato a Trieste nel 1913. Nella sua casa tra Carso e mare aveva una routine precisa: «Niente maiale, così nelle arterie fluisce bene il sangue». A colazione assumeva una pastiglia che si faceva arrivare dalla Francia.
Era sopravvissuto alla spagnola all’età di quattro anni, alla tubercolosi appena uscito dal campo di concentramento quando ne aveva 30. Per non parlare dei ricordi. Il Narodni Dom, la casa delle culture di Trieste, da poco restituito alla minoranza, davanti ai suoi occhi, a sette anni, mentre andava a fuoco. Boris Pahor, lo scrittore sloveno senza frontiere - ha pubblicato una trentina di libri tradotti in decine di lingue -, si è spento all’età di 108 anni nella città d’origine, Trieste, dopo aver vissuto negli ultimi anni nella sua casa che guarda il blu dell’Adriatico. Viveva da solo, con l’aiuto di una signora serba, Dora, da quando la moglie era scomparsa una decina d’anni fa.
Boris Pahor, morto a 108 anni. Quando raccontava:«Come vivere a lungo? Niente grassi e la vitamina della memoria»
In una piccola villetta inerpicata tra i pastini dell’Altipiano. La porta compariva dopo dieci scalini in una piccola stradina. «Le scalette per andare su le faccio ancora adesso. Ho fatto l’alpinista e sono stato sedici volte sul monte Triglav, quasi tremila metri di altezza», raccontava lo scorso settembre seduto al tavolo della sua stanza, in penombra, davanti a un caminetto ancora spento.
Orologio al polso, camicia azzurra senza maniche, davanti a lui solo una bottiglietta d’acqua «per non dimenticare di bere». «Buongiorno, un caffè? Il mio medico dice che è meglio berne quattro piuttosto che un tè». Come un orologio svizzero, il caffè lo beveva di mattina, a mezzogiorno e alle 16. La sveglia era alle 6.30. «Per prima cosa prendo una vitamina francese per la memoria, ormai da molti anni. Dico sempre che è la medicina della memoria. Me la faccio arrivare dalla Francia grazie a un’amica». La routine era sempre la stessa per Boris Pahor, figlio di un fotografo della gendarmeria di Trieste. «Faccio colazione alle 10. Due rosette di pane tagliate in quattro e caffelatte. Prima bevo acqua calda con tre prugne secche e mezza mela. E poi pranzo verso l’una. Questo è quello che mangio da quattro anni. Prima seguivo la colazione di mio papà, che mangiava in Ponterosso: ricotta, miele, burro e un caffelatte». Alla domanda sul segreto della sua longevità la risposta arrivava immediata. «La mia salute, per conto mio, l’ho salvata io stesso perché non ho mai mangiato carne grassa. Se un amico o un parente mi portava a casa un pezzo di maiale, io dicevo tante grazie e lo davo a mio figlio. Anche in cucina non volevo si adoperasse grasso. Così le mie vene sono libere e il sangue scorre bene». E forse anche vivere tra mare e Carso, respirare aria buona, possono aver contribuito. «Questo è poco ma sicuro. Tutti gli anni, d’estate, consacravo tre giorni alla montagna. Andavo a tremila metri, lasciando il mare. E poi tornavo giù. Nuotavo, ero nato sul mare», raccontava ancora.
«Al bagno», come si dice a Trieste intendendo in spiaggia, ormai negli ultimi anni non ci andava più, ma la sua vita quotidiana era abbastanza indaffarata. Tra letture e scritture. «Scrivo lettere. Ieri ne ho mandate tre. Le detto alla mia collaboratrice. Una era per un uomo, un tempo direttore a Klagenfurt di un’organizzazione cattolica. Gli è morta la moglie. Gli ho scritto così: “Caro dottore, grazie per gli auguri per il mio compleanno, però devo dirle che capisco il suo stato d’animo, avendo perso mia moglie e conosciuto la sua signora, che era simpaticissima”. L’altra, l’ho mandata per ringraziamento a un critico sloveno che si è fatto notare negli ultimi due anni». Perché scrivere restava la sua più grande gioia a 108 anni. «Oggi i miei piaceri sono legati ai miei libri. A Trieste “La vita sul lago” a molti piace. Adesso è uscito il libro a me dedicato, “Boris Pahor. Scrittore senza frontiere. Studi, interviste e testimonianze”: vi hanno scritto tanti autori. Sono lo scrittore senza frontiere, perché i miei libri sono stati tradotti in molte lingue. La mia sembra una scrittura normale ma non lo è. Tutti quelli che hanno letto i miei libri dicono che Pahor scrive in modo semplice, anche delle cose più gravi. Ed è così».
Aveva 108 anni. È morto Boris Pahor, addio al gigante della letteratura del Novecento che narrò l’orrore dei lager. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Maggio 2022.
È morto lo scrittore e intellettuale Boris Pahor. Gigante della letteratura slovena e non solo, aveva scritto una trentina di titoli tra saggi e romanzi, è stato scrittore degli ultimi, difensore della libertà dell’individuo, testimone dei più grandi stravolgimenti della storia del Novecento. Aveva 108 anni e fino all’ultimo è rimasto lucido e combattivo. È morto a Trieste intorno alle quattro di questa mattina come confermato da Adnkronos. Disse in occasione di uno dei suoi ultimi compleanni: “Penso che la storia possa tornare”.
Pahor era nato a Trieste il 26 agosto 1913 sotto il regno austro-ungarico di Francesco Giuseppe. La città all’epoca ospitava la più numerosa comunità slovena in assoluto. Era sopravvissuto all’influenza “spagnola” e a sette anni aveva assistito al rogo del Narodni Dom triestino, sede delle associazioni slovene data alle fiamme dagli squadristi del gerarca Francesco Giunta. Aveva fatto risalire la sua formazione di uomo proprio a quella brutalità.
Lui e la sua famiglia furono discriminati per la lingua madre come succedeva alle popolazioni croata e slovena: il padre impiegato pubblico rifiutò il trasferimento in Sicilia e perse il posto di lavoro. Il giovane Boris studiò al liceo classico nel seminario cattolico di Capodistria, si laureò in Lettere all’Università e si dedicò all’insegnamento della letteratura italiana. Da subito divenne un punto di riferimento. Servì da militare in Libia e in Italia fece da interprete agli ufficiali jugoslavi prigionieri. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943 tornò a Trieste e aderì alla Resistenza pagando con l’arresto e la deportazione.
