Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

 

 

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

LA SOCIETA’

SECONDA PARTE

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

LA SOCIETA’

INDICE PRIMA PARTE

 

AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.

Le profezie per il 2022.

I festeggiamenti di capodanno.

Il palindromo.

Il Primo Maggio.

Il Ferragosto.

73 anni dalla tragedia di Superga.

65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.

60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.

52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.

51 anni dalla morte di Louis Armstrong.

50 anni dalla morte di Dino Buzzati.

49 anni dalla morte di Bruce Lee.

49 anni dalla morte di Anna Magnani.

45 anni dalla morte di Elvis Presley.

43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.

42 anni dalla morte di Steve McQueen.

40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.

40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.

40 anni dalla morte di Marty Feldman.

40 anni dalla morte di John Belushi.

40 anni dalla morte di Beppe Viola.

37 anni dalla morte di Francesca Bertini.

34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.

33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.

33 anni dalla morte di Olga Villi.

32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.

31 anni dalla morte di Miles Davis.

30 anni dalla morte di Marisa Mell.

29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.

28 anni dalla morte di Moana Pozzi.

28 anni dalla morte di Kurt Cobain.

28 anni dalla morte di Massimo Troisi.

27 anni dalla morte di Mia Martini.

25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.

25 anni dalla morte di Gianni Versace.

25 anni dalla morte di Ivan Graziani.

24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.

24 anni dalla morte di Frank Sinatra.

23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.

22 anni dalla morte di Antonio Russo.

22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.

20 anni dalla morte di Layne Staley.

20 anni dalla morte di Alex Baroni.

20 anni dalla morte di Umberto Bindi.

20 anni dalla morte di Carmelo Bene.

19 anni dalla morte di Alberto Sordi.

19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.

18 anni dalla morte di Ray Charles.

16 anni dalla morte di Alida Valli.

15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.

15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.

14 anni dalla morte di Paul Newman.

14 anni dalla morte di Dino Risi.

13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.

12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.

11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor. 

10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.

10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.

10 anni dalla morte di Whitney Houston.

10 anni dalla morte di Lucio Dalla.

10 anni dalla morte di Piermario Morosini.

10 anni dalla morte di Renato Nicolini.

10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.

10 anni dalla morte di Gore Vidal.

9 anni dalla morte di Pietro Mennea.

9 anni dalla morte di Virna Lisi.

9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.

8 anni dalla morte di Robin Williams.

7 anni dalla morte di Pino Daniele.

7 anni dalla morte di Francesco Rosi.

6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.

6 anni dalla morte di Lou Reed.

6 anni dalla morte di George Michael.

6 anni dalla morte di Prince.

6 anni dalla morte di David Bowie.

6 anni dalla morte di Bud Spencer.

6 anni dalla morte di Marta Marzotto.

5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.

5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.

4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.

4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.

4 anni dalla morte di Luigi Necco.

3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.

3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.

3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.

3 anni dalla morte di Nadia Toffa.

3 anni dalla morte di Antonello Falqui.

2 anni dalla morte di Ennio Morricone.

2 anni dalla morte di Diego Maradona.

2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.

2 anni dalla morte di Gigi Proietti.

2 anni dalla morte di Ezio Bosso.

2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.

2 anni dalla morte di Kobe Bryant.

1 anno dalla morte di Lina Wertmüller. 

1 anno dalla morte di Max Mosley.

1 anno dalla morte di Gino Strada.

1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.

1 anno dalla morte di Ennio Doris.

1 anno dalla morte di Paolo Isotta.

1 anno dalla morte di Franco Battiato.

I Beatles.

Duran Duran.

I Nirvana.

Gli ABBA.

I Queen.

Emerson Lake & Palmer.

I Simpson.

Il Maggiolino.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)

L’Avvocato…

Quelli che se ne vanno…

John Elkann.

Lapo Elkann.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

Vivi per sempre.

Le morti del Cazzo…

L’Eutanasia. 

Il Necrologio.

L’Eredità.

10 buone notizie del 2022.

I Momenti "storici" del 2022.

Lo Stupidario 2022.

I Personaggi del 2022.

Le Donne del 2022.

Le Coppie unite e scoppiate del “2022.

Gli scontri tv del 2022.

Le Canzoni del 2022.

Gli addii del 2022.

Un anno di calcio.

I fatti del 2022.

Chi sono i peggiori dell'anno?

E’ morta l’intervistatrice tv Barbara Walters.

E’ morto l’arbitro Robert Anthony Boggi.

È morto il musicologo Guido Zaccagnini.

Si è spento il discografico Elio Cipressi.

E’ morto il fotografo Tony Vaccaro.

È morto il musicista Alessandro Speranza.

E’ morto Pelè.

Addio alla stilista Vivienne Westwood. 

È morto il batterista Giovanni Pezzoli. 

E’ morto il regista Ruggero Deodato.

È morto l’ archistar Arata Isozaki. 

È morto il giornalista Carlo Fuscagni.

E’ morto lo scrittore e critico letterario Cesare Cavalleri.

E’ morto il direttore di fotografia Blasco Giurato.

E’ morto l’imprenditore Gabriele Piemonti.

E’ morta la corista Claudia Arvati.

È morto il cantante Maxi Jazz.

Morto l'attore britannico Ronan Vibert.

È morto il politico Nicola Signorello.  

E' morto il giornalista Claudio Donat-Cattin.

Morto il ciclista Vittorio Adorni.

Morto l’ex ministro Franco Frattini. 

E’ morto il musicista Mauro Sabbione.

E’ morto lo speaker radiofonico Ivo Caliendo.

E’ morto il giornalista Alessio Viola.

È morto il cantante Terry Hall.

E’ morto il regista Mike Hodges.

È morto lo storico Asor Rosa.

E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.

E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.

E’ morta la cantante Terry Hall.

E’ morto il produttore Alex Ponti.

Addio all’attore Lando Buzzanca.

E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.

È morto il fotografo Carlo Riccardi.

È morto il compositore Angelo Badalamenti.

È morto il cantante Ichiro Mizuki.  

È morto Romero Salgari.

E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.

Morto l’attore Gary Friedkin.

E’ morta l’attrice Kirstie Alley.

Morto lo scrittore Dominique Lapierre.

E’ morto il pilota Patrick Tambay.

E’ morto il sarto Cesare Attolini.

E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.

E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.

E’ morto l’attore Brad William Henke.

E’ morto l’attore Frank Vallelonga.

È morto il politico Gerardo Bianco.

È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.

È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.

E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.

E’ morta la cantante e attrice Irene Cara. 

Addio allo stilista Renato Balestra.

Addio al sarto Cesare Attolini.

Morto l’attore Mickey Kuhn.

È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.

E’ morto il cantautore Pablo Milanés.

E’ morta l’attrice Nicki Aycox.

Morto il filosofo Fulvio Papi.

E’ morto il regista Jean-Marie Straub.

E' morto il giornalista Gianni Bisiach.

E’ morto il cantante anni Nico Fidenco. 

E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.

E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.

E’ morta la scienziata Alma Dal Co.

Addio all’industriale Vallarino Gancia.

È morto il musicista Keith Leven.

Morto il manager Luca Panerai.

E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.

E’ morta la musicista Mimi Parker.

È morto il musicista Carmelo La Bionda.

È morto il musicista Aaron Carter.

E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.

E’ morto il batterista Marino Rebeschini.

Morto il manager Franco Tatò.

Morto il manager Mauro Forghieri.

È morta la scrittrice Julie Powell.

È morto lo stuntman Holer Togni.

È morto il senatore Domenico Contestabile.

E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.

E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.

E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.

Morto il critico Marco Vallora.

Addio al critico Franco Fayenz.

E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.

E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.

Addio all’attore Ron Masak.

E’ morto il cantante Franco Gatti.

E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.

È morta la cantante Christina Moser.

E' morto l'attore Robbie Coltrane.

E’ morta Jessica Fletcher.

E’ morto il filosofo Bruno Latour.

E’ morta la cantante Jody Miller.

E’ morta la stilista Franca Fendi.

E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.

E’ morto l’industriale Armando Cimolai

E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz. 

Morto lo storico Paul Veyne. 

E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.

Morto il regista Franco Dragone.

E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.

Morto lo scrittore Jim Nisbet.

È morto il rapper Coolio.

Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.

Morto il comico Bruno Arena.

E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.

E’ morta l’attrice Anna Gael.

E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.

E’ morta l’attrice Kitten Natividad.

È morta la scrittrice Hilary Mantel.

È morta l’attrice Louise Fletcher.

E’ morto il tronista Manuel Vallicella.

E’ morto l’attore Henry Silva.

È morto il playboy Beppe Piroddi.

Morto l’attore Jack Ging.

È morta l’attrice Irene Papas.

E’ morto l’industriale Andrea Riello.

E’ morto il regista Jean-Luc Godard.

Morto il regista Alain Tanner. 

Addio al giornalista Piero Pirovano.

E' morto il fotografo William Klein.

È morto lo scrittore Javier Marias.

E’ morto il giornalista Roberto Renga.

Morto il latinista Franco Serpa.

E’ morto l’attore Claudio Gaetani.

È morto il regista Just Jaeckin.

Morta la poetessa Mariella Mehr.

Morto lo scrittore Oddone Camerana. 

E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.

Addio al radioastronomo Frank Drake. 

E’ morto il cantante Drummie Zeb.

E’ morto il pittore Gennaro Picinni.

È morta l’attrice Charlbi Dean.

È morto Camilo Guevara.

E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.

Morto il giornalista Giulio Giustiniani.

L’addio al politico Mauro Petriccione. 

E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.

Morta l’attrice Paola Cerimele.

E' morto il fotografo Tim Page.

Morta la scienziata Laura Perini.

È morto l’attore Enzo Garinei.

Addio al magistrato Domenico Carcano.

E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey. 

E’ morto il comico Gino Cogliandro.

È morto il comico Vito Guerra.

È morta la comica Anna Rita Luceri.

È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.

E’ morta la stilista Hanae Mori.

È morto il regista Wolfgang Petersen.

E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.

È morto lo scrittore Nicholas Evans.

E’ morta l’attrice Robyn Griggs.

E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro. 

Addio all’attrice Denise Dowse.

E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.

E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.

E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.

E’ morta l’attrice Anne Heche.

E’ morto il calciatore Claudio Garella.

È morto lo stilista Issey Miyake.

È morto l’attore Roger E. Mosley. 

E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.

E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.

Morto l’attore Alessandro De Santis.

E’ morto l’attore John Steiner.

È morta l’attrice Nichelle Nichols.

E’ morto il giornalista Omar Monestier.

E’ morto l’attore Antonio Casagrande.

E’ morto il cestista Bill Russell.

Morto l’attore Roberto Nobile.

Morto il pittore Enrico Della Torre. 

E’ morta la sciatrice Celina Seghi.

E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.

E’ morto lo scienziato James Lovelock.

E’ morto lo scrittore Pietro Citati.

E’ morto l’attore David Warner.

È morto l’attore Paul Sorvino.

Morto il regista Bob Rafelson.

E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.

E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.

È morto il linguista Luca Serianni.

È morta la cantante Shonka Dukureh.

È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.

E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.

 

INDICE TERZA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morta Ivana Trump.

È morto il giornalista Eugenio Scalfari.

E’ morto il mago Tony Binarelli.

Addio il giornalista Amedeo Ricucci.

E’ morto il compositore Monty Norman.

E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.

E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.

E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.

E’ morto l’attore Tony Sirico.  

E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.

È morto l’attore James Caan.

E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.

E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.

E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.

È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.

E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.

E’ morto il regista Peter Brook.

E' morta la cantante Irene Fargo.

E’ morto l’attore Joe Turkel. 

E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.

E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.

E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.

E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.

E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.

E’ morto il musicista James Rado.

E' morto l'architetto Jordi Bonet.

E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.

È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.

E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.

E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.

È morto l’attore Philip Baker Hall.

È morto il produttore musicale Piero Sugar.

E’ morta la cantante Julee Cruise.

E’ morta la pittrice Paula Rego.

E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.

E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.

Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.

E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.

È morto il bassista Alec John Such.

È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund

E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata. 

E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.

Morto lo scrittore Joseph Zoderer. 

Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.

Addio all’attore Franco Ravera.

Morto il partigiano Carlo Smuraglia.

Morto il conte Manfredi della Gherardesca.

E’ morto il fantino Lester Piggott.

E’ morto l’attore Marino Masé.

E’ morto lo scrittore Boris Pahor.

E’ morto il musicista Alan White. 

È morto l'attore John Zderko.

E’ morto il musicista Andrew Fletcher.

E’ morto l’attore Ray Liotta.

E’ morto il cardinale Angelo Sodano.

E’ morto l’attore Bo Hopkins.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

È morto Ciriaco De Mita.

E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.

E’ morto il taverniere Guido Lembo.  

Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.

E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.

E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.

È morto l’attore Fred Ward.

E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.

E’ morto il musicista Richard Benson.

E’ morto l’attore Mike Hagerty.

E’ morto l’attore Enzo Robutti.

È morto l’attore Lino Capolicchio.

È morto il fotografo Ron Galella.

Addio alla cantante Naomi Judd. 

Addio all’attrice Jossara Jinaro.

È morto il procuratore Mino Raiola.

E' morto il politologo Percy Allum.

Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.

E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.

E’ morto l’industriale Antonio Molinari.

È morto il cantante Marco Occhetti.

Morto Paolo Mauri.

È morto l’attore Jacques Perrin.

È morta l'attrice Ludovica Bargellini.

È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.

È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.

E’ morta l’attrice Catherine Spaak. 

E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.

E’ morta la giornalista Giusi Ferré.

È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi. 

E’ morto il calciatore Freddy Rincon.

E’ morto l’attore Michel Bouquet.

E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.

È morto l’attore Gilbert Gottfried.

E’ la storica Morta Chiara Frugoni.

E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.

E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.

E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.

E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.

E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.

E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.

È morto Tom Parker.

Addio al giornalista Franco Venturini.

È morto l’attore Lars Bloch.

E’ morto l’attore Gianni Cavina.

E’ morto il batterista Taylor Hawkins.

Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.

E' morto il giornalista Sergio Canciani.

E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.

Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.

Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.

E' morto l’attore William Hurt.

E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.

Addio al giornalista Stefano Vespa. 

E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.

E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.

E’ morto Antonio Martino.

Morto l’attore John Stahl.

E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.

E’ morto il cantante Gary Brooker. 

Addio al cantante Mark Lanegan.

E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.

E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli. 

E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.

E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.

E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.

Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.

Morto il pugile Bepi Ros.

Addio al cantante Fausto Cigliano.

Morto il cantante Amedeo Grisi. 

E’ morto il doppiatore Tony Fuochi. 

E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman. 

E’ morto l’artista John Wesley.  

E’ morto il musicista Ian McDonald.

Addio a Betty Davis, la regina del Funk.

E’ morta Donatella Raffai.

E’ morto l’attore Bob Saget.

E’ morto Luc Montagnier.

E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.

Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.

Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema. 

Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".

E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.

E’ morta Monica Vitti.

È morto l’attore Paolo Graziosi.

E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini. 

E' morto Tito Stagno.

E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.

E' morto l’attore Renato Cecchetto.

Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.

È morto il faccendiere Flavio Carboni.

E’ morto lo stilista Thierry Mugler. 

E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.

Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.

Addio al giornalista Sergio Lepri.

E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri. 

E’ morto il cantante Meat Loaf.

E’ morto l’attore Hardy Kruger.

E’ morto l’attore Camillo Milli.

E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.

E’ morta  l’attrice Yvette Mimieux.

E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.

E’ morto lo stilista Nino Cerruti.

E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.

E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.

È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.

E’ morta Silvia Tortora.

E’ morta Margherita di Savoia.

Addio all’attore comico Bob Saget.

E’ morto Michael Lang.

E’ morto l’attore Mark Forest.

E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.

E’ morto il regista Mariano Laurenti.

E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.

E’ morto l’attore Sidney Poitier.

E’ morto il regista Peter Bogdanovich.

E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.

È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.

È morto il giornalista Fulvio Damiani.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le stirpi reali.

Gli scandali dei Windsor.

Vittoria.

Elisabetta.

La morte della Regina.

Filippo.

Carlo.

Camilla.

Andrea.

Anna.

Diana.

William e Kate.

Harry e Meghan.

 

 

 

 

LA SOCIETA’

SECONDA PARTE

 

I MORTI FAMOSI.

·         Vivi per sempre.

L’enigma della mummia rimasta inalterata: in Ecuador si infittisce il mistero su Lázaro de Santofimia. La Repubblica il 17 Dicembre 2022.

Dopo una recente analisi dell'indumenti è stata messo in dubbio l'identità della mummia di Guano, una delle più famose dell'Ecuador. Gli studi hanno fatto vacillare la convinzione che appartenesse al frate spagnolo Lázaro de Santofimia. "Non sappiamo chi sia", confessano ora gli esperti. Alta 156 centimetri, la mummia fu ritrovata nel 1949 tra i detriti di un terremoto e, per il suo stato naturale di mummificazione, divenne il primo cadavere del suo genere. Si credeva che la mummia appartenesse al frate che dalla metà del XVI secolo era custode della chiesa e dell'antico convento de La Asunción, situato nel comune di Guano, uno dei più storici della provincia andina di Chimborazo, che si trova nel centro dell'Ecuador. La datazione al carbonio 14 - che ha dato un range tra il 1735 e il 1802 - e lo studio del tipo di indumenti, fanno pensare che la persona sia vissuta "in un periodo in cui era presente un'industria tessile."  Gli abiti che indossa possono essere di una persona del clero, che viveva in quel periodo, ma non necessariamente di Lázaro", che visse nel 1600. Potrebbe non essere mai noto chi sia la mummia, afferma l'Università di Cranfield. L'analisi del DNA indica una discendenza mista. Per questo motivo ipotizzano che "fosse una persona meticcia con origini più europee che indigene, ma meticcia", per cui ritengono che "molto probabilmente non sia Lázaro".

Insegna agli angeli a scrivere. La tragica scomparsa della morte nel lessico del lutto contemporaneo. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022

“Si è spento”, “Non c’è più”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”. Sono orrendi gli esempi di questa enclave linguistica composta di frasi fatte usate unicamente in tristi occasioni

“L’è el dì di mort, alegher!”. Ci siamo quasi: e allora proviamo a “rallegrarci” – sia pure non come il popolino catturato nei versi di Delio Tessa per le strade di Milano, mentre a Caporetto il fronte aveva appena ceduto. Ci proviamo con le parole del lutto, quelle a cui si ricorre per annunciare, partecipare, condividere in pubblico e in privato, che sono in genere formule rituali, stereotipate, qualche volte anche ridicole.

Prendiamo il caso in cui muore un personaggio di buona – non eccelsa (per i big va diversamente) – notorietà, per esempio un artista. Sul giornale si leggerà un articolo un po’ frettoloso che attacca così: “Con Pinco Pallo se ne va…” – e qui può variare: “l’ultimo rappresentante/uno degli ultimi rappresentanti”, oppure “l’artista che…”. All’istante nella vostra mente si disegneranno due figure in dissolvenza, Pinco Pallo che si avvia (magari “in punta di piedi”) con l’ultimo rappresentante, o uno degli ultimi, oppure con “l’artista che”. Certo è un gran passo quello che lo attende, meglio farsi accompagnare. Per qualche oscuro motivo questa formula funziona meno sul mezzo radiotelevisivo. Qui è un’altra l’immagine che vi assale, un’immagine corale monodicamente compatta: “Lutto nel mondo dell’arte”; alternativa più accorata: “Il mondo dell’arte piange…” – e così ve li vedete tutti lì a versare calde lacrime per Pinco Pallo, e vi sentite anche un po’ in colpa perché in questa mondiale commozione il vostro ciglio resta cinicamente asciutto, e magari siete a tavola davanti al televisore e state ingollando l’ultimo boccone.

Se invece l’esordio è “Si è spento…”, in genere segue “… all’età di…”, perché questa è la formula di rito quando il de cuius è molto avanti negli anni, oppure da tempo gravemente e notoriamente infermo (in questo caso l’indicazione dell’età è sostituita o integrata da quella del luogo: “nella sua casa di…”, nell’ospedale di…”), e quindi la sua pur triste dipartita non è presentata come un evento per cui dare la stura alle ghiandole lacrimali, ma come qualche cosa di ineluttabile, da accettare con serena consapevolezza e composta rassegnazione. Mentre “non ce l’ha fatta” – spesso preceduto da un prolungato “eee…” metà congiunzione e metà sospiro – è il rassegnato sbrigativo cliché che precede il nome (proprio se per qualche ragione già noto, altrimenti comune: il ragazzo, la donna, l’operaio…) della vittima di un incidente, o di un malore improvviso, di cui si era data notizia in precedenza.

Quando invece il personaggio che diparte è davvero un personaggione, non c’è una regola fissa, si va a istinto, caso per caso, a seconda di chi si tratta, dell’età, delle circostanze e delle modalità della dipartita. Meno svolazzi formulari, in genere, perché la statura del personaggio non ne richiede, meno ammantamenti retorici e prevalenza di “addio a…” oppure si va dritti al sodo, “è morto/a”, tuttalpiù con variante perifrastico-ontologica: quando il 4 giugno 2004 morì Nino Manfredi, il tg delle 13,30 si aprì con la voce mesta del conduttore che annunciava “Nino Manfredi non c’è più”.

“Non c’è più”, “è scomparso”, “è mancato”, “è venuto a mancare”, “ci ha lasciati”, “ha chiuso gli occhi”: dai contesti giornalistici a quelli privati, la morte va incontro nel linguaggio alla medesima rimozione che subisce nella società contemporanea, trincerandosi dietro a elaborati eufemismi. C’è modo e modo di dire la morte, una parola dal suono sinistro che in alcune lingue può essere anche più sinistro. In una pagina di Per chi suona la campana Hemingway fa ragionare così il suo alter ego Robert Jordan: “Prendi morto [nel testo inglese dead]: mort, muerto, e todt. Todt è il più morto di tutti”. 

Non è il caso qui di indagare se e come il tedesco anestetizzi il suo todt; restando all’italiano – e senza arrivare agli estremi di espressioni come “passare a miglior vita”, “rendere l’anima”, “tornare alla casa del Padre”, “esalare l’ultimo respiro”, utilizzati per lo più in contesti particolari e spesso con intento sdrammatizzante e ironico distacco – i nostri eufemismi sono sotterfugi umani-troppo-umani per tenere a bada con le parole la dolorosa realtà che queste comunicano. Ed è significativo che siano utilizzati quasi esclusivamente al presente e al passato prossimo, mentre negli altri tempi del passato, quando il fatto a cui si fa riferimento è sufficientemente lontano da non poter più aggiungere sofferenza alla sofferenza, ritorna senza problemi il verbo morire.

Il lessico del lutto ritaglia una sorta di enclave linguistica, un mondo a parte di frasi fatte, immagini, singole parole e modi di combinarle che si ritrova unicamente in quelle tristi occasioni, e quando si incontra lascia subito intendere la situazione. L’espressione “i tuoi cari”, per esempio, si può leggere soltanto sul nastro di una corona funeraria, così come “parenti tutti” (chi mai, nella lingua di tutti i giorni, invertirebbe in questo modo aggettivo e sostantivo?) che, per farla breve e non spendere troppo, puntualmente si ripresenta altresì nelle necrologie dei quotidiani. Seguita, nelle partecipazioni, da stereotipi involontariamente comici come “vivissime condoglianze” o “prendere viva parte al dolore” (l’“avvertimento del contrario”, spiegava Pirandello, è alla base del comico).

Ma è nei social che si attinge a piene zampe il ridicolo. A ogni dipartita di personaggio popolare non mancano schiere di immaginifici condolenti che colgono l’occasione per condividere i propri alati sentimenti dando del tu al personaggio in questione e fantasticando per lui improbabili occupazioni “lassù”. Per esempio muore Maradona e decine, centinaia, migliaia di post gli si rivolgono vaticinando che “adesso nessuno potrà più fermare i tuoi dribbling”, “tornerai a segnare sui campi del cielo”, “giocherai nella squadra più forte di tutti i tempi con Sivori, Cruijff ecc.” (come se nella sua vita El Pibe non avesse fatto altro che giocare al calcio; per la verità nella seconda parte di questa vita ha fatto tutt’altro). Oppure c’era stata, in una manciata di giorni ravvicinati del gennaio 2006, una funesta sequela di lutti nel mondo del pop-rock (David Bowie, Glenn Frey ex Eagles, Paul Kantner ex Jefferson Airplane, Colin Vearncombe alias Black, Signe Anderson anche lei – accidenti – ex Jefferson Airplane): e inevitabilmente si erano sprecate le variazioni sul tema “chissà che concerto stanno organizzando lassù”. 

Lo stesso modello viene buono anche per condividere lutti privati: nel caso si annunci la perdita di una persona cara che amava fare jogging, le si spiega che potrà continuare a correre per le strade del cielo (dove peraltro non circolano auto, quindi non si rischia di inalare le cancerogene polveri sottili); se la persona si dilettava in un coro, si prevede che adesso canterà con gli angeli (e chissà se gli angeli gradiranno). Vabbè ma qui siamo “oltre” (in tutti i sensi).

Ci sono anche quelli che raccontano sui social la perdita dei loro “amici a quattro zampe” o pennuti (una rispettabile tradizione: “Passer mortuus est meae puellae / passer deliciae meae puellae”, condivideva Catullo, limitandosi però a sollecitare il pianto di Veneri e Cupidi e delle persone di animo sensibile): qualche giorno fa su Facebook una ragazza appassionata di cavalli dava l’addio all’amato destriero augurandogli “buone galoppate fra le nuvole”. Poetico, se non altro.

E così, di eufemismo in banalità svolazzante, quando indulge al vaniloquio anche il lutto può diventare occasione di (cinico) divertimento. Un sintomo comunque di vitalità. Da Delio Tessa a Ungaretti: allegria di naufragi.

 Ne è valsa la pena? Alessandro D’Avenia su Il Corriere della Sera il 31 Ottobre 2022. 

Le feste creano una fessura nel tempo uniforme degli orologi (kronos) perché entri l’eternità, cioè il tempo che non trascorre ma resta come memoria sempre viva: la chiacchierata con un amico senza la paura di piangere, l’inautunnarsi degli alberi in una passeggiata in montagna, il sorriso di una ragazza malata per delle parole a lei rivolte. Il quotidiano nella sua ripetitività cronologica ha bisogno di essere salvato da «eventi» che lo rendono reale, eventi che sin dalle origini dell’uomo erano realizzati da riti, durante i quali si cercava di toccare l’origine di tutte le cose attingendo alla vita degli dei che le avevano fatte. L’uomo ha un bisogno fisico di ricevere ciò che dà energia al suo essere e il sacro è sempre stata la via d’accesso. Cambiano le forme, ma noi votiamo la nostra esistenza sempre e comunque a qualcosa che riteniamo capace di liberarci dalla morte e che rendiamo sacro: carriera, figli, successo, piacere, Dio... 

Il tempo degli orologi, dalle clessidre ai cronografi, dice che moriremo, e così, lottando con lancette (l’uso di un’arma come metafora del tempo mi ha sempre colpito) o granelli (polvere sei e polvere tornerai), andiamo a caccia di una sospensione che percepiamo sacra, perché sacro è tutto ciò che è sottratto e ci sottrae alla morte. Domani è la festa-memoria dei Santi e dopodomani, non a caso, quella dei Morti. Santi e Morti, cielo e terra, e noi in mezzo a chiederci: quale è il mio destino? L’eterna vita o l’eterno nulla? 

Quel che resta della risposta è Halloween, un brivido di horror e zucche, anche se la parola, come sempre, dice molto di più: contrazione dell’espressione «all hallows’eve»: vigilia/notte di tutti i Santi. Hallow è l’antico verbo inglese per santificare, da cui holy (santo) ed health (salute): la nostra salute dipende dalla nostra santità (santo vuol dire in origine intoccabile, inviolabile, perché appartenente al divino), perché ciò che è santo non muore, è nel tempo ma non gli è soggetto. 

Morti e Santi sono associati perché sono i due punti di vista sulla morte: il tempo e l’eterno. Tutti sappiamo nella nostra carne che il primo (e ogni) lutto è un evento indimenticabile, il primo vero incontro con quello che Freud, sulla scia di Schopenhauer, chiamava l’impensabile, la morte, proprio perché, non potendo essere controllata e quindi razionalizzata, agisce su di noi più di qualunque altra realtà. Infatti noi ci muoviamo ogni giorno per esorcizzare la morte, inventando modi di vincerla, cioè di farci santi, in base a ciò che pensiamo possa darci eternità: tutti stratagemmi di sospensione del tempo. Eppure non tutte le forme di santità danno la salute, anzi alcune ce la tolgono. Il divino Achille scelse di morire giovane ma glorioso in guerra (l’eroe è il santo), Budda abbandona il potere e muore a ogni desiderio umano (il monaco è il santo), Socrate si lascia imporre il suicidio pur di non commettere un’ingiustizia (il giusto è il santo), Cristo si dona agli uomini e li perdona, affidandosi al Padre, sebbene sia innocente (l’amante è il santo). 

E noi? I santi oggi sono gli sportivi (Ibra è un dio), le star (Monroe era la divina), gli inventori (Jobs era divino nelle sue apparizioni), i manager (Elon Musk è un profeta)... 

Non c’è nessuno che non abbia, anche solo implicitamente, una strategia contro la (propria) morte, e la cultura (l’insieme delle invenzioni umane per vivere) non è altro che la risposta creativa dell’uomo a questo abisso. Qualche anno fa il medico americano Raymond Moody ha cominciato a raccogliere le testimonianze di pazienti che hanno vissuto le cosiddette esperienze di pre-morte. Mi servo di queste testimonianze come fenomeni psichici, cioè come simboli che la psiche usa quando si trova in quella condizione che nella tradizione del buddismo tibetano viene chiamata «bardo», uno stato intermedio tra la vita e la morte. Le testimonianze hanno in comune delle costanti, oltre a quella di tornare in vita per poterle raccontare. I sospesi tra morte e vita vedono ciò che accade al loro corpo esanime, guardandolo da fuori, e contemporaneamente camminano in un tunnel oscuro con una luce in fondo. Prima di raggiungere questa uscita incontrano un essere luminoso di fronte al quale giudicano la propria vita. Questo essere non suscita nessun senso di colpa, ma permette di guardare se stessi in uno specchio d’amore e di verità. 

Il sospeso si sente porre una domanda (o la pone a se stesso perché non è fatta di parole): ne è valsa la pena? 

Gli ambiti di verifica della risposta sono due: il conoscere e l’amare, cioè se la vita sia stata un cammino di sapienza (conoscenza di sé e del mondo) e un cammino di fecondità (amore di sé e degli altri). Poi a questa persona viene data la possibilità di riprendere il cammino, diventando protagonisti della vita rimanente. La totalità di loro dice che, tornati, si sono liberati dell’ansia di cammini falsi, per dedicarsi solo a ciò che finalmente gli si era chiarito: sono esperienze di verità (la morte è la verità ultima su chi siamo) attraverso cui si abbraccia il cammino della santità (ciò che vince la morte). Sapienza e Amore sono le risposte al “ne è valsa la pena?”, cioè la fatica che il vivere comporta è riscattata da una pienezza di senso che noi sperimentiamo quando «conosciamo» e «amiamo», che poi sono i due lati di uno stesso gesto vitale. 

1. Un conoscere che non è «informarsi» ma entrare in relazione con il mondo e con gli altri in modo generativo. Conoscere nel lessico ebraico significa unirsi, Adamo conosce Eva e genera un figlio, Maria visitata dall’angelo risponde: non conosco uomo. Oggi riduciamo il conoscere all’acquisizione di informazioni (i dati sostituiscono la vita) o alla pratica scientifica (l’esperimento sostituisce l’esperienza, ciò che riesco e posso fare è vero), quindi al dominare la cosa conosciuta che smette di essere soggetto con cui entro in contatto e viene ridotto a oggetto. Il conoscere di cui parlo è invece un co-nascere: nascere insieme di due soggetti in un soggetto nuovo: generato. Come quando leggiamo un libro che spacca il ghiaccio del cuore e ci genera a vita nuova, come quando Dante incontra Beatrice e comincia la Vita Nuova... 

2. L’amare delle esperienze pre-morte è altrettanto concreto: una delle testimonianze riguarda un uomo che dice alla presenza luminosa che non può lasciare sua moglie da sola con il figlio adottato che è appena entrato in adolescenza. Il suo destino è chiaro e tutto il resto è funzionale a questo. Nel 2017 George Saunders ha scritto un romanzo intitolato Lincoln nel Bardo, in cui descrive lo strazio del Presidente degli Stati Uniti per la perdita del figlio piccolo, Willie, a causa di una malattia. Egli si ribella al lutto tanto da «trattenere» il figlio nel Bardo, la condizione incerta tra vita e morte, aggirandosi nel cimitero di Georgetown. Lincoln vorrebbe «altro tempo» per amare suo figlio. Il vale la pena nell’ambito dell’amare è prendersi cura di ciò che abbiamo accanto come occasione che ci è data nel tempo per essere santi, cioè vivere una vita piena di senso: amare fa crescere noi e chi ci è affidato. Il tornare nel tempo degli orologi vale la pena solo se quel tempo è riempito da queste due dimensioni: conoscere e amare. 

Per questo motivo posso dire che, se da un lato ho una gran paura di morire (le sofferenze che la morte può comportare), non ho paura della morte, perché alla domanda «ne è valsa la pena?», in questo preciso istante posso rispondere: sì. Nei limiti dei miei limiti non ho mai rinunciato a pormi domande scomode e a cercare risposte, a lottare contro la pigrizia mentale e fisica con una creatività innamorata, a provare ad amare chi ho accanto anche se non ci riesco, ma sperimento che non smettere di provare è già santità. L’altro giorno mia nipote, quasi cinquenne, tutta soddisfatta dopo aver portato a termine un compito impegnativo ha detto a mia sorella: «Tutto è difficile, prima di diventare facile». Può sembrare scontato, ma in realtà è un trattato sulla santità. Infatti alla domanda: «In che senso?», lei ha risposto: «Ci provi, ci provi, ci provi e alla fine ci riesci», cioè «alla fine» è valsa la pena di vivere, che non è certo morire, ma diventare sempre-vivi, cioè santi, nel tempo scandito dai nostri orologi.

Santi e Morti, insieme, ci chiedono questo: ne vale la pena?

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 26 ottobre 2022.

Forse la dissacrazione del cadavere è cominciata con la cremazione, pratica antica peraltro: i Romani andavano in un luogo, detto ustrinum, dove si bruciavano i corpi dei propri cari, per raccoglierne le ceneri in urne o vasi. Con la dottrina cristiana della resurrezione della carne, bruciare i corpi, in gran parte dell'Occidente, è stato a lungo considerato blasfemo, ma oggi la cremazione è praticata da atei, agnostici, credenti.

O non crediamo più davvero alla dottrina della resurrezione della carne, oppure siamo atterriti dalla prospettiva claustrofobica di essere rinchiusi in una bara e ficcati in un loculo di cimitero, dove lo spazio disponibile per nuove sepolture scarseggia sempre di più. E allora ecco arrivare una possibile soluzione che si chiama "riduzione naturale organica", o terramazione. In breve, è il compostaggio umano. I corpi dei morti vengono trasformati in terriccio da usare come fertilizzante.

Da poco la California ha legalizzato questa pratica, seguendo l'esempio di altri quattro stati nordamericani: Oregon, Colorado, Washington, Vermont. In Europa la terramazione è legale solo in Svezia, ma guadagna proseliti, soprattutto per un formidabile argomento a suo favore, in tempi di crisi climatica: limita l'emissione digas serra, quelli responsabili del riscaldamento globale.

Infatti, come spiega un articolo del Post, con la riduzione naturale organica il corpo del defunto viene deposto in un contenitore d'acciaio di circa due metri e mezzo di lunghezza, quindi ricoperto di paglia, trucioli di legno, fiori o altro materiale organico (e qui la vicinanza a arcaici riti pagani è innegabile).

Il contenitore viene sigillato e surriscaldato, e al suo interno batteri e microbi favoriscono la decomposizione naturale del corpo, che nel giro di un mese diventa terriccio. Il composto viene prelevato e lasciato essiccare dalle due alle sei settimane. Le ossa, rimaste integre, vengono polverizzate, e le protesi o i dispositivi medici rimossi. A questo punto l'impresa di pompe funebri che esegue la terramazione cede il terriccio ai parenti della persona defunta, i quali lo possono usare come compost. Il caro estinto potrà così andare a nutrire un albero, un roseto, quello che vorranno i suoi cari, magari il tipo di pianta che amava di più.

Sembra tutto così elegante, armonioso, e moderno, cioè in linea con lo spirito del tempo che ci vuole difensori a spada tratta dell'ambiente. Anche i nomi delle ditte che negli Usa eseguono la riduzione naturale organica hanno nomi evocativi: "Return Home", ritorno a casa, cioè, s' intende, alla madre terra; e "Recompose", ricomponi, perché, come spiega la sua amministratrice delegata, il compostaggio dei cadaveri «restituisce i nutrienti del nostro corpo alla natura», oltre a far crescere nuove piante, che assorbono anidride carbonica.

I costi non sono maggiori di quelli di un normale funerale con sepoltura o cremazione: tra i 5mila e i 7mila dollari (5.100 - 7.150 euro circa). Sempre negli Usa le associazioni cattoliche, com' era prevedibile, si sono scagliate contro una pratica che riduce il corpo umano a qualcosa di usa e getta, e che «non permette di proteggere e preservare la dignità e il rispetto di base degli esseri umani». 

Tuttavia, se assumiamo un punto di vista rigorosamente cristiano, stentiamo a comprendere come già la cremazione sia compatibile con la dottrina religiosa, eppure alla fine è stata accolta.

Perfino un miscredente e materialista dichiarato come lo scrittore Michel Houellebecq, nel suo splendido romanzo "La carta e il territorio", include una vibrante invettiva contro la cremazione, e l'illusione che dà di ricongiungersi alla Natura, al Tutto universale, quando invece, secondo il protagonista, non è altro che una manifestazione di nichilismo, di cinismo, di egoismo, e di terrore. Come se togliesse, a chi sopravvive, la possibilità di ricordare lo scomparso com' era, con il suo corpo integro, il suo volto, le sue membra, che verranno divorate dal fuoco.

Che dire dunque di una pratica che va ancora più in là, e trasforma la salma in terriccio? Avere un'opinione netta al riguardo è difficile, ma non possiamo nascondere un po' di sconcerto. Piaccia o non piaccia agli ambientalisti, l'uomo non è terra, non è terriccio, e nemmeno una pianta, ma è il risultato abbastanza miracoloso di milioni di anni di evoluzione, anzi, miliardi, se si calcola il tempo dalla prima apparizione della vita sulla Terra. Gli ecologisti hanno le loro ragioni, ma abbiamo voglia di annullare quello che ci rende propriamente umani, e tutti i rituali e i moti affettivi a ciò connessi, per valutarci niente più che un mucchietto di terriccio?

Massimo Basile per repubblica.it l'1 ottobre 2022.

Polvere sei e polvere ritornerai. La California ha preso alla lettera la citazione della Genesi e ha firmato una legge che offrirà dal 2027 un'alternativa alla sepoltura tradizionale e alla cremazione dei defunti: diventare concime per i campi e per i giardini, e senza produrre inquinamento.

Un modo di lasciare questa vita a impatto zero, la vera "transizione ecologica" ultraterrena. Il governatore democratico Gavin Newsom ha firmato la nuova legge che renderà legale, tra quattro anni, la possibilità di utilizzare i resti umani per farne materiale organico.

Il procedimento prevede che i resti della persona deceduta vengano messi in un contenitore d'acciaio grande due metri e mezzo e coperto di materiale organico biodegradabile, tipo ciocchi di legno, fiori, paglia e erba medica. I microbi poi svolgeranno il loro compito, trasformando i vari componenti in elementi nutrienti per il terreno. Tutto il processo di decomposizione ecologica si completa in circa trenta giorni.

Quello che resta dentro i contenitori viene poi curato da personale specializzato per un periodo che va da due a sei settimane. I membri della famiglia potranno usare il composto umano come qualsiasi altri tipo di composto, dal giardino di casa ai prati, oppure donare il tutto perché venga sparso nelle aree verdi. Ogni corpo umano può produrre composto sufficiente a coprire un'area di trenta metri quadrati. 

Gli altri Stati in cui la pratica è legale

La legge portata avanti in California è nata dall'obiettivo di ridurre le emissioni che, per esempio, producono le procedure per la cremazione. Negli Stati Uniti ogni anno la cremazione sprigiona nell'aria 360 mila tonnellate metriche di diossido di carbonio. Dissolversi tra elementi biodegradabili della natura è il modo più ecologico di farlo. "Con il cambiamento climatico e l'innalzamento del livello dei mari - ha dichiarato Cristina Garcia, la rappresentante democratica che ha presentato la legge - questa scelta offre un'alternativa che non produrrà emissioni".

Anche i costi sono più contenuti rispetto a una sepoltura tradizionale o alla cremazione: dai 7500 dollari di media di questi due sistemi, il Nor, acronimo che sta per Natural Organic Reduction, cioè 'riduzione naturale organica', costa circa 4-5 mila dollari. La California è il quinto Stato a legalizzare il compostaggio umano: la pratica è già legale a Colorado, Vermont, Washington e Oregon.

In almeno altri dodici Stati ci sono persone che, non ufficialmente, si rivolgono a società specializzate per trasformare i loro cari in terreno buono per parchi, prati e giardini. Con la consolazione di guardare il prato fiorito davanti a casa e pensare che, in fondo, chi è andato via, non lo ha fatto davvero.

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 21 settembre 2022.

Guidalberto Bormolini è stato molte cose nella vita: operaio di una falegnameria, in seguito liutaio. Attualmente è consacrato e sacerdote in una comunità di meditazione cristiana: i Ricostruttori nella preghiera. Laureato alla Pontificia Università Gregoriana, ha conseguito la Licenza in Antropologia Teologica ed è dottorando in Teologia Spirituale presso l'Ateneo S. Anselmo a Roma. 

Si occupa in special modo di accompagnamento spirituale dei morenti ed è docente al Master «Death Studies & the End of Life» dell'Università di Padova. Ovvero è un tanatologo, parola moderna per quella disciplina antichissima che cerca di accompagnare l'uomo verso una buona morte, verso un cosciente e sereno distacco dalla vita. In questo percorso ha accompagnato anche personaggi noti come David Sassoli o Franco Battiato.

Domenica 25 settembre dialogherà, ad Asolo, all'interno del Festival del Viaggiatore sul tema: «Là dove tutto sembra finire». Abbiamo chiacchierato con lui su questo tema difficile, come si arriva sino alle porte del dopo. Quelle porte che la nostra società di oggi spesso fa finta di non vedere e rimuove. Ma su cui Battiato ha spesso riflettuto nelle sue canzoni e nei suoi scritti...

Padre Bormolini cos' è esattamente un tanatologo?

«Un tanatologo studia la morte e il morire come fenomeno umano, cerca di capire come le persone si approcciano alla morte e le accompagna. Questo è anche un passaggio fondamentale della cura in quella fase, fase che tutti dovremo affrontare». 

Lei è anche un religioso: il suo approccio è quello, un approccio religioso?

«Io sono un religioso e sono convintamente religioso, ma il mio approccio al fine vita è laico. Cerco di contribuire ai bisogni spirituali di chi si avvia verso la fine dell'esistenza. Questo spesso passa da un recupero di percorsi religiosi che si sono interrotti o dallo scoprirne di nuovi. Ma non necessariamente. Il nodo è cercare uno sguardo nuovo sulla vita e sulla morte. Ormai è chiaro anche dal punto di vista meramente medico che non si può affrontare la malattia grave senza intervenire contemporaneamente su corpo, psiche, spirito». 

In questo tipo di percorso lei ha accompagnato anche Franco Battiato...

«Battiato si interessava al tema molto prima che la malattia lo colpisse, per lui era un tema di importanza sostanziale. Mi contattò molti anni fa dopo aver letto delle cose che avevo scritto. Siamo diventati amici e ho collaborato con lui per la realizzazione del documentario Attraversando il bardo. Sguardi sull'aldilà. La riflessione sulla morte per lui era fondamentale. Quindi quando la sua malattia è peggiorata, come amico, non per semplice servizio, sono stato presente. Franco meditava tantissimo, ha fatto un percorso di assoluta coscienza».

Come si muoveva Battiato su questi temi?

«Il suo era un percorso profondo iniziato sin dalla gioventù. Riflessioni che sono poi entrate a ripetizione nella sua produzione artistica. Quello che lui desiderava comunicare era che la morte non è il termine della vita ma qualcosa dentro la vita. Spesso riflettevamo sul fatto che noi moriamo infinite volte nel corso della nostra vita. Nelle religioni e nelle culture antiche erano presenti moltissimi riti di passaggio che consentivano di elaborare questo mutamento, rendendo chiaro che anche la morte finale è solo un passaggio ad un livello di vita superiore. Franco questo lo sentiva».

Battiato ha affrontato il passaggio sereno?

«Sì, su questo posso tranquillamente dire di sì, mantenendo tutta la privacy che è necessaria: si sentiva pronto sul serio, aveva fatto un percorso profondo, rigoroso». 

Quale delle riflessioni di Battiato sul passaggio le è rimasta, cosa le ha lasciato?

«Nella vita si impara sempre dagli altri ma in questo caso non si tratta tanto di parole quanto di comportamenti. Di Franco mi rimarrà il suo distacco dal lusso, dalle cose, la sua umiltà, la sua assoluta mancanza di vanità. Questo mi resterà...». 

Si può quindi affrontare la morte bene, in una maniera serena?

«Serve un percorso culturale che, ad esempio, nei Paesi anglosassoni viene portato avanti in maniera più sistematica dall'infanzia. La morte va integrata nella vita. La morte va vista come un'apertura di possibilità, attraverso un percorso meditativo, come nelle culture antiche... Basta pensare a tutti quei rituali in cui ad esempio un ragazzo muore per risvegliarsi uomo. Su questo Battiato ha riflettuto tantissimo». 

Si può essere anche ironici sulla morte, sulla fine?

«Le tradizioni popolari vivono di ironia sulla morte, di sdrammatizzazione della morte, ci sono begli studi sul tema come quello di Carlo Lapucci: ciò che è spirituale deve poter anche essere spiritoso».

“Funerale sostenibile della Regina Elisabetta II” ma è stato davvero così? Giada Ravalli il 20 Settembre 2022 su prontobolletta.it.

Diverse procedure per effettuare funerali sostenibili.

Sommario: Nella giornata del 19/09/2022 si sono svolti i funerali della Regina Elisabetta II.

Questa volta l’impronta, fin dall’inizio, però è stata diversa. In un periodo storico tanto delicato e incline alle problematiche e situazioni ambientali critiche per il nostro sistema, sono state redatte tante linee guida affinché il funerale stesso non recasse gravi conseguenze all’ambiente esterno.

Partendo da alcune limitazioni riguardanti i fiori acquistati e donati come segno di devozione, rispetto e dolore per la perdita per la Regina, fino ad arrivare ad imporre delle limitazioni che riguardano i trasporti elettrici, sia pubblici che privati anche per i leader mondiali che presenzieranno.

I bus destinati al trasporto dei leader mondiali sono stati protetti da alte misure di sicurezza. Subito dopo il funerale, i leader mondiali si sono recati a piedi (ma sempre scortatissimi) a Dean’s Yard, per poi tornare al bus che li riporterà alle loro auto private. Si tratta di un grande gesto simbolico quello di vedere leader mondiali che usano trasporti pubblici come normali cittadini ed è un eccezionale messaggio di promozione della mobilità sostenibile.

In particolare il ministero degli Esteri ha chiesto ai capi di Stato stranieri e ai loro partner di arrivare con voli commerciali ed è stato vietato l’uso di elicotteri per spostarsi nella capitale.

Sarà inoltre vietato utilizzare auto blu personali per raggiungere l’abbazia di Westminster: gli ospiti saranno condotti ai funerali con un apposito bus.

L’ente dei Royal Parks of London ha poi lanciato un appello a tutti i cittadini affinché non abbandonino panini e altri generi alimentari, mescolati a fiori, cuori e peluche davanti a Buckingham Palace, segni d’affetto che diventano spazzatura non appena toccano terra.

Sempre l’ente dei Royal Parks of London annuncia:

“Nell’interesse della sostenibilità, chiediamo ai visitatori di deporre solo materiale organico o compostabile” e ha specificato che i fiori lasciati vengono spostati alla fine di ogni giornata in un giardino di tributo floreale nel vicino Green Park, mentre gli “oggetti non floreali” non sono graditi. Come avranno reagito i londinesi?

 Da una parte essi non solo hanno seguito prontamente il consiglio, ma hanno anche eliminato tutti gli incarti di plastica e carta dai mazzi di fiori donati, in modo da rendere più semplice il conferimento per il compostaggio.

Ma dall’altra, purtroppo, Londra e le altre città del Regno Unito devono fare i conti con la grande mole di fiori e oggetti che i sudditi di Carlo III continuano a lasciare di fronte a Buckingham Palace e alle residenze reali, che altro non sono, dopo poco, enormi cumuli di spazzatura da smaltire.

Se per i fiori il conferimento dell’organico è semplice, che dire degli orsi e dei cani di peluche, delle bandierine o dei palloncini a forma di cuore? E ancora, dove finiranno i tanti sandwich con marmellata lasciati per ricordare il celebre incontro di Elisabetta II con l’orso Paddington?

La realtà è che una quantità mai vista prima di mazzi di fiori sta sommergendo il paese, dal palazzo della corona alla Cattedrale di Sant’Egidio a Edimburgo, dove si trova la salma. Qualcuno si è limitato a un solo stelo, ma c’è anche chi ha addirittura comprato un bouquet da 100 sterline. Milioni di persone rendono omaggio depositando fiori. Prima dei funerali, per i fiori non c’era più posto. I cancelli traboccano di omaggi. Già dalla sera dell’8 settembre, quando è arrivato l’annuncio della perdita, la gente ha iniziato spontaneamente a depositare fiori. E come sempre quando la domanda, di qualsiasi cosa, si impenna; e l’offerta invece scarseggia, scattano speculazioni: una singola rosa è arrivata a costare 10 Sterline (circa 12 Euro). Sono anche comparsi “abusivi” che girano con secchi di rose, eresia per la cultura britannica.

Diverse procedure per effettuare funerali sostenibili

In molte parti del mondo come l’Europa solo Regno Unito, Australia e Nord America negli ultimi vent’anni hanno preso piede le sepolture green, che prevedono apposite aree dedicate a un metodo di riciclo naturale dei corpi dei defunti.

Ma non solo:

Ad oggi esistono tante procedure che risultano essere molto più sostenibili rispetto a quelle tradizionali che riguardano i funerali e la sepoltura. Nel caso in cui si volesse contribuire alla tutela dell’ambiente anche dopo aver terminato la vita terrena bisognerebbe affidarsi ad agenzie funebri che propongono funerali ecologici, il cui obiettivo sia quello dell’efficienza energetica.

Tra le varie procedura si ha:

bare realizzate con prodotti ecocompatibili

carri funebri a risparmio energetico

trasformazione del calore prodotto durante la cremazione in elettricità

diamantificazione (una nuova procedura ammessa da poco anche in Italia che prevede prima l’estrazione del carbonio dalle ceneri in seguito pressato, sottoposto poi a temperature elevate viene tagliato, lavato e infine sotto forma di pietra preziosa da portare sempre con sé per conservare il ricordo del caro defunto) 

I materiali più utilizzati, facili da smaltire, riciclabili e che evitano l’emissione di sostanze nocive, sono il cartone, il bambù, il vimini, il mais, tutte soluzioni che contribuiscono al rispetto per l’ambiente e alla necessità di economizzare tempi e costi di un’operazione, quella della sepoltura. 

Trovato in Polonia lo scheletro di una "donna vampiro" con una falce al collo. La Repubblica il 6 settembre 2022.

Pensavano fosse un vampiro e per tanto l'hanno seppellita con una falce intorno al collo. Sarebbe servita ad evitare che si risvegliasse. A questa conclusione sono giunti un gruppo di archeologi polacchi dopo aver analizzato uno scheletro del XVII rinvenuto nel cimitero del villaggio di  Pien. Un lucchetto sull'alluce sinistro della defunta avrebbe completato le misure di sicurezza previste per questi casi.

Dall'analisi della tomba e dello scheletro sono emersi altri dettagli. Il ritrovamento di un cappello di seta starebbe ad indicare che la donna aveva una collocazione sociale alta. Inoltre un dente incisivo, fortemente protuberante, offrirebbe indicazioni sull'aspetto insolito della defunta. A dare la notizia è stato il tabloid britannico Daily Mail alcuni giorni fa. 

Il professore Dariusz Polinski, a capo del team della Nicholas Copernicus University della città di Torun che ha realizzato i lavoro nel cimitero, ha confermato che il tipo di sepoltura era quantomeno insolito. "Tra i modi usata per prevenire il ritorno dei morti figurano l'amputazione delle estremità, la sepoltura a pancia in giù, ma anche la lapidazione del cadavere o la cremazione", ha dichiarato al tabloid britannico. "La falce in questo caso è posizionata in modo che se la donna si fosse svegliata, immediatamente le avrebbe tagliato la gola nel tentativo di alzarsi". Mentre il lucchetto sull'allucce starebbe a significare "la fine di una fase e l'impossibilità di tornare".  

Non è raro nella regione trovare luoghi di sepoltura in cui un'asta di metallo - o un paletto - sono state conficcata nel cranio del defunto. Le persone all'epoca credevano che questo fosse un modo per assicurarsi che la persona rimanesse morta.

In alcune parti del continente, in particolare tra gli slavi, la credenza nelle leggende dei vampiri divennero così diffuse da causare episodi di isteria collettiva e persino portare a esecuzioni di persone ritenute vampiri. Anche i  morti in modo prematuro, come il suicidio, sarebbero state spesso sospettate di vampirismo e i loro corpi sarebbero stati mutilati per impedire loro di risorgere dai morti.

I morti in piedi che sanno parlare. Sono i nostri amici. Sono ciò che resta. Sono ciò che vedremo. Alberto Selvaggi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 04 Settembre 2022.

Sono i nostri amici. Sono ciò che resta. Sono ciò che vedremo. In piedi, pur morti, nelle loro teche bianche che sanno di campagna della chiesa secentesca Santa Maria del Suffragio, detta del Purgatorio, a Monopoli. Con le mascelle aperte a cogliere esali d’aria, con i nomi sulle etichette deposte ai piedi mummificati. Notaio Giuseppe Tria, evaporato come nulla il 20 marzo 1832: «Presente». Notaio innominato classe 1829. «Presente». Marianna Laporta, che fosti maschio in realtà. «Presente». Giovanni Amata Giaquinto da Caserta, 1793, governatore di Monopoli. «Presente». Antonia Minelli, semplice devota allineata come i pari della Confraternita di Nostra Signora del Suffragio secondo data del decesso, 1792, in senso orario. «Presente». Gennaro Mastropietro, 16 gennaio 1786. «Presente». Onofrio Longo, 15 gennaio 1786. «Presente». Cesare Longo, 1° gennaio 1776. «Presente». Pietro Insanguine, che saresti in realtà altro Insanguine, morto il 2 dicembre 1772, magari. «Presente». E tu là dall’altra parte, accanto alla finestra, sospesa come un quadro, Plautilla Indelli di Francesco, infante imbalsamata a due anni, e non conservata per disseccamento naturale negli scolatoi della cripta e poi nel sepolcreto del giardino privato come gli altri. «Assente». Ma esistente. Amen.

Si dice così da queste parti, pressi Cattedrale, in una città regia e vescovile dal patrimonio tale che viene da pensare che i monopolitani abbiano costruito chiese d’arte invece delle case. Questi spiriti essiccati hanno firmato un atto testamentario per finire blindati dietro ai vetri per la grazia di quattro chiodi cristiani, quattro come i teschi agli angoli della botola a piè dell’altare, quattro quante le vele sovrastanti, quattro le teste scarnate sulla balaustra, commiserate da Maria Addolorata che tiene ben conficcata in cuore l’estasi del suo pugnale. Sono persone che parlano senza parlare. Contano visitatori abituali non soltanto tra i componenti della confraternita custode di questo regno di purificazione purgatoriale. E figli visionari che hanno maieuticamente educato. Fermi nella loro assenza per la nostra presenza. Espurgati dalla vita che ci possiede e non possediamo, che ci divora attraverso il respiro mano a mano. Liberati dal peso del sangue e dal pulsare involontario degli organi che hanno avuto la forza di ripudiare. Carcasse di cani affamati nelle cui orbite si estende la bellezza del destino.

Un’ora dopo la morte gli scienziati di Yale fanno rivivere le cellule negli organi di maiali morti. Cristina Marrone Il Corriere della Sera il 3 agosto 2022.  

I maiali erano morti da un’ora: nei loro corpi non circolava sangue, i loro cuori erano fermi e le onde cerebrali piatte. Tuttavia le funzioni molecolari di diversi organi sono state ripristinate grazie a una soluzione pompata nei corpi dei maiali morti con un dispositivo simile a una macchina cuore-polmone.

Sebbene i maiali non fossero considerati in alcun modo coscienti, le loro cellule, apparentemente morte, si sono rianimate. I loro cuori hanno iniziato a battere mentre la soluzione, che gli scienziati hanno battezzato OrganEx, circolava nelle vene e nelle arterie. Le cellule dei loro organi, inclusi cuore, fegato, reni e cervello, hanno ripreso a funzionare e gli animali non si sono irrigiditi.

L’obiettivo è aumentare gli organi per il trapianto

L’interessante e incoraggiante risultato emerge da uno studio, pubblicato sulla rivista Nature, condotto dagli scienziati della Yale School of Medicine, che hanno utilizzato un modello animale per valutare la possibilità di ripristinare la funzionalità delle cellule dopo la morte. La tecnica potrebbe potenzialmente essere utilizzata per aumentare la disponibilità di organi per il trapianto oppure per terapie rivolte a chi ha subito danni causati da ictus e infarti. I ricercatori affermano infatti che l’obiettivo è poter aumentare in futuro la fornitura di organi umani per il trapianto, consentendo ai medici di trapiantare organi vitali molto tempo dopo la morte. I risultati sono solo un primo passo, ha affermato al New York Times Stephen Latham, un bioeticista della Yale University che ha lavorato a stretto contatto con il gruppo. La tecnologia, ha sottolineato, è «molto lontana dall’uso negli esseri umani».

Sei ore dopo la terapia ripristinate alcune funzioni degli organi

Il gruppo, guidato dal dottor Nenad Sestan, professore di neuroscienze, medicina comparata, genetica e psichiatria alla Yale School of Medicine, è rimasto sbalordito dalla sua capacità di rivitalizzare le cellule. «Non sapevamo cosa aspettarci» ha detto il dottor David Andrijevic, anche lui neuroscienziato a Yale e uno degli autori del documento. «Tutto ciò che abbiamo restaurato è stato incredibile per noi». Sei ore dopo la terapia, gli scienziati hanno scoperto che alcune funzioni cellulari chiave erano attive in molte aree del corpo dei suini, inclusi cuore, fegato e reni, e che alcune funzioni degli organi erano state ripristinate. Ad esempio, riportano gli studiosi, il cuore aveva mantenuto la capacità di contrarsi e mostrava segni di attività elettrica. «Abbiamo anche osservato dei movimenti involontari del collo e della testa dei maiali durante l’esperimento ma non sappiamo esattamente perché, visto che erano sotto anestesia e non coscienti. È possibile che si siano conservate alcune funzioni muscolari in modo temporaneo».

Il precedente

Il lavoro era iniziato alcuni anni fa, quando il gruppo di lavoro aveva svolto un esperimento simile con i cervelli di 32 maiali morti in un macello. Quattro ore dopo la morte dei maiali i ricercatori avevano infuso una soluzione simile a OrganEx (chiamata BrainEx) riuscendo a riattivare i neuroni, senza comunque ripristinare l’attività elettrica dei neuroni legata alla coscienza e ai sensi). Tutto questo li ha spinti a provare a rianimare un corpo intero. «L’esperimento appena concluso è la continuazione di quello del 2019 e conferma la possibilità di un parziale ripristino degli organi dopo la morte - spiega David Andrijevic della Yale University, uno degli autori dello studio - e abbiamo capito che le cellule non muoiono così velocemente come si pensava ed è possibile ripararle a livello molecolare».

Che cosa è OrganEx

Gli autori spiegano che OrganEx è un fluido «perfusante» che viene irrorato attraverso un dispositivo extracorporeo di pompe nel sistema circolatorio dell’animale. Si tratta di una sorta di sangue artificiale che contiene diversi composti chimici come sostanze nutritive, farmaci antinfiammatori, farmaci per prevenire la morte cellulare, sostanze che smorzano l’attività dei neuroni e impediscono ogni possibilità che i maiali possano riprendere conoscenza. I bloccanti nervosi nella sostanza hanno impedito ai nervi di attivarsi per garantire che il cervello non fosse attivo. Nell’esperimento sono stati utilizzati in tutto un centinaio di maiali (compreso il gruppo di controllo) e il team ha anestetizzato gli animali prima di fermare il loro cuori. Gli scienziati hanno sottolineato che i maiali non hanno sofferto e che non è mai stata registrata attività elettrica nel cervello.

Prossimo passo: capire se gli organi possono essere trapiantati

Yale ha depositato un brevetto sulla tecnologia. Il prossimo passo, ha detto il dottor Sestan, sarà vedere se gli organi funzionano correttamente e possono essere trapiantati con successo. «Non sappiamo se gli organi riattivati fossero funzionanti al punto da poter essere poi trapiantati. Ci vorranno molti altri studi per stabilirlo» dice Nenad Sestan.

Gli aspetti etici

Il gruppo di lavoro ha chiarito che l’obiettivo della nuova tecnica non è tornare indietro dalla morte o ricreare la vita, ma salvare gli organi che devono essere trapiantati e salvare quindi sempre più vite. Se da un lato la tecnica potrà in futuro forse effettivamente migliorare la sopravvivenza degli organi (talvolta danneggiati, tanto da essere inutilizzabili dopo che il supporto vitale del donatore è stato interrotto) e poter essere tenuti in vita più a lungo, così da poter essere trasportati anche molto più lontano, gli aspetti etici dell’esperimento sono innegabili e andranno discussi. «I maiali sarebbero ancora morti se non fossero utilizzati i bloccanti nervosi e il loro cervello riprendesse un certo grado di coscienza?» si chiede, avvocato ed esperto di etica, direttore dell’etica dei trapianti e della ricerca politica presso la Grossman School of Medicine della New York University in un commento pubblicato sempre su Nature, sollevando tra l’altro anche il problema di come con OrganEx potrebbe cambiare la definizione di morte.

Deborah Ameri per repubblica.it il 3 agosto 2022.

A un'ora dalla morte di decine di maiali, un'équipe di ricercatori dell'università di Yale è riuscita a ripristinare alcune funzioni molecolari e cellulari di diversi organi degli animali, come il cervello, il cuore, i reni e il fegato. 

Un esperimento, appena pubblicato su Nature, la cui tecnica potrebbe essere impiegata, potenzialmente, per aumentare la disponibilità di organi per il trapianto e in terapie contro i danni provocati da ictus e attacchi cardiaci. Ma gli scienziati mettono prudentemente le mani avanti: saranno necessarie ulteriori ricerche per meglio comprendere le implicazioni e le applicazioni pratiche di questa scoperta.  

Dal cervello agli altri organi

Quando nei mammiferi si blocca l'afflusso di sangue, la mancanza di ossigeno e nutrienti provoca una serie di eventi a cascata che portano alla morte cellulare. Anche se sono già in uso metodi per preservare i tessuti di singoli organi, come il cervello. 

Proprio tre anni fa gli stessi ricercatori, sempre guidati dal professore di Neuroscienze Nenad Sestan, avevano pubblicato su Nature, la scoperta della tecnologia BrainEx, che era riuscita a riattivare i neuroni del cervello di 32 maiali a 4 ore dopo la morte (senza però ripristinare l'attività elettrica dei neuroni, associata alla coscienza e ai sensi). Ora Sestan e i suoi sono andati oltre, applicando una simile tecnologia a tutto il corpo dei mammiferi. Il nuovo sistema si chiama OrganEx.   

Le cellule non muoiono così velocemente come si pensava

"Questo esperimento è una continuazione di quello del 2019 e conferma la possibilità di un parziale ripristino degli organi dopo la morte. Abbiamo dimostrato che le cellule non muoiono così velocemente come si pensava e che possiamo ripararle a livello molecolare", ha spiegato David Andrijevic della Yale University, uno degli autori dello studio, durante la presentazione avvenuta online.

La tecnica

OrganEx è costituito da due parti, spiegano gli autori. La prima è un dispositivo extracorporeo di pompe collegato al sistema circolatorio dell'animale, la seconda è un fluido, definito "perfusate", che viene irrorato nel corpo del maiale. "È una sorta di sangue artificiale, acellulare, contiene tredici composti chimici che contrastano l'infiammazione e la coagulazione e che prevengono la morte della cellula", ha spiegato un altro degli autori, Zvonimir Vrselja. 

Il metodo tradizionale (Ecmo)

Il team ha confrontato la nuova tecnologia con un metodo più tradizionale per ripristinare la circolazione sanguigna, ovvero l'ossigenazione extracorporea a membrana (Ecmo) che può, temporaneamente e grazie a un macchinario esterno, prendersi carico delle funzioni di cuore e polmoni. Si è osservato che gli organi trattati con OrganEx erano meno a rischio emorragia e ingrossamento rispetto a quelli trattati con Ecmo. 

In tutto sono stati usati un centinaio di maiali (tra gruppo di controllo e gruppo trattato), tutti sono stati anestetizzati prima dell'induzione dell'arresto cardiaco. Non c'è mai stata attività elettrica nel cervello e non hanno mai sofferto, tengono a sottolineare gli scienziati.

Il futuro dei trapianti

Che cosa si è osservato durante le sei ore di irrorazione con il fluido simil sangue? "Cuore, cervello, fegato e reni hanno recuperato parzialmente alcune funzioni cellulari. Le cellule erano vive, quelle del cuore si contraevano. Abbiamo anche osservato dei movimenti involontari del collo e della testa dei maiali durante l'esperimento, non sappiamo esattamente perché, visto che erano sotto anestesia e non coscienti. Pensiamo che forse si siano conservate alcune funzioni muscolari.

Ma vogliamo chiarire una cosa - tiene a dire Nenad Sestan, incalzato dai giornalisti - non sappiamo se gli organi riattivati fossero funzionanti al punto da poter essere poi trapiantati. Ci vorranno molti altri studi per stabilirlo. E vorremmo chiarire un altro punto: non ci occupiamo di reverse aging (invertire l'invecchiamento), il nostro unico scopo è quello di riparare organi danneggiati da ischemia per poterne permettere il trapianto".  

Il dottor Vrselja insiste su questo punto: "In futuro potremmo usare per il trapianto organi che prima, in quanto danneggiati, non avremmo potuto espiantare. Questa tecnica avrà un impatto significativo e salverà molte vite. Anche perché gli organi potranno essere tenuti in vita più a lungo e quindi trasportati anche lontano". 

L'uso sull'uomo ancora impensabile

I prossimi esperimenti saranno sempre su animali. "L'applicazione sull'uomo è molto, molto, lontana nel tempo - chiarisce Stephen Latham, altro autore che si è occupato soprattutto degli aspetti etici della ricerca - Dobbiamo prima studiare diversi aspetti dell'esperimento. Che cosa succederebbe, per esempio, se con OrganEx riuscissimo a riparare i danni dell'ischemia sull'uomo, ma solo parzialmente? Il nostro obiettivo non è invertire la morte o ricreare la vita e non vogliamo aprire il dibattito sulla morte cerebrale. Ci siamo tenuti deliberatamente ben lontani da questo. Il nostro scopo è salvare degli organi e quindi delle vite umane".

Goffredo Fofi per “Avvenire” il 25 maggio 2022. 

Un giovane poeta poi diventato regista scrisse un tempo una poesia che cominciava cosi: «I morti crescono / di numero e d 'età». È ahinoi vero, e chi ne ha più coscienza è chi è vicino a passare anche lui nel numero dei morti e, per il fatto di aver molto vissuto, ha conosciuto più persone e le ha viste scomparire, abbandonarci.  

Per mia immensa fortuna ho conosciuto tanti grandi intellettuali italiani dal dopoguerra in avanti, e ne sento grande la mancanza nell'Italia di oggi, di fronte alla mediocrità e al conformismo che caratterizzano l 'enorme maggioranza (una massa) degli intellettuali italiani di oggi, con ben rare eccezioni. 

Dove sono finiti i Calvino e i Silone e i Bobbio e i Calamandrei e i Fortini e i Pratolini e gli Zanzotto e i Sereni e le Morante e le Ortese e gli Sciascia e i Pasolini e i Maccacaro e i Basso e i Pertini e i Volponi e i Lombardo-Radice e le Gobetti e le Zoebeli e i Fellini e i Monicelli e le Zucconi e le Cherchi e Dolci e i don Zeno e i padre Davide e i padre Camillo e i Dossetti e i Carretto eccetera, eccetera, eccetera... che ho avuto modo di sfiorare o con i quali ho potuto dialogare e discutere, ai quali ho avuto modo di voler bene sia pure in modi a volte conflittuali come e giusto che sia, tra generazioni? 

E dove sono finiti i contadini e gli operai e gli studenti e gli insegnanti, gli uomini e le donne e i bambini che ho amato non meno dei personaggi di qualche fama? Uno dei 'miei ' morti più cari, Aldo Capitini, ha parlato di compresenza dei morti e dei viventi , un saggio e un titolo rallegranti (e ristampato dalle Edizioni del Ponte a cura di Lanfranco Binni, con la prefazione di Giancarlo Gaeta).  

Sì, i morti sono presenti, sono tra noi, e dovremmo tenerne ben conto noi vivi, angosciati dal dover muoverci dentro un presente preoccupante e avvilente come è quello dei nostri anni e del nostro Paese. Pensando ai nuovi nati e ai nuovi arrivati. 

In un salone del libro di Torino, mi venne chiesto qualche anno addietro di leggere un romanzo (per brani, nel tempo di un'ora) che era stato molto importante per la mia formazione, per la mia storia di lettore. Scelsi infine di parlare di un lungo racconto di James Joyce che chiude Gente di Dublino (1907).  

Ha per titolo I morti (The Dead), e qualche lettore ricorderà il capolavoro, il suo ultimo film, che ne trasse il regista di origine irlandese John Huston. Secondo Romano Bilenchi, tra i maggiori scrittori italiani di appena ieri, I morti di Joyce è il più bel racconto scritto nel Novecento. 

Sono stato in dubbio fino all'ultimo se leggere al posto di quello uno o due racconti di Tolstoj che riflettono sullo stesso mistero, La morte di Ivan Il'ic e il meno noto Tre morti. Scelsi I morti di Joyce e vorrei che tutti lo leggessero o rileggessero perché la parte finale del racconto, di straordinaria serenità e bellezza, canta il destino comune, canta la neve che scende su campagne e città dell'Irlanda e scende sui vivi e scende sui morti, nella piena coscienza che i vivi li raggiungeranno.  

I morti non muoiono, sono qui tra noi anche se tendiamo a dimenticarli per la paura di doverli presto raggiungere. La mia nonna materna andava per lavori in campagne lontane e tornava spesso nella notte dopo lunghe fatiche pagate in natura, e quando le chiesi se non avesse paura, mi disse tranquillamente che no, perché lei parlava con i morti, perché nella notte l'accompagnavano i morti. 

Fu Menandro a scrivere che «muore giovane colui che gli dei amano », e fu Leopardi a ripetere che «muore giovane colui che al cielo è caro ».  

Tutto sta nel credere nell'esistenza degli dei o di un Dio unico e onnipossente; tutto sta nel credere in un aldilà in cui la sorte dei giusti possa essere diversa da quella dei malvagi.

E tuttavia, anche per un non credente, può essere di consolazione pensare che gli dei (o Dio) vogliano accanto a se quei giovani che essi hanno amato, dei quali hanno apprezzato il valore la generosità la bellezza, quei giovani che hanno avuto ai loro occhi qualità o meriti speciali; e dei quali noi, i terrestri, i vicini, gli amici e diciamo pure i compagni, abbiamo goduto la vicinanza e la confidenza, la comunione delle idee nonché degli affetti. 

(ANSA l'11 maggio 2022) - Cellule della retina tornano a 'vedere' dopo la morte: trattate entro cinque ore dal decesso del donatore, hanno riacquistato la capacità di percepire la luce e di sparare segnali per comunicare. Il risultato è pubblicato sulla rivista Nature dai ricercatori del John A. Moran Eye Center all'Università dello Utah, in collaborazione con i californiani Scripps Research Institute e Salk Institute for Biological Studies, e l'Università svizzera di Berna.

Questo successo, osservano gli autori della ricerca, pone nuovi interrogativi sul concetto di irreversibilità della morte per le cellule del sistema nervoso e allo stesso tempo apre nuove prospettive di cura per le malattie neurodegenerative, inclusa la degenerazione maculare senile che colpisce la vista con l'avanzare dell'età. Lo studio suggerisce che la privazione di ossigeno è il fattore chiave che inibisce la capacità di comunicare delle cellule della retina.

Per questo i ricercatori hanno sviluppato un'innovativa unità di trasporto per gli organi da donatore che fornisce agli occhi la corretta ossigenazione e altri preziosi nutrienti. Grazie a questo dispositivo "siamo stati in grado di risvegliare le cellule fotorecettrici della macula, la parte della retina responsabile della nostra visione centrale e della nostra capacità di vedere i dettagli e i colori", spiega Fatima Abbas, prima autrice dello studio. "Negli occhi, ottenuti entro cinque ore del decesso del donatore, queste cellule hanno risposto a luce intensa, a luci colorate e persino a lampi di luce molto deboli". 

Dagotraduzione dal Daily Mail il 14 aprile 2022.

È un mistero che ha sconcertato gli scienziati per anni: perché animali diversi hanno una durata della vita così diversa?

Se gli esseri umani possono vivere in media 80 anni, le giraffe tendono a morire a 24 anni e le talpe a 25, il che fa pensare che non dipenda dalle dimensioni della specie. 

Per svelare questo mistero, i ricercatori del Wellcome Sanger Institute, nel Regno Unito, hanno confrontato i genomi di 16 specie, tra cui umani, topi, leoni, giraffe e tigri. Le loro scoperte suggeriscono che gli animali con un tasso più lento di cambiamenti genetici, noti come mutazioni somatiche, hanno una durata della vita più lunga.

Le mutazioni somatiche si verificano naturalmente in tutte le cellule durante la vita di un animale: gli esseri umani acquisiscono in media circa 20-50 mutazioni all'anno. Anche se la maggior parte delle mutazioni somatiche siano innocue, alcune possono compromettere la funzione cellulare o addirittura avviare una cellula sulla via del cancro. 

Il ruolo di queste mutazioni nell'invecchiamento è stato suggerito sin dagli anni '50, ma fino ad ora osservarle nella pratica è stato complicato. 

Una delle principali domande di vecchia data è stata il "paradosso di Peto", che si interroga sul motivo per cui gli animali più grandi non abbiano un rischio maggiore di cancro, nonostante abbiano più cellule.

Nel nuovo studio, i ricercatori hanno utilizzato il sequenziamento dell'intero genoma su campioni di 16 mammiferi con un'ampia gamma di durata della vita e dimensioni corporee: scimmia colobo in bianco e nero, gatto, mucca, cane, furetto, giraffa, focena, cavallo, umano, leone, topo, topo talpa nudo, coniglio, topo, lemure dalla coda ad anelli e tigre. 

La loro analisi ha rivelato che le mutazioni somatiche erano causate da meccanismi simili in tutte le specie, compreso l'uomo. Nel tempo, le specie con un più alto tasso di mutazioni avevano una durata della vita più breve. 

Ad esempio, è stato riscontrato che le giraffe, che possono raggiungere i 2,43 metri di altezza, hanno tassi di mutazione di circa 99/anno e una durata della vita di circa 24. Le talpe nude, che sono significativamente più piccole a soli 1,5 metri, hanno tassi di mutazione molto simili di 93/anno e una durata della vita simile di circa 25.

«Trovare un modello simile di cambiamenti genetici in animali diversi è stato sorprendente», ha affermato il dott. Alex Cagan, che ha condotto lo studio. «Ma l'aspetto più interessante dello studio è stato scoprire che la durata della vita è inversamente proporzionale al tasso di mutazione somatica. Questo suggerisce che le mutazioni somatiche possono svolgere un ruolo nell'invecchiamento, anche se ci possono essere spiegazioni alternative». 

«Nei prossimi anni, sarà affascinante estendere questi studi a specie ancora più diverse, come insetti o piante».

Sfortunatamente, i risultati non hanno fornito una risposta al paradosso di Peto. Dopo aver tenuto conto della durata della vita, il team non ha trovato alcun legame significativo tra il tasso di mutazione somatica e la massa corporea. 

Devono essere quindi coinvolti altri fattori nella capacità degli animali più grandi di ridurre il rischio di cancro. «Il fatto che le differenze nel tasso di mutazione somatica sembrino essere spiegate dalle differenze nella durata della vita, piuttosto che dalla dimensione corporea, suggerisce che, anche se la regolazione del tasso di mutazione suona come un modo elegante per controllare l'incidenza del cancro tra le specie, l'evoluzione non ha effettivamente scelto questo percorso», ha detto il dott. Adrian Baez-Ortega, autore dello studio.

«È del tutto possibile che ogni volta che una specie evolve in dimensioni maggiori rispetto ai suoi antenati - come nelle giraffe, negli elefanti e nelle balene - l'evoluzione trovi una soluzione diversa a questo problema. Avremo bisogno di studiare queste specie in modo più dettagliato per scoprirlo». 

I ricercatori sperano che i risultati aiuteranno a svelare il mistero di ciò che esattamente causa l'invecchiamento. «L'invecchiamento è un processo complesso, il risultato di molteplici forme di danno molecolare nelle nostre cellule e nei nostri tessuti», ha aggiunto il dottor Inigo Martincorena, autore dello studio.

Lo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature.

Dagotraduzione da Brain Tomorrow l'11 aprile 2022.

Cosa succede quando moriamo? È una domanda che le persone si sono poste nel tempo e la risposta è ancora un mistero. Ora, una revisione della ricerca che esplora ciò che le persone sperimentano quando sono prossime alla morte porta gli scienziati a un'importante conclusione: le «esperienze di pre-morte» sono una cosa reale, anche se non possiamo spiegarle. 

Innumerevoli persone hanno affermato che la loro vita «è balenata davanti ai loro occhi» o che in realtà hanno lasciato il loro corpo e hanno viaggiato da qualche altra parte mentre erano vicini alla morte. I critici hanno chiamato queste esperienze allucinazioni o illusioni, ma i ricercatori della NYU Grossman School of Medicine affermano che in realtà sta accadendo qualcos'altro.

Il team di scienziati di diverse discipline mediche - tra cui neuroscienze, terapia intensiva, psichiatria, psicologia, scienze sociali e discipline umanistiche - è arrivato a una serie di conclusioni scientifiche dopo aver esaminato episodi lucidi inspiegabili che coinvolgono un accresciuto stato di coscienza. 

Che cos'è esattamente un'esperienza di pre-morte?

La scoperta principale è che questi eventi non hanno molto in comune con le esperienze che qualcuno ha quando è vittima di un’allucinazione o fa uso di una droga psichedelica. Invece, le persone che hanno un'esperienza di pre-morte in genere riferiscono cinque diversi eventi che si verificano:

• Una separazione dal loro corpo con un accresciuto, vasto senso di coscienza e il riconoscimento che stanno morendo.

• Il "viaggio" in un luogo diverso

• Una revisione significativa e mirata della loro vita, che implica un'analisi critica di tutte le loro azioni passate: in pratica, la loro vita lampeggia davanti ai loro occhi

• Andare in un posto che sembra "casa"

• Ritornare alla vita 

I ricercatori notano che l'esperienza di pre-morte di solito innesca una trasformazione psicologica positiva e a lungo termine nella persona. Il team osserva che le persone che hanno avuto esperienze negative e angoscianti durante la pre-morte non hanno sperimentato questo tipo di eventi.

Qualcosa sta accadendo nel cervello

Il team ha scoperto che c'è di più in un'esperienza di pre-morte oltre alle storie che ogni persona racconta. Si scopre che gli scienziati possono effettivamente vedere i cambiamenti fisici in atto nel cervello quando qualcuno è vicino alla morte. 

I ricercatori hanno riscontrato la presenza di attività gamma e picchi elettrici quando le persone stanno tecnicamente morendo. Si tratta di un segno di un accresciuto stato di coscienza quando gli scienziati lo misurano usando un'elettroencefalografia y (EEG). I risultati confermano ulteriormente le affermazioni di persone che affermano di aver «lasciato il corpo» mentre stavano morendo.

Gli autori dello studio notano che i progressi della medicina nel secolo scorso hanno riportato indietro innumerevoli persone dalla soglia della morte. Molti di questi pazienti, tornano con storie di eventi inspiegabili, che fino ad ora non sono stati studiati in dettaglio. 

«L'arresto cardiaco non è un infarto, ma rappresenta la fase finale di una malattia o di un evento che causa la morte di una persona», afferma l'autore principale Sam Parnia. «L'avvento della rianimazione cardiopolmonare (RCP) ci ha mostrato che la morte non è uno stato assoluto, piuttosto è un processo che potrebbe potenzialmente essere invertito in alcune persone anche dopo che è iniziato». 

«Quello che ha consentito lo studio scientifico della morte è che le cellule cerebrali non vengono danneggiate in modo irreversibile quando il cuore si ferma. Invece, "muoiono" nel corso delle ore. Ciò consente agli scienziati di studiare oggettivamente gli eventi fisiologici e mentali che si verificano in relazione alla morte», continua Parnia.

La morte potrebbe non essere la fine

Gli autori dello studio concludono che né i processi fisiologici né quelli cognitivi terminano completamente al  momento della morte. Sebbene i rapporti precedenti non siano stati in grado di dimostrare ciò che le persone dicono sulle loro esperienze di pre-morte, il nuovo rapporto rileva che è anche impossibile confutare ciò che stanno dicendo. 

«Pochi studi hanno esplorato cosa succede quando moriamo in modo obiettivo e scientifico, ma questi risultati offrono spunti intriganti su come la coscienza esiste negli esseri umani e possono aprire la strada a ulteriori ricerche», conclude Parnia.

I risultati sono pubblicati negli  Annals of the New York Academy of Sciences.

Stenio Solinas per ilgiornale.it il 22 marzo 2022.

Niente paura, dice a proposito della morte Julian Barnes in un libro che ha proprio quel titolo (Einaudi, pagg. 246, euro 19,50, traduzione di Daniela Fargione). Parla per te, vien voglia di rispondergli, facendo anche i debiti scongiuri, non fosse che da quella paura Barnes è attanagliato da sempre e quindi, più che un invito a non preoccuparsi, il suo è nient'altro che un esorcismo, come i riti apotropaici di cui sopra. 

Il fatto è che, irrazionalmente, tutti quanti non vorremmo morire e altrettanto irrazionalmente sempre ci illudiamo che non sia ancora suonata la nostra ora. Viene alla mente quel racconto millenario del servitore di un mercante di Baghdad il quale, inviato al bazar per fare compere, scopre la Morte nel volto della donna che lo ha urtato nella folla.

Spaventato, il servitore monta a cavallo e fugge a Samarra dove, pensa, la Morte non lo raggiungerà. Il mercante, avvertito della fuga, va a sua volta al bazar, incrocia la Morte e la rimprovera: «Perché hai spaventato il mio domestico?» le dice. E la Morte gli risponde: «Ma no, mi sono soltanto sorpresa di vederlo lì, visto che avevo un appuntamento con lui a Samarra, questa sera»... 

Julian Barnes è uno scrittore elegante, colto, ironico, ma esorcizzare la morte, la paura della morte, è un'impresa superiore alle sue forze, e ne è perfettamente consapevole. Il libro è di una quindicina d'anni fa, quando, fresco sessantenne, e esclusa una leggera sordità, godeva di ottima salute. Il problema, per lui come per tutti quelli che navigano ormai da tempo nel mare degli anta, è che la vecchiaia più che uno stato anagrafico è un presidio medico: come diceva Alberto Moravia, «non esiste la vecchiaia, esistono le malattie della vecchiaia»...

E va da sé che la criopreservazione e altre diavolerie tecnico-scientifiche lasciano il tempo che trovano. Basta rifletterci un attimo per accorgersi che l'idea di ritrovarsi con le cellule vive cinquanta o cento anni dopo che ci siamo fatti congelare trasforma la paura della morte in un incubo della vita. 

Quanto all'immortalità, e più in generale alla vita eterna, Barnes fa propria una riflessione di William Somerset Maugham: «Gli uomini odierni non mi sembrano affatto idonei ad affrontare l'enormità della vita eterna. Con le loro piccole passioni, le piccole virtù e i piccoli vizi sono sufficientemente adatti alla vita quotidiana; ma il concetto di immortalità è troppo vasto per essere forgiato in uno stampo tanto minuscolo».

Barnes è un agnostico, non un ateo: «Non credo in Dio, però mi manca», in sintesi. Ciò significa che l'ateismo militante lo rende sospettoso, come rendeva sospettoso Gustave Flaubert, uno dei suoi numi tutelari e protagonista di un suo bel libro, Il pappagallo di Flaubert, appunto. È proprio da quest'ultimo che gli deriva del resto l'idea che «se ogni dogma in sé mi è repellente, considero il sentimento che li ha inventati come i più naturale e il più poetico dell'umanità. Non amo i filosofi che non vi hanno visto che pagliacciate o stupidità. Io vi scopro necessità e istinto; così rispetto il negro che bacia il suo feticcio quanto il cattolico ai piedi del Sacro Cuore». 

Allo stesso modo, proprio perché è un sentimento, un istinto e insieme una necessità, gli scrittori scommettono sull'immortalità letteraria, una scommessa, va da sé, di cui non solo non sanno se risulterà vincente, ma di cui comunque non ritireranno la posta in caso di vittoria. È insensata, insomma, e Barnes lo sa benissimo, però è umana, umanissima, allo stesso modo di come ci si illude di lasciare una traccia, tramandare qualcosa. Nello scorrere dei secoli, i nomi si scolorano fino a scomparire, senza dimenticare che la storia è un'invenzione occidentale, un tentativo di dare un ordine e un senso a un mondo che intanto marcia per conto proprio.

Proprio perché è uno scrittore, oltre a illudersi, senza però crederci più di tanto, di sopravvivere a sé stesso tramite le sue opere, è negli scrittori che Barnes cerca la compagnia atta a esorcizzare la paura della morte. In testa, naturalmente, c'è Montaigne con il suo «essere filosofi significa imparare a morire». L'illustre francese citava in questo senso Cicerone, e viveva ancora in un'epoca in cui morire di vecchiaia era un lusso, ovvero un avvenimento raro, mentre oggi viene considerato un diritto.

Secondo Philippe Ariès, l'autore di La morte e l'Occidente, mai si è cominciato a temere la morte come da quando si è cessato di parlarne. La longevità ha reso l'argomento tabù, mentre un tempo non solo, guerre permettendo, si moriva in casa, ma si moriva giovani. Più in generale, e questo è un insegnamento della romanità, più che della classicità greca, maggiormente portata alla speculazione metafisica, era la qualità della vita che contava, non la sua durata. È sempre di Montaigne il racconto di quel comandante romano al quale un vecchio e decrepito soldato chiede il permesso di liberarsi del peso dell'esistenza. Il comandante lo guarda con attenzione e poi gli domanda: «Cosa ti fa pensare che quella che vivi sia vita?».

È la «morte della giovinezza», chiosa Barnes, nel riassumere questo racconto, a essere la più dura e la più inosservata: «Ciò a cui di solito ci riferiamo quando parliamo di morte non è che la fine della vecchiaia. Il balzo dall'attenuata sopravvivenza della senescenza alla non-esistenza è molto più facile dell'insidiosa transizione dalla spensierata giovinezza all'età dei mugugni e dei rimpianti». 

Credo però che Montaigne volesse dire qualcos'altro, ovvero che l'invecchiare inaridisce la nostra capacità di sentire, ci rende meno disponibili al fluire della vita, più egoisti perché più provati. È ciò che Maugham, altro spirito-guida di Barnes, riassume efficacemente in una frase: «La grande tragedia umana non è perire, ma cessare di amare».

Non potendo vincere la morte, pensava Montaigne, il modo migliore per contrattaccare era averla sempre in testa: insegnare a qualcuno a morire significava insegnargli a vivere, detto in breve. A Barnes una simile filosofia non piace, anche perché non è detto che la prima parte di questa affermazione contempli la seconda. Di per sé, pensare sempre alla morte non necessariamente aiuta a vivere meglio, è un sofisma, più che una consolazione...

Soprattutto, visto che è proprio quell'ossessione a turbare il sonno di Barnes, è chiaro che almeno per lui non funziona, ha un effetto paralizzante, non rasserenante. Non gli piace nemmeno però, cosa che invece soddisfa il piccolo ego di chi sta scrivendo queste righe, il non pensarci mai e che può riassumersi nel luogo comune «sappiamo di dover morire, tuttavia ci crediamo immortali»... Vale la pensa sottolineare che per quanto sia un luogo comune, è anche una fonte di normalità, come del resto pensava Sigmund Freud: «Il nostro inconscio non crede alla propria morte, si comporta come fosse immortale»...

In quest'ottica, si può persino ammettere che si possa non aver paura della morte, ma aver paura di morire. In Dialogo con la morte, Arthur Koestler racconta il curioso scambio di opinioni con il pilota franchista che lo sta portando in volo sul luogo dove quest'ultimo riabbraccerà la moglie prigioniera dei repubblicani e lui, grazie a questo scambio, sarà liberato e scamperà così alla fucilazione.

«Per me è esattamente il contrario» gli dice il pilota quando Koestler gli espone la sua filosofica accettazione della morte: «Prima di essere vivi in questo mondo, eravamo tutti morti»... Lui teme proprio di morire, non teme la morte in quanto tale. Barnes però resta perplesso: «Manca una ragione logica perché l'una cosa escluda l'altra; non c'è ragione per cui la mente, con un po' di allenamento, non possa espandersi fino a comprenderle entrambe». E dunque, per quello che lo riguarda, gli fa paura sia la morte, sia il morire...

Torniamo un momento, e per finire, al dilemma fra il pensarci sempre e il non pensarci mai. Barnes esamina l'ipotesi che ci possa essere una posizione intermedia, razionale, adulta, scientifica, liberale. Moriamo perché il mondo possa continuare a esistere, perché il nostro tempo è limitato, per perpetuare il trionfo della vita, perché siamo parte di un ciclo vitale... 

Sono tutte risposte razionali, che non funzionano però di fronte all'irrazionalità che vorrebbero risolvere. Come lo stesso Barnes conclude ironicamente: «Se mai un medico mi dicesse, quando sarò sdraiato in un letto d'ospedale, che la mia morte non solo aiuterà qualcun altro a vivere ma sarà sintomatica del trionfo dell'umanità, lo terrò ben d'occhi quando verrà a controllare la flebo». 

Dagotraduzione dal Sun il 20 marzo 2022.

Per la prima volta al mondo i medici hanno registrato accidentalmente il cervello di un uomo che stava morendo. Si tratta di un paziente che era in cura per l’epilessia, e per questo era collegato a un elettroencefalogramma (EEG). La macchina stava misurando la sua attività cerebrale quando improvvisamente l’uomo, 87 anni, ha avuto un infarto ed è morto. L’EEG ha registrato i 15 minuti intorno alla sua morte. 

Nei 30 secondi finali del battito cardiaco del paziente, i medici hanno individuato un aumento di alcune onde cerebrali molto specifiche. Queste onde, note come oscillazioni gamma, sono collegate a cose come il recupero della memoria, la meditazione e il sogno. 

Potrebbe significare, anche se sarebbero necessari molti altri studi, che mentre moriamo potremmo vedere una sorta di bobina cinematografica dei nostri migliori ricordi.

Le parti del cervello che sono state attivate in questo studio suggeriscono anche che potremmo entrare in uno stato onirico pacifico che sembra simile alla meditazione. Sorprendentemente, mentre i nostri corpi si spengono, i nostri cervelli potrebbero ancora lavorare sodo in uno sforzo concertato per portare a termine un compito finale, il che rende il processo meno desolante.

Il dottor Ajmal Zemmar, neurochirurgo dell'Università di Louisville Zemmar, che ha organizzato lo studio, ha dichiarato: «Attraverso la generazione di oscillazioni coinvolte nel recupero della memoria, il cervello potrebbe riprodurre un ultimo ricordo di eventi importanti della vita appena prima di morire, in modo simile a quelli riportati nelle esperienze di pre-morte. Questi risultati sfidano la nostra comprensione di quando esattamente la vita finisce e generano importanti domande successive, come quelle relative ai tempi della donazione degli organi». 

Cambiamenti simili nelle onde cerebrali sono stati osservati nei ratti al momento della morte, ma mai negli esseri umani prima d'ora.

Lo studio, pubblicato su Frontiers in Aging Neuroscience, ha concluso: «I nostri dati forniscono la prima prova del cervello umano morente in un contesto clinico di cure acute non sperimentali e di vita reale e sostengono che il cervello umano può possedere la capacità di generare attività durante il periodo di pre-morte». 

Tuttavia, questo è solo un singolo caso di studio, con un cervello che era già stato ferito dall'epilessia. Ma potrebbe aprire la strada a una maggiore comprensione di ciò che ci accade - e di ciò che pensiamo - quando moriamo. 

Il dottor Zemmar ha aggiunto: «Da questa ricerca potremmo imparare questo: anche se i nostri cari hanno gli occhi chiusi e sono pronti a lasciarci, il loro cervello potrebbe rivivere alcuni dei momenti più belli che hanno vissuto nella loro vita».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 3 marzo 2022.

Nuove sorprendenti foto mostrano "mummie naturali" estremamente ben conservate ospitate in un mausoleo colombiano che si pensa risalgano a soli 100 anni fa. Più di una dozzina di corpi sono esposti in teche di vetro in un mausoleo a San Bernardo, in Colombia, in alto all'interno delle Ande e 40 miglia a sud-ovest della capitale del paese Bogotà.  

Il perché siano così ben conservati è un mistero, anche se alcuni esperti pensano che sia a causa del clima e dell'altitudine locali, che potrebbero influenzare la composizione chimica della terra e agire come un imbalsamatore naturale.

Ma la gente del posto pensa che sia dovuto a una dieta autoctona che include la guatila, nota anche come chayote, un frutto verde e appuntito, anche se questa teoria non spiega perché anche i vestiti delle mummie siano in buono stato di conservazione. 

I corpi mummificati di San Bernardo, che appartenevano a persone nate all'incirca negli ultimi 100 anni, furono scoperti per la prima volta negli anni '50 quando fu trasferito un cimitero locale a causa di un'alluvione.

Le identità dei defunti a San Bernardo sono note, infatti sopra ogni cadavere ci sono delle targhe che offrono descrizioni personali, come ad esempio "Margarita... era molto devota come casalinga, offriva sempre gallette e caffè a tutti". 

Alcuni parenti dei morti vengono persino a vedere cosa è rimasto del loro familiare e a porgere omaggi, tra cui un uomo chiamato Ever Pabon, il cui padre è tra i corpi in mostra. 

«La maggior parte delle persone che perdono i genitori li mettono sotto terra o li cremano e non possono più vederli», ha detto Pabon al Wall Street Journal nel 2015. «Ma se mi manca, posso vederlo in qualsiasi momento, ed è esattamente com'era nella vita». Il signor Pabon ha detto che visita suo padre ogni due settimane e porta una foto dei suoi resti mummificati sulla schermata di blocco del suo telefono. 

Dopo essere stati recuperati dalla terra, i resti conservati sono stati esposti al pubblico per la prima volta nel 1994, trasformando la piccola città colombiana in un'attrazione turistica insolita e controversa.  A quel tempo, un vescovo cattolico romano disse che mostrare le mummie era un segno di mancanza di rispetto per i morti. 

Guardando i volti dei corpi, alcuni sembrano avere un'espressione calma, come se fossero morti in pace e conforto, mentre altri sembrano più segnati dall'età. Purtroppo, alcuni dei corpi appartengono a bambini, alcuni ancora indossano vestiti e scarpe e ora sono esposti insieme nelle stesse teche di vetro. 

Una mummificazione naturale simile è stata osservata a Guanajuato in Messico, dove il gas sotterraneo e la composizione chimica del suolo sono responsabili del fatto che i morti non marciscano. Ma i morti di Guanajuato risalgono alla prima metà del XIX secolo, mentre le mummie di San Bernardo sono relativamente giovani.

·                    Le morti del Cazzo…

Da leggo.it il 12 novembre 2022.

Viaggia "indossando" il sex toy con all'interno le ceneri del fidanzato e viene fermata alla dogana. Sarah Button, 23 anni del Regno Unito, ha dichiarato di aver voluto conservare le ceneri del compagno, scomparso da poco, all'interno di un oggetto che li ha tenuti molto legati in vita e nel corso del viaggio ha voluto tenerlo il più possibile vicino a sé. 

La studentessa di legge ha raccontato in uno dei suoi account su TikTok che il sex toy in questione era uno dei preferiti usati con il suo fidanzato quando era ancora in vita. Quando è scomparso, per motivi che non sono noti, lei ha così deciso di conservare le sue ceneri all'interno di quell'oggetto, così da continuare a portarlo con sé. 

Indossare quel sex toy quando è in giro è un modo per continuare a viaggiare con il suo ragazzo, ha spiegato, concetto difficile da far capire ai poliziotti della dogana. 

Durante i controlli gli agenti si sono resi che c'era qualcosa di strano, la 23enne ha spiegato cosa fosse, ma hanno voluto fare controlli più accurati. La ragazza ha raccontato che gli agenti l'hanno accusata di essere volgare, ma lei non è pentita di quello che ha fatto. 

«In questo modo posso portarlo in tutti i posti che avevamo sognato di visitare insieme». La giovane è stata poi rilasciata, ma nonostante la disavventura, ha garantito che continuerà a viaggiare portando con sé il suo compagno.

Gianmarco Aimi per mowmag.com il 2 novembre 2022.

Mercoledì 2 novembre si festeggia il giorno dei Morti, anche se in realtà, negli ultimi tempi, questa celebrazione sembra essere stata soppiantata da Halloween e dalle preoccupazioni di molti nel riuscire ad allungare il ponte e rimanere a casa dal lavoro. Ma c’è anche chi, al di là delle date ufficiali, con la morte ha un rapporto speciale tutto l’anno. Parliamo di Lisa Martignetti, 40enne bergamasca che sull’attività di funeral planner sta costruendo una professione originale, certo, ma che non è basata soltanto sul business. 

Seguitissima sui social, dove si fa chiamare "La ragazza dei cimiteri" ha accettato di spiegarci “un lavoro in Italia poco conosciuto” e che si basa “sulla cura della salma, delle vestizioni e dell’organizzazione della cerimonia funebre”, ma non soltanto nel momento del commiato, volendo anche molto prima. È qui il bello, perché tra le varie possibilità proposte c’è anche quella di poter scegliere la propria playlist musicale per il funerale, oltre a tutta una serie di dettagli personalizzati. E naturalmente non mancano le bizzarrie. Oltre al lato grottesco, però, ci ha spiegato molto di più. 

Lisa, di cosa si occupa precisamente una funeral planner?

Pianifico funerali, come scrittura del vissuto, proteggendo le volontà, curando il dolore. Il mio lavoro consiste nel prendermi cura di chi sta per di-partire verso il grande viaggio e in questo modo, occupandomi anche e soprattutto di chi rimane. In realtà, quando parlo di morte, sto raccontando la vita. Più entriamo in contatto con le sfumature della Signora, io la chiamo così, e tutto ciò che avviene dopo, più ci rendiamo conto di quanto sia impreparata la maggior parte delle persone. 

Come mai?

Perché la nostra società non ci ha armato degli strumenti per parlare di quella che viene definita appunto, un grande tabù, quindi, saper cosa fare o dire quando si verifica una perdita. Eppure, in altri momenti, si parla molto e volentieri di vita e poco di morte. Sono facce della stessa medaglia. C’è grande intimità nella morte, e al tempo stesso riguarda così tanto tutti noi, che parlarne è proprio il primo grande passo fondamentale! Spesso, al passaggio del carro funebre, cerco sempre di invitare a salutarci, chi, alla nostra vista, preferisce fare gesti scaramantici. 

Se non sbaglio, hai iniziato la tua attività proprio in concomitanza della scomparsa di tuo padre. Cosa è scattato in te in quel momento?

Mio padre era un operatore funebre. Lavorava presso un’impresa, dove ha dedicato tutto il suo amore per questo settore. Più volte gli chiesi di aprire un’ attività tutta nostra, ma la sua risposta fu sempre la medesima: “Vorrei morire sereno e senza pensieri…”. Finché nel 2017, si ammalò. Dopo due anni ci lasciò, ma prima di farlo, fece il gesto, che io definisco l’atto d’amore più grande verso se stessi, ma soprattutto verso chi ami, bensì, quello di pianificare il suo ultimo saluto. Da quel momento ho capito di volerci essere per le famiglie. Ho lasciato il mio lavoro a tempo indeterminato e ho scelto il cambiamento. Ecco perché nasce la mia attività di funeral planner. 

In Italia siamo molto scaramantici, anche chi non lo dichiara apertamente. Invece tu proponi persino dei servizi per pianificare il proprio funerale molto prima che si manifesti qualsiasi avvisaglia. Le persone interessate a questa possibilità, cosa chiedono più spesso?

Affrontare la realtà della nostra inevitabile mortalità, può essere un’esperienza scomoda e per qualcuno anche inquietante. Ma, se affrontato con delicatezza, può diventare un percorso profondo, ampio, curativo e potente. Perdere un membro della famiglia è un’esperienza emotiva e il dolore può rendere difficile il processo di pianificazione funebre. 

Credo che la pre-pianificazione del proprio funerale sia il regalo più importante per i nostri cari, indipendentemente dalla nostra età. Lasciarli con un modello dei tuoi “desideri” offre un grande sollievo, evitando così tante domande quando accade l’inevitabile. Pianificare, permette di entrare in profondità, rispondendo ad alcune grandi domande sulla vita ed esplorando le opzioni da una prospettiva sia pratica che spirituale. 

Una comprensione e un’educazione approfondite su tutte le nostre opzioni che arrivano al fine della vita, aiutando e ripercorrendo la vita vissuta e che affronterete, scoprendo parti di noi, sconosciute, nascoste e protette. Un’opportunità per chiarire tutte le domande che hai sulla morte e sulle cure post-morte e su come si possono mettere in relazione i nostri desideri quando sarà il momento. È un viaggio nel viaggio! Come anche la Queen, insegna! 

Immagino che qualcuno ti avrà rivolto anche qualche richiesta bizzarra. Ce ne puoi raccontare qualcuna?

Ce ne sono parecchie di bizzarre! Sai, la pianificazione funebre, spesso, libera la nostra grande fantasia e il desiderio di come vorremmo essere ricordati. Chi vorrebbe suonasse il proprio cantante preferito, chi desidera tante mongolfiere appese al soffitto, chi la black list, ebbene sì, anche quella… Però, per ora, devo ammettere che la più bizzarra è la mia. Ma non posso svelarla, non vorrei mai mi copiasse qualcuno. 

Sui social sei molto seguita e ultimamente hai lanciato fra i tuoi follower la playlist di canzoni che ognuno vorrebbe al proprio funerale. Chi sono gli artisti più richiesti?

Io morirei senza musica. Scusa, ma questa ci stava! La musica è parte fondamentale del nostro vissuto accompagnandoci nei momenti più felici, ma spesso, e soprattutto, anche in quelli più bui. La musica è cura, è arte, è cultura. E credo anche, che definisca la nostra persona. Gli artisti più richiesti sono sicuramente i Pink Floyd, poi il Boss Bruce Springsteen, Coldplay, Radiohead, Editors, anche i Metallica! Di italiani abbiamo: Battiato, Biagio Antonacci, Tiziano Ferro...

Qual è la tua playlist personale?

La mia playlist si apre con Bright Horses e si conclude con Galleon Ship di Nick Cave, diciamo che lui è e sarà il principale portavoce della mia vita. Poi c’è anche Florence, The National, Editors, Placebo, Lisa Gerrard, ma anche Antonello Venditti e Amedeo Minghi… potrei stare qui ore a parlare e a raccontare della potenza della musica. 

Oggi è il 2 novembre, commemorazione dei defunti. Ma seguendoti sui social, mi sembra di capire che tu inviti spesso a non ricordare i morti soltanto un giorno l’anno. Come si può fare?

Parlare al proprio cuore. Sempre. Loro è lì che risiedono. 

Fra le critiche che potrebbero farti c’è quella di voler spettacolarizzare la morte. Come risponderesti? 

Beh, prendiamo per esempio la Disney-Pixar con Coco, ha creato un vero e proprio capolavoro. La morte è la celebrazione della vita. Mi rendo conto di trattare un argomento molto temuto, ma parlarne è prendere per mano la paura e sentirsi meno soli. Bisogna solo imparare a guardare con occhi diversi e ad ascoltare senza pregiudizio.

Nella tua biografia Instagram scrivi: "E se fossimo già noi nell’aldilà e la morte, fosse la vita". Sei credente e, se sì, come ti immagini l’aldilà?

Ti rispondo esattamente così: “E se fossimo già noi nell’aldilà e la morte, fosse la vita?”. E adesso ti rivolgo io una domanda: la tua playlist è pronta?

Da repubblica.it il 24 Ottobre 2022.

Destino beffardo. Forse mai come in questo caso. Javier Cardoso era un giocatore di rugby, amava questo sport. A 42 anni aveva deciso di dire basta, di finire la carriera di giocatore. Non è riuscito a farlo: nell'ultima azione della sua ultima partita è stato colto da un malore ed è morto poco dopo. 

La tragedia in Argentina, a pochi istanti dalla fine della partita tra la sua squadra, il Club Universitario Santa Fè, e il Gimnasia de Pergamino. Alcuni suoi compagni di squadra, sconvolti, hanno raccontato che l'arbitro aveva detto loro che quella appena iniziata sarebbe stata l'ultima azione di quella partita. Un match maledetto.

Cardoso all'improvviso si è accasciato al suolo. Il pallone era distante, nessun avversario era andato a contrastarlo: è finito a terra da solo in preda alle convulsioni. Il medico presente a bordo campo lo ha subito soccorso e ha fatto chiamare l'ambulanza. Immediato il trasporto all'ospedale di Iturraspe, ma i tentativi di rianimazione non sono andati a buon fine. Cardoso è morto poco dopo.

Sconvolto il mondo del rugby argentino. "La famiglia dell'Universitario - ha scritto il suo ultimo club su Instagram - vuole esprimere la sua profonda tristezza per la scomparsa di uno dei suoi giocatori, Javier Cardoso, grande compagno, eccellente amico e persona speciale. Siamo vicini alla sua famiglia in questo momento di dolore".

Claudio Mazzone per corriere.it il 18 ottobre 2022.

Non c’è pace per i defunti del cimitero di Poggioreale a Napoli. Un nuovo crollo ha determinato nelle scorse ore lo sventramento della Cappella della Congrega della Resurrezione, determinando lo sventramento di alcune file di loculi. Le bare sono visibili a centinaia di metri di distanza, alcune di esse restano pericolosamente in bilico e ad una certa altezza, aumentando le difficoltà nell’opera di recupero delle stesse.

La Congrega della Resurrezione si trova in una delle zone aperte del cimitero di Poggioreale, a poca distanza dal forno crematorio e dal cancello Balestrieri. Un’area distante dalle palazzine delle congreghe di San Gioacchino e dei Dottori Bianchi crollate il 5 gennaio 2022, quando 300 loculi furono distrutti. Le cause furono individuate nei lavori del cantiere per la metropolitana che passa proprio nei pressi del cimitero.

Allora la Procura sequestrò il cimitero monumentale di Poggioreale - nell’inchiesta ci sono 20 indagati - e lo chiuse al pubblico, impedendo di fatto anche le operazioni di recupero, parzialmente iniziate, dopo un farraginoso e complesso coordinamento tra Comune, Tecnici della Metropolitana e Vigili del Fuoco, solo in queste settimane anche se le congreghe erano definitivamente crollate il 30 settembre. La Procura della Repubblica di Napoli nel luglio scorso ha ipotizzato il reato di disastro colposo e ha proceduto alla notifica di venti avvisi di garanzia.

Sul posto sono intervenuti i vigili del fuoco allertati da alcuni abitanti della zona. Le immagini delle bare penzolanti nel vuoto e fuoriuscite dai loculi distrutti, sono le stesse che a gennaio scorso avevano scosso l’intera città e hanno riaperto la ferita in quei familiari che hanno visto sgretolarsi i loculi dei propri cari e che da mesi stanno portando avanti la loro battaglia per riavere almeno le salme.

«Questo crollo è ancora più preoccupante - ha affermato Pina Caccavale, presidente del comitato 5 gennaio che riunisce i familiari delle salme - perché il cimitero è aperto, resta chiusa solo l’area del primo crollo, quello del 5 gennaio scorso, ma la congrega della Resurrezione è in un’altra zona del cimitero, in un’area accessibile. Questa volta non c’entra niente il Sebeto, l’unica cosa che può aver generato questo ennesimo disastro sono i lavori della metropolitana e la cosa che fa rabbia è che mentre noi abbiamo aspettato per mesi, e stiamo ancora aspettando, che iniziasse un intervento di recupero delle salme, i lavori del cantiere della metro sono continuati senza problemi e oggi si vedono i risultati.

Ci avevano promesso - sottolinea Caccavale - che a fine ottobre avrebbero montato queste famose gru ma in realtà il 30 settembre le congreghe sono crollate del tutto ed è rimasto ben poco da riprendere». 

Mancano due settimane alla ricorrenza dei Defunti e il cimitero di Poggioreale rischia di essere chiuso nuovamente, cosa che creerà un disagio importante in tutta la città. I familiari di quelle salme disperse da ormai 10 mesi e lasciate alle intemperie, speravano di poter dare, per il 2 novembre prossimo, una degna sepoltura ai loro cari, ma i tempi di recupero per l’intera struttura monumentale si allungano ancora di più dopo l’ennesimo crollo e l’attesa, di chi è stato vittima dell’incuria e della burocrazia, continua.

In Italia anche la morte è una questione di classe sociale. ASHER COLOMBO E MARCO MARZANO su Il Domani il 16 ottobre 2022

Più alta la posizione sociale, più a lungo si vive. Ma la collocazione sociale non influenza solo quanto a lungo viviamo.

Anche le modalità delle cerimonie cambiano. Consideriamo la tendenza, che si va affermando da tempo, a una crescente partecipazione attiva di familiari e amici nelle cerimonie funebri.

Anche fare le condoglianze di persona ai funerali è una pratica la cui diffusione si riduce decisamente al crescere della posizione sociale della famiglia da cui proveniamo.

Dall’analisi dei dati della ricerca sulla morte e il morire in Italia che qui presentiamo e che ha coinvolto per tre anni e a diverse latitudini decine di ricercatori è emerso che la classe sociale è un importante fattore di stratificazione della speranza di vita e della sua durata.

Più alta la posizione sociale, più a lungo si vive. Ma la collocazione sociale non influenza solo quanto a lungo viviamo.

La posizione che ciascuno ricopre nel sistema di stratificazione sociale è profondamente intrecciata con le regole che governano l’ultimo tratto di vita, dà forma alle pratiche che sostanziano la separazione tra i vivi e i morti e stabilisce le modalità con cui si verrà ricordati da chi resta.

Consideriamo i funerali. I dati raccolti mostrano che l’importanza attribuita alla cerimonia funebre va riducendosi a mano a mano che ci spostiamo dagli strati relativamente svantaggiati a quelli privilegiati del sistema di stratificazione sociale.

CHI PARLA AL FUNERALE?

Anche le modalità delle cerimonie cambiano. Consideriamo la tendenza, che si va affermando da tempo, a una crescente partecipazione attiva di familiari e amici nelle cerimonie funebri.

Tra le varie forme in cui questa tendenza si è espressa, un ruolo di rilievo è occupato dall’affiancamento crescente al sermone del sacerdote di discorsi pronunciati da familiari stretti, amici e colleghi.

Al cuore di questi ultimi sono collocate la biografia del defunto e i suoi legami sociali più significativi. Ma questa pratica non si è affermata nella stessa misura in tutti gli strati sociali. A non voler sottrarre al sacerdote la centralità assoluta nel rito sono soprattutto gli appartenenti alle classi lavoratrici e coloro che provengono da famiglie con livello di istruzione inferiore.

Ma anche quello che accade fuori dalla chiesa assume un significato diverse nei vari insediamenti sociali. Si stanno sempre più diffondendo telefonate e videochiamate, messaggi testuali, vocali e in video, inserimento di post nelle bacheche virtuali dei social media dei defunti, dei loro amici e familiari.

Si tratta di forme che possono affiancarsi a quelle più tradizionali, come la visita a casa o la partecipazione alla cerimonia funebre, ma che in alcuni casi possono anche sostituirsi a queste.

Si generano, in quest’ultimo caso, due stili opposti di partecipazione a un evento luttuoso. Uno basato sulla presenza fisica, l’altro che le assegna un ruolo assai meno centrale.

LE CONDOGLIANZE

Anche in questo caso la collocazione sociale si rivela decisiva: fare le condoglianze di persona ai funerali è una pratica la cui diffusione si riduce decisamente al crescere della posizione sociale della famiglia da cui proveniamo.

Al contrario, il ricorso ai social e alle altre nuove forme di comunicazione per le condoglianze cresce con l’aumento del livello di reddito e di istruzione.

Se l’attenzione per le cerimonie funebri si riduce passando dalle classi lavoratrici alle classi superiori, quella per la sepoltura segue la direzione contraria.

Non solo la quota di italiani impegnata a procurarsi uno spazio al cimitero, o che dispone di una tomba di famiglia, aumenta al crescere del titolo di studio, e tra gli i colletti blu è sistematicamente inferiore che tra i colletti bianchi.

Anche l’abitudine a conservare oggetti appartenuti a persone care defunte è più diffusa nelle famiglie relativamente privilegiate. In un articolo precedente abbiamo ricordato che in Italia le cremazioni sono in crescita da molti anni.

E sappiamo anche che, con la crescente diffusione, anche gli atteggiamenti nei confronti della cremazione sono oggi assai meno polarizzati sotto il profilo della posizione sociale, di quanto lo siano stati un tempo, quando la cremazione era una scelta circoscritta ai ranghi della borghesia.

DISPERDERE LE CENERI

Eppure, l’influenza della classe sociale continua a farsi sentire nei confronti di forme decisamente più innovative, e ancora marginali, di trattamento dei corpi, come la dispersione delle ceneri, una pratica che continua a essere avversata dalla chiesa cattolica.

Il favore nei confronti della dispersione anziché della tumulazione tradizionale delle ceneri al cimitero, infatti, cresce decisamente con la posizione sociale, a parità di livello di religiosità.

È solo tra le classi superiori che l’idea di non avere un luogo fisico in cui piangere il defunto comincia ad affermarsi e a essere investita di significati rituali nuovi.

Lo racconta Arianna, appartenente alle classi superiori di una grande città del Mezzogiorno, ricostruendo la complessa trama di pratiche e di significati all’interno della quale ha voluto inserire la cremazione del marito, avvenuta oltre dieci anni prima.

Nelle sue parole: «Quando ho deciso di seguire l’impresa che portava Giovanni al crematorio, ecco tremila persone a saltar su e a dirmi: “vengo con te, vengo anche io, ti accompagno”. Ma non avete capito niente! Io non voglio nessuno. Con Giovanni ci eravamo detti tante volte che ci saremmo fatti finalmente un viaggio da soli. E adesso, con la nave da prendere e tutto, eccolo il viaggio! E dopo la cremazione mi sono subito fatta dare un po’ delle ceneri - che non si poteva nemmeno - e così - nel viaggio del ritorno - le ho liberate in mare. È stata una cosa meravigliosa. Vuoi vedere il filmato?». Esperienze di questo genere sono decisamente più infrequenti nelle classi lavoratrici.

INNOVAZIONI SOCIAL

Sarebbe tuttavia improprio ricavarne l’idea che l’innovazione rituale sia prerogativa dei ceti alti e la difesa delle tradizioni di quelli bassi. Non tutte le forme di innovazione, infatti, nascono «dall’alto».

Il caso più sorprendente riguarda l’irruzione di internet e dei social media in tutte le sfere della vita quotidiana, compresa quella relativa alla morte. Abbiamo riferito che i membri delle classi più agiate fanno maggiormente ricorso ai social per esprimere il proprio cordoglio e fare le condoglianze, ma coloro che appartengono alle classi più umili usano di più i social per rivolgersi direttamente a chi non c’è più.

Il punto è che la linea di demarcazione tra le classi non separa innovazione e tradizione. Segnala piuttosto l’esistenza più di un diverso ordine di priorità circa il legame sociale più importante.

Nel primo modo, quello più diffuso presso i ceti popolari, al centro c’è la comunità.

In questa cornice, i funerali sono, almeno programmaticamente, eventi rivolti a quote consistenti della rete di relazione più vasta del defunto. Non solo familiari stretti, ma anche parenti, amici, colleghi di lavoro o compagni di studio anche piuttosto lontani nel tempo, semplici conoscenti, vicini di casa.

Anche i social network sono luoghi in cui è possibile mantenere un contatto diretto, almeno idealmente, con chi non c’è più.

La comunità simbolica a cui queste pratiche sembrano fare riferimento trascende la sfera individuale o familiare e tende ad abbracciare una rete più ampia costituita da un «noi» che è la comunità di coloro che, ad esempio partecipando di persona a un funerale, confermano che quella comunità, appunto, esiste. Il funerale è il momento comunitario principale della cultura funebre.

Per i ceti più elevati, invece, a essere messi al centro sono i legami tra le generazioni.

Questi possono assumere una forma materiale, ad esempio nella visita al cimitero e nella cura della tomba di famiglia. In questo caso il sepolcro diventa il luogo simbolico che sancisce questo legame intergenerazionale e familiare.

I legami possono però assumere anche una forma immateriale, come avviene nel caso della dispersione delle ceneri. In ogni caso, in questo scenario, al centro viene messa la famiglia in luogo della comunità più ampia.

Se il funerale, quindi, è il momento dell’espressione dei valori delle classi lavoratrici, la sepoltura lo è di quelli delle classi superiori. 

I temi di questo articolo sono al centro del volume a cura di Asher Colombo Morire all'italiana. Pratiche, riti, credenze, appena pubblicato dal Mulino. ASHER COLOMBO E MARCO MARZANO

Da ilgazzettino.it il 4 ottobre 2022.

Avvicinarsi al tema della morte per aprire una riflessione sul senso della vita. È questo l’obiettivo dell’evento ideato da Michela Zorzetto dal titolo “La morte si fa bella”, in programma sabato all’azienda agricola Busellato-Terre dei Casai a Summaga di Portogruaro. L’iniziativa, che avrà inizio alle 16 per concludersi verso le 19, prevede l’esposizione di carri funebri d’epoca, la presentazione del libro di Michele Sist “Dio gioca ai videogame” e la mostra d’arte “Sostanza e spirito” di Simone Artico. Ciliegina sulla torta, la possibilità di farsi fare una foto dentro una bara.

«La decisione di organizzare questo evento – spiega Zorzetto – nasce dall’osservazione di un fenomeno, diffuso nei Paesi del Nord Europa e in costante crescita anche in Italia, che vede sempre più persone andare alla ricerca di un approccio diretto verso quelle che sono le strumentazioni funebri. Queste persone sono probabilmente bisognose di risposte sul senso della vita e soprattutto della loro vita in rapporto alla società di oggi, che tende a mettere l’uomo ai margini. Con questo evento vorremmo dare degli strumenti che siano da stimolo ad una riflessione su determinate tematiche».

Anche il libro, dal titolo provocatorio “Dio gioca al videogames”, verte interamente sul senso della vita, su chi siamo e su cosa siamo venuti a fare in questo mondo. «Il libro, che si inserisce nel genere Spiritualità - spiega l’autore Sist -, è frutto di una ricerca personale che mi ha permesso di trovare nelle filosofia orientale delle risposte alle mie domande. Credo che nella società di oggi, con le sue crescenti complessità, i problemi, l’aumento dell’instabilità e dell’insicurezza in ogni campo, diventi fondamentale acquisire quella consapevolezza che può scaturire solo da una vera conoscenza di se stessi».

Anche le opere che verranno esposte sono delle arti “figurative-evocative”. «Con la mia mostra – chiarisce Artico – vorrei introdurre il pubblico a fare un percorso attraverso il senso di sacralità dell’uomo, dove evocare la dicotomia materia-spirito, con la consapevolezza che il mito non è meno importante della realtà».

Gli organizzatori hanno già ricevuto molte critiche sull’impostazione dell’evento e soprattutto sulla possibilità di farsi immortalare dentro una bara. «Mi hanno detto che dovevo vergognarmi, ma in fondo – spiega ancora Zorzetto, ex titolare del bar Crema&Caffè di viale Trieste e che ora si occupa dell’organizzazione di eventi - non facciamo del male a nessuno e non manchiamo di rispetto a chi ha fede perché non ci sarà alcun simbolo che rimanda alla religione. 

Credo che qui a Portogruaro ci sia ancora una mentalità molto bigotta su alcuni temi. La morte è ancora un tabù. Per fare la foto – continua - allestiremo una camera ardente in un angolo della sala e chi vorrà potrà accedervi. Ringrazio tutti i miei collaboratori, dai ragazzi dei carri d’epoca ai collezionista di articoli funebri. Se l’evento dovesse riuscire, potremmo riproporlo in altre realtà».

IL CASO. Colture vicino alle lapidi, scoperto un orto nel cimitero di Molfetta. Il cimitero di Molfetta «scambiato» come un orto. Pomodori e zucchine coltivate accanto ai morti, il Comune avvia un'indagine per individuare il responsabile. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Agosto 2022.

Pomodori e zucchine accanto alle lapidi: è l’orto abusivo scoperto all’interno del cimitero di Molfetta e subito smantellato dal Comune che ha avviato verifiche interne per risalire al responsabile, forse un dipendente comunale.

«Sono in corso verifiche - spiega il Comune - al fine di individuare la persona che, senza alcun rispetto per il luogo in cui si trovava, ha piantato ortaggi in una zona del cimitero di Molfetta. Qualora, come è assai presumibile, dovesse trattarsi di un dipendente comunale nei suoi confronti si aprirà un procedimento disciplinare e verranno mosse tutte le azioni atte a salvaguardare la reputazione dell’ente».

«Azioni - precisa l'amministrazione comunale - saranno mosse anche nei confronti di chi sapeva e non ha segnalato la presenza di piante di pomodori, zucchine, verdure e finanche alberi da frutta». Intanto l’area trasformata in un piccolo orto è stata completamente ripulita dagli operatori della Molfetta Multiservizi.

Giordano Tedoldi per “Libero quotidiano” il 25 agosto 2022.

Ieri mattina, durante l'udienza generale nell'aula Nervi, concludendo la catechesi dedicata al tema della vecchiaia, papa Francesco ha dichiarato: «La morte fa un po' paura ma c'è sempre la mano del Signore, e dopo la paura c'è la festa», e ancora, rivolgendosi ai suoi "coetanei", cioè i "vecchie le vecchiette" come li ha chiamati non senza un sorriso sornione, ha ricordato che: «Gesù, quando parla del Regno di Dio, lo descrive come un pranzo di nozze, come una festa con gli amici».

Diciamolo pure: ieri papa Francesco ha fatto un elogio del trapasso, ha pronunciato, sia pure con le parole semplici, umili e dirette che gli sono proprie, un vero e proprio inno alla morte. Bisogna esserne sconcertati? Scandalizzati addirittura? Sarebbe un grave errore, e vorrebbe dire non capire la personalità del pontefice, molto più complessa e contraddittoria di quel che a volte vogliono far credere certi suoi adulatori.

Innanzitutto, papa Francesco è una personalità di profonda cultura, anche se non ama ostentarla e rifugge dalle citazioni dotte e nei suoi discorsi si astiene da speculazioni troppo sottili quali quelle del suo predecessore Ratzinger. 

E quindi non possiamo nemmeno escludere che, dicendo che il bello comincia con quel difficile passaggio che è la morte, abbia riecheggiato una splendida elegia del poeta americano Walt Whitman, "Quando i lillà fiorivano, l'ultima volta, nel prato davanti alla casa", all'interno della quale c'è una lunga sezione che celebra la "nera madre che sempre ci scivoli accanto con passo leggero", la morte appunto, che il poeta chiama "grande liberatrice", e della quale scrive: "Io canto gioiosamente i morti che fluttuano perduti nel tuo amoroso oceano, lavati dalle onde della tua beatitudine, o morte".

E pazienza se Whitman, che era un singolare personaggio con idee panteiste, non è precisamente un riferimento ovvio per il capo della religione cattolica; quando si ha a che fare con Bergoglio conviene non dare nulla per scontato, e liberarsi dei pregiudizi. 

Del resto, il papa ha semplicemente ribadito con parole apparentemente paradossali un concetto fondamentale della dottrina cristiana, e cioè che la "vera" vita, quella suprema, comincia dopo questa terrena. Da questo punto di vista, temere la morte, concepirla come l'annientamento assoluto, non è solo angosciante, ma è anche un atteggiamento profondamente anticristiano. 

Ecco allora che, rovesciando la prospettiva laica, che vede la vita su questa terra come l'unica a nostra disposizione, e dunque logicamente esalta la giovinezza e considera la vecchiaia una tragica sciagura, papa Francesco ha ricordato ai "vecchi e alle vecchiette" che lo ascoltavano che, da buoni cristiani, non solo non hanno nulla da temere, ma la loro età va vissuta con pienezza, emozione, senso di attesa trepidante, perché si avvicina il "bello", cioè, in termini cristiani, la vita eterna in comunione con Dio.

Vale la pena sottolineare che questo rovesciamento di prospettiva è benefico e salutare anche per chi cristiano non è, perché a forza di ossessionarsi solo sul l'aspetto strettamente fisico e materiale della nostra esistenza, e separando giovinezza e vecchiaia come due tronconi nettamente separati, in cui nel primo si gioisce (anzi si deve gioire, perché poi non si potrà più), e nel secondo si soffre ogni genere di pene, non può che rendere infelice anche il miscredente. 

Si può anche non arrivare al punto di dire che "il bello comincia con la morte", specialmente se non si è cristiani, ma certo la paura paralizzante del trapasso, il considerare la vecchiaia, e dunque i vecchi, solo come resti di un'esistenza che ormai ha perso tutto il suo gusto e non può che avviarsi in direzione di un inglorioso tramontare, non è certo qualcosa da auspicare.

Ben vengano dunque le parole rinfrescanti, provocatorie (ma in fondo, come abbiamo detto, perfettamente in linea con il pensiero cristiano) del pontefice. Parole che sono anche un notevole progresso rispetto alla comune rappresentazione che, della morte, il cristianesimo ha fornito ancora nel recente passato, e cioè di un passaggio tremendo, angoscioso, in cui non è affatto scontato che il povero peccatore incontri Maria, Cristo, e trovi la beatitudine, giacché potrebbe anche dover scontare un lungo soggiorno nell'inospitale landa infernale. 

Nei discorsi di Bergoglio, di questa orribile prospettiva non c'è traccia, e in questo sembra allinearsi a certi pensatori moderni: che il vero inferno sia già riscontrabile in questa vita, su questa terra. Di là, al confronto, di qualunque cosa si tratti, sarà bellissimo.

Niente da fare per la bambina. Cede l’altalena all’oratorio, bimba di 12 anni schiacciata dalla trave: “Non si può morire così”. Vito Califano su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

Aveva solo 12 anni e stava giocando sull’altalena dell’oratorio. Quando l’altalena si è staccata non ha avuto scampo. È morta oggi, una bambina ad Avezzano, poco dopo il ricovero. Sulla tragedia, che ha sconvolto la comunità marsicana, la Procura della Repubblica ha aperto un’inchiesta coordinata dal pm Maurizio Maria Cerrato. Le indagini sono affidate ai carabinieri che sono intervenuti sul posto e che hanno raccolto le varie testimonianze.

C’erano anche altri bambini nel parco al momento del cedimento nell’oratorio parrocchiale di San Pelino, frazione del comune di Avezzano, in provincia de L’Aquila. La struttura è crollata addosso alla bambina per causa ancora da chiarire. A soccorrerla sono intervenuti prima un infermiere che si trovava sul posto – “La bambina era ancora viva, ma le sue condizioni sono apparse subito disperate ed è stata immediatamente intubata”, ha spiegato -, poi i sanitari del 118. La piccola è stata trasportata in elisoccorso all’ospedale di Avezzano ma è morta poco dopo il ricovero. Troppo gravi le ferite riportate.

Per ricostruire la dinamica esatta della tragedia, avvenuta questo pomeriggio intorno alle 18:00, i militari stanno proseguendo con gli interrogatori.  Fatale, secondo le prime ricostruzioni, il colpo che la bambina ha preso dalla trave in legno che si è spezzata. La struttura a quanto pare fatiscente, composta da due travi di legno verticali, che si sono spezzate, è stata sequestrata. Interrogati anche i responsabili dell’oratorio, frequentato ogni pomeriggio da ragazzini. Da accertare chi abbia montato l’altalena e se fosse stata messa in sicurezza e autorizzata all’utilizzo.

“Ho appena appreso della tragica notizia che ha colpito la comunità di San Pelino – ha dichiarato il presidente della Regione Abruzzo, Marco Marsilio – Morire a dodici anni è difficile da spiegare e da accettare. A nome mio personale e dell’intera Giunta regionale sono vicino ai familiari della bambina in questo tragico momento”.

Cordoglio e incredulità nella comunità. Migliaia i post sui social che definiscono questa morte inaccettabile, una tragedia assurda che non doveva semplicemente succedere. Quella della 12enne è l’ultima tragedia che questa estate ha colpito una vita giovanissima. Come quella di Lavinia, la piccola napoletana di sette anni schiacciata a Monaco di Baviera, in Germania, da una statua mentre giocava in giardino. Era in vacanza con la famiglia.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Massimiliano Peggio per “La Stampa” il 30 Agosto 2022.

«Eravamo in quattro, tutti alla prima esperienza di hydrospeed. Con noi c'era un istruttore. Doveva essere una bella giornata di divertimento. L'escursione doveva durare in tutto un'ora. Nessuno di noi ha avuto la percezione che quella discesa fosse rischiosa o nascondesse insidie particolari. Se ci sono state responsabilità andranno accertate, di certo non toccava a noi valutare le condizioni di pericolo. Nessuno di noi era in grado di farlo». 

Simone Frola è un sub, un ciclista, fa il veterinario. Suo fratello Samuele, il più piccolo della famiglia, 24 anni, come lo definisce lui era «un millenials da divano», un web designer, amava le passeggiate in montagna, la moto ma non cercava il pericolo né l'adrenalina.

«Era un ragazzo cauto. Prudente, in buone condizioni fisiche».

Domenica scorsa, scendendo tra le rapide del fiume Sesia, in provincia di Vercelli, Samuele è morto annegato, facendo hydrospeed, sport che si pratica manovrando una sorta di bob acquatico. Simone ha tentato di salvarlo, ma non ce l'ha fatta. 

Simone, com' è iniziata l'escursione?

«Prima di partire l'istruttore ci ha fatto un po' di training: una parte teorica e poi in acqua. Eravamo tutti dotati di attrezzatura. Nel primo tratto, poco dopo la partenza, c'era un punto più difficile. Mio fratello e un altro ragazzo hanno preferito superarlo camminando lungo la riva, per una ventina di metri.

Io e l'altro amico abbiamo affrontato quel tratto più impetuoso senza problemi.

Stavamo procedendo con prudenza. Secondo il programma, la discesa doveva avvenire a step. Fatto un tratto, ci si doveva fermare, studiare il passaggio, valutare l'approccio e ripartire. Se Samuele non si fosse sentito al sicuro sarebbe stato il primo ad uscire». 

Dov' è avvenuto l'incidente?

«Poco dopo il primo tratto, all'altezza di una piccola rapida. C'era un po' di corrente e un dislivello, una sorta di cascatella. In quel punto il fiume era più turbolento, l'acqua scendeva fragorosa. Nell'affrontare quel passaggio mio fratello è rimasto incastrato con un piede tra le rocce».

Lei dove si trovava?

«Dietro di lui, a un paio di metri. All'improvviso Samuele si è fermato. L'ho superato scivolandogli accanto, facendo lo stesso passaggio. Il fondale non era profondo, per qualche minuto l'ho visto in piedi.

Aveva la testa in alto, l'acqua gli passava sopra. Riusciva a respirare. Mi sono girato e gli ho urlato di lasciarsi andare, di non lottare contro la corrente per non consumare energie.

Non immaginavo che avesse il piede incastrato. Dopo un niente è andato giù». 

Era difficile raggiungerlo?

«Abbiamo cercato da sopra e di fianco ma c'era troppa corrente. Benché l'acqua non superasse il metro e mezzo era tutta schiuma, non si vedeva niente. L'istruttore aveva delle corde e ha fatto due tentativi di raggiungerlo, senza però riuscire ad afferrarlo.

A quel punto mi sono buttato io, senza corda, facendomi trascinare dalla corrente. Sono riuscito a toccare il suo corpo: era in un punto più distante rispetto a dove l'avevamo visto prima. Poco dopo sono arrivati dei ragazzi con un kayak e ci hanno dato una mano. Sono stati bravissimi. 

Hanno teso una corda tra le due rive e abbiamo raggiunto Samuele. Durante tutte le fasi del soccorso sono sempre stato lucido, perché sono abituato a gestire situazioni di emergenza. Purtroppo Samuele era rimasto troppo a lungo sott' acqua: mi sono reso conto che non c'era più niente da fare». 

Qualcuno ha chiamato i soccorsi?

«Sì, ma i soccorritori non sono entrati in acqua, quando sono arrivati il corpo di mio fratello era già a riva. Il medico del 118 ha cercato di rianimarlo, io gli ho fatto la respirazione. Tutto inutile». 

Poi ha dovuto avvisare i suoi genitori...

«Sì, prima ho chiamato mia sorella, che era in vacanza. Le ho chiesto di accompagnarmi da mamma e papà per aiutarmi a dire loro che Samuele non c'era più».

Da europa.today.it il 31 agosto 2022.

Una bimba di soli 20 mesi è morta martedì a Girona, in Spagna, colpita alla testa da un grosso chicco di grandine. La grandinata è stata di una violenza senza precedenti, con chicchi di oltre 10 centimetri di diametro. La bambina è morta per le ferite riportate durante la tempesta. La piccola è stata portata all'ospedale, ma il personale medico non ha potuto fare nulla per salvarle la vita.

Circa 30 persone sono rimaste ferite durante la tempesta e hanno dovuto ricevere cure mediche. Alcuni di loro hanno riportato contusioni o addirittura fratture. Una donna ha dovuto essere ricoverata in ospedale, anche se ora è stata dimessa. 

I vigili del fuoco hanno spiegato che fino alle prime ore di questa mattina hanno risposto a 39 segnalazioni per danni a edifici e impianti elettrici causati dalla grandinata.

La tempesta ha causato molti danni ai tetti, ha rotto le finestre di auto e negozi e ha provocato la caduta di rami di alberi. Meteocat ha spiegato che martedì si è registrato il "massimo diametro di grandine nel Paese" dal 2002, con chicchi che sono arrivati fino a 10 centimetri di diametro.

Incidenti mortali. La tragedia di Elvira e Mustapha, fratello e sorella travolti a Napoli a distanza di pochi mesi: “Maledetto 29 agosto”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 29 Agosto 2022. 

Fratello e sorella morti a otto mesi di distanza a causa di due drammatici incidenti stradali avvenuti nella città di Napoli. E’ il dramma di Elvira e Mustapha Zriba, due giovani di 34 e 36 anni nati e cresciuti nel capoluogo partenopeo. Padre tunisino, madre italiana, i due hanno perso la vita in circostanze drammatiche. La scorsa notte, intorno all’una del 29 agosto, Elvira è stata travolta da una moto mentre attraversava la strada in via Caracciolo, sul lungomare di Napoli. Aveva da poco finito di lavorare in uno chalet della zona.

Un impatto violentissimo quello che ha coinvolto anche i due occupanti del mezzo a due ruote (un ragazzo e una ragazza), entrambi finiti in ospedale ma in condizioni non gravi. Elvira invece non ce l’ha fatta: è deceduta poco prima delle 5 al pronto soccorso dell’ospedale Cardarelli di Napoli in seguito alle gravi ferite riportate. Sull’incidente sono in corso gli accertamenti della sezione Infortunistica della polizia municipale di Napoli guidata dal capitano Antonio Muriano che ha acquisito le telecamere di videosorveglianza presenti nella zona. Al vaglio la posizione dell’uomo alla guida della motocicletta. Elvira viveva a Napoli nella zona della Torretta con il compagno.

Una tragedia che segue quella avvenuta a inizio dicembre del 2021 quando il fratello Mustapha venne tamponato nel quartiere di Pianura da un’auto mentre si trovava insieme a un amico su una bicicletta con pedalata assistita. 

L’uomo, padre di due figli, è deceduto dopo alcuni giorni di agonia all’ospedale del Mare dove era ricoverato dalla sera di mercoledì 8 dicembre.  Troppo gravi le ferite riportate alla testa durante la caduta avvenuta all’altezza della rotonda di Don Giustino Russolillo, lungo via Montagna Spaccata, in direzione Soccavo, dove risiedeva.

L’incidente, avvenne poco dopo le 22 di sera sotto una pioggia battente. Mustapha stava tornando a casa insieme a un amico. Si trovavano in due su una bicicletta con pedalata assistita quando sono stati urtati da un’auto. L’impatto, probabilmente causato oltre che dalla velocità sostenuto anche dal forte temporale, ha fatto perdere l’equilibrio alla coppia. L’uomo alla guida dell’auto non si fermò per prestare soccorso e venne rintracciato un mese dopo dalla polizia municipale: si tratta di un 40enne della zona, dipendente di un garage, che aveva utilizzato senza autorizzazione l’auto di un cliente e aveva provato a occultare le tracce dell’incidente facendo subito riparare la vettura.

Carico di dolore il commento di un’amica dei due fratelli: “Otto maledetti mesi fa mi hai chiamata, non me lo dimenticherò mai più: ore 6 Mustapha ha avuto un grave incidente, dopo 4 giorni muore. Oggi maledetto 29 agosto, stessa chiamata sempre il tuo numero, un’ora prima (5:12), stavolta a telefono era Carlo: “Elvira ha avuto un grave incidente, è morta. Ho sentito la terra tremare sotto i piedi. Mi vorrei svegliare e sapere che è stato un brutto incubo e stringervi forte”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Anna Paola Merone per corrieredelmezzogiorno.corriere.it l'1 settembre 2022.

Le immagini, restituite da una delle telecamere degli ormeggi di Mergellina, sono chiarissime. Dal filmato si vede una moto arrivare a tutta velocità, impennare e travolgere in via Caracciolo Elvira Zriba, poi trascinarla prima di schiantarsi su un’auto parcheggiata a cento metri di distanza. 

È morta così la giovane donna che, al termine del suo turno di lavoro in uno chalet del lungomare, nella notte fra sabato e domenica è stata investita mentre attraversava la strada. «È morta davanti ai miei occhi — racconta un suo collega — e via Caracciolo resta dopo questa tragedia pericolosa e senza regole».

La manifestazione

È prevista per domani alle 11 una manifestazione alla quale interverranno i familiari di Elvira — già duramente provati dalla scomparsa, lo scorso dicembre, del fratello della ragazza ucciso da un’auto pirata a Soccavo — ma anche commercianti, cittadini, esponenti di Europa Verde e i conduttori del programma radiofonico «La Radiazza».  

Le indagini

Le indagini sull’accaduto, da parte della sezione Infortunistica stradale della Polizia Municipale coordinata dal dirigente Antonio Muriano e sotto la supervisione della Procura di Napoli, intanto vanno avanti: il conducente della moto, un giovane residente nel Napoletano, è indagato a piede libero per omicidio stradale aggravato (era alla guida pur non avendo la patente) e la sua posizione potrebbe ulteriormente aggravarsi se i risultati dei test tossicologici, attesi nei prossimi giorni, dovessero dare esito positivo.

In seguito all’incidente è stato soccorso e portato all’ospedale del mare: ha riportato numerose fratture, ma non è mai stato in pericolo di vita. Sul sellino posteriore della moto viaggiava una ragazza trasportata all’ospedale Cardarelli. Elvira fu invece portata al più vicino ospedale San Paolo.

Da leggo.it il 28 agosto 2022.

Va in pellegrinaggio per una promessa fatta alla moglie prima di morire, ma ha un malore e muore pure lui. Una tragedia assurda che lascia tutti senza parole. Era al tavolo per la prima colazione poco prima di salire in pullman a far ritorno a Scorzè (Venezia). Ma improvvisamente ha avvertito un dolore al torace ed è stato stroncato da un colpo al cuore. 

La vita di Lino Vedovato si è conclusa così all’età di 82 anni domenica scorsa, 21 agosto, per un infarto cardiaco dopo essere stato in pellegrinaggio a Medjugorie come aveva promesso con devozione alla moglie venuta a mancare un anno fa.

Prima che la moglie morisse circa un anno fa l'82enne, come racconta Il Gazzettino, le aveva assicurato che presto sarebbe andato Medjugorie, in Bosnia e Herzegovina a pregare in quella che viene considerata una delle più celebri mete di pellegrinaggi religiosi.

Manfredi corre ai ripari: "Autovelox e strisce visibili". Elvira travolta e uccisa, proteste a Napoli: “Mia figlia doveva andare in bagno e ha chiesto un passaggio a quel pazzo”. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 2 Settembre 2022 

Una cinquantina di persone hanno manifestato in mattinata a Napoli per chiedere giustizia e maggiore sicurezza per le strade della città dopo la terribile morte di Elvira Zriba, la cameriera di 34 anni travolta e uccisa da una moto, che viaggiava a velocità sostenuta e su una ruota, la notte del 29 agosto scorso mentre era vicino ai cassonetti per gettare i rifiuti.

I manifestanti hanno bloccato per circa 30 minuti via Caracciolo, sul lungomare della città, all’altezza del luogo dove la giovane ha perso la vita, investita da una moto alla cui guida c’era un 30enne di Frattamaggiore (Napoli) che non ha mai conseguito la patente. L’iniziativa, organizzata dal consigliere regionale di Europa Verde, Francesco Emilio Borrelli, ha visto la partecipazione anche dei familiari di Elvira e del fratello di quest’ultima, Mustapha, investito e ucciso a 36 anni nel dicembre del 2021 sempre nella città di Napoli mentre si trovava su una bicicletta elettrica. Presente anche don Maurizio Patriciello, parroco sotto scorta del Parco Verde di Caivano.

“Quella notte mi sono svegliata e ho visto che non era tornata, mi sono preoccupata. Poi è arrivato mio fratello e ho capito subito che era accaduto qualcosa a Elvira” racconta in lacrime Alba, la mamma della giovane vittima. “Vogliamo il massimo della pena, non si può morire così e a me è accaduto due volte in otto mesi a miei due figli”. Poi lancia un messaggio al sindaco Gaetano Manfredi e all’amministrazione comunale: “Il Comune? Non mi hanno contattato“.

A parlare, attraverso i social, è anche il papà della ragazza che viaggiava sulla moto con il 30enne. Entrambi, che non indossavano il casco, hanno riportato ferite ma non sono in pericolo. “Mia figlia era dietro, sulla moto di quel pazzo che ha travolto Elvira. Non si può morire così. Per lui ci vuole una pena esemplare”. “Il ragazzo alla guida della moto non era un amico di mia figlia, ma un semplice conoscente. Faceva parte della comitiva di un’amica di mia figlia”, ha detto l’uomo specificando: “Mia figlia doveva andare in bagno e ha chiesto al ragazzo di accompagnarla al bar più vicino, che stava chiudendo“. Poi l’incidente. “Non pregavo solo per mia figlia ma anche per Elvira. Mia figlia come Elvira è stata vittima di quel pazzo. Ci dispiace per la sua famiglia, cose come queste non dovrebbero mai accadere”, ha concluso.

Foto di Giacomo Iacomino

Le indagini sono coordinate dalla procura e condotte dalla sezione Infortunistica della polizia municipale di Napoli, guidata dal capitano Antonio Muriano. Il 30enne è indagato per omicidio stradale e per guida senza patente, in attesa dell’esito degli esami alcolemici e tossicologici che potrebbero aggravare la sua posizione.

Intanto il sindaco Gaetano Manfredi corre ai ripari dopo la 16esima persona morta in un incidente stradale a Napoli dall’inizio del 2022: ”Abbiamo subito riattivato un programma di rifacimento della segnaletica orizzontale che nelle prossime settimane verrà completato su tutta la città, rivedremo anche meccanismi per garantire una migliore manutenzione e metteremo in campo strumenti come gli autovelox ma non potrà essere una rete molto diffusa a causa della conformazione della città”.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Quando l’uomo incrocia la morte per caso: quella linea che divide il destino dal fatalismo. Gabriele Romagnoli su La Repubblica il 28 Agosto 2022. 

I due ciclisti colpiti dal fulmine, la bimba uccisa da una statua, il ragazzo massacrato per uno scambio di persona: la tentazione di arrendersi al fato

A fare impressione è la sequenza degli avvenimenti. Una bambina gioca in un giardino e una statua di marmo, a lungo e per definizione immobile, cade proprio addosso a lei, uccidendola. Una giovane donna in vacanza passeggia per la strada e una persiana si stacca dal secondo piano di un edificio, colpendola in pieno senza concederle scampo.

Andrea Joly per “La Stampa” il 27 agosto 2022. 

Dottor Cat Berro, una morte causata da un fulmine si può evitare?

«In Italia muoiono 10-15 persone l'anno di media uccise da un fulmine. È un episodio difficile da prevenire, subdolo, e non sempre avviene sotto una nube temporalesca: basti pensare che a volte un fulmine può cadere lateralmente anche a distanza di diversi chilometri dalla nube, in modo che quasi non ci accorgiamo del pericolo, mentre sopra di noi c'è il sole. Certo oggi abbiamo degli strumenti, come le previsioni meteo. Se sono previsti temporali, meglio stare lontani dai luoghi in cui si è più esposti». 

Quali sono i luoghi più pericolosi?

«Tutti i luoghi aperti. Nel caso della montagna non tanto le Alpi interne, come Aosta o Bolzano, quanto sulla fascia prealpina, nelle zone che si affacciano alla Val Padana: Varese, Como, le prealpi venete e friulane. Lì dove i temporali più frequenti. Ma si è in pericolo anche in acqua, mare, lago o fiume che sia, e in aperta campagna».

Dove ci si mette al riparo?

«La prima accortezza, che appare banale, è quella di cercare immediatamente riparo in un edificio: è molto più difficile essere colpiti da un fulmine al suo interno. Vanno bene anche anfratti della montagna, preferibilmente senza appoggiarsi alla roccia del fondo e nemmeno restare in corrispondenza dell'apertura, che può essere un luogo di passaggio preferenziale della scarica. 

Il luogo più sicuro in cui possiamo trovarci durante un temporale è la macchina. La sua struttura metallica costituisce una Gabbia di Faraday che ci protegge. Un'altra cosa da fare è abbandonare subito i luoghi più elevati, come creste, vette. La forma appuntita del territorio, prominente, può facilitare l'innesco di un fulmine. Più ancora del materiale, che è più un luogo comune: non è detto che il metallo attiri di più di altro». 

In caso in cui non ci siano le condizioni per ripararsi?

«L'importante è evitare gli alberi, per il motivo di prima, soprattutto se isolati. Se proprio il temporale ci sorprende in una zona aperta, senza alcun rifugio, si può accucciarsi in posizione "a uovo" con i piedi uniti. Serve a evitare quella che è chiamata la "corrente di passo": anche se noi non veniamo direttamente colpiti dalla scarica, può capitare che il fulmine caduto a breve distanza sviluppi un gradiente di potenziale elettrico lungo il terreno. Se noi siamo a piedi divaricati, toccando il suolo in due punti distanti tra loro facciamo da "arco", dove si sviluppa una differenza di potenziale che fa sì che la scarica elettrica passi attraverso il nostro corpo. Questa scarica può essere letale, capita spesso agli animali quadrupedi che vengono falcidiati dai fulmini». 

Cosa fare del cellulare?

«I vecchi telefoni in casa erano pericolosi, quelli col filo dove poteva correre la scarica. Gli smartphone non rappresentano un pericolo significativo». 

Quali sono i periodi peggiori per essere colpiti?

«Al Nord l'estate, e coincide con uno dei momenti di massima frequentazione della montagna. Nell'arco della giornata è peggio al pomeriggio: meglio partire presto al mattino in modo da essere di rientro a inizio-metà pomeriggio. Nella fascia mediterranea i temporali sono invece frequenti anche in autunno e d'inverno». 

Quanto incide il cambiamento climatico?

«Difficile dirlo, ma di certo sappiamo che un'atmosfera e il mare più caldi, e quindi più energetici, forniscono più energia e vapore acqueo e fanno sì che i temporali siano più intensi. Di conseguenza anche i fulmini sono più frequenti. Indirettamente il riscaldamento globale può generare un aumento della densità delle scariche e della loro fatalità»

Rinaldo Frignani per il "Corriere della Sera" il 31 agosto 2022.

«All’improvviso un lampo, una luce bianca fortissima, poi il botto. Non ho capito più niente, nemmeno che a colpirci fosse stato un fulmine. So solo che io e Christian non sentivamo più le gambe. E poco più in là c’era Simone svenuto, immobile, con la faccia dentro una pozzanghera...». Manuel Annese è tornato a casa. Sono passati quattro giorni dallo choc vissuto sul Gran Sasso, e solo adesso il 30enne di Roma sud, esperto in sistemi di sicurezza, trova la forza per raccontare i dettagli della drammatica avventura nel cuore dell’Abruzzo.

Proprio nel giorno in cui il suo amico e collega Simone Toni, 28 anni, di Tivoli, si è svegliato dal coma farmacologico e secondo i medici dell’ospedale San Salvatore de L’Aquila, «è vigile e cosciente», ma sempre in prognosi riservata. Dimesso dallo stesso nosocomio anche l’altro amico, Christian Damiani, di 24, residente a Ostia. Toni potrebbe essersi salvato grazie alla catenina che portava al collo: potrebbe aver contribuito ad abbassare la tensione provocata dalla saetta. 

Manuel, cosa ricorda di quella mattina?

«Le nuvole comparse all’improvviso dopo che avevamo camminato per ore, almeno dalle 8.30, sui sentieri che portano all’Osservatorio, a Campo Imperatore. Abbiamo capito che il tempo stava cambiando all’improvviso e allora abbiamo deciso di scendere verso il parcheggio. Erano da poco passate le 11».

C’erano altre persone con voi?

«Avevamo incrociato una comitiva, poi ce n’era un’altra che ci seguiva a qualche centinaio di metri. Era una bella giornata, avevamo caldo ed eravamo rimasti con le magliette a maniche corte. Simone aveva parcheggiato la macchina in uno spiazzo all’inizio del sentiero. Per noi, appassionati di escursioni e camminate nella natura, era la prima volta sul Gran Sasso». 

Quindi il meteo è cambiato in un attimo...

«Esatto. E questo ci ha sorpreso non poco. Per prudenza abbiamo pensato che fosse meglio tornare indietro. Più che altro per non essere raggiunti dal temporale che si stava per abbattere sulla zona».

E poi cosa è successo?

«Eravamo a qualche centinaio di metri dal parcheggio, stavamo chiacchierando mentre camminavamo, quando in un attimo siamo stati investiti da questa luce bianca, accecante. Non so se un decimo di secondo prima o subito dopo ho sentito le gambe tremare. Era impossibile rimanere in piedi, io e Christian siamo crollati a terra. E lo stesso è successo a Simone, solo che lui è stato preso in pieno. Una sensazione indescrivibile». 

Ha capito subito che era stato un fulmine?

«In un primo momento sono rimasto paralizzato. Come Christian. Ho provato a rialzarmi, ma non ce la facevo: avevo preso una botta al ginocchio sinistro ed ero ferito alla gamba destra. Anche il mio amico non poteva muoversi, ma si lamentava. Simone invece non dava segni di vita. Eravamo disperati». 

Cosa avete fatto?

«Ci siamo trascinati con le braccia verso di lui per togliergli la faccia dalla pozzanghera. Temevamo morisse annegato. L’abbiamo girato, gli abbiamo fatto il massaggio cardiaco, Christian anche la respirazione bocca a bocca. Poi per fortuna siamo stati raggiunti dalla comitiva che ci seguiva e da una dottoressa che faceva trekking e che ha stabilizzato Simone. Sono arrivati subito anche i carabinieri forestali: avevano visto il fulmine cadere su una zona frequentata da escursionisti. Altrimenti non so come sarebbe andata a finire». 

Ma non è finita lì...

«No, perché per portarlo al parcheggio, Simone è stato preso in braccio da più persone, compresi noi due per quello che potevamo fare. Io zoppicavo: mi sono potuto rialzare solo perché avevo gli stivali alti che mi mantenevano le caviglie rigide. Il sentiero è stretto e ripido, non è stato facile, ma dovevamo fare in fretta. Non siamo solo colleghi, siamo amici che si sono conosciuti sul lavoro e sono diventati inseparabili. Adesso poi, dopo essere scampati a tutto questo, lo saremo ancora di più».

“Colpito da un fulmine, un lampo azzurro e poi il nulla”: così una guida alpina è scampata alla morte. La Stampa il 27 agosto 2022.  

Sopravvissuto miracolosamente ad un fulmine in alta montagna, ad un passo dalla morte: "Uno schermo nero che ti oscura gli occhi e una linea blu: uno vuoto e uno spostamento d'aria. E ti rendi conto della tua totale impotenza". Racconta così l'esperienza di un fulmine in montagna Davide Di Giosafatte, il presidente delle Guide Alpine d'Abruzzo, che anni fa proprio scendendo dalla cima del Gran Sasso fu gettato a terra senza gravi conseguenze dalla scarica. "Quanto accaduto non è nuovo, succede, ma certo che in passato erano meno frequenti - spiega la guida, uomo che ha conosciuto i 7 mila sull'Himalaya - Una volta le previsioni meteo inoltre erano meno attendibili, mentre ora sono più precise: io oggi per esempio lassù non ci sarei andato o almeno nelle ore cruciali mi sarei messo al riparo, a metà giornata dico. I temporali quando arrivano, arrivano.... Se mi chiedete se i cambiamenti climatici possono influire, dico che li rendono più facili, li accentuano. Ma questo riguarda l'intero rapporto dell'uomo con la montagna ed è un discorso lungo e complicato. Che ci porterebbe a parlare degli incidenti in montagna, cosa che al momento non possiamo fare". E quando si parla del Gran Sasso si parla sempre di una montagna difficile e pericolosa, che già quest'anno ha mietuto le sue vittime. A parte l'anno horribilis, il 2019 con le sue 8 vittime complessive, a giugno c'era stata la tragedia sul Corno Piccolo, dove dopo essere scivolato dalla presa, precipitato per 50 metri, morì un 30enne romano che assieme ad un collega aveva deciso di arrampicarsi sulla cima del Gran Sasso. Ad aprile Danilo Lesti, ufficiale degli alpini a Vipiteno, aveva deciso di andare sul Monte Piselli per poi essere ritrovato morto ai piedi di una parete. A questo si aggiungono altre due feriti gravi sempre sulle pareti del Gran Sasso. (ANSA).

Da Ansa il 27 agosto 2022.

Un fulmine ha colpito tre ragazzi poco sopra l'osservatorio astronomico di Campo Imperatore: due di loro sono stati sbalzati, mentre l'altro è stato trasportato all'ospedale dell'Aquila in gravi condizioni. Al momento non si conosce la provenienza dei tre escursionisti.  

S.T., il 28 enne di Tivoli colpito dal fulmine sopra l'Osservatorio Astronomico di Campo Imperatore in questo momento è in terapia intensiva in rianimazione all'Ospedale dell'Aquila.

Secondo quanto si è appreso è in grave in pericolo di vita e sottoposto al coma farmacologico. L'incidente ha coinvolto due ragazzi di 24 anni, l'altro, D.C. è di Roma, e un 28enne, A.M. sempre di Roma. Il fulmine ha colpito solo uno dei giovani escursionisti, e sarebbe uscito dal tallone per poi scaricarsi a terra.

A dare l'allarme al personale che opera intorno alla funivia è stato un altro turista che scendeva. I due compagni del ferito sono scesi a valle tramite la funivia con le loro gambe, mentre Simone, età apparente 25 anni, è stato trasportato via elicottero 118 all'Aquila. 

Secondo le testimonianze, il fulmine sarebbe caduto attorno alle 12:30, mentre sulla zona, che è ben sopra i duemila metri e che ora è in piena nebbia, in quel momento non si segnalava attività di fulmini intensa tale da poter pensare ad un pericolo imminente.

Da ansa.it il 26 agosto 2022.

L'industriale Alberto Balocco, 53 anni, titolare e amministratore delegato dell'omonima azienda dolciaria, uno dei due mountain biker morti sulla strada dell'Assietta (Torino) dopo essere stato colpito da un fulmine. E' quanto apprende l'ANSA. 

La seconda vittima è Davide Vigo, 55 anni, originario di Torino e residente in Lussemburgo.  Sul posto, lungo la strada che conduce al rifugio dell'Assietta, è stato inviato un mezzo del servizio di elisoccorso regionale, che è atterrato con notevoli difficoltà per via delle condizioni meteo. L'equipe medica ha tentato delle manovre di rianimazione cardiocircolatoria, ma senza esito. Hanno preso parte all'intervento squadre a terra del Soccorso alpino e personale dei carabinieri.

Neppure due mesi fa, il 2 luglio, un altro gravissimo lutto aveva colpito la famiglia e l'azienda dolciaria Balocco, la morte del padre di Alberto, Aldo, l'inventore del celebre panettone 'Mandorlato' e artefice della crescita dell'azienda avviata dal padre nel 1927 a Fossano (Cuneo), quando aveva aperto una piccola pasticceria. 

Alberto Balocco guidava l'azienda - 500 dipendenti e 200 milioni di fatturato nel 2022 - con la sorella Alessandra.

 "Siamo sconvolti da questa tragedia improvvisa che colpisce un amico, un imprenditore simbolo della nostra terra, che ha portato il Piemonte nelle case di tutto il mondo. Ci stringiamo in un fortissimo abbraccio alla famiglia di Alberto Balocco e a tutti i suoi cari". E' il messaggio del presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio per l'improvvisa morte dell'industriale dell'omonimo colosso dolciario.

Pragelato, colpiti da un fulmine in mountain bike: due morti. Tragedia per Alberto Balocco. Il Tempo il 26 agosto 2022

Alberto Balocco, 56 anni appena compiuti, amministratore delegato dell’omonima industria dolciaria di Fossano, nel cuneese, è morto nel pomeriggio di oggi in un drammatico incidente in montagna. Balocco, che si trovava in vacanza, in compagnia di un amico, Davide Vigo, 55 anni, originario di Torino e residente in Lussemburgo, stava compiendo una passeggiata in mountain bike nella zona dell’Assietta, nel Comune di Pragelato. I due sono stati colpiti da un fulmine e hanno perso entrambi la vita. Come spiegano i tecnici del Soccorso Alpino, la chiamata di emergenza è arrivata nel primo pomeriggio da un passante che ha visto i due ciclisti a terra, esanimi.

Sul posto è stato inviato il Servizio regionale di Elisoccorso e sono state allertate le squadre a terra del Soccorso Alpino e i Carabinieri. L’equipe sbarcata dall’elicottero in condizioni di grande difficoltà per il temporale in corso, è riuscita a raggiungere i due amici, e ha tentato una disperata manovra di rianimazione, purtroppo invano. Alberto Balocco era da diversi anni, con la sorella Alessandra, alla guida dell’azienda di famiglia che dà lavoro a circa 500 persone a Fossano e che, grazie alle intuizioni del padre Aldo, mancato a 91 anni un mese fa, si era trasformata da piccola realtà artigianale in un vero colosso del settore. Alberto Balocco lascia la moglie e tre figli. 

Alberto Balocco, le bici non hanno subito danni: come l’imprenditore piemontese è deceduto. Valentina Mericio il 27/08/2022 su Notizie.it.

Il corpo di Alberto Balocco e quello di Davide Vigo è stato folgorato dopo essere stato colpito dal fulmine. Le bici invece sono rimaste intatte. 

Le bici sulle quali viaggiavano l’imprenditore piemontese e Davide Vigo non hanno subito danni, mentre i due, dopo essere stati colpiti dal fulmine, sono rimasti folgorati. L’ennesima tragedia dunque per i Balocco che solo poco tempo fa avevano dovuto far fronte alla perdita di Aldo.

Grazie al mandorlato l’azienda era riuscita a diventare una delle più importanti a livello nazionale. Nessuno tuttavia sospettava che quell’escursione in montagna avrebbe potuto essere l’ultima.

Morte Alberto Balocco, cosa è successo in quei drammatici minuti

Stando a quanto si legge da lettoquotidiano.it, i due uomini avevano deciso di prendere le bici per fare un’escursione nella zona tra Pragelato e Sestriere. La situazione avrebbe tuttavia iniziato a peggiorare quando intorno alle 13 nuvole e fulmini si sono fatti minacciosi.

Sarebbe stato dunque in quei frangenti che i due avrebbero perso la vita proprio mentre si trovano non molto lontano dal Blegier ad una quota di 2.381 metri.

L’allarme e l’arrivo dei soccorsi

A lanciare l’allarme – riporta La Stampa – è stato un escursionista che proprio in quei momenti stava attraversando a bordo di un’auto quello stesso percorso.

Quindi la chiamata dei soccorsi. Ogni tentativo per salvarli è stato purtroppo inutile. Oltre agli operatori sanitari del 118, sono intervenuti anche i Carabinieri e gli uomini del Soccorso Alpino.

Alberto Balocco, tragico scherzo del destino: l’imprenditore aveva cambiato strada all’ultimo momento. Alice Giusti il 28/08/2022 su Notizie.it.

L'imprenditore e l'amico sono stati vittima di un tragico scherzo del destino, ecco cos'è successo prima di essere colpiti da un fulmine 

La vita è un soffio: un momento ci sei, quello dopo non ci sei più. A volte è questione di attimi e di decisioni prese all’ultimo. Ecco quello che è accaduto all’imprenditore Alberto Balocco e all’amico Davide Vigo, morti folgorati da un fulmine lo scorso 26 agosto mentre erano impegnati in una scampagnata in bicicletta che si è rivelata fatale.

Stando alle prime ricostruzioni dell’incidente che è costato loro la vita, i due amici avrebbero infatti preso una decisione all’ultimo momento che si sarebbe rivelata essere la loro condanna.

Alberto Balocco e Davide Vigo hanno cambiato strada all’ultimo momento

I due amici, in base alle informazioni in nostro possesso, hanno deciso di modificare in extremis il loro percorso proprio per evitare di passare in mezzo ai boschi durante il temporale in arrivo sul colle dell’Assietta, in provincia di Torino.

Balocco e Vigo si erano fermati per mangiare un boccone presso il rifugio Casa Assietta, a 2000 metri di altitudine, e avevano intenzione di tornare all’auto che li aveva accompagnati alla partenza della seggiovia per Spontinia.

Quando l’acquazzone si è abbattuto sull’area, i due hanno cambiato idea e hanno deciso di pedalare con le bici elettriche che avevano noleggiato sulla strada sterrata che avevano percorso poche ore prima per arrivare sul posto.

La ricostruzione dei Carabinieri ci racconta che Balocco e Vigo, dopo solo 4 chilometri di pedalata, sono stati colpiti dal fulmine mentre si trovavano fermi, con i piedi a terra e in sella alle loro biciclette.

Un terribile scherzo del destino, dunque: se avessero fatto un’altra strada e non avessero modificato i loro piani all’ultimo questa immane tragedia non sarebbe mai avvenuta.

L’industriale Alberto Balocco e un amico muoiono colpiti da un fulmine in Val Chisone. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 26 Agosto 2022.

L’altra vittima è Davide Vigo. Erano in mountain bike. Ad individuare i corpi è stato un automobilista. 

L’industriale Alberto Balocco e un amico, Davide Vigo, sono morti questo pomeriggio in Val Chisone, nei pressi del rifugio dell’Assietta, nel comune di Pragelato: erano in mountain bike.

Balocco, 56 anni (li aveva compiuti ieri), era titolare e amministratore delegato della nota azienda dolciaria di famiglia, fondata dal nonno nel 1927. Davide Vigo, 55 anni, torinese era residente in Lussemburgo.

A individuare i loro corpi è stato un automobilista el’ipotesi più accreditata è che i due appassionati di mountain bike siano stati colpiti da un fulmine.

L’allarme è scattato alle 14 e i tecnici del soccorso alpino e l’elicottero del 118 sono riusciti a raggiungere la zona nonostante il violento temporale .

L’equipe sanitaria ha avviato le manovre di rianimazione, ma ogni tentativo è stato inutile e i medici non hanno potuto far altro che constatare il decesso dei due biker.

Le salme sono state trasportate a valle in attesa di disposizioni da parte dell’autorità giudiziaria. Le indagini sull’incidente sono condotte dai carabinieri di Fenestrelle.

Il papà morto un mese fa

Poco più di un mese fa era morto il padre di Alberto, Aldo Balocco che, partendo dalla pasticceria di Fossano era stato in grado di costruire un colosso nel settore dei panettoni e dei biscotti. L’azienda, famosa per il “mandorlato” era stata lasciata ai figli Alberto e Alessandra e oggi conta un fatturato di circa 200 milioni di euro.

Alberto Balocco e Davide Vigo: quel percorso cambiato all’ultimo. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

Sono morti folgorati in Val Chisone, avevano scelto un’altra strada per via del maltempo. 

Hanno cambiato strada all’ultimo momento, per evitare di passare in mezzo ai boschi durante il temporale e proprio quella deviazione potrebbe essere stata fatale. L’imprenditore Alberto Balocco e il suo amico di vecchia data Davide Vigo, morti folgorati venerdì scorso sul colle dell’Assietta, in provincia di Torino, avevano intenzione di tornare a Sauze d’Oulx passando con le bici elettriche prese a noleggio attraverso il sentiero dei Cannoni. Si erano fermati a mangiare nel rifugio Casa Assietta, a quota 2.500 metri e dovevano ritornare a prendere l’auto che avevano parcheggiato alla partenza della seggiovia per Sportinia. Improvvisamente, però, sul colle si è abbattuta una violenta perturbazione e così hanno preferito pedalare sulla larga pista sterrata che avevano percorso all’andata. Secondo gli ultimi accertamenti dei carabinieri avevano percorso appena 4 chilometri ed erano fermi, con i piedi a terra, quando sono stati colpiti da un fulmine che li ha uccisi sul colpo.

I funerali

Ieri mattina la salma di Balocco, 56 anni, presidente e ad dell’omonima azienda dolciaria, ha raggiunto Palazzo Daviso di Charvensod, nel centro di Fossano, dove da tre generazioni vive la famiglia Balocco. Al primo piano dell’edificio seicentesco è stata allestita la camera ardente che non sarà aperta al pubblico. La cittadinanza potrà dare l’ultimo saluto all’imprenditore fossanese in occasione dei funerali, che si terranno lunedì pomeriggio nella cattedrale di Fossano, in via Roma, alle 15.30 a pochi metri dall’abitazione di famiglia.

Non è stata ancora stabilita, invece, la data dei funerali di Davide Vigo , 55 anni, l’agente di commercio torinese che si era trasferito in Lussemburgo per seguire la moglie Samantha, che lavora nell’ufficio legale della Ferrero. Per molti anni, assieme ai due figli, hanno vissuto a San Mauro Torinese, quando Vigo, seguendo le orme del padre Lorenzo, ha cominciato a ottenere grandi successi con la sua agenzia. Era un esperto di marketing e ha lavorato per grandi aziende nel settore degli elettrodomestici. Negli ultimi anni aveva creato una nuova avventura imprenditoriale nel campo degli articoli per arredamento e non appena il lavoro glielo permetteva tornava nella sua amata Jouvenceaux, a pochi chilometri da Sauze.

Balocco era uno juventino «sfegatato», Vigo tifava invece per il Torino: «Ma in maniera equilibrata, come nel suo stile — precisa l’amico e collega Marco Piano —. Davide era generoso e leale. Abbiamo cominciato a lavorare insieme, giovanissimi ed eravamo entrambi “figli d’arte”. Lui ha avuto una carriera sempre brillante e quando mi sono ritrovato senza lavoro per qualche mese, lui fece il mio nome a un’azienda e il mio orizzonte si rischiarò. Era speciale». L’ultima telefonata all’inizio dell’estate: «Stavo tornando da Cuneo, siamo rimasti al telefono fino a Carmagnola — conclude Piano —. Lo voglio ricordare così, sempre in auto, con un libro sul sedile. Era un lettore avido e di grossa cultura, che non ostentava mai».

Antonio Giaimo Francescco Falcone per "La Stampa" il 27 agosto 2022.

Nubi scure premevano sulle cime delle montagne dell'alta Val Susa, mentre insieme pedalavano sulla strada dell'Assietta. Il temporale li ha colti di sorpresa in un punto dove non potevano ripararsi. Amici da sempre, appassionati di mountain bike, di cime. I fulmini in quota si sono abbattuti sul crinale e sulla strada sterrata, in uno dei tratti più belli delle Alpi del Parco dell'Orsiera Rocciavrè. Sono morti folgorati: Alberto Balocco, 56 anni, amministratore delegato dell'omonima azienda dolciaria e un suo amico torinese, ma residente da alcuni anni in Lussemburgo, Davide Vigo, di 55 anni.

La disgrazia è avvenuta poco lontano dal Col Blegire a 2. 381 metri quota, a due passi dal Faro degli Alpini. «Lassù si è esposti al pericolo. Non ci sono ripari né alberi di alto fusto sui quali si sarebbe potuta scaricare l'energia elettrica di un fulmine - spiega Simone Bobbio, del Soccorso Alpino - i due escursionisti stavano percorrendo un tratto di strada sterrata in sella a due mountain bike elettriche, quando sulla zona si è abbattuto il temporale». 

È stato un altro escursionista a dare l'allarme. Percorrendo in auto la stessa strada, ha notato i due corpi riversi tra le pietre, con le due bici vicino. Ha avvertito il 112.

Tra i primi ad arrivare i tecnici del soccorso alpino e i carabinieri di Fenestrelle e di Sestriere. In quota è arrivato anche un elicottero del 118, con le ambulanze di Pinerolo e dalla val Chisone. Un intervento non facile in mezzo al temporale. Nonostante le condizioni meteo avverse, il pilota dell'eliambulanza è riuscito a raggiungere il luogo sfruttando uno squarcio di sereno. L'equipe medica ha raggiunto il colle ma non c'era più niente da fare. La procura di Torino ha aperto un'inchiesta: le indagini sono coordinate dal pm Francesco La Rosa.

Neppure due mesi fa era morto all'età di 91 anni il papà di Alberto, Aldo Balocco, inventore del celebre panettone «Mandorlato» protagonista del successo dell'azienda dolciaria fondata da suo padre Francesco nel 1927 a Fossano, in provincia di Cuneo, partendo da una pasticceria. «Fate i buoni» è lo slogan che ha accompagnato la crescita del marchio. Oggi l'azienda fattura oltre 180 milioni di euro. Ad Alberto si deve l'ingresso della Balocco nel mercato dei frollini da prima colazione, raggiungendo una produzione di oltre 41mila tonnellate all'anno. In azienda professava tecnologia e sostenibilità ambientale. 

Davide Vigo aveva lavorato nel settore commerciale degli elettrodomestici quando viveva a Torino. «Un uomo sportivo, pieno di vitalità» dice un amico. Sposato, due figli. Da alcuni anni si era trasferito in Lussemburgo per seguire la moglie, manager legale della Ferrero International di Alba. Davide e Alberto erano amici dall'infanzia e condividevano la passione per la montagna. Legatissimi alle vette della Val di Susa: entrambe le famiglie hanno case di villeggiatura a Sauze d'Oulx. Da lì, ieri, sono partiti per raggiungere il Col Blegire in mountain bike. L'altra sera i due amici si erano trovati con le famiglie al rifugio Ciao Pais di Sauze, luogo amato per pranzi e cene, a festeggiare i 56 anni di Balocco. 

«Davide e Alberto si conoscevano da una vita. Erano spesso insieme: le loro famiglie trascorrevano insieme anche le vacanze», racconta un conoscente. Traditi dal maltempo, durante quella gita in quota. Andrea Ferretti, il sindaco di Usseax, Comune che confina con Pragelato dove è avvenuta la disgrazia, ha visto le condizioni cambiare velocemente: «Da noi non è piovuto molto, ma in quota verso l'Assietta il cielo era scuro e in lontananza sentivo i tuoni. Erano le 13 quando è arrivato il temporale che non era stato segnalato dai siti meteo, credo che si sia trattato di un fenomeno localizzato che si è verificato in quota provocato da correnti fredde». 

Sconcertato anche il vice sindaco di Pragelato, Mauro Maurino: «Conosciamo bene il posto che richiama sempre migliaia di turisti, alcuni salgono con le mountain bike, altri con le moto, arrivano da tutta Europa per percorrere questa strada militare. Mai si era verificata una disgrazia di questa gravità, in passato si erano abbattuti dei fulmini, ma avevano colpito solo animali negli alpeggi». Aggiunge il presidente del Parco Alpi Cozie, Alberto Valfrè: «I nostri guardaparco erano a Pragelato hanno visto le condizioni meteo cambiare rapidamente. Hanno visto il cielo diventare scuro e hanno avvertito in lontananza il fragore di un paio di tuoni. Nessuno poteva immaginare una disgrazia del genere»

Alberto Balocco e Davide Vigo, il titolare di Casa Assietta: «Hanno evitato il bosco, ma se fossero passati da lì sarebbero ancora vivi». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 28 Agosto 2022.

Il gestore del rifugio, Renzo Baccarani: «Su quello sterrato nessun riparo»

«Erano allegri, abbiamo chiacchierato un po’ e mi hanno detto che sarebbero tornati indietro lungo la strada dei Cannoni. Forse se non avessero deciso di cambiare itinerario si sarebbero potuti salvare». Renzo Baccarani, titolare del rifugio Casa Assietta, è stato una delle ultime persone a parlare con Alberto Balocco e Davide Vigo. Venerdì mattina i due amici erano partiti da Sauze d’Oulx e avevano raggiunto la cima del col dell’Assietta, che divide la Val di Susa dalla Val Chisone. Dopo aver scollinato si erano fermati a mangiare al rifugio, a 2527 metri di quota: «Io non li conoscevo, magari erano già venuti qui da noi, ma non ci eravamo mai fermati a parlare — racconta il ristoratore —. Mi hanno detto di aver organizzato da parecchio tempo il giro dell’Assietta in mountain bike e che uno dei due era arrivato apposta dal Lussemburgo. Il rifugio era pieno, c’erano tanti motociclisti e quando è arrivato il maltempo sono rimasti tutti al coperto. Loro invece si sono voluti muovere subito. Da quello che ho capito dovevano tornare a prendere l’auto parcheggiata a Sauze d’Oulx, ai piedi delle piste da sci e così, dopo un pranzo leggero, si sono rimessi in sella».

Erano da poco passate le 13, ma i due ciclisti non si sono diretti verso la strada dei Cannoni: «Quando sono partiti qui non pioveva ancora. Si vedevano però le nuvole in lontananza e c’era molto vento — continua Baccarani —. Il punto dove è successo l’incidente si trova a 4 chilometri di distanza, sul sentiero dell’Assietta, quello che avevano percorso all’andata per venire qui. Probabilmente hanno preferito evitare il bosco e scelto la strada sterrata. Però su questo versante il temporale non è stato poi così violento, solo un po’ di pioggia, mentre di là ha addirittura grandinato. I nuvoloni erano tutti sopra il Sestriere e loro per tornare a Sportinia dovevano passare proprio dal col Basset. Quando mi hanno detto quello che era successo è stato uno choc. Mi dispiace davvero molto». In tanti anni passati a vivere e lavorare in montagna Baccarani non ricorda un incidente del genere: «Almeno non da queste parti e non negli ultimi anni. Sono stati davvero sfortunati, ma non riesco a smettere di pensare che se fossero passati dai boschi sarebbero potuti essere ancora vivi. Lì è uno sterrato, non c’è una pianta nel raggio di chilometri. Il posto peggiore quando ci sono i fulmini».

In base agli ultimi accertamenti eseguiti dai carabinieri della compagnia di Pinerolo, che anche ieri mattina sono ritornati in cima all’Assietta, Balocco e Vigo erano fermi a pochi centimetri l’uno dall’altro, con i piedi a terra. Forse, se fossero stati colpiti dal fulmine mentre pedalavano le conseguenze sarebbero state meno gravi. Invece i loro corpi sono stati attraversati da una potentissima scarica elettrica e non hanno avuto scampo. Secondo il medico legale che ha esaminato le salme nelle camere mortuarie di Pomaretto non ci sono dubbi sul fatto che i due biker siano stati folgorati e il pm della Procura di Torino, Francesco La Rosa, che coordina le indagini dei carabinieri, ha deciso di non disporre l’autopsia. Ieri mattina i corpi di Balocco e Vigo sono stati — di fatto — restituiti alle rispettive famiglie, ma per l’agente di commercio torinese non è stata ancora stabilita la data dei funerali. Davide Vigo, infatti, a differenza del suo amico di vecchia data, aveva espresso il desiderio di essere cremato. In questi casi la procedura burocratica è più complessa, ma dovrebbe sbloccarsi nelle prossime ore.

Le biciclette elettriche attirano i fulmini? Il caso della morte di Alberto Balocco in Val Chisone. Enrico Maria Corno, Michela Rovelli su Il Corriere della Sera il 27 Agosto 2022.

La bicicletta e la batteria non attirano i fulmini. Rimane il consiglio, alle prime gocce di pioggia, soprattutto in montagna, di mettersi al riparo ma non in aree aperte e tantomeno vicino a pali o tralicci 

Si trovavano in sella a una bicicletta elettrica - una mountain bike in fibra di carbonio - Alberto Balocco e l'amico Davide Vigo, quando sono stati sorpresi da un violento temporale. Si trovavano in Val Chisone, nel Piemonte Occidentale. Un fulmine li ha colpiti mentre stavano indossando le giacche antivento per proteggersi dalla pioggia e forse mentre pensavano di cercare riparo nel vicino rifugio. Li ha uccisi entrambi, sul colpo. Che sia pericoloso trovarsi all'aperto durante una tempesta di fulmini è cosa nota (qui i consigli su cosa fare). Ma le due ruote dotate di batteria, scelte dai due amici per la gita, possono aver aggravato la situazione?

Si stima che nel mondo le morti causate da un fulmine siano tra le 6 e le 24mila. Anche se il numero di coloro che vengono colpiti è molto più alto: spesso si sopravvive. In Italia cadono circa 1,6 milioni di fulmini ogni anno: è un fenomeno che si concentra soprattutto d'estate. E trovarsi all'aria aperta durante un temporale è sicuramente più pericoloso. Secondo i dati del Center for Disease Control and Prevention americano, dal 2006 al 2021 quasi i due terzi di decessi causati da un fulmine negli Stati Uniti riguardano persone che stavano svolgendo attività ricreative all'aperto come la pesca, la nautica, lo sport, il relax in spiaggia. O la bicicletta.

Cosa attira un fulmine? Quale situazione aggrava il pericolo? Scrive il SIRF (Sistema italiano rilevamento fulmini) sul suo sito che «ogni oggetto con un’elevazione predominante rispetto all’area circostante ha una maggior probabilità di essere colpito dal fulmine (un albero, una torre, un traliccio)». Dunque trovarsi in montagna, ad esempio, o in mezzo a degli alberi, è un rischio. Questo perché è probabile che la scarica elettrica cerchi il percorso più facile per arrivare a terra, quindi puntare su oggetti più alti o solitari significa che percorrere una distanza minore. Tuttavia, non c'è alcuna garanzia che venga privilegiato: i fulmini sono indiscriminati e spesso imprevedibili. Non è un caso che il luogo in cui il fulmine si è abbattuto sui due sfortunati sia ben sopra il livello della vegetazione in un tratto di montagna completamente spoglio. cosa che ha aumentato le possibilità di essere colpiti.

Arriviamo alle biciclette. Questo mezzo non attira fulmini più di qualunque altro oggetto: «I nostri tecnici confermano che né un telaio in carbonio né la presenza di materiale elettronico o della batteria stessa rendono una e-bike un bersaglio più facile», ci dice Donatella Suardi, general manager di Scott, la filiale del noto brand svizzero che è tra i primi produttori al mondo di e-MTB a pedalata assistita. A conferma, c'è anche ciò che è scritto sul sito del National Weather Service americano: «L'altezza, la forma appuntita e l'isolamento sono i fattori dominanti che controllano il punto in cui un fulmine colpisce. La presenza di metallo non fa assolutamente differenza sul luogo in cui il fulmine colpisce. Le montagne sono fatte di pietra, ma vengono colpite dai fulmini molte volte all'anno». E poi precisa: «Il metallo non attira i fulmini, ma li conduce». Aggiunge Donatella Suardi: «Il ciclista è per sua natura più in alto della bici e quindi attirerebbe la traiettoria del fulmine più della bici stessa, indipendentemente dai materiali con cui è stata costruita. Il fatto che l'acciaio, il carbonio o le altre leghe siano ottimi conduttori diventa secondario».

«I copertoni delle Mountain Bike sono comunque in gomma isolante, così come le manopole del manubrio. Il ciclista non pedala mai a contatto diretto con il carbonio o l'alluminio..», ci dice Dario Acquaroli, due volte campione del mondo di MTB che oggi lavora per Merida, l'azienda taiwanese che produce biciclette. Aggiungiamo anche che la batteria delle eBike è ricoperta da materiale isolante. «E' facile quindi immaginare che il fulmine si sia scaricato a terra con una potenza di milioni di volt e che abbia travolto allo stesso tempo i due ciclisti. Questa è la casistica più comune per questo genere di incidenti. In montagna sappiamo che, alle prime gocce di pioggia, dobbiamo metterci al riparo ma non in aree aperte e tantomeno vicino a pali o tralicci. Sfatiamo una volta per tutte che il carbonio o i dispositivi elettronici attirino le scariche dei fulmini».

Un punto sulla batteria della bici elettrica che stava utilizzando Alberto Balocco. No, i dispositivi elettronici non attraggono i fulmini. L'unica cosa che attrae i fulmini è appunto la forma di un oggetto, appuntito o che si erge verso l'alto. Molto discusso è infatti anche il possibile pericolo nell'utilizzare uno smartphone durante una tempesta. Si tratta ancora una volta di un mito: i telefoni cellulari sono dispositivi a bassa potenza e non hanno alcuna caratteristica che li renda attraenti per i fulmini. Quello che può essere pericoloso, in caso di tempesta, è usare un dispositivo elettronico collegato alla presa di corrente in casa.

Alberto Balocco, Fossano si ferma per i funerali dell’imprenditore. Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 29 Agosto 2022. 

A portare l’ultimo saluto al presidente dell’azienda dolciaria sono arrivate centinaia di persone da tutto il Piemonte. La figlia maggiore Diletta: «Abbiamo avuto la fortuna di essere parte della tua vita» 

Un silenzio «irreale» è calato sin dal mattino di oggi, 29 agosto, sulla città di Fossano nel giorno dei funerali di Alberto Balocco. A portare l’ultimo saluto al presidente dell’azienda dolciaria fossanese, morto venerdì scorso durante un’escursione in mountain bike a Pragelato, sono venute centinaia di persone da tutto il Piemonte.

Politici, imprenditori, ex calciatori e tanti, tantissimi comuni cittadini . Accalcati sotto i portici di via Roma, in attesa dell’uscita del feretro da palazzo Daviso, c’erano anche gli operai e i dipendenti della fabbrica fossanese. Di fronte alla cattedrale un muro di folla, con i calciatori e le giovanili del Fossano Calcio schierati in prima fila, ha accolto il corteo funebre. In testa la moglie di Alberto Susy Pinto e i figli Diletta, Matteo e Gabriele. Subito dietro la sorella Alessandra assieme al marito, le cognate e tanti altri parenti.

Tanta la commozione all’ingresso in chiesa della bara di legno chiaro, ricoperta da una corona di rose bianche. La moglie Susy, distrutta dal dolore, per tutta la durata della celebrazione ha stretto le mani dei figli. Accanto a lei, nello stesso banco, anche la cognata Alessandra, con gli lucidi coperti da occhiali scuri, assieme al marito Ruggero Costamagna e al figlio Marco. «Venerdì pomeriggio, quando è arrivata la terribile notizia, siamo rimasti tutti attoniti — ha detto dal pulpito monsignor Piero Delbosco, vescovo di Cuneo e Fossano —. Il silenzio ha avvolto tutto il Cuneese. Assieme a un interrogativo: perché? Perché proprio Alberto? Non dobbiamo vergognarci di questi dubbi. Dobbiamo fermarci a riflettere e provare a cogliere la via del Vangelo. La vita è il primo capitolo dell’esistenza e la morte è quello successivo. Alberto e il suo amico Davide Vigo, scomparso assieme a lui, non sono chiusi fra quattro assi, ma sono vicini a Dio». Il vescovo ha poi ricordato la sua ultima chiacchierata con Alberto Balocco: «Qualche tempo fa ci siamo sentiti, mi ha parlato dei tempi difficili che stiamo vivendo, ma nelle sue parole ho colto fiducia e volontà di combattere in vista di momenti migliori. Dobbiamo seguire il suo esempio».

Il momento più toccante — e significativo — è stato l’elogio funebre, quando ha preso la parola Diletta, la figlia maggiore di Alberto, che ha letto una commovente lettera indirizzata al padre: «Fortuna — ha esordito —. Sembra assurdo utilizzare questa parola in un momento come questo, ma è proprio così. Abbiamo avuto la fortuna di essere parte della tua vita. Sei stato un padre, un marito e un imprenditore meraviglioso. Il migliore in ognuno di questi ruoli. Ci hai insegnato a stringere i denti e a non mollare mai, proprio come facevi tu. Abbiamo avuto fortuna, perché ci hai amato con tutto il tuo essere e ogni tuo gesto era pieno d’amore. Ci hai insegnato a vivere. Sei stato e continuerai a essere il nostro motore. Come quando ci raccontavi per l’ennesima volta una delle tue storie, che ormai conoscevamo a memoria. Ci hai dato il tuo buon esempio, ci hai insegnato a uscire dalla nostra “comfort zone”, come la chiamavi tu. Noi lo seguiremo e a ogni passo penseremo “papà avrebbe fatto così”. Ci hai dato tutto, sei il nostro orgoglio e un punto di riferimento. Ti amiamo».

Fulvio, un amico di infanzia, ha ricordato i suoi 50 anni insieme a «Bebe», il soprannome che Alberto Balocco si portava dietro sin dalle elementari, quando frequentavano insieme le scuole delle suore domenicane: «Hai girato il mondo, ma la tua casa restava sempre Fossano. Perché noi, se non ci svegliamo guardando il Monviso, non siamo contenti. Al massimo Sauze, o Alassio. Oppure Napoli, dove sei riuscito a far innamorare la tua amata Susy. Tu e Davide avete scritto una storia bellissima, fatta di feste, avventure, complicità e musica. Eravate i più veloci di tutti, ma non lo siete stati abbastanza per scansare il fulmine che vi ha portato via. Adesso vi immaginiamo insieme, allegri e sorridenti. Pronti a combinarne ancora un’altra».

Al termine della funzione la folla silenziosa ha gremito via Roma e si aperta in due ali al passaggio della famiglia. Tutti i dipendenti si sono schierati sulla scalinata del duomo per l’ultimo saluto al «titolare buono» e un lungo applauso ha salutato la partenza del feretro: «Ciao Alberto». Il tempo del dolore non è ancora finito, ci vorrà tempo, ma la sensazione è che Fossano stia già cominciando a guardare avanti Senza mai dimenticare il passato e la storia. Quella dei Balocco.