Venne rinchiuso in diversi lager tra Francia e Germania. Venne addetto al compito di infermiere. Di quei giorni avrebbe scritto nel suo capolavoro Necropoli, autobiografia pubblicata nel 1967. Ci vollero trent’anni per la traduzione in italiano. Soltanto nel 2008 venne pubblicato da un grande editore come Fazi con la prefazione di Claudio Magris. Per lungo tempo solo la casa editrice Nicolodi di Rovereto pubblicò le sue opere.
Pahor per tanto tempo era stato critico anche verso il regime comunista di Tito. Lavorò con Alojz Rebula a un’intervista al poeta sloveno Edvard Kocbek sulle atrocità compiute in Slovenia dai partigiani titini dopo la guerra che suscitò la rabbia delle autorità di Belgrado. Soltanto dopo la nascita della Slovenia indipendente 1992 a Pahor venne conferito il premio Prešeren, il più importante riconoscimento culturale nel Paese. Altri suoi titoli rappresentativi della sua produzione furono Qui è proibito parlare, Il rogo nel porto, La villa sul lago, La città nel golfo.
Criticò anche il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che nel 2007 condannò i crimini dei partigiani jugoslavi senza citare quelli dell’Italia fascista sulle popolazioni slave. Rifiutò nel 2010 un riconoscimento del comune di Trieste che nelle motivazioni citava le atrocità naziste ma non quelle fasciste. Il 30 luglio 2020 gli venne attribuita la doppia onorificenza, italiana e slovena, in occasione dell’incontro tra i capi di Stato dei due Paesi per la restituzione alla minoranza slava del Narodni Dom. Si era sempre detto convinto europeista. Definì l’Unione “preziosa”.
Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.
· E’ morto il musicista Alan White.
Alan White morto a 72 anni: addio al batterista degli Yes. Ilaria Minucci il 26/05/2022 su Notizie.it.
Morto a 72 anni Alan White: il batterista del gruppo prog-rock Yes si è spento nella sua casa negli Stati Uniti dopo aver lotta contro una malattia.
Alan White, il batterista del gruppo prog-rock Yes, è morto all’età di 72 anni. Sulla base delle informazioni sinora diffuse, pare che il musicista si sia spento nella sua casa situata negli Stati Uniti d’America dopo aver lottato per un breve periodo contro una malattia.
Morto Alan White, batterista degli Yes. Suonò con John Lennon e George Harrison. Carlo Moretti su La Repubblica il 27 Maggio 2022.
Il musicista per 50 anni dietro ai tamburi della band progressive inglese. Aveva 72 anni. Sua la parte ritmica di 'Imagine' e di 'My Sweet Lord'.
Ha suonato per anni negli Yes, ha collaborato con John Lennon e George Harrison e con la Plastic Ono Band. Il batterista Alan White è morto a 72 anni nella sua casa di Seattle dopo una breve malattia. Lo ha annunciato la sua famiglia. “Nella sua vita e nei suoi sei decenni di musica”, hanno scritto i familiari di White su Facebook, “Alan è stato tante cose per tanta gente: una rockstar nota a centinaia di migliaia di fan nel mondo, un compagno di strada per altri musicisti come lui, un gentiluomo e un amico per tutti quelli che lo hanno incontrato”.
Sebbene il suo nome sia legato alla band progressive inglese degli Yes, con i quali cominciò a suonare nel 1972 e con i quali nel 2017 è stato introdotto nella Rock and Roll Hall of Fame, White ha anche suonato con John Lennon & Yoko Ono Plastic Ono Band nel 1969, nel singolo di Lennon Imagine e in Instant Karma (We All Shine On). Tra le altre sue esibizioni live si ricorda quella con lo stesso Lennon, con Yoko Ono e Eric Clapton nel concerto Live Peace di Toronto.
Nato a Pelton in Inghilterra il 14 giugno del 1949, White aveva cominciato studiando pianoforte ma spostandosi alla batteria quando aveva solo 12 anni. Il debutto live negli anni Sessanta come turnista, anche al fianco di Billy Fury, poi nel 1968 l’incontro con la Ginger Baker's Air Force, la formazione post-Blind Faith in cui suonava anche Steve Winwood. L’anno dopo White ricevette la richiesta di Lennon di entrare nella Plastic Ono Band, quindi di collaborare con lui all’album Imagine per l’omonima canzone, per Jealous Guy e per How Do You Sleep at Night. Yoko Ono lo ha ricordato con un post su Facebook usando parole di grande stima.
L’incontro con Lennon significò anche la conoscenza con George Harrison che lo invitò a unirsi a lui per le registrazioni del triplo album del 1970 All Things Must Pass, compreso il singolo di grande successo My Sweet Lord. White restò poi nel giro come turnista della Apple suonando con il “quinto Beatle” Billy Preston, con Rosetta Hightower e Doris Troy. Quindi l’incontro con gli Yes che significò l’inizio di una lunga collaborazione, dal 27 luglio del 1972, tre giorni prima dell’inizio del tour Americano della band progressive con il concerto di Dallas di fronte a 15 mila fan. Dopo la scomparsa nel 2015 del bassista e chitarrista della band Chris Squire in 2015, White era rimasto come il membro con più lunga militanza degli Yes.
· È morto l'attore John Zderko.
È morto l'attore John Zderko, indimenticabile protagonista di Criminal Mind. Roberta Damiata il 26 Maggio 2022 - 12:31.
È scomparso all'età di 60 anni l'attore John Zderko, famoso soprattutto per la sua interpretazione in "Criminal Mind" e "The Mentalist". Recentemente gli era stato diagnosticato un tumore.
Il mondo dello spettacolo è in lutto per la scomparsa dell'attore statunitense John Zderko, protagonista di molte serie tv, ma soprattutto per la sua interpretazione in Criminal Mind. La notizia del decesso ha fatto il giro del mondo in poco tempo, e si si sono moltiplicate sui social le manifestazioni d'affetto e di cordoglio per la scomparsa. L’attore a 60 anni ha perso la sua battaglia contro il cancro che gli era stato diagnosticato qualche tempo fa.
Ad annunciarne la morte il suo amico e collega Charlie Koontz con un tweet condiviso poi da Hollywood Reporter. “Un grande amico e un attore eccellente se ne sono andati troppo presto” ha scritto. La sua prima apparizione sullo schermo nel 2005, quando ha preso parte in diversi spettacoli come 9-1-1: Lone Star, Dirty John e The Player. Amatissima la sua interpretazione nella serie tv The Mentalist. I suoi ruoli più recenti sono stati in Breaking di Bleeker Street, che ha debuttato al Sundance Film Festival, e in Bosch: Legacy. Ma è stata la serie di Criminal Mind ad avegli regalato il successo mondiale. Nato e cresciuto in Ohio, aveva frequentato la Park Ridge High School ed era diventato anche un giocattore di basket nella squadra di James Gandolfini.
Si era poi laureato alla UC Irvine ed ha iniziato a studiare e prendere lezioni di recitazione alla Ucla. È proprio qui che capisce che il cinema è la sua strada. Per questo aveva lasciato la sua occupazione per dedicarsi a tempo pieno solo alla recitazione. Nel film horror del 2014, Apparitional, Zderko si era distinto nel ruolo di un uomo che viene attaccato da un fantasma, che poi si impossessa del suo corpo, facendo diventare la pellicola un cult per gli amanti del genere. Poco si conosce della sua vita privata. Lascia la sorella Karen ed i suoi amati nipoti Jason e Jeff.
· E’ morto il musicista Andrew Fletcher.
Addio Andrew Fletcher, il fondatore dei Depeche Mode con l'animo da deejay. Il Tempo il 26 maggio 2022.
È morto Andrew Fletcher, tastierista dei Depeche Mode e fondatore, insieme a Martin Gore e David Gahan, della band synth pop britannica. Lo riferisce il gruppo sui social. Nato a Nottingham l’8 luglio 1961, Fletcher conobbe nel 1980 Gore, con cui costituì il primo nucleo dei Depeche Mode. La band ha chiesto di «rispettare la privacy della sua famiglia in questi tempi difficili».
Fletcher è presente in tutti gli album del gruppo, dall'esordio "Speak & Spell" del 1981 all’ultimo lavoro in studio, "Spirit" del 2017. Poco coinvolto nel processo di composizione, Fletcher si occupava degli aspetti manageriali e legali dei Depeche Mode e faceva da portavoce del gruppo. Sposato e padre di due figli, abile scacchista, Fletcher, secondo i media inglesi, a metà anni ’90 aveva attraversato una fase di grave depressione a causa di alcuni investimenti finiti male. Nei tempi in cui non era impegnato in tour con i Depeche Mode, amava esibirsi come Dj, non disdegnando piccoli locali.
È morto Andrew «Fletch» Fletcher, aveva fondato i Depeche Mode. Il Corriere della Sera il 26 maggio 2022.
Aveva fondato i Depeche Mode insieme al tastierista/percussionista Vince Clarke (inizialmente leader e mente del gruppo). Ora non c’è più. Il tastierista Andrew John Fletcher (più comunemente noto come Fletch) è morto a soli 60 anni. A darne notizia la stessa band con un post sui suoi canali social dove il gruppo si dice «scioccato» e «colmo di tristezza» per la scomparsa dell’«amico» Andy, un ragazzo «dal cuore d’oro che c’era sempre quando avevi bisogno di supporto».
The Fletch era nato a Nottingham l’8 luglio 1961 e fondò i Depeche Mode nel 1980. Presto si uniranno alla band il tastierista/chitarrista Martin Gore (futuro leader e compositore/paroliere del gruppo) e il carismatico cantante Dave Gahan. Da lì fu un successo dopo l’altro, ma sin dal nucleo originario, dall’album «Speak & Spell» (1981), Andrew si era spesso occupato della parte manageriale della band,senza mai scrivere canzoni, ma partecipando comunque all’arrangiamento finale dei brani.
Andy Fletcher: addio allo storico tastierista dei Depeche Mode. Andy Fletcher, tastierista dei Depeche Mode è morto, all’età di 61 anni. NeXt quotidiano il 27 Maggio 2022
Andy Fletcher, tastierista dei Depeche Mode è morto, all’età di 61 anni. A darne l’annuncio, sui social, è stata proprio la sua band.
Andy Fletcher: è morto lo storico tastierista dei Depeche Mode
“Siamo scioccati e sopraffatti dalla tristezza per la prematura scomparsa del nostro caro amico, membro della famiglia e compagno di band Andy ‘Fletch’ Fletcher – si legge nel messaggio -. Fletch aveva davvero un cuore d’oro e c’era sempre quando avevi bisogno di sostegno, di una conversazione vivace, di una buona risata o di una pinta fredda. I nostri cuori sono con la sua famiglia. Vi chiediamo di tenerlo nei vostri pensieri e di rispettare la privacy in questo momento difficile”.
Secondo la rivista Rolling Stone Andy Fletcher è morto per cause naturali.
Chi era Andy Fletcher
Andrew Fletcher è nato a Nottingham l’8 luglio 1961, ma ben presto, aveva due anni, si trasferisce con la famiglia a Basildon. Fonda i Depeche Mode insieme al tastierista Vince Clarke (inizialmente leader e mente del gruppo) suonando il basso, ma passa presto alle tastiere e ai sintetizzatori, senza mai abbandonare completamente il primo strumento. Poco tempo dopo la fondazione dei Depeche si uniscono alla band Martin Gore Dave Gahan, attuali membri della band.
Sin dall’album ‘Speak and Spell’ (1981), Andrew si è spesso occupato della parte manageriale della band,ed è stato il collante dei Depeche Mode, tenendo unita la band nonostante i periodi cupi che hanno attraversato la band negli anni dei successi di ‘Violator’ (1990) e ‘Songs of Faith and Devotion’ (1993) quando il cantante Dave Gahan tenta il suicidio a causa dell’abuso di droghe e Alan Wilder, altro membro della band, lascia il gruppo a causa della situazione e delle tensioni con Gore e Fletcher. Nel corso degli anni Fletcher ha avuto anche una carriera in ‘solitaria’ come dj. Sposato con la fidanzata di una vita, Gráinne Mullan, Fletcher lascia due figli, Meghan e Joe.