Paolo Griseri per "La Stampa"

Con il padre e la sorella Alessandra ha guidato l'azienda di famiglia tra "desideri e sacrifici" Ai 400 dipendenti degli stabilimenti nel Cuneese diceva: "Qui non ci sono padroni, siamo uguali"

Come sempre, soprattutto nella storia delle aziende familiari, la svolta avviene di domenica, all'ora di pranzo, quando la frenesia della produzione rallenta e c'è il tempo per le discussioni importanti. È il febbraio dell'82 quando nella nuova casa di Fossano, in via Marconi, fatta costruire al posto dell'antica pasticceria di famiglia, Aldo Balocco chiama i figli Alessandra e Alberto: «Venite con me nello studio». Alessandra ha 18 anni, Alberto, "Bebe", 16. La scelta è difficile. La Nabisco, colosso americano dei biscotti, aveva proposto di rilevare l'azienda.

Nell'autobiografia ("Volevo fare il pasticcere", Rizzoli) scritta insieme al giornalista Adriano Moraglio, Alberto racconta lo stato d'animo di quel primo pomeriggio: «Siamo poco più che due ragazzi, viviamo nella "bambagia" come molti nostri coetanei, ma abbiamo capito bene, in tutti gli anni trascorsi vicino a nostro padre, quale dramma stia vivendo: un dramma di solitudine... un dramma carico di apprensione e di ragionevole realismo. Quante volte si è rigirato in testa quella frase: «Se venissi meno io, voi come fareste?». Quel pomeriggio, racconta il figlio, Aldo Balocco è «allettato dall'ipotesi di poter tirare il fiato e garantire un futuro alla sua azienda». La Nabisco, in quegli anni, è un acquirente solido. A Chicago ha il panificio industriale più grande del mondo, possiede marchi importanti come Saiwa. 

All'improvviso Alberto e Alessandra prendono in mano la situazione e convincono il padre a non farlo: «Hai dato l'anima per costruire qualcosa di bello, papà. Perché noi non dovremmo impegnarci a fare altrettanto?».

In questo quadretto di inizio anni Ottanta in una cittadina della provincia cuneese ci sono molti caratteri di quel capitalismo familiare, locale e mondiale al tempo stesso, che ha saputo trovare nella dimensione glocal la chiave del suo successo. Alberto studia economia a Torino e Milano, governa un'azienda da quasi 200 milioni di fatturato, esporta dolci in tutto il mondo. Ma i 400 dipendenti sono concentrati nei due stabilimenti produttivi di Fossano e Trinità, nel cuneese. Un legame fortissimo con il territorio, come accade ad un altro colosso dolciario cuneese, la Ferrero di Alba. La Balocco cresce in dimensioni a metà degli anni Settanta e l'impresa comincia a fare fortuna grazie al successo del suo prodotto di punta, il panettone mandorlato.

 La pubblicità su Carosello e, più recentemente, la sponsorizzazione della Juventus, rendono il marchio ancora più forte. Un amico di famiglia raccontava ieri un particolare sul carattere mite e riservato di Alberto: «Ai tempi della sponsorizzazione ci fece avere due biglietti per la partita della Juventus. Dovevamo andare tutti e tre allo stadio: io, mio padre e Alberto. Ma arrivati all'ingresso, per un disguido tecnico, non venne riconosciuto e i funzionari addetti all'ingresso non lo fecero entrare. Avrebbe potuto dire "Lei non sa chi sono io". Invece si girò e, senza dire una parola, tornò a casa».

Alberto ha la stoffa dell'imprenditore proprio perché teme di sbagliare, studia ogni mossa, sa che una decisione avventata potrebbe avere conseguenze disastrose. Lui diventa amministratore delegato, la sorella Alessandra gestisce il delicato settore del marketing. Fin dal suo ingresso in azienda, nel dicembre del 1989, sente sulle spalle il peso della storia industriale della Balocco: «Ci sono dei fili invisibili che legano mia sorella Alessandra e me ai sacrifici e ai desideri, all'impegno e alle sconfitte di mio nonno, di mio papà e di quanti avevano lavorato con loro per tirare su la Balocco». Storia ormai quasi centenaria (l'azienda è stata fondata nel 1927) e avventurosa. Con il fondatore, Antonio, antifascista, costretto a fuggire in bicicletta insieme al figlio nei sentieri delle Langhe per sfuggire alle brigate nere che devastavano i loro negozi per rappresaglia.

Anche se dice di vivere nella bambagia, il giovane Alberto non dimentica quella storia aziendale di famiglia. È un imprenditore moderno che sa ereditare dal padre Aldo un'azienda in crescita. Nel 2019 Forbes lo inserisce tra i 100 manager vincenti dell'anno. È un appassionato di sport: soprattutto bici e mountain bike, quello che ieri gli è stato fatale. Una tragedia che colpisce una dinastia industriale, come già era accaduto ai Ferrero con la scomparsa improvvisa di Pietro durante un'escursione in bicicletta in Sudafrica, nell'aprile del 2011. Alberto Balocco muore due mesi dopo il padre, Aldo, deceduto all'inizio di luglio. Lascia la moglie Susy Pinto, la ragazza di Napoli conosciuta a 21 anni. Andava a trovarla di nascosto ad Amalfi, dove poi si sarebbero sposati. Lascia tre figli: Diletta, la più grande, Matteo e Gabriele. Lascia un'azienda in salute. Dei suoi 400 collaboratori diceva: «Alla Balocco non ci sono mai stati padroni e dipendenti. Men che meno da quando siamo arrivati noi giovani. Siamo tutti insieme sotto quell'ombrello comune che si chiama lavoro». L'impresa è impresa comune, il rischio è il rischio di tutti. Sembrano drammaticamente profetiche le frasi che concludono l'autobiografia scritta nel 2016 con Moraglio: «Ce la farò? Ce la faremo anche oggi? Sono le domande che vivono dentro la coscienza di ogni imprenditore quando si trova di fronte a scelte difficili, consapevole che dietro l'angolo, anche quando tutto sembra andare bene, c'è sempre il rischio di un imprevisto, di un'emergenza che può mettere in pericolo tutto e tutti».

La tragedia sul colle dell'Assietta. L’imprenditore Alberto Balocco e un amico uccisi da un fulmine mentre erano in bici. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2022. 

Uccisi da un fulmine mentre erano in bicicletta, su una mountain bike sul colle dell’Assietta a Pragelato, in provincia di Torino e a pochi chilometri dal Sestriere. Sono morti tragicamente poco dopo le 13 di venerdì 26 agosto l’imprenditore Alberto Balocco, 56 anni compiuti ieri, amministratore delegato dell’azienda dolciaria originaria di Fossano (Cuneo), e Davide Vigo, 55enne torinese ma residente in Lussemburgo.

I due erano in vacanza e stavano facendo una passeggiata in bici quando sono stati colpiti dal fulmine. Come riferito dai tecnici del Soccorso Alpino, la chiamata di emergenza è arrivata nel primo pomeriggio da un passante che ha visto i due ciclisti a terra, esanimi. Sul posto è stato inviato un mezzo del servizio di elisoccorso regionale che è atterrato non senza difficoltà a causa delle avverse condizioni meteo. Nonostante i tentativi dei sanitari, che hanno tentato delle manovre di rianimazione cardiocircolatoria, per i due non c’è stato nulla da fare. Sul posto anche personale dei carabinieri.

“Siamo sconvolti da questa tragedia improvvisa che colpisce un amico, un imprenditore simbolo della nostra terra, che ha portato il Piemonte nelle case di tutto il mondo. Ci stringiamo in un fortissimo abbraccio alla famiglia di Alberto Balocco e a tutti i suoi cari”, è il messaggio di cordoglio inviato dal presidente della Regione Piemonte Alberto Cirio.

Balocco, sposato e padre di tre figli, è il nipote del fondatore dell’azienda dolciaria di famiglia Francesco Antonio Balocco. Il sindaco di Fossano, Dario Tallone, ha espresso il suo cordoglio alla famiglia. Il 2 luglio un altro gravissimo lutto aveva colpito la famiglia Balocco con la morte del padre di Alberto, Aldo, inventore del celebre panettone ‘Mandorlato’ e artefice della crescita dell’azienda avviata dal padre nel 1927 a Fossano (Cuneo), quando aveva aperto una piccola pasticceria. Alberto Balocco, detto “Bebe”, con la sorella Alessandra, guidava l’azienda che ha 500 dipendenti e 200 milioni di fatturato nel 2022.

L'industriale scomparso a 56 anni. Chi era Alberto Balocco, l’imprenditore dei panettoni morto colpito da un fulmine. Redazione su Il Riformista il 26 Agosto 2022 

Marito, padre, imprenditore e amante degli sport. Era questo e tanto altro Alberto Balocco, proprietario e amministratore delegato della nota azienda dolciaria di famiglia, fondata dal nonno nel 1927, morto nel pomeriggio odierno in Val Chisone assieme all’amico Davide Vigo, entrambi colpiti da un fulmine mentre erano in mountain bike.  

Di Fossano, in provincia di Cuneo, il 56enne Alberto Balocco aveva preso le redini dell’azienda dolciaria di famiglia negli anni Novanta. Partendo dai noti panettoni, la Balocco era diventata negli anni un’azienda dolciaria conosciuta in tutto il mondo anche per altri prodotti: dai biscotti ai prodotti da forno o pasquali.

La fortuna della Balocco si deve al nonno Francesco Antonio Balocco, che fondò l’azienda come una semplice pasticceria nel 1927 a Fossano, di fronte al Castello degli Acaia. Quindi il passaggio in mano ad Aldo Balocco, padre di Alberto, morto a inizio luglio di quest’anno, che trasforma il laboratorio in una vera e propria impresa nel 1948. La piccola pasticceria diventa uno stabilimento industriale, dai 30 dipendenti si arriva fino a 550.

Ma è Alberto, assieme alla sorella Alessandra, a trasforma definitivamente l’azienda di famiglia. Come racconta il Corriere della Sera, con la loro guida i profitti e la crescita salgono costantemente, il fatturato raggiunge i 200 milioni di euro nel 2021 e l’azienda punta sempre di più sul mercato estero, tanto da diventare un modello imprenditoriale in Italia.

Ed è sempre Alberto a volere i noti spot tv, quelli che vedono protagonista il “signor Balocco”. Nell’azienda entreranno anche i tre figli di Alberto, (Diletta, Matteo e Gabriele), sposato con Susy, mentre il marchio si espande conquistando ben 67 Paesi. 

Oggi la morte prematura dell’imprenditore, appassionato di sport come la barca a vela, lo sci, il windsurf. A individuare il corpo senza vita di Balocco e dell’amico Davide Vigo è stato un automobilista di passaggio.

“Siamo sconvolti – commenta il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio – da questa tragedia improvvisa che colpisce un amico, un imprenditore simbolo della nostra terra, che ha portato il Piemonte nelle case di tutto il mondo. Ci stringiamo in un fortissimo abbraccio alla sua famiglia e a tutti i suoi cari”.

I funerali dell'imprenditore folgorato da un fulmine. La lettera di Diletta Balocco al padre Alberto: “Fortuna averti avuto, sarai sempre il nostro motore”. Vito Califano su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Si sono svolti ieri a Fossano i funerali dell’imprenditore Alberto Balocco, il presidente dell’omonima azienda dolciaria della provincia di Cuneo morto venerdì scorso durante un’escursione in mountain bike con un amico a Pragelato. Alla cerimonia migliaia di persone, compresi politici, imprenditori, ex calciatori, comuni cittadini, operai e dipendenti dell’azienda. Tutti assiepati nei pressi della cattedrale, una folla che si è aperta al passaggio del feretro e della famiglia nel corteo funebre. La messa è stata officiata da monsignor Piero Delbosco, vescovo di Cuneo e Fossano.

Balocco con l’amico Davide Vigo era in cima al colle dell’Assietta, lo scorso venerdì, quando i due sono stati sorpresi da un violento temporale. Stavano tornando indietro quando poco dopo le 13:00 un fulmine ha colpito in pieno i due amici, che sono morti sul colpo, i corpi folgorati. Niente da fare per loro nonostante i soccorsi. Balocco aveva 56 anni, Vigo 55. Solo a inizio luglio la famiglia dell’imprenditore aveva pianto la morte di Aldo Balocco, padre di Alberto, 91 anni, presidente onorario dell’azienda e inventore del mandorlato che aveva reso la società un colosso nel settore dolciario.

La moglie dell’imprenditore Susy Pinto in testa al corteo, al fianco dei figli Diletta, Matteo e Gabriele. Il momento più toccante della cerimonia quando ha preso la parola Diletta, la figlia maggiore dell’imprenditore, nell’elogio funebre. “Fortuna. Sembra assurdo utilizzare questa parola in un momento come questo, ma è proprio così. Abbiamo avuto la fortuna di essere parte della tua vita. Sei stato un padre, un marito e un imprenditore meraviglioso. Il migliore in ognuno di questi ruoli. Ci hai insegnato a stringere i denti e a non mollare mai, proprio come facevi tu. Abbiamo avuto fortuna, perché ci hai amato con tutto il tuo essere e ogni tuo gesto era pieno d’amore. Ci hai insegnato a vivere. Sei stato e continuerai a essere il nostro motore. Come quando ci raccontavi per l’ennesima volte una delle tue storie, che ormai conoscevamo a memoria. Ci hai dato il tuo buon esempio, ci hai insegnato a uscire dalla nostra ‘comfort zone’, come la chiamavi tu. Noi lo seguiremo e a ogni passo penseremo ‘papà avrebbe fatto così’. Ci hai dato tutto, sei il nostro orgoglio e un punto di riferimento. Ti amiamo”.

Un amico d’infanzia dell’imprenditore, Fulvio, ha ricordato un’amicizia lunga 50 anni. “Hai girato il mondo, ma la tua casa restava sempre Fossano. Perché noi, se non ci svegliamo guardando il Monviso, non siamo contenti. Al massimo Sauze, o Alassio. Oppure Napoli, dove sei riuscito a far innamorare la tua amata Susy. Tu e Davide avete scritto una storia bellissima, fatta di feste, avventure, complicità e musica. Eravate i più veloci di tutti, ma non lo siete stati abbastanza per scansare il fulmine che vi ha portato via. Adesso vi immaginiamo insieme, allegri e sorridenti. Pronti a combinarne ancora un’altra”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Diletta Balocco: «Papà Alberto era il nostro migliore amico. Mi ha insegnato a credere in me». Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera l'1 settembre 2022.

La figlia dell’industriale morto: «Era, come diceva lui, “un ventenne dentro”, ma la sua testa era avanti anni luce e questo lo rendeva un padre ancora più speciale»

Chi era Alberto Balocco per lei e per i suoi fratelli?

«Oltre a essere padre, era anche il nostro migliore amico, aveva sempre le parole giuste. Sapeva immedesimarsi nei nostri punti di vista, seppure appartenessimo a una generazione ben diversa dalla sua. Amava allo stesso modo la musica anni Settanta e le serie Netflix, adorava circondarsi dei nostri amici, fare festa con noi era la cosa che più lo rendeva felice. Era, come diceva lui, “un ventenne dentro”, ma la sua testa era avanti anni luce e questo lo rendeva un padre ancora più speciale», risponde Diletta Balocco, 25 anni, la figlia maggiore dell’imprenditore fossanese, presidente e ad dell’azienda dolciaria di famiglia, ucciso da un fulmine venerdì scorso assieme all’amico Davide Vigo.

Quali sono gli insegnamenti e le passioni che le ha trasmesso?

«Tra gli insegnamenti di papà, in cima ci sono ambizione, umiltà e ottimismo. Ambizione, perché lo sguardo è sempre in alto. Umiltà, perché i piedi invece devono essere ben radicati per terra, perché nulla si dà per scontato. E ottimismo, perché pensare positivo non costa nulla e fa bene a tutti. La passione più grande che ci ha trasmesso è quella di viaggiare: di ritorno da qualunque viaggio, aveva già una nuova Lonely Planet sul comodino per organizzare il prossimo. Per lui, come per me, era fondamentale avere “un prossimo obiettivo”, una nuova destinazione da esplorare insieme».

Che cosa le mancherà di più di lui?

«Papà ha sempre creduto in me molto più di quanto io credessi in me stessa. Questa era per me un’incredibile fonte di sicurezza e di forza. Pensavo: “Se lui ci crede, allora forse posso farlo davvero”. Non vedevo l’ora di raccontargli le mie piccole conquiste, perché era capace di rendere motivo di orgoglio anche quelle più insignificanti. Mi mancherà condividere con lui tutto questo, ma, in qualche modo, so che si farà sentire».

C’è un ricordo che ha piacere di condividere?

«Durante le elementari spesso ci accompagnava lui a scuola, dalle suore Domenicane, qui a Fossano. Ricordo che, tenendoci per mano, facevamo ogni mattina il gioco delle capitali: la competizione stava nell’indovinare le capitali dei vari stati del mondo, chiedendole a turno a me, a mio fratello Matteo e alla nostra amica Ludovica (Gabriele era ancora troppo piccolo). Anche pochi minuti di cammino rappresentavano per lui un momento per insegnarci qualcosa».

Quanto è importante per lei il legame con Fossano, la sua città?

«Nonostante abbia passato gli ultimi anni di studio in giro per l’Europa in città meravigliose come Madrid e Parigi, ritornare tra le strade di Fossano è sempre per me come un abbraccio: sono le vie della mia infanzia, ho sempre amato girovagare tra i mattoni rossi del centro, specie d’inverno sotto le nevicate. E poi, il profumo di dolci dell’azienda, che a volte arriva fino al centro, è qualcosa che mi ha sempre fatta sentire a casa».

Dopo la laurea alla Bocconi e il master lei ha cominciato a lavorare in un’altra grande azienda e non alla Balocco. Come mai?

«La scelta è stata dettata dalla necessità di mettermi in gioco in un ambiente neutro, dove sarei stata valutata esclusivamente per la mia performance e non per il cognome o per le radici. Questo perché sentivo il bisogno di conquistare fiducia in me stessa, nelle mie capacità e acquisire la consapevolezza di quali fossero i miei punti di forza e di miglioramento».

A 25 anni, salendo sul pulpito per leggere la lettera a suo padre durante il funerale, ha mostrato forza e coraggio. Si sente pronta a raccogliere l’«eredità morale» di cui tanto si è parlato in questi giorni?

«Sono una persona piuttosto emotiva, mio padre lo sapeva bene. A convincermi a leggere la lettera è stato Fulvio, il suo amico d’infanzia (“Truf”, come lo chiamava sempre lui), che mi ha fatto capire che a papà sarebbero brillati gli occhi. E questo è bastato per tirare fuori il coraggio. I valori che la mia famiglia ha trasmesso a me e ai miei fratelli non li raccogliamo oggi: è tutta una vita che ne cogliamo i frutti. Oggi ci facciamo carico di prenderli, coltivarli e conservarli per chi verrà dopo di noi».

La morte dell'imprenditore (e dei giornali). L’incredibile titolo di Repubblica sui funerali di Balocco. Il racconto del quotidiano dalle esequie dell’imprenditore è da non credere. Invece è tutto reale. Max Del Papa su nicolaporro.it il 30 Agosto 2022.

Il Pd ha deciso di suicidarsi, anche giornalisticamente. Non bastava la demenziale comunicazione social di “scegli”, ovviamente fra alternative o suicide o truffaldine: già così perde colpi l’ammucchiata sinistra, sempre più simile agli Wackey Races, la squinternata compagnia motorizzata di Dick Dastardly, Penelope Pitstop, Clyde e la sua banda (il Pd ciociaro) e tutti gli altri, con Blubber Letta che ovviamente guida con i piedi e sempre sull’orlo di una crisi di nervi. Ma son proprio le testate di riferimento, che il Paròn Rocco avrebbe probabilmente definito “testate de gran casso”, a dare il meglio.

Sentite come hanno titolato il racconto dei funerali di Alberto Balocco, il disgraziato imprenditore dolciario folgorato da un fulmine: “Fossano, addio ad Alberto Balocco: le lacrime si mescolano al profumo di biscotti”. Tutto vero, purtroppo, nessun fake. Ovviamente su Twitter si sono scatenati: “Il titolista è un alcolista, vero?” chiede Anna. Un altro: “Saranno state gocciole di pianto”. Un altro ancora: “Per fortuna non allevava maiali”. Molti si rifiutano di crederci, “ma è un profilo parodia?”.

Perché ne circolano alcuni, a dire il vero, sul sempre meno giornalone diretto da Molinari, che non è quello della Sambuca anche se si potrebbe essere tentati di sospettarlo. E invece no, è tutto reale, ufficiale, niente coloranti e conservanti e non serve chiamare Puente, quello che vede tutto ma all’occorrenza fa finta di niente, per certificarlo. Del resto, sulla stessa sciagura sempre Rep si era già prodotta in un altro titolo epocale: “Balocco, per gli esperti fatto accidentale”. Ora, definire accidente un fulmine che ti centra, non è pleonastico, non è tautologico, e non è neanche situazionista: è repubblichino, riferito al fondatore Scalfari. Resta solo un dubbio: ma a Repubblica, che ci mettono nei biscotti? Max Del Papa, 30 agosto 2022

Ghana, uomo scavalca un recinto dello zoo di Accra per rubare un cucciolo: sbranato da un leone. Ilaria Minucci il 29/08/2022 su Notizie.it.

Un uomo è stato sbranato da un leone dopo aver tentato di rapire un cucciolo scavalcando un recinto dello zoo di Accra, in Ghana. 

Un uomo ha fatto irruzione nel recinto di uno zoo di Accra, in Ghana, presumibilmente nel tentativo di rubare un cucciolo ma è stato sbranato da un leone.

Ghana, uomo scavalca un recinto dello zoo di Accra per rubare un cucciolo: sbranato da un leone

In Ghana, un uomo ha fatto irruzione nel recinto di uno zoo presumibilmente nel tentativo di rubare un cucciolo di leone. In questo frangente, è stato subito assalito e sbranato da un esemplare adulto della specie.

I primi a rendersi conto dell’accaduto sono stati i guardiani dello zoo situato ad Accra, capitale del Ghana, che hanno rinvenuto il corpo dell’uomo, circa 30 anni, all’interno del recinto. I fatti, invece, risalgono alla giornata di domenica 28 agosto.

A parlare di furto di un cucciolo è stato il giornale online Joy Online asserendo che la vittima avrebbe fatto irruzione nel recinto per rubare un esemplare me, secondo quanto riferito dalla Commissione forestale, il movente dell’irruzione non è ancora stato accertato.

In particolare, in una dichiarazione dei funzionari dello zoo rilasciata ai media locali, si legge: “L’intruso è stato aggredito da uno dei leoni della struttura l’uomo è deceduto per le ferite riportate nell’attacco.

Il suo corpo è stato portato all’obitorio“.

La nota della Commissione forestale

Dopo l’intervento dei funzionari dello zoo, il leone, la leonessa e loro due cuccioli sono stati indirizzati in una stivasicura al fine di consentire agli agenti di polizia di recuperare il corpo della vittima e trasferirla in obitorio. Un agente, in particolare, ha dichiarato: “Stiamo indagando sul caso per stabilire come l’uomo sia entrato nell’area riservata”.

In seguito all’incidente, è intervenuta la Commissione forestale che ha affermato che i funzionari hanno effettuato un sopralluogo presso lo zoo “per garantire che tutte le strutture rimangano sicure”.

Comprano valigie all’asta, all’interno trovano i cadaveri di due bambini morti da anni. Redazione Notizie.it il 29/08/2022

La polizia neozelandese ha identificato i genitori dei due bambini trovati morti all'interno delle valigie: sono entrambi scomparsi da anni. 

Macabra scoperta in Nuova Zelanda, dove una famiglia è entrata in possesso di alcune valigie e del resto di un garage non reclamato attraverso un’asta. Il terribile ritrovamento risale allo scorso 11 agosto, quando i nuovi proprietari del garage hanno scoperto nelle valigie i resti di due bambini.

Sul caso indaga la polizia di Auckand, che ha aperto un’indagine per omicidio e ha identificato i genitori delle due vittime.

Cadaveri di due bambini nelle valigie

Le valigie in cui sono stati scoperti i resti dei bambini si trovavano nel retro di una roulotte dove sono stati ritrovati anche altri oggetti per l’infanzia, come diversi giocattoli. Quando la famiglia le ha aperte, ha trovato all’interno i due cadaveri e ha lanciato l’allarme.

Secondo quanto emerso dalle prime ricostruzioni, i due piccoli, di 5 e 10 anni, sarebbero morti da almeno 4 anni. I loro corpi non sarebbero mai stati reclamati perché i genitori, originari della Corea del Sud, sarebbero scomparsi da tempo e nella zona non si troverebbe nessun altro parente.

Più nello specifico, il padre dei due bimbi sarebbe morto di cancro nel 2017. L’anno seguente si sono perse anche le tracce della madre, che potrebbe essere tornata nel Paese d’origine dopo la morte dei figli.

Le autorità neozelandesi sono al momento in contatto con l’Interpol e con la polizia sudcoreana per cercare di rintracciare la famiglia dei piccoli, in particolare la madre, che però al momento risulta ancora irreperibile.

“Riteniamo che anche le valigie siano rimaste in deposito da diversi anni” hanno dichiarato le autorità che indagano sul caso.

La polizia di Auckland ha inoltre chiarito che la famiglia responsabile del ritrovamento dei cadaveri non è in alcun modo sospettata dell’omicidio.

Da leggo.it il 25 agosto 2022.

Un giovane spagnolo di 24 anni, incornato a morte da un toro con le corna in fiamme durante una festa locale nella città di Vallada a Valencia. Ancora una volta, un incidente mortale causato da una festa folcloristica in Spagna; quanto accaduto è stato anche ripreso da un cellulare, dove si vede chiaramente la sequenza in cui il 24enne ha perso la vita, mentre alcuni spettatori terrorizzati guardavano a pochi centimetri di distanza quanto stava accadendo, riparati dietro le ringhiere di protezione.

La vittima è stata subito portata in ospedale, dove i medici non hanno potuto fare altro che constatare la rottura della milza, provocata dalle corna del toro che hanno infilzato il giovane spagnolo, nei confronti del quale le cure si sono rivelate inutili. Le corna infuocate, fanno parte della tradizione del festival annuale di Vallada, che è stato sospeso dalle autorità locali. 

Incidenti mortali in Spagna, durante queste festività, purtroppo accadono spesso. A maggio scorso, un padre di due figli di 50 anni è morto dopo essere stato incornato da un toro a Carpio, mentre sei giorni dopo un uomo di 30 anni è morto per le ferite riportate dopo essere stato incornato a una festa dei tori a Portaje, nella Spagna occidentale. In totale sono stati dieci i morti nel 2022. 

Nel 2013, l'allora governo conservatore ha dichiarato la corrida parte del patrimonio nazionale che dovrebbe essere protetto in tutta la Spagna, bloccando di fatto qualsiasi tentativo di vietare la pratica.

Da lastampa.it il 25 agosto 2022.

Una postina di 61 anni è stata uccisa in Florida da cinque cani che l'hanno assaltata durante la consegna della posta. Gli abitanti di Interlachen Lakes States hanno raccontato di aver sentito le urla di Pamela Jane Rock, e di averla vista a terra, con i cani che le stavano sopra. I vicini, compreso il proprietario, sono intervenuti in suo soccorso. Uno di loro ha preso anche un fucile e ha sparato in aria, ma i cani non hanno subito interrotto l'attacco.

Quando la polizia è arrivata sul posto, i cani erano rinchiusi in un recinto. Le indagini diranno poi che proprio da quello spazio, spostando una pietra, i cinque cani erano scappati e avevano aggredito la donna ferma in strada per un problema al suo veicolo.

La postina è stata subito soccorsa e portata in ospedale, ma fin da subito le sue condizioni sono apparse gravi: ha avuto un arresto cardiaco in ambulanza durante il trasporto e un altro in ospedale. Il suo corpo era così martoriato che i medici, nel tentativo di salvarla le hanno anche amputato un braccio. Ma non è servito: la 61enne è deceduta.

Il proprietario dei cani ha deciso di rinunciare alla loro proprietà e verranno sottoposti a eutanasia. Secondo alcuni fonti locali sembra che i cinque cani, di cui non è stata resa nota la razza, avessero già dato dei problemi in passato e l’Animal Control avesse già fatto tre verifiche negli ultimi due anni. 

L'episodio che ha visto vittima Pamela Jane Rock ha portato alla luce un'emergenza che riguarda il lavoro di postino che, contrariamente a quello che si può pensare, negli Stati Uniti è una professione a rischio: nel solo 2021 sono stati 5.400 i postini che hanno subito aggressioni dai cani. 

Solo in Florida sono stati 201, ma è la California a guidare questa drammatica classifica con 656 attacchi registrati l'anno scorso. Segue il Texas con 368. La città con il maggior numero di episodi è Cleveland, in Ohio: nel solo 2021, sono stati aggrediti 58 postini.

Da tgcom24.mediaset.it il 25 agosto 2022.

Era stata dichiarata morta dai medici, ma si è svegliata durante il suo funerale. Trasferita di nuovo in ospedale, è morta per davvero poco dopo. La protagonista di questa clamorosa vicenda è una bambina messicana di tre anni, Camila Roxana Martinez Mendoza. La famiglia ora vuole vederci chiaro e chiede di accertare le negligenze dei sanitari. Il caso è seguito dalla procura generale dello Stato messicano di San Luis Potosí.

La prima visita - Mercoledì 17 agosto la piccola era stata portata dal pediatra in seguito a forti dolori allo stomaco e vomito. Il medico ha quindi ordinato alla madre di portarla in pronto soccorso per ulteriori accertamenti. All'ospedale messicano di Salinas de Hidalgo, la bambina è stata presa in cura per disidratazione e poi è stata dimessa, con l'indicazione di usare del paracetamolo per abbassarle la febbre.

La prima dichiarazione di morte - Una volta tornata a casa, le sue condizioni si sono ulteriormente aggravate e la famiglia ha deciso di riportarla in ospedale. In una condizione di grave disidratazione, i medici non sono riusciti a trovare una vena per farle una flebo. Dopo diversi tentativi, Camila è stata dichiarata morta. La mamma, secondo il suo racconto, non ha potuto vedere per ore la bambina fino ai funerali.

La seconda dichiarazione di morte - Durante le esequie, la famiglia ha però notato che i vetri della bara erano appannati, come se la bambina stesse ancora respirando. Ed era vero. Trasportata d'urgenza nel medesimo ospedale, i medici hanno tentato di rianimarla senza successo, per poi dichiararla morta per edema cerebrale. 

L'inchiesta - La vicenda è stata raccontata dai quotidiani inglesi, che hanno ripreso i quotidiani messicani. Sul corpo di Camila verrà ora effettuata l'autopsia. Come detto, un'inchiesta sul caso è stata aperta dalla procura generale dello Stato messicano di San Luis Potosí.

Sintesi dell’articolo di Katia Ferraro per “L’Arena”, pubblicata da “La Verità” il 24 agosto 2022.

Sconcertante scoperta a Bardolino (Verona) per alcune famiglie del paese che hanno perso un loro caro. Le ceneri dei congiunti dopo la cremazione sono state collocate in altri cimiteri perché in quello del capoluogo erano finite le cellette per le urne senza che i familiari ne fossero avvertiti. 

Nel camposanto della località sul lago di Garda, in realtà, sono esauriti anche i loculi per i feretri: c'è spazio solo per le sepolture a terra non soggette a concessione.

Qualche famiglia è stata costretta a portarsi a casa l'urna cineraria, su autorizzazione (quasi un obbligo) del Comune ma tra i dubbi dei congiunti, che avrebbero preferito collocarla in un luogo consacrato pubblico. Il sindaco Lauro Sabaini ha promesso una soluzione «forse già entro la fine dell'anno». 

Giulio De Santis per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 27 agosto 2022.

Si è appropriato dei denti d’oro dei defunti per poi cederli a un «Compro oro». È l’accusa per cui Alessandro Avati, 55 anni, dipendente dell’Ama nel servizio cimiteriale, rischia di finire sotto processo dopo la richiesta di rinvio a giudizio della Procura. Il reato: peculato. 

Oltre al dipendente dell’azienda municipale, il pm ha sollecitato il processo per altre quattro persone. Innanzitutto è imputato Andrea Ciabattini, titolare di un «Compro oro» in zona Centocelle, presso cui Avati avrebbe ceduto i denti dei defunti. Il gestore dell’esercizio commerciale, consapevole per la Procura della provenienza illecita delle protesi, avrebbe contato sull’aiuto di due persone per occultare la merce. 

Si tratta di Erasmo Fava e Arianna Bucci. Ciabattini, Fava e Bucci sono accusati di riciclaggio. Infine c’è un quinto imputato, Dashuri Bici, albanese, anche lui accusato di riciclaggio ma per un’altra storia: avrebbe montato una targa contraffatta su una Bmw rubata in Svizzera.

Le vicende risalgono al 2013 e ora la Procura sta correndo per evitare la prescrizione. Che nel caso di Avati scatterà il 27 maggio del 2023. Il dipendente Ama, va premesso, è già sotto processo insieme ad altri colleghi per la truffa , che risale al 2020, ai danni dei parenti dei defunti seguita alla mutilazione dei cadaveri. Avati in un caso, insieme ad altri quattro dipendenti Ama, avrebbe chiesto 50 euro ai familiari di un defunto dicendo che il denaro era necessario per eseguire l’estumulazione del loro caro. Soldi che, in realtà, i parenti non avrebbero mai dovuto sborsare essendo il servizio a carico dell’Ama.

In questo caso i reati per cui Avati è imputato sono vilipendio e truffa. Per quanto concerne l’appropriazione delle protesi dentarie d’oro dei defunti, questa è la ricostruzione del pm Gennaro Varone: Ama incarica, più volte fino al 2013, il dipendente di occuparsi dell’estumulazione delle salme. 

Operazione consistente nel recupero dei resti dai loculi dei cimiteri capitolini a distanza di 30 anni dalla sepoltura. Avati – difeso dall’avvocato Armando Macrillò – da quei resti sottrae le protesi dentarie d’oro. Stando ben attento a non essere scoperto dai colleghi, le fa sparire. Poi bussa alla porta del «Compro oro» di Ciabattini, difeso dall’avvocato Claudio Turci.

Il commerciante lo riceve, secondo la Procura, e a quel punto entrano in scena i suoi bracci destri. Bucci, difesa dall’avvocato Luca Montanari, e Fava, assistito dall’avvocato Marika Rossetti. Con entrambi simula la cessione dei denti per occultarne la provenienza. 

A quanto cede le protesi d’oro? La Procura non sa se la cessione sia stata onerosa o gratuita. Pertanto rimane ignoto se e quanto ha guadagnato Avati. Di certo il dipendente si è sbarazzato della refurtiva presso un’attività commerciale dedita all’acquisto di oro. 

Waterloo, le ossa dei caduti in battaglia usate per raffinare lo zucchero. Paolo Valentino il 19 agosto 2022 su Il Corriere della Sera

Il 18 giugno 1815 le armate anglo-prussiane al comando del Duca di Wellington e del maresciallo Gebhard von Blücher trionfarono contro l’esercito di Napoleone nella piana di Waterloo, in Belgio. , un massacro che vide la morte di almeno 20 mila soldati dell’una e dell’altra parte. Dello scontro che mise fine alle guerre napoleoniche si sa tutto. Generazioni di storici hanno studiato e rivelato tattiche, episodi, errori, fasi alterne della battaglia. Ma più di due secoli dopo un solo, grande mistero è rimasto irrisolto: che fine hanno fatto i cadaveri dei caduti, nonché le carcasse delle migliaia di cavalli uccisi con loro, di cui non è mai stata trovata traccia. Soltanto un mese fa, per la prima volta, gli scheletri di un soldato inglese e di un cavallo sono stati portati alla luce da una squadra di archeologi sul sito della battaglia. Ma nulla di più.

A risolvere l’enigma viene ora lo studio di due autorevoli storici, il belga Bernard Wilkin e il tedesco Robin Schäfer, che insieme all’archeologo britannico Tony Pollard hanno documentato: le ossa dei morti di Waterloo usate in modo massiccio dall’industria saccarifera belga come filtri per raffinare e sbiancare lo zucchero. Secondo gli studiosi, una parte delle ossa venne anche trasformata in fertilizzanti.

La ricerca, che verrà pubblicata in settembre ma i cui risultati sono stati anticipati dalla Frankfurter Allgemeine Zeitung e dal Daily Mail, si appoggia su decine di documenti dell’epoca fin qui inaccessibili e tratti da archivi francesi, belgi e tedeschi, fra cui articoli di giornale, ordinanze amministrative, lettere e testimonianze scritte. «Abbiamo trovato la risposta a una domanda vecchia di oltre duecento anni», spiega Wilkin, secondo il quale si tratta della scoperta più interessante mai fatta su Waterloo.

Avviata nel 1833, la coltivazione della barbabietola nell’area della battaglia fu subito seguita dalla costruzione di due grandi impianti per la produzione dello zucchero. L’anno dopo in Belgio venne liberalizzato ed esplose il commercio di ossa animali, che macinate e carbonizzate erano considerate molto più efficaci come filtro per raffinare e sbiancare il prodotto grezzo. Ma il campo di battaglia di Waterloo era occasione troppo ghiotta per gli industriali per limitarsi ai resti delle bestie. Così, iniziò la dissacrazione delle fosse comuni scavate dopo lo scontro. Molti giornali non esitarono a denunciare la pratica scandalosa: «I contadini di Waterloo arrossiscono provando vergogna e disgusto, quando vedono gli speculatori vendere nobili resti sparsi sul campo di battaglia per trasformarli in carbone osseo», scriveva La Presse in uno degli articoli citati dallo studio. Nel 1835 il quotidiano L’Independent notava: «Gli industriali hanno ottenuto il permesso di togliere i morti dalla terra dell’onore, per mutare in carbone le ossa degli eroi. Basta questo a caratterizzare un’epoca». Scrivendo sul Prager Tagesblatt, un viaggiatore tedesco che aveva visitato i luoghi, ironizzava: «Usare il miele come dolcificante vi eviterà il rischio di sciogliere i resti di vostro bisnonno nel caffè». Un’altra testimonianza citata dalla ricerca è quella di Karl von Leonhard, celebre archeologo tedesco, che racconta in una lettera di aver visto nel 1840 fosse aperte piene di scheletri umani e animali, mentre venivano vuotate. Uno di quelli che scavavano gli vantò il valore in denaro delle ossa dei granatieri che «pesavano quanto quelle dei cavalli».

Né valsero a molto i blandi tentativi di fermare la pratica sacrilega. Venne infatti largamente ignorato il decreto con cui nel 1834 il sindaco di Braine-l’Alleud, uno dei comuni dell’area della battaglia, dichiarava illegali gli scavi per raccogliere le ossa, con pene fino a un anno di carcere e 200 franchi di multa. Lo scempio continuò per molto tempo ancora. Lo studio parla di quasi 2 mila tonnellate di ossa umane e animali dissotterrate dal campo di Waterloo e vendute all’industria saccarifera.

La fabbrica chiuse nel 1860. L’industria dello zucchero in Belgio finì quando non ci furono più ossa da scavare. Per questo, gli archeologi non hanno mai trovato nulla dei resti dei morti della battaglia. Dulce et decorum est pro patria mori, è dolce e dignitoso morire per la patria, diceva Orazio. Nel caso di Waterloo, il primo aggettivo fu preso (anche troppo) alla lettera. Il secondo venne calpestato.

Schiacciata da una statua, muore a Monaco una bambina di Napoli. La piccola Lavinia, vittima di una tragedia a soli sette anni. Lavinia aveva 7 anni, era in vacanza con i genitori avvocati: «Siamo distrutti, è cambiata la nostra vita». La Gazzetta del Mezzogiorno il 27 Agosto 2022.

Uccisa dopo essere stata colpita in pieno da una statua mentre giocava: è la tragedia - ancora piena di interrogativi - avvenuta in un hotel di Monaco di Baviera, che ha coinvolto la piccola Lavinia Trematerra, sette anni appena, e che ha sconvolto per sempre la vita dei genitori, gli avvocati napoletani Michele Trematerra e Valentina Poggi. La famiglia partenopea era in vacanza nella capitale della Baviera. Secondo le prima informazioni, nel tardo pomeriggio di ieri, la bimba si trovava nel giardino dell’albergo quando è stata colpita da una statua di marmo, che l’ha schiacciata. Il padre di Lavinia, presente al momento del fatto, è subito intervenuto e ha trasportato di persona la piccola in ospedale, senza attendere l’arrivo dei soccorsi, ma per lei non c'è purtroppo stato niente da fare.

Sul terribile incidente sono in corso accertamenti da parte delle autorità tedesche, che hanno ascoltato la coppia e i gestori della struttura alberghiera al fine di ricostruire l'accaduto. I genitori della bimba sono poi rimasti in Germania per ultimare gli adempimenti necessari. Secondo le prime informazioni, la statua non sarebbe stata ancorata al suolo: i gestori dell’albergo, considerata la pesantezza, probabilmente pensavano che non si sarebbe mossa, ma così purtroppo non è stato e la statua è caduta addosso a Lavinia mentre giocava. Distrutti i genitori. «E' cambiata la nostra vita», ha detto disperato l’avvocato Trematerra ad uno dei suoi amici e colleghi che lo ha chiamato per avere conferma della notizia, mentre la moglie, l’avvocato Valentina Poggi, ha lasciato su facebook un commovente messaggio di addio per la figlia. «Sei e sarai sempre il nostro angelo rip. Amore della nostra vita» ha scritto.

Parole che hanno reso la notizia di dominio pubblico, con tanti messaggi di cordoglio che sono successivamente arrivati, soprattutto da amici e colleghi. «Affranto» è così Francesco Ambrosino, il sindaco di Ponza, che è vicino al dolore di due famiglie «amiche dell’isola», mentre sconvolto per la notizia si dice Rocco Truncellitto, che esprime il cordoglio del sindacato forense per le riforme e, idealmente, di tutti gli avvocati di Napoli e della Campania che si stringono «all’immane dolore dei colleghi Michele Trematerra e Valentina Poggi, per la tragica scomparsa della figlia Lavinia di appena sette anni, schiacciata da una statua, non fissata al suolo, in un albergo di Monaco». "La notizia - ha aggiunto Truncellito - ha lasciato esterrefatta la classe forense. La formazione cristiana mi porta alla preghiera di misericordia per Michele e Valentina, consapevole che solo chi è morto e risorto potrà rendere sopportabile la pena dei due genitori. A Lavinia, Angelo di Dio, un forte abbraccio, chiedendoLe di intercedere per il bene dell’intera umanità». 

Daniele Molteni per leggo.it il 14 agosto 2022.

Un ragazza italiana, Carlotta Grippaldi, torinese di 27 anni, è morta ieri sera a Briançon, in Francia, mentre stava passeggiando nel centro della cittadina transalpina, colpita da un' anta staccatasi dalla finestra di un edificio. Lo riportano i giornali locali. 

La ragazza, sempre secondo quanto riportato dai media locali, dopo una serata al ristorante con amici stava percorrendo la strada chiamata “Grand Rue”, situata nella parte vecchia di Briancon. 

La serranda si sarebbe staccata da una finestra al secondo piano. La giovane è morta nell'ambulanza che la stava trasportando in ospedale. L'autorità giudiziaria ha aperto un'inchiesta per il reato di "omicidio involontario".

Laureata in economia e maestra di sci nel comprensorio della Via Lattea

Carlotta aveva compiuto 27 anni il 3 agosto, era laureata in Economia e commercio all’università di Torino con un master in marketing e digital management. Appassionata di montagna, nel 2019, dopo avere superato l’esame, si era iscritta all’albo regionale dei maestri di sci, attività che esercitava nel comprensorio sciistico della Via Lattea, nel torinese.

Da corriere.it il 15 agosto 2022.

Aveva 27 anni Carlotta Grippaldi, la torinese morta dopo essere stata colpita da una persiana che si è staccata da una finestra di una casa che dava sulla Grand Rue, nel centro del Comune di Briançon, in Francia. Stava facendo due passi con un’amica nella città vecchia, sulla strada chiamata “Grand Rue”. Stavano andando al ristorante, quando l’anta della finestra l’ha travolta. Soccorsa dall’ambulanza, è morta prima di raggiungere l’ospedale.

L’autorità giudiziaria di Gap ha aperto un’inchiesta per il reato di «omicidio involontario» e sono in corso gli accertamenti per ricostruire l’accaduto e capire se c’è stato o meno un problema di manutenzione anche perché non c’era vento. 

«Ho sentito un rumore e le persone che urlavano. Sono uscito dal negozio e c’era una ragazza stesa a terra, intorno a lei i passanti che cercavano di rianimarla», ha raccontato un commerciante al quotidiano Le Dauphiné libéré. Anche per questo il sindaco Arnaud Murgia ha annunciato dei sopralluoghi per verificare le facciate del centro storico e prevenire altri distacchi.

Carlotta, una laurea in economia e commercio e un master in marketing, ad aprile aveva iniziato a lavorare alla Lavazza. Ma sognava «in grande, inizia dal piccolo ma inizia adesso» come scriveva su Linkedin. Tra le sue passioni il lavoro e la montagna. Nel 2019 aveva conseguito il diploma di maestra di sci e ogni fine settimana era sulle piste della Vialattea. 

Insegnava alla scuola Preskige, e si divideva tra la valle e Torino, dove viveva. In questi giorni di vacanza era stata in un rifugio a Sauze d’Oulx, poi a Briançon. Oggi, Ferragosto, sarebbe dovuta essere in Francia con un’amica, poi si sarebbe dovuta spostare al mare.

Carlotta Grippaldi colpita da una persiana a Briançon: muore a 27 anni mentre passeggia in strada. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

La giovane torinese stava camminando sulla Grand Rue con un’amica per raggiungere un ristorante per cena quando la persiana è crollata colpendola. È morta in ambulanza

Stava passeggiando nel centro di Briançon, in Francia, quando all’improvviso dal secondo piano di uno dei caseggiati che disegnano la cittadina montana si è staccata una persiana. L’anta della finestra le è piombata addosso con violenza e Carlotta Grippaldi, 27 anni, non ha avuto neanche il tempo di accorgersi di ciò che stava accadendo: si è accasciata a terra, colpita alla testa e al busto. Con lei c’era un’amica, che ha subito attirato l’attenzione e chiamato i soccorsi. Ma per la giovane non c’è stato nulla da fare: è deceduta mentre l’ambulanza tentava di raggiungere l’ospedale del paese.

«Ho sentito un rumore e le persone che urlavano — ha raccontato un commerciante al quotidiano Le Dauphiné libéré —. Sono uscito dal negozio e c’era una ragazza stesa a terra. Le persone cercavano di rianimarla». Una tragedia inspiegabile, su cui ora la gendarmeria cercherà di fare chiarezza. La Procura di Gap ha aperto un’inchiesta per omicidio colposo e pericolo per la vita altrui.

La passione per la montagna

Carlotta aveva compiuto 27 anni lo scorso 3 agosto. Amava la montagna e ogni volta che poteva raggiungeva le vette al confine tra Italia e Francia. Una passione maturata da ragazzina e che condivideva con la sorella Francesca, di quattro anni più giovane. La 27enne aveva conseguito il diploma di maestra di sci nel 2019 e il fine settimana insegnava sulle piste della Vialattea per la scuola Preskige. «Una ragazza solare, simpatica e piena di vita», la ricordano i colleghi che incrociava sulle piste. Nei giorni scorsi la giovane era stata in un rifugio a Sauze e dopo Ferragosto avrebbe dovuto raggiungere gli amici al mare.

«Il mio motto è “Dream big, start small, but… start now!”» scriveva Carlotta nella presentazione del proprio profilo Linkedin, in cui si descrive così: «Sono dinamica, veloce, attiva e predisposta alle pubbliche relazioni. Ho uno spiccato senso del dovere, sono precisa e attenta a ogni dettaglio». Laureata in Economia e Commercio all’università di Torino con un master in marketing e digital management, ad aprile aveva iniziato a lavorare alla Lavazza.

Sulla Grand Rue

L’incidente è avvenuto sulla Grand Rue, la via pedonale del paese, poco dopo le 19.30. Un percorso lievemente inclinato: pavimento in porfido e tanti negozietti e locali a renderla vivace in ogni stagione dell’anno. Anche sabato sera il centro era tutt’altro che deserto. Carlotta, con l’amica, stava raggiungendo un ristorante per cena quando la persiana si è staccata piombandole addosso. E ora il sindaco di Briançon Arnaud Murgia annuncia che i tecnici comunali, insieme con i vigili del fuoco, svolgeranno i sopralluoghi per verificare le facciate del centro storico e prevenire altri distacchi.

Carlotta Grippaldi, oggi i funerali. I genitori: «Impossibile comprendere e darci una ragione». L’ultimo saluto alla 27enne uccisa dal crollo di una persiana a Briançon. Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.  

«La nostra dolcissima Totta ci ha lasciato improvvisamente, con la nostra incapacità di comprendere e darci una ragione». È racchiuso in questo triste messaggio il dolore che da giorni avvolge la famiglia di Carlotta Grippaldi, la 27enne torinese deceduta lo scorso sabato a Briançon, in Francia, colpita da una persiana che si è staccata improvvisamente dal secondo piano di un edificio nel centro storico. «Totta» è il diminutivo che accompagnava la ragazza fin da quando era bambina. Le piaceva e anche da adulta lasciava che gli amici la chiamassero così. «Dolcissima Totta», come raccontano i sorrisi immortalati dalle fotografie che da giorni rimbalzano sui social accompagnati da laconici messaggi di affetto e addio. Ma in quelle poche righe, con le quali i genitori Vito e Teresita annunciano i momenti in cui sarà possibile dire addio a Carlotta, c’è anche quel senso di impotenza per l’impossibilità di razionalizzare quanto è avvenuto: «Ci ha lasciato improvvisamente, con la nostra incapacità di comprendere e darci una ragione».

Chi la conosceva parla di «destino crudele». Totta era a passeggio sulla Grand Rue, la stradina che attraversa il centro storico della località alpina. Una via vivace, punteggiata di negozietti e locali tipici. Era in compagnia di un amico e insieme stavano raggiungendo il ristorante per cena. All’improvviso, dal secondo piano di una casa che si affaccia sulla strada si è staccata la persiana. L’anta della finestra ha colpito la giovane alla testa e al busto. Carlotta si è accasciata al suolo, ha perso conoscenza e non si è più risvegliata, nonostante i disperati tentativi dei soccorritori di rianimarla: è morta in ambulanza nella corsa verso l’ospedale della cittadina montana.

Carlotta amava la montagna, era la sua passione. Ed è proprio tra le vette della Vialattea, a Sestriere, che la sua famiglia ha deciso di commemorarla. Ieri i genitori, la sorella Francesca con la quale condivideva la passione per lo sci e la nonna Cona hanno accolto gli amici che si sono presentati alla parrocchia Sant’Edoardo, a Sestriere, per il rosario. Gli occhi colmi di lacrime, gli sguardi che si abbassano e il sussurrare delle preghiere sono i simboli dello strazio che sta vivendo la comunità montana che ha visto Totta crescere sugli sci giorno dopo giorno. Sono tanti i ricordi, i momenti felici sulle piste che ora vengono custoditi gelosamente, ma che rivivono nei racconti degli amici più cari. «Infinita era per Carlotta la passione per la montagna e per l’insegnamento dello sci», scrive l’associazione dei maestri di sci italiani di cui la ragazza faceva parte. Si era diplomata nel 2019 e nei fine settimana lavorava alla scuola Preskige. Laureata in Economia e Commercio all’università di Torino con un master in marketing e digital management, ad aprile aveva iniziato a lavorare alla Lavazza. E anche i colleghi e i vertici dell’azienda torinese hanno voluto stringersi attorno alla famiglia. Oggi l’ultimo saluto. I funerali si celebreranno questa mattina, alle 11.30, nella parrocchia Beata Vergine delle Grazie, nel quartiere Crocetta. 

Da liberoquotidiano.it il 12 agosto 2022.

Una morte tragica quella di Tammy Perreault. La donna, 63 anni, è morta trafitta da un ombrellone. Tammy si trovava in spiaggia a Garden City, nel South Carolina, quando un ombrellone si è alzato a causa del vento colpendola. Stando alle autorità l'ombrellone avrebbe trafitto il petto della 63enne. Inutili i tentativi delle amiche di avvisarla, la tragedia è avvenuta in una manciata di secondi. 

"L'ombrellone è stato trascinato qui da una raffica di vento – ha detto una delle migliori amiche della donna, Sherry White – quando abbiamo cercato di evitare il peggio era ormai troppo tardi". Immediato l'intervento dei soccorritori che hanno trasportato Tammy d'urgenza in ospedale. Ma la vittima è morta di lì a poco a causa delle lesioni riportate. "Siamo disperati per la sua perdita - ha proseguito l'amica -. Alcune cose non potremo mai capirle. Nessuno potrà mai dire niente di negativo su di lei: era meravigliosa. La sua condotta deve continuare a ispirarci fino alla fine".

Tammy non è l'unica vittima. Stando alle cifre in mano all'agenzia federale, sono circa 3.000 le persone che ogni anno negli Stati Uniti muoiono trafitte dagli ombrelloni da spiaggia. E non è un caso che due senatori della Virginia, Tim Kaine e Mark Warner, abbiano chiesto maggiore sicurezza sulle spiagge.

Strage dei senza dimora, un morto ogni giorno dall'inizio dell'anno. Luca Liverani su Avvenire l'11 agosto 2022. 

Un morto ogni giorno dall’inizio dell’anno. Dal 1° gennaio a oggi in Italia 224 persone senza dimora hanno perso la vita in 223 giorni. Diverse le cause, sempre uguale il luogo: la strada. Tragedie che trovano qualche riga nelle cronache solo d’inverno, quando si attribuisce alle temperature rigide il motivo del decesso. Ma i numeri dicono che non c’è differenza tra bella e brutta stagione: a maggio-giugno 61 morti, a gennaio-febbraio 57. Non esiste l’emergenza freddo, o caldo, esiste l’emergenza strada.

I dati dell’ultima rilevazione della Fiopsd, la Federazione degli organismi per le persone senza dimora, sfatano dunque un solido luogo comune, per ribadire che la durezza della vita senza un tetto abbrutisce e uccide tutto l’anno. Fiopsd ricorda che le sue rilevazioni «non pretendono di avere carattere di scientificità», ma i dati parziali del 2022 preannunciano – con 224 morti in otto mesi appunto – un anno ben peggiore dei precedenti: nel 2021 erano stati 246, e 208 nel 2020. Il primo morto di quest’anno, il 3 gennaio, è stato Giuseppe Gargiulo, 47 anni, che si è spento per un malore a Piana di Sorrento (Na). L’ultimo – per ora – l’8 agosto è Hamed Mustafe, somalo di soli 22 anni, investito ad Ancona da un’auto.

Gli homeless dunque muoiono tutti i mesi e per le cause più diverse: nelle ultime quattro stagioni 79 sono deceduti d’inverno, 53 in primavera, altri 53 in estate e 60 in autunno. Secondo la Fiopsd «il 60% dei decessi è per incidente, violenza, suicidio, e il 40% per motivi di salute». Chi muore per strada è nel 92% dei casi maschio, due volte su tre straniero, età media 49 anni. Varie le cause di morte, ma tutte legate all’emarginazione più dura: 73 per malore, 20 investite, 19 per violenza, 16 da overdose, 14 per annegamento, 14 da ipotermia, 12 i suicidi. «Chiunque di noi viva una situazione di difficoltà fisica o psicologica – dice Michele Ferraris, responsabile comunicazione della Fiopsd – a casa troverà un rifugio in cui riprendersi. Chi vive in strada è a rischio: è solo e vedrà acuirsi il suo problema. Chi ha patologie cardiocircolatorie d’estate rischia l’infarto, un’influenza d’inverno può degenerare in polmonite». 

Dormitori e ostelli servono, ma non bastano: «Vanno lasciati al mattino e i gli ospiti passano la giornata inseguendo orari e luoghi in tutta la città dove trovare pasti, docce, vestiti. Il pubblico deve impegnarsi in progetti seri per la casa. Di soldi ne arriveranno, anche col Pnrr, vanno usati in progetti non assistenzialistici, creando reti di comunità tra pubblico e privato. Come l’housing first, che abbiamo avviato dal 2014». Cioè case per tre o quattro persone aiutate da volontari a riconquistare l’autonomia: «Quasi il 90% di successo a due anni dall’avvio». Le persone coinvolte sono 1.013 in 74 progetti, costo a persona di 26 euro al giorno.

Per Giustino Trincia, direttore della Caritas diocesana di Roma, «è uno scandalo che si ripete da anni e va affrontato impiegando il vasto patrimonio pubblico abitativo inutilizzato». I dormitori «sono risposte per la prima accoglienza, ma non ci si può vivere per mesi o anni, va recuperata un’autonomia di vita». I progetti di housing first «sono una goccia nell’oceano, senza la disponibilità di un adeguato patrimonio immobiliare restano esperienze pilota». Il volontariato ha un ruolo ineludibile, su cui però Trincia ha idee chiare: «Si smetta di pensare che il volontariato possa sostituire le responsabilità della politica e delle amministrazioni. Non deve fare supplenza, né fornire alibi. Sono problemi sistemici che chiedono un concorso di sforzi, in direzione di una vera sussidiarietà orizzontale».

«D’inverno col freddo c’è più attenzione mediatica al problema, ma le morti delle persone che vivono per strada sono costanti tutto l’anno. La bella stagione purtroppo non risolve questo dramma», afferma Augusto D’Angelo della Comunità di Sant’Egidio, uno dei responsabili del servizio ai senza dimora. «I dati dicono che le vittime sono in maggioranza stranieri. Va ripensata una strategia di protezione di queste persone che hanno un accesso ridotto ai servizi socio-sanitari, per mancanza di documenti o di residenza». L’altro è un appello a tutti alla vigilanza: «A volte per salvare una vita basta un po’ di attenzione, una bottiglia di acqua fresca, una telefonata al 112. L’attenzione di chi resta nelle città deserte di questi giorni – avverte D’Angelo – può essere risolutiva. L’estate per certi versi è peggio dell’inverno: molti servizi chiudono e diventa ancora più difficile mangiare e lavarsi».

Estratto dall'articolo di Enrico Fierro per “la Repubblica” il 10 agosto 2022.

Diverso anche nel momento della morte, e perfino dopo. Vita e morte di un obeso, con il retroscena che nessuno immagina. Marco Manganotti, 51 anni, cuoco di Castagnaro (Verona), pesava 180 chili e dopo una vita di difficoltà ha dovuto subire la sua diversità anche all'ultimo atto. E' la compagna Nadia Gasparini che, con coraggio, decide di raccontare il suo percorso a ostacoli con la speranza che la sua denuncia sortisca qualche effetto. 

"Non abbiamo potuto scegliere la bara: quella adatta a contenere una salma così grande era di un solo tipo. Marco voleva essere inserito in un loculo accanto ai genitori ma anche questo non è stato possibile, per via delle misure standard dei loculi. Ci hanno detto che perfino la bocca del forno crematorio era troppo piccola e che non ci sarebbe entrato. Allora io dico: tutto questo non è ammissibile. Stiamo abbattendo le barriere di discriminazione di tanti gruppi di persone e non abbiamo alcun riguardo per i sovrappeso".

Senza scelta

Marco Manganotti è morto il 25 giugno scorso per un cancro al colon. Era sovrappeso, 180 chili da portare generano tante patologie connesse: dal diabete all'ipertensione, all'insufficienza renale. Ma questo non gli aveva impedito di vivere la sua vita, di lavorare, di pianificare un futuro con Nadia, che lavora a Castagnaro come assistente scolastica e che stava con lui ormai da 8 anni. "L'amore che ho per lui è immenso. Non ti devi vergognare per il tuo peso, gliel'ho sempre detto. Certo non immaginavo che anche la morte ci avrebbe messi di fronte a questa diversità", dice commossa. [...] 

Cremazione impossibile

"Purtroppo in Italia riserviamo tutte le attenzioni sulla nascita ma la morte non viene considerata", ragiona Luciano Taffo, titolare dell'impresa funebre divenuta famosa per le campagne pubblicitarie e gli slogan sui social network. "Come ci sono i campi per le persone che non hanno un reddito, i cimiteri dovrebbero dotarsi di loculi per persone obese. Oppure bisognerebbe dare la possibilità di costruirsi un manufatto, per collocare una bara di particolari misure. Noi abbiamo fatto funerali a persone che pesavano anche oltre i 210 chili. Sappiamo i problemi che si incontrano, perché li viviamo tutti i giorni. Un altro problema sono i forni crematori, che vengono tutti dati in gestione ai comuni: ma un comune si muove soltanto sul campo dell'ordinario".

Nadia ci tiene quindi a combattere questa battaglia, nel nome di Marco e di tutti coloro che soffrono questa situazione. "La strada di un obeso è difficilissima" evidenzia "da qualsiasi parte tu vada sei additato come uno che mangia troppo e non si cura. Ma è un giudizio facile, non è così. In più alle spalle ci sono tante malattie che non si possono conoscere. Sarebbe una conquista se almeno in punto di morte riuscissimo a essere tutti uguali". 

Da blitzquotidiano.it il 26 luglio 2022.

Ogni anno, in tutto il mondo, 236mila persone muoiono annegate. E l’annegamento è tra le prime cause di morte nei bambini e i giovani sotto i 24 anni. 

La giornata mondiale della prevenzione contro l’annegamento

In occasione della giornata mondiale (World Drowning Prevention Day) stasera molte città vedranno i monumenti illuminarsi di blu, a partire dalla fontana Jet d’Eau di Ginevra, città sede dell’Organizzazione Mondiale della Sanità. 

Più del 90% dei decessi per annegamento, ricorda l’Oms, si verifica nei paesi a basso e medio reddito, e i bambini sotto i 5 anni sono a più alto rischio.

Claudio Del Frate per corriere.it il 30 marzo 2022.  

La famiglia che pochi giorni fa a Montreux, in Svizzera, si è suicidata gettandosi dal balcone del loro appartamento al settimo piano era ossessionata da teorie del complotto, temevano qualunque contatto con l’esterno e avevano la casa stipata all’inverosimile di scorte di cibo, quasi che pensassero di dover resistere a un lungo assedio.

Lo ha reso noto la polizia del Canton Vaud, che si sta occupando della tragica sorte di padre, madre, due figli di 15 e 8 anni e della zia di questi ultimi, sorella gemella della madre. Dell’intero nucleo solo il ragazzo quindicenne è sopravvissuto al volo dal balcone ma si trova in ospedale in coma.

Le indagini hanno escluso formalmente che terze persone possano aver avuto un ruolo nella vicenda e hanno classificato l’episodio come un suicidio collettivo. Nell’appartamento di Avenue du Casinò, nel pieno dentro della elegante località di villeggiatura sul lago di Ginevra, non sono stati rinvenuti segni che provassero la presenza di estranei. Appoggiata al balcone è stata trovata una scaletta.

Particolare agghiacciante: i componenti della famiglia si sarebbero lanciati nel vuoto uno dopo l’altro in un arco temporale di circa cinque minuti. Confermati altri particolari emersi fin dall’inizio: la famiglia era originaria della Francia, si era trasferita a Montreux nel 2016, la figlia minore non era stata nemmeno iscritta all’anagrafe locale. Lei e la madre risultavano addirittura trasferitesi in Marocco da alcuni anni.

La scena che gli inquirenti si sono trovati davanti durante il sopralluogo successivo al suicidio collettivo è stata impressionante: gran parte dei locali della casa erano ingombrati da scorte di generi alimentari o di prima necessità, nè i genitori, nè i ragazzi avevano contatti con il mondo esterno, vivevano in una sorta di eremitaggio ma nel cuore di una città, con pochissimi contatti con i vicini. Secondo le testimonianze raccolte dall’inchiesta la situazione era notevolmente peggiorata durante la pandemia. Il padre sarebbe stato ossessionato da teorie cospirazioniste, credeva di essere controllato, evitava ogni contatto per sè e per i suoi congiunti.

Confermata anche la dinamica della tragedia: alle 7 del mattino di giovedì la polizia ha suonato all’appartamento al settimo piano di Avenue du Casinò. Dovevano notificare ai genitori una convocazione da parte delle autorità scolastiche poiché il ragazzo quindicenne non andava più a scuola da mesi benché iscritto in un istituto superiore di Montreux.

Dall’interno una voce ha risposto ma non ha aperto. Gli agenti se ne sono andati e pochi minuti dopo un inquilino del palazzo ha visto i corpi precipitare uno dopo l’altro dal balcone e piombare su un cortile interno della casa.

La città italiana con il record di suicidi: il mistero che sconvolge anche gli esperti. Marco Bardesono su Libero Quotidiano il 26 marzo 2022.

La scelta di Biella come sede dell'Osservatorio Nazionale sui Suicidi non è piaciuta ai biellesi, al vescovo della diocesi monsignor Roberto Farinella e al sindaco Claudio Corradino. Non è cosa di cui andarne troppo fieri, specie perché la città ha il tasso più alto di suicidi del Piemonte, 1,43 per 10mila abitanti, ed è seguita - ma a distanza - da Cuneo (0,99) e Vercelli (0,82). Mentre l'indice della regione è allo 0,83, con un totale di 339 vittime solo nell'ultimo anno. E il tasso nazionale, certificato dai dati Istat, si ferma allo 0,71. I biellesi non negano il fenomeno, almeno in termini percentuali, ma chiariscono: «Per dirla una volta per tutte- spiega Corradino - Biella non è deprimente, sta cambiando molto ed è anche meno "orsa" (che è il simbolo della città), rispetto a prima. Ci stiamo aprendo al mondo e siamo in crescita. Non meritiamo questo titolo», cioè quello della città dei suicidi, che d'altro canto è attestato dai numeri, in effetti difficili da interpretare. Ognuno in città fa quello che può. In Curia, ad esempio, si corre ai ripari nel modo classico indicato da Santa Romana Chiesa, con il digiuno, la preghiera e con una serie di pellegrinaggi nel vicino santuario di Oropa, per affidare la gioventù alla Vergine nera che nel 1600 fece il miracolo, graziando la città dalla peste.

FASCE D'ETÀ - I numeri diffusi di recente sempre dall'Istat hanno sì individuato i giovani come i più esposti: «In questo momento c'è una certa fascia di età che trova difficoltà a esprimere la propria potenzialità - aggiunge Corradino -, non ci sono discoteche e spesso ci sono polemiche con i residenti, ma è una situazione simile a diverse province italiane», anche se il maggior numero di persone che si sono tolte la vita negli ultimi 12 mesi sono anziani o vittime di forte depressione. Poco prima di Natale ha suscitato sconcerto il suicidio del questore di Biella, Gianni Triolo, che si è ucciso nel suo ufficio. Aveva lasciato due biglietti indirizzati rispettivamente a moglie e figlio, ritrovati sulla stessa scrivania davanti alla quale il dirigente di polizia si era seduto poco prima di spararsi un colpo di pistola alla testa con l'arma di ordinanza. Appunti scritti a mano nella consapevolezza che sarebbero stati gli ultimi e che sono la prova non solo della volontarietà del gesto suicida, ma anche del fatto che fosse stato premeditato, forse a lungo. E proprio in quell'occasione, sua eccellenza monsignor Farinella ebbe a dichiarare: «Il salmo ricorda che un baratro è l'uomo, e il suo cuore è un abisso. La Vergine Maria, Regina del Monte di Oropa, sia luce, conforto, speranza in questo momento così buio». 

Un'ombra sulla città sottolineata anche, nel novembre scorso dal fumettista Zerocalcare, che aveva definito Biella (scelta come location per un suo lavoro) come una città «in cui si muore dentro». Parole che avevano suscitato la reazione del primo cittadino: «Sono da sempre un grande cultore del disegno - aveva detto Corradino -, so quanto sia importante come strumento di comunicazione per le denunce sociali, per questo invito Zerocalcare, non solo a venire a Biella ma a prendere la residenza e a farsi testimonial. C'è forse un buco in una certa generazione. Ma la città sta cambiando, non è vero che qui si muore dentro».

NUMERI NAZIONALI - E ora arriva la "tegola" nel senso simbolico del termine - dell'Osservatorio proprio sui suicidi, a malapena digerito dalla città che si sente lontana dagli ultimi numeri diffusi dall'Istat sul fenomeno. In Italia nel 2019, ultimo anno monitorato dall'istituto, coloro che si sono tolti la vita sono stati 3.680, con una incidenza maggiore al Nord. Secondo il rapporto sull'uso dei farmaci, nel 2020 si stimano tre milioni di persone depresse (la depressione è di gran lunga la prima causa di suicidio). La pandemia, poi, avrebbe ulteriormente peggiorato la situazione, si ipotizza che nel mondo, il Covid abbia generato 53,2 milioni di nuovi casi di disturbo depressivo maggiore, con un incremento del 27,6 % rispetto al 2020. In ogni caso, scegliendo Biella come sede dell'Osservatorio, «vogliamo creare un luogo - ha spiegato Raffaele Abbattista, ideatore dell'iniziativa-, dove la consapevolezza generi sensibilità e attenzione e possa sviluppare strumenti utili, perché chi ha paura e soffre, spesso si vergogna a raccontarlo».

Da ilmessaggero.it il 19 febbraio 2022.

Giallo alle porte di Bologna: resti umani e feti conservati all'interno di decine di fusti, etichettati con il simbolo dei rifiuti biologici speciali e abbandonati in un capannone della zona industriale di Granarolo, nel Bolognese. 

Lo ha scoperto la squadra Mobile di Bologna mercoledì sera appena arrivata nel magazzino, dopo essere stata chiamata da un ragazzo che recupera ferro e vecchi materiali nelle aziende della zona. La notizia è stata riportata dall'edizione locale de Il Resto del Carlino. Il ragazzo che ha fatto il macabro ritrovamento, era stato a sua volta chiamato dal titolare di una ditta che si occupa di svuotare cantine e magazzini.

Gli investigatori, coordinati dalla Procura, hanno subito avviato le indagini nel massimo riserbo. L'area, dopo il sopralluogo dei vigili del fuoco del Nucleo Nbcr, è stata messa sotto sequestro, così come i fusti. È intervenuta anche la Scientifica. I resti sono immersi in un liquido che potrebbe essere formaldeide oppure un'altra sostanza per la conservazione medica dei corpi. 

Il sospetto è che si tratti di uno smaltimento illegale da parte di qualche ospedale o clinica. Gli investigatori, a quanto si apprende, hanno già iniziato a sentire i primi testimoni per ricostruire la vicenda e capire la provenienza dei barili.

L'ipotesi è che provengano da una struttura universitaria. Bologna, feti e resti umani in barili gialli: la macabra scoperta in un capannone. Redazione su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.  

Decine di fusti gialli, etichettati con il simbolo dei rifiuti biologici speciali e con all’interno feti e resti umani. Questa l’orrenda scoperta avvenuta mercoledì sera nella zona industriale di Granarolo, in provincia di Bologna.

Erano abbandonati in un capannone, dove un ragazzo- ‘robivecchi’ della zona- li ha trovati tra mobili rotti e ferri e, spaventato, ha deciso di chiamare la polizia. La notizia è stata riportata dall’edizione locale de Il Resto del Carlino.

Il ritrovamento

Il ragazzo era stato chiamato a sua volta dal titolare di una ditta che si occupa di svuotare cantine e magazzini: stando al suo racconto, gli avrebbe chiesto di smaltire anche questi fusti gialli “da qualche parte.” Lui, prima di accettare e caricarli sul camion, vuole però prima sapere cosa contengano: ne apre uno, il coperchio si rompe. E vede un feto galleggiare in un liquido di colore verde.

Gli investigatori, coordinati dalla Procura, hanno subito avviato le indagini nel massimo riserbo, ascoltando i primi testimoni per ricostruire la vicenda e la loro provenienza. L’area, dopo il sopralluogo dei vigili del fuoco del Nucleo Nbcr e della Scientifica, è stata infatti messa sotto sequestro, così come i fusti. I resti sono immersi in un liquido che potrebbe essere formaldeide oppure un’altra sostanza utilizzata per la conservazione medica dei corpi. 

La polizia ha ascoltato alcuni dipendenti dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna, per capire come funzioni lo smaltimento dei resti biologici. Normalmente si procede alla cremazione e, nel caso di bambini che non sono nati vivi, si procede all’inumazione con il consenso delle famiglie.

“Aspettiamo tutti le indagini della procura” ha dichiarato, sentito dall’AGI, il sindaco di Granarolo dell’Emilia Alessandro Ricci.

L’ipotesi

I feti e i resti umani proverrebbero da una struttura universitaria, una biblioteca di anatomia, che probabilmente li conservava per motivi di studio e di ricerca. Stando ai primi accertamenti, alcuni anni fa, in occasione di una ristrutturazione con sgombero dei locali, i contenitori furono trasportati nel capannone di una ditta di traslochi, dove sarebbero rimasti fino allo scorso mercoledì, quando il ragazzo si è accorto del contenuto. 

La squadra mobile, coordinata dalla Procura di Bologna che ha convalidato il sequestro, ha provvisoriamente ipotizzato, in attesa di comprendere meglio i termini della vicenda, un reato legato all’illecito trattamento di rifiuti speciali a carico del titolare del capannone, che potrebbe quindi essere sentito per chiarire se fosse a conoscenza o meno del contenuto dei barili gialli.

Scoperta choc: feti e resti umani chiusi nei barili dei rifiuti industriali. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Dai primi accertamenti potrebbero provenire da un ospedale.

Un deposito di feti alle porte di Bologna. Dimenticati per anni, i resti umani provengono dai lavori di ristrutturazione della biblioteca di anatomia dell'Università. E la Procura del capoluogo emilano apre un fascicolo per «illecito trattamento di rifiuti speciali».

Chi la lasciato i dodici fusti gialli, etichettati come rifiuti biologici speciali, in un deposito nell'area industriale di Granarolo? A fare la macabra scoperta un addetto al recupero di ferro e materiale di scarto delle aziende della zona. Il ragazzo, quando si rende conto del contenuto dei bidoni, chiama il 112. Sul posto, un magazzino di una ditta di trasporti e smaltimento rifiuti in via dell'Artigianato, la squadra mobile bolognese che sequestra il materiale e avverte la Procura. Contattate varie strutture sanitarie, fra cui il policlinico Sant'Orsola, per stabilirne la provenienza.

Per il titolare dell'azienda, però, nessun mistero. «È tutto regolare, è roba di un museo - spiega ai cronisti -. Non ho assolutamente chiesto al giovane di smaltire quei rifiuti. Sono lì, in magazzino, da non so quanti anni e se avessi voluto liberarmene lo avrei fatto da tanto tempo». Il materiale, accantonato per motivi di studio nei magazzini dell'Unibo, sarebbe stato trasferito durante i lavori di sistemazione dei locali della biblioteca universitaria. Lavori che risalirebbe ad almeno una ventina di anni fa. Nessuno, poi, li avrebbe più richiesti, dimenticandoli nel capannone. «Li stavo per caricare sul mio furgone, poi mi sono reso conto del contenuto», avrebbe raccontato il «robivecchi» agli investigatori che si occupano del caso cercando di accertare eventuali responsabilità. «Al momento le indagini in corso non consentono una valutazione piena e chiara dell'accaduto - commenta il rettore dell'Unibo, Giovanni Molari - e sconsigliano di pronunciarsi, nel doveroso rispetto del lavoro svolto dagli inquirenti. Allo stesso tempo stiamo conducendo le opportune verifiche interne. Naturalmente ritengo indispensabile fare piena luce sulla vicenda e forniremo il pieno sostegno agli inquirenti». Insomma, chi si doveva occupare di recuperare il materiale accantonato nel deposito della ditta incaricata dello sgombero dell'ala dedicata allo studio e alla lettura, una volta terminati i lavori? Una dimenticanza grave secondo alcuni che sull'intera vicenda vogliono chiarire ogni passaggio. Intanto l'intera struttura è stata posta sotto sequestro preventivo dopo il sopralluogo dei vigili del fuoco del nucleo Nbcr, il gruppo specializzato chiamato a intervenire in situazioni eccezionali, quando esiste un fondato pericolo di contagio da sostanze nucleari, biologiche, chimiche o radiologiche che potrebbero provocare gravi danni a persone, animali o cose. Secondo gli esperti i fusti, ben conservati, non costituirebbero alcun pericolo. Immersi in un liquido, apparentemente formaldeide, i feti sarebbe ben sigillati all'interno dei contenitori. Il proprietario del capannone sarà interrogato per stabilire se era a conoscenza, o meno, del contenuto dei fusti. Nel ricostruire la catena degli eventi, soprattutto il perché i fusti con i feti siano finiti nel capannone, potrebbero essere accertate altre responsabilità, ma essendo passati tanti anni è possibile che eventuali reati siano prescritti.

Romina Marceca per “la Repubblica” l'11 febbraio 2022.  

Si giustifica così: «L'ho sistemata come una mummia, tutta fasciata con cura. L'ho fatto per amore, sia chiaro. Mi ripetevo che la tenevo ancora un po' con me prima che finisse sottoterra. Lo so che la legge non lo consente ma non mi volevo staccare da lei, adesso è al Verano. Non era meglio se rimaneva qui?». 

È l'orrore spiegato, dentro la sua casa di due stanze, da Antonio, 64 anni. È indagato per l'occultamento del cadavere della compagna Denise Lussagnet, una professoressa di francese morta a 90 anni nell'ottobre scorso. Lui l'ha tenuta sul divano, accanto al suo letto, per quattro mesi. 

 E forse quel cadavere sarebbe rimasto lì per molto più tempo se un maresciallo, arrivato per notificare un atto alla donna, non avesse percepito che nel comportamento di Antonio c'era qualcosa di strano. «C'è gente che tiene i morti anche per 15 anni in casa. Lo sa?». Aggiunge: «Un investigatore mi ha fatto i complimenti per come l'avevo tenuta bene. Non si sentiva nemmeno puzza. In testa avevo messo un plaid e sotto un contenitore. Era per i liquidi, sa a cosa mi riferisco?».

Snocciola la storia parlando sottovoce e chiude a chiave la porta di casa, al primo piano di via Baccio Baldini 6, una via senza uscita a pochi passi dal mercato di Porta Portese a Roma. «I vicini ascoltano - bisbiglia -. Non mi hanno mai potuto vedere perché non accettavano la nostra relazione per la differenza d'età». Nell'ingresso, ad accogliere chi entra, c'è il quadro in bianco e nero di un pagliaccio che ride. 

Tutt' attorno scatoloni e riviste che risalgono a vent' anni fa. Nella casa di Antonio, o meglio della compagna defunta, c'è un odore che brucia le narici. Antonio si muove a scatti, tocca spesso i capelli e si guarda attorno. È confuso, nervoso. «Diciamoci la verità, temevo che andando via per i funerali i vicini mi avrebbero occupato l'appartamento. È successo a Garbatella, lo sa? 

E così avrei perso il mio amore e la casa. Ho anche saputo che c'è il racket delle imprese funebri. Mi sono scoraggiato e l'ho tenuta con me», è un'altra versione che si affianca a quella sentimentale. Da un corridoio corto e buio si arriva alla camera da letto. Lì, su un divano adesso inutilizzabile, il cadavere della professoressa è rimasto per quattro mesi meno due giorni. «Il divano non si può vedere. Denise è morta il 7 ottobre.

Abbiamo unito le nostre solitudini nel 2007 e dopo 15 anni non volevo separarmi da lei», spiega con accento catanese intatto dopo oltre trent' anni a Roma. «Questo è un romanzo gotico, lo so», sgrana gli occhi. 

«D'altra parte la nostra è una storia antica. Lei era franco- ebrea. Somigliava a Liliana Segre con quei capelli color argento. La nostra vita si divideva tra il soggiorno e la camera da letto. Andavamo ai concerti e alle mostre. Guardi qui, tengo tutti i nostri ricordi», e fa vedere tanti libretti d'opera, prendendoli uno ad uno dagli scatoloni polverosi. «Il nostro amore è nato alla Casa del cinema di Villa Borghese.

C'era la rassegna di Ennio Morricone. Abbiamo subito fraternizzato. Ci univa la lirica, le mostre, i programmi televisivi di arte e politica - continua Antonio, che si professa scrittore ma non vuole che si conosca il suo cognome -. Da un anno e mezzo aveva l'Alzheimer. Mi sono accorto che è morta dalla vena sul collo che non batteva più. Perché non ho chiamato il 118? Perché mi dicevano sempre che si stava avvicinando il momento. E certo, novant' anni aveva. Non riconosceva, non capiva. Allora ho fatto da solo». 

I carabinieri escludono che ci sia un motivo economico dietro la decisione di Antonio. Dalla pensione della professoressa il compagno ha prelevato solo le somme per la spesa di tutti i giorni. I suoi pomeriggi, adesso, Antonio li trascorre passeggiando per il centro storico. «Torno nei posti in cui sono stato con lei. Poi rientro a casa e sul divano ad aspettarmi non c'è più»

Daniele Fogli: «Da 47 anni al servizio dei morti, ma che pena parlarne in famiglia». Stefano Lorenzetto su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.  

Da 47 anni vive tra i morti. A 71 potrebbe smettere, ma lui dice che si diverte così. In effetti è difficile incontrare una persona più radiosa dell’ingegner Daniele Fogli da Ferrara. Eppure è dal 1975 che si sobbarca i compiti più sgradevoli assegnabili a un essere umano. Dove collocare le salme nella prima ondata della pandemia, con la mortalità in certe zone aumentata dell’800 per cento? Chiamano Fogli. Chi riscrive i regolamenti statali e regionali di polizia mortuaria? Chiamano Fogli. Come ristrutturare, gestire o inserire nei piani regolatori i cimiteri di Roma, Torino, Bologna, Genova, Firenze, Verona, Trieste, Rovigo, Arezzo, Faenza, Asti, Gorizia, Trento, Bolzano, Como, Treviso, Mantova, Ravenna, Ancona, Forlì, Foggia, ma anche di località minori quali Casale Monferrato, Cinisello Balsamo, Paderno Dugnano, Follonica e Camaiore? Chiamano Fogli. Il massimo esperto del «dopo» ha talmente ben presente la precarietà della vita da essere uno dei pochi italiani a non aver mai chiesto un contratto di lavoro a tempo indeterminato: «Mi sono sempre accontentato di incarichi triennali». Puntualmente rinnovati. Anzi, quasi eterni, come quello di presidente del comitato tecnico della Federazione europea dei servizi funerari, ricoperto per ben 22 anni. L’ingegner Fogli è convinto che dopo la morte qualcosa resti. Infatti è anche l’esclusivista per l’Italia della olandese Orthometals, la prima multinazionale a riciclare i metalli lasciati incombusti dal fuoco in 1.250 dei 6.000 crematori sparsi nel mondo, di cui 87 nel nostro Paese.

«Tempus fugit». Ma le avanza del tempo libero, almeno?

«Poco. Lo uso per i seminari di studio. Credo d’aver formato non meno di 1.500 direttori di municipalizzate, cimiteri e imprese di pompe funebri».

Pensavo che fossimo fatti per il 65 per cento di ossigeno, per il 18,5 di carbonio, per il 9,5 di idrogeno, per il 3,3 di azoto, per l’1 di fosforo e per il 2,7 di altri elementi, oltre a 45 litri d’acqua, 1.250 grammi di calcio, zolfo pari a 2.000 fiammiferi e ferro quanto basterebbe per un chiodo lungo 2,5 centimetri.

«Dimentica dentiere, protesi ortopediche, pacemaker cardiaci, viti, placche. Una volta ho visto persino una baionetta. Solo nella mia pancia avrò dai 100 ai 150 punti metallici, esito dell’asportazione di un surrene subita a 36 anni. Vedendo lo sbrego, mio padre commentò: “Non capisco perché i chirurghi non ti abbiano completato la zip del girovita”».

Che metalli restano fra le ceneri?

«Alluminio, zirconio, vanadio, tantalio. Anche oro e argento. In media, ogni cremazione restituisce dai 300 ai 500 grammi di rifiuti metallici».

Buttarli via sarebbe un peccato.

«Di più: smaltirli comporterebbe una spesa, mentre da costo possono diventare ricavo. Lo intuì subito Ruud Verberne, quando sua figlia Nienke si ruppe una gamba sulle piste da sci. Al chirurgo ortopedico Jan Gabriëls, che stava per operarla, domandò: “Ma un giorno che ne sarà di questa protesi tanto preziosa?”. Così 25 anni fa i due si misero in società e nacque la Orthometals, che dai Paesi Bassi si è allargata fino all’Australia. Oggi ci lavora anche Nienke».

Quanti defunti si contano in Italia?

«In tempi normali, 600.000 l’anno. Più di 200.000 vengono inceneriti. In città come Milano e Bolzano la cremazione riguarda il 75 per cento delle salme. Ma nel Meridione siamo fermi a pochi punti percentuali».

Perché?

«In Sicilia, Calabria, Puglia, Basilicata e Abruzzo mancano gli impianti. Si salva la Campania, che ne ha cinque, per un totale di 13 forni».

Ci si fa cremare per risparmiare?

«Anche. La concessione del loculo al nord costa sui 5.000 euro. Ne aggiunga 4.000 per il funerale. Con la cremazione non si va oltre i 3.500 tutto compreso».

Alla fine sopravvivere è conveniente.

«Da noi la qualità del feretro incide moltissimo. In Gran Bretagna sono più attenti al corteo con le limousine».

È giusto che i morti dell’Ottocento godano di sepolture perpetue e quelli di oggi siano esumati dopo 10 anni?

«I poveri sono sempre stati trattati così. Per i cimiteri non ci sono più soldi. A Ferrara si vendevano 300-35o loculi l’anno. Ora, se va bene, uno a settimana».

Come mai a Roma e a Palermo si accatastano le bare insepolte?

«“Se la sente di preparare un progetto di ristrutturazione dei nostri cimiteri?”, mi chiese Francesco Rutelli, allora sindaco della Capitale. Risposi: ci provo, ma se non ci riesco io, non so chi altro ce la possa fare. Roma ha solo 6 forni, uno dei quali sempre fermo per manutenzione. Sarebbe bastato aggiungerne due nel camposanto più grande, Prima Porta, e due o tre al Laurentino, senza toccare quello storico, il Verano. I litigi fra la municipalizzata Ama e la giunta Raggi hanno completato il disastro».

Invece a Palermo che cos’è accaduto?

«Il Comune non ha proprio le risorse per costruire un nuovo cimitero. Lì servirebbero 4 forni, ma gestiti dall’esercito».

Dall’esercito?

«Esatto. Possibile che il crematorio di Santa Maria dei Rotoli sia l’unico in Italia che si rompe di continuo? C’è qualcuno che lavora per non farlo funzionare».

La mafia?

«Può darsi. Però non ho le prove».

Chi l’ha interpellata nel 2020 per la prima ondata pandemica?

«L’Anci, l’Associazione dei Comuni d’Italia. E subito dopo Luigi D’Angelo, direttore operativo della Protezione civile per il coordinamento delle emergenze. Non si comprendeva che cosa stesse accadendo. Mi hanno chiesto di scrivere in 48 ore alcune regole. Sono stato in chat giorno e notte con i direttori dei cimiteri e gli impresari di onoranze funebri».

Il principale consiglio che ha dato?

«Collocare le bare nei campisanti cittadini. Non serviva mandarle altrove per la cremazione. È stato un errore associare la pandemia al fuoco purificatore, come se si trattasse della peste manzoniana».

A che età vide la prima salma?

«A 11 anni. Quella del mio nonno materno, Sileno, composta nel letto. Non ho mai più pianto così tanto in vita mia».

Che cosa pensò?

«Che non fosse più lui. Io ero abituato a sentirlo parlare. Invece taceva».

Incontra bimbi nelle camere ardenti?

«Pochissimi, purtroppo. È sbagliato. Bisogna portarceli, tenuti per mano dai genitori. Devono sapere che esiste anche la morte nella vita. E guardarla. Invece la vedono solo nei videogiochi e nei telefilm, ed è quasi sempre violenta».

Lei ci avrà fatto il callo, immagino.

«Non accadrà mai. È un lavoro estremamente difficile, sa, parlare con i familiari del defunto e con gli operatori cimiteriali. I morti non sono mica tutti uguali, possono diventare mostruosi. Il personale vive di continuo il dolore e va incontro al burnout. Quelli che la gente chiama becchini talvolta si suicidano. Abbiamo svolto indagini con i medici del lavoro, per aiutarli. Devo ringraziare mia moglie, psicologa, che mi ha assistito».

Ma lei perché scelse questo lavoro?

«Per caso. Ero da due mesi e 20 giorni ispettore dell’Aviazione civile all’aeroporto di Bologna. Volevo avvicinarmi a casa. Vinsi il concorso del Comune di Ferrara. Al primo giorno di servizio, il capo tecnico dei cimiteri mi disse: “Stringi la mano a coloro che scavano le fosse, perché avvertono se hai paura di toccarli”».

Aveva davvero paura?

«Io no. Ma quando questi 100 lavoratori entravano al bar si faceva il vuoto intorno. I loro figli erano emarginati a scuola. Mi accettarono solo il giorno in cui scesi in una buca per scoprire come mai una salma sepolta da 10 anni non era ancora scheletrizzata. Oggi 95 defunti su 100 tolti dai loculi sono inconsunti, fino a 40 su 100 se esumati dalla nuda terra».

Si è mai sentito un reietto?

«Ho sofferto molto. Portavo queste angosce a casa. Non è facile parlarne a tavola. Mi è toccato mettere in conto gli sberleffi di amici e parenti: “A quale defunto hai rubato quell’abito scuro?”. Ormai sono diventato un beccamorto doc».

Ha cercato di cambiare impiego?

«Presentai domanda per diventare direttore del porto di Venezia, ma servivano cinque anni di esperienza come dirigente di un’azienda di trasporti e potei solo specificare che trasportavo morti».

I trapassati per lei sono ossa?

«A volte numeri statistici ed economici. Nel caso di bambini avverto le vibrazioni del dolore a 100 metri di distanza».

Ha deciso di farsi cremare?

«Senz’altro. È la prima scelta che feci appena iniziai a lavorare nei cimiteri».

E le ceneri dove?

«Non mi dispiacerebbe uno dei campisanti dell’Alto Adige, senza muri, attaccati alle chiese. Ma va benissimo anche la Certosa della mia Ferrara. È un museo all’aperto. Un dirigente comunista voleva farmi abbattere il monumento funebre a Giovanni Boldini: “È in stile fascista”. Non gli bastava che fosse stato occultato con una siepe quello a Italo Balbo dietro l’abside del tempio di San Cristoforo».

Ha paura della morte?

«No. Ho paura di soffrire morendo».

Ci pensa spesso?

«Penso solo a domani. Ho ancora troppe cose da imparare».

Non le pare che gli uomini d’oggi si siano dimenticati di doversi congedare?

«Sì. C’è questo senso di onnipotenza, che si accompagna a un’enorme impreparazione sul nostro destino finale. Non si tratta di una dimenticanza. La morte è stata rimossa. Crediamo di poter andare avanti in eterno. Ma non c’è una medicina per tutto. Viviamo in un mondo orribile, lo cantava anche Franco Battiato: “Ah, come t’inganni se pensi che gli anni non han da finire”. Bisogna morire».

(ANSA il 20 gennaio 2022) - Un sacerdote indù ha tagliato la testa all'uomo cui aveva chiesto di tenere ferma la pecora che intendeva sacrificare. L'orrenda uccisione è accaduta nello stato dell'Andhra Pradesh durante un festival. Chalapati, il sacerdote, è stato arrestato ieri dalla polizia. Secondo la ricostruzione dei testimoni, Chalapati ha estratto da una tasca un coltello e con un colpo deciso ha reciso il collo della vittima. 

Alcuni hanno raccontato agli inquirenti che il prete era visibilmente ubriaco, ma secondo altri il gesto è stata la vendetta intenzionale del religioso, che avrebbe litigato in passato con la vittima in merito a offerte per il tempio. Suresh, che sanguinava intensamente è stato trasportato di corsa all'ospedale di Madanapalle, dove poco dopo è deceduto. Il sacrificio di capre, pecore e agnelli è pratica ancora abituale nel Paese come gesto benaugurante all'inizio delle cerimonie induiste.

Pavia, tragedia al cimitero: ex sindaco va al funerale e muore in una botola. Libero Quotidiano il 21 gennaio 2022.

Roberto Cavanna, 77 anni, di Stradella, in provincia di Pavia è morto dopo essere caduto in una botola rimasta aperta al cimitero di Bosnasco durante il funerale di una sua parente, un'anziana di 96 anni. Una tragedia sulla quale la Procura di Pavia ha aperto un'inchiesta. Cavanna, ex bancario e in passato anche sindaco di Volpara (Pavia), in Oltrepo Pavese, non si è accorto dell'apertura nel pavimento (per accedere ai sotterranei del cimitero) che a quanto sembra non era segnalata a dovere. 

L'uomo è stato tirato fuori grazie all'intervento dei vigili del fuoco ed è stato trasportato in ambulanza al Policlinico San Matteo di Pavia. Le sue condizioni, che inizialmente non sembravano gravi, sono peggiorate con il trascorrere delle ore sino al decesso, nonostante i tentativi dei medici di rianimarlo. 

Ora la salma è stata messa a disposizione dell’autorità giudiziaria. L'ipotesi di reato sulla quale si indaga è omicidio colposo. Gli inquirenti hanno già sentito gli addetti del Comune di Bosnasco (Pavia) che si occupano della gestione del cimitero e i dipendenti della impresa di onoranze funebre che ha curato il funerale. Non si esclude che presto vengano emessi alcuni avvisi di garanzia. Sono stati ascoltati anche i familiari di Cavanna, per ricostruire la dinamica della caduta dell'uomo nella botola. 

Da leggo.it il 24 gennaio 2022.

Un selfie mortale. E' la tragedia che ha colpito Roberto Frezza, un ragazzo 20enne di Bagno a Ripoli, in provincia di Firenze, precipitato dalla tettoia della scala antincendio della sua ex scuola, l'istituto "Gobetti Volta". Il ragazzo e un suo amico avrebbero scavalcato il cancello di ingresso della struttura, nella notte tra il 22 e il 23 gennaio, probabilmente per scattarsi una foto. 

Come riporta la Nazione, nonostante Roberto sia stato portato subito in ospedale, le sue condizioni erano apparse sin da subito molto gravi. A raccontare cosa è successo è l'amico di Roberto che, sentito dai carabinieri, ha spiegato: «Mi ha detto vieni, si va a vedere la scuola dove ho studiato». Una volta arrivati sul posto, hanno scavalcato il cancello d'ingresso.

«C’è una specie di muretto da saltare per arrivare alla piattaforma calpestabile della scala in metallo - ha detto ancora -, il tutto coperto da una tettoia in lamiera. Io nel buio a un certo punto non l’ho più visto, l’ho chiamato forte, più volte, sono sceso giù a rotta di collo e l’ho trovato disteso».