Morto Andy Fletcher, tastierista e fonda. Aveva 60 anni. Morto Andy Fletcher, tastierista e fondatore dei Depeche Mode. La band: “Siamo scioccati”. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2022.
Lutto nel mondo della musica. Andrew Fletcher, tastierista dei Depeche Mode e fondatore, insieme a Martin Gore e David Gahan, della band synth pop britannica, è morto giovedì 26 maggio. Lo ha comunicato lo stesso gruppo sui social. Il musicista aveva 60 anni.
“Siamo scioccati”
“Siamo scioccati e pieni di tristezza per la prematura scomparsa del nostro amico, membro della famiglia e della band Andy ‘Fletch’ Fletcher” si legge sul post pubblicato sui canali social della band. “Fletch aveva un cuore d’oro e c’era sempre quando avevi bisogno di supporto, di una vivace chiacchierata, di una buona risata o una pinta fresca. Il nostro cuore è con la sua famiglia, e vi chiediamo di tenerlo nei vostri pensieri e di rispettare la loro privacy in questo momento così difficile”.
Carriera e vita privata
Nato a Nottingham l’8 luglio 1961, Andrew Fletcher fonda i Depeche Mode insieme al tastierista Vince Clarke- inizialmente leader e mente della band- suonando il basso, per poi passare alle tastiere e ai sintetizzatori, senza mai abbandonare completamente il primo strumento. Poco tempo dopo si uniscono alla band Martin Gore e Dave Gahan. Andrew si è spesso occupato della parte manageriale del gruppo e ha tenuto unita la band nonostante i periodi cupi vissuti negli anni dei successi di ‘Violator’ (1990) e ‘Songs of Faith and Devotion’ (1993), quando il cantante Gahan tenta il suicidio a causa dell’abuso di droghe e Alan Wilder, altro membro della band, abbandona il gruppo a causa di alcune tensioni interne.
Nel corso degli anni Andy Fletcher ha avuto anche una carriera come dj. Sposato con la fidanzata di una vita, Gráinne Mullan, lascia due figli, Meghan e Joe. Nel 2020 è stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame.
Al momento non si conoscono le cause della morte.
· E’ morto l’attore Ray Liotta.
Ray Liotta è morto: fu un «bravo ragazzo» per Martin Scorsese. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 26 maggio 2022.
È morto nel sonno a 67 anni, per ragioni non chiarite, l’attore Ray Liotta, nato il 18 dicembre 1954 nel New Jersey, mentre girava nella Repubblica Domenicana «Dangerous waters». È stato uno dei volti del cinema nero, un nipotino di Scarface, col copyright del ghigno senza pietà. Fu il preferito di Martin Scorsese nel grande «Quei bravi ragazzi» (Goodfellas) con De Niro e Joe Pesci, un trio indimenticabile.
Ebbe una vita difficile dalla nascita: rimasto orfano, adottato a sei mesi, lavorò in un cimitero per pagarsi gli studi di recitazione. Le prime esperienze sono televisive, con «Another world», cui seguono soap e remakes celebri, «Casablanca» e «Tutti insieme appassionatamente». Al cinema sfonderà con un’amara commedia sentimentale di Demme, «Qualcosa di travolgente», con Melanie Griffith, in un ruolo di ex marito psicopatico e violento, l’altra faccia del machismo di Jeff Daniels. Per evitare il ruolo di caratterista «villain» Liotta accetta in «L’uomo dei sogni» il fantasma di un famoso giocatore di baseball. Ma certo è il capolavoro di Scorsese con la sua violenza italo-american che lo rende maschera del cinema dei nuovi gangster che uccidono mentre cucinano il ragù. Uno dei «Goodfellas», il rampante Henry Hill che sgomita nella mafia e in quell’ambiente gira poi anche «I molti santi del New Jersey», prequel della serie capolavoro a lui molto affine dei «Soprano’s», mentre in «Blow» con Depp si avvicina alla droga del clan Escobar.
Accanto a una carriera di cinema che lo trova spesso in azione anche nelle sfumature più nere (come «Hannibal» di Scott, sequel del «Silenzio degli innocenti»), Liotta presta la voce al popolare gioco GTA ma anche ai Muppet, vincendo un Emmy solo quando partecipa alla serie ospedaliera «E.R.». Gli capita perfino di fare il poliziotto in «Abuso di potere» con Kurt Russell, si permette qualche romanticismo in «Una moglie per papà», dove da vedovo s’innamora di Whoopi Goldberg ed appare in «Sin city». Tra i titoli notevoli degli ultimi anni «John Q.» con Denzel Washington, titolo polemico sulla sanità americana, in cui è però un capitano di polizia, e il melò «Come un tuono» accanto a Ryan Gosling, Bradey Cooper, Eva Mendes, ma si permette anche una farsa di grana grossa, «Heartbreakers».
Un attore che ha evitato sempre, avendo naturale predisposizione all’action di specie criminale, di farsi rinchiudere nel carattere senza scrupoli del «villain» pronto a tutto. Ha cercato altri sogni americani come il baseball, che non fossero quelli della malavita organizzata e della mafia, anche se il suo terreno di caccia ideale resta quello dei «Soprano’s», come si nota anche in un film con Travolta on the road ma su roboanti moto, «Svalvolati on the road», un successone solo americano. La carriera sentimentale lo porta alle nozze con Michelle Grace da cui ha la sua unica figlia Karsen; si sarebbe dovuto risposare proprio ora con Jacy Nittolo. Tutto finito.
È morto Ray Liotta, indimenticabile interprete di 'Quei bravi ragazzi". Chiara Ugolini su La Repubblica il 26 Maggio 2022.
Aveva 67 anni. Era sul set di un film ed è deceduto nel sonno. Nella sua carriera una nomination ai Golden Globe e un Emmy
Ray Liotta, il formidabile attore americano la cui carriera ha avuto il momento più alto grazie al classico di Martin Scorsese Quei bravi ragazzi, è morto. L'attore, 67 anni, è deceduto nel sonno nella Repubblica Dominicana, dove stava girando il film Dangerous Waters. Il suo ultimo film uscito al cinema è stato I molti santi del New Jersey di Alan Taylor, prequel cinematografico della saga seriale dei Sopranos. Liotta stava per sposarsi con la sua fidanzata Jacy Nittolo che era lì con lui sul set del film.