Dagotraduzione dal Daily Mail il 24 gennaio 2022.

Una donna russa di 40 anni, madre di due figli, è morta dopo essersi tuffata in un fiume ghiacciato per celebrare l’Epifania ortodossa. La donna, infatti, si è buttata nel fiume Oredezh, vicino a Vyra, un villaggio a sud di San Pietroburgo, sfruttando un buco realizzato nello spesso strato di ghiaccio che si è formato sul corso d’acqua. Ma non appena è entrata dentro è scomparsa, probabilmente trascinata dalle forti correnti. 

Tutto l’incidente è stato ripreso in un video, in cui si vede la donna con un costume intero nero prima farsi il segno della croce, poi tuffarsi, e scomparire con l’inserviente che inizia a gridare aiuto. A quel punto un uomo, probabilmente il marito, si butta nel buco ma non riesce a trovarla. Intanto si sentono le grida dei figli della donna che gridano «Mamma, mamma!». La temperatura dell’aria era di circa -5°C quando la donna è saltata dentro. Né il marito né i sommozzatori intervenuti dopo hanno trovato il corpo della donna.

La donna intendeva immergersi nelle acque per celebrare l’Epifania cristiana-ortodossa, una tradizione seguita ogni anno da centinaia di migliaia di credenti russi. Le persone credono che l’acqua benedetta possieda speciali proprietà curative. Alcune persone si immergono nelle acque gelide sole, altre prendono parte alle celebrazioni in gruppi ricordando il battesimo di Gesù nel fiume Giordano. 

Alexander Zuyev, capo del servizio di soccorso di emergenza VOSVOD, ha criticato il posizionamento del buco nel ghiaccio in un punto in cui il fiume ha forti correnti. «La donna è andata a fare un tuffo in un luogo dove non ci sono soccorritori né un’illuminazione adeguata in una buca di ghiaccio inadatta». «È uno dei fiume più pericolosi della regione di Leningrado e la gente vi affoga ogni anno, anche in estate. La donna è stata semplicemente portata via dal flusso».

·         L’Eutanasia. 

Che razza di Stato è quello che permette di uccidere in grembo un bimbo sano che non vuol morire e poi nega una morte dignitosa ed assistita all’adulto che vuol morire per le atroci sofferenze?  

Da 6 anni malato di sclerosi multipla: "Sono costretto ad andarmene via, per andarmene via". Suicidio assistito, Massimiliano morto a 44 anni in una clinica in Svizzera: “Raggiunto il mio sogno”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Massimiliano aveva 44 anni ed era malato di sclerosi multipla. È morto ieri in Svizzera, dove ha potuto accedere al suicidio assistito, dopo non essere riuscito a ottenerlo in Italia. “Perché non posso farlo qui in Italia? A casa mia, anche in un ospedale, con i parenti, gli amici” vicino. “No, devo andarmene in Svizzera. Non mi sembra una cosa logica questa”, ha detto nel suo ultimo messaggio. “Sono costretto ad andarmene via, per andarmene via”. A dare la notizia l’associazione Luca Coscioni che ha seguito e offerto assistenza al 44enne.

Massimiliano aveva “già prenotato l’appuntamento in Svizzera, ma stava aspettando una risposta da parte della politica italiana, che però non è arrivata”. Era malato da sei anni, lunedì scorso aveva lanciato un appello per poter morire a casa sua, in Italia. “Sono quasi completamente paralizzato e faccio fatica anche a parlare. Da un paio di anni siccome non ce la faccio più” ho iniziato “a documentarmi su internet su metodi di suicidio indolore”, e “finalmente ho raggiunto il mio sogno. Peccato che non l’ho raggiunto in Italia, ma mi tocca andare all’estero”.

L’appello invitava la politica a intervenire, “perché venga fatta una legge per tutti quelli come me. Mi sono offerto volontario per questa battaglia legale. Sono già morto. Mi manca tutto: il mio lavoro di manutentore in un villaggio turistico, suonare, uscire con gli amici e divertirmi. Non ho più nulla“. Massimiliano raccontava nel suo ultimo appello che poteva muoversi solo in sedia a rotelle, con l’aiuto di qualcuno, non sono più autonomo in niente. La malattia progredisce e peggiora giorno dopo giorno, riesco ancora a muovere il braccio destro, ma mi sta abbandonando pure lui, non ha più presa, mi sento intrappolato in un corpo che non funziona più. Se non avessi paura del dolore avrei già provato a togliermi la vita più di un anno fa. Per questo, vorrei essere aiutato a morire, senza soffrire, in Italia. Ma non posso perché non dipendo da trattamenti vitali. Sto pensando di andare in un altro Paese”.

Il 44enne è stato accompagnato in una clinica in Svizzera “da Felicetta Maltese, 71 anni, iscritta all’associazione Luca Coscioni e attivista della campagna Eutanasia Legale e da Chiara Lalli, giornalista e bioeticista”. Entrambe le donne oggi andranno ad autodenunciarsi ai carabinieri di Firenze, accompagnate dall’avvocatessa e segretaria dell’Associazione Coscioni Filomena Gallo. “Oggi la politica si volge dall’altro lato. Fa finta che queste richieste non esistano. Lo abbiamo visto anche con Massimiliano. Non c’è stata nessuna presa di atto rispetto al suo appello. Almeno potevano rispondere, dire che non è una priorità di questa legislatura. Ma il compito del legislatore rimane, perché deve emanare leggi che riguardino tutti i cittadini”, ha dichiarato Gallo. 

“Questi malati sono discriminati, anche se la loro volontà è la stessa di chi ha sostegni vitali. E la Corte costituzionale fin dal 2018 ha rilevato che nel nostro ordinamento c’era un `vulnus´. La Corte lo ha cercato di colmarlo parzialmente con i mezzi a disposizione, con una sentenza di incostituzionalità, ma non poteva emanare una legge. Ha chiesto al Parlamento di intervenire” e invece “il Parlamento ha fatto un tentativo nella scorsa legislatura che era addirittura un passo indietro e introduceva nuovi ostacoli. Per fortuna quella legge non è stata emanata. Come Associazione Coscioni noi proponiamo al Parlamento di intervenire proponendo una buona legge e attivando le giurisdizioni. I malati che hanno chiesto aiuto a Marco Cappato volevano essere liberi di scegliere e non mettere a rischio i propri cari”.

A lanciare un appello per il figlio anche il padre di Massimiliano, Bruno, apparso in un video accanto al 44enne. “È cosciente della sua vita. Lui è lucido di mente. È arrivato a questo punto qui perché non ce la fa più. Non ce la fa più. È una sofferenza continua, giorno dopo giorno. È un volere suo, perché deve negare questo volere. Il corpo è suo, lo sente lui cosa soffre. E noi non possiamo dire di no. Sarebbe solo egoismo, per farlo soffrire ancora di più. Vorrei che fosse una cosa fatta in Italia”. Quattro sono le condizioni stabilite dalla storica “sentenza Cappato” sul caso di Dj Fabo della Corte Costituzionale nel 2019 a partire dalla quale era stato depenalizzato in alcuni casi l’aiuto al suicidio: che il paziente sia tenuto in vita da trattamento di sostegno vitali; che sia affetto da una patologia irreversibile; che la sua patologia sia fonte di sofferenze intollerabili; che sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli

Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Coscioni, si è di recente di nuovo autodenunciato ed è di nuovo indagato per aver accompagnato in una clinica svizzera Romano, un 82enne malato di Parkinson, così come era stato iscritto al registro degli indagati lo scorso agosto per il caso di Elena, una donna veneta di 69 anni affetta da una patologia polmonare irreversibile. L’accusa è di aiuto al suicidio, previsto all’articolo 580 del codice penale italiano, rischia dai sei ai 12 anni di carcere. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Malati terminali, ucciderli per i giudici è un reato a metà. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 03 dicembre 2022

Ha addormentato la madre 92enne e l'ha soffocata con un cuscino: assolto in primo grado - sentenza suicida, fatta per essere riformata - a cui ieri è seguita una condanna in Appello a 6 anni e otto mesi, il minimo possibile. E voi chiamatelo omicidio light, omicidio tollerato, assassinio a fin di bene, attenuante da debito di sangue, familistico-affettiva: sta di fatto che la nostra giurisprudenza ha inventato un nuovo reato che è quasi assimilabile alla «particolare tenuità del fatto» regolata dall'articolo 131-bis del Codice. E non si tratta dell'ennesimo caso di supplenza della politica, meglio: è una supplenza, sì, ma pienamente giustificata dall'ingiustificata assenza di una classe politica incapace e ogni volta imbarazzata da tutti i temi che la trovano in uno spaventoso ritardo culturale.

Ma riassumiamo la vicenda del 55enne Giovanni Ghiotti, che in pratica è un anonimo Marco Cappato (quello dell'Associazione Coscioni e del suicidio assistito) che nell'agosto del 2020 si è si presentato dai carabinieri di Asti e ha confessato che l'anziana madre, malata da tempo, l'aveva terminata lui il 4 novembre di tre anni prima: «Soffriva troppo. Si era arresa». Il medico legale che aveva bussato alla vecchia casa a Piovà Massaia, nell'astigiano, aveva refertato una morte naturale, ma poi Ghiotti ha raccontato spontaneamente la verità: «Le ho somministrato dei sonniferi, e, quando si è addormentata, l'ho soffocata con il cuscino». Il 19 gennaio scorso, in primo grado, a dispetto di una richiesta di condanna a 7 anni e mezzo, il giudice Federico Belli l'aveva assolto perché «il fatto non sussiste», ossia l'assolto da un reato omicidio reo confesso. E per una volta c'è una ragione per evidenziare il nome di un magistrato, dunque ripetiamolo: Federico Asti. Poi, ieri, con rito abbreviato, i giudici della Corte d'Assise d'Appello di Torino (presidente Cristina Domaneschi) hanno inevitabilmente condannato l'imputato a 6 anni e 8 mesi, che meno non si poteva: «Avendo i giudici ritenuto di credere alla sua confessione, hanno comunque considerato tutte le particolarità del caso e l'hanno condannato alla pena più bassa possibile», ha commentato l'avvocato. L'accusa, in aula, era rappresentata dal procuratore generale Carlo Maria Pellicano, secondo il quale Ghiotti ha ucciso la madre «per pietà» e ha detto che il reato si è mosso «in una zona grigia» perché in Italia «non c'è una legge sul suicidio assistito», pur ammettendo che, nell'attesa, si tratta «pur sempre un omicidio».

La madre 92enne si era spaccata il femore quattro volte in un solo anno e l'osteoporosi le causava dei dolori terribili. Il giudice ufficialmente non aveva creduto all'imputato (ripetiamo: ufficialmente) e aveva ritenuto inattendibile la confessione: «Ha raccontato qualcosa di cui è intimamente convinto, ma che non corrisponde alla realtà dei fatti», si leggeva nelle motivazioni, stabilendo che la morte della donna fosse avvenuta per cause naturali. Il procuratore generale Pellicano, in Appello, aveva poi definito l'imputato «un personaggio da "Delitto e Castigo"», riferendosi al romanzo di Dostoevskij, che «si è trovato in una situazione terribile, non ha potuto fare altro che porre fine alle sofferenze della madre a cui era affezionatissimo». Però in Italia «manca una legislazione» sul fine vita, ha aggiunto.

E non lo sapevamo. Non sapevamo che l'Italia è tra i pochissimi paesi occidentali a non aver regolamentato l'eutanasia (che viene praticata lo stesso, con lo stesso classismo che c'era per l'aborto e la fecondazione assistita) forse auspicando che vadano tutti a morire in Svizzera avendo i soldi per farlo, oppure, ecco, lasciando che a metterci una pezza sia di volta in volta una magistratura chiamata ormai a decidere su tutto, compresa la differenza tra un assassinio, un atto di pietà, una buona morte o una cattiva tortura. Sicchè, ogni tanto, mentre i medici operano e sopprimono pietosamente e nel silenzio, qualcuno si rivolge ai giudici e fioccano sentenze della Cassazione o delle Corti d'Appello o addirittura dei Tar, interventi che però non disciplinano davvero la materia: si limitano a codificare l'esistente, a metterlo nero su bianco, a invocare l'urgenza di una legge come ha fatto più volte la Corte Costituzionale, inascoltata.

Ormai la sfiducia è tanta e, in questa direzione, non c'è ragione di attendersi un po' di coraggio (democratico, non ideologico) neppure da questo governo Meloni: «La vita non ci appartiene» seguita a mormorare un'esigua minoranza di stronzi che sorvola da lustri ogni tema che riguardi le scelte personali, e che, banalmente, recepisca la volontà popolare. Così, mentre la società adulta di destra e di sinistra è costretta a confidare sulla magistratura- eccezion fatta per quattro baciapile che telefonano in Vaticano anche per allacciarsi le scarpe - nella penombra dell'italianissimo «si fa ma non si dice» continua a muoversi quell'Italia sconsolata e reale che siamo noi. 

Paola De Carolis per il Corriere della Sera il 7 agosto 2022.

Dietro la porta chiusa il pericolo. È forse l'incubo di ogni genitore, che pur essendo a casa un figlio possa incontrare il male attraverso il computer o il cellulare. Ci sarà il momento di chiedersi esattamente cosa sia successo al povero Archie, di domandarsi come mai sui social possano continuare a esistere giochi e sfide tragici e assurdi. Oggi no. Ogni interrogativo crolla di fronte al dolore di una famiglia che da un giorno all'altro ha perso un figlio amatissimo.

 «Non c'è assolutamente nulla di dignitoso nel guardare un bambino che soffoca», si è sfogata asciugandosi gli occhi Ella Carter, una parente stretta. Rabbia, incomprensione, frustrazione. «Nessuna famiglia dovrebbe attraversare quello che abbiamo passato noi. È barbarico». 

Archie, ha raccontato mamma Hollie, «ha lottato sino all'ultimo». L'ospedale ha cominciato a disattivare i macchinari che lo tenevano in vita alle 10.00. Per due ore, ha precisato Carter, «i valori sono rimasti stabili. Alla fine, quando hanno tolto il ventilatore, è diventato tutto blu». 

Alle 12.15 è morto. È una consolazione per Hollie aver tentato in tutti i modi di prolungare le cure: «So di aver fatto il possibile, proprio come avevo promesso al mio bambino».

Ora lei e la famiglia sono «a pezzi, distrutti». Dal 7 aprile vivono in un incubo dal quale sarà difficile risvegliarsi. 

«Non credo che da allora ci sia stata una sola giornata che non è stata terribile. Se di fronte alle telecamere ci siamo mostrati forti, abbiamo il cuore in frantumi». Archie - ha detto - «era al centro della nostra famiglia, adorato. Ovunque andava lasciava un segno, era un bambino che si faceva voler bene, molto allegro, era sempre di buon umore». Se ieri non ha avuto le forze di entrare nella questione, precedentemente la signora Dance aveva precisato di volere solo più tempo. 

«Volevo che passassero sei mesi. Che male c'è? Hanno speso una follia facendomi la guerra attraverso i tribunali, soldi che avrebbero potuto spendere per Archie e altri pazienti. Hanno parlato della dignità di mio figlio: credo profondamente che il modo più dignitoso di morire sia lontano dalle macchine e dal rumore di una corsia ospedaliera. Al centro di questo caso c'è l'amore di una madre ma ci sono anche i miei diritti: a che punto il padre di Archie ed io abbiamo perso il nostro diritto di decidere cosa vogliamo per nostro figlio?». 

Parenti, amici e conoscenti sono passati ieri dall'ospedale, chi per abbracciare i genitori, chi per lasciare un biglietto, un mazzo di fiori. Shelley Elias ha raggiunto l'ospedale dalla zona di Stepney. Conosce Hollie e ha due figli, uno della stessa età di Archie. «Volevo che sapessero che sto pensando a loro, che sono nel mio cuore». Davanti al Royal London ha depositato un biglietto e alcune candele.  

«Non sapevo cosa scrivere perché non ci sono parole che possono portare via un po' del loro dolore. Mio figlio ha 12 anni, come Archie, mi sembra impossibile che un ragazzo di questa età possa morire». Ollie Bessell, amico di famiglia, ha raccontato sui social che la morte di Archie «è difficile da accettare». «Pochi giorni fa - ha spiegato - sono stato a trovarlo, e lì, nella sua camera d'ospedale, mi è sembrato di captare tutta la vita che aveva dentro».

(ANSA il 26 novembre 2022) - Il tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni Marco Cappato si è autodenunciato stamani dai carabinieri della compagnia Duomo a Milano per aver accompagnato in una clinica svizzera, dove ieri è morto con suicidio assistito, Romano, un 82enne di origini toscane e residente a Peschiera Borromeo, nel Milanese. Cappato rischia "fino a 12 anni di carcere", come ha sottolineato lui stesso. "E' indegno per un Paese civile continuare a tollerare l'esilio della morte in clandestinità" ha più volte detto. In caserma stamani Cappato si è presentato con l'avvocato e segretaria dell'Associazione, Filomena Gallo.

Suicidio assistito, malato di Parkinson muore in Svizzera: "L'Italia ci nega questo diritto". Giampaolo Visetti su La Repubblica il 26 Novembre 2022.

Il signor Romano, 82 anni, non ha potuto farlo nel nostro Paese perché, come Elena Altamira, scomparsa ad agosto in una clinica elvetica, non dipendeva per vivere da una macchina. La figlia: "Lui voleva spegnersi nel suo letto". Cappato (associazione Coscioni): "Parlamento inerte, mi autodenuncio"

 "Mio papà ha appena confermato la scelta di morire. Io sono rientrata dalla California, dove questa scelta è legale e dove una persona colpita da una malattia come la sua avrebbe potuto morire in casa, circondata dalla sua famiglia. Spero che presto anche in Italia tutti possano fare liberamente questa scelta". Francesca, in un video diffuso ieri pomeriggio, ha reso pubblica la morte medicalmente assistita in una clinica svizzera di suo padre Romano, 82 anni, ex giornalista e pubblicitario, toscano residente a Peschiera Borromeo nel Milanese, dal 2020 paralizzato e costretto a letto da un Parkinsonismo atipico.

Romano sceglie la morte in Svizzera. Cappato lo aiuta e torna nella bufera. L'82enne affetto da una forma neurodegenerativa di Parkinson. Tiziana Paolocci su Il Giornale il 26 Novembre 2022.

Romano era creativo, instancabile e la sua vita l'aveva divisa tra la famiglia e il lavoro come giornalista e pubblicitario. Ma da due anni l'uomo, di origini toscane e residente a Peschiera Borromeo, era affetto da Parkinsonismo atipico, una malattia che lo aveva costretto a letto, con dolori muscolari così forti da impedirgli di leggere, scrivere e fare qualsiasi altra cosa in autonomia.

Ieri è morto in Svizzera a 82 anni. Una morte cercata, voluta, tanto che i familiari si sono rivolti a Marco Cappato, che l'ha accompagnato alla clinica Dignitas, fuori dall'Italia, perché l'anziano non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e pertanto qui non era possibile per lui accedere al suicidio assistito.

«Mio marito Romano - aveva spiegato due giorni fa la moglie - è affetto da una grave malattia neurodegenerativa, una forma di Parkinson molto aggressiva che gli ha paralizzato completamente gli arti e che ha prodotto una disfagia molto severa che lo porterà a breve a una alimentazione forzata. Quando a inizio luglio Romano ha espresso in maniera molto responsabile e consapevole il desiderio di interrompere questa lunga sofferenza, ci siamo rivolti per informazioni all'Associazione Luca Coscioni e abbiamo chiesto aiuto anche a Marco Cappato». «Tutto questo per evitare problemi legali - ha ricordato la donna - visto che nel nostro paese non esiste un quadro legislativo chiaro sulla scelta del fine vita che è un diritto fondamentale dell'uomo. Adesso dopo un lungo viaggio molto faticoso per Romano, siamo arrivati in Svizzera e stiamo aspettando la visita del dottore. Se Romano davanti al dottore confermerà la sua decisione consapevole e responsabile già espressa, sarà libero di porre fine alle sue sofferenze».

Ieri la figlia Francesca, arrivata dalla California, in un video ha dato l'annuncio della morte del papà auspicando che «in Italia, presto, sia possibile per le persone poter fare questa scelta e morire a casa propria, circondate dalle persone care».

Per Cappato, tesoriere dell'Associazione Luca Coscioni, si tratta dell'ennesima «disobbedienza civile» e oggi si autodenuncerà presso la stazione dei carabinieri in via Fosse Ardeatine 4 a Milano. L'ex radicale subirà un'altra inchiesta, ma questo non lo spaventa e promette che continuerà ad aiutare i malati che si rivolgono a lui per mettere fine alle loro sofferenze. «Ritengo indegno di un Paese civile continuare a tollerare l'esilio della morte in clandestinità di persone che patiscono sofferenze insopportabili e irreversibili - ha detto -. Sono passati 4 anni da quando la Corte Costituzionale la prima volta ha chiesto al Parlamento di intervenire in uno spirito di leale e dialettica collaborazione istituzionale consentendogli ogni opportuna riflessione e iniziativa».

La Corte, intervenendo successivamente nel 2019 dinanzi all'inerzia del Parlamento, ha emesso poi una decisione che depenalizza l'aiuto al suicidio solo per malati in determinate condizioni verificare dal SSN. Ma al tempo stesso ha ribadito la richiesta di una legge completa, che rispetti le scelte di fine vita delle persone malate. «Ad agosto avevo ripreso l'azione di disobbedienza civile, accettando la richiesta di Elena Altamira di essere accompagnata in Svizzera, per superare la discriminazione contro i malati che, come Elena e Romano, non sono dipendenti da trattamenti sanitari - ha aggiunto Cappato -. Ho deciso ora di accettare anche la richiesta di aiuto di Romano ed a evitare a lui un accanimento insensato e violento».

Elena, 69 anni, malata terminale di cancro era morta nella stessa clinica ad agosto. Per quel caso Cappato è indagato perché non rientrava nei casi previsti dalla sentenza di tre anni fa della Corte costituzionale.

Cappato e la terza eutanasia "È una violenza dello Stato". L'attivista dai carabinieri dopo il viaggio in Svizzera per far morire un 82enne malato di Parkinson. Patricia Tagliaferri il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Usa toni pesanti, Marco Cappato, per descrivere la condizione di tutte quelle persone che in Italia sono costrette ad andare all'estero per morire dignitosamente: «È una violenza di Stato», dice. Una violenza effetto delle contraddizioni della legge italiana che stringe in una «trappola micidiale» chi è costretto da malattie incurabili ad un'esistenza ridotta ad una parvenza di vita.

Il tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, che da sempre si batte per la dignità del fine vita, ne parla nel giorno in cui autodenuncia dai carabinieri della compagnia Duomo per aver accompagnato in una clinica svizzera, Romano, un 82enne di origini toscane che era affetto da una grave forma di Parkinson e non era tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, condizione necessaria per accedere al suicidio assistito in Italia, come stabilito dalla Consulta. Nella stessa caserma milanese Cappato si era già presentato lo scorso agosto per aver accompagnato a morire la signora Elena, malata terminale di cancro, e cinque anni fa per dj Fabo, il caso che ha dato il via al dibattito sul fine vita e per il quale l'attivista è stato processato a assolto, mentre per la vicenda di Elena è indagato per aiuto al suicidio ma non c'è stato ancora alcun rinvio a giudizio.

Romano è morto giovedì, lontano da casa, dopo un faticoso e lungo viaggio a bordo di un'autovettura speciale per il trasporto dei disabili, dove il tesoriere dell'associazione Coscioni ha potuto fissare la carrozzina alla quale era inchiodato, con l'aiuto dalla moglie dell'uomo, in auto con loro perché Romano aveva bisogno di assistenza continua. Per quello che ha fatto Cappato sa di rischiare «fino a 12 anni di carcere» e anche la donna ora potrebbe finire sotto inchiesta con lui. Ma per l'attivista non c'era altro da fare: «È indegno per un Paese civile continuare a tollerare l'esilio della morte in clandestinità», attacca. E quello di Romano non è certo un caso isolato. Sono sempre di più le persone che si rivolgono all'associazione per essere aiutate a morire, tanto che Cappato da solo non ce la fa più a rispondere alle chiamate: «Questo non è problema che si può nascondere sotto il tappeto, ma è sempre più urgente. A questo punto devo chiedere aiuto, chiedere a coloro che se la sentono di assumersi questa responsabilità. Non posso farmene carico da solo», osserva. A dicembre è già pronto per la prossima missione, per aiutare un'altra persona che si è rivolta all'associazione e ha già preso appuntamento per andare a morire in Svizzera.

Cappato vuole che venga registrato «il silenzio della politica ufficiale» sulle vicende che riguardano il diritto ad una fine dignitosa, un silenzio che va al di là «del colore delle maggioranze o delle opposizioni». «Tutti zitti - fa notare - mi dispiace per loro: perché queste vicende sono reali e sarebbero occasione di riflessione e di parola, ovviamente anche per chi è contro le soluzioni che noi proponiamo. Sia sulla vicenda di Romano sia su quella di Elena devo constatare, salvo qualche sparuta eccezione, che i grandi capi del potere italiano stanno accuratamente zitti. Ciascuno interpreti come vuole il loro silenzio». Cappato spiega di non volere l'impunità: «Non stiamo chiedendo di chiudere un occhio, stiamo chiedendo allo Stato italiano di assumersi le proprie responsabilità. Non è una provocazione, è un'autodenuncia. Poi, nel merito, non è la pretesa che si sia tutti d'accordo con noi».

La nuova "disobbedienza civile". Marco Cappato in Svizzera con Romano, malato di Parkinson, per il suicidio assistito: “Qui per un diritto fondamentale”. Redazione su Il Riformista il 25 Novembre 2022

Marco Cappato è nuovamente in Svizzera per accompagnare e assistere un’altra persona che ha chiesto di accedere legalmente al suicidio assistito nel Paese elvetico. L’ex deputato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni e protagonista di mille battaglie sul tema del fine vita, ha infatti accompagnato Romano, 82enne di origini toscane ma residente a Peschiera Borromeo, nel Milanese, nell’ultimo viaggio della sua vita.

Romano è affetto dal 2020 da Parkinsonismo atipico: Cappato potrebbe nuovamente finire nei guai con la giustizia italiana. Il ‘caso’ di Romano non è coperto infatti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale nata grazie proprio all’impegno di Cappato sul caso di Dj Fabo, Fabiano Antoniani, che l’ex parlamentare aiutò nel suicidio assistito.

Un impegno e un caso giudiziario che portarono la Consulta ad esprimersi a favore del suicidio assistito, ma solo se la persona malata che ne fa richiesta è affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze fisiche o psicologiche, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale. Tutte condizioni che vanno verificate dal Sistema sanitario nazionale.

Non è questo il caso di Romano, ma l’obiettivo di Cappato è proprio quello di impedire discriminazioni tra persone malate. “Sono di nuovo in Svizzera per fare valere quello che dovrebbe essere un diritto fondamentale“, ha spiegato Cappato sui social mostrando un video in cui la moglie di Romano spiega i motivi dietro il gesto e il viaggio.

L’82enne è morto nel pomeriggio in una clinica svizzera con suicidio assistito, come ha comunicato la figlia Francesca, residente in California, in un video in cui ha spiegato che il padre “avrebbe voluto morire in casa circondato dai suoi cari“.

“Mio marito è affetto da una grave malattia neurodegenerativa, una forma di Parkinson molto aggressiva che gli ha paralizzato completamente gli arti e che ha prodotto una disfagia molto severa che lo porterà a breve a un’alimentazione forzata. Quando a inizio luglio Romano ha espresso in maniera molto responsabile e consapevole il desiderio di interrompere questa lunga sofferenza, ci siamo rivolti per informazioni all’Associazione Luca Coscioni e abbiamo chiesto aiuto anche a Marco Cappato. Tutto questo per evitare problemi legali visto che nel nostro Paese non esiste un quadro legislativo chiaro sulla scelta del fine vita che è un diritto fondamentale dell’uomo“, erano state le parole della moglie di Romano alla vigilia della partenza per la Svizzera.

“La scelta del fine vita è un diritto fondamentale dell’uomo“, aveva tenuto a dichiarare la moglie di Romano. “Se conferma la sua decisione consapevole e responsabile – aveva aggiunto la moglie – sarà libero di porre fine alle sue sofferenze”.

Non è la prima volta che Cappato ‘sfida’ la sentenza della Corte Costituzionale emessa dopo la vicenda di Fabiano Antoniani. Ad agosto il tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni aveva accompagnato in Svizzera Elena Altamira, una 69enne veneta malata terminale di cancro, per farla accedere al suicidio assistito perché le sue condizioni non rientravano nella sentenza della Corte. In quella occasione lo storico attivista dei Radicali si era autodenunciato ai carabinieri, come già fatto ai tempi di Dj Fabo, ed è attualmente indagato per aiuto al suicidio.

Se Marco Cappato deve, ancora una volta, sostituirsi alla politica. Giampiero Casoni il 03/08/2022 su Notizie.it

Marco Cappato rischia di nuovo il carcere perché da solo ha fatto una cosa che avrebbero dovuto fare gli altri. Quelli che oggi ci chiedono il voto. 

Se Marco Cappato deve sostituirsi alla politica per fare una cosa etica pagandone prezzo da un punto di vista penale allora il dato è evidente: l’etica dalla politica è stata sfrattata e il fatto che ci sia una campagna elettorale in corso dovrebbe farci riflettere.

Su cosa? Sul fatto che i partiti in lizza, quelli che ci stanno inondando di promesse “pratiche” e di ricette di buon governo, sono in realtà dei sistemi complessi che agiscono per delega, cioè una volta incasellati nel meccanismo decisorio di un esecutivo sono chiamati a fare le veci e la somma delle nostre istanze di cittadini.

Insomma, la mission dei tizi a cui ci apprestiamo a dare il voto il 25 settembre prossimo è, o dovrebbe essere, quella di evitare che un singolo e determinato individuo passi un guaio perché la bontà del suo gesto avviene in un vuoto normativo, in questo caso totale fino a pochi mesi fa e monco tuttora.

E purtroppo neanche stavolta è andata così ed anche con il suicidio assistito della povera 69enne che ha voluto salutare il mondo vicino Basilea il coraggio di uno ha dovuto sanare la vigliaccheria dei più.

Vigliaccheria assoluta, a contare che in nessuno dei roboanti programmi presentati c’è uno straccio di accenno a temi che abbiano ampio respiro etico. Il meccanismo ormai lo conosciamo: da un po’ di anni e sulla spinta di una politica sempre più praticona e legata all’economia il passo di marcia del cimento pubblico lo danno cose terrigene e sode come economia, tasse, spread, bollette, mancette Ue, ponti sugli stretti e prezzo dei bucatini da fare alla vaccinara.

E attenzione, il fenomeno è a doppia mandata: da un lato i partiti che praticoni e grezzi ci sono nati non hanno fatto altro che sguazzare ancor meglio nella mota da cui sono emersi, dall’altro quelli che sull’etica ci hanno sempre tradizionalmente scommesso almeno di ugola hanno innestato retromarce clamorose in cui ciò che prima era tonante proclama oggi è diventato timido accenno o robetta da mercanteggiare con il compare di Rosatellum.

Il risultato è uno solo: cose serie, cose vitali, cose che hanno il respiro della civiltà e non l’organigramma del ben più misero progresso da noi in Italia sono sbiadite caricature di se stesse. Di quello e della forza che dovremmo mettere nel realizzarle, con la narrazione della campagna elettorale che stiamo vivendo che ha rimesso al centro solo quegli insulsi gargarismi dialettici che tanto piacciono a noi italiani, maestri di opinione ma asini patentati di condotta attiva e scattismo legiferativo.

Quello che ne consegue è che oggi parlare di Marco Cappato in mezzo alla giostra di ricette offerte dagli imbonitori su piazza ha il tono stantio di quando ad un funerale che passa in strada ti fermi e ti fai il segno della croce. Un funerale come quello che ha avuto la signora Elena, che per morire è stata costretta ad andare in Svizzera senza “finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito”.

Un funerale come quello del Diritto che oggi mette Marco Cappato in rubrica dei Carabinieri perché da solo ha fatto una cosa che avrebbero dovuto fare gli altri. Quelli che oggi ci chiedono il voto.

Da video.corriere.it il 3 agosto 2022.

«Ai carabinieri dirò che senza il mio aiuto Elena non sarebbe potuta giungere in Svizzera e aggiungerò che aiuteremo anche le altre persone nelle sue stesse condizioni che ce lo chiederanno. Sarà poi compito della giustizia stabilire se questo è un reato o se c’è la reiterazione del reato. O se c’è discriminazione come noi riteniamo tra malati»: queste le parole del tesoriere dell'associazione ‘Luca Coscioni’, Marco Cappato, a Milano pochi minuti prima di autodenunciarsi per l'aiuto fornito alla signora Elena per giungere in Svizzera e procedere per il suicidio assistito.

Fabrizio Guglielmini per milano.corriere.it il 3 agosto 2022.  

«Come cinque anni fa per dj Fabo». Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni alle 11 dai carabinieri di via Fosse Ardeatine per il caso della 69enne veneta, malata oncologica terminale, che ha accompagnato in Svizzera per il suicidio assistito

«Come cinque anni fa nel caso di dj Fabo oggi sono tornato nella stessa caserma dei carabinieri del centro storico per autodenunciarmi per aver accompagnato Elena in Svizzera per il suicidio assistito». Il tesoriere dell’associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, arrivato alle 11 di mercoledì mattina in via Fosse Ardeatine per la sua nuova battaglia civile che riguarda i malati terminali che non possono accedere al fine vita in Italia. «Di fronte alla richiesta di Elena, potevamo girarci dall’altra parte o darle l’aiuto che cercava, alla luce del sole e assumendoci totalmente la responsabilità di questo».

E sulla possibilità del carcere Cappato ha detto che è pronto ad affrontare eventuali conseguenze, pur augurandosi un esito analogo a quello della vicenda del 2017. «Penso e spero che, così come la disobbedienza civile per dj Fabo ha aperto una strada che riguarda già oggi potenzialmente migliaia di persone in quella condizione, dipendenti da trattamenti di sostegno vitale, lo stesso accada per l’aiuto al suicidio di Elena». 

Per Cappato, «l’obiettivo di questa iniziativa non è lo scontro o il vittimismo o il martirio, ma la speranza che, se non lo hanno fatto le Aule parlamentari, possano le aule di tribunale riconoscere un diritto fondamentale come questo».

«Ho spiegato ai carabinieri che per le prossime persone che ce lo chiederanno, se saremo nelle condizioni di farlo, aiuteremo anche loro — ha detto Cappato uscendo dalla caserma di via Fosse Ardeatine insieme all’avvocatessa Filomena Gallo, segretario della associazione Coscioni —. Sarà poi compito della giustizia stabilire se questo è un reato o se c’è la reiterazione del reato. O se c’è discriminazione come noi riteniamo tra malati». 

«Ringrazio il marito e la figlia di Elena per la loro vicinanza all’associazione Luca Coscioni che rappresento e se ce ne sarà bisogno siamo pronti ad assistere altre persone che ne faranno richiesta». Marco Cappato si è autodenunciato e i carabinieri apriranno un fascicolo da inviare in Procura che deciderà se aprire un procedimento giudiziario a carico di Cappato, come già accaduto nel 2017 per il caso di dj Fabo (per cui è stato assolto).

«Ancora oggi — ha aggiunto Cappato — dobbiamo registrare l’insensibilità della politica su questo tema civile di grande importanza e che crea discrimine fra i malati terminali. Non c’è stata alcuna risposta da parte del Parlamento, della politica, dei capi dei grandi partiti. In queste ultime due legislature non è mai stata discussa nemmeno un minuto la nostra legge di iniziativa popolare presentata 9 anni fa». di fronte alla richiesta di Elena, potevamo girarci dall’altra parte o darle l’aiuto che cercava, alla luce del sole e assumendoci totalmente la responsabilità di questo». 

Da video.corriere.it il 2 agosto 2022.

È morta la signora Elena, martedì 2 agosto, che avevamo conosciuto con il nome di fantasia «Adelina» per ragioni di privacy. Nel suo ultimo videomessaggio dichiara: «Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e debba farlo anche sulla propria fine, senza costrizioni, senza imposizioni, liberamente, e credo di averlo fatto, dopo averci pensato parecchio, mettendo anche in atto convinzioni che avevo anche prima della malattia. Avrei sicuramente preferito finire la mia vita nel mio letto, nella mia casa, tenendo la mano di mia figlia e la mano di mio marito. Purtroppo questo non è stato possibile e, quindi, ho dovuto venire qui da sola». 

Elena aveva ricevuto la diagnosi di microcitoma polmonare a inizio luglio 2021. Da subito i medici le avevano detto che avrebbe avuto poche possibilità di uscirne, dopo tentativi di cure, le è stato detto che c’erano pochi mesi ancora di sopravvivenza, con una situazione che, via via, sarebbe diventata sempre più pesante. «Elena ha appena confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso. 

Domattina, mercoledì 3 agosto, in Italia, andrò ad autodenuciarmi» , ha dichiarato Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, che ieri l’aveva accompagnata in Svizzera. Cappato andrà ad autodenunciarsi alla stazione dei carabinieri in via Fosse Ardeatine 4 a Milano alle ore 11. 

Francesca Del Vecchio per “la Stampa” il 4 agosto 2022.

«Ho il privilegio, con l'Associazione Luca Coscioni, di potermi battere per quello in cui credo, per una libertà che va riconosciuta a tutti: non è un sacrificio ma un onore che mi emoziona ogni volta. La gratitudine delle persone che ho aiutato vale più delle difficoltà che incontro. E anche più dei rischi». I rischi di cui Marco Cappato parla sono quelli giudiziari, come la reclusione, in cui incorre ogni volta che accompagna qualcuno che si rivolge all'Associazione a morire in Svizzera. 

Come nell'ultimo caso, quello di Elena, malata oncologica terminale con un'aspettativa di vita di pochi mesi, accompagnata lunedì scorso da Cappato in una clinica di Basilea per il suicidio medicalmente assistito. Che cosa vi siete detti con la signora nelle otto ore di viaggio, dal Veneto alla Svizzera?

«Abbiamo parlato di un sacco di cose: del suo amore per i cani e per il suo lavoro. Del suo legame profondo con la famiglia. Mi ha raccontato degli enormi sforzi fatti per mettere su l'hotel che gestiva con il marito e la nuova casa, nella quale si erano trasferiti da poco. Tutto questo, conquistato con grandi sacrifici, senza poter neanche goderne a causa della malattia». 

Come vi siete salutati con Elena?

«Sono rimasto con lei fino alla fine. E prima di salutarmi mi ha ringraziato per averla aiutata a non coinvolgere la sua famiglia nelle vicende giudiziarie a cui sarebbe potuta andare incontro. Questa era la sua più grande preoccupazione: non voleva causare loro dei problemi con la legge». 

Il caso di Elena è diverso da quello, per esempio, di dj Fabo. Perché?

«Si può dire che Elena sia stata discriminata dalla sentenza della Corte Costituzionale (numero 242/2019, ndr): quella pronuncia sancisce il diritto all'aiuto al suicidio solo per i malati tenuti in vita da trattamenti di sostegno vitale.

Diversamente da Mario/Federico Carboni (primo caso di suicidio assistito in Italia, ndr) e da Fabiano Antoniani, Elena non era tenuta in vita da alcun macchinario».

Che cosa ha detto ai carabinieri di Milano nella sua autodenuncia di ieri?

«Innanzitutto, non ho minimizzato l'apporto dato a Elena. Ho voluto chiarire che il mio contributo è stato indispensabile: dalla logistica, andando a prenderla a casa e accompagnandola con la mia macchina, fino alla traduzione dei documenti medici, una volta arrivati in clinica. Ho spiegato anche che Elena era perfettamente consapevole di non rientrare nei casi previsti dalla sentenza della Corte e ho fatto presente che in futuro, se sarò in condizione di poterlo fare e se mi verrà chiesto, continuerò a fornire questo tipo di aiuto. Ovviamente, questo potrebbe avere una rilevanza sul piano giuridico per quello che viene chiamato rischio di reiterazione del reato». 

Che cosa manca in Italia, dal punto di vista dell'impianto normativo, affinché persone come Elena non siano costrette a chiedere aiuto?

«Innanzitutto la conoscenza di ciò che è stato conquistato fino ad ora. Quasi nessuno sa della possibilità di fare gratuitamente il testamento biologico, diritto acquisito con l'approvazione della legge, nel 2017. Oppure dell'opportunità di interrompere le cure senza soffrire o di accedere all'aiuto alla morte volontaria per le persone che siano tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. L'Italia non è la più arretrata in Europa. Ma alcune cose importanti devono essere ancora fatte».

Per esempio?

«In primis, quello che volevamo ottenere con il referendum: la piena legalizzazione dell'eutanasia, il che vuol dire eliminare discriminazione tra malati. La seconda è che il medico possa intervenire direttamente senza incorrere in un reato, punibile fino a 15 anni». 

Per colmare questo «gap» chi pensate possa essere il vostro interlocutore politico, dopo il 25 settembre?

«Premesso che le abbiamo provate tutte: la legge di iniziativa popolare nove anni fa, il referendum bocciato dalla Corte Costituzionale. Poi il silenzio da parte del Parlamento, sollecitato più e più volte. Nessuno dei grandi partiti ha speso una parola. Per cui, direi che a oggi non ci sono elementi per pensare di poter affidare a qualcuno questa battaglia. E la mia disobbedienza civile vuol dire proprio che non siamo qui ad aspettare che qualcuno di loro la faccia». 

Per incidere di più dovreste candidarvi alle prossime elezioni? E, allora, perché non lo fate?

«Abbiamo chiesto a Mario Draghi che si consenta anche a chi non è in Parlamento di presentarsi alle elezioni con la raccolta firme, anche digitali. Se solo Draghi riuscisse a realizzare questa cosa, non prevista nel Rosatellum, potrebbe cambiare davvero il dibattito in questo Paese».

Il suicidio assistito di Elena, malata terminale di cancro. Perché è dovuta andare in Svizzera e perché la sua scelta farà discutere. La Repubblica il 2 Agosto 2022. Marco Cappato ha accompagnato una donna 69enne veneta affetta da un tumore ai polmoni irreversibile con diverse metastasi. Non avendo necessità di sostegni vitali, la legge italiana non le consentiva il suicidio assistito. Domani l'esponente dell'Associazione Coscioni andrà ad autodenunciarsi.

"Elena ha appena confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso". Così, con un tweet, Marco Cappato ha annunciato la morte della donna veneta di 69 anni, ammalata di una grave patologia oncologica polmonare irreversibile con diverse metastasi, che ha accompagnato in Svizzera per porre fine alla sua vita.

Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, ha aggiunto che domani, al suo rientro in Italia, andrà ad autodenunciarsi per aver aiutato la donna ad accedere al suicidio assistito a Zurigo. Un nuovo strappo in avanti del tesoriere dell'Associazione Coscioni, rispetto sia alla sentenza della Consulta sul caso di Dj Fabo, sia alla legge sul suicidio assistito approvata alla Camera e adesso in attesa di essere discussa (forse) al Senato. Proviamo a spiegare. Motivando l'assoluzione di Marco Cappato dall'accusa di istigazione al suicidio per aver accompagnato a morire in Svizzera (dove il suicidio assistito è legale) Fabiano Antoniani, tetraplegico e cieco, la Consulta ha indicato alcuni parametri che il paziente deve avere affinché la il suicidio medicalmente assistito possa essere depenalizzato. I criteri sono: aver fatto una scelta consapevole ed autonoma, essere affetti da una patologia irreversibile causa di sofferenze insopportabili. Ed essere dipendenti da sostegni vitali: nutrizione e idratazione artificiale, ventilazione, tutte quelle cure di sostegno senza le quali il paziente muore.  

La legge varata alla Camera ha basato il testo su questi parametri, irrigidendo in realtà in alcune parti le condizioni. Ecco, nella sentenza della Consulta, che oggi ha valore di legge non essendoci ancora una legge dello Stato, i malati oncologici come Elena, che ieri è stata accompagnata in Svizzera a morire da Cappato non sono previsti. Perché i malati oncologici terminali, seppure patendo atroci sofferenze, nella maggior parte dei casi non sono tenuti in vita da sostegni vitali. Dunque Marco Cappato, accompagnando Elena a Basilea, avrebbe di nuovo violato l'articolo 580 del codice penale sull'istigazione al suicidio. Per questo, come fu per Dj Fabo, Cappato domani andrà ad autodenunciarsi. Rischia fino a 12 anni di carcere. E vedremo se anche questa volta, come fu per Fabo, dopo un processo, un ricorso alla Corte Costituzionale e un'assoluzione, la depenalizzazione del ricorso del suicidio assistito anche i per i malati oncologici diventerà realtà.

In uno straziante ma lucido e pacato messaggio video, Elena, 69 anni, ha spiegato così la sua scelta:  "Ho detto a mio marito e alla mia famiglia: sono davanti a un bivio. Posso prendere una strada un pò più lunga che mi porta all'inferno. E un'altra, più breve, che mi porta in Svizzera. Ho scelto la seconda. Ho poi detto a mio marito che se avesse provato a dissuadermi, fra un mese o due, quando mi avrebbe visto sofferente, se ne sarebbe pentito". 

Negli scorsi mesi, sono stati diversi e travagliati i casi di persone che assistiti dall'associazione Luca Coscioni hanno chiesto di poter accedere al suicido assistito in Italia. Il primo è stato Mario, paziente tetraplegico di Senigallia, che se n'è andato a giugno. Ma la battaglia sulla legge resta irrisolta.

La 69enne soffriva di una grave malattia oncologica. Elena ha scelto di morire in Svizzera: per il suicidio assistito Marco Cappato rischia 12 anni di carcere. Antonio Lamorte su Il Riformista il 2 Agosto 2022. 

Marco Cappato lo aveva annunciato ieri tramite i social: “Sto accompagnando in Svizzera una signora gravemente malata. Solo lì può ottenere quello che deve essere un suo diritto. Sarà libera di scegliere fino alla fine”. Elena aveva 69 anni, veneta, era gravemente ammalata di una patologia oncologica polmonare con diverse metastasi. Non era dipendente da trattamenti di sostegno vitale. È morta oggi pomeriggio, in Svizzera, a Basilea, accompagnata dal tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni. “Ha appena confermato la sua volontà: è morta, nel modo che ha scelto, nel Paese che glielo ha permesso”, ha scritto Cappato sui social.

Elena aveva scelto il nome di fantasia di Adelina prima di rivelare la sua vera identità. Non assumeva farmaci salvo cortisone, antibiotici e antidolorifici a seconda delle necessità. Aveva contattato il Numero Bianco dell’Associazione Luca Coscioni (06 9931 3409), la infoline per avere informazioni sui diritti del fine vita. Ha scelto di andare in Svizzera senza attendere ulteriormente “ulteriori sofferenze e peggioramenti vista la progressione della malattia già in fase avanzata”.

Il nome di Adelina le era stato ispirato dalla canzone che ha scelto per i suoi ultimi momenti di vita, Ballade pour Adeline di Richard Clayderman. L’Associazione Coscioni ha diffuso sui social un video in cui lei stessa raccontava la sua scelta: “Circa un anno fa, a luglio 2021 ho avuto la diagnosi di microcitoma polmonare, il tumore era già di proporzioni piuttosto importanti. Già dall’inizio i medici avevano detto che avrei avuto poche possibilità di uscirne. Il tentativo non è costato poco psicologicamente e fisicamente. Non ho risolto il problema. Mi è stato detto che per me c’erano pochi mesi ancora di sopravvivenza e mi è stata descritta una situazione che sarebbe diventata via via più pesante”.

Elena ha deciso di mettere fine alla sua vita prima che lo facesse “in maniera più dolorosa” la malattia. La famiglia ha sostenuto non senza dolore la sua scelta. “Ho chiesto aiuto a Cappato perché non volevo che i miei cari accompagnandomi loro avrebbero avuto ripercussioni legali e che potessero essere accusati di avermi istigata a prendere una decisione che è sempre stata solo mia. Ho dovuto scegliere se davanti a un bivio volevo percorrere una strada più lunga che portava all’inferno o una strada più breve che mi avrebbe portata a Basilea. Ho poi detto a mio marito che se avesse provato a dissuadermi, fra un mese o due, quando mi avrebbe visto sofferente, se ne sarebbe pentito”. Sono sempre stata convinta che ogni persona debba decidere sulla propria vita e sulla propria fine senza costrizioni, imposizioni, liberamente”. La donna lascia il marito e una figlia.

“Per Marco Cappato si tratta di una nuova disobbedienza civile – scrive in una nota l’Associazione Coscioni -, dal momento che la persona accompagnata non è ‘tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale’, quindi non rientra nei casi previsti dalla sentenza 242\2019 della Corte costituzionale sul caso Cappato/Dj Fabo per l’accesso al suicidio assistito in Italia. In Italia, infatti, proprio grazie alla disobbedienza civile di Cappato per l’aiuto fornito a Fabiano Antoniani (sentenza 242 della Corte costituzionale) il suicidio assistito è possibile e legale in determinate condizioni della persona malata che ne fa richiesta (persona affetta da una patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze, pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale). Cappato rischia dunque fino a 12 anni di carcere per l’accusa di aiuto al suicidio”.

Cappato ha annunciato nel suo tweet che domani al suo rientro in Italia andrà ad autodenunciarsi (presso la stazione dei Carabinieri in via Fosse Ardeatine 4 a Milano alle ore 11) per aver aiutato la donna ad accedere al suicidio assistito. A differenza che in Italia, in Svizzera è possibile accedere al suicidio assistito secondo una legge che consente la scelta anche per chi non necessita di sostegni vitali. Il tesoriere dell’Associazione si era autodenunciato anche dopo aver accompagnato Dj Fabo in Svizzera. Fu indagato, processato e infine assolto. Lo scorso febbraio la Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia dichiarando inammissibile il quesito proposto dall’Associazione Coscioni e appoggiato da una serie di associazioni. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

La moglie di La Forgia: "Ha salutato gli amici e si è iniettato da solo la morfina. Cinque giorni di agonia, con un terribile risveglio". Eleonora Capelli su La Repubblica il 19 Giugno 2022.

Intervista a Maria Chiara Risoldi che racconta "la sedazione profonda per l'ultimo viaggio senza ritorno. L'ipocrisia della legge oggi è intollerabile"

 "L'ipocrisia della legge oggi è intollerabile. È un suicidio assistito mascherato dalla lunghezza del tempo impiegato per morire, che dipende dalla resistenza della persona. Si potrebbe fare in dieci minuti, invece la legge ha un protocollo per cui la morfina viene data diluita, poca in molte ore, così dicono che è assistenza al dolore e non eutanasia.

«Dopo una notte di dolore mio marito Antonio La Forgia ha chiesto di dormire. Decida l’uomo, non lo Stato». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 20 Giugno 2022.

La moglie dell’ex governatore dell’Emilia-Romagna, Maria Chiara Risoldi: «La sedazione profonda è un’ipocrisia. Gli diagnosticarono due tumori, uno dei quali molto aggressivo e con metastasi. Chiese un medico che lo aiutasse ad addormentarsi». 

«Mi chiamava Cocca. Uno degli ultimi giorni mi ha detto “Cocca facciamo così: se ti dico Goethe vuol dire che sto vivendo un momento di felicità”. C’è stata una sera in cui mi ha detto più volte Goethe… Gli tornavano i conti della vita. Quello che aveva sbagliato, capito, dissipato. Aveva riparato tutto e si era perdonato; si sentiva libero. Goethe nel Faust implora: “Fermati attimo, sei bello”: ci ha provato anche lui. Mi ha detto: “Non avrei mai pensato che mi sarebbero bastati degli attimi, che sarebbe bastato guardarti per sentirmi felice”».

Ma è arrivato il giorno senza istanti di felicità...

«È stato domenica 5 giugno. Aveva urlato di dolore tutta la notte. La mattina gli chiesi: non ci sono più momenti Goethe, vero? E lui annuì. Era la fine. Aveva già scelto di andarsene con la sedazione profonda. Il quando lo decise quella sera stessa. Mi disse: “Devi amarmi molto per accettare che me ne andrò e a te rimarrà in casa per giorni il mio corpo vivo”».

Poche ore dopo su facebook lei scrisse del suo «viaggio di sola andata».

«Il lunedì mattina alla dottoressa dell’Associazione nazionale tumori che lo seguiva ha detto: “Stasera mi faccia dormire”. Abbiamo stabilito che la sera avrebbe preso la morfina da sé, per cominciare a dormire, e il giorno dopo lei gli avrebbe somministrato il farmaco per la sedazione profonda. Abbiamo firmato le carte, sono arrivati i suoi figli, gli amici storici. Tutti attorno al letto a salutarlo. Alla fine ha detto: “Adesso lasciateci soli”, e siamo rimasti io e lui…».

Maria Chiara Risoldi racconta di suo marito, Antonio La Forgia . Un racconto pieno di lunghe pause, sospiri, di dettagli che aspettano come soldatini di essere convocati all’adunata dei ricordi. Racconta della sua presenza che è ovunque, della sua voce rimasta nell’aria, dei loro 33 anni assieme. Si conoscevano dal ‘77, ai tempi dell’iscrizione al Pci. Si sono osservati, annusati, piaciuti. E dopo anni corteggiati. Scienziato (un fisico) prestato alla politica lui; saggista, psicologa e psicoterapeuta lei. Ex assessore, ex governatore dell’Emilia Romagna, ex deputato lui; femminista e attivista sul fronte dei diritti delle donne lei.

Quando stava bene, avevate mai parlato di fine vita?

«Sì. Mio fratello è morto nel 2019 di un tumore. Gli ultimi mesi era ridotto in uno stato pietoso. Antonio lo guardava angosciatissimo e ripeteva: “Io così non ci vorrei mai arrivare”. Anche la sua ex compagna e madre di sua figlia morì di tumore fra molte sofferenze che lui trovava insopportabili. Ne abbiamo parlato quando ci furono i casi Welby, Englaro, dj Fabo… Non era molto convinto dell’uso politico dei casi singoli. Lui diceva sempre che “questa è materia della coscienza, non può decidere lo Stato al posto delle persone”».

Finché un giorno arrivò la sua diagnosi: due tumori, uno dei quali molto aggressivo e con metastasi.

«Che fosse molto grave si era capito subito. Mi chiese di cercare un medico che potesse eventualmente addormentarlo. Ma a dicembre dell’anno scorso avevamo brindato, perché dopo un primo ciclo di cure pesantissime sembrava che fosse in remissione».

Non era così.

«No. Le metastasi hanno riconquistato il campo. Il dolore è ripreso, è cresciuto, è diventato insostenibile. Negli ultimi giorni una metastasi lo ha paralizzato dalla vita in giù, urlava dalla sofferenza per ogni piccolo movimento».

Cos’ha detto per salutare chi era al suo capezzale?

«Li ha ringraziati, ma non ho sentito molto, ero rannicchiata a piangere sul letto. Poi siamo rimasti soli io e lui e mi ha chiesto come ultima cosa di scrivere un libro sulla sua storia. Lo farò. Mentre si stava addormentando mi ha detto: “Quando sarà il momento ti verrò a prendere”».

E lei ha detto: «Lassù non sedurre troppe signore».

«In realtà su facebook ho raccontato una bugia. Non ho mai risposto con quelle parole. Ho pianto insieme a lui, invece. L’ho stretto forte e l’ho sentito addormentarsi fra le mie braccia. Ma quando ho scritto il post tutto questo lo sentivo ancora come troppo intimo da condividere. Così ho alleggerito il finale».

Lui credeva in Dio?

«Era uno scienziato. La dimensione spirituale non gli apparteneva».

Si è addormentato lunedì sera, è morto venerdì.

«Sì. E nel mezzo è successa una cosa che i medici definiscono rarissima».

E cioè?

«Il mercoledì un’amica è uscita dalla stanza dicendo: “Si è svegliato! Mi ha risposto!” Siamo corsi tutti da lui. Gli ho chiesto: Antonio senti male? Mi ha risposto “no”, ma non era sveglio. Poi muoveva la mano e allora gli ho chiesto: stai cercando una sigaretta? Ha fatto sì con la testa. Gli ho detto piangendo: Antonio, cambiamo idea. Per me quel momento è stato pazzesco. Un amico medico mi ha portato via dalla stanza... La dottoressa ci ha poi detto: lui ha una gran voglia di vivere, non lo stimolate troppo perché sennò non riesce ad andarsene...Non sono più entrata nella stanza. Avevo paura di toccarlo, svegliarlo. Il medico del caso Welby, il dottor Riccio, mi ha spiegato che era in uno stato onirico, completamente distaccato dalla realtà».

Quando è tornata da lui?

«Quando è morto. L’ho abbracciato per due ore senza più paura di svegliarlo».

Cosa le manca di più?

«Mi manca da morire ogni cosa ma soprattutto mi manca parlare con lui. Amavo moltissimo le nostre discussioni, la sua intelligenza, la sua capacità seduttiva».

Lei ha scritto che siamo un paese ipocrita sul tema del fine vita.

«Lo penso. Penso che la sedazione profonda sia un suicidio assistito che però salva la faccia del nostro essere un Paese cattolico, perché è lì il nodo. Il dolore è materia da trattare in modo cattolico: è espiazione, va accettato con rassegnazione...”».

Lei farebbe ricorso alla sedazione profonda o al suicidio assistito per se stessa?

«Io penso che mi capiterà. Ho il parkinson, e peggiora. Mi sono iscritta alla Dignitas, la società per il suicidio assistito in Svizzera, e ho firmato in Italia per il testamento biologico. Se il dolore diventerà intollerabile, se quando succederà, deciderò per il mio viaggio di sola andata. E poi Antonio ha promesso: quando sarà il momento mi verrà a prendere».

AVEVA 78 ANNI. È morto Antonio La Forgia, ex presidente dell’Emilia Romagna. Il Domani il 10 giugno 2022.

Iscritto a lungo al Pci, assessore a Bologna e poi prodiano, dopo aver guidato la sua regione di origine per un triennio, La Forgia era stato eletto due volte alle Camera con l’Ulivo e il Pd

L’ex parlamentare ed ex presidente della regione Emilia Romagna Antonio La Forgia è morto oggi all’età di 78 anni. Si trovava in in sedazione profonda dalla notte tra lunedì e martedì, richiesta fatta dopo aver trascorso un anno e mezzo affetto da un tumore.

Nato nel 1944 a Forlì, militò a lungo nel Partito Comunista, per il quale svolse per diverse volte l’incarico di assessore nel comune di Bologna. Presidente dell’Emilia-Romagna tra il 1996-1999 con i democratici di sinistra eredi del Pci, si dimette dall’incarico con due anni di anticipo per entrare nel progetto di Romano Prodi, I Democratici. Prima con l’Ulivo  poi con il Pd viene eletto due volte deputato.

Tra i commenti più sentiti, quello di Pier Luigi Bersani, predecessore di La Forgia alla guida della regione.

È morto Antonio La Forgia, l’ex presidente dell’Emilia Romagna aveva scelto la sedazione profonda. L'ex deputato di Ulivo e Pd aveva 78 anni. L'ultimo saluto della moglie: "Quel congedo assume le sembianze di una inutile tortura". Il Dubbio il 10 giugno 2022.

È morto, pochi giorni dopo aver fatto ricorso alla sedazione profonda, l’ex presidente della Regione Emilia Romagna, Antonio La Forgia. L’ex deputato di Ulivo e Pd aveva 78 anni ed era malato da oltre un anno e mezzo di una forma grave di tumore.

Tra i primi a ricordarlo, l’attuale governatore, Stefano Bonaccini: «Se ne va per sempre un uomo di grande cultura, mai sopra le righe, forte della sua forza di pensiero. Un politico in grado di intravvedere prima il futuro e tracciare la strada di un riformismo che guardasse in primo luogo al rinnovamento delle istituzioni e del Paese. Senza dubbio uno dei protagonisti della costruzione di un’Emilia-Romagna dalle solide fondamenta sociali e capace di guardare avanti, alla pari delle aree più all’avanguardia in Europa e nel mondo».

Solo un paio di giorni fa, in un lungo post su Fb scritto nella notte, la moglie del politico, Mariachiara Risoldi,  aveva spiegato come si è arrivati alla sedazione profonda. Forlivese di origine, la Forgia era da tempo malato di una forma incurabile di tumore ai polmoni. «Dopo colloquio – ha scritto la moglie riportando parte della documentazione che ha dato avvio al processo – con il paziente e la moglie, sulla linea della DAT si inizia sedazione palliativa con morfina ogni 4 ore. Viene dato il consenso». «Antonio – ha commentato – ha iniziato un viaggio di sola andata, con serenità, con la sua grande famiglia allargata attorno. Per la legge il suo corpo è costretto ad essere ancora qui, mentre la sua mente è già arrivata in un luogo leggero. Siamo un paese veramente ipocrita».

Il punto è infatti quello della mancanza nel nostro paese di una legge sull’eutanasia. «Un dolore troppo lungo – ha scritto ancora la donna -. Quadro clinico del 6 giugno 2022: una metastasi in D10 e sulle costole, raggiunto il midollo, causava una paraplegia, altre sparse lungo la colonna causavano un dolore in crescita esponenziale non contenibile con la terapia antalgica che non riusciva a tenere il passo con l’aumento dello stesso. Antonio si confronta con la famiglia allargata, a cui è consapevole di arrecare un dolore, ma da cui riceve sostegno e solidarietà e decide di avvalersi della legge 219/2017 rifiutando e sospendendo qualsiasi terapia, ivi incluse quelle salvavita». Effetto diretto del rifiuto o della sospensione di terapie salvavita, ricorda ancora, «è la morte. Questa, a seconda del trattamento rifiutato o sospeso, non sempre è rapida. Per evitare dolore, nella fase terminale che si viene a creare con il rifiuto o l’interruzione di terapie salvavita, il medico può aiutare il paziente attraverso una sedazione palliativa profonda continua. Quello che la legge non contempla- aggiunge Mariachiara Risoldi – è la possibilità di mettere fine alla propria vita in breve tempo. Antonio 27 ore fa viene sedato. Gli ultimi quindici minuti ci salutiamo noi. Trentatrè anni di vita assieme, un saluto scherzoso: “Tu lassù non sedurre troppe signore”, “quando sarà il momento ti verrò a prendere”, sono le ultime parole sussurrate, mentre gli occhi si chiudono». E ancora: «La mente ironica e brillante di Antonio non c’è più», la famiglia allargata su alterna a fargli compagnia, al respiro faticoso si alternano le carezze: «Quel congedo sereno, amorevole, perfino allegro, dopo 26 ore per i familiari assume le sembianze di una inutile tortura».

Vittorio Macioce per "Il Giornale" l'11 giugno 2022.

Antonio La Forgia aveva 78 anni e da un anno e mezzo combatteva contro un tumore.

Non c'era più speranza. Non c'erano più terapie. È così che l'ex presidente dell'Emilia Romagna, deputato del Pd fino al 2013, ha spento le luci, aggiustato con le ultime forze il cuscino, dando un ultimo sguardo al mondo. 

La scelta di addormentarsi per sempre, per dare riposo al dolore, come se davvero la vita fosse racchiusa nelle parole di Amleto: «Morire, dormire; dormire: forse sognare: ahi, qui sta il problema; perché in questo sonno di morte quali sogni possono venire dopo che ci siamo cavati di dosso questo groviglio mortale». Antonio La Forgia aveva 78 anni e da un anno e mezzo combatteva contro un tumore. Non c'era più speranza.

Non c'erano più terapie. È così che l'ex presidente dell'Emilia Romagna, deputato del Pd fino al 2013, ha spento le luci, aggiustato con le ultime forze il cuscino, dando un ultimo sguardo al mondo, e ha chiesto ai medici di sedarlo profondamente fino alla fine. Il dolore semplicemente era diventato insopportabile. Su questo c'è poco da dire. Nessuno può parlare della sofferenza degli altri. Sarebbe inumano.

Chi lo ha conosciuto lo ricorda come un politico di grande cultura, ironico, intelligente e non sono solo le belle parole che si dedicano postume a chi non c'è più. Le parole dei dottori ti lasciano solo intuire, da lontano, cosa si può provare. «Le metastasi causavano un dolore in crescita esponenziale non contenibile con la terapia antalgica». Un dolore troppo lungo.

Antonio La Forgia lo ha sopportato fin quando ha potuto. Poi ha detto basta. Ma esiste il diritto di dire «non ce la faccio più?». Te lo devi prendere, perché i confini su questo territorio di frontiera sono indefiniti e non è affatto facile disegnarli. 

Mariachiara Risoldi, la moglie di Antonio, con poche parole ha aperto una questione politica e legislativa che da tempo non trova una risposta. «Per la legge il suo corpo è costretto a essere ancora qui, mentre la sua mente è già arrivata in un luogo leggero. Siamo un paese veramente ipocrita». L'accusa di ipocrisia resta lì sospesa, con la rabbia comprensibile e la disillusione di chi ha perso l'uomo della sua vita e lo ha visto disperarsi senza trovare una via d'uscita.

La scelta è personale. «Antonio si confronta con la famiglia allargata e decide di avvalersi della legge 219/2017 rifiutando e sospendendo qualsiasi terapia, ivi incluse quelle salvavita». È di fatto scegliere la morte, solo che non sempre è rapida. Quello che la legge non prevede è la possibilità di morire subito. È qui l'ipocrisia di cui parla Mariachiara Risoldi. Scegliere di morire, ma con dolore, come se fosse più dignitoso o un prezzo da pagare. 

Il finale lei lo racconta cosi. «Gli ultimi quindici minuti ce li lasciamo tutti per noi». Trentatré anni di vita assieme, un saluto scherzoso. «Tu lassù non sedurre troppe signore». «Quando sarà il momento ti verrò a prendere». Sono le ultime parole sussurrate, mentre gli occhi si chiudono.

Addio a La Forgia. Ciao Antonio, scienziato prestato alla politica e amico di una vita. Carmine Fotia su L'Inkiesta il 9 Giugno 2022.

Fu dirigente comunista, presidente di Regione e parlamentare. Comprese le inadeguatezze del Pd e passò con Renzi. Poi si dedicò solo alla Fisica. Ormai in un corpo che per lui era una prigione, è stato fino alla fine vittima di una legislazione ottusa e dolorosa

Il mio carissimo amico Antonio La Forgia ha intrapreso la strada della separazione da un corpo che ormai era per lui una prigione piena di dolore. Ma per l’ipocrisia denunciata pubblicamente da sua moglie Chiara Risoldi, l’unico modo per farlo era la sedazione profonda che consiste nella somministrazione di morfina finché non sopraggiunga la morte. In Italia, infatti, puoi decidere, a determinate condizioni, che nel caso di Antonio ricorrevano tutte, di porre fine alle tue sofferenze, ma non puoi decidere di farlo in modo rapido, come avviene in altri Paesi.

Sono qui, davanti a lui, a salutarlo con in mano un bicchiere del nostro amato Caol Ila 18 anni. Non voglio parlare dell’assurdità della legislazione, dell’ottusità burocratica che si trasforma in un tortura. No, non voglio parlare di questo. Voglio solo dire che rendere infinito questo suo ultimo viaggio è un atto di crudeltà verso di lui, verso i suoi cari, verso quella famiglia allargata di cui ha parlato Chiara.

Antonio amava la vita e l’ha attraversata di corsa. L’ha vissuta nella sua pienezza, con passione, ha dato e ricevuto tanto amore. Molti hanno ricordato la sua figura pubblica. Dirigente comunista di fede ingraiana, che nella rossa Bologna degli anni sessanta significava essere una minoranza guardata con sospetto dai guardiani dell’ortodossia, è stato assessore comunale e presidente della Regione. È stato uno degli uomini più vicini ad Achille Occhetto negli anni della nascita del Pds che abbandonò per seguire Romano Prodi nei Democratici e poi nella Margherita e nel Pd. Quando decise di lasciare il Pds era presidente della regione e per prima cosa si dimise da quella carica, con quella sobria eleganza che era il suo indimenticabile stile.

Ha dedicato l’intera sua vita alla politica ma la leggeva attraverso la sua formazione da scienziato (era un fisico): gli interessavano i processi lunghi, le radici delle cose, l’esplorazione del possibile. Aveva fatto radicalmente i conti non solo con il comunismo sovietico, ma anche con quello italiano. Non gli piaceva affatto l’idea del “rinnovamento nella continuità” e guardava con fastidio all’eterno riprodursi di una nomenklatura che delle origini comuniste conservava il peggio, ovvero l’attitudine all’eternità del potere, buttando via le passioni e gli ideali. Per questo, si schierò con Renzi fin dall’inizio, quando fu sconfitto da Bersani.

Negli ultimi anni, dopo due legislature da parlamentare del Pd, mi sembrava molto distaccato da una politica che avvertiva come totalmente inadeguata a comprendere i nuovi tempi. Per la sua formazione scientifica l’inadeguatezza e l’incompetenza erano il peggiore errore della politica. Forse per questo nell’ultimo scorcio di vita si era messo a costruire computer e a scrivere di Fisica.

Questo è l’uomo pubblico che molti hanno ricordato. Ma Antonio era davvero un uomo di una cultura infinita e dalle tante passioni. Fu lui a regalarmi i tre volumi delle avventure del capitano Hornblower di Forrester, un classico delle avventure per mare. Aveva una passione particolare per l’intricarsi dei mari e delle correnti, capace di discutere per ore dove si ponesse il confine tra il mare adriatico e il mare Jonio.

Ed ora sono qui, siamo qui amico mio caro. Quasi ogni estate, ci siamo visti a Castro Marino nel Salento, costruendo una “famiglia allargata”. Tra noi ci definivamo “Rom” per il modo un po’ zingaresco di trascorrere le nostre estati, trasformando le nostre case, la tua e di Chiara in particolare, in una sorta di accampamento, nel quale c’era sempre posto per tutti. E così, nell’Italia dove cresceva il seme dell’intolleranza, noi ci dichiaravamo Zingari con orgoglio e senso dell’ironia.

L’ultima volta che ti ho parlato, circa una settimana fa, mi avevi spiegato di aver già deciso cosa fare se il dolore avesse trasformato la tua vita in un inferno e non ci fosse più modo di avere un minimo di autonomia. Eri lì inchiodato in un letto e scherzavi, dicendo di sentirti come il Gregorio Samsa di Kafka. Mi riprendesti anche un po’ bruscamente quando ti sembrò di cogliere in me la commozione. Eri fatto così, non amavi la retorica, le emozioni gridate. Anche in questo eri antipopulista. Per questo siamo qui, attorno a te, con un bicchiere in mano, a vivere questa dolorosa attesa di una fine insensatamente prolungata. Ma questa volta non puoi impedirmi di piangere e di piangerti. Di avere già nostalgia delle tue risate, dei tuoi pensieri che ci mancheranno.

La burocrazia cinica che chiede a Mario di pagare il fine vita. Michele Serra su La Repubblica il 9 Giugno 2022.

Il caso di Mario che ha chiesto il suicidio assistito e ora dovrà sostenere le spese di 5000 euro

Si possono vincere quasi tutte le guerre. Non quella contro la burocrazia. Ditemi se esiste un’altra sintesi della lunga storia di Mario, il primo italiano che, avendolo scelto, potrà porre fine alla propria esistenza (distrutta da un grave incidente, e governata dal dolore fisico e psichico) senza che questa sua scelta sia un crimine.

Mario, con l’aiuto dell’Associazione Luca Coscioni, aveva superato diversi ostacoli. 

Suicidio assistito, accanimento burocratico contro Mario: "Per morire deve pagare 5000 euro". Maria Novella De Luca su La Repubblica il 9 Giugno 2022.  

L'Associazione Coscioni lancia una raccolta per acquistare il macchinario che servirà al paziente tetraplegico. L'uomo è immobilizzato da 12 anni e ha vinto il ricorso contro la Asl per poter ricevere il farmaco letale. "Lo Stato non vuole pagare niente".

Ci sono situazioni in cui alla tristezza non c’è fine. O dove l’assenza dello Stato depone sofferenza su sofferenza. La battaglia per il fine vita in Italia è ormai fatta di storie in cui la burocrazia aggiunge al danno la beffa. E’ soltanto di 48 ore fa la scelta clamorosa di Fabio Ridolfi: dopo aver atteso invano di poter morire con il suicidio assistito, ha aperto al sua “stanza del dolore” a stampa e televisioni per gridare, in senso metaforico, attraverso il puntatore oculare del suo computer, che si farà sedare per morire di fame e di sete.

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 10 Giugno 2022.

La legge non c'è quindi lo Stato non può farsi carico dei costi dell'assistenza. Ma l'assistenza è necessaria per garantire un diritto a un uomo. E allora come la mettiamo? La risposta è anche questa volta nel buon cuore della gente, il solo sul quale si può contare quando serve una reazione immediata e solidale fatta di azioni, in questo caso di donazioni.

È stata avviata una raccolta fondi e nel giro di tre ore è stato raggiunto l'obiettivo: quell'uomo vedrà finalmente riconosciuto il suo diritto di morire con l'aiuto dello Stato. Non serviva una grande cifra, in realtà: cinquemila euro. Semmai bisognava scovare un cavillo capace di azzerare i costi e offrire a lui l'assistenza dovuta. Ma la sensibilità delle persone ha fatto più in fretta. Stiamo parlando di Mario, 44 anni, che non si chiama così ma che il Paese intero ormai conosce con quel nome. 

È il marchigiano che per primo in Italia ha ottenuto, appunto, il diritto di morire con il suicidio medicalmente assistito. Ci sono voluti due anni di carte bollate, ricorsi, denunce penali, solleciti. Ma lui non è tipo da arrendersi e alla fine ha vinto. La guerra di resistenza fra lui e la sua Asl di riferimento (la Asur Marche) è finita pochi mesi fa e Mario - paralizzato da 12 anni a causa di un incidente stradale - ha ottenuto il via libera definitivo, compreso il consenso per il tipo di farmaco da utilizzare e la modalità di somministrazione.

In sostanza può lasciare questo mondo se e quando vuole. Ci sarà un macchinario che azionerà lui stesso e che porterà nelle sue vene il farmaco letale, sotto il controllo di un medico e con i suoi familiari accanto. 

Non c'è più nessuno che possa obiettare qualcosa sul suo diritto di scegliere. Lui - il solo finora - può decidere qual è il limite invalicabile delle sue sofferenze, il punto esatto in cui ha più senso morire che vivere. Servono però un medico, un farmaco e la strumentazione per dire addio al mondo e tutto quanto assieme costa, appunto, più o meno cinquemila euro.

Per morire, in sostanza, Mario dovrebbe dare fondo ai pochi soldi che ha da parte. Ed è per questo che gli attivisti dell'Associazione Coscioni, che seguono da sempre il suo caso, hanno deciso di lanciare ieri una raccolta fondi per aiutarlo. Per stare alla sua parte anche in quest' ultimo, ultimissimo passo. Hanno avviato le donazioni sul loro sito a metà pomeriggio. Alle 19 i cinquemila euro che servivano erano già ampiamente superati. Alle 22 la cifra era salita oltre gli 11 mila euro e sarà ben di più stamattina. 

«Ogni risorsa aggiuntiva versata sarà utilizzata per promuovere l'eutanasia legale», hanno fatto sapere i promotori in serata. Tutto questo - va da sé - non sarebbe necessario se il Parlamento si occupasse del fine vita con una legge che, al momento, sembra non essere priorità per l'agenda di nessun partito. Se la politica prendesse decisioni sul diritto a una morte dignitosa non servirebbero altri Mario in lotta, come ce ne sono. E Fabio Ridolfi, anche lui marchigiano, 46 anni, vorrebbe il suicidio assistito invece di chiedere (come ha fatto) la sedazione profonda perché lo Stato tarda a rispondergli e - ha detto - «io non ce la faccio più a soffrire così». 

Una legge darebbe anche garanzia di assistenza e lo Stato potrebbe farsi carico dei costi sanitari. Invece il fine vita di Mario - per dire - passa per l'umiliazione di far conoscere al mondo la modestia economica della sua famiglia. Il buon cuore della gente, dicevamo. Alla fine quello lo «salverà». Morire per lui è la sola salvezza dalla sofferenza, e il desiderio - esaudito - era che la solidarietà delle persone gli consentisse di farlo senza il dispiacere di lasciare debiti a sua madre.

Niccolò Carratelli per “la Stampa” il 7 giugno 2022.

Basta. Fabio Ridolfi non può aspettare oltre. Vuole mettere fine alla sua sofferenza, anche se non può farlo nel modo che ritiene più giusto. Se non gli viene consentito di compiere il suicidio assistito, a cui pure avrebbe diritto, allora sceglierà la strada più tortuosa: sedazione profonda e continua.

Lo faranno addormentare e non si sveglierà più, ma continuerà a essere «vivo», finché la natura non farà il suo corso. Fabio ha 46 anni e vive a Fermignano (Pesaro-Urbino), da 18 è immobilizzato a letto, a causa di una tetraparesi, provocata dalla rottura dell'arteria basilare. È una patologia irreversibile: non può guarire, non può migliorare. Vorrebbe chiudere la sua vita qui e ora, scegliendo lui il momento, ma è imprigionato dalle lungaggini del servizio sanitario marchigiano: dopo aver comunicato con 40 giorni di ritardo il parere favorevole del proprio Comitato etico, Asur Marche non ha fornito indicazioni sul farmaco da usare e sulle relative modalità di somministrazione. 

La squadra di avvocati che assiste Fabio, guidata da Filomena Gallo, segretario dell'associazione Luca Coscioni, lo scorso 27 maggio ha anche diffidato formalmente l'azienda sanitaria a effettuare in tempi brevi le verifiche sul farmaco. Non è arrivata nessuna risposta, tanto da far ipotizzare un'azione penale per omissione d'atti d'ufficio.

Ma è un film già visto con Mario (nome di fantasia), tetraplegico, anche lui marchigiano, che ha dovuto ingaggiare una battaglia legale per ottenere il completamento della procedura: ora non c'è più nulla che gli impedisca di mettere fine alla sua vita, deve solo decidere quando. La prospettiva di dover aspettare i tempi lunghi delle cause giudiziarie, continuando a stare male ogni giorno di più, ha invece spinto Fabio a fermarsi. 

Attraverso il suo puntatore oculare, lo strumento che gli consente di comunicare con il mondo, ha scritto un messaggio chiaro: «Da due mesi la mia sofferenza è stata riconosciuta come insopportabile. Ho tutte le condizioni per essere aiutato a morire. Ma lo Stato mi ignora. A questo punto scelgo la sedazione profonda e continua, anche se prolunga lo strazio per chi mi vuole bene».

Perché in questo modo lui non sarà più cosciente, ma il suo corpo resterà lì, nel suo letto, nella sua casa, davanti ai suoi genitori e a suo fratello. Questo prevede la legge 219 del 2017, che regolamenta le «disposizioni anticipate di trattamento». Quando un paziente, in grado di intendere e di volere, ne fa richiesta (o l'ha inserita nel proprio testamento biologico), si possono interrompere tutti i sostegni vitali di cui beneficia: alimentazione, idratazione, ventilazione. Per alleviare le conseguenti sofferenze, si prevede una progressiva sedazione, che lo accompagna alla morte. 

Questo sarà il destino di Fabio e lo sarebbe stato comunque, come spiega il dottor Mario Riccio, medico dell'associazione Coscioni: «Nel suo caso si poneva un problema tecnico, perché muove solo gli occhi e non avrebbe potuto schiacciare la pompetta per iniettarsi il farmaco». Il suo percorso sarà, quindi, lo stesso di Eluana Englaro, «ci vorranno dai 3 ai 5 giorni dal momento della sospensione dell'alimentazione», precisa Riccio. Il risultato sarà lo stesso, ma nel modo in cui verrà raggiunto passa tutto il senso di una battaglia politica. 

«Fabio aveva un diritto, quello di poter scegliere l'aiuto medico alla morte volontaria, legalmente esercitabile sulla base della sentenza 242 della Corte Costituzionale (Cappato\Dj Fabo) - attacca Filomena Gallo -. Un diritto che gli è stato negato a causa dei continui ritardi e dell'ostruzionismo di uno Stato che, pur affermando che ha tutti i requisiti previsti e riconoscendo che le sue sofferenze sono insopportabili, gli impedisce di dire basta». 

La sentenza della Consulta ha depenalizzato l'aiuto al suicidio medicalmente assistito, in presenza di determinate condizioni. Protagonista di quella battaglia di disobbedienza era stato Marco Cappato, che aveva accompagnato Fabiano Antoniani a morire in Svizzera: «Ogni giorno che passa per Fabio è un giorno di sofferenza in più - dice il tesoriere dell'associazione Coscioni -. Non possiamo non notare il silenzio assoluto della politica nazionale, impegnata nell'insabbiamento al Senato del testo di legge sull'aiuto al suicidio, dopo che la Corte costituzionale ha impedito al popolo di esprimersi sul referendum».

Fabio Ridolfi è morto, il 46enne con tetraparesi aveva scelto la sedazione profonda. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 13 Giugno 2022.

A comunicare il decesso del 46enne di Fermignano (Pesaro-Urbino) la famiglia. 

Fabio Ridolfi è morto. Il 46enne di Fermignano (Pesaro-Urbino) aveva scelto la revoca del consenso alla nutrizione e alla idratazione artificiali. Nel pomeriggio di lunedì aveva avviato la sedazione profonda. A comunicare il decesso la famiglia, che ha annunciato lo svolgimento dei funerali in forma privata e ha chiesto il rispetto della privacy. 

«Fabio Ridolfi è morto senza soffrire, dopo ore di sedazione e non immediatamente come avrebbe voluto» dichiarano Filomena Gallo e Marco Cappato dell’Associazione Luca Coscioni, a cui Ridolfi si era affidato per accedere al suicidio assistito. Spiega l’Associazione in un comunicato: «Il 19 maggio scorso aveva ottenuto il via libera dal Comitato etico che aveva verificato la sussistenza dei requisiti ma non aveva indicato le modalità né il farmaco che Fabio avrebbe potuto autosomministrarsi. Così nei giorni scorsi Fabio ha comunicato la sua scelta - una scelta di ripiego - di ricorrere alla soluzione che avrebbe potuto percorrere senza aspettare il parere mai ricevuto: la sedazione profonda e continua».

Fabio Ridolfi e il messaggio di Lorenzo Pellegrini: l’ultimo desiderio prima della sedazione. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 13 giugno 2022.

Fabio Ridolfi è morto. La notizia è arrivata poche ore dopo l’avvio della sedazione profonda scelta dal 46enne di Fermignano, immobilizzato da 18 anni a letto a causa di una tetraparesi. A comunicarla è stata la sua famiglia tramite l’Associazione Coscioni.

Nelle scorse ore per realizzare uno dei suoi ultimi desideri si era mosso anche Lorenzo Pellegrini, centrocampista della Roma e della Nazionale del c.t. Roberto Mancini. Il capitano giallorosso aveva mandato un abbraccio e un saluto a Fabio: da tempo Ridolfi tentava l’accesso al suicidio assistito, legale in Italia per le persone nelle sue condizioni di salute, come indicato dalla Corte Costituzionale con la sentenza sul caso Dj Fabo/ Cappato. Così dopo una lunghissima attesa aveva ottenuto il via libera dal Comitato etico che però non aveva indicato le modalità né il farmaco che avrebbe dovuto autosomministrarsi. Così Fabio ha scelto la sedazione profonda.

Prima, però, aveva un desiderio comunicato tramite il puntatore oculare e il sintetizzatore vocale: incontrare Pellegrini e Zaniolo. E da quel momento è partita una mobilitazione generale. Ed ecco che Pellegrini, impegnato in Nations League con la Nazionale, gli aveva mandato un videomessaggio. «Non posso essere lì, ma ci tenevo tanto a mandarti un grande saluto, un abbraccio e un bacio», le parole del giallorosso. Per questo il fratello Andrea Ridolfi ha ringraziato «Lorenzo a nome di tutta la famiglia e in particolare di Fabio per il pensiero che ha avuto. Hai esaudito un suo desiderio ed è stato un regalo».

Da ansa.it il 17 giugno 2022.

È morto Mario (nome di fantasia), 44enne marchigiano tetraplegico da 12 anni, dopo un incidente stradale. 

Mario, prima persona in Italia che può legalmente scegliere il suicidio medicalmente assistito, dopo una battaglia legale, è deceduto alle 11.05 di oggi. 

Lo rende noto l'Associazione Coscioni, che per la prima volta ha comunicato l'identità dell'uomo: Federico Carboni.

L'Associazione Coscioni stamani aveva fatto sapere di aver consegnato all'uomo la strumentazione e il farmaco per il suicidio assistito. L'Associazione, grazie a una "straordinaria mobilitazione", aveva raccolto in poche ore 5mila euro per sostenere le spese.

"In assenza di una legge - ha spiegato l'Associazione - lo Stato italiano non si è fatto carico dei costi dell'assistenza al suicidio assistito e dell'erogazione del farmaco, nonostante la tecnica sia consentita dalla Corte Costituzionale con la sentenza Cappato/Dj Fabo". 

"Grazie a tutti - aveva dichiarato "Mario" - per avere coperto le spese del 'mio' aggeggio, che poi lascerò a disposizione dell'Associazione Luca Coscioni per chi ne avrà bisogno dopo di me. Continuate a sostenere questa lotta per essere liberi di scegliere".

La storia di «Mario», Federico Carboni, il primo suicidio assistito in Italia. La madre: «Ha fatto tutto quello che doveva». Giusi Fasano, inviata a Senigallia, su Il Corriere della Sera il 16 giugno 2022. 

«Vi auguro buona fortuna, vi voglio bene». Poi quell’uomo sfinito dalla vita ha premuto il tasto per azionare l’«aggeggio», come lo chiamava lui, e far arrivare nelle sue vene il farmaco mortale. Alle 10.55 il solo dito che lui fosse in grado di muovere ha dato l’ordine di partenza alla pompa. Alle 11.05 Mario Riccio, medico anestesista, ha annotato il decesso. Per la prima volta nel nostro Paese un uomo si è congedato dalla vita con il suicidio medicalmente assistito. E prima di farlo ha deciso che era arrivato anche il momento di svelare al mondo la sua vera identità: non si chiamava «Mario», come abbiamo imparato a conoscerlo, ma Federico Carboni. Aveva 44 anni e viveva a Senigallia, in provincia di Ancona.

Italia e Svizzera

Da ieri sul fronte del fine vita siamo anche noi un po’ Svizzera, dove finora tanti italiani hanno scelto di andare a morire con il suicidio assistito che lì è concesso dalla legge. In Italia invece una legge sull’argomento non c’è. E non c’è malgrado il richiamo della Corte costituzionale che nel 2019 sollecitò il Parlamento ad approvarla. Finché non lo farete — dissero in sostanza i giudici della Consulta — chi aiuterà qualcuno a morire non sarà punibile se ricorreranno alcune condizioni. La Corte si stava esprimendo sul caso di Marco Cappato, tesoriere dell’ Associazione Coscioni che aveva accompagnato in Svizzera a morire dj Fabo, tetraplegico dopo un incidente stradale. E disse, appunto, che Cappato non era punibile perché per dj Fabo esistevano quattro condizioni fondamentali: 1) è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitali; 2) era affetto da una patologia irreversibile; 3) la sua patologia era fonte di sofferenze intollerabili; 4) lui era pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli.

Le condizioni

Anche per Federico ieri valevano queste condizioni, riconosciute dalla sua asl di riferimento (la Asur Marche) dopo quasi due anni di battaglie legali, fra cause penali, ricorsi, diffide... «Due anni di ostinazione e determinazione», come li ha definiti lo stesso Cappato che ieri mattina era al capezzale di Federico assieme a Filomena Gallo, avvocata e Segretaria nazionale della Coscioni. Sofferente più di sempre per un’infezione che lo tormentava da settimane, lui se n’è andato sereno. Chiedeva ogni giorno se finalmente fosse arrivata o no il macchinario che gli avrebbe consentito di mandare in vena la pozione letale, chiamiamola così. Avrà ripetuto mille volte che «io ho sempre osservato le leggi e ho voluto resistere anche per chi verrà dopo di me».

«Ora potete fare tutto»

Accanto a lui, nella stanza, sono rimasti prima gli amici più stretti, l’infermiere che lo ha sempre assistito, sua madre e suo fratello. Poi, nel momento del finale (ripreso dalle telecamere) c’erano l’anestesista, il suo medico curante, Filomena Gallo e Marco Cappato: «Ora potete fare tutto», ha detto lui sorridendo. Inutile ricordargli che avrebbe potuto fermarsi anche all’ultimo istante. Non voleva fermarsi. Voleva soltanto andare via dal mondo, quel Mario che non si chiamava Mario. Sua madre l’ha abbracciato, l’ha baciato, accarezzato. Un incrocio di occhi commossi, un fiume di parole non dette sospese nell’aria, poi l’addio e la porta lasciata aperta. Era in cucina quando ha sentito la voce del dottore che diceva «non c’è più battito». Un minuto dopo l’abbraccio di quella donna era per Filomena Gallo: «Io lo so», le ha detto in lacrime. «Federico ha fatto tutto quello che doveva fare».

«Ho fatto la rivoluzione»

Federico era tetraplegico da 12 anni dopo un incidente stradale. «Io ho provato a vivere e a essere felice anche così», ripeteva sempre. Finché la sofferenza ha pesato più della vita stessa. «Ho fatto la rivoluzione immobile in un letto» aveva commentato dopo aver vinto l’ultima resistenza per ottenere il suicidio assistito. Di sicuro lui e l’Associazione Coscioni hanno scritto una pagina di giurisprudenza. «Abbiamo dovuto sostituire lo Stato nella concreta attuazione di un diritto», la riassume Cappato, che parla del fine vita e della legge che non c’è («quella in discussione non è utile»), chiamando in causa «il Pd di Enrico Letta e i cinquestelle di Giuseppe Conte: sono quelli che sulla carta sarebbero a favore e che nella realtà sono contro».

La lettera d’addio di Federico Carboni: «Mi spiace andare, la vita è fantastica. Adesso sono libero di volare ovunque». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 giugno 2022.

Ha voluto che gli facessero la barba e che lo vestissero con cura, ha voluto che chiunque arrivasse al suo capezzale avesse un po’ di eleganza, per gli uomini ha chiesto la giacca. Che la morte non trovasse sciatteria nel luogo in cui era stato costretto a vivere i suoi ultimi dodici anni. Ha chiesto che «per favore niente piagnistei, ricordatemi con un sorriso». E nella sua ultima lettera al mondo ha scritto che «se avrete un nodo alla gola o vi scenderà una lacrima fermatevi, fate un bel respiro e sorridete, perché se mi avete conosciuto ricorderete com’ero, sempre con la battuta pronta, a scherzare, di buon umore senza mai lamentarmi».

La sofferenza

era esattamente così. Conoscerlo era un privilegio perché dalla sua immobilità quasi assoluta era capace di scuotere le esistenze degli altri. Di muovere sentimenti e coscienze. Non aveva paura della vita, come non ne ha avuta della morte perché dal fondo della sua sofferenza la morte lui l’ha immaginata migliore del suo vivere imprigionato in un corpo immobile. «Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita» è stato sincero, «sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così e io sono allo stremo sia mentale sia fisico». Per gli amici dell’Associazione Coscioni che lo hanno accompagnato lungo la via contorta della Giustizia e nel giorno del suo finale, ha trovato parole leggere che scacciassero il pianto. «Ho visto che mi avete disegnato prima con un paio di boxer e poi con un bel pigiamino blu con delle sbarre che mi imprigionavano al letto» ha detto ricordando i disegni pubblicati sul loro sito durante i vari passaggi legali della sua storia. «Ora levate le sbarre perché finalmente sono libero di volare dove voglio, e spero di essere lì con voi».

Sua madre

Se n’è andato, Federico. Eppure non è mai stato così presente. Lo ha detto lui stesso a sua madre in quel saluto finale immaginato un milione di volte con chissà quante parole e alla fine fatto di poche frasi, perché tanto tutto — ma proprio tutto — parlava per l’uno e per l’altra, in quella stanza. «Ma’, vado ma tanto lo sai che resto qui con te», le ha detto cogliendo la commozione di quella donna che per lui è stato tutto per dodici anni. Lo avevano dato per spacciato, la sera dell’incidente stradale (era l’autunno del 2010). «Dicevano tutti che sarei morto, invece...». Invece il suo fisico ha resistito. Federico è uscito dal coma, dalla terapia intensiva, e quando si è svegliato ha capito subito che il suo futuro sarebbe stato immobile. I medici confermarono: era tetraplegico.

La decisione

Decise di voler morire una domenica pomeriggio del 2015, o meglio. E lo comunicò a suo padre (che morì l’anno dopo). «Che intenzioni hai per il futuro?» chiese lui portandolo in cortile a fare un giro con la carrozzina sulla quale all’epoca Federico riusciva ancora a stare. «Finché riesco a resistere vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia e se non va bene vado a morire in Svizzera» rispose Federico. «So che ha capito», ha sempre ripetuto a se stesso. Pochi giorni fa, dimagrito e provato dall’ennesima infezione, dalla febbre alta e dai soliti dolori inenarrabili, è tornato a parlare del capire degli altri: «Non so se tutti capiranno mai e accetteranno mai la mia scelta, perché in queste condizioni ci sono io e parlare da esterni è facile. Non ho un minimo di autonomia nella vita quotidiana, sono in balia degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell’oceano».

La scelta

La barca alla deriva nell’oceano ha tenuto il timone dritto quando è stato il momento di affrontare l’onda più grande di tutte. Federico ha risposto deciso alle domande di rito dell’ultimo minuto. «Sei cosciente?» Sì. «Sei libero nella tua scelta?» Sì. E avanti così, di risposta in risposta. Alla fine era lui che ripeteva a tutti la procedura, cioè la via della dolce morte. «C’è qualcosa che posso fare per te, che posso portarti da Roma?» gli aveva chiesto l’amica Filomena Gallo due giorni fa. «Vorrei un po’ di Porchetta di Ariccia» era stata la sua richiesta (esaudita). Si divertiva anche così, Federico. A spiazzare tutti con un po’ di allegria o a parlare con Oreste, il pesciolino rosso che ha visto crescere nella sua stanza. Tutto sempre uguale, in quella stanza. Per 24 ore al giorno, 365 giorni l’anno, per dodici lunghissimi anni. Una non-vita che era una condanna. Il verdetto era: fine pena mai. Fino a ieri.

Il farmaco letale che ha messo fine alle sue sofferenze. La storia di Mario e l’odissea per liberarsi dalla vita: il suicidio assistito di Federico Carboni. Federica Graziani su Il Riformista il 17 Giugno 2022. 

Può una singola persona fare la storia dei diritti? E può farlo se versa in condizioni fisiche di estrema vulnerabilità? Infine. Può farlo mettendo fine alla sua esistenza?

In Italia, sì. Ieri mattina alle 11.05 Federico Carboni, finora noto come “Mario”, un quarantaquattrenne di Senigallia, ex camionista e tetraplegico da 11 anni in seguito a un incidente stradale, è morto. È il primo italiano ad aver chiesto e ottenuto l’accesso al cosiddetto suicidio medicalmente assistito, reso legale dalla sentenza della Corte Costituzionale 242 del 2019, sul caso Cappato-Dj Fabo. È la prima volta che un malato in Italia può mettere fine alle proprie sofferenze, esercitare un diritto riconosciuto ed esprimere pienamente la propria volontà. E quella volontà è bene ascoltarla dalle sue stesse parole.

«Ciao a tutti, sono Mario. Eh sì, il Mario che avete conosciuto in questi mesi. In due anni, ma questa volta sarà l’ultima che sentirete le mie parole perché vi sto scrivendo a pochi giorni da quando finalmente potrò premere quel pulsante, potrò porre fine alle mie sofferenze. Non nego che mi dispiace congedarmi dalla vita, sarei falso e bugiardo se dicessi il contrario perché la vita è fantastica e ne abbiamo una sola. Ma purtroppo è andata così. Io sono allo stremo sia mentale che fisico. Ho fatto tutto il possibile per riuscire a vivere al meglio e cercare di recuperare il massimo della mia disabilità. Posso dire che, da quando a febbraio ho ricevuto l’ultimo parere positivo sul farmaco, sto pensando più e più volte al giorno se sono sicuro di quanto andrò a fare perché so che premendo quel bottone ci sarà solo un addormentarsi, chiudendo gli occhi senza più ritorno. Ma pensando ogni giorno, appena sveglio e fino alla sera quando mi addormento, come vivo, passo le mie giornate a domandare cosa mi cambierebbe. Rimandare non avrebbe senso. Non ho il minimo di autonomia nella mia vita quotidiana, sono in balia degli eventi, dipendo dagli altri su tutto, sono come una barca alla deriva nell’oceano. Sono consapevole delle mie condizioni fisiche e delle prospettive future quindi sono totalmente sereno e tranquillo per quanto farò. Non so se tutti capiranno e accetteranno mai la mia scelta, ma in queste condizioni ci sono io e parlarne da esterni è troppo facile».

Federico Carboni ha scritto questa lettera il 2 maggio scorso. La richiesta di essere sottoposto alla verifica delle proprie condizioni per poter procedere nella sua scelta, così com’è stato previsto dalla sentenza della Corte Costituzionale prima citata, è partita nell’agosto del 2020. Nel frattempo, ci sono stati due procedimenti giudiziari che hanno portato a una condanna nei confronti dell’Azienda Sanitaria Unica Regionale Marche (ASUR). Una condanna proprio a verificare se Federico possedesse le condizioni previste dalla Corte Costituzionale, cioè se fosse capace di autodeterminarsi, se fosse affetto da una patologia irreversibile arrecante gravi sofferenze, se dipendesse da trattamenti di sostegno vitale. Carboni, grazie al parere successivo alla sentenza del Tribunale di Ancona, possedeva tutti quei requisiti. Ma non è finita lì. Quel primo parere era privo della parte di verifica del farmaco e delle modalità per procedere. E quindi un nuovo processo a carico dell’Asur. Il successivo parere, ancora favorevole per Carboni, è arrivato a febbraio del 2022. Ma siamo a giugno. Cosa è successo da febbraio a giugno?

La sentenza della Corte Costituzionale ha sì valore di legge e prevede un obbligo per il Sistema Sanitario Nazionale di verifica delle condizioni e delle modalità per procedere, ma non c’è una legge per fornire tutto ciò che serviva a Federico Carboni per poter rendere esigibile il suo diritto. E lo Stato italiano non si è fatto carico dei costi di assistenza al suicidio assistito e di erogazione del farmaco. Lo hanno fatto, da soli, lui, i suoi familiari e l’Associazione Luca Coscioni, che in poche ore ha raccolto 5000 euro per comprare la strumentazione necessaria. E finalmente ieri si è potuta compiere la sua volontà. Due anni dopo. Due anni in cui sarebbe potuto andare a morire in Svizzera. Due anni in cui le sofferenze si sono aggiunte a quelle già patite negli anni precedenti alla sua mobilitazione.

Invece Federico Carboni ha deciso di aspettare. Ha voluto esercitare la sua libertà di scelta in Italia, un paese in cui più si è vulnerabili fisicamente meno si possono far valere i propri diritti. «Io mi vergognerei, da parlamentare, se a fine legislatura si arrivasse senza una legge sul fine vita. Sarebbe una scelta vergognosa. Quanto accaduto oggi non può non far riflettere», ha chiosato il segretario del Pd, Enrico Letta. Grazie alla resistenza di una persona che quella vulnerabilità ha conosciuto, da ieri siamo tutti più autonomi, più tutelati, più liberi. Federica Graziani

Fine vita, facciamo un punto: ecco cosa succede alla legge ferma al Senato. Simone Alliva su L'Espresso il 14 Aprile 2022.  

Appeso agli umori di Lega e IV, il testo potrebbe partire in Commissione dopo Pasqua. Marco Cappato: «La proposta di Pillon come relatore non sia un pretesto per non discuterla. Ognuno si assuma le proprie responsabilità».

Il nome di Simone Pillon come relatore della legge sul fine-vita non è una minaccia, non è uno spauracchio ma una proposta concreta messa sul tavolo dalla Lega. Il senatore pro-vita o “anti-scelta” (secondo gli attivisti per i diritti umani) potrebbe prendere le redini del testo approvato alla Camera il 10 marzo. L’idea è accarezzata dal Presidente della Commissione Giustizia, Andrea Ostellari, anche lui leghista. Pillon si dice «Pronto». Ma comunque vada non sarà da solo. Il disegno di legge è stato assegnato oltre che alla Commissione Giustizia anche a quella Igiene e Sanità, presieduta dalla senatrice Annamaria Parente di Italia Viva che potrebbe scegliere come relatore un parlamentare del Pd. La strana coppia avrà il compito di guidare i parlamentari nell’esame della legge, presentare e approvare modifiche.

Stando al regolamento del Senato inoltre: “Le Commissioni riunite sono di regola presiedute dal più anziano di età fra i Presidenti delle Commissioni stesse”. Sarebbe dunque proprio Parente, classe 1960, a mettersi a capo della commissione e impedire un ostruzionismo simile a quello scatenato, durante i mesi del ddl Zan, dal Presidente Ostellari.

Franco Mirabelli, senatore del Partito Democratico, annuncia la tempistica: «La settimana dopo Pasqua dovremmo incardinare il testo nelle commissione congiunte», dichiara a L’Espresso e si lascia a un’analisi: «Considerando il punto in cui è la legislatura e i rapporti di forza su questi temi al Senato, riuscire a portare una legge che si limita a tradurre la sentenza della Corte è già un risultato. Forse non sarà ottimale ma ci consente in futuro di rimettere mano su un testo di cui vedo tutti i limiti».

La legge sul fine-vita non sarà il meglio che c’è. Ma tutto sembra procedere. Il testo disciplina la facoltà della persona affetta da patologia irreversibile e con prognosi infausta o da una condizione clinica irreversibile, di richiedere assistenza medica, il tutto al fine di porre fine volontariamente ed autonomamente alla propria vita, con il supporto e sotto il controllo del sistema sanitario nazionale. Bisogna difendere il testo uscito dalla Camera, dicono dentro il Pd e «per difenderlo non bisogna avere fretta. Bisogna soprattutto non irritare Italia Viva». I numeri al Senato sono ballerini e così il partito di Renzi, ago della bilancia come già in passato per la legge contro l’omotransfobia, si muove avanzando richieste e paventando strappi.

Per leggere in filigrana le prossime mosse sul fine-vita bisogna puntare gli occhi sulla Camera, suggeriscono voci interne a IV, dove la riforma del Csm è in calendario in Aula per il 19 aprile mentre in Commissione si corre per approvare modifiche richieste da IV. Pena l’astensione sulla riforma Cartabia e contraccolpi sul fine-vita al Senato. Insomma, la partita sul Csm servirà a sistemare i do ut des e contare i voti che mancano. È il piccolo mercato del Parlamento dove i diritti, ancora una volta, restano appesi a umori e possibili vendette.

«Come sempre è una questione di volontà politica», sottolinea Marco Cappato, tesoriere dell’associazione Luca Coscioni: «Sappiamo che la calendarizzazione alla Camera è stata accelerata perché c’era da far fuori il referendum, spingere la Corte costituzionale a bocciarlo. Di fronte a una forte indignazione popolare hanno dato un segnale e approvato in grande velocità il testo. Ma adesso non c’è più l’urgenza sul referendum e neanche quella di gestire un’indignazione generale». Quest’ultima, dice Cappato, è però solo un’illusione: «Il fine-vita è una realtà sociale in continua crescita, ma le forze politiche fingono di non vedere». A dimostrarlo le oltre 15mila firme raccolte dai volontari dell’Associazione Luca Coscioni in soli due giorni per chiedere una “buona legge” sul fine-vita.

Buona, quindi diversa da quella uscita dalla Camera, che secondo l’associazione Coscioni arriva al Senato in forma fortemente restrittiva rispetto agli stessi parametri già indicati dalla Consulta nella nota sentenza del 2019 Cappato-Fabiano Antoniani: dalla mancata definizione di tempi certi, all’esclusione per i malati oncologici e per chi non è tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale, fino all’obiezione di coscienza. Potrebbe andare peggio.

Il senatore Pillon non aveva nascosto il suo giudizio sul provvedimento quando è stato approvato alla Camera: il testo sul fine-vita «che esce dalla Camera è iniquo, inaccettabile, apre all'eliminazione dei più deboli, fragili e indifesi. Oggi ha vinto la morte», dichiarava annunciando battaglia: «i numeri per fortuna al Senato sono diversi». Per Cappato: «Pillon non può essere il pretesto per non affrontare la discussione. La discussione va fatta e bisogna votare. Non possiamo far finta che il problema siano Pillon o Ostellari».

Alessandra Maiorino, senatrice del Movimento Cinquestelle, dalla sua parte della barricata è granitica: «Riteniamo di aver trovato una linea condivisibile, addirittura morbida sul fine-vita, nessuno può dire che questo sia un testo estremo. Raccoglie l’istanza di chi non ha più un’alternativa, di chi non ha di fronte a sé prospettive di miglioramento delle condizioni. È più che umano lasciare la possibilità di scegliere in maniera ufficiale, perché ufficiosamente sappiamo che viene già fatto».

Incardinato il testo (forse per giovedì 21), le commissioni congiunte si troveranno di fronte a una girandola di audizioni, emendamenti e ostruzionismo che rischia di dilatare ancora di più i tempi. Dietro la garanzia dell’anonimato, un senatore berlusconiano favorevole al testo disegna un quadro fosco: «Questa legge non andrà da nessuna parte. Il centro-destra è contrario e compatto e la questione dei relatori è uno specchietto per allodole che vuole solo misurare le reazioni. La seppelliranno di emendamenti, da Lega e Fdi faranno ostruzionismo mentre IV proporrà un compromesso inaccettabile. Un copione già scritto. Il ddl Zan ha fatto scuola».

Simona Antonucci per “il Messaggero” il 22 marzo 2022.

Icona cinematografica, tra gli uomini più affascinanti al mondo, ribelle e fuori dagli schemi, Alain Delon, 86 anni, sceglie di morire come e quando vuole lui. Ricorrendo al suicidio assistito, quando sarà il momento, in Svizzera, dove risiede ed è legale, con l'aiuto del figlio Anthony. «Se mai mi succede qualcosa e sono in coma, tenuto in vita da una macchina, voglio che tu stacchi la spina. Voglio che me lo prometti». A rivelarlo è proprio il primogenito, 57 anni, nato dalle nozze con Nathalie Delon, cui il divo francese, ha rivolto la struggente richiesta.

Alain Delon negli ultimi anni non ha perso occasione per ribadire di essere favorevole all'eutanasia. Ed è rimasto molto colpito dal modo in cui il figlio Anthony si è occupato degli ultimi istanti di vita della madre, Nathalie, scomparsa nel gennaio 2021 per un cancro al pancreas: anche lei aveva chiesto di ricorre all'eutanasia, ma morì poco prima di attivare i procedimenti. «A una certa età», ha detto l'elegante interprete del Gattopardo di Luchino Visconti, «ognuno deve avere il diritto di andarsene in tranquillità senza la necessità di ricorrere a ospedali, iniezioni e il resto».

IL CANE Una scelta che avrebbe previsto anche per il suo amato cane, Loubo, di 7 anni: «Se dovesse morire prima di me», ha detto in un'intervista tempo fa, «cosa che spero, non ne prenderò un altro. Se muoio prima di lui, chiederò al veterinario di farlo morire con me, nelle mie braccia. Preferisco questo a sapere che si lascerà morire, soffrendo, sulla mia tomba». 

La scelta di Delon viene confermata da un testamento: durante un'intervista della radio francese RTL, Anthony, anche lui attore, in occasione dell'uscita del suo libro dedicato alle vicende familiari (Entre chien et loup - Tra il cane e il lupo), spiega che il padre abbia messo nero su bianco le sue volontà, chiedendogli, «nel momento in cui dovesse decidere di affrontare la morte» di restargli accanto fino alla fine e organizzare il tutto. Il divo avrebbe già fatto testamento, anche per non scatenare battaglie legali tra i suoi figli legate all'eredità. 

E comunque le sue condizioni di salute non sono delle migliori: afflitto da una forte depressione, Alain sta ancora cercando di riprendersi da un ictus che lo ha colpito nel 2019. Problemi di salute che si sommano al dolore per la perdita, nel 2017, della sua compagna Mireille Darc. «Preferisco l'età che ho e non 40 anni. Così non dovrò vivere troppi anni senza di lei, soffrendo», disse alla morte dell'attrice». Mireille e Alain si conobbero nel 1969, sul set di Addio Jeff! e da quel momento diventarono inseparabili, recitando insieme in altri film.

Sex symbol della storia e tra i più grandi attori francesi al pari di Jean Gabin, o di Jean-Paul Belmondo, suo eterno rivale, con viso d'angelo e occhi di ghiaccio, ha lavorato con registi come Clément, Visconti e Melville. Il Festival di Cannes nel 2019 gli assegnò la Palma d'Oro alla carriera.

Leonardo Martinelli per “la Stampa” il 31 marzo 2022.

Tra i rumori insistenti di piatti e tazzine e il vociare ignaro dei clienti, Anthony Delon racconta il suo libro, che è la sua vita, al "Deux Magots", storico café nel cuore di Parigi. Lo scrutano, lo riconoscono. 57 anni, somiglia così tanto al padre Alain: sorriso ampio e gli occhi chiari, ma d'un tratto lo sguardo può diventare scuro. Entre chien et loup, dell'editore Cherche midi, è la storia del figlio di un mostro sacro del cinema francese e di Nathalie Delon, «una donna libera fin dagli anni Sessanta, ma lei preferiva dire che era un essere umano libero». 

Pure lei attrice, vissero cinque anni insieme.

«È un libro sulla resilienza», aggiunge Anthony. Ma prima di arrivare alla resilienza sfilano via un'infanzia ribelle, violenze psicologiche e fisiche da parte del padre e le assenze di una mamma (appunto) troppo libera. Poi, auto rubate, armi e problemi con la giustizia in gioventù. Ma certe volte le storie finiscono meglio di come sono cominciate.

Sua madre è morta poco più di un anno fa, portata via da un cancro in poche settimane. Negli ultimi mesi si erano visti i suoi genitori?

«Certo, il loro rapporto non si era mai spezzato. Io l'ho accompagnata fino all'ultimo, giorno dopo giorno. Abitava in un appartamento di due camere con la vista sulle Tuileries. Papà, che vive tra la sua proprietà in campagna e la Svizzera, veniva a Parigi, dove ha un grosso appartamento. Ma andava a dormire da lei, nella camera prevista per gli amici. Alle sei di mattina s' infilava nel letto con mamma, al momento in cui lei si addormentava, perché mia madre soffriva d'insonnia. Restava nel dormiveglia e verso le otto, stretta a lei, chiedeva: "Nat, ma dormi?". Mia madre rispondeva un po' risentita: "È ovvio che non dormo". "Me la fai la spremuta d'arancia?", le chiedeva.

E lei gliela faceva. Se non c'erano le arance, papà osava perfino brontolare, perché è un rompipalle. Mia mamma gli diceva: "Vai a casa tua, se non sei contento". Insomma, la solita commedia all'italiana. Ma la tenerezza di quelle scene mi ha permesso di ricomporre tante cose». 

Ha addirittura realizzato un documentario, è vero?

«Mia madre desiderava che si facessero queste immagini per le mie due figlie. Ho girato gli ultimi suoi 37 giorni. Uscirà a fine anno. Dopo la morte, ho fatto un'intervista a mio padre su di lei. Ha ammesso che avevano due caratteri forti, ma che con mamma si era dovuto piegare. Lui che non si piega mai».

Il libro è di una franchezza disarmante, quando racconta certe violenze di Alain Delon nei suoi confronti con una frusta di cuoio. Lei paragona la sua situazione a quella di L'incompreso, di Luigi Comencini

«Perché uno dei drammi della mia vita è stata la solitudine da bambino, come il bambino del film. Da piccolo mio padre aveva vissuto situazioni simili e le ripercuoteva automaticamente su di me. Questo libro è una dichiarazione d'amore nei suoi confronti. Io ho capito tante cose, anche lui deve capirle e lo deve fare ora. Fortunatamente abbiamo preso entrambi molta distanza rispetto alla nostra storia. Sul libro mi ha fatto dei complimenti. E, dopo che ne ho parlato in prime time su France 2, la principale tv pubblica francese, mi ha chiamato e mi ha detto: "Grazie"».

Il libro racconta anche aneddoti divertenti, come al momento del suo battesimo.

«A pranzo i miei genitori, che erano degli inguaribili provocatori, proposero di fare il gioco della torre: chi butti giù tra queste due persone? Era presente anche Visconti. E mia madre chiese a papà: chi butti giù, Georges (Beaume, che era il suo agente ed è stato il mio padrino) o Luchino? Mio padre preferì Georges. E Visconti si alzò di scatto, arrabbiato: chiese di essere subito riaccompagnato in auto a Parigi» 

Una volta Alain Delon rientrò a casa. All'epoca condivideva la sua vita con Mireille Darc. Cosa successe?

«Ci trovò Giscard d'Estaing, che era Presidente. E aveva una fama di donnaiolo. Non sapeva che Mireille l'aveva invitato per gentilezza a prendere un tè. "Signore, esca subito da qui", gli disse. "Ricevo a casa mia solo la gente che invito io". Lui è sempre stato molto geloso...». 

Oggi, dopo vari anni, lei è ritornato a recitare.

«Sì, ho interpretato un prete nella fiction dal titolo Meurtres au Mont-Saint-Michel, trasmessa su France 2. E mi è piaciuto molto. Intanto sono coinvolto in un progetto di serie tv sulla mia storia e quella del clan Delon. È lavorandoci che ho avuto l'idea di scrivere il libro. E questo mi ha aiutato a capire tante cose su di me. I diritti della serie sono già stati acquisiti da Mediawan. Erano entusiasti, perché, mi hanno detto, "voi Delon siete i nostri Kennedy"».

Errore semplificare sull'eutanasia. Stefano Zecchi il 10 Marzo 2022 su Il Giornale.

Ci sono situazioni in cui la vita non è più vita? Chi lo può stabilire? Il parlamentare, l'uomo della strada? Se fossero loro, che competenza avrebbero? 

Ci sono situazioni in cui la vita non è più vita? Chi lo può stabilire? Il parlamentare, l'uomo della strada? Se fossero loro, che competenza avrebbero? Sarebbe più convincente passare la decisione a uno scienziato che stabilisca se una macchina annulla l'essenza della vita stessa o se le condizioni di un malato sono così gravi e irreversibili che, in verità, non c'è più vita. Ma, se l'incompetenza di un politico o dell'uomo della strada possono rappresentare un obbiettivo ostacolo nell'affidare loro una decisione così complessa, perché non potrebbe essere lo scienziato il soggetto delegato alla decisione? Perché, si sostiene, il problema è di natura etica, e la scienza non necessariamente si sviluppa su basi etiche, anzi, talvolta, i suoi progressi avvengono contravvenendo le regole della morale corrente. Questo significa che comunque si affronti il problema dell'eutanasia, noi non abbiamo regole, principi incontrovertibili, ma che tale problema è affidato alla formazione culturale, religiosa di ciascuno di noi, così come al buon senso e al rispetto reciproco delle diverse sensibilità. La tendenza che sembra prevalere in Parlamento è quella di semplificare le procedure.

Invochiamo spesso percorsi che snelliscano la burocrazia. Ma c'è da chiedersi se una legge sul finis vitae debba essere considerata una tra le tante norme burocratiche che debbano essere snellite per evitare lungaggini. Credo proprio il contrario: tanto più si procede con grande attenzione, tanto meno si incorre in errori, in semplicistiche valutazioni.

Potrebbe essere il medico di base a decidere se procedere con l'eutanasia per il proprio paziente. Ora la tragedia del Covid ha mostrato tutta la fragilità del sistema medico di base, ed affidare al medico di famiglia una decisione tanto delicata sembra un modo di scaricare sulla realtà di cura meno tecnicamente attrezzata la soluzione di un problema sociale (non solo medico) tanto delicato.

Cercare un punto di vista scientifico e filosofico (etico) sul finis vitae, che trovi un consenso generale, è utopistico, ma sarebbe la strada «umanamente» più corretta e che più ci convincerebbe. Ma, appunto, è utopistico, e, tuttavia è impensabile ridurre la questione a una battaglia politica. Si cerchi piuttosto un'alleanza sulla prudenza nel modo di procedere nella formulazione della legge: questo è proprio un caso in cui la lentezza delle procedure provocata da maggiori percorsi di verifica è di gran lunga migliore di rapide semplificazioni.

Eutanasia, basta solo un certificato. Pasquale Napolitano il10 Marzo 2022 su Il Giornale.

Sì della Camera: "Sufficiente l'ok del medico di famiglia". Ma al Senato sarà duello.

La legge sul fine vita avanza in un Parlamento con la testa al conflitto Russia-Ucraina. Mentre il capogruppo Pd Debora Serracchiani interrompe i lavori per chiedere un'informativa urgente sui bombardamenti russi all'ospedale di Mariupol, l'Aula cancella l'obbligo del doppio certificato, medico curante e specialista, per attestare l'irreversibilità della patologia che dà la possibilità di ricorrere al suicidio assistito.

Il centrodestra prova lo sgambetto. Ma l'asse Pd-M5S-Leu regge e porta a casa l'approvazione degli articoli 2 e 3 della legge. Lunedì era stato approvato l'articolo 1. Nella seduta di ieri, sospesa per due ore per consentire il Question time del presidente del Consiglio Mario Draghi, la Camera dei deputati dà il via libera con 223 sì, 168 no e un'astensione all'articolo 2 della legge sul fine vita.

È il cuore del provvedimento: l'articolo prevede che «si intende per morte volontaria medicalmente assistita il decesso cagionato da un atto autonomo con il quale, in esito al percorso disciplinato dalle norme della presente legge, si pone fine alla propria vita in modo volontario, dignitoso e consapevole, con il supporto e sotto il controllo del Servizio sanitario nazionale».

Tale atto, si legge nel testo dell'articolo, «deve essere il risultato di una volontà attuale, libera e consapevole di un soggetto pienamente capace di intendere e di volere. Le strutture del Servizio sanitario nazionale operano nel rispetto dei seguenti principi fondamentali: tutela della dignità e dell'autonomia del malato; tutela della qualità della vita fino al suo termine; adeguato sostegno sanitario, psicologico e socio-assistenziale alla persona malata e alla famiglia».

Ma la novità più importante, che arriva con il voto di Montecitorio (prima lettura), è lo stop al doppio certificato. La modifica è contenuta in un emendamento a firma di Andrea Cecconi (Maie) e del radicale Riccardo Magi approvato dall'Aula della Camera con 227 voti a favore, 171 no e tre astensioni: potrà essere certificata dal medico curante o da uno specialista la patologia irreversibile e con prognosi infausta che cagioni sofferenze fisiche e psicologiche che la persona trova assolutamente intollerabili per accedere alla morte volontaria medicalmente assistita. Nel testo originario era necessaria una certificazione sia del medico curante sia dello specialista: si tratta, dunque, di un affievolimento delle condizioni contro cui si è schierato il centrodestra. Duro il commento di Pro Vita e Famiglia: «Il certificato del medico curante e di uno specialista sono entrambi obbligatori per ottenere l'invalidità civile, è aberrante che non lo siano per ottenere il suicidio assistito da parte dello Stato», attacca Jacopo Coghe, portavoce di Pro vita & Famiglia. Via libera anche all'articolo 3 sui presupposti e le condizioni per accedere alla morte volontaria medicalmente assistita. Altro allargamento del campo di applicazione della legge è inserito nell'emendamento, approvato dall'Aula, che sancisce che anche chi abbia «volontariamente interrotto» un percorso di cure palliative potrà accedere alla morte medicalmente assistita. Il centrodestra prova con alcuni emendamenti soppressivi a far saltare il banco. Ma la coalizione Pd-grillini-Leu tiene. Si punta a chiudere entro oggi. Poi la palla passa al Senato dove i numeri sono sul filo di lana. E lì va trovata una mediazione: il rischio Ddl Zan è dietro l'angolo di Palazzo Madama.

La democrazia dello share. Show di Amato contro i referendum, il dottor Sottile getta un’ombra inquietante sulla Consulta. Angela Azzaro su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

In questi anni in cui siamo stati travolti dalle sarabande del circo mediatico giudiziario, avevamo un faro che ci faceva sperare che prima o poi ne saremmo usciti: la Corte Costituzionale. Le procure straparlavano, i pm gettavano in pasto all’opinione pubblica, con la complicità dell’informazione, le vite private degli indagati senza ritegno, senza rispetto per i loro cari, e noi guardavamo alla Consulta sapendo che restava un baluardo, un confine non valicabile tra stato di diritto e populismo.

Questa certezza è vacillata il 16 febbraio dopo la conferenza stampa del presidente Giuliano Amato per spiegare i sì e i no ai quesiti referendari. Invece di “far parlare le sentenze” come ci avevano sempre spiegato, il presidente è andato davanti ai giornalisti, come un cittadino qualsiasi, a dire le sue ragioni, negando il diritto di replica ai comitati che in questi mesi avevano raccolto le firme. Ma la botta più grande doveva ancora esserci. Ed è arrivata durante il programma di Giovanni Floris, Di Martedì su La7, che ha visto la partecipazione proprio di Amato, che ha fatto un bel comizio imponendo agli ascoltatori le sue ragioni. Floris glielo ha anche chiesto: non teme polemiche per essere qui? Il presidente della Consulta ha risposto, lanciando il suo programma per il futuro: i cittadini dovranno abituarsi a una Corte che spiega le proprie ragioni.

Ha cioè detto che le parole dell’altro giorno non sono state un incidente ma che d’ora in poi anche l’organo da lui presieduto entra a pieno titolo nella politica show, nelle sentenze usa e getta, fatte apposta non pensando alla Costituzione ma agli ascolti, non al rispetto dei cittadini che hanno firmato ma alla possibilità per il presidente di apparire sugli organi di informazione. E sarà così finché il numero di storture sarà tale da spingere il parlamento a mettere un freno (se ne avrà il coraggio) o qualche corte europea a richiamarci al rispetto delle regole. Ci mancava solo questa. Con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, si è posto un limite alle conferenze stampa, ai pm che parlano degli indagati come colpevoli, si è detto che l’articolo 27 della Costituzione non è un diritto che si può barattare in nome degli ascolti.

Una vittoria, un cambio di passo, che ancora deve diventare cultura diffusa per procure e giornali che vivono delle veline passate dai pm. Da domani questa sfida che è prima di tutto culturale e politica sarà più difficile, perché nella fanfara è entrata a far parte proprio chi i principi costituzionali dovrebbe difendere. Ieri Amato, come un virologo qualsiasi, ha parlato di tutto, pontificando anche su questioni che non competono alla Corte Costituzionale. Forse questa stortura è dovuta al bisogno del presidente di riprendersi la scena dopo la mancata conquista dell’ambìto Quirinale. E ora, usando lo scranno di numero uno della Corte costituzionale, vuole se non costruire una nuova chance (altri sette anni di attesa sono troppi) tentare perlomeno di riconquistare gli onori negati.

Questo è umano, comprensibile. ma non accettabile perché il prezzo da pagare è troppo alto: la perdita di affidabilità della Consulta in una fase della vita della democrazia e delle istituzioni delicatissima. La crisi della rappresentanza è sempre più profonda, più preoccupante. Le ragioni con cui sono stati bocciati alcuni referendum ne amplifica la portata. La presenza in tv del presidente Amato trasforma la tragedia in farsa: tutto è spettacolo anche gli articoli della Costituzione.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Dal "pelo nell'uovo" alle luci della ribalta. La terza vita di Amato, eterno "dottor Sottile". Anna Maria Greco il 17 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il neo presidente della Corte costituzionale torna in scena con uno stile innovativo: motiva le sentenze in tv e bacchetta gli errori dei promotori.

Al centro della scena c'è di nuovo lui, Giuliano Amato. Stavolta come neopresidente della Corte costituzionale, che approva alcuni referendum e ne boccia altri. È la sua terza vita, dopo quella del socialista «Dottor Sottile», consigliere di Bettino Craxi e quella del due volte di presidente del Consiglio, anche della sinistra, e due volte ministro.

Fino a poche settimane fa era nella rosa ufficiosa dei candidati al Colle e, appena salito al vertice della Consulta, ha fatto una dichiarazione sorprendente: «Dobbiamo impegnarci al massimo per consentire, il più possibile il voto popolare. È banale dirlo, ma i referendum sono una cosa molto seria e perciò bisogna evitare di cercare a ogni costo il pelo nell'uovo per buttarli nel cestino».

Amato, 83 anni ed esperienza da vendere, di banalità ne dice ben poche e le sue parole erano certo dosate. C'è chi vi ha letto una «spinta» ai referendum, che avrebbe lasciato «sbalorditi» alcuni colleghi, chi un mettere le mani avanti per possibili bocciature. Per i più è stata una svolta comunicativa non da poco, rispetto al tradizionale aplomb della Corte.

Poi, martedì, è arrivato il no al quesito sull'omicidio del consenziente e i più ottimisti hanno dubitato che la via fosse in discesa per gli altri. Ma quel discorso sul «pelo nell'uovo» sembrava dire: se c'è una bocciatura non è per aspetti marginali. «Tutti tra noi l'hanno capito, non intendevo una scelta politica», spiega. Altra novità: ben prima del deposito della sentenza la Consulta anticipa il succo della motivazione, un no necessario alla «tutela della vita». Marco Cappato, tra i promotori, attacca: «Amato, personaggio istituzionale di grandissimo livello è anche una personalità politica. E questa è una decisione anche molto politica». Nel frattempo passano i primi 4 quesiti sulla giustizia e poi quello del voto degli sulla professionalità dei magistrati, mentre vengono bocciati quelli su responsabilità diretta delle toghe e droga.

È spiegando le decisioni della Corte ai giornalisti che Amato ritorna il «Dottor Sottile», inaugurando uno stile più attento a spiegare le sentenze e bacchettando promotori e media che avrebbero presentato i quesiti in modo inesatto. Il primo bocciato, sottolinea, «non è sull'eutanasia ma sull'omicidio del consenziente», ben diverso. «Noi tutti - dice - abbiamo ben presente il problema del parlamento che non interviene su certi temi e induce a cercare strumenti per risolverli, ma non possiamo intervenire in ogni caso. Si è parlato di eutanasia è omicidio del consenziente e aprirebbe un ampio campo di impunità. Non siamo insensibili ai casi dolorosi di cui si parla e sappiamo che, probabilmente, un referendum raccoglierebbe tanti sì col pensiero a queste persone ma poi avremmo casi diversi: magari un ragazzo decide di farla finita e, in una sera in cui tutti si è bevuto, trova un altro che l'aiuta. Ci vuole una legge, anche per non contravvenire ad obblighi internazionali».

Il quesito sulla droga lo smonta clamorosamente. «È inammissibile perché non riguarda la depenalizzazione della coltivazione della cannabis, ma rimanda a tabelle della legge sulle sostanze stupefacenti che includono coca, papavero, droghe pesanti non cannabis e non tocca altre norme che prevedono reati per questi casi». Altra correzione: «Il quesito passato non riguarda la separazione delle carriere, che rimane unica per la magistratura, ma il passaggio delle funzioni che non potrebbe esserci e rimarrebbe la scelta iniziale». Infine, Amato spiega il no al quesito sulla responsabilità civile diretta delle toghe perché «più che abrogativo è innovativo, visto che la regola è sempre stata la responsabilità indiretta: si cita lo Stato che poi si rivale sui magistrati».

Sulla poltrona di Amato all'Alta Corte fino al 2020 c'era Marta Cartabia, Guardasigilli che firma la riforma in Parlamento. È con i suoi emendamenti al testo Bonafede che i referendum sulla giustizia approvati si confronteranno. Per imporre una riforma più radicale, dall'impronta di centrodestra. Anna Maria Greco

Il dilemma della Corte mediatica di Amato: Giudici o influencer? GIULIA MERLO su Il Domani il 18 febbraio 2022

La conferenza stampa del presidente della Corte costituzionale, Giuliano Amato, per annunciare l’esito sul giudizio di ammissibilità dei referendum ha suscitato opposte reazioni.

Amato ha mostrato che è terminata definitivamente la stagione dei comunicati stampa secchi e burocratici e che la Corte ha raggiunto la consapevolezza di volersi aprire a una comunicazione più articolata.

A scontrarsi sono da sempre due opposte interpretazioni del ruolo pubblico della Consulta: da un lato quella secondo cui i giudici dovrebbero parlare solo attraverso le sentenze; dall’altro quella prospettata da Amato, secondo cui la Corte come organo costituzionale abbia il dovere di spiegare.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 18 febbraio 2022.

«Parlare per spiegare quello che facciamo l'ho sempre considerato un dovere della Corte, anche quando non lo ha fatto. Mi è capitato, in passato, di riprendere amichevolmente giudici o presidenti dicendo "parli di troppe cose che non hanno niente a che fare con la Corte, sarebbe meglio se parlassi un po' di più per spiegare le sentenze"».

Il senso di Giuliano Amato per la comunicazione sul suo lavoro e su come intende il ruolo di presidente della Corte costituzionale, è racchiuso in questa frase. Il giorno dopo la conferenza stampa in cui ha annunciato le decisioni della Consulta sui referendum e illustrato le ragioni di cinque sì e tre (più rumorosi) no ai referendum, si discute di quella scelta quasi più che del merito delle questioni affrontate in camera di consiglio e svelate dal presidente.

Che s' è presentato ai giornalisti, e tramite loro al Paese, non per iniziativa personale ma su mandato degli altri giudici costituzionali. Erano rimasti colpiti - malamente colpiti, perché prima ancora che ingiuste le consideravano frutto di incomprensioni - dalle critiche «al buio» sulla bocciatura del quesito sull'eutanasia.

Di lì la delega ad Amato, per illustrare le ragioni di una decisione tanto attesa quanto controversa. Ma affidare una spiegazione su questioni che investono più istituzioni a chi, prima di approdare alla Consulta, è stato al governo e in Parlamento, significa estenderla inevitabilmente ad altre considerazioni. 

Giuliano Amato è il primo presidente della Corte, su quarantacinque, ad essere stato anche presidente del Consiglio e deputato; è quasi naturale che sottolinei l'esigenza dell'interlocuzione tra poteri dello Stato. Tanto più sui «conflitti valoriali» di difficile soluzione.

«Ma se dovessi indicare ciò che più ha influito sulle mie attitudini direi il permanente esercizio del mestiere di professore, che mi ha insegnato a parlare agli altri cercando di chiarire e farmi capire», commenta Amato all'indomani della conferenza stampa che quasi ne ha disegnato un nuovo ruolo. Sebbene lui sostenga che no, c'era solo la necessità di spiegare. 

E s' è capito quando, dopo aver ampiamente illustrato le motivazioni della bocciatura del referendum chiamato «sull'eutanasia», s' è sentito chiedere, «come uomo più che come presidente», se avesse pensato ai sentimenti del milione di firmatari e dei malati in attesa, ha reagito quasi seccato: «Glielo ripeto: si pensava che fosse un referendum rivolto alle persone che soffrono, mentre apriva l'immunità penale a chiunque uccidesse qualcun altro con il suo consenso, sofferente o meno che fosse. Questo è ingiusto, anche per chiunque in quel milione di firmatari.

Occorre dimensionare il tema dell'eutanasia a coloro che soffrono e per cui abbiamo già ammesso il suicidio assistito, ma questo, sulla base del quesito referendario, non-lo-po-te-va-mo-fa-re . Con altri strumenti chissà, di sicuro può farlo il Parlamento. Punto». 

Poche parole per rivendicare la decisione della Corte, bacchettare i promotori della consultazione, indicare la via possibile dell'eccezione di costituzionalità, sottolineare la responsabilità del legislatore.

Che Amato non accusa, anzi difende. Perché lo è stato a lungo, e sa bene «che deputati e senatori lavorano, forse sono troppo occupati dalle questioni economiche, ma hanno grosse difficoltà a mettersi d'accordo su temi per i quali, se non si trova la soluzione, alimentano dissensi che possono corrodere la convivenza civile». 

Così come, da ex ministro ed ex premier, ricorda di essere entrato la prima volta nel palazzo della Consulta a fine anni Ottanta per ricordare al presidente che i vincoli di bilancio valgono anche per la Corte: «E la Corte s' è molto autodisciplinata nel prendere decisioni che comportano aggravi di spesa per lo Stato».

Consapevole di possedere una leadership non comune fra i colleghi, dopo quello che qualcuno ha chiamato «Amato show» il neo-presidente quasi si stupisce dello stupore. E ribadisce il dovere di spiegare, soprattutto nel rapporto tra la Corte i cittadini. Che non si basa sul consenso, come avviene per governo e Parlamento, ma sulla fiducia nell'istituzione. Che ha bisogno di trasparenza. Ancor più su questioni molto sentite, come il «fine vita», ma pure le droghe leggere o la responsabilità diretta dei giudici, gli altri due quesiti bocciati.

Presentarsi in pubblico e chiarire non significa usurpare spazi politici altrui, ma proteggere il ruolo della Corte. Come è avvenuto quando, nel mezzo della palude per l'elezione del capo dello Stato, qualche esponente di partito gli ha mandato a chiedere se fosse d'accordo per un tentativo sul suo nome, in modo che i parlamentari potessero contarsi, e lui ha risposto che istituzioni come la Corte costituzionale, ma anche il Senato, non si tirano dentro diatribe di parte. Vanno preservate. Non per il bene di chi le occupa temporaneamente, ma delle istituzioni stesse.

Nessuno show, Amato ci ha messo la faccia e ha aperto la Corte alla democrazia. Il commento: «Che sciocchezza quelle critiche alla conferenza di Amato. Sorprende in negativo come il sistema mediatico ha reagito all’accadimento». Antonella Rampino su Il Dubbio il 18 febbraio 2022.

«La Corte costituzionale ha il dovere di spiegare le sue decisioni». É questa frase, pronunciata ieri dal presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, a segnare l’avvio di una forte innovazione nell’ austero palazzo che una volta ospitava la Consulta del Papa Re, e che proprio dal punto dì vista dell’ accountability sembra purtroppo troppo spesso esser rimasto fermo all’epoca.

Sentenze e giudizi troppo spesso in giuridichese stretto, e comunicati stampa all’altezza, che capita anche ai giuristi dì dover leggere con la lente d’ingrandimento. Nella perfetta indifferenza al mondo, quando invece anche il cittadino comune deve poterne comprendere immediatamente lettera e senso.

E invece, la grande novità dell’altro giorno: nel momento di decisioni che avranno riverberi nel corpo vivo del Paese – ma tutte le decisioni della Corte hanno in realtà questi effetti – la Corte si apre alla pubblica opinione. Spiega il perché e il percome delle decisioni assunte, e accetta dì rispondere alle domande dei giornalisti, che in democrazia null’altro sono se non per l’appunto rappresentanti della pubblica opinione.

Come accade a Londra, a Washington, come accade là dove secoli fa sono nate le corti Costituzionali ( e dove strabuzzano gli occhi se si prova a giustificare il regime dì autodichia, per quanto fondato nella storia italiana, in cui vivono le nostre istituzioni).

Come accade quando un’istituzione è forte, in democrazia: non teme il mare aperto del confronto. Una cosa, tra l’altro, alla quale tutti i nostri giudici costituzionali sono già particolarmente allenati, dovendo prendere decisioni delicatissime, e con forza giuridica che neanche le normali leggi hanno – poiché le disposizioni della Corte sono immediatamente auto-applicative – attraverso il complesso meccanismo della collegialità: i Quindici sono costretti a discutere e ad attraversare contrasti anche forti finché non si arriva a raggiungere il punto dì condivisione.

Per la Corte, è stata una prima assoluta. Un assoluto debutto dell’assunzione dì responsabilità, mettendo la faccia come si dice comunemente, circa le decisioni prese. Un assoluto debutto di accountability, che non è un vezzo angloamericano ma una pratica materiale della democrazia, e che in quei Paesi riguarda tutti: il dover render conto alla comunità in cui si vive va dal benzinaio alla più alta carica istituzionale.

Ed è stata certo una prima assoluta anche formalmente. Mai accaduto prima, da che la Corte è operativa, e cioè dal 1956. Certo, in apertura di conferenza stampa, per mitigare l’exploit, il presidente Amato ha detto di aver voluto «riprendere un’antica tradizione della Corte». Il riferimento, in una frase che dà anche la misura dì quanto una normalissima (altrove) conferenza stampa abbia fatto vibrare gli stipi del vetusto Palazzo, non può che essere a quando, agli albori della Corte, il fascistissimo Gaetano Azzariti (durante il Ventennio era stato presidente del Tribunale della Razza), transitato nell’Italia repubblicana da presidente della Consulta aprì inaspettatamente ai rappresentanti dei media.

Una volta l’anno, in quegli anni tra il 1957 e il 1961, i giornalisti si accomodavano in salotto accanto al presidente coi loro taccuini e i loro microfoni per una conversazione vis- à- vis. Nasce così la tradizione dell’annuale appuntamento dì gennaio- febbraio, che però poi negli anni è diventato altro: prima, e davanti a tutte le più alte cariche della Nazione, il presidente sul podio legge una lunga relazione sul lavoro che la Corte ha svolto nell’ultimo anno. Dopo, sono ammesse le domande dei giornalisti. Che sono poche, in genere, perché non c’è materia calda dì cui trattare, tanto che spesso di quella conferenza stampa sui media non è restata che una foto- notizia.

Invece, non calda ma incandescente era la materia affrontata l’altro giorno: le sorti dell’ondata referendaria a venire. Sorprendente, ma in negativo, è invece come la stragrande maggioranza del sistema mediatico ha reagito all’accadimento.

«Uno show», «la Corte fa politica» in prima pagina al mattino dopo, mentre una delle reti televisive che stava assicurando la diretta – e si è trattato dì una rete Rai – interrompeva il presidente mentre stava parlando per dare la linea a uno dei politici presentatori dì referendum che aveva organizzato in piazza la «sua» controconferenza stampa. Come togliere la parola al presidente della Repubblica per darla a un qualsivoglia capo dì partito politico.

Accogliere con acidità – e, nei corsivi, perfino ferocia – una novità dì democrazia è ciò che segna il destino dell’Italia. Non sarebbe possibile se chi puntando il dito contro lo «show» avesse consapevolezza dì quale è il ruolo – dì che cosa è, dì quali funzioni svolge- una Corte costituzionale in democrazia.

Quanto poi al «fare politica», bisogna intendersi. Ogni decisione, ogni parola della Corte costituzionale ha ricadute politiche, e tale da infiammare il dibattito pubblico. Ma, esattamente come ogni parola del capo dello Stato, non hanno appartenenza le ragioni che muovono parole e decisioni. Essendo la ragione una sola: la Costituzione. La sua salvaguardia, poiché è il patto costituzionale a rendere l’Italia una nazione e a rendere italiani i suoi cittadini, nella sua interpretazione, poiché si tratta di materia viva.

E occorre intendersi anche sul fatto che la più forte innovazione sia venuta da un politico qual è Giuliano Amato. Politico nel senso che ha vissuto e vive la polis, e ai più svariati e alti livelli. La polis, lo spazio pubblico nel quale viviamo e ci formiamo tutti, ognuno di noi per quel che sa e che può, e perfino chi ne è inconsapevole. La polis, perché politica non è sinonimo di partitico. Anzi, qualche volta e comunque nel caso migliore, ne è l’esatto contrario.

Virginia Piccolillo per corriere.it il 18 febbraio 2022.

Il quesito sul Fine Vita non è stato accolto. E ora la Corte Costituzionale è al centro delle polemiche. Giovanni Maria Flick, da presidente emerito della Corte Costituzionale, cosa ne pensa?

«Sono polemiche ingiustificate. E bene ha fatto il presidente Giuliano Amato a rispondere. Il primo dovere della Corte è spiegare. Poi leggeremo la motivazione». 

Sull’eutanasia c’era una forte aspettativa che il quesito venisse accolto. Invece è stato respinto.

«Non è stato accolto il quesito che in sostanza richiedeva di trasferire le norme sull’aiuto al suicidio all’omicidio del consenziente, attraverso la pronuncia della Corte. Ciò non è possibile con un referendum abrogativo che non può comportare aggiunte al quesito e al testo».

Tre anni fa la Corte non si era espressa in quella direzione?

«No. Aveva detto che l’aiuto al suicidio rimane reato. Proprio a difesa dei soggetti fragili. Ma in casi particolari, ovvero quando c’è sofferenza intollerabile, infermità irreversibile e necessità di interventi salvavita continui, aveva previsto la possibilità di non punire chi aiuta il suicidio. Ma qui è diverso». 

Perché?

«Perché l’aiuto al suicidio è cosa diversa dall’omicidio. Anche di chi lo consenta o lo chieda. Se fosse stato accolto il quesito sarebbe rimasto punito solo l’omicidio dell’infermo di mente o del minore. Non di colui che accoglie la richiesta dell’amico: “Premi tu il grilletto perché non me la sento”. O di chi lancia una sfida. Pensiamo a Tik Tok» 

Cosa c’entra Tik Tok?

«Ci sono le sfide per gioco tra ragazzi che possono essere mortali: chi rimane più a lungo con un sacchetto di plastica in testa o su un binario di un treno. Tutto sarebbe stato legalizzato». 

Non si potevano trasferire le stesse cautele previste per l’aiuto al suicidio?

«Lo deve fare la legge e non una pronunzia della Corte. Invece, paradossalmente, il quesito finiva per includere tutte le possibilità, non solo le situazioni di sofferenza». 

Ma se il Parlamento non decide?

«Si va sotto il Parlamento e si chiede di decidere, oppure alle elezioni se ne vota un altro. Non è un’offesa alla democrazia il fatto che la Corte faccia il suo dovere. E che serve una legge per risolvere un problema di questo genere. Come ha detto Amato, il Parlamento è il luogo dove discute di valori e non può venire meno ai suoi doveri». 

Anche il quesito sulla cannabis è stato escluso.

«Dipende da come sono formulati i quesiti. Quello della cannabis, ad esempio, coinvolgeva tutte le droghe e non solo la coltivazione per uso personale. Perciò incideva su una situazione regolata anche da trattati internazionali: cioè su una situazione in cui non può richiedersi un referendum abrogativo».

Da ex ministro cosa pensa dei 4 quesiti sulla giustizia accolti, a partire da quello sulla legge Severino?

«Sono stato 9 anni alla Corte, non entro nel merito. Ma quei quesiti incidono solo, ancorché profondamente, sulle leggi ordinarie. Non c’è una richiesta alla Corte di andare oltre i quesiti. Poi diverrà decisiva la volontà popolare, la cui massima espressione è il referendum».

C’è chi dice che sul Fine vita la Corte non ha considerato la sofferenza.

«C’è una grande responsabilità dei media. La Corte ha esercitato il suo potere: non deve tener conto della sacralità della vita, che è un concetto religioso (e c’è chi non lo è). Ma nemmeno deve ignorare il principio della solidarietà e la tutela dei soggetti deboli». 

Abbiamo assistito a un cortocircuito istituzionale. Così la Consulta ha scelto il Codice Rocco. Massimo Donini su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

La Corte ha deciso come molti si aspettavano o temevano. Ma non era una decisione obbligata, perché si poteva entrare diversamente nel cuore delle questioni che hanno indotto oltre 1.200.000 persone a sottoscrivere il referendum. Invece la Corte ha preso una decisione tecnico-giuridica, ispirata alla prudenza del diritto, come se fosse in gioco solo una norma del 1930 (l’art. 579 del codice penale) sull’omicidio del consenziente che mai ha voluto regolare i casi veri per i quali lo si commette: cioè per ragioni di pietà verso i malati. Indifferente il codice Rocco a questi motivi (del soggetto che agisce) e a questi diritti (del malato), così pare anche la Corte, nel momento in cui rispetta religiosamente il lessico del codice Rocco, e interpreta di conseguenza il quesito referendario, formulato però non nel 1930, ma nel 2021.

Sennonché, nel 2021, quando si parla di omicidio del consenziente si pensa all’eutanasia e chi dimentica questa regola ermeneutica dell’attualizzazione del contesto semantico tradisce l’appello degli elettori. È ciò che pare sia accaduto alla Consulta ascoltando le parole pronunciate in autodifesa (non petita) dal suo Presidente. Lodevole iniziativa, ma confessio manifesta di ciò che ci si attende di leggere nella prossima motivazione. E cioè che i radicali avrebbero ingannato gli elettori facendo loro credere che si discuteva di eutanasia, quando invece si discuteva di omicidio del consenziente. La verità delle cose è più complessa.

I proponenti avevano allestito un quesito che creava una normativa di risulta schizofrenica, in assenza di ulteriori riforme. Infatti, in caso di accoglimento, sarebbero coesistite due situazioni: da un lato, l’omicidio del consenziente (art. 579 c. p.) che sarebbe rimasto punito, nei casi di consenso assente o viziato, con la pena dell’omicidio doloso (come è oggi); mentre il fatto sarebbe risultato, per le rimanenti ipotesi di consenso valido, totalmente libero e privo di condizioni; dall’altro, l’aiuto al suicidio (art. 580 c. p.), punito in ogni caso, salvo alcune ipotesi molto restrittive legate invece a decorsi patologici estremi: attualmente, le quattro condizioni stabilite da C. cost. n. 242/2019, che hanno prodotto nella prassi un solo caso di suicidio assistito ammesso.

Senza correttivi di legge, dopo l’esito abrogativo si sarebbe potuto chiedere di morire, purché maggiorenni, capaci di intendere e volere, e non coartati, anche per denaro, gioco, sport, sfida, o per consapevole accettazione del rischio mortale di una attività estremamente pericolosa. Secondo la Corte, in tal caso, le persone “più deboli” anche se del tutto capaci di decidere, sarebbero state esposte a rischi troppo gravi. Avevo anticipato questi rischi evidenti (Il Riformista, 13 novembre 2021) e non posso che condividere la Corte in questa lettura, perché l’art. 579 c. p. tutela anche altri beni, diversi da quelli del malato aiutato a morire. Senza un intervento legislativo di correzione e integrazione un esito abrogativo di tale portata sarebbe stato inaccettabile.

Tuttavia, il referendum voleva proprio portare all’implosione non del sistema, ma del blocco legislativo in atto, per costringere il Parlamento finalmente a intervenire. Il Parlamento è paralizzato, come sappiamo, ma la Corte con questa sentenza lo aiuta purtroppo a restare inoperoso, perché adesso, trascorsi pochi giorni dal dibattito sul referendum bocciato, potrà attendere a problemi più premianti in vista delle prossime elezioni. La domanda è: c’era una alternativa? Si poteva, ammettendo il referendum, evitare di mettere a rischio quei diritti delle persone “deboli” non malate, e invece proteggere nello stesso tempo i malati estremi o terminali refrattari alla sedazione continua profonda e incapaci anche di inghiottire da soli un farmaco, ai quali non potrebbe applicarsi l’aiuto al suicidio ammesso dalla Corte, ma solo una forma attiva di aiuto diretto? Certamente, ma ciò avrebbe richiesto più coraggio istituzionale e più liberalismo.

Infatti, i quesiti vanno interpretati oggettivamente, al di là delle intenzioni dei proponenti. Lo si fa con le leggi, con le sentenze, con i contratti. Anche con i referendum. Le intenzioni soggettive non sono decisive. E le parole del 1930 vanno rilette nel contesto attuale. Ora, sul piano oggettivo il referendum non toccava l’art. 580 c. p. (l’aiuto al suicidio) nella sua portata molto limitata ridisegnata dalla Corte. Restava intatto, e altrettanto aperta la sua sorte. Qualunque sia stato il motivo dei proponenti, essi hanno immaginato un esito referendario positivo che avrebbe visto la possibile permanenza della punibilità dell’aiuto al suicidio. Non erano e non sono i padroni del Parlamento, come non lo è la Corte. Tuttavia, si introduceva una contraddizione da risolvere. Significa ciò che questa norma sarebbe stata anch’essa da abolire, o invece che la abrogazione dell’omicidio del consenziente avrebbe imposto una legislazione diversa e armonizzata? Anche mediante un nuovo omicidio del consenziente da reintrodurre?

La Corte poteva indicare l’interpretazione costituzionalmente compatibile con la conservazione del referendum, del diritto degli elettori e dei diritti dei malati che sono alla base della richiesta firmata con quel consenso popolare. E si sarebbe trattato di una interpretazione del tutto conforme a quanto ha motivato la Consulta con la sentenza di inammissibilità (v. le dichiarazioni di stampa), ma in senso conservativo, anziché di esclusione del giudizio popolare.

La Corte aveva il potere di farlo, e non poteva attendersi che dal quesito stesso emergesse il rispetto di questo limite costituzionale. Pertanto, il richiamo ai limiti costituzionali di una tutela assente poteva indicarli la Corte, perché la lettura sistematica delle due norme circoscriveva il dibattito al fine vita e ai diritti del malato, come attesta senza dubbio il riferimento alla disciplina delle Dat presente oggi nell’art. 580 c. p., proprio per l’intervento additivo della Consulta con la sentenza 242/2019. I conti con il permanente art. 580 c. p. doveva farli il legislatore nei limiti della conservazione di una norma esimente (riformata) anche in relazione a un nuovo omicidio del consenziente.

Certo, se un legislatore irresponsabile avesse consentito ex post le gare mortali tra gladiatori o l’omicidio sportivo con scommesse sulla vita, la Corte non avrebbe potuto sindacare una semplice assenza di tutela e invalidare ciò che non c’è: lo può fare la Corte Edu ex post, non la Consulta, che ha invece ex ante un sindacato di questo tipo in sede di giudizio di ammissibilità di un referendum. Ma era fondato questo timore? Io credo francamente di no e su questo anche i giudici si saranno divisi. Bastava chiarire che si può cancellare l’omicidio del consenziente solo in determinati casi, non in generale, se non al prezzo di introdurre tante diverse incriminazioni di possibili abusi del diritto di mettere a rischio una vita col consenso del suo titolare: il datore di lavoro non può promettere incentivi al dipendente perché acconsenta a rinunciare alla sicurezza del lavoro. Il Parlamento ha del resto mille ragioni politiche per rassicurare i cittadini, e poche invece per proteggere i malati più gravi perché fisicamente incapaci persino di suicidio, e dunque anche di votare.

È invece plausibile che la Corte, anziché per questo timore di esiti facilmente rimediabili dal legislatore, abbia avuto altre preoccupazioni. Si è forse pensato che, una volta abolito l’art. 579 c.p., sarebbe stato politicamente difficile reintrodurlo con tutti i limiti desiderati per circoscrivere i diritti del malato, o magari lo si sarebbe fatto, ma a condizioni troppo liberali rispetto a quelle (rigorosissime) “ammesse” dalla stessa Corte nel 2019. E forse questo rischio ha orientato la maggioranza dei giudici costituzionali. Insomma: la sensazione è che la Corte, già esposta nel 2019 per aver concesso, con una sentenza additiva, la non punibilità a chi aiuta a morire pochi e sfortunati portatori di patologie in realtà refrattari a una sedazione profonda, abbia ritenuto di poter bilanciare in limine i loro o analoghi diritti: diritti mai ammessi esplicitamente come tali nelle precedenti decisioni, e che peraltro sono di fatto bilanciati con quelli, ora ritenuti prevalenti, che l’abrogazione dell’art. 579 c.p. poteva teoricamente compromettere.

Si è ragionato come se quella abrogazione fosse definitiva, e questo scenario è stato purtroppo sostenuto – non si può tacerlo – dai difensori del referendum, che hanno seguito non nei media, ma nelle comunicazioni processuali o per giuristi, la linea tutta “liberal” di un diritto incondizionato di morire per mano altrui, senza barriere diverse dalla piena capacità di determinarsi. Un superomismo nietzscheano, anziché la tutela dei deboli: una cultura che la Corte non poteva che vedere come fumo negli occhi dopo le sue pronunce del 2018 e del 2019. Allora la Consulta ha pensato di sacrificare i diritti del malato, addebitando ciò a proponenti e Parlamento.

Ma sa bene che così facendo ha tutelato diritti potenzialmente lesi da legislazioni future solo immaginate, e non quelli realmente offesi dalle leggi vigenti! Si è quindi operato un bilanciamento: si potevano garantire, col referendum, sia i diritti di questi soggetti fragili, insieme a quelli degli elettori di pronunciarsi, e sia il diritto-dovere del Parlamento di provvedere, in caso di abrogazione, a riscrivere complessivamente l’assetto del fine vita, unitamente agli artt. 579 e 580 c.p. È parso che fosse chiedere troppo a questo Parlamento, dopo tre anni di inettitudine? E allora rimane l’ideologia del codice Rocco del 1930: nessun motivo pietoso e nessun diritto dei malati umanizza la disciplina penale dell’art. 579 c.p., che continuerà a criminalizzare questi diritti, anziché riconoscerli. Massimo Donini

Referendum eutanasia, chi ha sbagliato davvero sul fine vita e chi rischia di sbagliare ancora. Giampiero Casoni il 16/02/2022 su Notizie.it.

Sul fine vita, su Eluana e Piergiorgio e Dj Fabo e su tutti gli altri inferni di letti immoti del paese a legiferare ci sarebbe dovuto andare di corsa il Parlamento. 

Le cronache recenti ci consegnano dritti in faccia e con il tempismo di un Carnevale malvagio un milione e 240mila coriandoli amari: ne conosciamo il numero esatto perché sono tanti quante le firme in calce all’istanza di un referendum sul fine vita che avrebbe dovuto mettere fine ad uno sconcio antico cominciato in tempi recenti con la povera Eluana Englaro e suo padre Peppino.

Ad essere precisi e parlando di firme dovremmo dire tante “quante erano”, dato che in punto di Diritto su norma di massimo rango quelle firme oggi ed ora sono carta straccia.

E non ci vuole poi tanto coraggio nel dire che la Consulta ha fatto bene a bocciare il referendum, ce ne vuole quel tanto che basta per dare coda al ragionamento e dire che è un bene amaro, ma inoppugnabile, ingiusto ma legittimo.

Chiariamola prima di sentire arrivare gli ululati e proviamo ad addentare la polpa: il fine vita è una materia talmente complicata che delegare agli italiani una decisione sulla sua impalcatura normativa, definitiva ed auspicabile, è un po’ come chiedere ad un bambino di 7 anni di fare i calcoli per le traiettorie del primo razzo che ci porterà su Marte.

Il principio è che il cielo è bellissimo e gli astronauti sono fighi, ma per navigare in rotta sui parsec serve la nozione, non l’intenzione.

E non offendiamoci noi italiani se magari in una botta senziente qualcuno di noi si trova ad ammettere che un signor Rossi qualunque ha il diritto potenziale di esprimersi sul fine vita ma questo diritto è meglio che non lo eserciti. E proprio per ovviare a questa faccenda, alla distanza siderale cioè in termini di qualità ed efficienza che sta fra la democrazia diretta come gargarismo decisionale e la giustezza delle leggi come solido costrutto di un modo di vivere, qui da noi vige una cosa che si chiama democrazia rappresentativa.

È quella cosa per cui sul fine vita, su Eluana e Piergiorgio e Dj Fabo e su tutti gli altri inferni di letti immoti del paese a legiferare ci sarebbe dovuto andare di corsa il Parlamento. Perché piaccia o meno e al di là della vulgata per cui lì in emiciclo sarebbero tutti o papponi o dementi le Camere hanno uomini, materiale, mezzi e sponde cognitive. Li hanno per fare le cose per bene e magari impalcare una legge che non incappi nel setaccio dei giudici costituzionali che sul caso di specie hanno semplicemente detto una cosa mica tanto astrusa, a contare la loro mission. E cioè che non si può consegnare la qualificazione giuridica di un omicidio ad un popolo che sostanziandola va dritto contro due articoli della Costituzione, cioè dritto contro se stesso e poi si imbroda perché “ha partecipato”

Il guaio è che chi dovrebbe giace e chi mai potrebbe s’indigna. Il problema retroattivo in etica è che il Parlamento italiano, anche a fare la tara al mea culpa ed al reflusso di responsabilità proclamato da Roberto Fico in queste ore, è abilitato a risolvere la faccenda, ma del tutto inabile, colposamente inabile, ad intuirne una portata che sta tutta nella celerità di un legiferato urgente come non mai.

La riprova di questa inerzia che sa quasi di dolo a contare urgenza della materia ed idoneità delle Camere a risolverla? Due anni e passa fa, giusto prima che il Covid bussasse alle porte del mondo, la stessa Consulta che ieri ha bocciato il referendum sul fine vita fece un cazziatone maiuscolo al Parlamento di allora perché era stata costretta a fare giurisprudenza senza un legiferato. Le toghe si pronunciarono sulla sentenza Cappato e sull’istigazione al suicidio e stigmatizzarono (in burocratese aulico cazziare si dice così) il comportamento di un consesso che era in clamoroso ritardo sulla promulgazione di una legge che mettesse ordine su tutto il concetto.

Loro, i giudici, furono costretti a pronunciarsi sulla polpa di merito del singolo caso e lo fecero senza che preesistesse una norma ecumenica alla quale richiamarsi. E quando la giustizia è costretta e marciare in avanscoperta rispetto alla politica vuole dire che le cose non vanno. Vuole dire che la norma che arriva a dare senso etico ad una questione sociale e sollievo a chi si sperde immobile in un letto da cui può solo urlare di voler morire è considerata fatto secondario o procrastinabile.

E se per lo Stato italiano, quello che abbiamo delegato a fare le cose per noi e meglio di noi, il diritto a morire, non ad essere uccisi, è secondario, allora Dio ci scampi dai barbari che siamo diventati. Tutti.

I limiti del quesito. Attenzione, la Consulta non ha detto che l’eutanasia attiva è incostituzionale. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 16 febbraio 2022.

La natura abrogativa del referendum non ha permesso ai promotori di scrivere una nuova disciplina del tutto coerente con gli obiettivi dichiarati, ma li ha costretti a operare un ritaglio della normativa esistente. In modo che fosse compatibile, anche nel caso dell’omicidio del consenziente, con quella dettata dalla Corte per il suicidio assistito

La decisione di non ammettere il referendum in materia di omicidio del consenziente, presentato dall’Associazione Luca Coscioni e sottoscritto da 1.250.000 elettori italiani, non significa affatto che la Corte Costituzionale abbia decretato l’incostituzionalità della cosiddetta eutanasia attiva.

Qualunque sia la valutazione che si vorrà dare di questa sentenza, di cui sono ancora attese le motivazioni, è bene precisare, in una discussione particolarmente accesa e quindi altrettanto fumosa, quali siano i termini e i limiti effettivi della questione ieri sottoposta alla Corte.

Ricapitoliamoli molto succintamente. Era stata proprio la Consulta, con riferimento al caso Cappato-Dj Fabo, a dichiarare, di fronte all’inerzia del Parlamento, «l’illegittimità costituzionale dell’art. 580 del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge 22 dicembre 2017, n. 219 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento)… agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (sentenza 242/2019).

Successivamente a questa sentenza l’Associazione Luca Coscioni ha promosso il referendum, ieri giudicato inammissibile dalla Corte, che prevedeva di limitare la punibilità dell’omicidio del consenziente, attraverso un ritaglio dell’art. 579 del codice penale, ai casi in cui la persona interessata sia minorenne, inferma di mente o in condizioni di deficienza psichica, ovvero in cui il consenso sia stato estorto con la violenza o altre forme di condizionamento.

La natura esclusivamente abrogativa del referendum previsto dal nostro ordinamento non consentiva ai promotori di scrivere una nuova disciplina del tutto coerente con gli obiettivi dichiarati, ma li ha costretti a operare un ritaglio della normativa esistente compatibile, anche nel caso dell’omicidio del consenziente, con quella dettata dalla Corte per il suicidio assistito.

Ma perché questo passaggio è e resta necessario per dare una regolamentazione compiuta al tema dell’eutanasia? Perché la sentenza della Corte su caso Cappato/Dj Fabo, oggi oggetto di una risistemazione legislativa ben lontana dal vedere la luce, riguardava unicamente il suicidio assistito, cioè i casi nei quali l’atto che cagiona la morte può essere compiuto, con l’assistenza di terzi, da parte dell’interessato. C’è chi può deglutire il farmaco mortale e chi, come nel caso di Dj Fabo, può azionare con la bocca il meccanismo che lo inietta, ma c’è anche chi, per le condizioni di incoscienza in cui si trova, pur avendo dato disposizioni chiare circa la propria volontà, ha bisogno che sia un terzo materialmente ad eseguirla.

In questi casi – trattandosi tecnicamente di omicidio del consenziente, non di suicidio assistito – né la sentenza della Corte Costituzionale, né la legge in discussione alla Camera potrebbe venire in soccorso.

Questo spiega perché l’Associazione Luca Coscioni è stata di fatto obbligata, vista l’indisponibilità del Parlamento, ad aprire questo fronte referendario su un quesito che per la Corte Costituzionale, a quanto pare – sulla base delle critiche già giunte in precedenza – non sembra soddisfare il principio minimo di salvaguardia della vita umana: non nel senso che questa sarebbe offesa e pregiudicata dall’eutanasia, ma che non sarebbe garantita da una normativa di risulta (come è definita tecnicamente quella conseguente all’abrogazione referendaria), che non limita la portata della norma a casi esplicitamente eutanasici.

Qualcuno, come il Presidente emerito della Corte Costituzionale Flick, ha un po’ iperbolicamente affermato che il referendum avrebbe autorizzato l’omicidio di un consenziente disperato perché «lasciato dalla fidanzata». Però è vero che, visto lo strumento utilizzato, il quesito confezionato lasciava un’incertezza significativa in ordine all’applicabilità della nuova norma.

Ora il rischio è che il Parlamento, sfruttando questa pronuncia, traccheggi ulteriormente sulla legge in discussione e che il fronte anti-eutanasia brindi allo scampato pericolo. Ma è bene sapere, al di là di ogni considerazione di civiltà e di diritto, che dovendo decidere di un caso analogo a quello di Dj Fabo, ma con un malato in condizioni di incoscienza, la Corte di certo estenderebbe la sua precedente pronuncia anche a questa fattispecie. E non è escluso che le azioni di disobbedienza civile dell’Associazione Luca Coscioni da domani andranno in quella direzione.

La sentenza di ieri, insomma, riguarda l’ammissibilità costituzionale di un referendum, non quella dell’eutanasia.

Antisocial network. Le invettive contro la Consulta, lo schwa di cittadinanza e quell’insofferenza dei giusti per la tattica. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 18 Febbraio 2022.

Non ho in tasca risposte facili e pronte su come promuovere una legge sull’eutanasia. Suggerirei solo di non contribuire alla cagnara antipolitica e populista, perché è una retorica che ha sempre favorito partiti e movimenti tutt’altro che progressisti in queste materie. E consiglierei un libro.

Non amo, lo confesso, il genere giornalistico ormai consolidato in cui il corsivista di turno si lamenta di quanto i social network non capiscano niente. Gli stessi social network, del resto, sono pieni di invettive su quanto non capiscano niente quelli che ci scrivono sopra. Proprio come i giornali.

Tuttavia, di fronte alle reazioni indignate suscitate dalle decisioni della Corte costituzionale sull’ammissibilità di alcuni quesiti referendari, in particolare sull’eutanasia, fatico a non cedere anche io alla tentazione dell’invettiva contro il modo di ragionare e discutere tipico dei social network.

Resisto, perché penso che in fondo questo modo di ragionare e discutere è sempre esistito. Mi riferisco in particolare a una strana forma di idealismo, che si traduce in una versione speculare del buon vecchio «il fine giustifica i mezzi», per cui qualunque obiezione si frapponga tra la nobile causa e la sua realizzazione pratica non merita nemmeno di essere presa in esame. La conseguenza peggiore di questo modo di ragionare è che qualunque considerazione tattica, qualunque tentativo di calcolare per tempo costi e benefici dell’una o dell’altra scelta, proprio nell’interesse della causa, è scambiato per un inaccettabile cedimento morale.

Mi chiedo quanti danni alla promozione dei diritti civili in Italia abbia fatto, per esempio, il modo in cui si decise di andare alla carica sui referendum sulla fecondazione assistita nel 2005, per quanti anni abbiamo scontato gli effetti della schiacciante vittoria politica e culturale del fronte guidato dal cardinale Camillo Ruini, e come sarebbero andate le cose se invece si fosse evitato di portare lo scontro su un terreno su cui era prevedibile una sconfitta, sebbene forse nessuno l’avrebbe immaginata così pesante (andò a votare appena il 25 per cento della popolazione).

L’ultima volta che mi è capitato di pensarci è stato guardando il video della sacrosanta campagna per una riforma della legge sulla cittadinanza. Campagna che si conclude con le seguenti parole: «Circa un milione e mezzo di giovani cresciutə in Italia sono senza cittadinanza, di questə 860 mila sono natə in Italia…». Tre schwa in due righe.

L’obiettivo di quello spot dovrebbe essere convincere quante più persone possibile, cioè persone che non la pensano già come noi favorevoli per principio, che non condividono già il cento per cento di quello che pensiamo noi, figuriamoci una cosa su cui non siamo d’accordo neanche tra di noi come lo schwa.

Sono convinto che il motivo per cui, nella riunione che avranno fatto per discuterne, alla fine i promotori hanno deciso di scrivere il testo in quel modo sia la stessa per cui ieri la mia bacheca twitter era piena di fior di liberali, democratici e progressisti che inveivano contro la Corte costituzionale e il parlamento come nemmeno il più fanatico dei grillini.

Leggendo tante invettive a proposito di un tema difficilissimo e delicatissimo come l’eutanasia, mi sono convinto che al fondo di tutto questo ci sia la tendenza a vedere con insofferenza qualsiasi complicazione compaia sulla retta via (cioè senza curve, bivi o deviazioni) che porterebbe immediatamente alla realizzazione delle nostre convinzioni, ovviamente coincidenti con il benessere generale dell’umanità.

Non ho in tasca risposte facili e pronte su come promuovere e tanto meno su come scrivere una legge sull’eutanasia. In linea generale, suggerirei solo di non contribuire alla cagnara antipolitica e populista, perché è una retorica che ha sempre favorito partiti e movimenti tutt’altro che progressisti in queste materie. Ma soprattutto vorrei consigliare un libro, appena uscito per Mondadori, di Massimo Adinolfi: “Problemi magnifici”.

È un libro che parla di scacchi e di filosofia, o per essere più precisi che finge di parlare di scacchi per parlare di filosofia (anche se quasi certamente l’autore protesterebbe che semmai è il contrario, e la filosofia era un pretesto per poter scrivere di scacchi: ma si sa che il parere dell’autore non è sempre quello decisivo, in questi casi).

In verità, è un libro che parla di tutto: della serie Netflix “La regina degli scacchi” e di che cosa sia un gesto; del nano Fischerle, che in un libro di Elias Canetti («Auto da fé») cambiava le mosse delle partite dei grandi campioni per far credere al suo pubblico di essere molto più forte di loro (correggendone i presunti errori); di Woody Allen, che in “Ciao Pussycat”, durante una partita al tavolino di un bar, approfittava della momentanea distrazione dell’avversario per scagliare via questo o quel pezzo dalla scacchiera. E anche di che cosa sia la libertà.

Adinolfi parla di tutto questo per dire, tra l’altro, una cosa semplice, che in fondo è già evidente dal titolo, e che così spiega nell’introduzione: «Non sono difficili gli scacchi, ma profondi; non è pesante la filosofia, ma profonda. Il libro vuole dimostrarlo, prendendo la filosofia per quello che è: un modo per capire il mondo e, in questo caso, per capire attraverso gli scacchi qualcosa del mondo». Problemi magnifici, appunto.

E se arrivati a questo punto ancora non avete capito dove diavolo io voglia andare a parare, e soprattutto cosa mai possa esserci di magnifico in un problema – scacchistico, filosofico o politico – ve lo dico subito. Tutte le difficoltà e gli ostacoli che in democrazia si frappongono tra noi e la realizzazione dei nostri obiettivi, anche i più nobili e giusti, non sono intralci da togliere di mezzo, rispetto ai quali cercare scorciatoie che ci permettano di saltare a piè pari la fatica del compromesso e della mediazione, tantomeno carognate contro cui inveire: sono la sua bellezza. Sono la parte essenziale del gioco.

La tentazione di buttar fuori dalla scacchiera i pezzi dell’avversario che intralciano le nostre fantastiche combinazioni e strategie (come faceva Woody Allen) o di spostarli a nostro comodo (come faceva il nano Fischerle) è umana, è comprensibile, è forse in casi estremi persino giustificabile, ma seppure fosse lecito seguirla fino in fondo, ci si può scommettere, non produrrebbe né partite né giocatori migliori. E nemmeno migliori leggi.

Contro il bipolarismo culturale. L’eutanasia è una questione seria, va affrontata tenendosi fuori dalla battaglia delle parti. Claudio Corbino su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

Sul tema i casi da considerare sono complessi e delicati e occorre valutare di volta in volta. Ma tra i principi fondamentali figura il presupposto della volontà del soggetto, che deve essersi formata in libertà e senza condizionamenti.

La proposta di referendum sull’eutanasia attiva, e la dichiarazione di inammissibilità del quesito operata dalla Corte Costituzionale, restituiscono attualità ad un tema che rimane assai problematico.

La sua problematicità è multipla: investe il concetto di libertà individuale, di diritto alla cura e al non accanimento terapeutico, la stessa architettura costituzionale di tutela del diritto alla vita delle persone.

Ed è anche argomento assai delicato, perché sollecita al dibattito persone che si trovano in una terribile condizione: quella di trovarsi direttamente in uno stato di enorme sofferenza o quella di assistere un loro caro, una persona amata, nell’orribile limbo tra la vita che non tornerà mai più e la morte che non riesce a sopravvenire.

Le riflessioni che qui vorrei proporre, consapevole delle difficoltà di cui prima ho accennato, lungi dalla pretesa di offrire risposte definitive, trovano la propria ragione nel tentativo di suggerire un dibattito sereno su un tema così grande e che investe questioni di, per così dire, civiltà sociale ma anche di civiltà giuridica.

Pur ritenendo di possedere una certa cultura del diritto, certamente non posseggo una conoscenza tecnica delle tematiche in oggetto tanto consolidata da potere offrire ragionamenti di sistema.

E, dall’altro lato, pur amando la ricerca culturale, letteraria e poetica di una dimensione ulteriore a quella terrena, non ho il cosìddetto dono della fede.

Tuttavia, pur considerando meritori e coraggiosi i tentativi di tutte le parti in causa di offrire risposte adeguate ad un problema che la realtà pone drammaticamente, ritengo che possa essere utile abbandonare gli “schieramenti” naturali.

Si fa un gran parlare della fine del bipolarismo politico, forse sarebbe il caso di augurarci anche il definitivo tramontare del bipolarismo culturale e muscolare. Quello secondo il quale, su ogni questione, possano formarsi due schieramenti contrapposti che si confrontino o, per meglio dire si scontrino, tra loro per l’affermazione di un punto di vista unitario. Bianco o nero.

Proverò a dire, brevemente, perché in questo caso possa forse sussistere una zona grigia in cui sia possibile tutelare, comunque al meglio, gli interessi di chi soffre.

Credo che si debba distinguere attentamente tra la condizione di chi, a causa di una malattia o di un incidente, si trovi nelle condizioni di essere tenuto in vita artificialmente dalle macchine, e che dunque sia impossibilitato ad esprimere la propria volontà circa il trattamento terapeutico cui essere sottoposto, e quello di chi si trovi in uno stato di tale prostrazione fisica e/o morale da desiderare un trattamento di eutanasia attiva.

Quello che da sempre viene insegnato ad ogni studente di primo anno di giurisprudenza, è che un atto, qualunque atto, perché possa avere valore per il nostro ordinamento debba essere stato compiuto da un soggetto dotato di capacità giuridica e di capacità di intendere e di volere.

In estrema sintesi, e qui anche un po’ semplificando, è fondamentale cioè che la volontà del soggetto che compia un atto si sia formata secondo un moto del pensiero del tutto libero e privo di qualunque condizionamento.

Se tale volontà è invece condizionata, cioè non si è formata liberamente, l’atto non produrrà effetti per l’ordinamento (con molte sfumature che qui è inutile ricordare). Ed è intuitivo che ciò avvenga proprio a tutela del soggetto che ha compiuto l’atto nella detta condizione di prostrazione psicologica.

Nel caso di persona che a seguito di un incidente si trovi tenuto in vita artificialmente, potrà farsi valere una volontà espressa per iscritto, e in modo incontestabile dal medesimo soggetto, prima del fatto che determini la condizione di impossibilità; oppure potrebbe persino diventare dominante la volontà “supplente” di chi sia chiamato a prendersi cura di quella persona (un genitore, un figlio, il coniuge, tanto per fare degli esempi).

Mi pare per altro che, in entrambi i casi sopra descritti, l’ordinamento negli anni si sia mosso nel senso di una più ampia e rinnovata tutela dei soggetti coinvolti.

Ma con riferimento all’eutanasia attiva a me pare che sia impossibile il formarsi di una libera volontà del soggetto che vorrebbe ricorrervi.

La condizione cioè di dolore o di prostrazione fisica e morale nell’individuo chiamato a compiere questa scelta, a me pare infatti possa ritenersi sufficiente per immaginare che la sua volontà non si sia formata liberamente, ma appunto sotto il condizionamento del particolarissimo stato di sofferenza che egli è chiamato a vivere.

Anche un soggetto gravemente depresso, secondo il principio dell’eutanasia attiva, dovrebbe avere il diritto di suicidarsi. Eppure tutti sappiamo come la depressione, anche nelle sue gravissime forme cliniche, sia una malattia che offre importanti percorsi di reversibilità. Al contrario del suicidio.

Non vedo dunque quale spazio di ulteriore tutela delle libertà personali possa affermarsi attraverso un ordinamento che superasse il principio della libera volontà quale presupposto necessario al compimento di qualunque atto, e addirittura di un atto che dispone della vita stessa.

E per le ragioni di mia cultura personale, cui prima ho fatto riferimento, lo dico senza nessun presupposto etico-religioso. Che per altro, a scanso di equivoci, avrebbe pieno diritto ad essere tenuto in attenta considerazione da chi ne faccia riferimento culturale per sé.

Forse potrebbero considerarsi soluzioni meno ideologiche ma che possano portare a risultati significativi in termini di riduzione del dolore. Faccio riferimento alle cure palliative, al non accanimento terapeutico o alla sedazione profonda. E forse si potrebbero immaginare percorsi sociali, culturali e legali volti al rafforzamento del ricorso a questi strumenti.

È ovvio che anche tali scelte devono fondarsi sulla più ampia libertà del soggetto che le pone in essere, e che le stesse perplessità circa il condizionamento del dolore fisico o morale, possano rilevare; tuttavia mi pare che in questo caso ci troveremmo nell’ambito di un più gestibile diritto all’autodeterminazione delle cure sanitarie. Che rimane cosa diversa dal suicidio.

La ricomposizione del conflitto valoriale che la questione pone, e che in queste ore è stato autorevolissimamente rimesso alla sollecitudine del parlamento, è però a mio avviso questione prima culturale che politica.

In conclusione mi piacerebbe si potesse discutere seriamente e laicamente di tutto ciò, anche con chi, come il sottoscritto, pur muovendo, per convinzione e pratica, dalla necessità della più ampia tutela possibile delle libertà individuali, non vuole arrendersi all’idea che ogni aspirazione legittima diventi “ipso facto” diritto riconosciuto.

E che al contrario è proprio nella complessità del diritto, e nei suoi fondamenti, che si annida la nostra più profonda libertà.

Manca la volontà. La scelta pretestuosa della Consulta di aggrapparsi alla forma per bocciare i quesiti. Simona Viola su L'Inkiesta il 17 Febbraio 2022.

Storicamente la Corte Costituzionale ha innovato, proposto e cambiato i propri poteri. Avrebbe potuto farlo anche stavolta, magari ridefinendo il testo dei referendum o individuando altre strade. Invece ha preferito bacchettare i promotori e mantenere lo status quo.

Quando lo ha voluto lo ha fatto. La Corte Costituzionale ha più volte “auto-aggiornato” i propri poteri in funzione delle necessità e della evoluzione della società e del diritto.

Così, di punto in bianco, ha accettato che i cittadini, in materia elettorale, le si rivolgessero direttamente impugnando la legge elettorale saltando l’intermediazione dell’incidente di costituzionalità davanti a un giudice che per decenni era stato ritenuto assolutamente insuperabile e, sempre in materia elettorale, ha “ritagliato” una nuova legge elettorale dettando al Parlamento i criteri della sua necessaria futura riforma.

In altre circostanze ha innovato (o per meglio dire aggiornato) i principi che governano gli effetti delle sue sentenze, sulla base di criteri di mera opportunità politica.

Allo stesso modo, di fronte alla enormità della manifestamente ingiusta, e ormai inaccettabile, imputazione di Marco Cappato, ha per la prima volta nella sua storia, dapprima sospeso il giudizio assegnando al Parlamento un termine per provvedere al “vuoto normativo” che la mera dichiarazione di incostituzionalità avrebbe creato; e successivamente, per la prima volta nella sua storia, ha autonomamente cercato nell’ordinamento le tracce di una serie di condizioni in presenza delle quali riempire quel vuoto normativo al posto del legislatore.

Insomma quando ha voluto superare i formalismi per rendere giustizia, lo ha fatto.

Ora, le decisioni di inammissibilità dei referendum sulla cannabis e sull’omicidio del consenziente hanno un sapore beffardo, soprattutto alla luce delle motivazioni, che sembrano rimproverare imperizia agli estensori dei quesiti.

Non credo che quei quesiti fossero inammissibili (e infatti non credo che le decisioni siano state assunte all’unanimità dalla Corte) ma quand’anche non fossero stati perfetti e fosse sorto un dubbio sui loro effetti, erano certamente perfettibili.

Ora, chiunque abbia a che fare con la tecnica redazionale delle norme sa quanto spesso si riveli complessa l’applicazione – su un testo legislativo – di un’operazione meramente abrogativa.

I testi legislativi non vengono mai scritti pensando che devono poter essere scomponibili e frazionabili, sicché talvolta – anche per raggiungere esiti abrogativi evidenti (e non additivi o manipolativi) come de-penalizzare un comportamento vietato dall’ordinamento (coltivare, consumare e commercializzare cannabis, oppure somministrare un farmaco letale al malato incurabile che soffre di dolori insopportabili che lo abbia consapevolmente richiesto) – il ricorso al solo “taglio” di parole (senza poterne “cucire” o “incollare” altre) non permette di raggiungere testi finali pienamente soddisfacenti, espressivi, con la massima precisione, del risultato abrogativo voluto. Anche quando l’intento abrogativo è inequivoco e la volontà del comitato promotore e dei sottoscrittori è altrettanto inequivoca.

È solo la tecnica redazionale della norma oggetto di abrogazione che (per puro caso) non sempre permette un risultato ottimale.

Ma in questo caso, allora, appare irridente che il Presidente della Corte Costituzionale, invece di esortare la Corte ad aggiornare il proprio strumentario (come ha mostrato di saper fare quando vuole) per rendere giustizia ai cittadini sottoscrittori e ai comitati promotori, si rivolga agli estensori dei quesiti con la matita rossa e blu e li bacchetti, accusandoli di aver lasciato aree di (manifestamente involontaria) impunità (come la coltivazione di sostanze destinate ad essere trasformate in droghe pesanti o la tutela di persone fragili dalla tentazione dell’eutanasia attiva).

Era infatti evidente e lapalissiano che promotori e firmatari non intendevano in alcun modo far produrre quegli effetti dall’accoglimento dei quesiti così come formulati.

Un intervento “correttivo” dei quesiti, con tecniche innovative non dissimili da quelle già tracciate dalla Corte, si imponeva, anche e a maggior ragione, alla luce del sistema italiano che non prevede alcuna forma di verifica preventiva (o in corso di raccolta di firme) di ammissibilità del quesito e della correttezza della sua formulazione.

E l’intervento “correttivo” dei quesiti può essere reso necessario dalla tecnica redazionale del testo legislativo da “amputare” che – per ragioni del tutto casuali e indipendentemente dalla volontà del comitato promotore – non sempre consente un perfetto ritaglio delle norme da lasciare e di quelle da abrogare.

E allora perché sgridare i promotori, accusandoli di voler permettere la coltivazione delle foglie di coca o l’eutanasia attiva su persone fragili – nella consapevolezza che né loro, né i sottoscrittori delle proposte referendarie, hanno neppure lontanamente questi obiettivi – e non soccorrere, rispettare e proteggere, invece, la volontà popolare con il perfezionamento dei quesiti, o con il chiarimento degli effetti che non deriverebbero dal loro accoglimento?

I quesiti, del resto, non sono né sacri né intoccabili, come dimostra l’ampia discrezionalità esercitata dal Parlamento nell’approvare norme preventive di riforma della disciplina sottoposta a referendum, al fine di inibirne la celebrazione: in quel caso per impedire il referendum è sufficiente che i contenuti della riforma vadano «nel senso voluto dai promotori del referendum».

Ecco, qui sarebbe stato necessario molto meno, sarebbe bastato un perfezionamento ad opera della Corte sui quesiti «nel senso voluto dai promotori del referendum», e sarebbe stato quanto mai opportuno da parte del Presidente della Corte rivolgere al Parlamento inerte, e non ai promotori dei referendum, i propri rimproveri.

La democrazia partecipativa non può essere ridotta a un gioco dell’oca in cui a un certo punto arrivi sempre alla casella di riporta al VIA, perché prima o poi viene il giorno che i giocatori si stufano e buttano via il gioco.

La Corte svolge un ruolo cruciale nel nostro sistema ed è un attore istituzionale che, al pari di tutti gli altri (Parlamento innanzitutto), ha il dovere di inverare e manutenere gli istituti democratici.

E allora, come si suol dire, «è solo una questione di volontà», che in questo caso non c’è stata.

Simona Viola è membro della segreteria di +Europa e responsabile giustizia

Eutanasia di un referendum: ma la colpa non è della Consulta. La conseguenza più logica e lampante di questa sconfitta è che ora la legge sull’eutanasia è più lontana. Ed è un peccato perché sull’eutanasia c’è uno iato profondo tra Parlamento e società civile. Davide Varì su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

È legittimo discutere le sentenze, ci mancherebbe, in Italia non facciamo altro. Soprattutto quando sono di assoluzione; e qui potrebbe far comodo la rilettura del “paradigma vittimario”di Ricoeur, De Luna e per ultimo Sgubbi, ma forse arriveremmo troppo lontano. Rimaniamo sul punto: sulla sentenza della Consulta e il parere di inammissibilità del referendum sull’eutanasia. Bene, abbiamo due modi di reagire di fronte a questa decisione. La prima: inveire, come fanno molti – alcuni a denti stretti altri invece a gran voce -, contro i giudici della Corte Costituzionale, ma a occhio e croce è come prendersela contro le divinità o “colui che tutto move” quando le cose non vanno come vorremmo. La Consulta si è limitata a verificare l’ammissibilità di un quesito, senza paraocchi e guidata non da un cardinale di Santa Romana Chiesa ma da un “devoto al laicismo” come Giuliano Amato.

Ma c’è un altro modo di commentare quella sentenza: ovvero cercare di capire come si sia arrivati a quella bocciatura. Forse si è sbagliato qualcosa nel percorso o nella costruzione del quesito. E qui costituzionalisti e giuristi ci aiuteranno di certo a capire meglio, anche se sarebbe stato più utile che si fossero fatti vivi prima. Ma se è vero che la caccia al colpevole non solo è ingenerosa ma è del tutto inutile, dobbiamo comunque capire la genesi e le conseguenze di questa bocciatura. A cominciare dal mancato effetto traino che l’eutanasia avrebbe di certo avuto sui referendum ammessi oggi. Ora, non vorremmo mai e poi trascinare i promotori all’analisi della sconfitta modello Congresso del Partito comunista italiano, ma qualche domanda, dopo aver inveito contro gli incolpevoli Ermellini, dovrebbero pur farsela.

Anche perché l’analisi delle ragioni di questa sconfitta ci portano dritti dritti alle sue conseguenze politiche. E la conseguenza più logica e lampante è che ora la legge sull’eutanasia è più lontana. Ed è un peccato perché sull’eutanasia c’è uno iato profondo tra Parlamento e società civile. Migliaia di cittadini conoscono bene il dolore del “dovere di vivere”. C’è chi lo vive sulla propria pelle e chi lo vive assistendo un figlio, una madre, un padre, un compagno, tenuti in vita solo grazie ai prodigi della medicina. Prodigi inimmaginabili fino a qualche decennio fa. Ma ora quello stesso Parlamento che ha chiuso gli occhi di fronte a quel dolore e a quella richiesta d’aiuto, ha una ragione in più per voltarsi dall’altra parte.

E allora, se è legittimo discutere e criticare le sentenze, anche quelle della Consulta, d’altra parte è un dovere capire come si sia arrivati a questo disastro politico e umano.

Padovani: «Quel no sul fine vita è profondamente sbagliato e dettato da ragioni politiche». Intervista all'Accademico dei Lincei, che in Corte Costituzionale ha sostenuto le ragioni del referendum sull'eutanasia legale. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Il professore e avvocato Tullio Padovani, Accademico dei Lincei, due giorni fa in Corte Costituzionale ha sostenuto le ragioni del referendum sull’eutanasia legale rappresentando “La Società della Ragione” e altre associazioni.

Come giudica la decisione della Consulta?

Profondamente sbagliata. Il dispositivo della Corte riproduce in sintesi la motivazione della sentenza della stessa Consulta del 2018 che sospese la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 580 cp (Istigazione o aiuto al suicidio) sollevata dalla Corte di Assise di Milano nel caso Dj Fabo. Si rispose, rinviando al Parlamento, che non si poteva dichiarare l’incostituzionalità perché bisognava salvaguardare le persone fragili e vulnerabili. Ora ci troviamo dinanzi alla stessa motivazione. L’errore è quindi duplice.

Perché?

Il primo errore consiste nel fatto di invocare una circostanza che non risponde alla realtà normativa. La tutela delle persone più deboli e più fragili è amplissimamente rassicurata dalla piena e integrale sopravvivenza della disposizione del terzo comma dell’articolo 579 c.p. che garantisce i requisiti di validità del consenso.

Per capirci bene: con la modifica referendaria chi avesse provocato la morte di un minorenne, di un infermo di mente, di chi si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti, o di una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno sarebbe stato comunque giudicato per omicidio?

Esatto. Questi paletti sono talmente stretti – nel senso che definiscono tutta una serie di circostanze – e nello stesso tempo talmente ampi – perché definiscono quelle stesse situazioni in modo vago – che a posteriori non sono stati mai accertati. Il 579 cp sta lì a sancire il principio di indisponibilità della vita ma non ha mai ricevuto alcuna applicazione, perché mai si è riconosciuto un valido consenso alla propria uccisione. Quindi le persone fragili sarebbero state tutelate esattamente come lo sono ora.

Qual è la seconda ragione per cui è sbagliata?

Una motivazione che era stata utilizzata per rigettare una questione di costituzionalità è stata utilizzata in sede impropria, ossia per giudicare dell’ammissibilità o meno di un quesito referendario, che invece andrebbe vagliata solo tenendo presente i casi previsti dall’articolo 75 della Costituzione (Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali). Invece i giudici costituzionali sono andati ad esaminare una eventuale normativa di risulta, facendo considerazioni completamente avulse dal contesto di ammissibilità.

Nel motivare l’ammissibilità dei quattro quesiti sulla giustizia, si sono invece usati i parametri dell’articolo 75 da lei citato.

E invece per il referendum eutanasia si è andati oltre.

Molti sostengono che se fosse passato il referendum si sarebbe creato un vuoto normativo.

Ma quale vuoto normativo? Non è vero che sarebbe accaduto questo. Quando hanno dichiarato la parziale incostituzionalità dell’aiuto al suicidio è la Corte stessa che si è chiesta come colmare il vuoto normativo. E ci è risposti di ricorrere alla legge del 2017 “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, che è l’unica che esiste in materia di fine vita. La giustificazione del vuoto normativo è pretestuosa.

Il leader dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, ha parlato di “sentenza politica”. Lei è d’accordo?

Sono d’accordo perché non vedendo ragioni giuridiche alla base della decisione della Consulta non posso che vedere ragioni politiche.

Dettate da cosa?

Questa materia non è semplicemente divisiva perché – lo sappiamo tutti – la maggioranza degli italiani sarebbe stata favorevolissima alla soluzione prospettata dal referendum. Ma noi in Italia abbiamo l’ipoteca dello SCV.

Cioè?

Stato della Città del Vaticano che su certe materie è ente sovrano. Si ricordi, perdere il dominio in queste materie significa perdere il potere sui corpi, che è il potere fondamentale come insegnava Marco Pannella. E la Chiesa non vuole assolutamente perdere questo controllo.