Nato a Newark il 18 dicembre 1954, Ray è stato adottato a sei mesi dalla famiglia Vidimarli-Liotta. Cresciuto in una famiglia numerosa si avvicina al cinema grazie all'amico attore Steven Bauer, che all'epoca era sposato a Melanie Griffith e che lo porta sul set di Qualcosa di travolgente, che da quasi debuttante (prima aveva fatto solo una soap opera e un film Donna sola) gli consegna una nomination ai Golden Globe. Dopo una serie di piccoli ruoli ecco il film che cambia la sua carriera, Scorsese gli affida nel film Goodfellas il personaggio dell'italo irlandese Henry che cerca di trovare il suo posto nella mafia americana accanto a Robert De Niro, Paul Sorvino e Joe Pesci che otterrà la nomination all'Oscar. Ha vinto un Emmy per la sua partecipazione alla serie ospedaliera E. R. nel 2005.
Negli anni Novanta è protagonista di una serie di film che mettono in luce il suo talento ma anche il suo aspetto con quegli occhi blu profondi, in quegli anni continua a lavorare con registi come Guy Ritchie (Revolver), Ridley Scott (Hannibal) e Ted Demme (Blow). Negli ultimi anni ha scelto i progetti con molta cura, è stato l'indimenticabile avvocato squalo di Adam Driver in Storia di un matrimonio di Noah Baumbach e la guest star della terza e ultima stagione della serie Hanna. L'attore aveva terminato le riprese di Cocaine Bear, diretto da Elizabeth Banks e avrebbe dovuto recitare in un film al fianco di Demi Moore e Margaret Qualley.
A Hollywood i colleghi stanno inviando messaggi di cordoglio. Jamie Lee Curtis: "Il suo lavoro come attore ha mostrato la sua complessità come essere umano. Un gentiluomo. Una notizia tristissima". Viola Davis: "Riposa in pace. Ho amato il tuo lavoro". Rosanne Arquette: "Sono davvero triste per la notizia che Ray Liotta è morto. È stato un mio amico. Ci siamo fatti un sacco di risate. Riposa in pace amico mio".
Liotta è stato adottato quando aveva solo 6 mesi da Mary e Alfred, figli di immigrati di italiani. Egli è così cresciuto nutrendo in sé un forte rapporto nei confronti del Bel Paese. In seguito, rintracciando i suoi veri genitori, ha scoperto che da parte loro possiede vere origini italiane, come anche scozzesi.
Giorgio Carbone per “Libero quotidiano” il 27 maggio 2022.
L'attore Ray Liotta, uno dei favoriti di Scorsese, che sfiorò l'Oscar 30 anni fa per Quei bravi ragazzi è deceduto nella notte tra martedì a Santo Domingo dove stava girando il film Trouble Waters. Morto nel sonno.
Non risultano motivi per ora per supporre cause non accidentali. Liotta aveva 67 anni ed era ancora in piena attività. In questi giorni circolano sulle varie reti due serie in cui aveva parti primarie: Hannah e Shades of blue accanto a Jennifer Lopez. Buono o cattivo Ray Liotta?
Era difficile capirlo subito a inizio film. Tra film, telefilm - e serie Ray del New Jersey ne girò almeno un centinaio in 40 anni di carriera- in metà almeno militò dalla parte dei "buoni". Ma quella strana faccia (una faccia da bambino, ma attraversata da piccole rughe da efelidi che potevano artigliarla di colpo e tramutarla in minaccia imminente) lo spingeva spesso automaticamente dalla parte sbagliata della barricata.
Liotta a ogni entrata in scena disorientava. Se qualcuno entrava in Shades of blue a telefilm iniziato, faceva fatica a capire se era un piedipiatti marcio o se solo lo sembrava (in effetti marcio non poteva essere se no non avrebbe tolto dai guai la sventata Jennifer un telefilm sì e uno no).
A capire l'ambivalenza di Ray è stato, tra i primi, Martin Scorsese, che nel 1990 gli affida il protagonista in Quei bravi ragazzi (Liotta occupa il film nonostante la presenza di colleghi ingombranti come De Niro e Pesci).
Il suo personaggio è certo ributtante (un gangster mafioso che durante vent' anni di militanza malavitosa non è mai indietreggiato davanti a nessun delitto). Però Ray riesce a percorrere tutto il film con olimpica innocenza. I tratti da bambino aiutano.
In quel mondo di droga e di sangue sembra passare senza sporcarsi. Certo, la cattiveria non poteva non manifestarsi presto o tardi. Io la vidi aleggiare abbastanza presto, di sorpresa e proprio alla prima mondiale dei Bravi ragazzi al Festival di Venezia. Il film , lo sapeva , era l'occasione della vita (e lo era) e siccome era un gran film, lui (e Scorsese) s' aspettavano il successone. Ma il pubblico del Lido lo accolse con qualche fischio. E la giuria dei premi lo ignorò. «Ma che cretini» pensai. Ma Liotta non si limitò a pensarlo. La sua espressione era quella di uno sul punto di mandare la laguna alle fiamme.
Quell'espressione (ma solo cinematografica) Liotta la risfoderò in Cop land (un poliziotto marcissimo), in Abuso di potere (altro sbirro riprovevole, che abusa, appunto dei poteri, per perseguitare il marito della donna per cui ha preso l'attrazione fatale), in Qualcosa di travolgente dove è il gangster marito di Melanie Griffith.
Ambizioso, molto attento alla carriera, s' è provato saltuariamente anche nella commedia per famiglie (Una moglie per papà che strana coppia lui e Whoppi Goldberg). Certo fu molto fiero quando gli chiesero di impersonare il nume tutelare di «tutti gli italiani d'America», Frank Sinatra, nel telefilm The rat pack. Con Sinatra non c'entrava niente né per il fisico né per il temperamento. Però nella scena in cui minaccia Marilyn Monroe di romperle il collo se non lascia stare Kennedy, bé, la sua espressione era temibile come mai riuscì a essere quella di Sinatra.