La vita è un dono, le verrà risposto oltre Tevere.

Sono anche d’accordo, ma se ricevo una cosa in dono ne faccio quello che voglio. E poi ne renderò conto a chi me l’ha donata. Se esiste, quel qualcuno mi giudicherà. Non capisco come non ci si renda conto di una verità così elementare.

Ieri Vladimiro Zagrebelsky dalle colonne de La Stampa pur sostenendo che la decisione della Corte non deve destare sorpresa, ripercorrendo altre decisioni interne e sovranazionali, tuttavia ha scritto che “alla volontà libera della persona che decide di morire, la Corte ha sostituito l’autorità dello Stato. In tal modo ha adottato una posizione autoritaria”. Condivide?

Certamente. Si è stabilito che in Italia esiste, e non si può contestare neanche con il voto popolare, il dovere di vivere. I cittadini italiani non sono liberi di decidere a maggioranza se la vita è un dovere. Devono subirlo invece questo dovere. Noi siamo stati condannati a vivere. La nostra vita non ci appartiene: questo ci ha detto la Corte Costituzionale.

Oppure bisogna andare all’estero o continuare a praticare l’eutanasia clandestina.

Ai giudici della Corte questo non interessa perché a loro vanno benissimo le soluzioni ipocrite perché non turbano le coscienze. I sepolcri imbiancati restano imbiancati. È difficile vivere in un Paese che da un lato si proclama democratico e liberale ma che dall’altra parte ti obbliga a vivere anche se tu ritieni che la tua vita non sia più degna di essere vissuta.

E ora che fare? Anche dal versante parlamentare non arrivano buone notizie.

Sono pessimista: secondo me non succederà più niente perché la sentenza della Corte avrà effetti indiretti ma poderosi sul Parlamento, in quanto legittimerà la stasi legislativa.

Alessandra Arachi per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2022.

Le chiamate al numero bianco dell'Associazione Coscioni sono quotidiane. «Tre al giorno più altre due di persone che contattano direttamente me senza passare dal telefono bianco», precisa Marco Cappato, tesoriere dell'Associazione.

Il numero bianco è quel numero che è stato creato per dare sostegno a chi reclama un fine vita. A gestire l'utenza è Valeria Imbrogno, la fidanzata di Dj Fabo, diventato noto alle cronache per essere andato in Svizzera per ottenere il suicidio assistito.

Marco Cappato lo accompagnò. Ad ascoltare le tragedie vengono i brividi. Sono tutte malattie drammatiche, insopportabili, incurabili. Qualcuna per capire: «Salve, mi chiamo Andrea e scrivo questa mail per conto di mio fratello F. colpito da trombosi al cervello nel febbraio del 2004. 

È stanco, non ha più voglia di rimanere imprigionato, e dopo 17 anni direi che è comprensibile. Vi scrivo proprio per poter capire se sia una strada percorribile vista la sua condizione e, se sì, quale sia l'iter da seguire».

E ancora: «Buongiorno. Mi chiamo Anna, ho un tumore maligno e metastasi, chiedo un incontro con voi nella mia abitazione per informazioni sul suicidio assistito». 

Un'altra: «Buonasera, sono affetto da sindrome di Arnold-Chiari, una malattia molto poco conosciuta in Italia e raramente mortale ma io sono stato sempre grave fin da bambino e oggi sono pesante come un sasso. Sono allo stremo e in verità sono stato più morto che vivo per 4 anni.

Ora ho paura di una morte violenta e drammatica. Vorrei sapere se è possibile accedere alla morte assistita. Sono un cristallo di sofferenza inaudita. Inoltre ho una leggera forma di Parkinson». 

«Sono tutte persone al limite della sopportazione di una vita che paragonano a una tortura», spiega ancora Marco Cappato che si è battuto in prima persona per il referendum sull'eutanasia legale, bocciato dalla Corte Costituzionale.

Ci sono persone di ogni età e di ogni estrazione sociale tra le chiamate al numero bianco. L'Associazione Coscioni cerca una soluzione per tutti. «Però molte di loro rimarrebbero escluse dall'attuale legge sul fine vita al vaglio del Parlamento. Che è più restrittiva rispetto a quanto è già legale in Italia e restringerebbe libertà e diritti già conquistati» spiega Filomena Gallo, legale dell'Associazione. 

E Marco Cappato rilancia: «Per questo motivo, paradossalmente, sarebbe escluso dall'applicazione della legge anche Mario, il tetraplegico marchigiano che ha avuto il semaforo verde dal comitato etico sulla base di quanto ha stabilito la Corte Costituzionale con la sentenza del 2019».

Eutanasia e suicidio assistito: perché serve una legge e come funziona in Europa. Milena Gabanelli e Francesco Tortora su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

La Corte Costituzionale ha bocciato il referendum sull’eutanasia, ma il problema resta. Se una persona volesse porre fine alla propria vita perché colpita da malattia terminale con dolori atroci e nessuna cura disponibile, cosa le consente di fare la legge? In Italia dal 2017 è legale la sospensione delle cure (eutanasia passiva), che permette al malato di rifiutare qualsiasi trattamento sanitario, alimentazione e idratazione comprese. Tuttavia se il paziente fosse ridotto irreversibilmente allo stato vegetativo, dovrebbe aver già espresso le sue volontà attraverso un biotestamento. Significa che avrebbe dovuto pensarci prima. Sono almeno 15 anni che il tema del fine vita spacca l’opinione pubblica e le forze politiche. Le divisioni sono riemerse lo scorso 9 febbraio quando il disegno di legge sul suicidio assistito è tornato alla Camera dopo un esame di due anni nelle Commissioni Giustizia e Affari sociali, e sono destinate a riaccendersi con la decisione della Corte Costituzionale che ha dichiarato inammissibile il referendum sull’eutanasia attiva promosso dall’Associazione Luca Coscioni.

Le tre strade del fine vita

Ovunque nel mondo sia stata definita una legge chiara sul fine vita, le condizioni del paziente per usufruirne sono queste: invalidità irreversibile o malattia terminale, dolori insopportabili, nessuna cura disponibile e sempre il consenso del malato. Oltre all’eutanasia passiva che è legale o tollerata in quasi tutti i Paesi europei, ci sono altre due strade: l’eutanasia attiva e il suicidio assistito. La prima è praticata da un medico, di solito attraverso iniezione endovenosa. Secondo l’attuale legislazione italiana questa modalità è assimilabile all’omicidio volontario. Nel suicidio assistito è invece il malato, con l’assistenza del medico, a compiere autonomamente l’ultimo atto che porta alla morte. 

Dove sono legali eutanasia attiva e suicidio assistito

In Europa sono legali in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Spagna. Il primo Paese a muoversi è stato l’Olanda dove entrambe le vie, tollerate fin dal 1985, sono state legalizzate completamente nel 2002. Possono ricorrervi anche i minori, ma sotto i 16 anni c’è bisogno del consenso dei genitori. In 18 anni i casi di eutanasia e suicidio assistito sono stati 75.360. Anche il Belgio ha legalizzato le due pratiche nel 2002. Dal 2014 l’eutanasia è stata estesa a bambini e minori. In 18 anni vi hanno fatto ricorso 24.520 malati. La Spagna ha reso legale l’eutanasia dallo scorso giugno. Prima del varo della legge, aiutare qualcuno a morire in Spagna era potenzialmente punibile con una pena detentiva fino a 10 anni. Al di fuori dei confini europei, eutanasia e suicidio assistito sono legali in Canada, Colombia, Nuova Zelanda e in alcuni stati australiani (Queensland, Tasmania, Victoria, South Australia e Western Australia). In Svizzera, Austria, Germania e in undici stati Usa (California, Colorado, Hawaii, Montana, Maine, New Jersey, Nuovo Messico, Oregon, Washington, Vermont e District of Columbia) è consentito il solo suicidio assistito. In Germania, dove resiste la memoria delle 300 mila vittime con disabilità mentali e fisiche dei medici nazisti, non è stata ancora formulata una legge, ma la Corte Costituzionale federale ha stabilito nel febbraio 2020 la legittimità della pratica in determinate circostanze. 

Il caso Svizzera

La Svizzera ha legalizzato il suicidio assistito nel l 1942 e la legge tollera la pratica quando i pazienti agiscono in autonomia, e chi li aiuta non ha alcun interesse nella loro morte. I suicidi assistiti rappresentano circa l’1,5% dei 67 mila decessi registrati in media ogni anno. A differenza di ciò che accade altrove, le cliniche della Confederazione elvetica offrono il servizio anche ai cittadini stranieri. La più grande organizzazione per il suicidio assistito in Svizzera si chiama Exit, è stata fondata nel 1982 e aiuta soltanto i residenti nel Paese: oltre mille persone ogni anno ricevono assistenza e quasi tutte (98% nel 2019) scelgono di morire a casa propria o nella casa di cura in cui vivono. Nel 2020 circa 1.282 malati gravi hanno utilizzato i servizi dell’organizzazione, 68 in più rispetto al 2019. L’età media era di 78,7 anni, il 59% era composto da donne. Dignitas, la seconda più grande organizzazione per il suicidio assistito, accetta anche stranieri non residenti (costo medio 10 mila euro). Come Exit, offre i propri servizi solo a persone con malattie gravi, che soffrono dolori «insopportabili» oppure che hanno una menomazione insostenibile. Dal 1998 al 2020 Dignitas ha portato a termine 3.248 suicidi assistiti. La maggior parte erano tedeschi (1.406), britannici (475), francesi (405), svizzeri (200) e italiani (159). Nel 2020 i suicidi assistiti sono stati 221, e 14 malati erano italiani. 

Il suicidio assistito in Italia

Negli ultimi sei anni gli italiani che hanno contattato l’Associazione Luca Coscioni per avere informazioni sul fine vita sono stati in totale 1.725. L’attuale legge sul suicidio assistito in discussione alla Camera è appoggiata da Pd, Leu, Italia viva e Cinque Stelle: composta di 8 articoli, nasce da una proposta di iniziativa popolare depositata nel 2013 e più volte riformulata accogliendo anche modifiche suggerite da partiti di destra. Il disegno di legge però continua a dividere il Parlamento e trova l’opposizione di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia. Prevede la possibilità per il malato di autosomministrarsi la sostanza letale fornita da un medico che non è punibile. Il testo include anche l’obiezione di coscienza dei medici e un precedente percorso di cure palliative da parte del paziente per alleviare le sofferenze. La proposta di legge è arrivata per la prima volta in Parlamento a dicembre, tre anni dopo l’invito della Corte Costituzionale a legiferare sul tema e due anni dopo la sentenza 242 con la quale la Consulta ha riconosciuto il diritto al suicidio medicalmente assistito per persone capaci di intendere e volere, affette da malattie irreversibili che procurano sofferenze insopportabili, tenute in vita da trattamenti di sostegno vitale. Finora nulla però è riuscito finora a sbloccare l’azione parlamentare, e c’è già chi teme che il disegno di legge dopo tanto impegno possa essere affondato come il decreto Zan. 

Il referendum

Ad accelerare i tempi per una legge sul tema poteva essere ancora l’intervento della Corte Costituzionale che però martedì 15 febbraio ha ritenuto inammissibile il referendum per l’abrogazione parziale dell’art. 579 del Codice penale (omicidio del consenziente) e dunque per l’eutanasia attiva. La Consulta ha bocciato il quesito perché «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». La raccolta firme a favore del referendum era stata sottoscritta da oltre 1,2 milioni di cittadini. Analizzando i dati sulle firme digitali pubblicati dall’Associazione Coscioni si scopre che ad approvare il referendum erano stati 221 mila donne e 171 mila uomini e i più attivi risultavano i giovani con età tra i 21 e i 30 anni (154.360 firme). Decisamente inferiori le firme dei più anziani, probabilmente anche per una minore propensione all’uso del digitale. 

I promotori del referendum sostenevano che la depenalizzazione dell’eutanasia attiva avrebbe permesso di non creare discriminazioni tra malati e di accompagnare verso il fine vita anche quelle persone sofferenti che non possono ricorrere ad aiuti esterni. I critici invece temevano che l’approvazione di una legge sull’eutanasia avrebbe legittimato in tutto e per tutto l’omicidio del consenziente, creando le condizioni per «liberarsi del malato» violando il principio della sacralità della vita. Dopo la bocciatura della Corte Costituzionale, appare sempre più necessaria una legge che delimiti con chiarezza confini e responsabilità, affinché non si ripetano situazioni come quella di Mario, il 43enne tetraplegico che, pur avendo ottenuto il permesso di ricorrere al suicidio assistito, è rimasto ostaggio di ricorsi e ordinanze contrapposte in attesa che una commissione medica individuasse il farmaco da utilizzare. Un calvario durato 18 mesi.

La bocciatura del referendum. Cosa è l’eutanasia e perché la Consulta ha bocciato il referendum. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 17 Febbraio 2022 

1. Non altrove ma qui, in Italia, quelli che dal 1789 abbiamo imparato a chiamare diritti civili sono da tempo battezzati diversamente: li chiamano temi eticamente sensibili, dunque divisivi, per questo tenuti distanti il più possibile dall’agenda parlamentare, nella convinzione che il modo migliore per liberarsene sia ignorarli. Su argomenti che vanno dallo statuto dell’embrione al momento in cui ci lasceranno morire, la logica deliberativa è quella del peccato che si fa reato, del «io non voglio, dunque nessuno può», imposta con il pugno sul tavolo della conta o dei veti reciproci. Un mix tra convento e caserma.

Succede così che, inagibile l’agorà legislativa, si tenti di usare il diritto (lex) per affermare i diritti (iura). È la strada che la Costituzione apre, prevedendo strumenti di decisione politica alternativi a quella parlamentare, introdotti nell’ordinamento proprio per colmare la distanza tra norma vigente e fatto sociale. Il referendum è uno di questi. Ci vogliono anni di azione politica per creare le condizioni necessarie a una campagna referendaria. Serve molto tempo, e altro ancora, per avanzare. Basta invece una camera di consiglio di un paio d’ore, a Palazzo della Consulta, per arretrare alla casella di partenza. Un mix tra il gioco dell’oca e il “non t’arrabbiare”. Sul piano della politica del diritto, Camere e Consulta convergono così nell’esito: il nulla di fatto. A muoverle, probabilmente, è la medesima paura: che quanto riconosciuto per legge o per via referendaria diventi scelta possibile, uscendo così dalla clandestinità (dove «si fa ma non si dice») e dalla sfera della riprovazione sociale e morale, riuscendo a intaccare paradigmi altrimenti consolidati. Meglio, quindi, ignorare. Meglio, cioè, non legiferare o non far votare. È questa la sorte toccata al referendum in tema di eutanasia attiva.

2. Andrà letta la sentenza che verrà, decisa probabilmente a maggioranza. Sarà fatto, sine ira et studio. Oggi però abbiamo davanti un comunicato stampa che, al giurista, dice già molto nella sua stringatezza. Rivela, innanzitutto, che a determinare la bocciatura del referendum non è stata la tecnica seguita per confezionarne il quesito. L’intervento chirurgico sull’art. 579 c.p. – riconosce la Consulta – produce l’effetto tipico «dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente».

Così come non viene indicata, come motivo di inammissibilità, la natura propositiva del quesito, accusato da più parti di introdurre nell’ordinamento un principio di autodeterminazione totalmente estraneo al contesto normativo di partenza. Il quesito è caduto non per la domanda referendaria, ma per i suoi (presunti) effetti normativi: «non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana». Inammissibile, dunque, sulla base di una strategia decisoria che – essa sì – è processualmente inammissibile, se si prendono sul serio le fonti che disciplinano il giudizio referendario.

3. «È ammissibile il referendum?»: questa è la sola domanda cui la Corte era tenuta a rispondere. Ha risposto, invece, a un diverso interrogativo: «è conforme a Costituzione la normativa conseguente al referendum?». Le domande precedono sempre le risposte, orientandole: evidentemente, la seconda – a differenza della prima – agevolava l’esito desiderato. La differenza tra i due interrogativi è tutt’altro che un cavillo da azzeccagarbugli. Il giudizio di costituzionalità di una legge ha ad oggetto una norma in vigore, applicata da tempo, interpretata dai giudici e che non si presta a letture costituzionalmente orientate.

Anticiparlo in sede referendaria significa trasformarlo in altro da sé. Radicalmente diverso ne è l’oggetto del tutto ipotetico ed eventuale, subordinato com’è a molteplici condizioni: l’ammissibilità del quesito, l’inerzia del legislatore, il raggiungimento del quorum di validità della consultazione referendaria, la prevalenza nelle urne dei favorevoli sui contrari all’abrogazione, la circostanza che il Capo dello Stato non sospenda la proclamazione dell’esito referendario al fine di consentire un intervento legislativo atto a prevenirne l’effetto abrogativo (come consente l’art. 37, comma 3, della legge n. 352 del 1970). Non si nega uno strumento di democrazia diretta utilizzando la sfera di cristallo. Non si boccia un referendum oggi, per quello che predittivamente si ritiene potrebbe produrre domani. Dai giudici costituzionali si pretendono giudizi disciplinati dall’ordinamento, che non contempla in alcun modo un sindacato di legittimità ipotetico e astratto. Lo sa(peva) la Consulta. L’altro ieri ha cambiato idea.

Di più. La Corte avrebbe sempre potuto poi misurare la legittimità della normativa di risulta nella sede deputata a farlo: il sindacato di costituzionalità. Sede dove dispone di strumenti – interpretativi, manipolativi – idonei a orientare al meglio l’applicazione della norma oggetto di giudizio. Strumenti di cui, invece, è priva come giudice di ammissibilità del quesito. Aver sovrapposto le due competenze ha finito così per penalizzare il referendum, precludendo qualsiasi adattamento costituzionale del suo esito normativo.

4. Il comunicato dell’Ufficio stampa della Corte costituzionale tiene a specificare che l’esito del referendum minerebbe la tutela della vita umana «con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». A chi si fa riferimento? Non certamente ai soggetti già tutelati dall’art. 579, comma 3, c.p., che il quesito confermava in toto: persona minore degli anni diciotto; inferma di mente; in condizioni di deficienza psichica; colpita da altra infermità; che abusa di sostanze alcooliche o stupefacenti; il cui consenso sia stato estorto con violenza, o minaccia, o suggestione, o carpito con inganno.

L’applicazione che la giurisprudenza penale ha fatto di tale disposizione ne incrementa l’elenco: uno stato depressivo, una nevrosi momentanea, una qualunque condizione che concorra a diminuire anche temporaneamente la capacità psichica del soggetto (come una delusione amorosa o una crisi finanziaria), sono tutte circostanze che, in sede processuale, determinano l’assenza di un consenso valido. In tutte queste ipotesi, normative e giurisprudenziali, l’omicidio del consenziente è punito – di default – a titolo di omicidio volontario. E così sarebbe accaduto anche dopo l’eventuale successo del sì nelle urne referendarie. E allora?

Forse il riferimento ad altri soggetti «deboli e vulnerabili» è da intendersi alla mancata inclusione dei limiti posti dalla decisione della Consulta sul “caso Cappato” che ha depenalizzato il reato di aiuto al suicidio, quando riguardi una persona «(a) affetta da una patologia irreversibile e (b) fonte di sofferenze fisiche o psicologiche, che trova assolutamente intollerabili, la quale sia (c) tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, ma resti (d) capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (sent. n. 242/2019). Se davvero è così, si tratta di una pretesa incongrua, rispetto a uno strumento – il referendum – che è solo abrogativo di norme vigenti, privo dunque della capacità di introdurre ex novo una disciplina così dettagliata. Ma è pure una pretesa infondata. Perché è proprio l’ultima delle quattro condizioni indicate a giustificarne l’esclusione dall’art. 579, comma 3, c.p.: se in grado di esprimere validamente la propria determinazione ad evadere da un corpo che si è fatto crudele prigione, proprio a quel soggetto il referendum intendeva restituire la libertà di scegliere la fine della propria vita.

Nel frattempo, a Corte non viene avvertita con eguale apprensione la condizione drammatica di chi – per mero accidente – non rientra in quelle quattro condizioni che rendono lecita l’eutanasia passiva: malati terminali che sopravvivono senza trattamenti di sostegno vitale, malati sofferenti che non sono in grado di assumere autonomamente il farmaco letale. Per essi l’eutanasia attiva referendaria rappresentava, allo stato, il solo orizzonte possibile. Non sono anche loro «persone deboli e vulnerabili» meritevoli di tutela?

5. Vedremo se e come la sentenza scioglierà le perplessità suscitate dal comunicato che la preannuncia. Al netto di ogni valutazione tecnico-giuridica, gli effetti collaterali si faranno sentire, e a lungo. L’elevato numero di sottoscrizioni al quesito, infatti, aveva restituito il senso di una partecipazione politica collettiva da tempo smarrita. Prometteva anche di rivitalizzare un istituto referendario agonizzante, sottraendolo alle derive di un referendum “propositivo” che si è tentato di introdurre in Costituzione ma fuori dal suo alveo, in una chiave plebisicitaria e anti-parlamentare.

Nel frattempo, sorde all’ascolto e mute di parole, le Camere avranno agio a trovare, nell’esito della sentenza della Corte, vecchi argomenti nuovi per rinviare, tergiversare, non deliberare. Il disinnescato appuntamento referendario agevolerà la latitanza parlamentare. Chissà se, tra i giudici costituzionali favorevoli alla decisione presa, qualcuno ne avrà scrupolo. Andrea Pugiotto

La decisione sul quesito. Perché è stato bocciato il referendum sulla cannabis: la decisione della Consulta tra tabelle sbagliate e obblighi internazionali. Carmine Di Niro su Il Riformista il 16 Febbraio 2022 

Assieme alla responsabilità civile delle toghe e all’eutanasia legale, o per meglio dire “l’omicidio del consenziente”, come riferito dal presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, era il tema più sentito. E tutti e tre sono stati bocciati dalla Consulta. Il referendum sulla cannabis non si terrà dopo la decisione della Corte costituzionale, guidata dal presidente Giuliano Amato, di bocciare il quesito referendario proposto da Associazione Luca Coscioni, Meglio Legale, Forum Droghe, Antigone, Società della Ragione, oltre ai partiti +Europa, Possibile e Radicali italiani.

Una decisione motivata dallo stesso Amato in una conferenza stampa in cui l’ex presidente del Consiglio ha precisato la scelta dell’inammissibilità perché si sarebbe trattato di “un referendum sulle sostanze stupefacenti, non sulla cannabis sulla quale, con le parole, c’è stata una parziale analogia con il quesito dell’eutanasia”.

Il presidente della Consulta ha ricordato che il quesito “è articolato in 3 sotto quesiti. Il primo relativo all’articolo 73 comma 1 della legge sulla droga prevede che scompare tra le attività penalmente punite la coltivazione delle sostanze stupefacenti di cui alle tabelle 1 e 3, ma la cannabis è alla tabella 2, quelle includono il papavero la coca, le cosiddette droghe pesanti”.

Perché la Consulta ha bocciato il referendum sull’eutanasia

Una circostanza “sufficiente per farci violare obblighi internazionali plurimi che abbiamo e che sono un limite indiscutibile dei referendum. E ci portano a constatare l’inidoneità dello scopo perseguito”, ha sottolineato Amato.

Il presidente della Corte Costituzionale ha fatto emergere quindi il “paradosso” del quesito sulla cannabis, ricordando come le “sezioni unite della Cassazione che interpretando l’articolo 73 ha già ritenuto che sia fuori dalla punibilità la coltivazione a uso personale della cannabis”, e dunque “se il quesito fosse stato presentato in questi termini sarebbe stato ammissibile”.

Le reazioni politiche, Cappato: “Amato ha affermato il falso”

Di segno opposto, come ampiamente prevedibile, le reazioni politiche alla decisione della Consulta. Da Forza Italia può esultare Maurizio Gasparri, che parla di “ottima notizia”. “Il partito della droga è stato sconfitto. I fautori della morte e quelli che vorrebbero incoraggiare il traffico di droghe gestito dalla criminalità, perché di questo si tratta, hanno perso. Difendiamo la vita, sosteniamo chi recupera i tossicodipendenti, non chi vuole farli rimanere tali per sempre“, spiega in una nota il senatore azzurro.

Di tutt’altro tono sono invece le parole di Riccardo Magi, deputato di +Europa da sempre in prima fila nella battaglia sulla legalizzazione delle droghe leggere e per l’eutanasia legale. Magi definisce la decisione della Corte costituzionale “un colpo durissimo per la democrazia in Italia. Sicuramente la Corte ha fatto quello che il presidente Amato aveva detto che non avrebbe fatto: cercare il pelo. Alcune delle motivazioni che abbiamo ascoltato hanno dell’incredibile“. “Il presidente Amato ha detto che siamo intervenuti sul comma 1 dell’articolo 73 che non riguarderebbe solo la Cannabis, ma il comma 4 riporta le stesse condotte del comma 1“, spiega Magi a Radio Capital. “Il comma 1 dell’articolo 73 riguarda con una serie di condotte la tabella 1 e 3; il comma 4, che riguarda la tabella 2 e 4, quindi dove c’è la Cannabis, dice che per le stesse condotte di cui al comma 1 si applica quest’altra pena. Non potevamo che intervenire sul comma 1, semplicemente perché il comma che riguarda la Cannabis dice ‘per le stesse condotte di cui al comma 1’“.

Durissimo anche il commento, affidato ai social, di Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni: “La Corte costituzionale presieduta da Giuliano Amato ha completato il lavoro di eliminazione dei referendum popolari. Dopo eutanasia anche Cannabis. Hanno così assestato un ulteriore micidiale colpo alle istituzioni e alla democrazia“. Poi ha aggiunto: “Giuliano Amato ha affermato il falso dicendo che il #referendum non toccherebbe la tabella che riguarda la #cannabis. Non sono stati nemmeno in grado di connettere correttamente i commi della legge sulle droghe. Un errore materiale che cancella il referendum”.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 17 febbraio 2022.

Avessero potuto correggere qualche quesito per renderlo ammissibile, i giudici costituzionali l'avrebbero fatto. Ma non potevano. E le spiegazioni che il presidente della Corte Giuliano Amato si assume la responsabilità di dare in un'inusuale illustrazione pubblica delle decisioni appena adottate, lasciano trasparire il disagio e per certi versi persino la sofferenza nascosti dietro alcuni «no». 

Ad esempio sul «fine vita», su cui Amato denuncia l'uso improprio delle parole: «L'hanno dipinto come un referendum sull'eutanasia, mentre era sull'omicidio del consenziente, e formulato in modo da estendersi a situazioni del tutto diverse da quelle per cui pensiamo possa applicarsi l'eutanasia. Un risultato costituzionalmente inammissibile».

Fuori dall'antico palazzo della Consulta fioriscono già le polemiche e le accuse alla Corte, ma dentro, dopo due giorni di intenso lavoro, i giudici restano convinti di non aver avuto alcuna preclusione politica. Tutt' altro. L'invito a non cercare il «pelo nell'uovo» - a sua volta non una scelta politica, bensì di non contrastare quanto prescritto dalla Costituzione, precisa il presidente - era un sincero segnale di apertura. Ma senza andare oltre il consentito: «Non possiamo correggere quesiti mal formulati». 

E dunque, sull'omicidio di una vittima consenziente, qualora al referendum così come architettato dai promotori avessero prevalso i «sì», si sarebbe arrivati alla non punibilità di chi aiutasse un ragazzo maggiorenne depresso, «magari un po' ubriaco», che chiedesse di essere ucciso. «Tutto questo non ha nulla a che fare con i casi in cui ci si aspetta la non punibilità dell'eutanasia, né con le sofferenze dei malati che aspettavano una decisione diversa», chiarisce Amato, lasciando trasparire molta amarezza.

Del resto la Corte ha dimostrato una certa sensibilità su questa materia, dichiarando incostituzionale, in alcune circostanze, la punibilità del suicidio assistito. In quel caso i giudici, consapevoli delle implicazioni etiche e valoriali, avevano dato al Parlamento il tempo per legiferare, ma alla scadenza del periodo concesso non hanno esitato a cancellare la norma. La decisione di bloccare il referendum è stata comunque travagliata e non unanime; qualche giudice (cinque su quindici, secondo le indiscrezioni trapelate) riteneva possibile l'ammissibilità. Ma ha prevalso il rigetto. Che non significa che tutto debba restare com' è, ma per cambiare attraverso un referendum ci voleva un quesito diverso.

Allo stesso modo di quello riguardante la legalizzazione della cannabis che - secondo un corretto utilizzo delle parole - avrebbe dovuto chiamarsi «legalizzazione della coltivazione delle sostanze stupefacenti». Perché, per come era scritta la proposta da sottoporre ai cittadini, la vittoria dei «sì» avrebbe esteso la legalizzazione anche a eroina e cocaina, con conseguente violazione di obblighi internazionali e andando oltre l'obiettivo sottinteso al referendum. 

Se a queste due bocciature si aggiunge quella che impedisce la consultazione sulla responsabilità civile diretta dei magistrati nei confronti di una presunta parte lesa, senza più l'intermediazione dello Stato, il risultato è che la Corte ha impedito il voto sulle questioni più popolari e sentite dalla cittadinanza. «Così la vicenda referendaria assume un peso decisamente marginale, anche se comunque salutare», commenta l'avvocato Gian Domenico Caiazza, presidente delle Camere penali e antico militante radicale.

Alla Corte ne sono consapevoli, ma resta la convinzione che non potesse andare diversamente. Lo lascia intendere ancora Amato, quando spiega che dalle discussioni su ciascun quesito è emerso quasi sempre un orientamento chiaramente maggioritario, se non unanime, e dunque non c'è stato nemmeno bisogno di votare. 

A parte l'eutanasia e la cannabis (anzi: l'omicidio del consenziente e le droghe), quello sulla responsabilità civile dei giudici sarebbe stato un referendum «innovativo più che abrogativo», operazione non consentita dalla Costituzione. E nessuna valenza politica, nemmeno in questo caso. Forse nei risultati, ma non dipende dalla Corte. E così per le consultazioni dichiarate ammissibili: «Non è detto che attribuire agli avvocati le prerogative riservate ai magistrati nei consigli giudiziari, o cancellare l'incandidabilità di condannati, siano le soluzioni migliori; noi diciamo solo che non ci sono ragioni per impedire che ciò possa avvenire per via referendaria».

Del resto la stessa Corte ha dichiarato più volte costituzionale la legge Severino che prevedeva le norme che ora i referendari vogliono abolire. «A ognuno il suo mestiere», si sente ripetere nel «palazzo dei diritti». Dove tutti hanno chiaro che i referendum abrogativi non possono essere la strada maestra per fare le riforme, e non serve lamentarsi se a volte la si trova sbarrata perché così vuole la Costituzione.

Lucetta Scaraffia per "la Stampa" il 17 febbraio 2022.

Non c'è da festeggiare una vittoria né da piangere una sconfitta. L'unica conseguenza - e si tratta veramente di una buona conseguenza - della sentenza che ha cassato il referendum a proposito del suicidio assistito è di dare più tempo alla riflessione su quello che è un problema vero e drammatico della nostra epoca: la libertà di porre fine alla vita di un altro che lo richieda. Un tempo da impiegare bene, senza fare inutili testa a testa ideologici fra chi sbandiera sofferenze insopportabili e chi si erge a difensore della vita ad ogni costo. 

Le questioni in campo sono molte e vanno affrontate tutte con attenzione. Provo a farne un elenco:

a) i progressi della tecno-medicina, che hanno creato una zona fra la vita e la morte che può configurarsi spesso come accanimento terapeutico;

b) l'allargamento dei diritti umani a un nuovo diritto, il diritto di decidere della propria morte;

c) la definizione di una figura giuridica complessa e difficile da definirsi, la figura del libero consenso;

d) i costi sanitari e perfino quelli delle pensioni (è di questi giorni la notizia che gli anziani morti di Covid hanno permesso all'Inps un risparmio di più di un miliardo);

e) il lacerarsi dei legami familiari e comunitari che portano alla costosa ospedalizzazione di larga parte della popolazione anziana. 

Ma soprattutto, e questo non va dimenticato, tutto ciò implica una riflessione vera su cosa sia la vita - alla quale abbiamo avuto accesso senza dare il nostro consenso - e cosa sia per noi la morte. 

Domande che, nella nostra società consumista e superficiale quasi mai siamo disposti neppure lontanamente a prendere in considerazione. E poi, per favore, smettiamola di recitare a favore del suicidio assistito e dell'eutanasia la solita litania dei Paesi più avanzati di cui dovremmo seguire l'esempio. Andiamo a vedere cosa succede veramente in uno di questi Paesi, il Belgio. 

Lì la questione del consenso, invece di essere approfondita, è stata allegramente bypassata, allargando il "diritto" all'eutanasia ai neonati e ai malati psichici, soggetti con ogni evidenza non in grado di esprimere il loro consenso. Sempre in Belgio molti medici e operatori sanitari lamentano che la proposta di eutanasia - nella forma di un modulo burocratico - sia ormai presentata anche a malati che non ne hanno espresso spontaneamente alcuna intenzione.

Una spinta gentile? O forse direi un consiglio non richiesto, che però la dice lunga sulla questione del libero consenso. Davvero da noi questo non potrebbe mai succedere? Davvero faremmo sicuramente leggi ottime capaci di salvarci da queste derive? È lecito dubitarne, come ha ricordato Luciano Violante in un articolo sul referendum, circa un anno fa: «Non sempre le buone intenzioni riescono a fermare le cattive conseguenze». 

Quando si oltrepassa un limite, quello di considerare un crimine l'omicidio - limite sancito dai diritti umani e anche, forse non è male ricordarlo, dai Dieci comandamenti - la tentazione di allargare ulteriormente le possibilità di andare oltre è sempre più difficile da arginare: le buone ragioni, vere o false che siano, infatti si trovano sempre.

Mattia Feltri per "la Stampa" il 17 febbraio 2022.  

Qui parla un iscritto all'Associazione Coscioni e pure a Nessuno tocchi Caino e al Partito radicale, e non perché mi senta parte della loro vita e della loro storia, ma per contribuzione alla sopravvivenza e per rispetto di un partito più ricco di serietà democratica che di voti e risorse. Ma stavolta i radicali proprio non li capisco. 

La reazione un po' ampollosa e molto indispettita alla bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum sulla depenalizzazione dell'omicidio del consenziente - ho sentito di sfregio alla democrazia, di diritti calpestati, di politicizzazione della Consulta - non mi sembra da radicali, neanche un po'. Io, che appena posso ascolto la loro radio, sapevo di qualche dubbio e di qualche avvertimento sui rischi di un quesito debordante dagli obiettivi e sconfinante nell'opportunità di assecondare le tensioni suicide di chiunque, senza alcun controllo. Prendersela ora con la Corte Costituzionale non è all'altezza della serietà appena riconosciuta.

La Corte Costituzionale con una delle sue sentenze ha posto le sante basi per l'assoluzione di Marco Cappato dall'accusa di aiuto al suicidio di Dj Fabo (l'estensore di quella sentenza è lo stesso estensore della bocciatura di ieri, per dire quanto regga l'idea della politicizzazione), e ha invitato il Parlamento a scrivere una legge che in futuro sottragga Cappato e altri dalle medesime accuse, se mossi da casi di evidente e comprovata necessità. Se la legge non esiste è perché il Parlamento è incapace di mediazione e compromesso, e scosta i suoi doveri. Il resto è propaganda e demagogia, da cui i radicali sono solitamente immuni.

Diodato Pirone per "il Messaggero" il 17 febbraio 2022.  

Il referendum sull'omicidio del consenziente (che non combacia con l'eutanasia) è stato bocciato dalla Corte Costituzionale per una motivazione molto semplice: «Se approvato avrebbe aperto all'impunità penale di chiunque uccide qualcun altro con il consenso, sia che soffra sia che non soffra», ha detto il presidente della Consulta, Giuliano Amato. A parere dei giudici, dunque, il tema dell'eutanasia va legato solo alle persone che soffrono e comunque può essere il Parlamento a calibrarlo.

Non a caso oggi alla Camera riesploderà lo scontro sulla legge sul fine vita che torna all'esame della Camera. Contrario senza se e senza ma il centrodestra, pronto a dare battaglia perché si sente rafforzato dallo stop della Corte costituzionale. Oggi pomeriggio in aula comincia il voto degli emendamenti: circa 200, gran parte del centrodestra, che tenne un atteggiamento durissimo nel corso del primo passaggio parlamentare davanti alle commissioni Giustizia e Affari sociali di Montecitorio.

Quindi la legge va avanti, anche dietro il pressing del presidente della Camera, Roberto Fico, da sempre fra gli sponsor del provvedimento (nato dall'unificazione di più proposte di legge di Pd e M5s). «Bisogna andare fino in fondo, perché il Parlamento ha il dovere morale e politico di approvare una legge che il Paese attende», ammonisce Fico. Sull'iter pesa anche l'alt del Vaticano che ribalta l'argomentazione che il suicidio medicalmente assistito e l'eutanasia siano «forme di solidarietà sociale o di carità cristiana». 

Per il Dicastero per i Laici, la Famiglia e la Vita «altre sono le strade della medicina degli inguaribili e del farsi prossimo ai sofferenti e ai morenti». E sentenzia: «La vita è un diritto, non la morte». Un fatto è certo: la strada del disegno di legge appare in salita. Ma, vista la natura etica della questione, non si esclude il ricorso alla libertà di coscienza. Potrebbe farla valere Forza Italia, che più volte ha lasciato voto libero ai suoi parlamentari su temi etici. Tuttavia l'occasione dello scontro c'è e la tentazione di approfittarne è alta.

Un rischio da scongiurare, secondo Giuseppe Conte che quindi fa un appello: «Evitiamo colorazioni politiche, se questo può rendere più difficoltoso il dialogo con le altre forze politiche. Apriamoci a un confronto», dice il presidente del M5s. Ricorda che il Movimento è in prima linea sul tema ed elenca le parti più pregiate del testo: «È molto equilibrato - sottolinea - abbraccia anche il rafforzamento delle cure palliative e introduce percorsi di verifica con interventi di comitati etici». In realtà a poche ore dall'inammissibilità della Consulta sul referendum sull'eutanasia lo stop potrebbe diventare un'arma a doppio taglio per favorevoli e contrari.

Per i primi potrebbe essere uno stimolo al Parlamento a legiferare, sulla scia del tweet di Enrico Letta: «La bocciatura da parte della Corte Costituzionale deve ora spingere il Parlamento ad approvare la legge sul suicidio assistito secondo le indicazioni della Corte stessa». Il testo in effetti recepisce le indicazioni della Consulta espresse nella sentenza del 2019 che prevede la non punibilità del suicidio assistito, se ci sono alcuni requisiti. Resta l'amarezza dell'Associazione Coscioni, fra i promotori del referendum, che denuncia il testo all'esame della Camera come «peggiorativo rispetto ai diritti a oggi conquistati nei tribunali». 

Il presidente Amato: «Respingo le accuse per il no sul fine vita». Le parole dette in conferenza stampa dal presidente della Corte Costituzionale Giuliano Amato hanno scatenato varie reazioni. Il "vincitore" è Salvini. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Il quadro non è molto confortante per la mobilitazione popolare: bocciando i quesiti su omicidio del consenziente, cannabis e responsabilità diretta dei magistrati, di fatto la Corte costituzionale ha creato uno scenario per il quale sarà difficilissimo raggiungere il quorum in primavera. L’unica speranza potrebbe arrivare dall’abbinamento del voto referendario con le Amministrative 2022. Inoltre, il solo vincitore politico è Matteo Salvini. Andrà verificato se il leader leghista eviterà di abbandonare i compagni di viaggio del Partito radicale nella sua campagna. Ma facciamo un passo indietro e vediamo cosa è successo ieri.

Le decisioni della Corte

I quindici giudici della Corte costituzionale si sono riuniti per esaminare gli altri sette referendum ( cannabis e pacchetto “giustizia giusta”), avendo martedì già giudicato inammisibile quello chiamato dai promotori ‘”Eutanasia Legale”. Nel primissimo pomeriggio, attraverso un comunicato stampa della Corte, è stato reso noto che i quesiti su legge Severino, abuso della custodia cautelare, separazione delle funzioni dei magistrati e eliminazione delle liste di presentatori per l’elezione dei togati al Csm sono stati ritenuti ammissibili «perché le rispettive richieste non rientrano in alcuna delle ipotesi per le quali l’ordinamento costituzionale esclude il ricorso all’istituto referendario».

Poi, durante la conferenza stampa convocata alle 18 presso la sede della Consulta, il presidente Giuliano Amato ha illustrato l’esito degli altri referendum: «Abbiamo dichiarato inammissibile il referendum che è sulle sostanze stupefacenti, non sulla cannabis» e anche quello sulla responsabilità diretta dei magistrati in quanto «essendo fondamentalmente sempre stata la regola per i magistrati quella della responsabilità indiretta, l’introduzione della responsabilità diretta rende il referendum più che abrogativo», anzi «innovativo». Ha superato il vaglio invece quello sul diritto di voto dei laici – avvocati e professori – nei Consigli giudiziari.

Durante l’incontro con i giornalisti, Amato è tornato sul quesito relativo al fine vita: «Sentire che chi ha preso la decisione che abbiamo preso noi ieri (martedì, ndr) non sa cosa sia la sofferenza, mi ha ferito, ha ferito ingiustamente tutti noi. La parola eutanasia è stato usata in modo fuorviante. Il referendum non era sull’eutanasia, ma sull’omicidio del consenziente». Ha poi spiegato che «il quesito apriva all’immunità penale per chiunque uccidesse qualcuno col consenso di quel qualcun altro».

Le reazioni dei comitati promotori

Sul fronte giustizia, Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriere del Partito radicale, hanno dichiarato: «Sarà una primavera di liberazione, se gli organi di informazione, a cominciare da quelli del servizio pubblico, non continueranno nella scellerata campagna di evitare dibattiti veri. Se i cittadini saranno informati, da noi e da chi è contrario alla riforma radicale della giustizia, siamo certi che conquisteremo questa riforma». Entusiasta il leader della Lega Matteo Salvini: «Con cinque referendum ammessi su sei, che sono in mano ai cittadini, è una vittoria clamorosa. Oggi  (ieri, ndr) è una bellissima giornata per la democrazia e l’Italia. Dopo 30 anni da Tangentopoli ora gli italiani possono di nuovo fare una rivoluzione pacifica».

Il costituzionalista Giovanni Guzzetta, difensore con il collega Mario Bertolissi dei sei quesiti sulla giustizia, si è detto «molto soddisfatto perché sappiamo quanto sia rigoroso il giudizio della Corte. Il fatto che ne siano passati 5 su 6 significa che è stato fatto un buon lavoro». Tanta delusione dagli altri comitati. «Le motivazioni addotte dal presidente Amato e le modalità scelte per la comunicazione sono intollerabili», ha criticato invece aspramente Marco Perduca, presidente del comitato cannabis. Mentre Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, ha parlato di «decisione politica della Corte».

Le reazioni politiche

Secondo Pierantonio Zanettin, deputato e capogruppo di FI in commissione Giustizia a Montecitorio, «la decisione della Corte di ammettere i referendum sulla giustizia è un’ottima notizia per i cittadini. Il populismo giudiziario ha cessato di generare i suoi effetti dannosi ed è maturo il tempo per una storica riforma della giustizia, in senso garantista». Mentre il responsabile Giustizia di Azione Enrico Costa, ha precisato: «Abbiamo sempre sostenuto che le leggi si fanno in Parlamento, ma che di fronte all’inerzia delle Camere e dell’esecutivo sui temi rilevanti oggetto dei quesiti, sostenere i referendum sarebbe inevitabile».

Dal fronte Pd si sbilancia il senatore Andrea Marcucci: «È una bella sveglia. I temi oggetto dei referendum sono molto importanti per riorganizzare un sistema della giustizia giusta, che serve come non mai in Italia. Mi auguro ci pensi il Parlamento, altrimenti la parola passerà ai cittadini». Critico invece Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione alla Camera: «Che dire? Prendiamo atto. Su Severino e misure cautelari si interviene con accetta».

Raffaella Paita, deputata di Italia Viva: «Bene la pronuncia della Corte costituzionale che ha concesso 5 dei quesiti referendari sulla giustizia. A luglio avevo firmato convintamente i referendum promossi dai radicali perché condivido in pieno questa battaglia di civiltà».

Giorgia Meloni invece esulta per la bocciatura del quesito sulla cannabis: «È una vittoria». Infine il leader del M5S, Giuseppe Conte, «Prendiamo atto delle valutazioni della Corte costituzionale che ha ammesso 5 referendum sulla giustizia. Il Movimento ha già avuto un confronto ampio e ne è emersa una valutazione: i quesiti referendari sulla giustizia offrono una visione parziale e sicuramente sono inidonei a migliorare il servizio e a renderlo più efficiente e più equo».

Le altre reazioni

Il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza prende atto che «i tre referendum più popolari sui temi che più avrebbero interessato l’opinione pubblica sono stati dichiarati inammissibili, per cui complessivamente la vicenda referendaria, che comunque è da salutare come un fatto positivo, assume decisamente un peso marginale». Mentre l’ex procuratore di Torino Armando Spataro non usa giri di parole: «Alla luce della decisione della Consulta che, con mia sorpresa, ha oggi dichiarato ammissibili i referendum sulla giustizia, occorre un forte impegno a favore del “no” alla loro approvazione, in modo particolare sulla separazione delle carriere».

Soddisfatto invece Antonio Decaro, presidente Anci, per l’ammissibilità del quesito che chiede di abolire la legge Severino: «Sono contento che il referendum sia passato, così anche i cittadini potranno esprimere la propria opinione. Sulla legge Severino noi sindaci abbiamo chiesto da sempre una modifica perché ci ritroviamo, unica figura istituzionale, ad essere sospesi per 18 mesi senza una condanna definitiva».

Parla di «quesiti difettosi» anche Nello Rossi, direttore della rivista di “Md”, Questione giustizia. In particolare sul referendum relativo alla separazione delle funzioni, l’ex pm sostiene che si tratti di «un vero e proprio rompicapo, complicato da decifrare anche per gli addetti ai lavori. Un quesito lungo due pagine e norme di cinque leggi diverse da abrogare parzialmente. Difficile dire che ai cittadini si stia rivolgendo una domanda chiara cui poter rispondere con un sì o con un no».

Il segretario generale dell’Associazione nazionale forense Giampaolo Di Marco commenta: «Bene l’approvazione da parte della Consulta dei quesiti referendari sulla giustizia», tuttavia alcuni dei quelli dichiarati ammissibili, aggiunge, «mal si prestano a dar luogo a normative adeguate e condivisibili».

In tarda serata arriva il commento del segretario dell’Anm Salvatore Casciaro: «Il responso della Consulta circoscrive, anche nel settore giustizia, la portata della consultazione referendaria. È la riprova di come alcuni temi, con risvolti prettamente tecnici e con delicate e complesse implicazioni valoriali, richiedano una risposta della politica che è chiamata, in questa fase di intense trasformazioni del Paese, a un’assunzione diretta di responsabilità nell’azione riformatrice» .

 Eutanasia e cannabis, Cappato va allo scontro con Amato: «Il suo giudizio è politico». Marco Cappato replica alle parole di Giuliano Amato su eutanasia e cannabis. «O c'è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c'è un attacco in malafede al comitato promotore». Valentina Stella su Il Dubbio il 17 febbraio 2022.

Si alza lo scontro tra la Corte Costituzionale e i comitati promotori dei referendum Eutanasia Legale e Cannabis, ritenuti inammissibili. «Se i giudizi di inammissibilità sono stati dati sulla base di un errore materiale metteremo in discussione la validità di quel giudizio. Ma dovremo valutare i margini, forse strettissimi per una contestazione formale»: è quanto ipotizzato ieri dal tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni, Marco Cappato, intervenuto durante una conferenza stampa convocata proprio dai due comitati. L’incontro con i giornalisti, ha spiegato sempre Cappato, si è reso necessario per contrastare quanto affermato dal Presidente della Consulta durante l’altra conferenza stampa di mercoledì sera.

«Ascoltare la conferenza stampa del presidente Amato – ha esordito il leader radicale – ci ha dato la certezza di elementi di valutazione politica, perché si è trattato di una conferenza stampa politica». In particolare, ha sottolineato Cappato, « “I giudizi” emersi durante la conferenza stampa di Amato minano agli occhi dell’opinione pubblica la credibilità dei comitati promotori, a cui è stata attribuita l’incapacità tecnica di scrivere dei quesiti referendari ed anche l’accusa di avere preso in giro milioni di persone firmatarie ed elettori».

Proprio in merito alla presunta incapacità tecnica, l’ex europarlamentare ha sottolineato: « Sorvolando su giuristi e costituzionalisti che si sono espressi favorevolmente sulla ammissibilità dei quesiti su cannabis ed eutanasia, il giudizio nella Corte non è stato unanime, quindi possiamo dire che anche giudici costituzionali hanno ritenuto che questi referendum fossero ammissibili. Allora trattare con tanto disprezzo i comitati promotori è un’accusa critica rivolta non a Marco Cappato ma ai giudici della Corte ed alcuni massimi costituzionalisti italiani».

Infine su quanto detto da Amato in conferenza stampa rispondendo ad una nostra domanda (“Io sono assai meno politico di lui”) Cappato ha replicato: « Non ho da dare una risposta personale ad Amato, ma dire che nel quesito si parlava di eutanasia e non di omicidio del consenziente contiene una manipolazione della realtà. Il quesito è come stabilito dalla Corte di Cassazione sull’omicidio del consenziente. Se Amato non gradisce i termini della nostra propaganda politica non ha nulla a che vedere con l’ammissibilità, gli elettori non sono bambini e giudicano sulla base del contenuto del referendum». Quindi, in conclusione, «o c’è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c’è un attacco in malafede al comitato promotore. Scelga il presidente della Corte quale delle due possibilità».

Referendum, Cappato: «Amato o ha fatto un errore materiale o un attacco in malafede». DANIELA PREZIOSI su Il Domani il 17 febbraio 2022

Durissimo attacco dei comitati dei quesiti su cannabis e eutanasia. Il tesoriere dell’Associazione Coscioni: «Dopo le motivazioni, valuteremo i margini di una contestazione formale».

«O c'è un errore materiale nel giudizio dei due quesiti, o c'è un attacco in malafede al comitato promotore. Scelga il presidente della Corte quale delle due possibilità. O Giuliano Amato ha detto una cosa a cui non credeva» e che quindi sarà smentita dalle motivazioni della bocciatura del referendum sulla depenalizzazione della cannabis, «quindi bisognerebbe chiederne le dimissioni, oppure la decisione della Corte è stata presa sulla base di una scorretta lettura del testo del referendum. E allora troveremo il modo di ricorrere».

Non c’è una terza possibilità nelle parole, durissime, di Marco Cappato quanto affermato dal presidente della Corte Costituzionale Amato nel corso della inconsueta conferenza stampa tenuta mercoledì pomeriggio, subito a ridosso delle decisioni della consulta sui referendum. I due avevano già avuto uno scambio di accuse indiretto proprio davanti ai cronisti. 

IL CONTRATTACCO

Oggi l’Associazione Coscioni e i comitati promotori per i referendum sulla cannabis e sull’omicidio del consenziente hanno affinato, e caricato, l’attacco in una conferenza stampa.

Amato ha contestato il fatto che il referendum era stato «dipinto come un referendum sull’eutanasia». Per Cappato, «innanzitutto i titoli dei referendum sono vagliati dall’ufficio centrale della Corte di cassazione» e comunque  è «falso», intanto perché «eutanasia legale è il titolo della nostra campagna da anni», come del resto «cannabis legale» e «non è un termine giuridico, è una campagna politica».

«Eutanasia non è un termine che rientra nel codice penale, ma è un atto, che viene punito con il reato di omicidio del consenziente», insiste l’avvocata Filomena Gallo, «Più delle ragioni di ammissibilità sembra che abbiano prevalso questioni di merito, alle quali la Corte non era chiamata in questa sede». Cappato: il referendum era «sull’omicidio del consenziente, e formulato in modo da estendersi a situazioni del tutto diverse da quelle per cui pensiamo possa applicarsi l’eutanasia».

E così secondo Amato, quello sulla cannabis in realtà si estendeva a tutte le sostanze. Per Cappato anche qui «Amato ha usato un esempio falso», «non c’è nessuna legalizzazione della eroina o cocaina. Riguarda la coltivazione ma mantiene intatte al 100 per cento le punizioni di tutte le operazioni successive che fanno passare da una pianta ad un droga, tranne che per la cannabis che può avere questo tipo di consumo diretto. Io mi sono limitato a esprimere in termini non tecnici e non giuridici gli strafalcioni presentati come verità». 

NON FINISCE QUA

«Sull'inammissibilità del referendum sulla cannabis c’è stato un errore tecnico e un intento politico. Su quel quesito al momento non abbiamo neanche tre righe scritte», ha rincarato Riccardo Magi, deputato di +Europa e fra i promotori del referendum, «se avessimo davanti quelle righe saremmo tutti quanti impegnati a pressare la Corte Costituzionale per avere altre spiegazioni. Il presidente Amato ha messo sul tavolo tutto il suo peso e carisma per danneggiare i comitati promotori. Poi quando si dice che i quesiti sulla cannabis parlano in realtà di altre sostanze allora significa che non è stato letto neanche il titolo del testo». Per Cappato c’è stato «un attacco diretto e esplicito al contenuto e alla qualitè del lavoro fatto», le parole di Amato «puntano a minare la credibilità e la reputazione dei comitati promotori dei due referendum ai quali è stata attribuita l’incapacità tecnica di scrivere i quesiti referendari e di avere preso in giro milioni di cittadini elettori», «l'intera conferenza stampa di Amato è stata politica».

Non finisce qua, i comitati ora aspettano la pubblicazione delle motivazioni delle due bocciature: «Se i giudizi di inammissibilità sono stati dati sulla base di un errore materiale metteremo in discussione la validità di quel giudizio. Ma dovremo valutare i margini, forse strettissimi per una contestazione formale», conclude Cappato, «sarebbe una violazione grave di diritti fondamentali del popolo italiano». 

DANIELA PREZIOSI. Cronista politica e poi inviata parlamentare del Manifesto, segue dagli anni Novanta le vicende della politica italiana e della sinistra. È stata conduttrice radiofonica per Radio2, è autrice di documentari, è laureata in Lettere con una tesi sull'editoria femminista degli anni Settanta. Nata a Viterbo, vive a Roma, ha un figlio.

Claudia Guasco per "il Messaggero" il 17 febbraio 2022.

Alcuni lasciano soltanto il nome, molti nemmeno quello. Le loro richieste di aiuto sono dense di disperazione e solitudine: «Vado avanti con trasfusioni ogni quindici giorni - è l'appello di Sara - Ho fatto molti tentativi con i medici affinché mi aiutassero a morire, inutilmente. Mi sono rivolta a Exit, ma non voglio andare in Svizzera a morire, non voglio essere cremata. Ho già comprato la cassa per la sepoltura».

RICHIESTE DI AIUTO Di messaggi così ne arrivano in media tre al giorno all'Associazione Luca Coscioni, alla Exit di Emilio Coveri circa 90 ogni settimana. «Nel 2021 sono ben 50 gli italiani che, con la nostra assistenza, sono andati oltreconfine per il loro ultimo viaggio, spendendo circa 10 mila euro. Chi non ha i soldi deve morire qua, tra atroci sofferenze. La cosa più grave - riflette il presidente - è che i giudici hanno considerato imbecilli un milione e 200 mila italiani che hanno firmato per il referendum». Per qualcuno è molto più della delusione per una battaglia persa, è la preoccupazione per il futuro. Sabrina Bassi è la mamma di Carlo, 38 anni, e Marco, 34, entrambi sulla sedia a rotelle fin da bambini per una sclerosi laterale amiotrofica.

I fratelli hanno già messo in chiaro che, quando sarà il momento, non vogliono tracheotomia né essere attaccati a una macchina e la mamma, insieme a loro, si batte per una morte dignitosa. «Siamo molto delusi, speravamo almeno passasse il referendum, che i giudici avessero aperto un po' gli occhi - dice Sabrina Bassi - La cosa che fa più male è che la Consulta ha spiegato l'inammissibilità con la difesa dei più deboli, ma è l'esatto contrario. Chi non è immobilizzato può suicidarsi da solo, è proprio ai più fragili che serve aiuto».

Marco è anche copresidente dell'Associazione Luca Coscioni e promette: «Continueremo nella nostra missione. Anche se la madre ha ben chiare le difficoltà: «Quest' anno certo la legge non arriverà in fondo, l'anno prossimo ci saranno le elezioni e quindi nuovo stop. Intanto il tempo passa e anche chi, come Mario, intravvede uno spiraglio non è detto che ce la farà. La Regione Marche ha impiegato tre mesi per decidere quale farmaco somministrare, ma non sarà un medico a occuparsi della flebo, a sciogliere la sostanza dovrà essere Mario. Che adesso muove solo un dito. E se nel frattempo si paralizzerà anche questo?». Chi ha bocciato il referendum «non sa quello che si prova a restare attaccati a un letto o immobilizzati in carrozzina: venite a casa mia e poi giudicate».

Anche per Laura Santi, 47 anni e malata di sclerosi multipla, la decisione di inammissibilità del referendum è stato un colpo al cuore. «Piango da martedì sera - racconta - Mi hanno calmato solo le telefonate affettuose di Marco Cappato». L'ha chiamata mentre era davanti al palazzo della Consulta: «Laura, non ci perdiamo d'amino, ora ci riorganizziamo. Ci hanno fermato ai blocchi di partenza ma la gente è tutta con noi».

NUMERO BIANCO La grande amarezza di Laura Santi è per i motivi sottesi alla decisione. «La corte sostiene di tutelare i fragili e invece afferma che il tuo corpo non ti appartiene. La vita dei disabili è un percorso a ostacoli, i servizi sono carenti, prima ti negano i diritti e poi se la tua situazione si aggrava di obbligano a restare qui. È un atteggiamento ipocrita, vigliacco e paternalistico. Io devo sentirmi protetta dalle istituzioni, non ignorata, derisa e sbeffeggiata come avviene con il no al referendum». Nella legge in discussione Laura Santi non nutre grandi fiducia. 

«Stanno fingendo di portare avanti un ddl che è peggiorativo rispetto alla sentenza Cappato del 2018: tutti i paramenti erano tarati sul caso clinico di Fabiano Antoniani, qualsiasi legge dovrebbe puntare a migliorarlo e invece il disegno di legge è peggiorativo. Nemmeno Dj Fabo, a queste condizioni, avrebbe avuto accesso al suicidio assistito». La compagna Valeria Imbrogno oggi è una delle anime del Numero Bianco, che dà informazioni ai malati terminali. Lo aveva chiesto anche Fabiano: «Valeria, aiutami - l'ha pregata - Questa per me non è più vita».

Al.Ar. per il "Corriere della Sera" il 16 febbraio 2022.  

«Che brutta notizia: davvero hanno dichiarato inammissibile il referendum sull'eutanasia? Chi ha preso questa decisione non deve avere idea di che cosa sia la sofferenza, quella vera».

Sabrina Bassi, lei è una mamma che conosce la sofferenza. «Ho due figli tutti e due malati di Sla, la sclerosi laterale amiotrofica: Carlo e Marco. Hanno 38 e 34 anni e sono malati da quando sono bambini, un'eredità genetica». 

Marco è il copresidente dell'Associazione Coscioni che si sta battendo per questo referendum dall'inizio.

«Sono anni che Marco combatte per tutti i diritti dei malati. Vive sulla carrozzina da quando andava alle elementari e si è battuto fin da quando era al liceo per i suoi diritti e per chi soffre come lui Anche per le Dat, le Disposizioni anticipate di trattamento, ha fatto la sua battaglia». 

Pure il suo Marco, come Marco Cappato, non si fermerà davanti a questo rifiuto della Consulta?

«Combatterà fino a quando avrà energie per farlo. Ma non capisco una cosa».

Cosa?

«La Corte costituzionale ha detto che non sarebbe tutelata la vita umana soprattutto per i deboli e i vulnerabili. È così?». 

Sì.

«Mi dispiace davvero molto. Sono sempre più convinta che chi ha scritto questa sentenza non ha idea di cosa siano le persone deboli e vulnerabili che non hanno più una vita degna di essere vissuta. Vorrei capire se su quindici giudici almeno uno si è opposto a questo giudizio». 

Adesso la questione passa al Parlamento, con la legge sul suicidio assistito.

«Già, ma dopo questa sentenza della Corte sarà tutto un percorso in salita. Ci sono tanti emendamenti, finiranno per affossarla». 

Marco e Carlo avevano pensato di chiedere l'eutanasia?

«No. Tutti e due hanno già dato le loro disposizioni anticipate di trattamento con molta chiarezza». 

E cioè?

«Non vogliono la tracheotomia. Non vogliono in alcun modo venire attaccati ad una macchina per vivere come dei vegetali». 

E quindi?

«Quando sarà il momento rifiuteranno la macchina e moriranno o per soffocamento o, mi auguro, dopo una sedazione».

Lei e suo marito siete d'accordo?

«Sì, poveri ragazzi. Vorrei che qualche giudice della Consulta venisse a casa mia a vedere come si vive». 

Eutanasia, il ricordo di Paola: «Lottai per non far soffrire papà». Simona De Ciero su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2022.

L’avvocato Paola Stringa e il suo impegno partito da una vicenda personale: «Chi ha firmato il referendum ha provato il mio dolore». 

Dolore. Perdita. Altruismo. C’è tutto questo nella storia di Paola Stringa. Una figlia che, ancora ragazzina, ha dovuto lottare contro il parere di un familiare pur di offrire a suo padre una morte dignitosa. E una donna che oggi, cresciuta e diventata avvocato, si batte perché l’eutanasia legale, in Italia, non resti lettera morta. «Mio padre si è ammalato di cancro e se n’è andato in soli 46 giorni ma — ricorda Paola — nonostante la malattia l’abbia consumato in un tempo rapidissimo, ha sofferto tanto: troppo».

Era il 15 gennaio del 2011 quando Mario Stringa moriva tra le braccia dei suoi familiari, inclusa chi, pochi giorni prima, accusò Paola d’essere quasi un’assassina, «come “Peppino Englaro”» il padre di Eluana (entrata in coma nel 1992 a seguito di un incidente stradale) protagonista una lunga e dolorosa battaglia legale per riuscire a sospendere l’alimentazione della figlia, che l’uomo, suo tutore legale, dopo un calvario giudiziario decise di sospendere autonomamente (in assenza di una sentenza definitiva) nel febbraio del 2009. «L’accusa che mi fu mossa, e per la quale oggi vado fiera, è arrivata quando ho chiesto ai medici di aumentare la dose di morfina, per far patire il meno possibile mio padre, e per accorciare la sua sofferenza». Quel gesto, però, provocò rabbia da parte di chi, in quel momento, non era pronto a vivere ed elaborare l’imminente lutto. «È stato allora che ho deciso di mettermi a disposizione delle persone che soffrono, e di spendermi per una legge sull’eutanasia legale — precisa Paola —. Se potessi riassumere in breve l’effetto che la morte di mio padre, ha avuto su di me, parlerei di sofferenza, dignità e coraggio». L’avvocato torinese oggi è tra i volontari dell’associazione Marco Cappato, che promuove l’eutanasia legale e che ha organizzato la raccolta di firme (oltre un milione) per chiedere che l’Italia istituisse un referendum sul fine vita volontario.

Paola Stringa ha perso il padre quando aveva 20 anni e non sa spiegare cosa si prova «quando ti trovi a dover affrontare un dolore così intenso e profondo». I ricordi invece sono nitidi e ci si aggrappa ogni volta che deve motivare perché è a favore dell’eutanasia legale. «Ho visto il mio babbo, un omone forte e solare, consumarsi alla velocità della luce e diventare fragile, sofferente, nutrito solo attraverso un tubo e tenuto in vita dall’ossigeno — racconta — ecco perché, combattere affinché l’Italia garantisca il diritto al fine vita volontario è una battaglia che non posso perdere». La donna ricorda di essersi opposta con forza a ogni forma di accanimento terapeutico e di aver capito, negli ultimi istanti di vita del padre, come l’eutanasia legale sia un gesto di pura pietà e di civiltà. E infatti la scorsa estate è stata tra i cittadini che hanno autenticato le firme raccolte per chiedere il referendum su questo tema. «Negli occhi di ogni firmatario ho letto il mio stesso dolore» rivela. Le sottoscrizioni raccolte per depositare la richiesta di consultazione diretta sono state più di un milione in tutta Italia. Eppure, martedì sera è arrivata la doccia fredda. La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile il referendum per depenalizzare l’omicidio di chi è consenziente «in quanto non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana in generale e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili». Una sentenza che «fa male — conclude Paola — ma che non ferma la nostra battaglia per una società più libera, laica e solidale».

Luigi Manconi per "la Stampa" il 16 febbraio 2022.

La sentenza della Corte Costituzionale, per la vecchia e immarcescibile "eterogenesi dei fini" certamente non voluta dai membri della Consulta, produrrà, pressoché fatalmente, l'effetto di incentivare l'eutanasia clandestina, quella assai diffusa nella "zona grigia" tra pietà umana e interessi inconfessabili, tra atteggiamento compassionevole e abbandono terapeutico. Perché questa è la realtà molto spesso taciuta o rimossa: l'eutanasia viene praticata con notevole frequenza nell'oscurità delle corsie degli ospedali, nella riservatezza delle camere da letto e nel clima equivoco e complice delle residenze per anziani.

E può manifestarsi nel gesto doloroso di un uomo, pur dotato di risorse e privilegi, come Mario Monicelli, che si lascia cadere da una finestra del quinto piano di una clinica romana; o nell'atto notturno di chi priva del sostegno vitale un malato terminale. E, invece, l'eventuale esito positivo del referendum avrebbe potuto sortire l'effetto di indurre, infine, a legiferare: a normare, cioè, la materia del fine vita, fissando limiti e vincoli, condizioni e deroghe. Oltretutto, la pronuncia di inammissibilità offrirà un potente pretesto, quasi ne avesse bisogno, a un ceto politico pusillanime per rinviare, differire e procrastinare.

Il risultato è la conferma di un vuoto legislativo, nel quale si riprodurranno illegalità e sofferenza, insensata ostinazione terapeutica e crudele prolungamento artificiale di vite ormai svuotate di significato e di dignità. Va detto, inoltre, che la Corte Costituzionale, nel mentre è chiamata a formulare un giudizio sulla ammissibilità del referendum, sembra entrare pienamente nel merito dello stesso, come si deduce dalla lettura del suo comunicato.

Vi si afferma, infatti, che in caso di abrogazione, anche parziale, dell'articolo 579 del codice penale, "non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili". Qui si possono sollevare due dubbi. Il primo è che, se pure così fosse, quello sarebbe eventualmente la conseguenza di un referendum che ottenesse la maggioranza dei consensi. 

Ma la Corte è chiamata a valutare se siano state rispettate le condizioni che rendono il referendum ammissibile, e non a sindacare presunti vizi di incostituzionalità della futura normativa di risulta. E l'articolo 75 indica tre soli motivi espliciti di esclusione, che qui non ricorrono in alcun modo. Certo, nel corso degli anni la giurisprudenza della Consulta ha aggiunto limitazioni legate a criteri di omogeneità e semplicità, ragionevolezza e idoneità a conseguire il fine perseguito.

Requisiti rispettati dal quesito sull'omicidio del consenziente, ma che si prestano a interpretazioni più ampie e discrezionali, alle quali evidentemente i giudici della Consulta hanno fatto ricorso per decretarne l'inammissibilità. Ed ecco il secondo, e ancora più robusto, dubbio. 

Il quesito e l'eventuale sua approvazione non avrebbero in alcun modo cancellato e nemmeno intaccato o incrinato quel comma tre dello stesso articolo 579 del codice penale che considera comunque omicidio quello attuato nei confronti del consenziente che sia "persona minore degli anni diciotto, inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un'altra infermità o per l'abuso di sostanze alcooliche o stupefacenti".

O, ancora, l'omicidio di persona il cui consenso sia stato "estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con inganno". Come si vede, anche nel caso di vittoria del sì, quelle "persone deboli e vulnerabili" di cui parla il comunicato della Consulta sarebbero state tutelate e sottratte a una fine non voluta. Mentre, dopo la sentenza della Corte, non siamo affatto sicuri che, nel perpetuarsi di una colpevole carenza legislativa e nell'impossibilità di ricorrere al voto popolare, quelle stesse persone fragili saranno, d'ora in poi, maggiormente protette.

Il no della Consulta. Ora è il Parlamento che deve rispondere sull’eutanasia, dice Beppino Englaro.  L'Inkiesta il 17 febbraio 2022.

Dopo la dichiarazione di inammissibilità del quesito referendario sull’omicidio del consenziente da parte della Corte Costituzionale, il padre di Eluana Englaro dice che tocca alle Camere dare una risposta all’opinione pubblica che è favorevole: «L’evoluzione culturale del Paese lo richiede»

«Inammissibile». Ci sono volute due ore di discussione tra i giudici costituzionali per arrivare a una decisione sofferta: il referendum sull’eutanasia attiva non è ammissibile. Non si va avanti perché il quesito non rispecchia i diritti minimi iscritti nella Costituzione. Ovvero, poiché si parla non di suicidio assistito bensì di omicidio del consenziente, secondo i giudici costituzionali un’abrogazione anche parziale del reato avrebbe potuto dare il via a esiti inaccettabili. «Non sarebbe preservata», scrive la Consulta, «la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili».

In attesa di depositare le motivazioni della decisione e aspettando oggi il secondo round sugli altri sette quesiti referendari all’esame della Corte, sulla decisione interviene Beppino Englaro. Che alla Stampa dice: «Il Parlamento deve rispondere perché l’opinione pubblica è favorevole, lo richiede l’evoluzione culturale del Paese». Tuttavia, insiste, il caso della figlia Eluana, costretta a vivere per 17 anni in uno stato vegetativo contro la sua manifesta volontà, è un’altra storia, diversa.

«La nostra è stata una battaglia per vedere riconosciuto il principio di ogni persona all’autodeterminazione», spiega. «Fino alla sentenza della Cassazione del 16 ottobre 2007 che ha stabilito come l’autoderminazione terapeutica non possa avere un limite anche se ne consegue la morte. Nella vicenda di Eluana tutti hanno sempre tirato in causa l’eutanasia, hanno fatto quella confusione, ad ogni livello. Non solo quelli che urlavano in Parlamento ma anche i magistrati. Per arrivare alla Cassazione ho impiegato quindici anni e 11 mesi, 5570 giorni perché per un cittadino non c’è l’accesso diretto alla Corte Costituzionale».

M il suicidio assistito «è un tema che va affrontato, vanno date delle risposte», ribadisce. «Io ammiro Coscioni, Cappato e i radicali che hanno portato avanti questa battaglia. La civilissima Olanda, diceva Montanelli, aveva riconosciuto l’eutanasia già nel 2002. Il Parlamento deve rispondere perché l’opinione pubblica è favorevole. Vuole una risposta. L’evoluzione culturale del Paese lo richiede. Ma se penso a quanto ci siamo dovuti spendere per vedere riconosciuto un diritto che già c’era, capisco la difficoltà nel vedere riconosciuta un diritto totalmente nuovo. Se sono capace di intendere e volere posso dire no alle terapie, oggi come nel ’92. Diverso è chiedere aiutami a morire. Leonardo Sciascia, in “Una vita semplice”, scrive che non è la speranza l’ultima a morire ma il morire l’ultima speranza. Un diritto che deve avanzare con una legge».

Eluana Englaro, racconta il padre, «si era espressa nello specifico della situazione in cui sarebbe finita, perché era andata a trovare un amico nella stessa rianimazione dove un anno dopo avrebbero ricoverato lei. Eluana aveva potuto vedere fino a che punto si spinge la rianimazione e che sbocchi può avere. Si era espressa con un semplice “non a me, ricordatevelo”. Noi ci siamo ricordati».

Dopo il suo incidente, racconta, «spiegammo che lei aveva visto quanto successo ad Alessandro e che lo riteneva peggio della morte. Lei non aveva il tabù della morte. Fummo chiari con i medici sin dal primo momento, dicemmo che la scelta di Eluana sarebbe stata un semplice “no grazie, lasciate che la morte accada”. Lo ripetemmo. Ma la situazione culturale del Paese non lo prevedeva. Il medico rispose di non poter non curare. E non c’era niente da dialogare. Se Eluana fosse stata in grado di intendere e di volere il medico sarebbe stato costretto a dialogare e avrebbe potuto ascoltare un sì o un no. Non occorre essere costituzionalisti per sapere che la nostra Costituzione non lascia discriminare le persone per la loro condizione. Per il fatto di non essere in grado di intendere e di volere Eluana non perdeva il diritto di rifiutare le cure. E qualcuno le doveva dar voce. Lei aveva due genitori e noi abbiamo combattuto perché fossero rispettate le sue volontà».

E poi prosegue: «I medici e la situazione culturale del Paese non ci consentirono di rispettare la sua volontà. Eluana aveva il diritto di essere lasciata morire. Cosa fa la rianimazione? Interrompe il processo della morte, un’impresa lodevole, lo abbiamo visto con il Covid. Ma pochi sanno che ci sono anche risvolti tremendi. Ora però c’è una legge, la 219. Quindi oggi l’Eluana di turno non può essere imprigionata».

Maria Berlinguer per "la Stampa" il 16 febbraio 2022.

Beppino Englaro segue le notizie che arrivano da Roma, dice di ammirare molto i radicali che da anni si battono per l'eutanasia. «Il Parlamento deve rispondere perché l'opinione pubblica è favorevole, lo richiede l'evoluzione culturale del paese» ragiona. Tuttavia, insiste, il caso della figlia Eluana, costretta a vivere per 17 anni in uno stato vegetativo contro la sua manifesta volontà, è un'altra storia, diversa.

Cosa intende signor Englaro, con una storia diversa?

«La nostra è stata una battaglia per vedere riconosciuto il principio di ogni persona all'autodeterminazione. Fino alla sentenza della Cassazione del 16 ottobre 2007 che ha stabilito come l'autoderminazione terapeutica non possa avere un limite anche se ne consegue la morte. Nella vicenda di Eluana tutti hanno sempre tirato in causa l'eutanasia, hanno fatto quella confusione, ad ogni livello. Non solo quelli che urlavano in Parlamento ma anche i magistrati. Per arrivare alla Cassazione ho impiegato quindici anni e 11 mesi, 5570 giorni perché per un cittadino non c'è l'accesso diretto alla Corte Costituzionale». 

Cosa pensa, nello specifico, del suicidio assistito?

«È un tema che va affrontato, vanno date delle risposte. Io ammiro Coscioni, Cappato e i radicali che hanno portato avanti questa battaglia. La civilissima Olanda, diceva Montanelli, aveva riconosciuto l'eutanasia già nel 2002. Il Parlamento deve rispondere perché l'opinione pubblica è favorevole. Vuole una risposta. L'evoluzione culturale del Paese lo richiede. Ma se penso a quanto ci siamo dovuti spendere per vedere riconosciuto un diritto che già c'era, capisco la difficoltà nel vedere riconosciuta un diritto totalmente nuovo. Se sono capace di intendere e volere posso dire no alle terapie, oggi come nel ' 92. Diverso è chiedere aiutami a morire. Leonardo Sciascia, in "Una vita semplice", scrive che non è la speranza l'ultima a morire ma il morire l'ultima speranza. Un diritto che deve avanzare con una legge».

Cosa rivendicavate invece per vostra figlia?

«Lei si era espressa nello specifico della situazione in cui sarebbe finita, perché era andata a trovare un amico nella stessa rianimazione dove un anno dopo avrebbero ricoverato lei. Eluana aveva potuto vedere fino a che punto si spinge la rianimazione e che sbocchi può avere. Si era espressa con un semplice "non a me, ricordatevelo". Noi ci siamo ricordati». 

Lo diceste ai medici dopo il suo incidente?

«Certo. Chiedemmo lo stato dell'arte dopo l'incidente e ci dissero che era di poco superiore allo zero. Spiegammo che lei aveva visto quanto successo ad Alessandro e che lo riteneva peggio della morte. Lei non aveva il tabù della morte. Fummo chiari con i medici sin dal primo momento, dicemmo che la scelta di Eluana sarebbe stata un semplice "no grazie, lasciate che la morte accada". Lo ripetemmo. Ma la situazione culturale del Paese non lo prevedeva. Il medico rispose di non poter non curare. E non c'era niente da dialogare. Se Eluana fosse stata in grado di intendere e di volere il medico sarebbe stato costretto a dialogare e avrebbe potuto ascoltare un sì o un no. Non occorre essere costituzionalisti per sapere che la nostra Costituzione non lascia discriminare le persone per la loro condizione. Per il fatto di non essere in grado di intendere e di volere Eluana non perdeva il diritto di rifiutare le cure. E qualcuno le doveva dar voce. Lei aveva due genitori e noi abbiamo combattuto perché fossero rispettate le sue volontà» 

Diceva della situazione culturale del Paese. Che accadde?

«I medici e la situazione culturale del Paese non ci consentirono di rispettare la sua volontà. Eluana aveva il diritto di essere lasciata morire. Cosa fa la rianimazione? Interrompe il processo della morte, un'impresa lodevole, lo abbiamo visto con il Covid. Ma pochi sanno che ci sono anche risvolti tremendi. Ora però c'è una legge, la 219. Quindi oggi l'Eluana di turno non può essere imprigionata». 

Le dicevano di tutto. Le diedero dell'assassino.

«Davo fastidio perché ponevo alla società civile e alle istituzioni una questione drammatica, perché il problema della vita e della morte fa paura a tutti. Ci furono follie». 

Fine vita, la rabbia e la delusione dopo 40 anni di battaglie per l'eutanasia legale: "Non ci arrenderemo".  Maria Novella De Luca su La Repubblica il 16 Febbraio 2022

Le reazioni dei sostenitori: il fronte referendario annuncia che continuerà a combattere con altri strumenti. La prima raccolta di firme nel 1979, poi la proposta Fortuna 

La voce è accorata, la delusione è forte. "Questa è una brutta notizia per coloro che soffrono e dovranno soffrire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia". Sono le venti di ieri sera e Marco Cappato, tesoriere dell'associazione Luca Coscioni, dopo la lunghissima giornata di attesa dentro e fuori il palazzo della Consulta, le cui finestre guardano il Quirinale, mostra tutta la sua delusione.

Cappato: "Andremo avanti con altri strumenti". Mina Welby: "Stilettata al cuore". Eutanasia, la Consulta boccia il referendum: “Non sarebbe preservata tutela minima della vita umana”. Redazione su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

La Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il quesito referendario sull’eutanasia perché “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”. Bocciato uno degli otto quesiti referendari sui quali è atteso il pronunciamento della Corte.

La Consulta, presieduta dal neo presidente Giuliano Amato – “si è riunita oggi in camera di consiglio per discutere sull’ammissibilità del referendum denominato ‘Abrogazione parziale dell’articolo 579 del Codice penale (omicidio del consenziente)’. In attesa del deposito della sentenza (che sarà depositata nei prossimi giorni, ndr), l’Ufficio comunicazione e stampa – si legge nella nota -fa sapere che la Corte ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché, a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Adesso i giudici della Consulta dovranno esprimersi sull’ammissibilità di altri sette quesiti che vanno alla depenalizzazione della coltivazione della cannabis ai referendum sulla giustizia, promossi dalla Lega e dai Radicali e presentati da nove Consigli regionali. In caso di ammissibilità dei quesiti il voto si terrebbe tra aprile e maggio.

“Questa per noi è na’ brutta notizia. E’ una brutta notizia per coloro che subiscono e dovranno subire ancora più a lungo. Una brutta notizia per la democrazia” ha dichiarato Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni dopo la notizia arrivata dalla Consulta sull’inammissibilità del Referendum per l’Eutanasia legale. “Sull’Eutanasia proseguiremo con altri strumenti, abbiamo altri strumenti. Come con Piergiorgio Welby e Dj Fabio. Andremo avanti con disobbedienza civile, faremo ricorsi. Eutanasia legale contro Eutanasia clandestina”.

Raggiunta dall’Adnkronos, Mina Welby, moglie di Piergiorgio, è delusa: ”Non me lo aspettavo. Dalla Corte costituzionale mi è arrivata una stilettata al cuore. Sono senza parole e molto triste. Sto pensando a cosa poter fare, vorrei portare avanti l’eredità di mio marito perché era lui che voleva una buona legge sul fine vita. Ora voglio far pressione sui parlamentari perché la legge su cui stanno lavorando diventi una buona legge, che includa tutte le persone che ne avranno bisogno”.

L’intervento di Papa Francesco

La scorsa settimana Papa Francesco, nel corso dell’udienza generale del mercoledì, aveva ammonito: “Spingere gli anziani verso la morte non è umano né cristiano. Bergoglio aveva espresso gratitudine “per tutto l’aiuto che la medicina si sta sforzando di dare, affinché attraverso le cosiddette ‘cure palliative‘, ogni persona che si appresta a vivere l’ultimo tratto di strada della propria vita, possa farlo nella maniera più umana possibile”.

Aiuto che “non deve essere confuso con derive anch’esse inaccettabili che portano all’Eutanasia“. “Per favore, non isolare gli anziani, non accelerare la morte degli anziani. Accarezzare un anziano ha la stessa speranza che accarezzare un bambino perché l’inizio della vita e la fine è un mistero sempre”.

Le razioni politiche

“Sono dispiaciuto, la bocciatura di un referendum non è mai una buona notizia” commenta il leader della Lega, Matteo Salvini. “La bocciatura da parte della Corte Costituzionale del referendum sull’Eutanasia legale deve ora spingere il Parlamento ad approvare la legge sul suicidio assistito, secondo le indicazioni della Corte stessa” scrive su Twitter Enrico Letta, segretario Pd.

Giuseppe Conte, leader ‘sospeso’ del Movimento 5 Stelle commenta: “Vorrei essere chiaro: la grande partecipazione che c’è stata, il grande coinvolgimento nella raccolta di firme, impone all’intero Parlamento di sedersi con noi e discutere un progetto ben costruito, articolato e ponderato” sull’Eutanasia. “Il Parlamento – ha aggiunto – deve dare una risposta al paese perché quelle firme non possono rimanere lì, gettate al vento: occorre una forte reazione del Parlamento. Abbiamo un testo, la discussione e’ avviata, ed è un imperativo morale, politico e sociale dare una risposta al paese e alle persone che si trovano in quella difficoltà e che ovviamente chiedono che ci siano procedure chiare e trasparenti per porre fine a condizioni di vita che sono irreversibili, definitivamente accertate e che non prospettano la possibilità della prosecuzione di attività vitali e della dignità”.

Per anni ha portato avanti la lotta con il marito Piergiorgio. Eutanasia, dopo la bocciatura la rabbia di Mina Welby: “La voce dei deboli rimane inascoltata”. Rossella Grasso su Il Riformista il 15 Febbraio 2022

“Provo tanta tristezza pensando alle persone più vulnerabili le cui richieste resteranno inascoltate”. È amara Mina Welby dopo aver appreso la decisione della Corte costituzionale che ha ritenuto inammissibile il quesito referendario sull’eutanasia perché “a seguito dell’abrogazione, ancorché parziale, della norma sull’omicidio del consenziente, cui il quesito mira, non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.

Ed è proprio questo che fa più male a Mina Welby, il fatto che siano stati tirati in ballo i più deboli. Suo marito Piergiorgio intraprese una lunga battaglia per arrivare alla scelta riconosciuta per legge di porre fine alla propria vita. Dopo la guerra giudiziaria, persa, il 20 dicembre del 2006 a Piergiorgio Welby, sedato, fu staccato il respiratore secondo la sua volontà. Il funerale laico venne celebrato il 24 dicembre 2006, in piazza Don Bosco nel quartiere Tuscolano a Roma, di fronte alla chiesa che i familiari avevano scelto per la cerimonia religiosa che non fu concessa.

Seguì un procedimento giudiziario contro il medico che staccò il respiratore: il dottore si assunse la responsabilità di avere aiutato a morire Welby. Fu accusato di omicidio del consenziente ma il Gup poi lo prosciolse. Mina allora raccolse il testimone di Piergiorgio continuando il percorso per il riconoscimento legale dell’eutanasia, promuovendo la raccolta di firme per il referendum e supportando l’eutanasia di altri individui.

Oggi arriva per Mina Welby una grandissima delusione: “Io ero sicura che la Corte avrebbe deliberato a favore di questo referendum e sono rimasta molto delusa – ha detto all’Ansa – Rimane l’ultima ‘speranza’ del Parlamento…Vorrei personalmente fare qualcosa per sensibilizzare al tema, non so ancora cosa”.

Il calvario suo e di suo marito, Mina Welby lo ha raccontato in un lungo post su Facebook. “Ho sentito morire me stessa accanto a mio marito, Piergiorgio Welby – ha scritto qualche tempo fa – Era il 20 dicembre 2006. Tracheostomizzato per la ventilazione polmonare per colpa mia (non l’avrei dovuto portare in pronto-soccorso)”.

“Da allora abbiamo vissuto insieme nove anni di via crucis – continua il post – Le tracce di sofferenza di quell’eroe di mio marito le trovo nei suoi scritti, nei suoi disegni. Lui mai un lamento, né con me, né con chi lo venne a trovare. Dopo i primi quattro anni un peggioramento grave gli diede la spinta a chiedere aiuto, non per guarire, ma per cambiare qualcosa nella presa in carico di sé stesso e di cittadini che come lui erano condannati a una sopravvivenza costrittiva, per una macchina senza cuore né anima o come Eluana Englaro in stato vegetativo con nutrizione artificiale”.

“La disobbedienza civile di Marco Cappato per aiutare Fabiano Antoniani era salutata dai cittadini che in questi problemi sono entrati per esperienza di sofferenza personale o di amici. La voce silenziata di Fabo che i giovani conoscevano, ha emesso quell’urlo che ha insegnato che la vera libertà non muore mai. Per vivere ancora ha voluto poter morire”.

“Gli Stati Uniti e la Nato non sono una minaccia per la Russia”. Lo ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti Joe Biden parlando alla Casa Bianca. “L’Ucraina non sta minacciando la Russia. Né gli Stati Uniti né la Nato hanno missili in Ucraina. Non abbiamo, non abbiamo piani per metterli anche lì. Non stiamo prendendo di mira il popolo russo”, ha spiegato. “Non cerchiamo di destabilizzare la Russia. Ai cittadini della Russia dico: voi non siete un nostro nemico. Non credo che vogliate una guerra sanguinosa e distruttiva contro l’Ucraina”, ha aggiunto.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Eutanasia, “Mario” ottiene l’ultimo via libera per il suicidio. DAVIDE MARIA DE LUCA su Il Domani l'11 febbraio 2022

Ieri, una commissione delle Marche ha autorizzato per la prima volta l’utilizzo di un farmaco e stabilito le modalità di somministrazione per rendere possibile il suicidio assistito di un 44enne tetraplegico.

È una decisione basata sulla sentenza Cappato del 2019, che stabilisce quattro criteri che rendono non punibile, e quindi praticabile, il suicidio assistito. Ma per arrivarci è stata necessaria una battaglia legale lunga più di un anno.

Senza una norma in materia, l’eutanasia resterà sempre un percorso ad ostacoli, nonostante le sentenze. Ma la strada per migliorare la situazione è complicata: una legge su cui il parlamento non è d’accordo e un referendum dall’esito incerto e probabilmente non conclusivo. 

DAVIDE MARIA DE LUCA. Giornalista politico ed economico, ha lavorato per otto anni al Post, con la Rai e con il sito di factchecking Pagella Politica.

Suicidio assistito, Mario: «Ce l’ho fatta, sono felice. Vinta la sfida, posso morire sereno». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 12 febbraio 2022

Mario è tetraplegico dal 2010, quando un incidente stradale lo rese immobile e gli lasciò la parola, la vista e le capacità cognitive. 

«Ora non c’è più nessuna virgola fuori posto, ho avuto quello che aspettavo e non so nemmeno spiegare quanto ne sono felice. Ce l’ho fatta, anzi: ce l’abbiamo io e tutti quelli che hanno lottato assieme a me. Posso disporre della mia vita, finalmente».

Il filo di voce

Mario ha il respiro affannoso perché ha appena sopportato la fatica di essere messo seduto sul suo letto. Anche solo quella è un’operazione che gli costa sofferenza. Ma pur con un filo di voce una cosa la vuole dire: «Adesso sì, ho la tranquillità di chi ha raggiunto il traguardo, so che me ne potrò andare quando vorrò in modo dignitoso per me e per la mia famiglia e questo mi rasserena e mi emoziona». L’emozione di Mario arriva dalla solita stanzetta, dal solito pezzetto di cielo che vede dal suo letto, dal solo orizzonte possibile da quando, nel 2010, un incidente stradale lo rese immobile e gli lasciò la parola, la vista,le capacità cognitive. Tetraplegico. Nessuna chance di recuperare niente.

Svizzera

Una domenica pomeriggio del 2015 suo padre gli chiese: che intenzioni hai per il futuro? Lui rispose: «Finché riesco vado avanti, poi faccio di tutto per avere il suicidio assistito in Italia, e se non ci riesco vado in Svizzera». Era agosto 2020 quando Mario decise di abbandonare l’ipotesi della Svizzera (che gli aveva già detto sì) e tentare invece la via italiana come un alpinista che tenta di tracciare una nuova rotta verso la vetta. Scelse di «fare la rivoluzione», come dice lui, al fianco dell’Associazione Coscioni. In Italia. E la vittoria non era per nulla scontata.

L’ultimo muro

In questi 16 mesi in attesa di giudici, commissioni, Asl, team medici, comitato etico, pareri per questo o per quello, aveva persino riconsiderato l’ipotesi della Svizzera se i tempi si fossero allungati troppo. Ha scoperto ieri che non sarà necessario andare a morire altrove e che non è più tempo di guerra perché la guerra è vinta e lui non è uomo che potrebbe mai infierire sui vinti. Così, caduto l’ultimo muro che lo separava dal suo diritto al suicidio assistito, passa oltre la sofferenza di questi mesi. Oltre le denunce che aveva avviato contro l’azienda sanitaria locale (la Asur Marche). Oltre quel suo «mi state torturando» ripetuto più volte e dettato dallo sfinimento. Passa oltre perché «adesso non è più tempo di battaglie da vincere, è arrivato invece il momento di dire grazie a tutti».

Sofferenza

Vista dalla fine questa storia, per dirla con le sue parole «è stata un’insieme di passaggi che hanno funzionato, anche se al rallentatore. Ho vissuto momenti difficili di sofferenza, abbiamo dovuto superare ostacoli continui ma ora è finita, finalmente». Un giorno x che ancora non ha stabilito Mario chiederà a un dottore (già individuato) di comprare il farmaco letale e mettere a punto il marchingegno per l’autosomministrazione. Avrà vicino a sé sua madre, che non lo ha mai lasciato solo nemmeno un giorno, suo fratello, i suoi amici più cari. E si addormenterà per sempre. «Non so quando succederà» dice. «Mi do’ ancora un po’ di tempo per ragionare con il medico, per ringraziare e salutare tutti».

Suicidio assistito, deciso il farmaco per Mario (tetraplegico da 15 anni). Il Dubbio il 12 febbraio 2022. Nuova svolta storica per il marchigiano 43enne tetraplegico dopo un incidente stradale, che da oltre 15 mesi sta tentando di far valere il proprio diritto di poter accedere all’aiuto suicidio medicalmente assistito in Italia.

L’utilizzo del farmaco Tiopentone per il suicidio medicalmente assistito chiesto da Mario «è corretto». Lo rende noto l’Associazione Luca Coscioni. «Così si è espressa l’Asur, chiamata – si spiega in una nota – dopo diffide e denunce di Mario, presentate dai legali dell’associazione Luca Coscioni. Nuova svolta storica per il marchigiano 43enne – commenta l’Associazione – tetraplegico dopo un incidente stradale, che da oltre 15 mesi sta tentando di far valere il proprio diritto di poter accedere all’aiuto suicidio medicalmente assistito in Italia, legale alla presenza di 4 condizioni indicate dalla Corte Costituzionale nella cosiddetta sentenza “CappatoDj Fabo“».

L’Associazione sottolinea che «nelle settimane scorse Mario, tramite il suo collegio legale, dopo aver ricevuto il via libera dal Comitato etico sulla sussistenza di tutti i requisiti previsti dalla sentenza della Consulta, aveva anche denunciato lo stesso Comitato e l’Asur Marche per il reato di tortura, oltre che per il reato di omissione di atti di ufficio e tutti gli ulteriori reati collegati che potessero configurarsi, a causa dei continui ostruzionismi e omissioni, che si manifestavano sotto-forma di mancate verifiche sul farmaco e le relative modalità di somministrazione. La scelta del farmaco e delle modalità erano il tassello mancante rimasto in sospeso dopo il via libera del Comitato Etico regionale».

«Sul cosiddetto “aiuto al suicidio”, da oggi in Italia abbiamo non solo delle regole precise, stabilite dalla Corte costituzionale nella “Sentenza Cappato“, ma anche delle procedure e delle pratiche mediche definite che includono le modalità di auto-somministrazione del farmaco da parte del paziente», hanno dichiarato Filomena Gallo, co-difensore di Mario e segretario nazionale dell’Associazione Luca Coscioni e il tesoriere Marco Cappato.

«La validazione del farmaco e delle modalità di auto-somministrazione crea finalmente un precedente – spiegano in una nota congiunta – che consentirà a coloro che si trovano e si troveranno in situazione simile a quella di Mario di ottenere, se lo chiedono, l’aiuto alla morte volontaria senza dover più aspettare 18 mesi subendo la tortura di una sofferenza insopportabile contro la propria volontà».

Per Gallo e Cappato «sarebbe ora grave se il Parlamento insistesse a voler approvare delle norme, come quelle in discussione alla Camera, che restringono, invece che ampliare, le regole già definite dalla Corte costituzionale. È a questo punto ancora più importante che si possa tenere il referendum sul fine vita, che consentirebbe di eliminare la discriminazione nei confronti di coloro che devono essere aiutati da un medico per ottenere di porre fine alla propria vita senza soffrire una possibilità oggi vietata – concludono – perché si configura il reato di «omicidio del consenziente».

·         Il Necrologio.

Caterina Stamin per lastampa.it il 30 novembre 2022.

«La mia mamma svolge un lavoro unico: si prende cura di persone speciali». Rebecca ha solo 10 anni e come tutti i bambini insegna agli adulti a vedere il mondo in maniera semplice. Sua mamma, Lisa Martignetti, sui social si presenta come "la ragazza dei cimiteri" e quando aveva solo sei anni sfogliava le pagine del giornale della sua città, l’Eco di Bergamo, per leggere i necrologi: «Amavo immaginare le storie dei defunti».

Quella bambina, che ha sempre amato i cimiteri, oggi ha realizzato il suo sogno: a quarant’anni è una funeral planner, un mestiere ancora sconosciuto che, come spiega bene Rebecca, consiste nell’aiutare le persone a pianificare in vita il loro ultimo saluto. Niente di macabro, sottolinea Lisa, «è il ciclo della vita: come si organizza un compleanno o un matrimonio, lo stesso è per il funerale». Si sceglie assieme a lei l’outfit, la playlist e si stila una lista degli invitati. «È prevista anche la "black list" – sottolinea Martignetti – chiedo sempre alle persone chi vogliono invitare così come chi non vogliono che sia presente quel giorno: ricordiamoci che il funerale è il giorno in cui siamo protagonisti della nostra vita».

Lisa, che odia la parola "condoglianze" e preferisce "vi abbraccio", farà esattamente come promesso: si prenderà cura non solo del defunto, ma anche di chi ha amato nella vita. «C’è chi fa le corna quando mi vede passare sul carro funebre e c’è chi si pulisce le mani dopo che ci presentiamo. Io li invito a salutarci e dico col sorriso che prima o poi avranno bisogno di noi: è la realtà dei fatti».

Lisa, ha sempre sognato di diventare una funeral planner?

«Ho studiato in un istituto professionale con indirizzo turistico, volevo fare l’hostess e sono diventata l’hostess degli ultimi viaggi (ride). Finite le scuole superiori volevo fare l’università e diventare anatomo patologo, ma alla fine ho fatto la commessa per qualche anno, poi l’assistente alla poltrona, finché non ho scelto di intraprendere la strada che ho sempre amato».

Da dove nasce questo interesse?

«Sono appassionata di cimiteri da quando sono bambina, perché ho avuto la fortuna di avere una famiglia che mi ha portato oltre. Voglio dire, si tende a lasciare i bambini lontano da questi luoghi, invece mia nonna Melinda fin da piccola mi ha portata nei cimiteri: mio padre, gemello, ha perso la sorella quando aveva poco più di quattro anni e noi andavamo a farle visita. Mio nonno mi ha sempre raccontato che il mio primo istinto è stato quello di raccogliere i vasi caduti. Sono rimasta a bocca aperta la prima volta che ho portato mia figlia al cimitero perché ha fatto la stessa cosa».

Quando ha scelto di trasformare quella passione in un mestiere?

«Mio padre era un operatore funebre. Ha fatto tutt’altro per 20 anni poi, quasi per scherzo, un suo amico gli chiese: "Angelo, vieni ad aiutarmi?". All’inizio l’ha fatto per arrotondare, poi ha mollato tutto ed è diventato operatore funebre. Per lui è stata una vocazione e io gli ho sempre proposto di aprire insieme un’onoranza funebre ma lui ha sempre risposto: "No, preferisco morire felice"».

Qual è il senso di quella frase?

«Nel 2017 a mio padre è stato trovato un tumore e nel 2019 se n’è andato. Quando sapeva che stava per morire, mi ha consigliato di provare a fare qualche vestizione prima di mollare il mio lavoro per intraprendere questa carriera. Un giorno mi ha sorpreso dicendomi: "Sediamoci e pianifichiamo il mio funerale". Io avevo 37 anni. È stata una prova difficilissima, soprattutto quando mi ha detto: "Questo è l’abito che indosserò"».

Era la prima volta che pianificava un funerale?

«Sì, mi ha dettato tutte le condizioni: mi raccomando la cravatta, mi ha detto i brani che aveva scelto per l’ingresso e per l’uscita dalla chiesa e anche il tipo di cassa e l’imbottitura. Prima di lui avevo fatto solo tre vestizioni: non avevo ancora la manualità. Quello è stato di fatto il mio primo funerale».

Da lì ha iniziato la sua carriera: ci spiega in cosa consiste fare la funeral planner?

«Sono una consulente. Io dico sempre che nella morte c’è molta intimità: quando ti viene affidata una vita, mi prendo cura dei ricordi e della storia per chi rimane. Inizio la consulenza con una chiacchierata con la persona che mi chiede aiuto, non le faccio scegliere la bara, ma stiliamo insieme una sorta di lista di desideri di come uno vuole essere ricordato. Pianificare un funerale è un atto d’amore verso se stessi ma soprattutto verso chi si ama: in un momento dove non si capisce nulla e c’è tantissima burocrazia, sapere cosa vuole il defunto aiuta. E poi nella vita abbiamo tutto organizzato, perché deve essere strano pianificare anche il nostro ultimo saluto?».

Come ha iniziato le consulenze?

«Tutto è cominciato raccontando il mio lavoro sui social, dove parlo della Signora, la morte, con delicatezza. Racconto l’amore che provo per il mio lavoro, invitando le persone a ragionare e a non prenderci in giro o considerarci macabri. Mai avrei immaginato un riscontro così: ho tante richieste e la mia community rispetta e capisce il mio mestiere».

Cosa scelgono le persone?

«Innanzitutto l’outfit: c’è chi sceglie di stare sul classico, quindi le donne il loro vestito preferito e gli uomini un abito, ma anche chi si sbizzarrisce con colori, cappelli o occhiali. Poi si sceglie il catering, il biglietto di invito e di ringraziamento e, ovviamente, la playlist».

E quali sono gli artisti preferiti?

«C’è chi chiede musica classica ma anche chi vuole i Pink Floyd o i Nirvana. Tra gli italiani prediligono Venditti, Battiato, Baglioni o Tiziano Ferro. Molti di loro condividono con me direttamente le loro playlist su Spotify».

Qualche richiesta bizzarra?

«C’è una mia amica che vuole delle mongolfiere appese al soffitto. Ma c’è anche chi mi ha chiesto all’uscita sul sagrato della chiesa lo sparo dei cannoni. E poi chi non vuole la benedizione: mi è capitato di dover fermare il prete».

 

Anche per il funerale si stila una lista di invitati?

«Certamente, nel mio modello di pianificazione funebre è prevista anche la "black list": chiedo alle persone chi vogliono invitare, così come chi non vogliono che sia presente quel giorno. Sogno la cartellina tra le mani come i pr fuori dalle discoteche (ride). Ma ricordiamo che il funerale è il giorno in cui siamo protagonisti della nostra vita: è giusto pianificare anche questo».

Tocca a lei: come sarà il suo funerale?

«Vorrei tutti gli invitati vestiti di nero, con un accessorio colorato. Sarà fighissimo ma niente spoiler: ho paura che le persone mi copino».

Estratto dell’articolo di Nino Materi per “il Giornale” il 7 novembre 2022.

[...] Il black humor rappresenta infatti il focus pubblicitario dell'impresa Taffo, un marchio di fabbrica che l'ha trasformata in fenomeno social. Con un ardito paragone si potrebbe dire che Angelo Taffo, 60 anni, e Giacomo, 34, rispettivamente padre e figlio [...], stanno al caro estinto come l'inflazione sta al caro vita.

Intanto la domanda filosoficamente seria incombe sui Taffo (e non solo): si può ridere della morte? Sarebbe fin troppo facile rispondere: «Dipende dal buongusto con cui lo si fa». Peccato che applicare la categoria del «buongusto» - «borghese» e «conformista» (come le etichette, con approccio vagamente radical chic, il saggista Andrea Coccia) - al genere dell'«umorismo nero» rischia di essere una contraddizione in termini, stante che l'«ironia macabra» trova la sua ragion d'essere proprio nella forza - «antiborghese» e «anticonformista» - della battuta noir. 

Ci si muove dunque lungo una linea d'ombra, dove la risata (o lo sdegno) dipendono dalla vibrazione del nostro diapason emotivo, frutto di cultura e sensibilità personali. Risultato: la freddura «cinica» può al tempo stesso divertire o indignare. Parole d'ordine, quindi: equilibrio, rispetto e sensibilità. 

Sul punto è d'accordo Angelo Taffo che ha investito sull'ironia pubblicitaria solo dopo un rigoroso esame di coscienza sul piano etico e morale: «Io e mio figlio ci siamo imposti di non urtare mai la suscettibilità di chi soffre per un lutto. La morte è una disgrazia che va gestita con estrema delicatezza. Detto ciò, approcciarla con un pizzico di garbato umorismo può aiutare a vivere meglio...».

Ed è proprio questa la mission - tutt' altro che impossible - dei Taffo che da anni concimano il campo «santo» delle tumulazioni col seme della creatività. Il catalogo degli slogan-choc è una miniera di invenzioni: inaugurato a colpi di cartelloni lungo le strade cittadine, ha poi traslocato sui muri virtuali delle metropoli-social diventando oggetto di studio nel campo del digital advertising, senza contare le web community dove le pubblicità «made in Taffo» rastrellano migliaia di «mi piace»; con annessi post: l'equivalente online dell'antico «segue dibattito» tipico dei cineforum d'essai. 

Fatto sta che il «thanatos marketing» by Taffo è apprezzato da morire. E tra i fan delle «offerte funerarie» non ci sono potenziali clienti già con un «piede nella fossa», bensì schiere di giovani scattanti impegnati a studiare la strategia comunicativa multitasking dello staff messo su da papà Angelo (il tradizionalista un po' nostalgico del passato) e dal figlio Giacomo (il tecnologico proiettato nel futuro). Un brainstorming intergenerazionale che ha partorito campagne cult che hanno ricevuto anche riconoscimenti istituzionali.

Signor Taffo, come e quando le è venuta l'idea di «giocare» con la morte?

«L'idea venne a mio figlio Giacomo, dopo il terremoto che devastò l'Abruzzo il 6 aprile 2009: lui aveva preso poco prima la licenza classica, uno studente brillante con un futuro promettente davanti a sé. Ma io commisi un errore di cui ancora mi pento». 

Quale «errore»?

 «Lo catapultai nell'inferno del dopo sisma, tra le centinaia di cadaveri a cui ogni giorno dovevamo dare degna sepoltura. Giacomo affrontò in poche settimane la carica di stress che chi fa il mio mestiere accumula in 30 anni di lavoro». 

Una realtà terribile.

«Non dimenticherò mai la telefonata che ricevetti il 6 aprile 2009 dal sindaco dell'Aquila sconvolto dalla drammaticità della scossa: Angelo, quante bare hai disponibili?». 

Una domanda che già dava il senso del dramma.

«Io gli risposi: Cosa significa? Cosa vuoi dire?. E lui: Qui è una carneficina, sotto le macerie le vittime sono centinaia». 

Vengono i brividi solo a pensarci. 

«Fu in quell'istante che capii la dimensione apocalittica della sciagura. Io gestivo, nel mio paese di Poggio Picenze (L'Aquila), l'impresa Taffo di pompe funebri. Compresi che da solo non ce l'avrei fatta, avevo bisogno dell'aiuto di mio figlio. E Giacomo non si tirò indietro». 

Fu dopo la sciagura del terremoto che pensaste di iniziare a percorrere la strada inedita dell'umorismo nero?

«L'idea fu di Giacomo. E sono convinto che si trattò, da parte sua, di una forma di autodifesa psicologica». 

In che senso «autodifesa psicologica»?

«Una forma di esorcizzazione del dolore. Un modo per superare lo choc che rischiava di paralizzarci il corpo e la mente. Giacomo nei giorni successivi al sisma ha assistito a scene traumatiche: bambini morti, disperazione umana, gente che aveva perso gli affetti più cari e non aveva più neppure una casa». 

Uno scenario dove a trionfare era solo la morte. 

«Allora è scattato l'interruttore. Ci siamo detti: dobbiamo risollevarci, prendendoci la rivincita sulla morte.

E per farlo non c'era strumento migliore dell'ironia».

E i familiari delle vittime come l'hanno presa?

«Hanno compreso perfettamente il nostro intento. Che non era certo di tipo speculativo, ma al contrario puntava a onorare attraverso un sorriso anche la memoria dei defunti e dei loro parenti». 

Dunque nessuna protesta, nessun risentimento nei confronti della vostra scelta?

«Qualche critica ci è giunta da fuori, ma mai dalla comunità locale». 

Tra voi e il territorio abruzzese c'è un legame particolare.

«È un legame basato sullo spirito di compartecipazione. Posso farle un esempio per spiegare meglio?». 

Prego. 

«Durante i funerali di un ragazzo morto in un incidente stradale, la madre era abbracciata alla bara del figlio e non ne voleva sapere di staccarsi. Lacrime, urla, disperazione. Io mi avvicinai, le strinsi le mani e lei dissi: Signora, se vuole rimanere un altro giorno con suo figlio, non deve preoccuparsi. La tumulazione la rinviamo di 24 ore, non c'è problema.... E così avvenne. Mi beccai la reprimenda del prete e di varie autorità, ma ebbi la riconoscenza di quella madre. Ne vado orgoglioso anche perché lei ogni volta che mi incontra mi racconta un sogno».

Quale sogno?

«Lei che incontra il figlio, si baciano. E c'è un uomo che li guarda da lontano. E sa chi è quell'uomo?». 

Chi è?

«Sono io». 

Una storia struggente. 

«Ma non voglio commuovermi. Posso raccontarle una vicenda che la farà ridere?». 

Magari.

«Le nostre pubblicità controcorrente sono state notate addirittura negli Usa e la Fox ci chiese, in occasione della presentazione della terza serie di The Walking Dead di realizzare una bara con delle mani insanguinate che uscissero dalla cassa. Una troupe venne dagli States a Poggio Picenze per visionare l'opera e registrare il trailer». 

E una volta arrivati in Abruzzo cosa accadde?

«La bara piacque molto. Dopo di che parcheggiammo la cassa all'interno del nostro deposito e andammo tutti al bar a bere un caffè. Ma sul più bello, ecco arrivare la telefonata del custode del deposito: Venga subito, qui è entrata sua cugina, ha visto la cassa con le mai insanguinate ed è morta di paura». 

Era morta davvero?

«No, per fortuna era solo svenuta». [...] 

Tutto cominciò però all'inizio del '900 con il bisnonno Giuseppe, che con quel nome non poteva che fare il falegname...

«Vero. Suo padre aveva un piccolo laboratorio dove costruiva ogni tipo di manufatto in legno e, ovviamente, anche le casse da morto che a quei tempi erano - per usare un eufemismo - assai spartane». 

Poco più di 4 tavole inchiodate alla meglio. 

«La prima cassa nonno Giuseppe la fece a 15 anni, apportando una leggera modifica al design del coperchio della bara». 

Racconti.

«Il morto aveva un naso particolarmente lungo che necessitò la creazione di una piccola nicchia all'altezza della faccia».

Dell'interesse degli americani della Fox abbiamo già detto dando conto della cassa con le «mani esterne» che ha fatto venire un «coccolone» a sua cugina, ma anche gli italiani della serie «Gomorra» si sono rivolti alla Taffo per un funerale importante: quello del boss Pietro Savastano.

«Un'esperienza entusiasmante. Giacomo è stato invitato sul red carpet a Cannes a fianco di tutti i protagonisti di Gomorra, la serie italiana più famosa al mondo». 

I problemi causati dal Covid sono stati diversi da quelli creati dal terremoto?

«Il covid è stato un nemico ancora più subdolo. Perché all'inizio non sapevamo nulla di lui. Tanto da decidere di rinunciare al nostro tradizionale umorismo nero». 

È vero che siete specializzati anche nei «funerali» degli animali domestici?

«Si tratta di cremazioni. Poi le ceneri vengono consegnate ai padroni». 

Quante cremazioni di questi tipo fate ogni anno?

«Almeno 100. E non si tratta solo di cani e gatti, come si potrebbe credere».

Ah no? E quali altre bestie avete cremato?

«Anche un coniglio e un pappagallo. Il padrone del coniglio, quando telefonò, fece una premessa: Signor Taffo, l'avviso che non si tratta di uno scherzo...». 

Quali sono, se ce ne sono, gli aspetti più sgradevoli del suo lavoro?

«Ho sempre amato il mio lavoro. Se fatto con scrupolo è coscienza è un'attività che regala serenità e ti fa capire l'esatta gerarchia dei valori. Spesso si litiga per cose irrilevanti, dimenticando quelle davvero fondamentali dell'esistenza». 

C'è ancora chi, al passaggio dei «becchini», fa gesti scaramantici? 

«Molto meno che in passato. Ma sacche di ignoranza e stupidità ancora resistono. Basta saper rispondere a tono, magari con una battuta azzeccata». 

A lei, vista l'esperienza umoristica, non mancheranno certo le risposte...

«Mio figlio Giacomo, su questo fronte, è stato un buon maestro. Il suo approccio scanzonato alla morte ha influito anche sul mio carattere. Io sono sempre stato un tipo gioviale, ma oggi lo sono ancora di più». 

Ma lei, Angelo Taffo, teme la morte?

«Ho paura della sofferenza. Ne ho vista tanta e quindi so quanto sia devastante». [...]

Andrea Camurani per corriere.it il 28 novembre 2022.

Soldi ai dipendenti dell’obitorio di Saronno in cambio di servizi cimiteriali, somme elargite da quattro aziende funebri che così si accaparravano clienti: è uno dei fatti contestati nell’inchiesta della procura della repubblica di Busto Arsizio che ha visto firmare dal giudice per le indagini preliminari 10 misure cautelari eseguite lunedì mattina per ipotesi di reato che vanno da corruzione di incaricato di pubblico servizio al peculato, dalla truffa al furto, al falso ideologico. Dei soggetti destinatari delle misure, uno è in carcere in custodia cautelare, uno ai domiciliari, a due è stato notificato il divieto di esercizio di professione medica, a quattro il divieto di esercitare l'attività di impresario funebre, a due la sospensione dall'esercizio delle mansioni di addetto all'obitorio con divieto di concludere contratti di lavoro con la pubblica amministrazione. 

Le indagini sono state eseguite in provincia di Varese e in quella di Como dai carabinieri della compagnia di Saronno a seguito di alcune segnalazioni giunte dalla direzione sanitaria dell’ospedale nel novembre del 2020 in ordine a una somma di denaro ricevuta - a titolo non meglio precisato - da un addetto all'obitorio da parte di un impresario funebre del posto. 

Secondo la ricostruzione degli inquirenti è emerso che quattro titolari di onoranze funebri, disgiuntamente tra loro, elargivano somme di denaro in favore di alcuni dipendenti (uno di questi colpito da misura in carcere) dell'obitorio dell'ospedale di Saronno così da «orientare i parenti dei defunti alla scelta dell'impresa cui affidare il servizio funebre, ottenere informazioni, effettuare trattamenti di vestizione e tanatocosmesi sulle salme quando non previsto, ostentare le salme ai congiunti anche quando queste risultavano positive al Covid-19, in violazione delle norme anti-contagio». 

Sempre secondo le accuse due medici di base operanti all'interno dello stesso ambulatorio accreditato Asst, rilasciavano false attestazioni di malattia a dipendenti pubblici e privati che ottenevano così indebite percezioni per assenza dal lavoro. A un’addetta all'obitorio dell'ospedale di Saronno (destinataria della misura degli arresti domiciliari), durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia - falsamente attestata dai due medici - è accusata di prestare la propria opera lavorativa come impiegata presso l'ambulatorio dei medesimi sanitari.

In ultimo due soggetti entrambi dipendenti dell'obitorio dell'ospedale di Saronno sono accusati di essersi impossessavano di materiale sanitario e di pulizia di proprietà dell'ospedale di Saronno per poi cederli a terzi.

Giulio De Santis per roma.corriere.it il 20 luglio 2022.

Dagli 800 ai 3.500 euro. Sono le somme chieste ai familiari dei defunti dai titolari di tre agenzie di pompe funebri per procedere presso il cimitero Flaminio-Prima Porta per la cremazione delle salme. Soldi che non avrebbero dovuto essere versati. Le salme sono state infatti inumate da Ama. Nove le famiglie raggirate, secondo la Procura, che ha chiesto il rinvio a giudizio di quattro imprenditori e un dipendente. 

L’accusa contesta dal pubblico ministero Silvia Sereni: truffa. In questo caso i magistrati hanno configurato anche la presenza dell’aggravante della minorata difesa a danno dei familiari. Secondo l’accusa, gli imputati, infatti, si sarebbero approfittati della debolezza dovuta alla perdita di una persona cara per raggirare i clienti. 

Sono nove i casi riscontrati dagli inquirenti. Sette di questi sono avvenuti in coincidenza del lockdown tra il 9 marzo e l’10 maggio del 2020 imposto dall’emergenza Covid. Periodo nel quale i familiari delle persone scomparse non hanno potuto accedere al cimitero o svolgere i funerali per il pericolo dei contagi. Altre due truffe invece sarebbero avvenute nell’estate di due anni fa. Ama, attraverso l’avvocato Giuseppe Di Noto, si costituirà parte civile.

Ecco l’elenco di chi rischia il processo. Innanzitutto è imputato Alessandro Manca, titolare dell’agenzia «Af». Gli episodi ricondotti alla sua ditta sono quattro e gli avrebbero garantito un incasso di 3.600 euro. Nella lista degli accusati figura il nome di Emanuele Alesse, alla guida dell’agenzia «Roma», che avrebbe intascato tremila e 500 euro per una cremazione mai svolta.

A rischiare il processo ci sono pure Roberto Caprioli, a capo dell’agenzia «Chiericoni», e Alessandro Biagetti, alle dipendenze della società «Caprioli». In questo caso sono tre le truffe, per un valore di duemila e 700euro, commesse dalla coppia d’imputati, secondo quanto sostiene la Procura. La lista si chiude con Carlo Bruni, titolare dell’agenzia funebre «San Giovanni». All’imprenditore viene ricollegata una sola truffa, che gli avrebbe consentito di intascare mille e 400 cento euro.

Questo il sistema escogitato dai cinque imputati, almeno secondo quello che viene contestato loro dall’accusa. E’ il 14 marzo del 2020 quando il telefono di Manca squilla. A voler parlare con lui, è una signora di 70 anni che ha appena perso un parente. L’uomo gli spiega – secondo gli inquirenti – che si occuperà della cremazione della salma. Per il servizio chiede 950 euro. La donna versa quanto chiesto. Intanto, stando alla ricostruzione della Procura, la salma del defunto viene sistemata presso la camera mortuaria del cimitero Flaminio.

La cremazione non viene eseguita dall’agenzia «Af». L’operazione d’inumazione viene portata a termine dall’Ama. La famiglia del defunto si accorge però del raggiro e denuncia Manca. Lo stesso accadrà con gli altri quattro imputati, tutti segnalati ai magistrati. Lo scorso giugno si è aperto il processo a 13 dipendenti Ama, accusati di aver estratto tre salme dai loculi del cimitero di Prima Porta per sezionarle e ridurle in pezzi. Lo scopo: riporre i resti nella cassetta delle ossa e poi chiedere ai familiari il pagamento di una somma per il servizio di estumulazione del cadavere.

Quattro le agenzie funebri finite nei guai. Cimitero Flaminio, la truffa delle finte cremazioni: nell’urna terra al posto delle ceneri. Mariangela Celiberti su Il Riformista il 29 Gennaio 2022.

Credevano che le ceneri del loro caro defunto fossero nell’urna cineraria ricevuta dopo averne richiesto la cremazione. Non sapevano che invece, al suo interno, c’era solo della terra, mentre il corpo del parente era stato sepolto nell’area comune del cimitero. Dolore su dolore. È successo al cimitero Flaminio nei primi sei mesi del 2020: nell’orribile truffa sono coinvolte almeno 4 agenzie funebri.

L’inchiesta sulle finte cremazioni

La Procura di Roma aveva scoperto il primo caso nel gennaio 2020: da allora i carabinieri del nucleo radiomobile hanno individuato altri casi simili. Undici le bare individuate nell’area comune del camposanto, ossia dove finiscono quelle prive di una tomba, nonostante i familiari avessero pagato la cremazione per i propri cari. 

Il sostituto procuratore Silvia Sereni indaga per truffa e ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro titolari di altrettante agenzie di pompe funebri.

Approfittando della vulnerabilità di chi aveva appena perso una persona amata, gli indagati riuscivano a falsificare i documenti e a dare delle spiegazioni di comodo agli ignari parenti. Proponevano inoltre prezzi vantaggiosi e tempi ridotti, per un’operazione che solitamente prevede costi più elevati. Gli investigatori ipotizzano che potessero contare sull’aiuto di chi lavora all’interno del cimitero.

Sedici indagati per vilipendio di cadavere

La truffa sulle finte cremazioni è l’ennesimo scandalo che riguarda il cimitero Flaminio. In un’inchiesta parallela sono finite ben sedici persone a processo con accuse che vanno dalla truffa al vilipendio di cadavere. I fatti si sono verificati tra gennaio e febbraio 2020.

Secondo la legge, trascorsi 30 anni dalla sepoltura deve avvenire l’estumulazione della bara. Di solito i cadaveri sono mineralizzati, quindi si procede alla raccolta delle ossa, che vengono spostate nell’ossario comune in modo che il loculo venga liberato. Capita però che i corpi siano ancora in buono stato: i parenti così devono pagare per la cremazione. Ed è in questo ultimo caso che i truffatori hanno pensato di agire, proponendo ai parenti delle soluzioni più economiche (e ovviamente in nero). Un modo per arrotondare che però comprendeva una macabra procedura: i corpi non venivano cremati, bensì dissezionati e fatti a pezzi.

Sarebbero tre i casi finora accertati, che avrebbero coinvolto tre imprese funebri e alcuni dipendenti infedeli dell’Ama. Mariangela Celiberti

Imputati 13 dipendenti Ama e tre operai di diverse agenzie funebri. Facevano a pezzi i cadaveri e chiedevano soldi ai parenti: orrore al cimitero, dipendenti incastrati da telecamere. Roberta Davi su Il Riformista l'8 Giugno 2022 

Vilipendio di cadavere e truffa in concorso. Sono questi i reati di cui dovranno rispondere 13 dipendenti Ama e tre addetti di diverse agenzie funebri di fronte al Tribunale di Roma.

Gli imputati sono infatti accusati di aver sezionato almeno tre salme e di aver chiesto dei soldi ai familiari per l’estumulazione: secondo le indagini però la procedura non sarebbe stata regolare. A incastrarli i filmati di alcune telecamere nascoste dai carabinieri tra i loculi del cimitero Prima Porta di Roma, come riportato da Il Messaggero.

La vicenda

Gli episodi contestati si sarebbero verificati nel mese di gennaio del 2020. In particolare il giorno 27 sei dipendenti Ama, armati di coltello, avrebbero prima fatto in pezzi una salma, che si trovava in una cappella del cimitero Prima Porta, dopo aver ricevuto l’ordine da un addetto di un’agenzia funebre. Poi sarebbero passati all’azione con i parenti, pretendendo 300 euro per trasferire i resti in una casetta più piccola e lucidare la lapide.

Secondo la Procura però, gli imputati avrebbero fatto credere alla persona contattata che i soldi fossero necessari per poter procedere con una ‘legittima attività di estumulazione‘, mentre si sarebbero accaniti sui cadaveri per poi riporre i resti nella cassetta ossea. Un ‘copione’ che si è ripetuto in altre due occasioni,  il 22 e il 30 gennaio 2020, quando ai familiari di due defunti sono stati chiesti rispettivamente 300 e 50 euro. Cifre che sarebbero servite ad ‘arrotondare’ lo stipendio.

Le immagini

Dai filmati delle telecamere piazzate dai Carabinieri le immagini dell’orrore: i dipendenti Ama si disponevano intorno alla salma e poi iniziavano a sezionarla e a farla a pezzi, con i resti gettati nell’ossario comune.

La prossima udienza è fissata per ottobre: verranno ascoltati i testimoni dell’accusa. Roberta Davi

Melania Rizzoli per “Libero quotidiano” il 20 giugno 2022.

I necrologi, nell'epoca prima di Internet, sono stati l'unico modo, o quasi, per venire a sapere della morte di una persona che si conosceva o sconosciuta, perché di fatto sono degli annunci funebri dal testo breve, pubblicati a pagamento sui quotidiani. Per i giornali sono una specifica luttuosa forma di inserzione pubblicitaria molto proficua in quanto il prezzo è commisurato allo spazio usato, misurato in numero di parole.

In Italia tra i più diffusi fogli con tradizione di ospitare necrologi a pagamento c'è il Corriere della Sera, che riesce a pubblicare trai 140 e i 150 annunci funebri in una intera pagina, e se si calcola che ogni parola ha un prezzo di circa 6,50 a parola per gli "annunci", e 13 a parola per le "partecipazioni" e che mediamente un necrologio costa dai 300 ai 700 circa, è verosimile stimare un guadagno di oltre 30mila a pagina. Lo schema per decidere l'ordine in cui devono essere pubblicate le partecipazioni al lutto segue una priorità chiamata "corteo" che regola l'ordine rigoroso "annuncio-familiari-amici-colleghi-conoscenti' , e se non c'è il necrologio della famiglia in genere non si accettano gli altri, perché potrebbe essere una scelta di riserbo intenzionale.

INTERNET Nell'ultimo decennio, con Internet e la diminuzione delle copie vendute dai giornali, i necrologi sono stati meno richiesti e sono rimasti una forma di comunicazione di persone o famiglie di condizioni sociali privilegiate e con valori tradizionali più radicati. Negli ultimi due anni però, causa Covid che ha fatto strage di morti, i necrologi sono aumentati al punto che dalla loro lettura si poteva valutare fedelmente l'andamento dell'epidemia da Coronavirus, soprattutto nel Nord Italia. L'Eco di Bergamo, per esempio, fu costretto a pubblicare anche 10/12 pagine di necrologi in un solo giorno, molti dei quali correlati da foto del defunto (costo 20), e poiché moltissimi funerali in quel periodo non si sono potuti svolgere a causa del lockdown, erano l'unico modo per comunicare la perdita di un proprio caro.

Nel momento solenne della morte infatti, anche chi non legge abitualmente un quotidiano, sceglie di affidare il ricordo del defunto al giornale locale o nazionale, poiché il necrologio rappresenta ancora l'unico momento pubblico di una intera vita, o l'ultimo di una lunga serie, secondo la notorietà del defunto.

Avere molti necrologi da morto infatti, significa essere stati molto popolari, e dalla lettura delle condoglianze, e dall'ordine in cui vengono posizionate sotto l'annuncio della famiglia, si intuiscono le gerarchie, i rapporti personali o di conoscenza e le relazioni con il defunto, in tutti i gradi di presenza sociale, e quando muore una persona famosa in genere va in scena una lotta invisibile per essere visibili, ed accostare il proprio nome a quello del morto, nel tentativo di comunicare a chi conta e che è ancora vivo la personale amicizia con il de cuius.

PAGINA DEGLI ADDII In un suo magnifico articolo pubblicato sul Foglio del marzo 2019 intitolato "La pagina degli adii", il giornalista e scrittore Michele Masneri informava che il campione finora imbattuto in quest' arte del ricordo è stato Gian Marco Moratti, il compianto petroliere marito di Letizia,che, scrive l'autore, «passato a miglior vita il 26 febbraio 2018, ha visto il giorno dopo 450necrologie, distribuite in 3pagine del Corriere della Sera, un numero finora imbattuto, anche da decessi ugualmente prestigiosi come quelli di Umberto Veronesi o Umberto Eco». 

E solo per il dott Moratti via Solferino ha annunciato per la prima volta nella sua storia il default necrologico e il direttore si è dovuto scusare con i lettori per non essere riuscito a pubblicare tutti gli annunci per il grande afflusso fino a tarda ora, con la promessa di darne spazio il giorno successivo.

Una settimana fa è scomparso il padre dell'editore e presidente Rcs Urbano Cairo, e seppure la notizia fosse stata tenuta riservata, il primo giorno il dott Giuseppe Cairo ha avuto ben 111 messaggi di condoglianze sul Corriere del figlio, quasi un'intera pagina, e 63 il giorno successivo, contro i soli 38 adii per il più noto produttore discografico Piero Sugar, marito di Caterina Caselli, deceduto in contemporanea. 

LE ESEQUIE Tradizionalmente i necrologi servono a comunicare la notizia della morte a persone che potevano conoscere il defunto, oltre alla data e luogo dei funerali od esequie, e in genere vengono pubblicati sul giornale più diffuso sul territorio dove il trapassato viveva.

Il Messaggero di Roma pubblica i necrologi nelle pagine centrali nazionali, e mai nelle ultime come tutti gli altri, essendo questi per il quotidiano una notevole fonte di reddito. Sempre Michele Masneri cita il mitico direttore del Tempo Renato Angiolillo che recitava: "I muorti so' 'a vita del giornale" ed analizza con prosa gustosissima come i necrologi vengono scritti ed affidati alla stampa, perché i defunti tornano sempre alla casa del padre (mai della madre: patriarcato), i congiunti sono sempre costernati e inconsolabili, gli amici attoniti o increduli, i conoscenti vicini, e vengono nominati anche i domestici fedeli, gli infermieri ed i medici che hanno accompagnato alla fine dei suoi giorni il proprio caro, e soprattutto sottolinea come lo stesso committente partecipi al lutto sotto forma di se stesso, poi come direttore di una controllata, membro di un cda, una spa, una srl, un club, una società, dispiegando la propria esistenza in tutti i gradi della presenza sociale, ovviamente a spese non personali.

I necrologi fanno comunque parte di una tradizione culturale che sta purtroppo scemando come valore intrinseco negli ultimi anni in favore della Rete, dove una moltitudine di persone della società civile, dello spettacolo, giornalisti, scrittori, imprenditori, politici e gente comune, preferisce affidare al web il proprio messaggio di condoglianze, generalmente correlato da propria foto insieme al defunto quando era in vita, prima di tutto perché quella di Internet è una comunicazione totalmente gratuita, ed anche perché immediata, si invia con un clic, ed anche perché si può postare immediatamente e lo stesso giorno a ridosso dell'arrivo della notizia della morte del personaggio. "La morte è'na livella" scriveva Totò, ma non fino al giorno dopo dal decesso, perché forse l'indimenticato artista napoletano non aveva mai letto i necrologi sui quotidiani.

·         L’Eredità.

Previdenza e pensioni. Eredità, cosa sapere per affrontare un momento complicato. L’eredità sottostà a norme e regole precise utili da conoscere per affrontare con la maggiore tranquillità possibile un momento delicato. Giuditta Mosca su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Il decesso di un famigliare è sempre un evento traumatico e anche gli atti amministrativi che ne conseguono sono permeati da dolore e confusione. Quello dell’eredità è un tema spinoso che potrebbe portare a fraintendimenti e litigi che potrebbero essere leniti conoscendo le leggi e le norme che la regolano.

Si tratta di un complesso normativo lineare e logico al quale gli eredi possono adeguarsi con semplicità, senza causare attriti e quindi ulteriore dolore. Il principio che vige nel diritto ereditario è quello secondo il quale i rapporti trasmissibili sono quelli che non terminano con la morte del de cuius.

Il de cuius e gli eredi

Nella sfera delle successioni mortis causa si usa il termine de cuius, ossia la persona della cui eredità si tratta. È abbreviazione di “de cuius hereditate agitur” ed è il termine ufficiale utilizzato dai giuristi in luogo di “defunto” o “deceduto”.

Gli eredi sono coloro che succedono alle situazioni giuridiche trasmissibili del de cuius e possono essere:

Legittimi, ovvero quelle persone che acquisiscono l’eredità per legge nel caso in cui non ci sia un testamento. Rientrano tra gli eredi legittimi i coniugi e i parenti entro il sesto grado civile

Testamentari, ossia le persone che rientrano nella successione per volere del de cuius che ne ha specificato i termini nel testamento

Apparenti, ovvero persone che possiedono i beni del defunto ma non ne sono eredi. In questo caso, gli eredi reali devono richiedere la restituzione dei beni

Fiduciari, ossia coloro che ha ricevuto l’incarico di devolvere l’eredità ad altre persone.

Anche il termine "eredità" necessita di una suddivisione giuridica.

Le due parti dell’eredità

L’eredità è formata da due parti distinte, la quota legittima e quella disponibile. La prima è quella parte del patrimonio di cui il defunto non può disporre liberamente perché assegnata in base alle leggi, mentre la quota disponibile è quella che il defunto può destinare secondo il proprio volere tramite il testamento.

L’eredità trasmette soltanto diritti patrimoniali (come per esempio gli immobili, il denaro, i titoli azionari, eccetera). I rapporti non patrimoniali si estinguono con il defunto (per esempio, la potestà parentale o il matrimonio stesso).

La successione ereditaria

È a tutti gli effetti un evento giuridico disciplinato dall’articolo 456 del Codice civile e seguenti e che riguarda tanto il de cuius quanto i successori. Secondo l’articolo 463 del medesimo tomo, hanno diritto di aderire alla successione tutti coloro che sono nati o concepiti al momento in cui avviene il decesso del de cuius a patto che non siano considerati indegni, accezione questa sulla quale torneremo in seguito.

La successione è sostanzialmente di due tipi:

La successione universale che dà pieni diritti ai successori di subentrare in tutti i rapporti patrimoniali trasmissibili (quindi anche i debiti del defunto) e che, in ogni caso, esige che gli eredi dichiarino la volontà di succedere.

La successione particolare dà diritto ai successori di subentrare soltanto in uno o più rapporti così come definiti dal testamento. In questo caso non è necessaria l’accettazione dell’eredità.

Il diritto ereditario prevede altre suddivisioni.

Il diritto ereditario

Ci sono tre tipi di successione, dette successione legittima, successione testamentaria e necessaria. La prima, ossia la successione legittima, è quella sprovvista di testamento e che necessita l’intervento della legge per identificare gli eredi che vengono individuati tra i parenti stretti del defunto.

Anche l'esistenza di un testamento necessita di ulteriori approfondimenti:

La successione testamentaria, come suggerisce il termine, si ha quando i beneficiari del lascito sono individuati dal defunto mediante testamento, il quale deve rispettare le norme relative all’eredità per i coniugi, i discendenti e gli ascendenti.

La successione necessaria si ha invece quando il defunto, pure lasciando un testamento, non ha rispettato i canoni con i quali la legge stabilisce i diritti garantiti ai parenti più stretti.

Oltre alle linee di successione, anche i beni del testatore (il de cuius) sottostanno a principi inalienabili.

Le quote legittime

Nel caso della successione legittima i beneficiari e le quote sono imposte dal Codice civile tant’è che se il defunto avesse lasciato indicazioni contrarie ai paletti imposti dalle leggi, queste dovrebbero essere adeguate alle norme vigenti.

L’articolo 566 del Codice civile impone che i figli succedono ai genitori in parti uguali e l’articolo 568 stabilisce che se il defunto non ha figli, non ha fratelli né sorelle e nipoti, saranno i suoi genitori a dividere in parti uguali l’eredità. La successione legittima prevede questa linea:

I primi a ereditare sono il coniuge e i discendenti del defunto (figli e nipoti)

A seguire gli ascendenti del defunto (genitori, nonni)

In assenza di eredi classificabili nelle prime due categorie, ereditano i collaterali del de cuius (fratelli, sorelle)

Poi i parenti fino al sesto grado

Lo Stato

Nel caso in cui non ci siano eredi, sarà la Stato a ereditare senza dovere di accettazione e senza diritto di potere rinunciare al lascito. I diritti degli eredi sono disciplinati dal Codice civile il quale, parimenti, detta anche i parametri dell’indegnità alla successione, i quali si possono applicare quando:

L'erede ha cercato di uccidere o ha ucciso il de cuius o i suoi congiunti

Ha assunto atteggiamenti sconvenienti contro un erede, come per esempio una falsa accusa riconosciuta come tale in un procedimento penale

Ha cercato di manipolare il testatore o ha nascosto, distrutto o modificato il testamento.

Il testamento

Per l’articolo 587 del Codice civile il testamento è un atto revocabile ed è anche l’unico con il quale il testatore può disporre dei propri beni dopo la morte. È un atto personale nel senso stretto del termine e, come tale, non può essere redatto liberamente da terzi.

Come visto, la libertà del de cuius di disporre dei propri beni è relativa, perché una quota di questi deve seguire una precisa linea testamentaria, ossia quella degli eredi legittimi.

Il testamento può essere redatto in diversi modi:

Testamento olografo, sorretto dall’articolo 602 del Codice civile, è la forma di testamento più facile. Viene redatto di proprio pugno dal testatore e, dopo il suo decesso, deve essere consegnato a un notaio che lo leggerà e lo pubblicherà. Nel periodo che intercorre tra la lettura e la pubblicazione gli eredi possono impugnarlo se pensano di esserne stati danneggiati.

Testamento pubblico, è fatto presso un notaio il quale scrive le volontà dichiarate dal testatore davanti a due testimoni.

Testamento segreto, viene sigillato dal testatore o dal notaio quando gli viene consegnato. Oltre al testatore nessuno ne conosce i particolari. È una forma legale ma poco usata.

Il testamento speciale è applicabile soltanto in condizioni particolari nelle quali non sarebbe possibile redigerne uno pubblico, segreto od olografo. Per citare un esempio coerente con la cronaca recente, il testatore si trova all’estero, in un Paese dal quale non può uscire per cause pandemiche. Un tale testamento ha una validità di 90 giorni dopo la fine dell’evento eccezionale che lo ha reso possibile.

Tutto ciò, per quanto necessario ai fini della legge, non è ancora sufficiente a decretare ufficialmente un erede.

L’accettazione o la rinuncia dell’eredità

Chi ha i requisiti per apparire nella linea ereditaria deve accettare il lascito per poterlo ricevere e quindi per diventare erede propriamente detto. L’accettazione viene espressa mediante atto pubblico o scrittura privata da espletare entro dieci anni dalla data del decesso del testatore sia per quanto attiene la successione legittima o quella per testamento.

Esiste l’accettazione con il beneficio dell’inventario che è usata per tenere separati i patrimoni dell’erede e quello del de cuius. In questo modo i debiti del de cuius saranno pagati soltanto con il suo patrimonio e non con quelli dei successori.

Allo stesso modo si può rinunciare all’eredità, dichiarandone la volontà davanti a un notaio o presso la cancelleria del tribunale. Non ci sono parametri da rispettare, il diritto alla rinuncia può essere esercitato senza vincoli di sorta.

LA RINUNCIA ALL’EREDITÀ. Studio Legale Cariglino Specializzati in diritto italo tedesco 

La morte di una persona determina la chiamata dei suoi successori all’eredità. Tale chiamata, detta anche vocazione all’eredità, non comporta per i chiamati l’acquisto automatico della qualità di erede e il subentro nella totalità dei rapporti trasmissibili del defunto: l’ordinamento prevede che ciò avvenga susseguentemente ad un atto di manifestazione della volontà del chiamato, costituito dall’accettazione. Correlativamente, il chiamato all’eredità è libero di rinunciare ai diritti (e di evitare l’accollo dei relativi oneri) che l’assunzione della qualità di successore comporta. A tale fine l’ordinamento prevede il compimento di un atto definito rinunzia all’eredità. La rinunzia all’eredità è disciplinata al capo VII del titolo I, libro II del codice civile. La rinunzia all’eredità è un atto unilaterale non recettizio, ossia una dichiarazione non rivolta ad un destinatario determinato. Mediante tale dichiarazione, il chiamato all’eredità manifesta la sua volontà di non assumere la qualità di erede del defunto. Chi rinunzia all’eredità è considerato come non vi fosse mai stato chiamato: essa ha pertanto effetto retroattivo. Il rinunziante, comunque, può ritenere le donazioni ricevute e richiedere il legato di cui sia stato reso beneficiario dal testatore (articolo 521 del codice civile). Questo, beninteso, sino al concorrere del valore dei beni oggetto di donazione o di legato con il valore della quota disponibile, poiché, in caso di eccedenza del primo valore sul secondo, le disposizioni testamentarie e le donazioni eccedenti sono soggette all’azione di riduzione a tutela dell’integrità della quota di legittima da parte degli eredi legittimi in tutto o in parte pretermessi. La rinunzia non può essere sottoposta a condizione o a termine, né può essere parziale (articolo 520 del codice civile). Inoltre, la rinunzia fatta contro un corrispettivo importa accettazione dell’eredità e analogo effetto ha la rinunzia che sia fatta in favore solo di alcuni e non di tutti i chiamati (articolo 478 del codice civile). La rinunzia all’eredità, se compiuta nell’ambito di una successione legittima, comporta l’accrescimento della parte del rinunziante in favore di coloro che avrebbero concorso con lui nella successione (articolo 523 del codice civile). Concorre tuttavia con l’accrescimento l’applicazione dell’istituto della rappresentazione (articoli 467 e seguenti del codice civile), in virtù del quale i discendenti legittimi o naturali di colui che non vuole accettare l’eredità gli subentrano, nonché quanto disposto dall’articolo 571 comma 2  del codice civile, in virtù del quale, qualora la rinuncia provenga da vocati all’eredità che siano genitori in concorso con ascendenti del defunto, la quota che sarebbe spettata ai rinunzianti si devolve agli ascendenti stessi. Qualora la rinunzia sia compiuta nell’ambito di una successione testamentaria e il testatore non abbia disposto la sostituzione (cioè non abbia stabilito nel testamento che in caso di rinuncia del vocato all’eredità sia chiamata un’altra persona) si verifica l’identico fenomeno dell’accrescimento della quota del rinunziante ai coeredi, ovvero la devoluzione della medesima agli eredi legittimi (articolo 524 del codice civile).Nel termini di prescrizione del diritto di accettazione dell’eredità, che è pari a dieci anni (articolo 480 del codice civile), l’intervenuta rinunzia può essere revocata, attraverso una dichiarazione di accettazione dell’eredità. Si tratta di una facoltà che non è prevista per l’accettazione, che invece è atto irrevocabile. Al tempo stesso, tale facoltà incontra un limite ulteriore al termine decennale prima ricordato: l’eredità non deve essere già stata accettata, nel frattempo, da altro chiamato cui la rinuncia ha giovato (articolo 525 del codice civile) e comunque senza pregiudizio per i terzi che abbiano acquistato ragioni sopra i beni dell’eredità.

COME SI FA

La dichiarazione di rinunzia deve farsi con dichiarazione ricevuta da un notaio o dal cancelliere del Tribunale del circondario in cui si è aperta la successione. Essa viene inserita nel registro delle successioni (articolo 519 del codice civile) che è tenuto presso la cancelleria di ogni Tribunale, a cura del cancelliere. Il registro è diviso in tre parti, di cui la seconda è appositamente prevista per l’inserimento degli atti di rinunzia all’eredità (articolo 52 delle disposizioni di attuazione del codice civile). Il registro può essere esaminato da chiunque ne faccia domanda e la cancelleria deve rilasciare gli estratti e i certificati che le vengano richiesti (articolo 53 delle medesime disposizioni). La dichiarazione di rinunzia può essere impugnata da chi l’ha resa qualora sia stata effetto di violenza o dolo. Non è prevista invece la possibilità di impugnare la rinunzia per errore, laddove il rinunziante abbia errato circa la consistenza dell’asse ereditario. In questi casi egli potrà revocare la rinunzia precedentemente intervenuta, nei limiti in cui questo è ammesso dall’ordinamento (articolo 526 del codice civile).

I creditori del rinunziante possono essere pregiudicati dalla rinunzia che questi abbia fatto dell’eredità, qualora dalla rinunzia derivi il mancato ingresso di uno o più cespiti nel patrimonio del rinunziante, che, si ricorda, costituisce garanzia delle obbligazioni da questi assunte, secondo l’articolo 2740 del codice civile. In tale caso, anche qualora la rinunzia non consegua a frode ai danni dei creditori, questi possono farsi autorizzare ad accettare l’eredità in nome e per conto del rinunziante (articolo 524 del codice civile). Ciò allo scopo di soddisfarsi sui beni ereditari, ma limitatamente al concorso tra il valore dei crediti vantati e il valore di beni ereditari e non oltre.

CHI PUO’ RINUNCIARE

Per rinunziare all’eredità è necessario esservi stati chiamati. Il chiamato all’eredità che sia nel possesso dei beni ereditari, ove siano trascorsi tre mesi dal giorno dell’apertura della successione senza che abbia provveduto all’inventario dei beni ereditari di cui all’articolo 485 del codice civile, non può più rinunziare all’eredità ed è considerato erede puro e semplice. Decade inoltre dalla facoltà di rinunziare all’eredità il chiamato all’eredità che abbia sottratto o nascosto beni spettanti all’eredità stessa, e, nonostante un’eventuale intervenuta rinuncia, viene considerato erede puro e semplice (articolo 527 del codice civile).

Domande Frequenti

Chi ha ricevuto donazioni o legati e vuole rinunziare all’eredità può trattenere quanto ricevuto a titolo di liberalità?

Si, ma non senza limiti. L’articolo 521 del codice civile dispone la possibilità per il rinunziante di ritenere la donazione o di domandare il legato a lui fatto, ma solo nei limiti del concorso del valore di tali liberalità con il valore della porzione disponibile dell’eredità.

È possibile accettare l’eredità dopo che sia intervenuta una precedente rinunzia?

L’ordinamento consente a colui che ha rinunziato all’eredità di revocare tale atto, ma non illimitatamente.In primo luogo la revoca dovrà intervenire prima che sia spirato il termine per l’esercizio del diritto di accettazione dell’eredità, quindi entro i dieci anni dal momento dell’apertura della successione.

In secondo luogo la revoca non può comunque pregiudicare i diritti di coloro che, susseguentemente alla rinunzia e prima della revoca, abbiano accettato l’eredità o dei terzi che abbiano acquistato ragioni sopra i beni dell’eredità. 

È possibile rinunziare all’eredità contro un corrispettivo?

Si, ma la rinunzia operata verso un corrispettivo viene riqualificata dal codice civile, all’articolo 476, come forma di accettazione tacita dell’eredità. Chi rinunzia contro corrispettivo, lungi dall’evitare l’acquisto della qualità di erede, diviene tale.

È possibile rinunziare parzialmente all’eredità?

No: la rinunzia parziale all’eredità è sanzionata dall’articolo 520 del codice civile con la nullità.

Dispositivo dell'art. 552 Codice Civile

Fonti → Codice Civile → LIBRO SECONDO - Delle successioni → Titolo I - Disposizioni generali sulle successioni → Capo X - Dei legittimari → Sezione I - Dei diritti riservati ai legittimari

Il legittimario [536 ss. c.c.] che rinunzia all'eredità [519 c.c.], quando non si ha rappresentazione [467 c.c.], può sulla disponibile ritenere le donazioni [769 ss. c.c.] o conseguire i legati a lui fatti(1) [521 c.c.]; ma quando non vi è stata espressa dispensa dall'imputazione [553, 564, 724 c.c.], se per integrare la legittima spettante agli eredi è necessario ridurre [553 ss. c.c.] le disposizioni testamentarie o le donazioni(2) [554 c.c.], restano salve le assegnazioni, fatte dal testatore sulla disponibile, che non sarebbero soggette a riduzione se il legittimario accettasse l'eredità, e si riducono le donazioni e i legati fatti a quest'ultimo(3).

ART. PRECEDENTEART. SUCCESSIVO

Note

(1) Chi rinuncia all'eredità, può trattenere le donazioni e i legati fatti dal de cuius. Tali disposizioni vanno a gravare sulla disponibile, a meno che non vi sia stata la dispensa dall'imputazione di cui all'art. 564 del c.c..

Ove operi la rappresentazione, la norma in commento non opera in quanto l'eredità si devolve ai discendenti del rinunziante.

(2) Dalla rinuncia all'eredità del legittimario che trattenga le disposizioni a lui fatte a titolo di legato o donazione può conseguire una diminuzione della disponibile. Ciò può recare danno ad ulteriori beneficiati che non siano legittimari, i quali possono agire in riduzione sulle donazioni e i legati del legittimario rinunziante.

(3) Esempio: Tizio muore, lasciando due figli Caio (che ha ricevuto dal padre una donazione di 400) e Sempronio. Il de cuius, il cui patrimonio ereditario è pari a 900, dispone in favore dell'amica Mevia un lascito ereditario di 180.

Se Caio e Sempronio accettano l'eredità, al secondo spetta 300 (1/3 del relictum pari a 900), mentre Caio deve imputare alla porzione legittima spettantegli (300) quanto ricevuto in donazione (400) ai sensi dell'art. 564 c.c., sia nei confronti del coerede legittimario, sia in riferimento all'erede non legittimario contro il quale non può dunque agire in riduzione. Caio, dopo aver ritenuto 400 a titolo donativo, può conseguire ulteriori 20, mentre a Mevia spetta il residuo 180.

Diversamente accade qualora Caio rinunci all'eredità. La quota di disponibile è pari a 450 (ossia 1/2 del relictum di 900). Posto che su tale disponibile grava la donazione fatta a Caio (400), la disposizione in favore di Mevia (180) rischia di essere pregiudicata, essendo la disponibile pari a 50 (ossia la disponibile di 450 - la donazione fatta a Caio di 400). In presenza di tale situazione si applica la norma in commento: la donazione fatta al legittimario rinunziante viene ridotta per reintegrare l'erede non legittimario nella sua quota. Quindi la porzione di Mevia, pari a 180, viene così ricavata: 50 dalla disponibile ancora libera, gli ulteriori 130 dalla riduzione della donazione fatta a Caio. A questi spetta 270 (400 - 130), a Sempronio 450.

·         10 buone notizie del 2022.

10 buone notizie del 2022 che possono insegnare qualcosa. L'Indipendente il 31 dicembre 2022.

Il 2022 è stato segnato da tanti eventi. Molte di queste sono buone notizie. Ma non tutti sono disposti a darle. Perché, come si suol dire, no news is good news. Tuttavia, noi de L’Indipendente ci siamo sforzati, nel corso di quest’anno, di offrire uno sguardo diverso sul mondo, dando spazio a notizie che offrano uno spaccato di realtà positiva. Sono storie di movimenti sociali che si sono battuti per la propria causa fino alla vittoria, di popolazioni indigene che hanno trovato il modo di far valere i propri diritti, di politici e imprenditori innovativi che, con coraggio, hanno deciso di rompere con politiche obsolete e inefficaci per promuovere innovazioni nel nome del benessere sociale. Ne abbiamo selezionate dieci, tra quelle da noi pubblicate quest’anno. Buona lettura

Il Perù rinuncia alla politica inefficace del proibizionismo

Pedro Castillo, eletto presidente nel Perù nel luglio 2021, è deciso a segnare una netta inversione di marcia nella lotta al narcotraffico nel Paese. Optando per la rottura con l’obsoleto modello di repressione e criminalizzazione del narcotraffico imposta dagli Stati Uniti, la quale non ha prodotto alcun risultati nel contrasto al commercio di stupefacenti, Castillo e il suo esecutivo optano per una “eradicazione volontaria, pacifica e progressiva”, offrendo alle famiglie dei coltivatori mezzi di sostentamento alternativi alla coltura della coca e cercando così di far andare di pari passo eradicazione e sviluppo alternativo.

Dopo 12 anni Stefano Cucchi ottiene giustizia

«Stefano non è caduto dalle scale»: queste sono le parole di Ilaria Cucchi subito dopo l’udienza che ha portato alla condanna definitiva dei carabinieri coinvolti nel pestaggio mortale del fratello, avvenuto nella notte del 15 ottobre 2009. Si chiude così con esito positivo una vicenda giudiziaria durata oltre un decennio, che ha messo a nudo l’omertà e la violenza che regnano in alcuni ambienti delle forze dell’ordine, tanto che l’avvocato Fabio Anselmo lo definirà un «processo al sistema».

Messico: nazionalizzare le risorse per garantire l’autodeterminazione

Il litio, metallo fondamentale per la realizzazione di batterie di cellulari e auto elettriche e cruciale per la transizione energetica, è una risorsa del Paese e va quindi nazionalizzata. Questo la decisione del presidente messicano Obrador il quale, consapevole di come l’ingerenza delle multinazionali straniere possa influenzare la vita di un Paese, influendo anche sulle politiche nazionali, mira così a garantire la capacità di autodeterminazione del popolo messicano e la propria sovranità energetica.

La mobilitazione popolare ferma la costruzione della base militare

Il premier Draghi e il ministro della Difesa Guerini ci avevano provato: con un decreto passato del tutto inosservato e siglato il 14 gennaio – molto prima dello scoppio della guerra in Ucraina – erano a un passo dal trasformare parte dell’area protetta di San Rossore, Migliarino e Massaciuccoli, in Toscana, in base militare. Tuttavia, la mobilitazione della società civile è stata tale da far tornare il governo sui propri passi (seppur non abbia del tutto abbandonato il progetto) e trovare soluzioni alternative.

Il Botswana sta sconfiggendo l’HIV

In Botswana era in corso una delle più gravi epidemie di HIV mai registrate. Tuttavia, grazie alle strategie interne recentemente adottate, il Paese africano è riuscito a ridurre drasticamente il tasso delle infezioni. Il traguardo raggiunto è stato tale da essere riconosciuto anche dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), la quale ha conferito al Botswana “lo status di livello argento”.

Nel Borneo la mobilitazione indigena ferma la deforestazione

Attivisti e ONG della zona dello Stato del Sarawak, nel Borneo malese, sono riusciti a dimostrare alle autorità, grazie alla raccolta di immagini e video catturati coi droni, le attività illegali di disboscamento ai danni di una foresta protetta. La Samling, “il gigante malese del legname”, ha respinto le accuse, negando di aver avuto anche solo l’intenzione di invadere le terre indigene, ma la tribù Penan ha fatto sapere che la società ha completamente abbandonato l’area il giorno prima della manifestazione di protesta organizzata dalla popolazione locale e prevista per il 15 luglio. Un tempismo troppo perfetto per essere considerato una coincidenza.

Un miliardario per la tutela del pianeta

Yvon Couinard, ideatore e fondatore del brand di abbigliamento outdoor Patagonia, ha devoluto l’intera azienda alla causa ambientale. Patagonia ha assunto così le sembianze di una società privata senza scopo di lucro, divisa tra un fondo fiduciario e un’organizzazione, appositamente create per allontanare possibili rischi e assicurandosi così che le entrare annuali vengano devolute alla lotta contro il cambiamento climatico e alla difesa degli ambienti naturali.

Sempre più persone nel mondo hanno accesso all’acqua potabile

La popolazione mondiale che dispone di acqua potabile è passata da 3,8 miliardi nel 2000 a 5,8 miliardi nel 2020. Si tratta di una notizia eccellente, che dimostra come le politiche messe in atto a livello globale riescano a ottenere risultati concreti nel garantire un sempre più equo accesso alle risorse di base, nonostante il problema della carenza di acqua pulita sia ancora troppo radicato e complesso per essere risolto del tutto.

La Colombia cerca la “pace totale” con i guerriglieri

Il Parlamento colombiano ha approvato un disegno di legge, fortemente voluto dal neo-eletto presidente Gustavo Petro, che prevede l’apertura di negoziati di pace tra le autorità governative e i gruppi ribelli ELN e FARC. Nonostante quello verso la “pace totale” sia comunque un cammino lungo e complicato, si tratta di un primo tassello per porre fine a una sanguinosa guerriglia interna che va avanti da oltre 50 anni e ha già mietuto milioni di vittime. A fare la differenza, questa volta, potrebbero essere le importanti riforme volute da Petro, in particolare nel settore dell’agricoltura e della lotta al narcotraffico.

La Spagna taglia ai ricchi per dare ai poveri

Con l’approvazione della legge di Bilancio per il 2023, la Spagna di Sanchez ha autorizzato la spesa sociale più alta di sempre per il Paese (ben 274 miliardi di euro), introducendo misure volte a mitigare l’effetto dell’inflazione causata dalla guerra in Ucraina sulle fasce più vulnerabili della società. Il tutto tassando banche, compagnie energetiche e grandi patrimoni, permettendo cose una più equa redistribuzione della ricchezza e dimostrando come, pur muovendosi entro i canoni di austerità imposti da Bruxelles, una certa volontà politica possa permettersi di muoversi in una direzione che non comporti necessariamente il taglio dei servizi.

·         I momenti "storici" del 2022.

I momenti "storici" del 2022: dalla morte della Regina al primo premier donna. Francesca Galici il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La morte di Michail Gorbačëv e quella della regina Elisabetta II, ma anche la salita al trono di Carlo III e quella a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni hanno segnato il 2022

Il 2022 è stato un anno segnante della storia mondiale. Sono numerosi gli eventi che si sono succeduti in quest'anno, in parte capaci di cambiare il corso degli eventi e di scrivere pagine nuove nei libri di storia. La morte della regina Elisabetta, per esempio, ma anche il primo premier donna in Italia, sono due fatti storici, ognuno in grado di produrre effetti anche sul lungo termine. Purtroppo, però, il 2022 verrà ricordato anche come l'anno del ritorno della guerra in Europa con l'invasione dell'Ucraina da parte della Russia.

Guerra in Ucraina

Il 24 febbraio, Vladimir Putin ordina l'invasione dell'Ucraina dopo aver firmato, tre giorni prima, il riconoscimento delle Repubbliche popolari del Doneck e di Lugansk. È l'inizio della guerra che da 10 mesi flagella l'Ucraina e spaventa l'Europa, impegnata a supportare il Paese di Volodymyr Zelensky con armamenti e forniture civili. Decine di migliaia i morti di un conflitto del quale non si vede ancora la fine.

Attentato a Shinzo Abe

L'8 luglio, un uomo armato di pistola ha sparato in direzione dell'ex primo ministro Shinzo Abe, impegnato in un comizio elettorale. L'uomo si accascia a terra e muore poco dopo. Grande il cordoglio del pianeta per la morte di uno degli esponenti di spicco del movimento liberaldemocratico mondiale, che sarebbe probabilmente tornato alla politica attiva.

Muore Michail Gorbačëv

Il 30 agosto a Privol'noe, in Russia, si è spento Michail Gorbačëv, l'ultimo leader dell'Unione sovietica. L'uomo aveva 91 anni ed è stato l'ultimo segretario del Pcus, il padre della perestrojka. È stato uno dei fautori della fine della Guerra Fredda, capace di avviare rapporti di pace tra il blocco russo e l'Occidente. Nel 1990 ha vinto il premio Nobel per la Pace.

Muore la regina Elisabetta II

Prima o poi sarebbe accaduto, ma la morte della regina Elisabetta II lo scorso 8 settembre ha sconvolto il pianeta. La monarca più longeva del trono inglese si è spenta nella sua residenza di Balmoral, in Scozia, ponendo fine a un regno durato ininterrottamente per 70 anni. Il mondo ha pianto la scomparsa di una regnante capace di tenere unite le fila del suo Paese anche nei momenti più difficili.

Sale al trono re Carlo III

Contestualmente alla morte della regina Elisabetta, il principe Carlo è diventato re Carlo III. Il regno non può rimanere senza il suo regnante e i sentimenti personali vengono in secondo piano quando di mezzo ci sono gli interessi superiori di un Paese. La proclamazione di re Carlo III è avvenuta il 10 settembre al palazzo di St. James davanti al Consiglio di Accessione al trono, per la prima volta nella storia in diretta tv.

Primo premier donna in Italia

Il 25 settembre gli italiani sono stati chiamati al voto per rinnovare il parlamento e hanno dato totale fiducia a Fratelli d'Italia e alla coalizione di centrodestra. Essendo stato FdI il partito più votato di questa tornata elettorale, l'incarico per formare il nuovo governo è stato affidato al suo leader, Giorgia Meloni, che è diventata così il primo presidente del Consiglio donna della storia italiana.

·         Lo Stupidario 2022.

STUPIDARIO. Bidè, sudori e voli elettorali: un anno indimenticabile in 30 frasi. Silvio Berlusconi, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. La serenità di Enrico Letta. Le sparate catodiche sulla guerra in Ucraina, la campagna elettorale a botte di video su TikTok. Scegliere è stato difficilissimo, ma abbiamo selezionato le 30 frasi simbolo degli ultimi 12 mesi. Poi toccherà a voi: quale la peggiore? Wil Nonleggerlo su L’Espresso il 28 Dicembre 2022.

1) I bidè

“Eravamo in Libia, nei centri di accoglienza. A Gheddafi e ai suoi architetti dissi, guardate, qui dovete metterci i bidè: mi guardarono sorpresi, e mi ricordo che Gheddafi mi disse: 'Bedé? Uot ais bedé?' (sic), e anche gli altri si guardavano, 'bedè bedè?!'...”

(Silvio Berlusconi ospite di Porta a Porta, Rai 1 – 7 settembre)

2) Onorevole Fascina, come mai ha scelto di candidarsi in Sicilia?

“È stata una decisione del partito che ho accettato con entusiasmo e orgoglio. La Sicilia è una regione meravigliosa, che conosco sin dai tempi in cui, da piccola, mio padre mi ci portava in vacanza”

(Libero intervista Marta Fascina, parlamentare di Forza Italia e compagna del Cav. – 5 settembre)

3) Zero

Ventotene, Mario Adinolfi si candida a sindaco e prende zero voti. Nessuna preferenza per il leader del “Popolo della Famiglia”, che dichiara: “Continueremo a batterci contro il malcostume del controllo paramafioso del voto nei piccoli centri meridionali”. Adinolfi è stato battuto anche dal partito gay, che ha ricevuto 1 voto

(@MediasetTgcom24 – 13 giugno)

4) Minnie

Il deputato Fdi Giovanni Donzelli in difesa del neo viceministro alle Infrastrutture Galeazzo Bignami per la foto con la svastica: “Non vuol dire che è nazista. Io a Carnevale mi sono travestito da Minnie...”

(CorriereTv – 2 novembre)

5) “Sì, puzzo”

“Diranno, non può andare al governo uno che suda. Eh, purtroppo sudo. Mi faccio la barba, c’ho le braghe corte, mangio la salsiccia e sudo!”

(Matteo Salvini apre la campagna elettorale con un comizio a Domodossola – 24 luglio)

6) Now I've had the time of my life

Luigi Di Maio in versione Dirty Dancing, i camerieri di una trattoria di Napoli lo fanno “volare”. “S'è divertito e ha lasciato 50 euro di mancia”

(CorriereTv e Il Mattino. Poi, il clamoroso tonfo elettorale – 14 settembre)

7) Il testimone

La gaffe di Alessandro Di Battista, ospite a Di Martedì su La7: “Io testimone oculare, nel senso che ho letto”

(CorriereTv – 3 febbraio)

8) Il cecchino

Crisi Ucraina, la profezia del deputato dem Piero Fassino a Otto e Mezzo: “Non prevedo l'invasione dell’Ucraina, arrivare a Kiev sarebbe azzardato per Putin”

(La7.it – 28 febbraio)

9) Il signor candidato Presidente della Repubblica del centrodestra

Il patron del Monza Silvio Berlusconi scatenato durante la cena natalizia del club: “Se vincete contro Milan e Juve vi faccio arrivare nello spogliatoio un pullman di tr*ie”

(Corriere dello Sport – 13 dicembre)

10) Stoica

“A 15 anni in estate alcuni giorni lavoravo in un bar mentre i miei amici andavano al mare. Poche ore, dalle 12 alle 16. Finito il turno mi regalavano un gelato e se andava bene delle patatine. Si parte sempre dal basso ragazzi. Sacrificio e 'fame'. Credo sia ciò che manca oggi”

(Hoara Borselli su Twitter – 25 giugno)

11) Agenzie indimenticabili

Il leader M5S Giuseppe Conte arriva a piedi a casa ma nessuno gli apre

(Ansa – 16 luglio)

12) Draghi e i termosifoni

“Ci chiediamo se il prezzo del gas possa essere scambiato con la pace. Di fronte a queste due cose, cosa preferiamo? La pace oppure star tranquilli con il termosifone acceso, anzi, ormai con l'aria condizionata accesa tutta l'estate? Preferite la pace o il condizionatore acceso?”

(Il premier Mario Draghi in conferenza stampa dopo l'approvazione del Def – 7 aprile)

13) Ma quale crisi di governo

“Domattina mi sveglio assolutamente sereno: sarà una bella giornata, ne sono sicuro”

(Enrico Letta alla Festa dell’Unità di Roma. Nelle ore successive, il tracollo del governo Draghi – 19 luglio)

14) La svolta

“Io in questo momento ho gli occhi di tigre: non ho nessuna intenzione di perdere queste elezioni”

(Il segretario Pd Enrico Letta a Mezz'ora in più, su Rai 3. Perderà le elezioni – 24 luglio)

15) Una campagna elettorale che ancora emoziona

“Per molti di voi io sono un esperto di 'First reaction shock', o di 'shish', linguaggi quasi più complessi del corsivo”

(Matteo Renzi sbarca su TikTok – 1 settembre)

16) Saluto! Romano

Il saluto fascista dell’assessore Romano La Russa? Fratelli d'Italia lo spiega così: “Invitava i presenti ad astenersi dal farlo”. Dopo quasi 24 ore, La Russa ha usato la stessa ricostruzione: “Un gesto che ho cercato comunque di evitare in tutti i modi, come confermano le stesse immagini e i video, che forse potrebbero essere fraintesi”

(Fatto Quotidiano – 21 settembre)

17) Corriere.it: “Cucchi, la sentenza in Cassazione: condanne confermate, 12 anni ai carabinieri”

“Prendo atto...”

Salvini, non si scusa per ciò che disse?

“Cioè, io dovrei scusarmi per le mie idee? Io sono contro ogni tipo di droga”

Stiamo però parlando della condanna di carabinieri…

“Eh, se sono stati condannati vuol dire che hanno sbagliato, cosa dovrei commentare scusi...”

Si ferma così?

“Se vuole saltello... se vuole saltello” (saltella e ride, ndr) (Matteo Salvini rispondendo alle domande di alcuni cronisti – 12 aprile)

18) C'ha fatto pure lo spelling

“William J. AMPIO”. Figuraccia di Alessandro Orsini con il traduttore automatico. Durante un intervento web, Orsini non si è accorto di aver tradotto dall'inglese anche il cognome dell'autore dell'articolo citato

(Il Giornale. Nei successivi interventi su YouTube, ribadirà qualcosa tipo: vi ho fregato come al solito, una strategia, un “ampio errore” per portare visitatori al canale... – 19 dicembre)

19) Sangiuliano: “Villa Verdi è un patrimonio da tutelare”. Risponde Sangiuliano: “Condivido le sue parole”

Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano si dà ragione da solo su Twitter. L’ironia sul web

(Open – 16 novembre)

20) “La Russa legge la Gazzetta dello Sport mentre presiede il Senato”

“Mi scusi, ma qual era il problema? La mia mattina è fatta di cappuccino, Gazzetta dello Sport e Corriere della Sera, il resto è rassegna stampa... Poi sa, sono interista, è la prima cosa che leggo. Sono un amante del giornale cartaceo, io: non ho bisogno di nascondermi”

(Ignazio La Russa da vicepresidente del Senato, intervistato dalla Gazzetta dello Sport – 30 luglio. Due mesi dopo si prenderà la presidenza...)

21) Nel frattempo, i democratici

Congresso Pd, il sindaco di Bologna Matteo Lepore: “Il nuovo nome del partito potrebbe essere PaDeL”

(La Repubblica Bologna – 1 dicembre)

22) Un giorno qui sarà tutto Twiga

La ministra del Turismo Daniela Santanchè vuole eliminare le spiagge libere: “Piene di tossicodipendenti e rifiuti”

(Il Fatto Quotidiano – 13 dicembre)

23) Decretare d'urgenza

“Nei rave party ci sono, nell’ordine: orge; sesso; vomito; mancanza di servizi igienici; sesso all’aperto in pubblico; stupefacenti; ragazzi sballati; ragazzi allucinati; ragazzi svenuti; è questo che volete per il futuro del Paese? Le generazioni-zombie?”

(Michaela Biancofiore, senatrice di Civici d’Italia, a Tagadà su La7 – 3 novembre)

24) Devianze

“È il momento di scegliere da che parte stare. Noi stiamo con Giorgia Meloni”. Segue elenco di “DEVIANZE GIOVANILI”: “droga, alcolismo, tabagismo, ludopatia, autolesionismo, obesità, anoressia, bullismo, baby gang, hikikomori”

(Fratelli d’Italia, profilo ufficiale: tweet poi cancellato – 22 agosto)

25) Exit

“A Milano noi avevamo superato l’asticella del 3%, qualcuno ci ha fregato i voti, questo è sicuro. Guarda caso ci siamo fermati al 2,99... guarda caso! Dai ragazzi, su. Più avanziamo, più il Palazzo farà di tutto per metterci i bastoni tra le ruote: hanno una paura fottuta!”

(Gianluigi Paragone, leader di ItalExit, a La corsa al voto, La7 – 12 agosto. ItalExit flopperà pesantemente anche alle politiche di settembre: zona 2% ed esclusione dal Parlamento)

26) Di cultura si mangia

Il deputato Aboubakar Soumahoro: “Come mi sono mantenuto in questi anni? Ho scritto un libro”

(Il Messaggero – 25 novembre)

27) iNpiegato

Lorenzo Fontana scrive “inpiegato” al posto di “impiegato”. L'errore grammaticale (ripetuto due volte) del presidente della Camera scatena l’ironia dei social

(Vanity Fair – 16 ottobre)

28) W l'umiliazione

“Quel ragazzo deve fare i lavori socialmente utili, perché soltanto lavorando per la collettività, per la comunità scolastica, umiliandosi anche. Evviva l’umiliazione che è un fattore fondamentale nella crescita e nella costruzione della personalità” (Il ministro dell'Istruzione Giuseppe Valditara durante un convegno a Milano. Dirà poi: “Umiliazione? Intendevo umiltà” – 24 novembre)

29) Porcaccissimo Giuda

Milano, manifestazione a sostegno dell’Ucraina, il leader di Azione Carlo Calenda canta “Bella ciao” tra stonature e fuori sincrono: perché “noi siamo intitolati a cantare Bella ciao, porcaccissimo Giuda!”

(Rainews – 7 novembre)

30) Ha stato

Roberto Formigoni e il tweet hot in cui chiede foto di nudo: “Mi hanno hackerato il profilo”

·         I Personaggi del 2022.

Chi sale, chi scende: la classifica dei personaggi top e flop del 2022. Ecco come è oscillato il gradimento del pubblico nei confronti dei personaggi del piccolo schermo in questo ultimo anno di televisione. Novella Toloni il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Reality, show, talk ma anche programmi di intrattenimento, talent e fiction. Sono tanti i format che portano sullo schermo piccoli e grandi personaggi, che entrano nel cuore dei telespettatori o finiscono nel dimenticatoio dopo poche comparsate. È la dura legge della tv e i volti noti lo sanno. E siccome a fine anno le classifiche si sa piacciono, ecco chi sono i personaggi che hanno deluso e quelli che hanno incantato il pubblico in questo ultimo anno.

Personaggi al top

Il conduttore della celebre trasmissione per ragazzi degli anni '90 "Bim Bum Bam" era sparito dalla scena, ma grazie alla partecipazione al Grande fratello vip Marco Bellavia ha avuto una nuova occasione per farsi conoscere. Nella Casa il presentatore si è fatto subito apprezzare per la simpatia e la voglia di mettersi in gioco dopo anni trascorsi lontano dalla tv. Ma il brutto episodio di bullismo, di cui è stato vittima nel reality, ha mostrato un lato più profondo e personale di Bellavia, che lo ha avvicinato ancora di più ai telespettatori. Da una brutta pagina di televisione Bellavia ha saputo risorgere come personaggio positivo e empatico in grado di trasmettere messaggi forti e profondi, che il pubblico ha colto e apprezzato.

Dopo la vittoria di Ballando con le stelle Arisa ha vissuto un anno intenso e difficile, nel quale si è messa alla prova come persona e personaggio. La fine della travagliata relazione con il danzatore Vito Coppola l'ha colpita e affondata tanto da farla cambiare anche nel fisico, visibilmente dimagrita. La cantante non ha però mai smesso di mostrarsi con pregi e difetti soprattutto sui social network. È tornata ad Amici di Maria De Filippi dopo un anno di assenza, rimettendosi nuovamente in gioco con i nuovi talenti. Ha affrontato gli hater del web, pubblicando screenshot di offese e insulti social. Ha replicato a chi la accusava di essere troppo buona ("ma non scema") a Le Iene e ha svelato di essere "una persona che muore e rinasce continuamente" tutto grazie alla forza di volontà.

L'anno d'oro dei Maneskin potrebbe prolungarsi ma intanto, tirando le somme del 2022, la band romana può dire di avere infranto più di un record. Dopo la vittoria all’Eurovision song contest e il cambio di manager, Damiano, Victoria, Ethan e Thomas hanno conquistato letteralmente il mondo come prima rock band italiana in un tour mondiale con la maggior parte delle date sold out. Poi sono arrivati i premi internazionali (un American music awards, un Billboard Music Awards, un Fonogram Awards, un European music awards e un MTV Video Music Awards), le copertine su riviste di prestigio e le ospitate televisive in America (nello show di Jimmy Fallon). I numeri di ascolto brani e biglietti venduti per i live sono impressionanti e testimoniano come i quattro romani siano diventati un fenomeno globale.

La regina di quest'ultimo anno di televisione è senza ombra di dubbio Silvia Toffanin. La conduttrice di Verissimo con il suo garbo, il suo sorriso e la sua empatia ha saputo conquistare il pubblico e anno dopo anno ha dato un volto alla sua trasmissione in onda su Canale 5. Chi pensava che affidarle anche la domenica pomeriggio - con un doppio appuntamento dedicato alle chiacchierate con i volti noti del mondo dello spettacolo, della musica e dello sport - fosse troppo, si è dovuto ricredere. A premiare lo stile di Toffanin non sono solo i dati auditel, ma soprattutto l'apprezzamento dei telespettatori, che amano la bella tv.

Personaggi flop

Il 2022 si annunciava l’anno d’oro per Tommaso Zorzi, da semplice personaggio e concorrente di reality a conduttore. L’enfant prodige uscito vincitore dal Grande fratello vip 2021 era atteso alla prova del nove come condottiero di alcune trasmissioni televisive su Discovery+ ("Questa è la mia casa" e "Tailor Made" oltre al ruolo di giudice in "Drag Race") ma alla fine i dati auditel non lo hanno premiato (su Real Time Tailor Made non è andato oltre l'1,1%). "Chi dice che io faccio un flop pecca di cattiva analisi. La Rete è contenta e faremo altri progetti assieme. Io quando mi rivedo in ‘Tailor Made' mi trovo bravo e mi basta". Quando l'ego è tutto.

Dopo la fine della relazione con il tecnico della Juventus, Massimiliano Allegri, Ambra Angolioni è stata travolta dall'affetto del pubblico. Difficile non empatizzare con la sua storia di fidanzata tradita. Dopo un 2021 da dimenticare, Ambra sembrava pronta a ripartire grazie ai nuovi progetti lavorativi: il ruolo da protagonista nella fiction "Protezione Civile" e la chiamata a X-Factor per sedersi sulla poltrona di giudice. Ma è bastato un contratto d'affitto scaduto a farla precipitare dalle stelle alle stalle. La stima e la fiducia del pubblico si sono trasformate in sdegno, quando è venuta a galla la triste vicenda che la vedeva protagonista dell'occupazione abusiva dell'appartamento di Silvia Slitti, moglie dell'ex calciatore Pazzini. La vicenda è finita su tutti i giornali dopo la denuncia della event planner e oltre agli avvocati è scesa in campo persino Striscia la notizia, che ha omaggiato la Slitti con un bel tapiro d'Oro.

Memo Remigi poteva essere l'esempio di come l'età non conta quando si tratta di televisione e che l'occasione per tornare alla ribalta è sempre dietro l'angolo. Come, del resto, la buccia di banana sulla quale scivolare. Il cantante aveva attirato le simpatie del pubblico grazie alla partecipazione a Ballando con le stelle 2021 ed era stato fortemente voluto da Serena Bortone come componente fisso del cast di Oggi è un altro giorno. L'affiatamento con i colleghi, la dedizione e l'entusiasmo sono passati però in secondo piano, quando Remigi si è lasciato cogliere da un raptus ingiustificabile e ha palpato la collega Jessica Morlacchi in diretta tv. Una molestia che gli è costata il posto in Rai, critiche, polemiche e non pochi strascichi. Quelli rimarranno a lungo.

Se c’è uno sconfitto nel divorzio più chiacchierato dell’anno quello è Francesco Totti. E non parliamo di disfatte giudiziarie. Dopo l’annuncio dell’addio a Ilary, l’ex capitano della Roma aveva scelto di mantenere un basso profilo nel nome della riservatezza e della serenità dei figli. Aveva trascorso l’estate lontano dai clamori e aveva assistito a distanza a ciò che si consumava su siti, quotidiani e riviste: puro gossip. Poi ha scelto di giocarsi le simpatie conquistate rilasciando una disastrosa intervista al Corriere, nella quale ha ammesso di avere tradito Ilary (ma di non essere stato il primo) e ha accusato l’ex moglie di furto (dei fantomatici Rolex). Ma non era meglio rimanere in silenzio?

·         Le Donne del 2022.

Speciale 2022: le donne dell’anno secondo il Corriere. Virginia Nesi su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Alcune le avrete piante, altre amate e altre ancora forse criticate. Sono più di 50 le donne del 2022 scelte dalle giornaliste e dai giornalisti del Corriere, e qualcuna mancherà all’appello.Dall’alto in basso: Annie Ernaux, Olena Zelenska, Serena Williams, Taylor Swift, Sanna Marin, Francia Márquez, Oleksandra Matviychuk, Meghan Markle, Giorgia Meloni, Mahsa Amini, Samantha Cristoforetti

Sono giovani, adulte, anziane che oltre a incrociare generazioni, uniscono piazze, palcoscenici, schermi, spazi e Paesi. Sono politiche, attrici, registe, cantautrici, sportive, scrittrici, scienziate, imprenditrici, attiviste, ragazze e cittadine comuni.

Magari scorrendo i loro volti ce ne sarà qualcuno a voi poco familiare. Ma noi abbiamo almeno una ragione per raccontarvi come in un modo o nell’altro ognuna di loro abbia segnato gli ultimi dodici mesi. Segnalateci le vostre donne dell’anno a la27ora@corriere.it

Elisabetta II regina

«Queste sette decadi hanno visto straordinari progressi sociali, tecnologici e culturali di cui tutti abbiamo beneficiato; e sono fiduciosa che il futuro offrirà simili opportunità a tutti noi, specie i più giovani», Elisabetta II il 5 febbraio 2022

DI ENRICA RODDOLO «Elisabetta la Grande» per l’ex premier Boris Johnson, «Elisabetta la Costante» per lo storico Hugo Vickers. Elisabetta II è stata l’irripetibile protagonista del 2022, prima al traguardo del Giubileo di Platino (70 anni sul trono)poi con la scomparsa a 96 anni, l’8 settembre, che ha portato a Londra 500 leader e folle oceaniche per dire «Addio» alla regina-icona dell’era contemporanea. Protagonista di una nuova «Età Elisabettiana». Iniziò nei ‘50 quando per una donna il luogo quotidiano non era il vertice di un Paese, un impero. E ha svolto il suo duty fino all’ultimo, fedele alla promessa pronunciata a 21 anni. Nel 2020, in piena pandemia, rassicurò il mondo. Alla Cop26 chiese ai politici di comportarsi da statisti agendo contro il climate change. Visionaria e illuminata.

Olena Zelenska first lady Ucraina

DI FRANCESCO BATTISTINI «Che succede?». La nuova vita di Olena Zelenska è cominciata con una domanda assonnata, l’alba del 24 febbraio. Il marito presidente s’era svegliato alle esplosioni e già vestito («l’ultima volta in cui l’ho visto con una camicia»), pronto alle magliette di guerra. Da first lady a lady di ferro-e-fuoco. Un anno nel bunker, coi due figlioli. Quando conobbe Voldymyr all’università, lui non era ancora un comico, lei non pensava di mollare architettura per scrivergli le battute, entrambi ignoravano il copione della tragedia di oggi. Non s’è messa mimetiche, anzi: ha posato perfino in foto glamourous. Scandalizzando qualcuno, ma solo fuori dall’Ucraina: Olena è ormai una polena nella tempesta, l’icona della resistenza.

Amber Heard attrice

«La mia testimonianza è stata usata come intrattenimento e come foraggio per i social. Ho difeso la mia verità e la mia vita ne è uscita distrutta»

DI CHIARA SEVERGNININel 2022 Amber Heard ha perso la causa contro l’ex marito Johnny Depp: la giuria l’ha giudicata colpevole di diffamazione per un articolo in cui (pur senza nominarlo) accennava alle presunte angherie subìte durante il matrimonio. Prima ancora del verdetto, però, l’attrice si è trovata al centro di una tempesta di odio così estremo che, secondo molti esperti, allontanerà le vittime di violenza dai tribunali, disincentivando le denunce. La sentenza parla chiaro: Heard dovrà saldare i suoi conti con la giustizia (lei e Depp hanno raggiunto un accordo sul risarcimento). Ma cosa c’è di giusto in un odio così iperbolico come quello che l'ha investita? Niente. E, purtroppo, non è l'unica donna a saperlo.

Lina Khan presidente antitrust Usa

«Se i mercati ci portano in direzioni che non sono compatibili con la nostra visione della libertà e della democrazia, è obbligatorio che i governi facciano qualcosa»

DI ANTONELLA BACCARO Londinese di nascita, di origini pachistane, a 33 anni è la più giovane presidente della Federal Trade Commission, l'Autorità per la concorrenza. Docente di legge alla Columbia Law School, è stata scelta dal presidente Joe Biden. Quattro anni fa ha pubblicato sulla celebre rivista di legge Yale Law Journal un articolo in cui evidenziava l'influenza di Amazon sulle politiche pubbliche, l'abuso di posti di lavoro precari e mal pagati e i vantaggi fiscali che questa azienda è riuscita a ottenere, impedendo ai suoi concorrenti di giocare a parità di condizioni. Un saggio coraggioso che ha acceso un faro sui monopoli tecnologici e il loro impatto sul mercato, la concorrenza e la competitività.

Giorgia Meloni presidente del Consiglio

DI PAOLA DI CARO Il titolo se lo è conquistata con i voti. Che, in una campagna elettorale caldissima, l’hanno vista partire in pole position e aumentare il distacco ad ogni giro. Giorgia Meloni non ha solo segnato il 2022, ma ha cambiato la storia politica del Paese: prima donna presidente del Consiglio, per di più dichiaratamente di destra, dopo un cammino in coalizione ma anche da sola per lunghi tratti durato 10 anni, quanti ne ha compiuti il suo partito. Il difficile è stato fatto, il difficilissimo arriva ora: governare, senza più etichette. E farlo bene. Perché già nel 2023 è attesa alla prova del 9.

Elena Goitini amministratrice delegata Bnl

DI NICOLA SALDUTTI Elena Goitini, classe 1969, è stata definita la banchiera con la valigia, perché nel suo lavoro ha cambiato molti ruoli e molti luoghi, dalla Turchia alla Polonia. Nata a Milano, bocconiana che ha frequentato la Scuola Holden e l’Insead. È stata la prima donna a diventare amministratrice delegata di un grande gruppo bancario, la Banca Nazionale del Lavoro, che fa parte del gruppo Bnp-Paribas. Un settore, quello del credito e della finanza, che in questa fase di transizione, rappresenta uno snodo fondamentale per la crescita. E che potrà rivelarsi un acceleratore sul fronte della parità di genere.

Cecilia Alemani curatrice Biennale d'Arte di Venezia

«Gli artisti stanno lavorando sull’introspezione con maggiore intensità rispetto a prima. Alcune mostre roboanti oggi risultano forse fuori luogo, non proprio adatte al tempo che stiamo vivendo»

DI ROBERTA SCORRANESE Prima donna italiana alla guida dell'evento d'arte più importante del mondo (evento italiano) Cecilia Alemani ha pensato una mostra coraggiosa. Non tanto e non solo per la presenza femminile (mai viste tante artiste in esposizione alla Biennale di Venezia) quanto per il tema scelto: Il latte dei sogni, questo il titolo. Cioè un'indagine sul sogno, sull'immaginazione e sul potere creativo della mente, partendo dalle riflessioni di Leonora Carrington. Cioè temi che la nostra cultura assimila al femminile, spesso con un sopracciglio alzato, con una punta di disprezzo per tutto quello che è lavoro onirico. Il risultato è stato magico, proprio come Alemani aveva in mente.

Le donne iraniane attiviste

«Donne, vita, libertà»

DI RITA QUERZÈ Stanno facendo la rivoluzione a mani nude, senza armi, rischiando la vita.

Jolanda Renga studentessa

«Il mio sogno per fortuna non è essere bella e neanche la sosia dei miei genitori. In realtà il mio desiderio più grande nella vita è fare delle cose che contano, cose importanti, e mi piacerebbe tentare di migliorare un po’ il mondo»

DI ELVIRA SERRA Ha 18 anni, due genitori super famosi e belli (Ambra Angiolini e Francesco Renga), ma è riuscita a brillare di luce propria con un semplice discorso su TikTok, una replica a quanti si sono sentiti autorizzati a giudicare il suo aspetto paragonandola al padre e alla madre. Con dolcezza disarmante ha spiegato che finché la cosa peggiore che dicono di lei è che è brutta, allora può stare tranquilla: è abbastanza sicura che nessuno possa dire che è cattiva o egoista o insensibile. E ha chiarito che la sua ambizione più grande non è essere la sosia dei suoi genitori ma, pensate un po’, provare a cambiare il mondo. In meglio. Non è la prima volta che Jolanda Renga ci mette la faccia. Lo aveva fatto anche dopo la consegna del Tapiro a sua madre per la fine della relazione con Massimiliano Allegri. Aveva 17 anni. E un cuore già grande.

Roberta Metsola presidente Parlamento europeo

«Il popolo ucraino sta facendo la guerra anche per noi, per difendere i nostri valori»

DI FRANCESCA BASSO La presidente del Parlamento Ue Roberta Metsola stringe la mano al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, entrambi in verde militare. È il primo aprile e la foto fa il giro del mondo: prima rappresentante delle istituzioni Ue a recarsi a Kiev quando ancora la situazione era incerta e i russi avevano lasciato da pochi giorni la regione della capitale. Erano già andati in missione i premier di Polonia, Slovenia e Repubblica Ceca, ma con Metsola è l’intera Ue a portare il proprio sostegno. Un successo politico e personale. Il 2023 ci dirà se Metsola saprà fronteggiare la nuova emergenza: lo scandalo di corruzione che sta scuotendo il Parlamento Ue.

Oleksandra Matviychuk avvocata, premio Nobel per la Pace

DI MARTA SERAFINI «Sono in treno, non posso rispondere ora ma ti chiamo appena arrivo». È questo il primo messaggio che ci siamo scambiate con Oleksandra Matviychuk. Erano passati cinque minuti da quando lei e lo staff della sua ong The Center for Civil Liberties avevano saputo di aver vinto il Nobel per la pace, insieme agli attivisti russi di Memorial e all’attivista bielorusso Ales Bialiatski, tutt’ora in carcere. Oleksandra Matviychuk ha 39 anni, è donna. E comunica incessantemente il sostegno al suo Paese sotto attacco di Mosca. Ed è sicuramente un nome che sentiremo ancora, perché comunque vada a finire, in Ucraina profili come il suo e quelli del suo staff sono riusciti a emergere in una condizione di estrema difficoltà. Ma anche di grande rinnovamento.

Taylor Swift cantautrice

«Chiedetemi perché/Così tanti svaniscono/ma io sono ancora qui»

DI CHIARA SEVERGNINI «Il karma per me è un pensiero rilassante», canta Taylor Swift, 33 anni, in uno dei brani del suo nuovo album, Midnights (con cui è diventata la prima artista a conquistare tutti i primi 10 posti della Billboard Hot 100). Per lei, il 2022 è stato un anno trionfale, ma anche sereno. Una bella novità, dopo quasi una decade passata sotto lo sguardo (spesso inclemente) dei tabloid. Swift ha scelto una vita più ritirata, ha deciso di riappropriarsi dei suoi primi brani (i cui diritti erano finiti nelle mani di un produttore a lei inviso) registrandoli ex novo, ha conquistato nuovi fan. Non compone più brani livorosi, ma allegri inni alla vita. Come la canzone citata in apertura, che dice: «Il karma è il vento nei miei capelli durante i weekend». Paradigmatica.

Sanna Marin premier della Finlandia

DI CHIARA BARISON Sanna Marin ha 37 anni, da tre è la prima ministra della Finlandia. Da quel momento è entrata nella storia per essere la più giovane donna alla guida di un Paese. Nel 2022 ha dribblato prima con le parole e poi con i fatti le polemiche sui vestiti e i balli in discoteca. Ma anche quella legata all'incontro con l'omologa neozelandese Anders: «Non ci incontriamo perché siamo donne, ma perché siamo premier».Umana, anticonformista. Chissà in che modo ci farà sentire piccoli e bigotti nel 2023.

Paola Turci e Francesca Pascale cantautrice e attivista

«Ci siamo scelte»

DI MICOL SARFATTI Paola (Turci) e Francesca (Pascale), due nomi che rievocano un amore grande e di dantesca memoria.Lo scorso 2 luglio si sono unite nel matrimonio dell'anno. Non per le riviste patinate, che nemmeno hanno avuto accesso alla cerimonia, ma per i diritti. È stata la prima unione civile tra due donne così note in Italia. E non è un dettaglio. Turci e Pascale, vent'anni di differenza e vite diverse, la prima cantautrice, la seconda, ex compagna di Silvio Berlusconi, hanno coltivato il loro amore lontano dai riflettori. Mai una conferma né una smentita. Il diritto alla riservatezza e il diritto a proclamare il proprio sentimento davanti a tutti, senza dover dare spiegazioni a nessuno. «Ci siamo scelte» hanno detto nel giorno del «sì». Il senso dell'amore è tutto qui.

Gioia Rau astrofisica

«Se le persone ogni notte si sedessero e guardassero le stelle, scommetto che vivrebbero in maniera molto diversa»

DI VALENTINA SANTARPIA Da piccola guardava il cielo dalla sua stanza alla periferia di Roma e già sognava di esplorarlo: a dieci anni scrisse una lettera all'agenzia aerospaziale statunitense in cui chiese di partecipare a un campus per ragazzini americani, ma la Nasa le rispose che non era possibile. Ma la incoraggiarono a studiare così un giorno «sarebbe arrivata qui». E così è stato: Gioia Rau, oggi 33 anni, lavora al Goddard Space Flight Center della Nasa a Greenbelt, nel Maryland. Il campo della sua ricerca indaga su esopianeti e «polvere di stelle». Oggi guida numerosi progetti internazionali. Ma soprattutto promuove i valori DEIA (Diversity Equity Inclusion and Accessibility), sostenendo le donne e altre minoranze sottorappresentate nel perseguire carriere scientifiche.