L'attore sarebbe morto nel sonno. Morto Ray Liotta, l’attore di ‘Quei bravi ragazzi’ scomparso a 67 anni durante le riprese di un film. Redazione su Il Riformista il 26 Maggio 2022.
Il mondo del cinema dice addio a Ray Liotta. L’attore statunitense, 67 anni, è morto mentre si trovava nella Repubblica Dominicana, dove stava girando un film intitolato ‘Dangerous Waters‘.
Secondo una fonte vicina all’attore, citata dal noto sito americano Tmz, Liotta sarebbe morto nel sonno e non ci sarebbero sospetti sulle cause del decesso. Liotta era prossimo alle nozze con Jacy Nittolo, che era con lui durante le riprese sull’isola caraibica.
Liotta è noto al grande pubblico soprattutto per il suo ruolo nel film capolavoro del regista Martin Scorsese, ‘Quei bravi ragazzi’ (‘Goodfellas’), del 1990, in cui l’attore interpretava il mafioso Henry Hill al fianco di Robert De Niro e Joe Pesci.
Il suo ultimo film era stato invece ‘I molti santi del New Jersey’ di Alan Taylor, sequel cinematografico della saga seriale dei Sopranos.
Nato il 18 dicembre 1954 a Newark, Ray era adottato a sei mesi dalla famiglia Vidimarli-Liotta. Si era avvicinato al cinema grazie all’amico attore Steven Bauer, all’epoca sposato con la celebre attrice Melanie Griffith: lavora infatti in soap opera, film tv e musical, fino alla svolta arrivata nel 1986, quando proprio grazie all’attrice ottiene il ruolo di Ray Sinclair in ‘Qualcosa di travolgente‘, dove interpreta il ruolo dell’ex marito psicotico e violento di Lulù, interpretata dalla stessa Griffith.
Per quella interpretazione, l’esordio nel cinema, Liotta viene nominato ai Golden Globe come miglior attore non protagonista. Dopo un esordio ‘da favola’, l’attore però rifiuta offerte per interpretazioni simili per non correre il rischio di diventare un ‘caratterista’, scegliendo ruoli anche minori in commedie e thriller. Quindi nel 1990 la svolta definitiva per la carriera con Scorsese, che lo chiama per interpretare Henry Hill in ‘Quei bravi ragazzi’. Proprio gli anni ’90 saranno il periodo di maggiore fama, in cui Liotta diventa anche un sex symbol.
Liotta negli ultimi anni stava vivendo però un momento di rinascita professionale. Gli ultimi suoi impegni cinematografici includono ‘I molti santi del New Jersey‘, ‘Storia di un matrimonio‘, per il quale ha ricevuto un Indie Spirit Award, e ‘No Sudden Move‘. Aveva finito di girare ‘Cocaine Bear‘, diretto da Elizabeth Banks, e avrebbe dovuto recitare nel film dal titolo provvisorio ‘The Substance‘ al fianco di Demi Moore e Margaret Qualley.
Quanto alla vita privata, nel 1997 sposa la produttrice Michelle Grace e nel dicembre del 1998 nasce la loro figlia Karsen, fino al divorzio nel 2004. Dal 2007 al 2011 ha avuto una relazione con l’attrice Catherine Hickland, mentre al momento della scomparsa era fidanzato con Jacy Nittolo ed era prossimo alle nozze.
· E’ morto il cardinale Angelo Sodano.
(ANSA il 28 maggio 2022) - E' morto a Roma, all'età di 94 anni, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito e decano emerito del Collegio cardinalizio. Lo apprende l'ANSA. Negli ultimi giorni le condizioni di salute dell'anziano cardinale, nato a Isola d'Asti il 23 novembre 1927, si erano aggravate dopo un recente contagio da Covid19.
La malattia si è aggiunta ad altre patologie di cui soffriva da tempo il celebre porporato, che era ricoverato alla clinica romana Columbus. Segretario di stato con due Papi, nominato nel 1991 da Giovanni Paolo II, il 15 settembre 2006 Benedetto XVI aveva accettato le sue dimissioni dalla carica. Il 21 dicembre 2019 papa Francesco aveva invece accettato la rinuncia da quella di Decano del Collegio Cardinalizio.
Angelo Sodano, morto a 94 anni il cardinale segretario di Stato emerito. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 28 Maggio 2022.
Di recente era stato contagiato dal Covid: la malattia si è aggiunta ad altre patologie di cui Sodano soffriva da tempo.
È morto a Roma, all’età di 94 anni, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito e decano emerito del Collegio cardinalizio. Negli ultimi giorni le condizioni di salute dell’anziano cardinale, nato a Isola d’Asti il 23 novembre 1927, si erano aggravate dopo un recente contagio da Covid 19. La malattia si è aggiunta ad altre patologie di cui Sodano — che era ricoverato alla clinica romana Columbus dal 9 maggio per una polmonite causata dal virus — soffriva da tempo.
La carica di Segretario di Stato
Segretario di Stato con due Pap (la carica che nella Chiesa cattolica viene subito dopo quella del Papa) nominato nel 1991 da Giovanni Paolo II e confermato nel 2005 insieme agli altri capi dicastero della curia decaduti alla morte del pontefice, il 15 settembre 2006 Benedetto XVI aveva accettato le sue dimissioni dalla carica. Il 21 dicembre 2019 papa Francesco aveva invece accettato la rinuncia da quella di Decano del Collegio cardinalizio.
La vita
Sodano nasce, secondo di sei figli, in una famiglia rurale piemontese, da Giovanni e Delfina. Il padre fu deputato del Parlamento italiano per tre legislature, dal 1948 al 1963. Della sua infanzia in una famiglia profondamente cattolica ha raccontato: ««Fra i ricordi della mia infanzia, mi rimane sempre impressa la scena di mio padre e di mia madre, che dalle finestre di casa, in qualche tormentata sera d’estate, assistevano a improvvise grandinate che in breve tempo distruggevano il raccolto, frutto di tanti sudori e sacrifici. In quei momenti di sgomento papà e mamma pregavano e, di fronte ai disastri creati dalla tempesta, esclamavano come il profeta Giobbe: “Dio ha dato, Dio ha tolto. Sia benedetta in tutto la volontà di Dio”». Da ragazzo il Cardinale studiò filosofia e teologia prima nel seminario vescovile di Asti e poi a Roma, nella Pontificia università Gregoriana e nella Lateranense. La sua ordinazione sacerdotale, nella cattedrale di Asti, risale al 23 settembre 1950. Qualche anno più tardi, era il 1959, venne chiamato dal cardinale Angelo dell’Acqua al servizio della Santa Sede per poi essere destinato alle nunziature apostoliche in Ecuador, Uruguay e Cile. Nel 1968 tornò a Roma dove nel Consiglio per gli Affari pubblici della Chiesa ma nel 1977 venne nominato nunzio apostolico in Cile, Paese in cui restò per dieci anni.Sebbene chiacchierato per i suoi rapporti diplomatici col dittatore Pinochet, grazie alla sua mediazione riuscì a scongiurare la guerra fra Argentina e Cile per una controversia territoriale. Nel 1988 Giovanni Paolo II lo chiamò a sostituire il cardinale Achille Silvestrini e nel 1989 Sodano diventò Segretario per i rapporti con gli Stati.
Sodano divenne Segretario di Stato il 29 giugno 1991 e nel 2005 partecipò al conclave che elesse Benedetto XVI, che il 30 aprile 2005 lo riconfermò Segretario di Stato e approvò la sua elezione a decano del collegio cardinalizio, incarico ricoperto fino a quel momento proprio dallo stesso cardinale Joseph Ratzinger. Ma solo pochi mesi più tardi il Papa dovette accettare le sue dimissioni. Al suo posto arriverà il cardinale Tarcisio Bertone. Nel 2019 arrivano anche la rinuncia dall’incarico di decano del collegio cardinalizio. Ma quando compì 90 anni, nel 2017, Papa Francesco nel suo messaggio di auguri scrisse: «La sua è la testimonianza di un uomo che ha fatto tanto per la Chiesa, in situazioni diverse, con gioia e con lacrime, ma la testimonianza più grande è quella di un uomo ecclesialmente disciplinato».
Morto il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito. Paolo Rodari su La Repubblica il 28 Maggio 2022.
Aveva 94 anni, Segretario di Stato con due papi, nominato nel 1991 da Giovanni Paolo II, il 15 settembre 2006 Benedetto XVI aveva accettato le sue dimissioni dalla carica.
E' morto a Roma, all'età di 94 anni, il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito e decano emerito del Collegio cardinalizio.
Negli ultimi giorni le condizioni di salute dell'anziano cardinale, nato a Isola d'Asti il 23 novembre 1927, si erano aggravate dopo un recente contagio da Covid19. La malattia si è aggiunta ad altre patologie di cui soffriva da tempo il celebre porporato, che era ricoverato alla clinica romana Columbus.
Segretario di stato con due Papi, nominato nel 1991 da Giovanni Paolo II, il 15 settembre 2006 Benedetto XVI aveva accettato le sue dimissioni dalla carica. Il 21 dicembre 2019 papa Francesco aveva invece accettato la rinuncia da quella di Decano del Collegio Cardinalizio.
Sodano ha tenuto in piedi per buona parte del pontificato wojtyliano le sorti della diplomazia pontificia. È stato lui a trattare con i capi del mondo per favorire la pace in più conflitti. Prima dell’incarico a capo della segreteria di Stato ha ricoperto il ruolo di nunzio in più Paesi. Nel 1977 è stato nunzio in Cile. Il Paese allora era sotto la dittatura di Augusto Pinochet. Sodano nel 1987 riuscì a portarvi Giovanni Paolo II. Il viaggio rimase storico per vari motivi, fra questi anche per lo stratagemma adottato dal dittatore cileno che riuscì a farsi fotografare al balcone a fianco del Pontefice senza che quest’ultimo volesse.
Dopo il Cile è tornato a Roma con incarichi in segreteria di Stato. Ha accompagnato Wojtyla in 54 viaggi internazionali. E’ rimasto in carica anche per un anno dopo l’elezione di Benedetto XVI. È rimasto per diversi anni ancora decano del collegio cardinalizio, un incarico poco più che onorifico ma comunque prestigioso.
La stagione di Sodano in curia romana è stata caratterizzata anche da alcuni battibecchi. Nel 2010 fu l'arcivescovo di Vienna Schönborn a dirgli di aver offeso le vittime degli abusi sessuali, definendo gli abusi «un chiacchiericcio». Il porporato accusò Sodano di aver insabbiato a suo tempo l'inchiesta sui crimini compiuti dall'allora capo della diocesi viennese, Hans Hermann Groër.
Sodano, per Giovanni Paolo II, fu un uomo d'ordine. Chiuse la conduzione della Segreteria di stato cercando di avvisare Ratzinger della crisi che avrebbero potuto aprire col mondo islamico la citazione a Ratisbona di un passo di Manuele II Paleologo. Non venne ascoltato. Fu in quel momento che iniziò la conduzione di Bertone nella stessa Segreteria, una nuova epoca anch'essa contraddistinta da luci e ombre insieme.
Covid, morto il cardinale Angelo Sodano: contagiato, poi tutto è precipitato. Libero Quotidiano il 28 maggio 2022.
E' morto a 94 anni il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito e decano emerito del Collegio cardinalizio. Era nato il 23 novembre 1927 ad Isola d'Asti, in Piemonte. Il cardinale era stato contagiato di recente dal Covid e le sue condizioni si erano aggravate: si è spento in una clinica romana dove era stato ricoverato. Dal 15 settembre 2006 Sodano era stato segretario di Stato emerito di Papa Benedetto XVI e dal 21 dicembre 2019 decano emerito del Collegio cardinalizio. Era stato nominato arcivescovo nel 1977 da Paolo VI e creato cardinale il 28 giugno 1991 da Giovanni Paolo II. Aveva ricevuto l'ordinazione sacerdotale nel settembre del 1950.
Il sito Vatican News di Andrea Tornelli ne ripercorre i momenti salienti di una carriera lunghissima, sempre in ruoli di grande prestigio e potere. Due i pontefici a cui ha legato significativamente la sua opera, Wojtyla e Ratzinger. "Il porporato ha ricoperto l’incarico di Segretario di Stato vaticano dal 1991 al 2006 ed è stato dal 2005 al 2019 decano del Collegio Cardinalizio. Secondo di sei figli, i suoi genitori Giovanni e Delfina Sodano appartenevano a una famiglia rurale piemontese, che ha dato notevole contributo alla vita della Chiesa e dello Stato. Suo padre fu anche deputato al Parlamento italiano dal 1948 al 1963, per tre legislature".
Dopo gli studi filosofici e teologici nel seminario vescovile di Asti, si laurea a Roma in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in diritto canonico presso la Pontificia Università Lateranense. "Partecipa al conclave che nel 2005 elegge Benedetto XVI, il quale, appena salito al soglio pontificio, il 30 aprile 2005 lo riconferma Segretario di Stato e approva la sua elezione a decano del collegio cardinalizio, incarico ricoperto fino a quel momento dallo stesso cardinale Joseph Ratzinger. Pochi mesi più tardi il Papa accetta le sue dimissioni dall’incarico di Segretario di Stato. Gli succederà il cardinale Tarcisio Bertone".
Vaticano: morto il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito. Il Quotidiano del Sud il 28 Maggio 2022.
È morto sabato sera a Roma il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato emerito e decano emerito del Collegio cardinalizio. Aveva 94 anni. La sera del 9 maggio era stato ricoverato per polmonite al Columbus Hospital-Gemelli dopo essere risultato positivo al Covid.
Sodano, segretario di Stato dal 1991 al 2006 con Giovanni Paolo II e Benedetto XVI e decano del Collegio cardinalizio dal 2005 al 2019, era nato il 23 novembre 1927 a Isola d’Asti, in Piemonte. Il padre è stato deputato dal 1948 al 1963, per tre legislature. Ha compiuto gli studi filosofici e teologici nel seminario vescovile di Asti, ma è a Roma che consegue la doppia laurea, in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana e in diritto canonico presso la Pontificia Università Lateranense.
Il 23 settembre 1950 viene ordinato sacerdote, nella cattedrale di Asti, e nel 1959 viene chiamato dal cardinale Angelo dell’Acqua, all’epoca sostituto della segreteria di Stato, al servizio della Santa Sede. Frequenta i corsi della Pontificia Accademia Ecclesiastica, quindi viene destinato alle nunziature apostoliche in Ecuador, Uruguay e Cile, quale segretario di nunziatura. Nel 1968 torna a Roma, dove per un decennio presta servizio presso il Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa.
Il 30 novembre 1977 Paolo VI lo nomina arcivescovo titolare di Nova di Cesare e nunzio apostolico in Cile e il 15 gennaio 1978 riceve l’ordinazione episcopale. Nel paese latinoamericano lavora per dieci anni. Giovanni Paolo II nel 1988 lo chiama a sostituire il cardinale Achille Silvestini nell’ufficio di segretario dell’allora Consiglio per gli affari pubblici della Chiesa.
Un anno più tardi, Sodano assume il titolo di segretario per i rapporti con gli Stati. Nel dicembre 1990 assume l’ufficio di pro-segretario di Stato divenendo segretario di Stato il 29 giugno 1991, un giorno dopo essere stato creato cardinale. Nel 2002 è eletto vice-decano del collegio cardinalizio.
Partecipa al conclave che nel 2005 elegge Benedetto XVI, il quale, appena diventato Papa, il 30 aprile 2005 lo riconferma segretario di Stato e approva la sua elezione a decano del collegio cardinalizio, incarico ricoperto fino a quel momento dallo stesso cardinale Joseph Ratzinger.
Pochi mesi più tardi il Papa accetta le sue dimissioni dall’incarico di segretario di Stato, gli succede il cardinale Tarcisio Bertone. Nel 2019 Papa Francesco accoglie la rinuncia di Sodano dall’incarico di decano del Collegio cardinalizio. Con il decesso di Sodano, il Collegio cardinalizio risulta composto di 208 cardinali, di cui 117 elettori e 91 non elettori.
· E’ morto l’attore Bo Hopkins.
Morto Bo Hopkins, il "cattivo" di Hollywood. Francesca Galici su Il Giornale il 29 Maggio 2022.
A 84 anni è morto Bo Hopkins, grande nome del cinema americano diventato famoso per il suo peculiare sguardo impenetrabile e feroce. Questa sua caratteristica gli è valsa principalmente l'interpretazione di ruoli "cattivi" nel cinema, com'è accaduto con Il mucchio selvaggio, Getaway!, American Graffiti, McKlusky, metà uomo metà odio e Fuga di mezzanotte. Non sono note le sue condizioni di salute pregresse ma, nell'annunciarne la scomparsa, la seconda moglie Sian Eleanor Green, sposata nel 1989, ha spiegato a The Hollywood Reporter che il marito era stato ricoverato dopo un attacco di cuore lo scorso 9 maggio.
Hopkins è stato uno degli attori preferiti dal regista Sam Peckinpah, che lo scritturò in tre dei suoi film di maggior successo. Interpretò il ruolo di Clarence Crazy Lee ne Il mucchio selvaggio nel 1969, quello di un rapinatore di banche doppiogiochista in Getaway nel 1972 e divenne un esperto di armi in Killer elite, film del 1975. La sua vera consacrazione, però, è arrivata con un film di George Lucas, che nel 1973 lo scelse per American Graffiti, dove gli affidò la parte di Joe Young, il capo della gang di greaser The Pharaohs. È proprio questo ruolo che ha fatto di Bo Hopkins un cattivo di prim'ordine nel panorama degli attori di Hollywood.
Nacque a Greenville, nel North Carolina e a 16 anni partì per il servizio militare, al termine del quale decise di dedicarsi alla recitazione. Molti dei suoi ruoli non sono stati da protagonista nei film in cui ha recitato ma l'intensità che ha regalato a quei personaggi l'ha fatto diventare uno dei cattivi più amati di sempre. Nella sua lunghissima carriera, Bo Hopkins ha intrapreso anche la strada televisiva, recitando in alcuni telefilm di grande successo in America e nel mondo come Bonanza, Charliès Angels, Dynasty e La signora in giallo. Da qualche tempo era sparito dagli schermi ma tra le sue ultime interpretazioni si ricordano in particolare il thriller U Turn - Inversione di marcia, diretto da Oliver Stone nel 1997, ed Elegia Americana del 2020 di Ron Howard.