Mahsa Amini ragazza iraniana uccisa dalla polizia morale

DI GRETA PRIVITERA Prima di morire, Mahsa Amini, non immaginava che avrebbe innescato una rivoluzione. Non lo sapeva quando, il 13 settembre, la polizia morale l'ha presa di forza dalle strade di Teheran, accusata di avere una ciocca che le usciva dal velo. Mahsa aveva 22 anni, veniva da Saqqez, nella provincia del Kurdistan. Le guardie hanno rassicurato il fratello: «Farà un breve corso sull'hijab e la rilasciamo». Tre giorni dopo, la notizia: Mahsa è morta, uccisa dalle botte del regime. Le prime a scendere per le strade sono state le ragazze con lo slogan «Donna, vita, libertà». Poi sono arrivati i ragazzi, i genitori, i lavoratori. Insieme, hanno trasformato le proteste in rivoluzione, la più grande dal 1979. Centosei giorni non si sono ancora fermati, nonostante i 500 manifestanti uccisi e i 18mila nelle carceri. Ogni giorno il popolo d'Iran marcia sotto il suo, potentissimo, nome: Mahsa Amini.

Cristina Franceschi medico, presidente Fondazione Roberto Franceschi onlus

«Ieri come oggi, continuare a interrogarsi è fondamentale, perché non esiste un’unica e dogmatica verità e la conditio sine qua non per un approccio al mondo è cogliere e pesare diversi aspetti con attenzione e pensiero critico»

DI SILVIA MOROSI La morte di un fratello è la perdita di una parte di sé. La morte di un fratello per mano dello Stato che avrebbe dovuto difenderlo è un dolore che non ha spiegazione. In quel dolore “privato” Cristina (insieme alla madre Lydia, scomparsa nel 2021) ha trovato la forza non solo per cercare la verità, ma anche quella per portare avanti gli ideali e i valori civili di Roberto. La Fondazione che porta il suo nome racconta alle nuove generazioni il valore della memoria per comprendere il presente e come base per progettare il futuro, e si impegna per costruire un modello di convivenza ispirato ai valori della nostra Costituzione. Una Carta che, all’articolo 34, pone il diritto allo studio e all’istruzione come uno dei valori principali per consentire a tutti la piena cittadinanza e un posto nella società civile.

Della Passarelli editrice, scrittrice

«Il nostro progetto è rimasto intatto: l’intercultura prima di tutto e il diritto per imparare a rispettarci»

DI PAOLO FALLAI Della Passarelli è presidente e fondatrice nel 1990, insieme ad Antonio Spinelli, di Sinnos Editrice, una cooperativa sociale nata nel carcere di Rebibbia dall'incontro di volontari del CIDSI (Centro Informazioni Detenuti Stranieri in Italia) e di alcuni detenuti. È lei stessa scrittrice per bambini. Il nome, Sinnos, che in sardo significa «segni» gliel’ha dato un ragazzo di passaggio nella saletta dove lavoravano. Nei loro libri nessuno si sente straniero. E non dipende dal Paese di nascita. Per questo è stato fondamentale l’impegno contro la dislessia e perché libri e lettura fossero accessibili a tutti. Nel 2006 è stata progettata la font «leggimi» per chi ha difficoltà. E presto altri editori hanno cominciato a utilizzarla.

Antonella Viola immunologa

«Oggi il problema è usare l’analisi di genere nella scienza. Se non distinguo i risultati per genere, perdo cose importantissime o non vedo alcuni problemi. Nella medicina ci sono tante differenze, dalla risposta al dolore, agli effetti dei farmaci. Stiamo curando corpi diversi con una medicina creata per curare solo maschi»

DI FRANCESCA VISENTIN Antonella Viola, immunologa e professoressa Ordinaria di Patologia Generale a Scienze Biomediche all’Università di Padova, è in prima linea sul tema della medicina di genere. Ha scritto anche un saggio «Il sesso è (quasi) tutto. Evoluzione diversità e medicina di genere» (Feltrinelli), in cui in modo chiaro e divulgativo, guida tra stereotipi, scienza, biologia e fisiologia. E chiarisce che la rivoluzione, anche scientifica, e il cambiamento possono iniziare proprio dalla medicina di genere. Invitando a correggere il tiro con urgenza di una medicina che per secoli è stata una medicina dei maschi bianchi per i maschi bianchi: uno squilibrio gravissimo che significa rinunciare alla cura.

Vanessa Nakate attivista ambientale

DI EDOARDO VIGNA L'attivista ugandese per la lotta al cambiamento climatico è sempre stata un passo indietro rispetto Greta Thunberg. Quest'anno è stata anche la leader svedese del movimento Fridays For Future a indicarla come nuovo punto di riferimento. Alla Cop27, la Conferenza Onu per il clima che si è tenuta a Sharm el-Sheikh, è stata lei ad andare al posto dell'amica e a tenere alta la bandiera dei Paesi in via di sviluppo e le loro rivendicazioni di risarcimenti per danni e perdite, soprattutto dei Paesi africani. Nel nuovo anno sarà sempre di più lei il volto e la voce di questa battaglia, che è anche la battaglia dei giovani di cui è portavoce.

Levante cantautrice

DI FRANCESCA ANGELERI «Io che twerko sull’armocromia» scriveva su Instagram Levante pochi giorni dopo aver mandato all’aria un’immagine iconica di sé ed essersene fregata di una parola «galera»: palette. Che fatica quel sottofondo, come la voce irritante di tua madre, che ti fa notare quanto tu stia bene come piace a lei. L’armocromia è la nuova dea di un olimpo fashion poco convincente. Forte, forse, della sua ugola così come del suo carattere e della sua bellezza, Levante è passata, libera, dall’essere la donna perfetta per una campagna D&G Sicilia style e una Greta Garbo elettro-magnetica che non rinuncia a ciò che davvero le piace. E al coraggio per attuarlo.

Kateryna Rozdymakha mamma

«Vivere è ogni giorno una sfida. Dalla guerra in Ucraina alle tante guerre ogni giorno sul mio cammino. Sono sola con il mio bambino, ma assisterlo e crescerlo mi ha resa più forte. Per lui posso combattere ogni battaglia»

DI FRANCESCA VISENTIN Kateryna Rozdymakha, 22 anni, fuggita dalla guerra in Ucraina con il suo bambino disabile di tre anni: quattro giorni di viaggio sotto bombe e cecchini, da sola, senza nessun aiuto, con la forza dell’amore, per arrivare in Italia. «Non ce la farai, è impossibile» le ripetevano tutti. Ma per Kateryna contava solo mettere in salvo il suo piccolo. Ce l’ha fatta. E la sua battaglia continua ogni giorno, anche fuori dalla guerra, come caregiver 24 ore su 24 del suo bambino disabile grave. Una dedizione e una resistenza, così giovane, che ha del miracoloso. Kateryna è simbolo di tante ragazze e donne sconosciute, ma eroiche ogni giorno, nel quotidiano, capaci di imprese eccezionali, mai piegate dalla durezza della vita.

Stéphanie Frapp artarbitra

«Non mi ispiro a qualcuno come modello. Penso che ognuno sia unico, quindi non si può basare la propria personalità su qualcun altro. Devi crescere te stesso. Non sono un uomo, non posso seguire un modello maschile»

DI RAFFAELLA CAGNAZZO L'orgoglio e l'onore di essere arrivata là dove - fino al primo dicembre - esisteva un tabù: è la prima donna ad aver arbitrato una partita, Germania-Costa Rica, ai Mondiali di calcio maschili di Qatar 2022. In una edizione controversa, Stéphanie Frappart ha fatto valere il suo studio e i suoi allenamenti. «Quando ho scoperto che avrei arbitrato, l'emozione è stata enorme, non me l'aspettavo», ha detto. Una gavetta lunga la sua, salendo un gradino alla volta la scala delle delegazioni. I capelli strettissimi, raccolti a coda; lo sguardo severo, deciso ma mai duro. È stata capace di farsi rispettare e apprezzare in un ruolo per tradizione di appannaggio maschile. E con il suo fischietto in bocca, la sua preparazione ha fatto la storia.

Alba Berneo attivista ambientale uccisa in Ecuador

DI SARA GANDOLFI Alba è stata assassinata la notte del 22 ottobre nel comune di Molleturo, in Ecuador, un territorio dove dominano bande criminali che gestiscono miniere clandestine di oro. Alba si è rifiutata di consegnare loro una gru. Aveva 24 anni ed era incinta di cinque mesi. Era nota nella zona per le sue battaglie contro la proliferazione di miniere e per il diritto all'acqua delle comunità locali e alla protezione degli ecosistemi. Ogni due giorni nel mondo viene ucciso un ambientalista o un difensore della terra, secondo i dati raccolti da Global Witness nel rapporto «Decade of defiance».Circa uno su dieci è donna.

Paola Egonu pallavolista

«Sono l’ingranaggio di una squadra, non Wonder Woman»

DI GIULIA TAVIANI Paola Egonu ci ha ricordato che gli sportivi non sono supereroi. Anzi, sono tra i primi a subire la rabbia che i tifosi esprimono dal divano dopo una partita persa. «Fa male essere attaccata, io ci metto sempre il cuore e non manco mai di rispetto», aveva commentato dopo gli insulti per la sconfitta nella semifinale con il Brasile. Le parole pesano. E dopo quel «mi hanno chiesto se sono italiana…», Egonu aveva pensato di lasciare la nazionale di volley. Lei, che per quella nazionale, è diventata supereroina.

Le donne afghani attiviste

DI SARA GANDOLFI Private di ogni diritto, compreso quello di studiare. Costrette a tornare ombre da un regime medievale.

Marzia Bolpagni ingegnera

«Il gender gap? È un problema da risolvere e spero che il mio percorso possa motivare tante donne a intraprendere o continuare una carriera nella digitalizzazione dell’ambiente costruito, una carriera in salita ma ricca di soddisfazioni!»

DI VALENTINA SANTARPIA Definita da Forbes una stella dell'ingegneria in Inghilterra, la 33enne bresciana è stata inserita tra le 50 donne più influenti nel campo delle Stem (Inspiring Fifty). È un'esperta di digitalizzazione dell'ambiente costruito e guida il settore nel colosso Mace. Nel 2021 è stata nominata giovane ingegnere dell’anno dalla Royal academy of engineering. La sua ambizione: colmare il divario tra accademia ed industria. È a capo della commissione di Standardizzazione e Modellazione del gruppo europeo di computazione per le costruzioni (EC3). Guida anche un gruppo di lavoro europeo sulla digitalizzazione delle costruzioni dove rappresenta l’Italia (UNI) ed è l’autrice di riferimento dello standard europeo EN 17412-1 sulla definizione del livello di fabbisogno informativo.

Brunella Chiù dispersa dell'alluvione nelle Marche

DI FABRIZIO CACCIA Brunella Chiù, 56 anni, di Barbara (An), è l’unica dispersa dell’alluvione nelle Marche del 15 settembre (12 vittime accertate). Un’onda di fango la portò via con la figlia Noemi, 17 anni, il cui corpo è stato ritrovato. Figlia di contadini, abbandonata dal marito per un’altra donna, «faceva tanti lavori per mantenerci», dice l’altro figlio, Simone, 23 anni, ora rimasto solo. Un’amica, Dorotea, aggiunge: «La spingevo a rifarsi una vita. Le dicevo: andiamo in discoteca! Lei rideva, ma poi diceva no».

Annie Ernaux scrittrice, premio Nobel per la Letteratura

«E come al solito, era impossibile determinare se l’aborto era proibito perché era un male, o se era un male perché era proibito. Si giudicava in base alla legge, non si giudicava la legge»

DI JESSICA CHIA La limpidezza della scrittura che viviseziona la realtà; il racconto del sé che si fa racconto universale: nelle sue opere, la scrittrice Annie Ernaux (Lillebonne, Normandia, 1940) si ispira alla sua autobiografia, che poi è storia di un’epoca. Così narra le umili origini della famiglia, la lotta per la giustizia; la condizione della donna, la libertà sessuale e la storia del suo aborto clandestino, avvenuto a 23 anni (e raccontato ne «L’evento», edito da L’orma). Lo scorso ottobre è stata insignita (prima donna in Francia) del Nobel per la Letteratura «per il coraggio e l’acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale».

Chiara Ferragni imprenditrice digitale e influencer

ANSA «Commenti misogini, in cui mi si prende in giro per il mio aspetto fisico, o perché sono mamma. Non fate finta che questa sia libertà di pensiero, questa è maleducazione sotto tutti i punti di vista»

DI ALICE SCAGLIONI Imprenditrice digitale da milioni di euro, mamma (di Leone e Vittoria), moglie (del cantante Fedez) e presto co-conduttrice del Festival di Sanremo 2023. Che Chiara Ferragni, cremonese d'origine e milanese d'adozione, avesse una marcia in più si era già capito fin da quando, nel 2015, Forbes l'aveva incoronata «Miglior fashion influencer al mondo». La conferma è arrivata negli anni successivi. Quest’anno, oltre ai successi professionali, Ferragni ha dovuto affrontare – anche pubblicamente – la malattia del marito Fedez, operato a marzo per un tumore. Ma il 2022 è stato anche l’anno delle prese di posizione: la difesa dei diritti delle donne, l’invito al voto a settembre, le risposte agli hater.

Sofia Goggia sciatrice

«La competizione è la mia zona di comfort. Là trovo consapevolezza, sono felice di potermela giocare fino in fondo. Di mettermi in gioco, di sfidare prima di tutto me stessa. E i miei limiti»

DI MARIA LUISA AGNESE Che Sofia Goggia fosse un’atleta alfa lo sapevamo da tempo. Ma nel 2022 ha dimostrato di essere tanto di più, di avere una forza che va oltre la resilienza, che non subisce la vita e le sue prove ma le affronta con consapevole incoscienza e fa di lei un modello per tutti/e, per chi è sfrontato e per chi non lo è. Dopo una vita di medaglie e di inenarrabili cadute e infortuni, Sofia a 30 anni ancora si rialza e non ci piange un minuto. E ricomincia a salire in vetta. Il 17 dicembre, a Saint Moritz, dopo essere stata operata il giorno prima, ha leggendariamente vinto scendendo con una mano rotta in 1.28.85. «A Pechino era una gamba, qui una mano. Cosa volete che sia?».

Cristina Scuccia cantante

DI CHIARA MAFFIOLETTI Senza velo, con un po’ di trucco e i capelli lunghi sciolti sulle spalle, si è presentata a tutti Cristina Scuccia, la 34enne siciliana nota fino a quest’anno come Suor Cristina. Nel 2014 aveva vinto il talent show The Voice, al motto: ho un dono, ve lo dono, riferito alla sua voce angelica. Ora, passato qualche anno, la giovane donna si è presentata con una consapevolezza e, se possibile, perfino con una serenità diversa: quella di una persona che non deve dimostrare nulla, che ha avuto il coraggio di cambiare strada senza snaturarsi. Oggi lavora come cameriera e nel mentre porta avanti la sua passione per la musica. Crede in Dio e nei valori che ha anche cantanti. Solo, a modo suo.

Simone Leigh artista

DI FRANCESCA PINI Simone Leigh (Chicago, 1967), è stata la prima artista donna afroamericana a rappresentare gli Usa alla 59esima Biennale di Venezia, trasformando il padiglione costruito ai Giardini nel 1930, in una capanna di un villaggio africano, al cui interno erano installati 11 suoi nuovi lavori. È stata insignita del Leone d’Oro quale miglior artista per la scultura Brick House. Si è posizionata al settimo posto tra le 100 persone più influenti del 2022 nel mondo dell’arte. Il suo lavoro è principalmente basato sull’empowerment delle black women, sulla riflessione relativa al colonialismo, alla diaspora africana e alle pratiche razziali.

Bianca Balti modella

DI MARIA TERESA VENEZIANI Bianca Balti conferma la regola di questo 2022: la forza della fragilità femminile. La top model 38enne ha condiviso ogni momento della propria vulnerabilità durante l’operazione di mastectomia preventiva alla quale ha deciso di sottoporsi dopo aver scoperto di avere la mutazione genetica BRCA1, che eleva esponenzialmente al rischio di tumore al seno (la stessa decisione è stata presa tempo fa da Angelina Jolie). Bianca, che Playboy nel 2014 definì la donna più sexy del mondo, è consapevole della sua bellezza e ci gioca anche, ma non ci sta a fare la bella statuina. Dalla sua casa di Los Angeles usa la propria fama (social) per dare voce alle donne di ogni etnia e credo; e soprattutto mette a nudo sé stessa in nome di una libertà che va difesa sempre, anche da quello che credevi amore e invece era solo dipendenza. Capita anche quando ti chiami Bianca Balti.

Francesca Bellettini presidente e amministratrice delegata Yves Saint Laurent

«Abbiamo anticipato alcune scelte che sapevamo avrebbero inizialmente potuto contrarre il fatturato per renderci però più forti. Ci vuole coraggio nella visione»

DI EMILY CAPOZUCCA Bocconiana, radici romagnole. Francesca Bellettini, presidente e amministratrice delegata di Saint Laurent, si è fatta strada tra le top manager fino a essere inclusa tra le 25 donne più influenti del 2022, secondo il Financial Times. L’unica italiana nella lista, che dal 2013, anno in cui ha preso in mano la maison, ha moltiplicato i ricavi dell’azienda. Il suo segreto? «Riposizionamento del marchio mettendo la creatività al centro» e «coraggio nella visione».

Elly Schlein politica

«C’è una bella differenza tra le leadership femminili e femministe. Sono una donna, amo un’altra donna, non sono una madre, ma non per questo sono meno donna. Non siamo uteri viventi, siamo persone con i loro diritti»

DI ELENA TEBANO Candidata alle primarie per la segreteria del Pd Elly Schlein vuole provare a fare quello che ha sempre fatto nella sua già lunga carriera politica: scompaginare le carte e cambiare dall’interno il più grande partito della sinistra. Un’impresa tutt’altro che semplice. Ma se qualcuno ci può riuscire è questa 37enne rampolla di una famiglia di intellettuali antifascisti (il nonno era l’avvocato e partigiano senese Agostino Viviani). Alle ultime elezioni regionali dell’Emilia Romagna è stata la più votata, e per questo è diventata la vicepresidente della Regione, dimostrando di saper lavorare anche con gli avversari interni. Per le primarie ha ripreso la tessera del Pd, da cui era uscita in polemica contro la gestione del partito. Ed è la prima donna dichiaratamente queer a correre per la leadership di un partito nazionale. Comunque andrà, sentiremo a lungo parlare di lei.

Meghan Markle duchessa di Sussex

DI ALICE SCAGLIONI Le lacrime davanti alla telecamera, il goffo e profondissimo inchino sul divano a mimare il primo incontro con la regina Elisabetta, le immagini inedite finora gelosamente custodite e ora a disposizione di tutti coloro abbiano un account Netflix: quest’anno Meghan Markel ha rivoluzionato – probabilmente al punto di non ritorno – la comunicazione sua e del principe Harry in quanto ex membri della Royal Family.

Samantha Cristoforetti astronauta

Siamo un battito di ali delle stelle»

DI JESSICA CHIA A 45 anni, l’astronauta, pilota e ingegnera Samantha Cristoforetti (Milano, 1977) è stata la prima donna europea (la quinta tra gli astronauti dell’Esa) a comandare la Stazione spaziale internazionale (Iss) con la missione Minerva, dalla quale è tornata lo scorso ottobre dopo aver trascorso in orbita quasi sei mesi. Cristoforetti è stata anche la prima astronauta europea a compiere una «passeggiata spaziale» e, nel 2014, è stata la prima italiana a viaggiare nello spazio. A Terra, il suo impegno prosegue nella divulgazione scientifica, che è arrivata anche sui social: su TikTok ha raccontato il suo diario di bordo rivolgendosi ai più giovani. Un modello per il nostro Paese e per intere generazioni di donne.

Francesca Nonino influencer della grappa

«Si può essere professionisti anche divertendosi. Con ironia, semplicità e un sorriso si può parlare di qualsiasi argomento e renderlo più interessante»

DI CHIARA BARISON Portare avanti la tradizione di famiglia ed essere al passo con i tempi. Francesca Nonino ha dimostrato che è possibile. Sesta generazione della famiglia che dal 1897 produce distillati di alta qualità in provincia di Udine, è nota ai più come influencer della grappa. Titolo arrivato «per caso», come lei stessa ha ammesso, ed è il frutto dell’orgoglio che prova per i prodotti di famiglia.

Silvana Sciarra presidente della Corte Costituzionale

DI IRENE SOAVE In un anno in cui di lavoro e diritti si è parlato molto, la nuova presidente della Consulta eletta a settembre è una giuslavorista. Certo, è - anche - la seconda donna a ricoprire questa carica (dopo Marta Cartabia). Ma il suo non è un ruolo di rappresentanza. Sciarra è soprattutto, e fra l'altro, firmataria di sentenze e pronunce che tutelano le lavoratrici; ha dichiarato ad esempio «indifferibile» la riforma delle norme sui licenziamenti, e «discriminatoria» una limitazione del bonus bebè.

Brittney Griner giocatrice di basket

«Sono una donna nera, lesbica e forte. Ogni volta che lo dico ad alta voce, mi sento più potente»

DI GAIA PICCARDI La donna giusta nel posto sbagliato al momento sbagliato. Quando il 17 febbraio i doganieri dell'aeroporto di Mosca fermano Brittney Griner per possesso di olio di cannabis, è chiaro a tutti che il caso diplomatico tra Russia e Usa non si risolverà a breve. Una settimana più tardi il governo di Mosca ordinerà l'aggressione dell'Ucraina, gli Usa nemici storici si schierano con il presidente Zelensky, la campionessa di colore due volte oro olimpico e sei volte regina della Women Nba, omosessuale dichiarata, diventa una pedina di scambio sullo scacchiere internazionale. Griner infatti, condannata a 9 anni per detenzione di droga, viene liberata l'8 dicembre dopo 294 giorni di carcere in cambio dell'estradizione di Viktor Bout, trafficante d'armi russo in mano agli Usa. Un pesce grosso in cambio di una donna-simbolo.

Francia Márquez vicepresidente e ministra dell'Uguaglianza Colombia

«Sono perché siamo»

DI VIRGINIA NESI Non l'hanno fermata né le minacce di morte né le granate dell'attentato del 2019. Attivista afrocolombiana, avvocata, Nobel del medioambiente e paladina del popolo, Francia Márquez ha messo all'angolo le multinazionali e lottato contro le estrazioni illegali di oro. È la prima donna afrodiscendente diventata vicepresidente della Colombia. Da madre single ha fatto la domestica per pagare le bollette e mantenere i figli. Adesso porta nelle stanze di Palazzo Nariño lo sguardo e la voce dei nadie, gli invisibili: afrocolombiani, indigeni, uomini e donne impoverite e schiavizzate. Rivendica così pace e giustizia. Parola chiave: dignità. Francia Márquez è lei la donna del riscatto del 2022.

Serena Williams tennista

DI MANUELA CROCI È stata numero 1 al mondo per circa sei anni e ha conquistato 73 titoli di cui 23 nei tornei del Grande Slam. Serena Williams, 41 anni, con una lettera pubblicata su Vogue America ha annunciato il suo addio dal tennis professionistico. «Non mi piace la parola “ritiro”, preferisco “evoluzione” per parlare del prossimo passaggio». Era il 9 agosto 2022. Poco meno di un mese dopo, agli US Open è uscita al terzo turno. «Ho giocato mentre allattavo, ho giocato con una depressione post partum», scriveva nella lettera. «Ma in questi giorni, se devo scegliere tra il migliorare il mio curriculum nel tennis e migliorare la mia famiglia, scelgo la seconda». Una sorellina o un fratellino per Olympia? Forse. Intanto sul suo profilo Instagram da 16 milioni di follower non si vedono né racchette né palline. Una sola la frase per definirsi: «I’m Olympia’s mum».

Selena Gomez cantante e attrice

«Parlare di salute mentale dovrebbe essere semplice come parlare di un rossetto»

DI GIULIA TAVIANI È uscito quest’anno il documentario di Selena Gomez «My Mind & Me» nel quale affronta la sua lotta contro il disturbo bipolare e contro il Lupus, per il quale ha subito un trapianto di rene. Gomez, in prima linea sul tema delle malattie mentali, aveva un obiettivo chiaro per questo film: «La gente è spaventata a mostrarsi così onesta con sé stessa. Non bisogna vergognarsi di far sentire la propria debolezza e la propria voce. Ogni voce ha un senso».

Billie Eilish cantautrice

DI BENNY MIRKO PROCOPIO «Trust the process», fidati del processo, dicono negli Usa. Dal punto di vista della produzione musicale il 2022 di Billie Eilish è stato un anno di «process», di lavoro al terzo album. Ma la regina del pop contemporaneo è riuscita a marchiare l’anno in corso affrontando concretamente una delle tematiche di cui parla con la sua musica. Il tour mondiale è stato all’insegna della sostenibilità: eco-village, 940mila dollari raccolti per le ong, più di 30 milioni di litri di acqua risparmiata e la compensazione totale delle emissioni prodotte durante gli show.

Céline Sciamma regista e sceneggiatrice

DI ALESSIA CONZONATO Da sempre il cinema è un settore dove il divario tra i generi è molto marcato. Questi non ha mai intimorito la registra e sceneggiatrice francese Céline Sciamma. Costruendo una carriera brillante, è diventata un simbolo e un esempio di femminilità e femminismo, facendo lo stesso con i personaggi - rigorosamente donne - che ha portato sul grande schermo. A ottobre 2022, ha vinto il Premio Presidente Società Umanitaria, alla prima edizione dei premi cinematografici Al femminile, per il suo film «Petite Maman» come miglior film europeo distribuito in Italia nel 2021.

Frida Bollani Magoni pianista e cantante

DI IACOPO GORI «È più importante essere bravi che famosi. Me lo hanno insegnato i miei genitori». Frida Bollani Magoni ha compiuto 18 anni nel 2022. Da quando la pandemia ci ha dato tregua, gira l’Italia suonando e cantando con il suo pianoforte e la sua voce straordinaria. Una giovane donna di talento che con il sorriso, lo studio e le sue doti è la risposta migliore a tanti luoghi comuni sui giovani. Se ancora non la conoscete seguitela su Instagram e la prima volta che vi capita andate ad ammirare la sua arte: due ore di musica ed emozioni allo stato puro.

Jia Tolentino giornalista e scrittrice

DI MARILISA PALUMBO David Remnick, il potentissimo direttore del New Yorker che l’ha assunta, l’ha associata a Joan Didion, altri hanno scomodato Susan Sontag. Ma Jia Tolentino ormai non ha più bisogno di essere spinta da un paragone eccellente: dagli articoli su Jezebel fino ai saggi che compongono Trick Mirror (NR Edizioni), pochi hanno saputo raccontare come lei le ossessioni, le illusioni e le battaglie della generazione millennial, la sua. Con il lungo pezzo pubblicato a giugno sul mondo “post-Roe” - l’America dove una Corte Suprema squilibrata a destra erode diritti che sembravano acquisiti come quello ad abortire, la società della sorveglianza e delle disuguaglianze - è in cima alla lista dei 25 articoli più popolari del New Yorker del 2022.

Patrizia Cavalli poetessa

DI DANIELA MONTI Qualcuno mi ha detto/ che certo le mie poesie/ non cambieranno il mondo/. Io rispondo che certo sì/ le mie poesie/ non cambieranno il mondo. Disperazione e speranza, impossibilità di cambiare alcunché (ma è davvero così?) e desiderio di cambiare tutto (e se in fondo, sì, qualcosa cambiasse?). È uno dei tanti sentieri percorsi da Patrizia Cavalli, la poetessa scomparsa il 21 giugno 2022. Di questi suoi viaggi, Cavalli ci ha raccontato tutto, il paesaggio descritto minuziosamente perché chi si trovasse a passare dalle stesse parti avesse il vantaggio di una mappa. Da rileggere sempre, quando ci si smarrisce.

Veronica Raimo scrittrice

DI MARCO GASPERETTI Che sia stato l’anno di Veronica Raimo non ci sono dubbi. Con «Niente di vero» (Einaudi), un romanzo di formazione capace di interpretare questi tempi pandemici e di guerra, ha vinto nel 2022 il Premio Viareggio-Rèpaci e il Premio Strega Giovani guadagnandosi l’appellativo di testimonial della letteratura che guarda alla generazione Z. Veronica Raimo è anche una sceneggiatrice (ha lavorato con Marco Bellocchio) e traduttrice.

Nicoletta Manni prima ballerina al Teatro alla Scala

DI GIAN LUCA BAUZANO Simbolo della danza al femminile oggi. Nicoletta Manni diviene Prima Ballerina della Scala non ancora 23enne, nel 2014. Un traguardo raggiunto con caparbietà: della danza ha fatto la ragione di vita professionale e personale. A 11 anni i primi trionfi a Londra e giunta alla Scala poi si lega al futuro marito Timofej Andrijashenko, nominato Primo Ballerino scaligero nel 2018. È stata in grado di portare avanti carriera e vita privata parallelamente dimostrando come disciplina, rigore e sentimento possano coesistere nel nome dell’arte. Nel luglio 2022 il fidanzamento on stage all’Arena di Verona al termine di una recita di Bolle and Friends lo ha confermato pubblicamente.

Alice Diop regista

DI ALESSANDRO TROCINO Una delle poche registe nere di Francia, e non solo, che mina le certezze della società francese, ribalta gli stereotipi e mette insieme migrazione, maternità, colonialismo, depressione, malinconia, questione sociale, mitologia, letteratura, cronaca, ambiguità morale. Alice Diop - 43 anni, francese di origine senegalese - ha vinto il Leone d’Argento a Venezia, con Saint-Omer, un film imperfetto e toccante, irritante e sconcertante. Un film che non ha una tradizione alle spalle, una fiction che sembra un documentario, un dramma legale che è anche esistenziale. La chiave è qui: «Credo di aver creato un personaggio universale. E, in questo senso, sollevo una questione politica: perché l'universalità alle persone di colore finora è stata negata».

Chiara Corapi studentessa

DI GRETA SCLAUNICH Chiara Corapi, esattamente un anno fa, ha fatto una cosa che in teoria siamo tutti pronti a fare ma in pratica, molto spesso, è più facile voltare la testa dall'altra parte. Chiara, 19enne di Cesenatico, la testa non l'ha voltata: quando, durante i festeggiamenti di Capodanno in piazza Duomo a Milano, ha visto una coetanea accerchiata, aggredita e molestata si è fatta avanti, è intervenuta e l'ha aiutata a rivestirsi e a raggiungere i soccorsi (mentre il video che ha girato con lo smartphone è finito negli atti dell'inchiesta). Quanti di noi avrebbero fatto lo stesso?

Cristiana Capotondi attrice

DI GRETA SCLAUNICH A settembre l'attrice, 42 anni, è diventata mamma della sua prima figlia. Al suo fianco c'era l'ex storico Andrea Pezzi: una scelta che aveva stupito e alimentato i gossip prima che lei chiarisse che non erano tornati insieme ma che, semplicemente, gli aveva chiesto di starle accanto in un momento delicato come la gravidanza. Un esempio, semplice ma concreto, di come amore e affetto si trasformino nel tempo. E di come si possa "essere famiglia" in tanti modi diversi.

Letizia Moratti politica

DI MARIA LUISA AGNESE Presidente della Rai, ministra dell'Istruzione, sindaca di Milano e presidente di banca. Il suo curriculum era già di tutto rispetto, ma nel 2022 Letizia Moratti ha portato l'immaginazione sulla scacchiera politica candidandosi a sorpresa e con determinazione alla Regione Lombardia, con il Terzo Polo. Un tradimento per la destra, un ingombro per la sinistra. Un'altra donna protagonista fuori canone come la Meloni che da fronti imprevisti ha provato a mutare il paradigma.

Liliana Segre senatrice a vita

DI ALESSIA RASTELLI Per trent’anni Liliana Segre, testimone della Shoah, ha parlato nelle scuole. E ora, a 92 anni, l’impegno prosegue come senatrice a vita. Il 22 giugno 2022 la relazione finale della sua Commissione contro l’istigazione all’odio ottiene l’unanimità e lei stessa, il 13 ottobre in Senato, a cent’anni dalla marcia su Roma, inaugura la legislatura. Il faro della Costituzione, l’esortazione a una politica alta e nobile, l'attenzione alla coesione sociale: quel giorno pronuncia parole destinate a restare nella storia.

Jamie Fiore Higgins autrice

DI IRENE SOAVE A un lettore italiano il suo nome dice (per ora) poco, ma il suo memoir di una carriera alla banca d'affari Goldman Sachs parla di maschilismo e invivibilità dei luoghi di lavoro. Ogni passo della carriera è stato a misura di maschio: reperibilità assoluta, battute a sfondo sessuale, congedi di maternità ultrasottili. Come molte, nell'anno delle Grandi dimissioni, si è licenziata appena ha potuto permetterselo. Goldman Sachs l'ha contestata, ma «se qualcosa cambierà nei loro standard», scrive il FT che l'ha nominata tra le 25 donne più influenti dell'anno, «sarà merito suo».

Le donne del 2022 secondo il Corriere a cura di Virginia Nesi con i testi di Maria Luisa Agnese, Francesca Angeleri, Antonella Baccaro, Chiara Barison, Francesca Basso, Francesco Battistini, Gian Luca Bauzano, Fabrizio Caccia, Raffaella Cagnazzo, Emily Capozucca, Jessica Chia, Alessia Conzonato, Manuela Croci, Paola Di Caro, Paolo Fallai, Sara Gandolfi, Marco Gasperetti, Iacopo Gori, Chiara Maffioletti, Daniela Monti, Silvia Morosi, Virginia Nesi, Marilisa Palumbo, Gaia Piccardi, Francesca Pini, Greta Privitera, Benny Mirko Procopio, Rita Querzè, Alessia Rastelli, Enrica Roddolo, Nicola Saldutti, Valentina Santarpia, Micol Sarfatti, Alice Scaglioni, Greta Sclaunich, Roberta Scorranese, Marta Serafini, Elvira Serra, Chiara Severgnini, Irene Soave, Giulia Taviani, Elena Tebano, Alessandro Trocino, Maria Teresa Veneziani, Edoardo Vigna, Francesca Visentin

·         Le Coppie unite e scoppiate del “2022.

Da leggo.it il 29 Dicembre 2022.Elena Sofia Ricci e Stefano Mainetti si sono lasciati. L'anno nero delle coppie vip si chiude con un'altra rottura. Stavolta a dirsi addio, dopo 19 anni di matrimonio, sarebbero l'attrice e il musicista, che si erano sposati nel lontano 2003. Nessuna dichiarazione ufficiale da parte dei diretti interessati, ma secondo i rumors sarebbero in crisi da tempo.

 Addio dopo 19 anni di matrimonio

L'addio sarebbe stato deciso di comune accordo, si legge su Today, dopo mesi di crisi che era diventata insanabile. Da tempo i due, che hanno una figlia, non si vedevano più insieme. Il divorzio sarebbe già nero su bianco e pronto da essere firmato. La notizia ha lasciato senza parole chi li conosce, essendo loro una delle coppie più affiatate dello spettacolo. I due si erano messi insieme da adulti. L'attrice aveva 40 anni ed era uscita dalla relazione con Pino Quartullo. Nel 2004 hanno dato alla luce la loro unica figlia, Maria. L'attrice in passato era già stata sposata con lo scrittore Luca Damiani. Un matrimonio naufragato dopo appena un anno a causa - pare - dei tradimenti di lui

Gli amori del 2022: tutte le coppie vip nate e finite quest'anno. Alessandra D'Acunto su La Repubblica il 30 Dicembre 2022.

L'anno che ci lasciamo alle spalle è stato animato da cronache rosa incredibilmente frenetiche, tra nuovi amori insospettabili e traguardi attesi, ma anche addii dolorosi, tanto tra le coppie vip italiane che tra quelle dello star system internazionale. Viaggio a ritroso tra i legami affettivi delle celebrità nati o finiti nel 2022

Nel corso di 365 giorni, può succedere una quantità di fatti inenarrabile: figuriamoci nella frenetica esistenza mediatica di una star. Con il 2022 che volge al termine è tempo di bilanci, e ripercorrendo l'anno a ritroso ci si rende conto delle tante, nuove, coppie vip che si sono formate, ma anche di tutti quegli amori, apparentemente invincibili, che sono giunti al capolinea.

Viaggio tra i legami affettivi delle celebrità, tra nuove relazioni e lunghi addii. 

I NUOVI AMORI 

Jennifer Lopez e Ben Affleck

Continuano ad essere i Bennifer la coppia più chiacchierata dell'anno, nonostante siano tornati insieme già nel 2021, a vent'anni dalla loro prima storia. Un autentico sogno per i fan, che quest'estate ha raggiunto il punto più alto con le celebrazioni del matrimonio. Jennifer Lopez, 53 anni, e Ben Affleck, 50, da veri divi, non si sono contentati di una sola cerimonia: ad una prima più privata, a Las Vegas proprio come succede nei film, ne è seguita un'altra, ancora in stile hollywoodiano, in Georgia. La sposa ha indossato in totale tre abiti, di cui l'ultimo, Ralph Lauren, con un velo di sei metri.

Le voci di crisi non mancano ma JLo e Ben non se ne sono ancora lasciati scalfire.

Billie Eilish e Jesse Rutherford

Il loro debutto come coppia, agli occhi del mondo, è stato a dir poco fashion: la cantante star della Generazione Z Billie Eilish, 21 anni, ed il collega fidanzato Jesse Rutherford, dieci anni più grande, si sono presentati in matching outfit e sotto un maxi piumone firmato Gucci sul red carpet del LACMA Art + Film Gala di Los Angeles, a novembre. Fino ad allora, i musicisti alternativi erano stati avvistati insieme solo una volta, senza ancora confermare la relazione.

Belen Rodriguez e Stefano De Martino

Non sarà un amore appena sbocciato, ma si parla pur sempre di un grande ritorno, di quelli che appassionano i più instancabili romantici. Belen Rodriguez, 38 anni, e Stefano De Martino, 33, genitori di Santiago (nove anni) sono clamorosamente tornati insieme dopo una pausa importante. Dopo il matrimonio nel 2013 ed anni successivi di instancabili tira e molla, nel periodo di separazione più lungo da Stefano la showgirl ha infatti avuto una storia con Antonino Spinalbese, padre della piccola Luna Mari, nata solo l'anno scorso.

A volte tornano, sembrerebbe per restare.

Irina Shayk e Bradley Cooper

Dalla scorsa estate, si sono fatte insistenti le voci di ritorno di fiamma all'interno di una delle coppie di famosi più amata, formata dalla modella Irina Shayk e dall'attore Bradley Cooper. A gennaio compiranno rispettivamente 37 e 48 anni: chissà che i festeggiamenti non siano un'occasione per affermare agli occhi del mondo la loro rinnovata relazione. Sono mamma e papà di Lea De Seine Shayk Cooper, una bambina di cinque anni che li tiene molto uniti. Non si sono mai sposati, ma Bradley e Irina hanno fatto coppia fissa dal 2015 al 2019. 

Dua Lipa e Jack Harlow

Parliamo di gossip freschi di stagione. La conferma della nuova coppia deve ancora arrivare, ma una cosa è certa: il rapper Jack Harlow, 24 anni, ce la sta mettendo tutta per conquistare il cuore della bella Dua Lipa, 27. In primavera, le ha intitolato una canzone del suo album. L'incontro più recente, dove si sono mostrati insieme affiatati e sorridenti, è avvenuto a dicembre ad un evento Variety dedicato alla musica, a Los Angeles. Sembra che i due abbiano anche pranzato insieme, a telecamere spente.

Kaia Gerber e Austin Butler

Una delle foto dell'anno è indubbiamente quella che li ritrae baciarsi appassionatamente sul tappeto rosso del Festival di Cannes. La figlia di Cindy Crawford Kaia Gerber, 21 anni e nome desideratissimo della moda, e l'attore Austin Butler, 31, che nel 2022 ha affermato la sua fama internazionale con il ruolo di protagonista in Elvis, sono due astri del fashion e del cinema. Il primo avvistamento della giovane coppia era avvenuto un anno fa.

Cher e Alexander Edwards

L'amore non ha età. Sicuramente nel caso di Cher e Alexander AE Edwards, ben quarant'anni di differenza. La diva 76enne difende la sua love story, resa nota a novembre, con il rapper 36enne, ex compagno di Amber Rose: "L'amore non conosce la matematica, vede". E parla senza filtri ai suoi follower della loro complicità. Per Natale, Edwards le ha fatto trovare un gigantesco diamante sotto l'albero.

Elliot Page e Mae Martin

Mae Martin e Elliot Page Sono già una coppia simbolo, sebbene anche nel loro caso manchi l'ufficializzazione da parte dei diretti interessati. Elliot Page e Mae Martin condividono tanti aspetti, dall'età, 35 anni, alla professione, entrambi attori, fino alla comune, dichiarata appartenenza al genere non binario. Hanno scelto l'eleganza al maschile per il Gala del LACMA e sono piaciuti al punto da esser già considerati una cosa sola.

Demi Lovato e Jordan Lutes

Nasce da un particolare affiatamento durante la registrazione in studio dell'ottavo album di Demi Lovato l'amore tra la cantante e Jordan Lutes, musicista indie. Quello che sembrava un fortunato sodalizio professionale si è rivelato un rapporto ben più romantico, l'estate scorsa, in occasione del 30esimo compleanno di Lovato, che pure si identifica come persona non binaria. "Sono il più fortunato al mondo ad averti al mio fianco" le ha scritto Lutes, in una dolce dedica sui social.

Kaley Cuoco e Tom Pelphrey

Sono in attesa del primo figlio insieme, l'attrice di The Big Bang Theory Kaley Cuoco, 37 anni, e Tom Pelphrey, 40. Le notizie sulla loro love story si sono avvicendate nel giro di qualche mese: se in primavera i due hanno esordito come coppia ad una premiazione sulla Walk of Fame- lei sempre vestita da grandi stilisti- è giunta in ottobre, con la gettonata la formula dell'annuncio sui social, la notizia che Cuoco fosse incinta.

Robert Pattinson e Suki Waterhouse

Il tenebroso attore Robert Pattinson, 36 anni, e la modella Suki Waterhouse, 30, sono stati bravi a tenere la loro storia lontana dai riflettori. Al punto che la  la prima comparsa ufficiale della coppia è stata segnata dalla sfilata uomo Dior a cui hanno assistito, in Egitto, a inizio dicembre. Peccato che il loro amore sia sbocciato in realtà ben quattro anni fa, eppure solo nel 2022 il vampiro di Twilight ha cominciato a parlare apertamente della sua fidanzata e portarla con sé. Una storia vecchia che sa di nuova.

Naomi Watts e Billy Crudup

Un'altra coppia che ama tenere un profilo basso. In molti, quando hanno visto Naomi Watts, 54 anni, accompagnata dal coetaneo Billy Crudup ai SAGA Awards, lo scorso inverno, hanno pensato si trattasse di un nuovo amore per l'attrice. Vogliamo considerarlo così ma è più esatto dire che Watts e Crudup si frequentano da quando, nel 2017, hanno condiviso il set di Gypsy. 

GLI AMORI FINITI

Kendall Jenner e Devin Booker

Devin Booker è l'ultimo giocatore dell'NBA, in ordine di tempo, associato a Kendall Jenner. Prima di lui, la top model della famiglia Kardashian, 27 anni, era stata infatti con altri cestisti, vedi Blake Griffin e Ben Simmons. Il fidanzamento con Devin, un anno più giovane di lei, durava tra alti e bassi dal 2020. I due hanno rotto a novembre.

Harry Styles e Olivia Wilde

Harry Styles è un ex di Kendall Jenner ed il fatto che si siano lasciati nello stesso periodo ha immediatamente riacceso i gossip su un ritorno di fiamma. L'ex cantante dei One Direction, 28 anni, è un idolo dei giovanissimi ed un'icona di moda:  da gennaio del 2021 era fidanzato con la regista Olivia Wilde, dieci anni più grande. Ma la differenza di età non è stata la causa addotta per la recente rottura. Tra le coppie di Hollywood si parla piuttosto di inconciliabità di impegni professionali.

Ilary Blasi e Francesco Totti

A Roma, in molti, ancora non se ne capacitano. Ilary Blasi, 41 anni, e Francesco Totti, 46, erano un'istituzione, una coppia che sembrava inossidabile. Sono stati sposati 17 anni e dal loro amore sono nati Cristian, del 2005, anno stesso del matrimonio; Chanel, 15 anni, e la piccolina di casa, Isabel, 6. A rendere particolarmente difficile la separazione tra Ilary e il Capitano sono state le reciproche accuse di tradimento e le dispute sui beni. Totti ha ora una nuova compagna, Noemi Bocchi. 

Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi

Anche l'addio tra Michelle Hunziker- a gennaio 46 anni- e Tomaso Trussardi, 39, non è stato un colpo facile da digerire nelle cronache rosa italiane del 2022. Risale a quasi un anno fa il comunicato congiunto in cui marito e moglie, che si erano sposati nel 2014, hanno annunciato la separazione. I genitori delle bimbe Sole e Celeste, 9 e 7 anni, continuano a spiazzare i fan facendosi vedere spesso insieme, d'amore e d'accordo. Ma la showgirl ha messo a tacere i rumors di un ritorno etichettando come "Cenetta top tra ex" una foto al ristorante, con Tomaso, condivisa in una storia Instagram.

Emily Ratajkowski e Sebastian Bear-McClard

Dopo quattro anni di matrimonio ed un figlio di poco più di un anno, nel 2022 è finita anche la favola tra la super model Emily Ratajkowski, 31 anni, ed il marito Sebastian Bear-McClard, produttore cinematografico. Se, dalla scorsa estate, la bella americana va in giro senza fede al dito, pare sia colpa dei tradimenti di lui. Un affronto che avrebbe condotto senza esitazioni alla separazione. 

Gisele Bündchen e Tom Brady

Una notizia che ha scosso lo star system, quella della rottura tra la splendida 42enne Gisele Bündchen ed il giocatore di football americano Tom Brady, 45 anni, sposati dal 2009 e genitori di due figli, Benjamin Rein e Vivian Lake, 13 e 10 anni. La coppia apparentemente d'oro ha fatto sapere di aver avviato le pratiche di divorzio in autunno. L'ex iconica top model avrebbe vissuto con insofferenza il mancato passo indietro dalla carriera da parte del marito, proprio come aveva fatto lei, nel 2015, quando aveva annunciato il ritiro dalle passerelle.

Shakira e Gerard Piqué

Una separazione sofferta, quella tra la cantante latina e l'ex difensore del Barcellona, che il 2 febbraio compiranno rispettivamente 46 e 36 anni. Sasha e Milan sono i bambini di 7 e quasi dieci anni nati dalla loro unione, che era cominciata nel 2010 sulle note di Waka Waka. A rendere ancora più triste la fine di una bella storia è il tradimento di Piqué, appreso da Shakira attraverso un investigatore privato.

Jason Momoa e Lisa Bonet

Dopo sedici anni insieme e poco più di quattro da sposati, l'attore di Game of Thrones, 43 anni, e l'ex moglie di Lenny Kravitz, 55, si sono lasciati nel 2022, annunciandolo su Instagram. Nel post inizialmente pubblicato su profilo di Jason Momoa e poi rimosso, i genitori di Lola e Nakoa-Wolf hanno assicurato che "continueranno ad amarsi, lasciandosi liberi". Si è appreso in un secondo momento che uno dei maggiori motivi di conflitto tras i due fossero le forti convinzioni no-vax di Lisa Bonet.

Leonardo DiCaprio e Camila Morrone

Il debole per le ragazze più giovani del 48enne divo di Hollywood è diventato un motivo di ironia sul web, dove si è convinti che Leonardo DiCaprio non scelga fidanzate al di sopra dei 25 anni. La modella Camila Morrone, sua ultima ex nota, aveva proprio 25 anni quando si sono lasciati dopo quattro anni, l'estate scorsa. Il criterio dell'età è evidentemente necessario ma non sufficiente per rubare il cuore di DiCaprio, da quel momento protagonista di insistenti rumours, che lo hanno voluto prima accanto a Gigi Hadid e, negli ultimissimi tempi, a Victoria Lamas (23 anni!).

Kim Kardashian e Pete Davidson

Hanno camminato insieme sul red carpet del Met Gala ed è stato l'unico nuovo amore di Kim Kardashian dopo la separazione con Kanye West: sono appena un paio di motivi per cui Pete Davidson è diventato conosciuto ai più in seguito alla relazione, durata solo nove mesi, con la star americana. Lei 42 anni, lui 29, la differenza di età sembra essere stata una delle ragioni, insieme alla distanza e alle complicazioni con l'ex di Kim, a non far funzionare le cose nella chiacchierata coppia scoppiata nel 2022. Nelle ultime settimane, Davidson è stato paparazzato con Emily Ratajkowski, con cui si paventa un nuovo flirt.

Sean Penn e Leila George

L'ufficializzazione del divorzio tra Sean Penn, 62 anni, e Leila George, 30, è arrivata in primavera: si erano sposati in piena epoca Covid, nel 2020, e la richiesta di mettere fine al loro breve matrimonio, il terzo per l'attore, è stata inoltrata nel 2021. I documenti legali citano "differenze inconciliabili (...) che rendevano impossibile la convivenza tra marito e moglie".

Demi Moore e Daniel Humm 

Dopo meno di un anno di frequentazione, è finita anche la love story tra Demi Moore, 60 anni appena compiuti, e lo chef svizzero Danield Humm, 46. Non si conoscono le ragioni che hanno portato la coppia al capolinea ma una delle misteriose fonti care ai tabloid (e mai rivelate) ha prontamente dichiarato che l'attrice: "È felice e si gode i suoi figli e gli amici". Insomma, tutto è bene quel che finisce bene.

Katie Holmes e Bobby Wooten III

È notizia della fine dell'anno che l'attrice ed ex moglie di Tom Cruise, Katie Holmes, 44 anni, sia tornata single dopo otto mesi di relazione con il collega Bobby Wooten III, dieci anni più giovane. Erano apparsi insieme, per la prima volta, a maggio, al gala del Silver Ball, a New York. Ma a dicembre, la dolce e fashion Katie è già stata avvistata con una possibile nuova fiamma.

Claudio Amendola e Francesca Neri

Una triste voce circolata in estate e smentita, in un primo tempo, dai diretti interessati per poi rivelarsi confermata ad ottobre: quella della separazione di Claudio Amendola, 60 anni nel 2023, e Francesca Neri, 58, tra le coppie più longeve dello spettacolo italiano. Gli attori, che insieme sono diventati genitori di Rocco, hanno vissuto una storia di 25 anni, di cui dodici di matrimonio e gli ultimi caratterizzati dalla delicata malattia di lei. 

Sylvester Stallone e Jennifer Flavin 

Ha avuto l'effetto di un pesce d'aprile la notizia, arrivata in piena estate, della separazione dopo 25 anni di matrimonio tra Sylvester Stallone e Jennifer Flavin, 76 e 54 anni. Infatti, appena un mese dopo l'annuncio della richiesta di divorzio da parte della fedele coniuge dell'attore di Rocky è arrivato quello del dietro front e del pressoché immediato tentativo di riconciliazione, a settembre. Stallone e Flavin hanno tre figlie: Sophia, Sistine e Scarlet.

Florence Pugh e Zach Braff

Un altro scoop che ha animato le chiacchiere sotto l'ombrellone, ad agosto, è stata la rottura tra l'apprezzata attrice Florence Pugh, prossima ai 27 anni, ed il collega e star di Scrubs Zach Braff, 47. Sono stati insieme tre anni e da quanto rivelato dall'interprete di Don't Worry Darling la relazione era finita già da qualche tempo ma la notizia non era stata lasciata trapelare subito per evitare speculazioni sulla cospicua differenza d'età, come probabile causa della rottura.

Robin Wright e Clément Giraudet

Si erano sposati in segreto nel 2018: per Robin Wright, 56 anni, quello con Clément Giraudet, 38, è stato il terzo matrimonio. Il bel francese, manager del lusso con grandi nomi della moda sul curriculum, da Balmain a Saint Laurent, aveva conquistato l'attrice ed ex moglie di Sean Penn cinque anni fa. Sembra però che a portare Writìght a chiedere il divorzio siano sopraggiunte delle "differenze inconciliabili".

Jerry Hall e Rupert Murdoch

Un'altra storia con difficoltà irreparabili, tramontata nel 2022, è quella tra l'ex modella ed ex moglie di Mick Jagger, Jerry Hall, 66 anni, ed il mogul Rupert Murdoch, 91, proprietario di Fox News e del Wall Street Journal, giunto così alla fine del suo quarto matrimonio. Si erano sposati nel 2016, a soli due mesi dall'annuncio del fidanzamento.

Lauren Graham e Peter Krause

Hanno trascorso più di dieci anni di vita l'uno al fianco dell'altro ed hanno fatto sapere solo a giugno del 2022 di essersi lasciati, in buoni rapporti, in realtà già dall'anno precedente. Lauren Graham e Peter Krause, 55 e 57 anni, si sono conosciuti nel 1995 ma l'amore è sbocciato sul set di Parenthood, nel 2010. Nella serie tv interpretavano fratello e sorella.

Dan Aykroyd e Donna Dixon

Si sono lasciati, precisando che rimarranno “legalmente sposati” in una "amicizia amorevole". Dopo quasi quarant'anni di matrimonio, gli attori Dan Aykroyd e Donna Dixon, 70 e 65 anni, hanno sciolto il nodo indissolubile che sembrava unirli dal set di Doctor Detroit (1983) in poi, ma senza battaglie legali e rancori. Al contrario, le loro vie si separano senza avviare le pratiche del divorzio. Aykroyd e Dixon hanno tre figlie: Bella, Stella e Danielle.

Cristina di Spagna e Iñaki Urdangarin

Il 2022 si era aperto con un semi scandalo tra i reali di Spagna: Iñaki Urdangarin, marito dal 1997 dell'infanta Cristina di Borbone, sorella di re Felipe, era stato fotografato nei Paesi Baschi francesi mano nella mano con un'altra donna. L'annuncio di separazione non è tardato poi ad arrivare, attraverso una nota ufficiale: "Di comune accordo, abbiamo deciso d'interrompere il nostro rapporto matrimoniale. L'impegno nei confronti dei nostri figli rimane intatto". La principessa Cristina, 57 anni, e l'ex giocatore di pallamano, 54, sono genitori di quattro ragazzi, Juan, Pablo, Miguel e Irene.

Chris Pine e Annabelle Wallis

Gli attori, legati dal 2018, hanno sempre tenuto una visibilità mediatica bassa, preferendo non esporre alla luce dei riflettori, nemmeno di un solo red carpet, il loro amore. Chris Pine, 42 anni, e Annabelle Wallis, 38, si sono lasciati quest'anno, senza dichiararlo direttamente: il primo a riportare la notizia è stato E! News, lo scorso marzo. Le ragioni restano chiaramente troppo private per essere conosciute.

Elena Sofia Ricci e Stefano Mainetti

È notizia freschissima: si scioglie sul finire del 2022 un altro matrimonio duraturo, quello tra Elena Sofia Ricci e Stefano Mainetti, sposati dal 2003 e genitori di Maria. L'attrice, sessant'anni, ed il compositore, 65, non hanno ancora dato comunicazione ufficiale della rottura, che sopraggiungerebbe dopo alcuni mesi di crisi.

Il 2022 è l'anno delle rotture? Ecco tutte le coppie scoppiate. Gli ultimi dodici mesi hanno segnato la fine di numerose relazioni tra i volti famosi. Ecco raccontati gli addii più importanti del 2022. Novella Toloni il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il 2022 sarà ricordato come l'anno funesto per le coppie e l'amore. Mai come in questi trecentosessantacinque giorni tante coppie si sono dette addio. Dalla prima scoppiata a gennaio (Michelle Hunziker e Tomaso Trussardi) fino all'ultima di questi giorni (Federico Fashion Style e Letizia Porcu), la lista delle separazioni e dei divorzi è lunga e include anche nomi internazionali.

Michelle Hunziker - Tomaso Trussardi

La conduttrice svizzera e il rampollo di casa Trussardi sono stati i primi a dare il via alla girandola di addii. Il 18 gennaio Tomaso e Michelle - in accordo - hanno affidato all'Ansa un comunicato ufficiale, che metteva fine al loro matrimonio: "Dopo 10 anni insieme, abbiamo deciso di modificare il nostro progetto di vita. Ci impegniamo a proseguire con amore e amicizia il percorso di crescita delle nostre meravigliose bambine". La crisi era nell'aria da tempo e alcune riviste avevano anticipato la possibile fine della relazione, ma nessuno si aspettava un epilogo simile. A distanza di mesi - e dopo un flirt estivo della conduttrice con il chirurgo Giovanni Angiolini - sembra, però, che la coppia stia provando a ricucire il rapporto.

Shakira e Gerard Piqué

La relazione tra la popstar spagnola e l'ex calciatore del Barcellona è finita nel peggiore dei modi: tra accuse e scandali. Ad aprile Shakira e Piqué avevano già preso le distanze e i giornali spagnoli parlavano di scappatelle e tradimenti portati avanti negli anni dallo sportivo alle spalle della cantante. Lei aveva addirittura scritto un brano ("Te felicito"), nel quale spiegava con dovizia di particolari le bugie raccontate da Piqué e la sua doppia vita. L'ufficialità dell'addio è arrivata, però, solo a giugno, quando i due hanno rilasciato un comunicato congiunto conciso: "Ci dispiace confermare che ci stiamo separando". La coppia non era sposata, ma dal loro amore sono nati i figli Sasha e Milan. Oggi i due hanno già firmato l'accordo di separazione.

Ilary Blasi e Francesco Totti

Quello tra Totti e Ilary è stato senza dubbio il divorzio più chiacchierato dell'anno. Dopo vent'anni insieme (diciassette dei quali come marito e moglie) la coppia era considerata un pilastro dell'amore quasi al pari di Sandra e Raimondo. Invece tutto è precipitato a fine febbraio quando sono uscite le prime foto di Totti e Noemi Bocchi vicini allo stadio Olimpico e la crisi è diventata di dominio pubblico. A nulla sono valse le smentite pubbliche (a Verissimo di Ilary e sui social di Francesco) e sui giornali è finito tutto il brutto di una relazione arrivata al capolinea da oltre un anno: la nuova relazione del calciatore, i furti di Rolex e borse, gli investigatori e le carte degli avvocati. L'11 luglio Totti e Ilary hanno annunciato l'addio con due comunicati differenti, segno della distanza tra loro e la battaglia legale ha avuto inizio (e prosegue tutt'ora).

Alessia Marcuzzi e Paolo Marconi Calabresi

A settembre è arrivata al capolinea anche l'unione tra Alessia Marcuzzi e il marito Paolo. Le voci che la conduttrice fosse in crisi con Calabresi circolavano da tempo, ma nelle ultime interviste lei aveva chiarito che gli alti e bassi in una coppia erano normali. I pettegolezzi sul presunto tradimento con De Martino (nel 2020) non avevano aiutato e a settembre è arrivata la nota ufficiale che confermava l'addio dopo otto anni di matrimonio. "Io e Paolo abbiamo deciso di lasciarci. La fine del nostro matrimonio però non significherà la fine della nostra famiglia, che continuerà ad esistere. I miei figli e Paolo proseguiranno il loro immutato rapporto di amore e affetto che abbiamo costruito in questi anni", aveva scritto la coppia nel comunicato congiunto affidato alle agenzie di stampa.

Gisele Bündchen e Tom Brady

La modella brasiliana e il campione di football americano hanno annunciato la separazione lo scorso ottobre. Le voci di una crisi si erano diffuse alla fine dell'estate ma l'addio ufficiale è arrivato per bocca di Gisele. "Con molta gratitudine per il tempo trascorso insieme, Tom e io abbiamo finalizzato in maniera amichevole il nostro divorzio", ha scritto la modella su Instagram, rivelando di avere concluso il matrimonio durato 13 anni (e con due figli) in modo amichevole.

Wanda Nara e Mauro Icardi

Alla coppia argentina andrebbe dedicato un capitolo a parte perché Wanda e Mauro sono legalmente separati, ma starebbero cercando di rimettere insieme i cocci rotti. La crisi coniugale si è scatenata in seguito al tradimento del calciatore con la modella argentina Eugenia Suarez "La China". A Verissimo la Nara ha raccontato di avere perdonato il compagno, ma di non essere riuscita a gestire il rapporto con il marito turbato da liti e scarsa fiducia. Così, dopo mesi di voci che li volevano a un passo dall'addio, Wanda ha annunciato la separazione con una storia Instagram. Icardi non sarebbe stato d'accordo ma davanti agli avvocati le carte sono state firmate. Pochi giorni fa, però, la coppia si è mostrata di nuovo insieme sui social alle Maldive e ora c'è chi spera che i due tornino insieme.

Melissa Satta e Mattia Rivetti

Non è stato necessario un comunicato congiunto ma una semplice nota social per Melissa Satta per annunciare la fine della relazione con l'imprenditore Mattia Rivetti. "Dopo quasi due anni la mia relazione è giunta al termine", ha scritto lo scorso ottobre su Instagram l'ex velina per comunicare ai fan di essere tornata single. La coppia era uscita allo scoperto dopo che i paparazzi avevano scambiato Mattia Rivetti per il fratello Matteo, sposato con figli, e sui social la showgirl era stata costretta a chiedere privacy sulla sua vita privata (dicembre 2020). Melissa e Mattia non si erano mai esposti oltre il dovuto e hanno sempre cercato di tenere al riparo dai gossip la relazione. L'addio sarebbe arrivato dopo la richiesta dell'ex velina di andare a convivere e l'imprenditore avrebbe fatto un passo indietro.

Valentina Ferragni e Luca Vezil

L'autunno caldo degli addii vip è proseguito con l'annuncio della fine della storia d'amore tra Valentina Ferragni e Luca Vezil. L'influencer, sorella di Chiara Ferragni, e il compagno stavano insieme da anni ma le loro strade si sono divise in estate e non si sono più ricongiunte "Siamo cresciuti insieme e ci unirà sempre un grande affetto e rispetto per quello che siamo stati. Vi chiediamo di comprendere e di rispettare la nostra decisione che, come potete immaginare, è stata tanto sofferta", dissero in una nota congiunta per annunciare la rottura. Ma solo oggi si scopre che la scelta è arrivata dalla Ferragni stanca dei continui alti e bassi della relazione.

Bella Thorne e Benjamin Mascolo

L'attrice americana e il cantante del duo Benji & Fede erano pronti a sposarsi, ma la relazione è finita prima di arrivare all'altare. I motivi non sono stati rivelati dalla coppia, ma Mascolo ha chiarito di essere rimasto in buoni rapporti con l'ex. La storia tra la diva americana e l'artista italiano era nata nel 2019 e i tabloid statunitensi avevano mostrato le prime foto della coppia insieme a Los Angeles. Mascolo si era trasferito in California e aveva girato addirittura due film con la compagna. I rispettivi impegni professionali, però, li avrebbero fatti allontanare irrimediabilmente e a giugno è arrivato l'annuncio dell'addio.

Anna Tatangelo e Livio Cori

Dopo la fine della storia con Gigi D'Alessio, la cantante sembrava avere ritrovato la serenità al fianco del rapper napoletano Livio Cori. Anna Tatangelo ha sempre cercato di mantenere il massimo riserbo sulla sua vita privata e le foto con il compagno erano centellinate sui social. Tra i due, però, l'intesa sembrava andare oltre alla passione comune per la musica. In estate le riviste di gossip avevano paparazzato Cori e la Tatangelo insieme in vacanza e i fan mai si sarebbero aspettati l'addio che invece è arrivato a settembre dopo un lungo tira e molla.

Fabio Rovazzi e Karen Kokeshi

L'addio tra la youtuber e il produttore è stato il più social del 2022. La coppia, seguitissima sul web, stava insieme da alcuni anni e aveva iniziato una convivenza a Milano, che però non è finita bene. Insieme Rovazzi e Karen avevano annunciato la frequentazione proprio sui social network e insieme condividevano la passione per le produzioni video e per i videogiochi. Fabio e l'ex fidanzata avevano provato a mantenere privato l'addio, ma l'insistenza dei follower li ha portati a fare l'annuncio ufficiale lo scorso agosto.

Cristiana Capotondi e Andrea Pezzi

Anche i due attori hanno cercato di mantenere privata la separazione, ma alla fine la gravidanza della Capotondi ha convinto i due a rilasciare una dichiarazione prima che i gossip prendessero la scena. La relazione si è interrotta nell'estate del 2021 ma la coppia ha deciso di prendere tempo prima di ufficializzare l'addio. Quando Cristiana è rimasta incinta di un altro uomo, però, Pezzi ha scelto di rimanere accanto all'ex compagna per tutta la durata della gravidanza e dopo il parto è arrivata la notizia. "Quando ho scoperto di aspettare un figlio da un’altra persona, la mia lunga relazione di 15 anni con Andrea Pezzi si era interrotta già da diversi mesi. Mi è venuto naturale cercare la protezione e la complicità di Andrea, tanto rimane forte il nostro affetto e il nostro legame", ha detto all'Ansa l'attrice, che oggi è mamma single della piccola Anna.

Federico Fashion Style e Letizia Porcu

L'ultimo addio in ordine di tempo è quello tra Federico Fashion Style e la compagna Letizia. La coppia stava insieme da diciassette anni e dal loro amore è nata Sophie, 12 anni. L'amore sembrava indissolubile tanto che lo scorso anno, quando Federico partecipò a Ballando, l'ex moglie spese parole d'affetto e amore per lui. Invece la coppia era già in crisi da tre anni, come dichiarato dall'hair stylist. La fine del rapporto ha portato notevoli strascichi e sui social i due ex coniugi si sono accusati reciprocamente di mancanze e tradimenti.

·         Gli scontri tv del 2022.

Dai reality alla politica: gli scontri tv che hanno infiammato il 2022. Dai reality ai programmi di approfondimento politico, passando per Ballando con le stelle, il 2022 è stato l'anno degli scontri in tv. Francesca Galici il 28 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il 2022 è stato un anno particolarmente intenso per le liti in tv, soprattutto su temi politici. D'altronde, quest'anno ha regalato parecchi spunti in questo ambito, dalla guerra in Ucraina alle elezioni politiche. Ma anche i programmi di intrattenimento non hanno certo lasciato a desiderare, basti pensare al Grande Fratello e ai suoi personaggi.

Marco Bellavia al Gf Vip

E iniziamo proprio dal Grande fratello vip. Più che uno scontro, quello su Marco Bellavia è stato un accanimento. Contro il concorrente, che stava vivendo un momento psicologico molto pesante e molto difficile, sono state riversate parole terribili da parte dei suoi compagni di viaggio nella Casa più spiata d'Italia. Da Gegia a Giovanni Ciacci, passando per Patrizia Rossetti, senza considerare Ginevra Lamborghini, per questo motivo squalificata, il buon Bellavia non ha trovato in nessuno di loro una spalla su cui piangere ed è stato costretto a lasciare il gioco.

Alessandro Orsini a Cartabianca

Fare l'elenco degli scontri alimentati da Alessandro Orsini nel programma Cartabianca non sarebbe possibile, considerando che per parlare di tutti occorrerebbe un trattato, non un semplice articolo. Ma tra quelli che restano maggiormente impressi nella memoria e che sono forse l'emblema dell'esuberanza di Alessandro Orsini c'è forse quello con Andrea Ruggieri, al quale il professore voleva spiegare perché fosse un "cretino". Testuali parole.

Enrico Mentana e Marco Rizzo

Quella che sarebbe dovuta essere una semplice intervista pre-elettorale si è trasformata in uno scontro tra il conduttore e il leader di Italia Sovrana e Popolare. I toni si sono infiammati da subito quando Marco Rizzo ha fatto intendere a Enrico Mentana di essere stato in qualche modo costretto ad accettare il suo invito. "Sono un lavoratore dipendente, cerchi di avere rispetto di me", ha replicato Mentana al termine di una serie di botta e risposta accesi.

Iva Zanicchi e Selvaggia Lucarelli

Pronti, via, l'edizione in corso di Ballando con le Stelle si è aperta con uno scontro piuttosto infuocato tra Iva Zanicchi e il giudice Selvaggia Lucarelli. La concorrente, a seguito di uno zero ricevuto dalla giornalista, non ha esitato ad appellarla con un epiteto sconveniente e offensivo. Quel "tr..." è riecheggiato dal microfono di Iva Zanicchi, aperto, risultando ben udibile. Una partenza non piacevole, che ha avuto ovvie conseguenze nei rapporti tra le due.

Selvaggia Lucarelli e Gullermo Mariotto

Chiunque, davanti a qualcuno che durante la discussione lo accusa di comportarsi come "una scimmia arrabbiata che getta escrementi" scatenerebbe un infermo verbale. Ed è quello che ha fatto Selvaggia Lucarelli durante uno scontro piuttosto acceso con Guillermo Mariotto, sempre a Ballando con le stelle, che quest'anno in quanto a liti non è stato secondo a nessuno. Nemmeno al Grande fratello vip.

·         Le Canzoni del 2022.

Hit estive, tormentoni e sorprese: le canzoni più belle del 2022. Le hit estive, i grandi ritorni, le sorprese: è stata un'annata musicale di alto livello, con il festival di Sanremo sempre più trampolino di lancio. Massimo Balsamo il 27 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il 2022 è stato un anno ricco di bella musica, tra le solite hit estive e le canzoni lanciate dal festival di Sanremo. Ci sono state tante conferme - pensiamo ai Måneskin, ormai star di livello internazionale - ma non sono mancate le sorprese: pensiamo all'enorme successo raccolto da Dargen D'Amico o all'esorbitante affermazione dei Pinguini Tattici Nucleari. E poi come non citare i protagonisti dell'estate, specializzati nel tormentone da ombrellone: da Fedez a Elettra Lamborghini, passando per il ritorno dei Black Eyed Peas.

The Loneliest

Reduci da un 2021 a dir poco incredibile, i Måneskin hanno continuato a sfornare successi e hit. L’ultima canzone a sbancare è “The Loneliest”, secondo estratto del terzo album in studio “Rush!”. Una via di mezzo tra una lettera d’amore e un testamento, sensazioni a cui tutti possono relazionarsi tra liriche struggenti e straordinari assoli di chitarra.

La dolce vita

Fedez è sempre tra i protagonisti dell’estate italiana, quest’anno al suo fianco Mara Sattei e Tananai, reduce dall’inaspettato quanto particolare successo di Sanremo. “La dolce vita” è ispirata a “Diana” di Paul Anka e “Twist and Shout” dei Beatles, un twist che comprende anche una parte in rapping. Un brano costruito ad arte per diventare un successo radiofonico.

Caramello

Altro tormentone estivo è sicuramente “Caramello”, targato Rocco Hunt, Elettra Lamborghini e Lola Indigo. Scritto da Rocco Hunt, Federica Abbate e Davide Petrella, con musica e produzione di Zef, il brano non brilla sicuramente per profondità o per aspetti poetici, ma ha dalla sua una bella orecchiabilità. E tanto basta, evidentemente.

As It Was

Il 2022 lo ha visto protagonista al cinema con “Don’t Worry Darling”, ma Harry Styles non ha di certo abbandonato la musica. Tra le canzoni più apprezzate della stagione c’è la sua “As It Was”, un brano synth pop influenzato dalla new wave degli anni ottanta. Riflettori accesi su temi come la perdita e la solitudine, un bel lavoro (non indimenticabile).

Supermodel

Ancora Måneskin, ancora una hit. “Supermodel” rappresenta la prima collaborazione del gruppo con il produttore Max Martin. Una canzone incentrata su una top model bella e impossibile, ma anche decadente. Una potenza particolare, che esplora territori nuovi, rock valorizzato dagli archi d’orchestra.

Bellissima

Tra le artiste più amate in Italia, Annalisa si è confermata con “Bellissima”, una sorta di manifesto. Questa canzone segna infatti un nuovo inizio, una rinascita, sexy ma allo stesso tempo disperata. Temi importanti affrontati attraverso la dance.

Brividi

Anche nel 2022 le canzoni passate da Sanremo hanno avuto un ottimo percorso, figurarsi quella che il Festival l’ha vinto. Parliamo di “Brividi” di Mahmood e Blanco, ballad contemporanea che che ha goduto anche della straordinaria vetrina dell’Eurovision Song Contest. Un testo a dir poco struggente, dalla grande potenza comunicativa, valorizzato dalle due bellissime voci.

Giovanni Wannabe

È stato un anno eccezionale per i Pinguini Tattici Nucleari, bravi a inanellare una serie di successi. Il più amato è sicuramente “Giovani Wannabe”, primo estratto dell’album “Fake News”. Una canzone pop rock con elementi di musica elettronica che parla della loro generazione, di ragazze e ragazzi che vogliono trovare un posto nel mondo. Un grande successo, ma nulla di trascendentale dal punto di vista musicale.

Nostalgia

Anche Blanco può dirsi decisamente soddisfatto dell’anno che si sta per concludere. “Nostalgia” parla di sentimenti contrastanti nei confronti dell’amore, con la nostalgia a farla da padrona tra passioni ed eccessi. Curata dal fidato Michelangelo, la canzone brilla più dal punto di vista musicale che per il testo.

Dove si balla

Ancora Sanremo, ma questa volta con Dargen D’Amico. Il giudice di X Factor ha stregato tutti con “Dove si balla”, una canzone dance pop con rimandi all’eurodance e all’italo dance degli anni Novanta. Una hit commerciale rispetto agli standard del rapper milanese, che aveva abituato i suoi fan storici a testi intellettualmente più alti, ma comunque degna di nota.

Don’t You Worry

Il ritorno dei Black Eyed Peas ha lasciato il segno. Il gruppo musicale statunitense, accompagnato da Shakira e David Guetta, ha sfornato la hit “Don’t You Worry”, tra dance pop ed europop, che riporta in auge il motto “andrà tutto bene”, tanto caro in epoca pandemia. Un testo ottimista, spensierato in tempi difficili. Come molte altre canzoni della lista, anche questa è stata costruita per fare centro: obiettivo raggiunto.

·         Gli addii del 2022.

Il 2022 degli addii: tanti i volti amatissimi della cultura e dello spettacolo che ci hanno lasciato. Redazione il 23 Dicembre 2022.

Sono tanti gli  scomparsi illustri e i volti noti – molti dei quali molto amati- ai quali abbiamo detto addio in questo 2022. L’anno che sta per concludersi ha segnato la scomparsa di  tante personalità appartenenti a vari mondi, dalla cultura allo spettacolo da scrittori e giornalisti a  registi e attori; musicisti e cantanti, fotografi e stilisti. Nella categoria ‘letteraria’ che può tenere insieme gli scrittori e i giornalisti, rientra una figura che ha fatto la storia della comunicazione e della informazione in Italia, come Piero Angela: il re dei divulgatori scientifici televisivi, ideatore di programmi di successo della Rai come ‘Quark’ e ‘Superquark’. Morto all’età di 91 anni.

Il 2022 degli addii: dal giornalismo alla cultura: chi ci ha lasciato

Ci ha lasciato il fondatore di “Repubblica“, Eugenio Scalfari; Davide Sassoli presidente del Parlamento Europeo. Tra i giornalisti all’elenco potremmo aggiungere anche Letizia Battaglia, la fotografa dei delitti di mafia. E poi, Gianni Bisiach giornalista fra informazione e storia; Angelo Guglielmi già direttore di Rai3; Tito Stagno il cui ricordo è indissolubilmente legato alla telecronaca dal primo uomo sulla Luna; Donatella Raffai, la prima conduttrice della popolare trasmissione Rai ‘Chi l’ha visto?’; in ultimo Mario Sconcerti una vita per lo sport, penna colta di uno stile in via d’estinzione; e poi il disegnatore satirico Alfredo Chiappori.

Da La Capria a Tito Stagno, da Bisiach a Serianni

Fra gli scrittori, estremo saluto è andato a Raffaele La Capria, Rosetta Loy, l’israeliano Abraham Yehoshua fra i massimi rappresentanti della letteratura ebraica, Piergiorgio Bellocchio fondatore dei ‘Quaderni Piacentini’, lo storico anglo-italiano Paul Ginsborg, Dominique Lapierre e il romanziere slavo Boris Pahor arrivato a spegnere ben 108 candeline sulla sua torta di compleanno. Infine, il docente di Letteratura, italianista e saggista Alberto Asor Rosa, il critico Pietro Citati e il linguista Luca Serianni, amatissimo italianista, già presidente dell’Accademia della Crusca.

Il 2022 degli addii: la grande Monica Vitti, la “mattatrice”

Ancora più lunga è la lista dei lutti nel mondo del cinema e del teatro, fra registi e attori italiani e internazionali. Il nome più iconico è sicuramente quello di Monica Vitti, la cui vita terrena si è spenta a 90 anni. Un addio doloroso per una grande interprete di pellicole memorabili: come ‘L’avventura’ di Michelangelo Antonioni e ‘La ragazza con la pistola’ che l’hanno incoronata ‘mattatrice’ della commedia italiana: unica donna accanto ai ‘mattatori’ Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Nino Manfredi, Totò e Peppino De Filippo. L’Italia ha perso nel 2022 altri attori di gran talento e popolarità. Ultimo, in ordine di tempo, Lando Buzzanca, un altro addio doloroso: attore comico con vena drammatica, mai del tutto apprezzato dalla critica militante; caratterista, fra le icone della commedia all’italiana;  ma anche star nella tv in bianco e nero del sabato sera tradizionalmente dedicato al varietà televisivo. Scomparsi, fra gli altri, anche Camillo Milli, Paolo Graziosi, Gianni Cavina, Lino Capolicchio, Gennaro Cannavacciuolo, Enzo Garinei, Roberto Nobile, Bruno Arena dei ‘Fichi d’India’.

Ci hanno lasciato Olivia Newton John, Catherine Spaak a Irene Papas

Accanto a loro, divi internazionali di spessore tra cui Sidney Poitier, William Hurt, Olivia Newton-John, Catherine Spaak, Ray Liotta, Irene Papas, Jacques Perrin, Bo Hopkins, James Caan. E, fra i registi, Jean-Louis Trintignant, Peter Bogdanovich, Ivan Reitman, Peter Brook, Jean-Luc Godard. Passando dal piccolo e grande schermo e dal palcoscenico teatrale al mondo della musica, ci siamo congedati da compositori  sommi come il greco Vangelis (‘Missing’) e Angelo Badalamenti (la colonna sonora di ‘Twin Peaks è un must ); e da cantanti melodici come Nico Fidenco, Fausto Cigliano, Irene Fargo, Franco Gatti dei ‘Ricchi e Poveri’, nonché al rapper americano Coolio. Anche il mondo della moda, infine, ha avuto i suoi lutti celebri, da Renato Balestra a Franca Fendi, da Giusi Ferrè a Nino Cerruti. Un anno che ci lascia più poveri.

Gli sportivi morti nel 2022: da Raiola a Mihajlovic e Mateschitz, ecco chi ci ha lasciato quest’anno. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 26 dicembre 2022.

Sono tanti i personaggi dello sport che ci hanno lasciato quest’anno: tra loro anche Paco Gento (l’unico calciatore a vincere 6 Champions), il cestista Bill Russell, il lottatore Antonio Inoki e il giornalista Mario Sconcerti

Francisco «Paco» Gento

Il 18 gennaio è stato un giorno di grave lutto in casa Real Madrid: è morto a 88 anni Francisco Gento, una delle ali più forti della storia. Unico calciatore ad avere vinto 6 Coppe dei Campioni.

Freddy Rincon

L’11 aprile l’ex centrocampista di Napoli e Real Madrid Freddy Rincon si scontra in automobile contro un autobus di linea. Ricoverato in gravi condizioni e operato, muore quattro giorni più tardi. Colombiano, aveva 55 anni.

Freddy Rincon

L’11 aprile l’ex centrocampista di Napoli e Real Madrid Freddy Rincon si scontra in automobile contro un autobus di linea. Ricoverato in gravi condizioni e operato, muore quattro giorni più tardi. Colombiano, aveva 55 anni.

Mino Raiola

Il 26 aprile muore uno dei procuratori più potenti e famosi del calcio mondiale, Mino Raiola. Aveva 54 anni ed era malato da tempo: a gennaio era stato operato all’ospedale San Raffaele di Milano per un tumore.

Lester Piggott

A fine maggio muore a 86 anni Lester Piggott, forse il fantino più famoso al mondo. In carriera ha vinto ben 4.493 gare, tra cui 9 volte l’Epsom Derby. Era famoso anche per il suo proverbiale mutismo, l’insolita altezza (1 metro e 72) e il ritorno alla vittoria dopo un anno di carcere. 

Uwe Seeler

A luglio il calcio tedesco piange Uwe Seeler, storico attaccante della Germania Ovest e dell’Amburgo (ha segnato 404 gol in 476 presenze con quella maglia). Aveva 85 anni e ha giocato in 4 campionati del mondo, dal 1958 al 1970, e segnato in tutte le edizioni (21 reti) precedendo perfino Pelé. Nel 1966, dopo la sconfitta di Wembley, fu lui a «imporre» ai suoi il giro d’onore a Wembley nonostante la delusione. Disse no all’Inter. Qui il racconto completo.

Bill Russell

In settembre si ferma a piangere l’Nba, il basket americano. Muore Bill Russell, giocatore sopraffino sul parquet ma anche e soprattutto pioniere dei diritti umani. Leggenda dei Boston Celtics, al punto di avere vinto 11 anelli Nba — di cui 8 consecutivi — è entrato nella Hall of fame sia come giocatore, sia come allenatore, primo di colore nella storia. Aveva 88 anni.

Antonio Inoki

Leggenda del wrestling e pioniere della moderna Mixed Martial Art, Antonio Inoki affrontò anche il celebre pugile Muhammad Ali. Il giapponese è morto il 1° ottobre, aveva 79 anni. Qui il ritratto completo.

Dietrich Mateschitz

A inizio ottobre è morto Dietrich Mateschitz, il patron della Red Bull in Formula 1. Il multimiliardario aveva 78 anni ed era il mecenate di tutti i grandi sport, compreso il calcio, lo sci, la MotoGp, le discipline estreme e i tuffi dalle grandi altezze. Era il re delle bevande energetiche, ha fondato un impero da oltre 23 mila dipendenti vendendo più di 10 miliardi di lattine nel mondo soltanto l’anno scorso. Qui il ritratto completo.

Masato Kudo, 32 anni

Il mondo del calcio giapponese a ottobre è in lutto per la morte di Masato Kudo, attaccante di 32 anni con anche un passato in Nazionale: si era sentito male 20 giorni prima durante l’allenamento, lamentando un mal di testa. Le visite il giorno successivo avevano rilevato un idrocefalo — pericoloso accumulo di liquido cerebrospinale —. Qui il servizio completo.

Davide Rebellin

Cinque anni dopo Michele Scarponi, un altro grandissimo del ciclismo italiano è morto in un incidente stradale, travolto mentre si allenava: Davide Rebellin, ucciso da un camion a Montebello Vicentino, a pochi metri dalla corsia esterna dell’Autostrada A4 nella mattinata di mercoledì. Da pochi giorni ritirato, era il più vecchio professionista al mondo: aveva 51 anni.

11 di 17Patrick Tambay

Un campione, una persona di rara umanità. Patrick Tambay se n’è andato il 4 dicembre, era malato da tempo, aveva 73 anni, era nato a Parigi il 25 giugno 1949. Pilota di F1, pilota Ferrari per quasi due stagioni, chiamato a sostituire il suo amico Gilles Villeneuve. A questo link il servizio completo.

Nick Bollettieri

Leggenda degli allenatori di tennis, ha allevato generazioni di campioni, da Jim Courier — il «suo» primo numero 1 del mondo, ad André Agassi passando per Jennifer Capriati, Monica Seles, persino Boris Becker, già esploso e affermato. Tra le alunne più affezionate anche Raffaella Reggi, la pioniera del tennis italiano. Nick Bollettieri aveva 91 anni. Qui il ritratto completo.

Sinisa Mihajlovic

Sinisa Mihajlovic è morto il 17 dicembre a Roma all’età di 53 anni: aveva scoperto la sua malattia — una leucemia mieloide acuta — per caso, nel 2019, giocando a padel. Qui il ritratto completo. Il serbo lascia la moglie Arianna e sei figli, una delle quali gli aveva da poco dato una nipotina.

Mario Sconcerti

È stato una delle firme più prestigiose del Corriere della Sera e del giornalismo sportivo italiano. Mario Sconcerti ci ha lasciati il 17 dicembre: aveva 74 anni ed era ricoverato da qualche giorno in ospedale per accertamenti di routine. Qui e qui i ricordi della nostra redazione.

Vittorio Adorni

Alla vigilia di Natale si è spento Vittorio Adorni, ex campione di ciclismo: aveva vinto il Giro d’Italia nel 1965 e il Mondiale in linea di Imola nel 1968. Nato a San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937, è stato una leggenda assoluta dello sport azzurro e un formidabile ambasciatore del ciclismo in tanti ruoli diversi, pedalati e non. Qui il ritratto.

Fabian O‘Neill

È invece del giorno di Natale il lutto per l’uruguaiano Fabian O’Neill, ex centrocampista di Cagliari, Juventus e Perugia tra il 1995 e il 2002, appena 49 anni. Era ricoverato da qualche giorno in terapia intensiva a Montevideo, in Uruguay, per le conseguenze di un alcolismo da cui non riusciva a liberarsi. Era soprannominato «Il Mago».

(ANSA il 31 Dicembre 2022) - "Con dolore informo che il Papa Emerito, Benedetto XVI, è deceduto oggi alle ore 9:34, nel Monastero Mater Ecclesiae in Vaticano". Lo dichiara il direttore della Sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni. "Non appena possibile seguiranno ulteriori informazioni", aggiunge.

Da tg24.sky.it il 31 Dicembre 2022.

Uomini politici, come David Sassoli e Mikhail Gorbaciov, sovrani come la regina Elisabetta II; giornalisti, come Eugenio Scalfari e Piero Angela, ma anche attori e personaggi dello spettacolo, come Angela Lansbury, Ray Liotta e Catherine Spaak: sono tanti i nomi noti scomparsi nel 2022. Ecco chi ci ha lasciato quest’anno 

SIDNEY POITIER

 Il 6 gennaio è morto all’età di 84 anni Sidney Poitier, primo attore afroamericano a vincere l’Oscar come miglior protagonista grazie al film “I gigli del campo” (1963). Noto anche per pellicole come “Indovina chi viene a cena?” (1967) e “La calda notte dell’ispettore Tibbs” (1967), è stato inserito nel 2002 al ventiduesimo posto tra le più grandi star del cinema dall'American Film Institute 

DAVID SASSOLI

L’11 gennaio è morto all’età di 65 anni David Sassoli, presidente del Parlamento europeo. Giornalista e anchorman del TG1 per anni, Sassoli dal 2009 era al Parlamento europeo in quota Pd: prima di essere eletto presidente era stato vicepresidente nella precedente legislatura (2014-2019) e capodelegazione dei Democratici (2009-2014) 

NINO CERRUTI

Il 15 gennaio è venuto a mancare lo stilista e imprenditore Nino Cerruti, 91 anni, noto per essere il padre della giacca maschile decostruita, fortuna di molti marchi successivi. Noto in tutto il mondo, grazie ai suoi store marca Cerruti presenti in Francia, New York e Hong Kong, è stato sponsor di campioni sportivi come il tennista statunitense Jimmy Connors e lo sciatore svedese Ingemar Stenmark. nel 1994 il brand “Cerruti” è diventato designer ufficiale della Ferrari

TITO STAGNO 

“Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare!”, sono state queste le parole con cui Tito Stagno, morto l’1° febbraio all’età di 92 anni, annunciò lo sbarco dell’uomo sulla Luna, il 20 luglio 1969, in diretta televisiva. Nel corso della sua carriera il giornalista ha seguito soprattutto gli eventi politici e quelli legati al Vaticano, in particolare durante il pontificato di Giovanni XXIII e Paolo VI. Responsabile per 17 anni di RaiSport, fu anche conduttore della Domenica Sportiva

MONICA VITTI

Il 2 febbraio è morta all’età di 90 anni la celebre attrice Monica Vitti, pseudonimo di Maria Luisa Ceciarelli. Premiata con cinque David di Donatello come migliore attrice protagonista, tre Nastri d'argento, dodici Globi d'oro, un Leone d'oro alla carriera a Venezia e un Orso d'argento alla Berlinale, ha lavorato con registi come Michelangelo Antonioni e Mario Monicelli. Tra i suoi capolavori film come “L’avventura” (1960); “Deserto rosso” (1964) e “La ragazza con la pistola” (1968)

MARK LANEGAN 

Il 22 febbraio è spirato all’età di 57 anni il cantante Mark Lanegan: non sono mai state rese note le cause della morte dell’ex frontman degli Screaming Trees, gruppo capofila del genere grunge. Ha inoltre collaborato con diversi gruppi e artisti, come i Queens of the Stone Age e anche gli italiani Afterhours

WILLIAM HURT 

Il 13 marzo è venuto a mancare l’attore statunitense William Hurt, spirato all’età di 71 anni. Tra le pellicole più famose c’è “Il bacio della donna ragno” (1985), che gli permise di ottenere un Oscar come migliore attore protagonista. Ottenne anche altre due nomination, per “Figli di un dio minore” (1986) di Randa Haines e “Dentro la notizia - Broadcast News” (1987) di James L. Brooks, senza però riuscire a bissare il successo

MADELEINE ALBRIGHT

Il 23 marzo è morta all’età di 84 anni Madeleine Albright, volto conosciutissimo della politica statunitense degli anni Novanta. Viene ricordata per essere stata il Segretario di Stato della seconda presidenza Clinton (1997-2002), ma è stata anche rappresentante USA presso il Consiglio di Sicurezza Onu tra il 1993 e il 1997. Particolarmente controverse furono le sue posizioni sulle grandi questioni di politica estera del periodo, come la guerra del Golfo e l’intervento in Jugoslavia, eventi dove sostenne attivamente l’intervento americano

LETIZIA BATTAGLIA 

Il 13 aprile è morta all’età di 87 anni Letizia Battaglia, fotografa italiana tra le più conosciute. Originaria di Palermo, sono suoi alcuni tra gli scatti più iconici degli anni ’70 e ’80, come gli omicidi di mafia (sua la foto del giovane Sergio Mattarella che sorregge il fratello, il governatore Piersanti Mattarella, ucciso da Cosa nostra il 6 gennaio 1980) e la “bambina con il pallone”, scatto che fa il giro del mondo e che rifà con la stessa protagonista nel 2018

GIUSI FERRÈ 

Il 14 aprile è venuta a mancare Giusi Ferrè, giornalista e volto televisivo italiano. Specializzata nel campo della moda, aveva scritto libri su Giorgio Armani, Alberta Ferretti e Gianfranco Ferré (con cui non condivideva alcun rapporto di parentela)

CATHERINE SPAAK 

Ha avuto una carriera a tutto tondo Catherine Spaak, morta il 17 aprile all’età di 77 anni. Spaak, di origine belga ma naturalizzata italiana, è stata attrice in diversi film, come “Il sorpasso”, “La noia” e “La voglia matta”, cantante e anche volto televisivo (il pubblico italiano la ricorda come conduttrice di Forum e anche per la partecipazione in diverse fiction, come “Un medico in famiglia”)

MINO RAIOLA 

Il 30 aprile è morto all’età di 54 anni Mino Raiola, procuratore sportivo tra i più conosciuti nel mondo del calcio. Cresciuto nei Paesi Bassi ma originario di Nocera Inferiore, la figura di Raiola è cresciuta esponenzialmente negli ultimi anni: dall’olandese Bryan Roy, portato al Foggia nel 1992, è arrivato ad avere la procura di campioni come Zlatan Ibrahimovic, Pavel Nedved, Mario Balotelli, Marco Verratti, Paul Pogba ed Erling Haaland

VANGELIS 

Il 17 maggio è spirato all’età di 79 anni il compositore greco Vangelis, pseudonimo di Evangelos Odysseas Papathanassiou. Fra le sue opere più acclamate compaiono alcune colonne sonore, in particolare dei film "Blade Runner" e "Momenti di gloria", e il brano “Hymne”, usato dalla Barilla per la sua pubblicità. Porta la firma di Vangelis anche l’inno dei Mondiali di calcio di Giappone-Corea del Sud del 2002 

CIRIACO DE MITA 

Il 26 maggio è invece venuto a mancare all’età di 94 anni l’ex dc Ciriaco de Mita: politico di lungo corso della Prima Repubblica, è stato segretario della Democrazia Cristiana, più volte ministro e anche presidente del Consiglio, tra il 1988 e il 1989. Al momento della morte era sindaco di Nusco, paese della provincia di Avellino dal quale proveniva

RAY LIOTTA 

“Quei bravi ragazzi”, “Hannibal”, “Abuso di potere”: in tutti e tre le pellicole c’è Ray Liotta, conosciutissimo attore statunitense morto il 26 maggio all’età di 67 anni mentre si trovava a Santo Domingo, dove si girava il film “Dangerous Waters”. Liotta era anche conosciuto per la propria partecipazione a videogiochi come “Grand Theft Auto” e “Call of Duty” 

ABRAHAM YEHOSHUA 

Il 14 giugno è venuto a mancare l’ottantacinquenne scrittore e drammaturgo israeliano Abraham Yehoshua, noto per romanzi come “Un divorzio tardivo" e "L'amante". Il suo ultimo libro è stato “La figlia unica”, un romanzo breve ambientato tra Venezia e Padova: un omaggio all’Italia e a quell’“identità mediterranea” che per lo scrittore è sempre stata fonte di ispirazione

JEAN-LOUIS TRINTIGNANT 

Il 17 giugno è spirato a 91 anni l’attore e drammaturgo francese Jean-Louis Trintignant. Vincitore di premi a Cannes e Berlino, ha recitato in numerosi film italiani: uno su tutti "Il sorpasso" insieme a Gassman. Ebbe anche un ruolo in “Il conformista” di Bernardo Bertolucci e “La donna della domenica” di Luigi Comencini, oltre a “Il deserto dei Tartari” di Valerio Zurlini. Appassionato di rally, prese parte alla 24 Ore di Le Mans nel 1980

LEONARDO DEL VECCHIO 

Il 27 giugno è venuto a mancare anche Leonardo del Vecchio, 87 anni, imprenditore noto per essere stato il fondatore di Luxottica, la più grande holding produttrice e venditrice mondiale di occhiali e lenti che è arrivata a contare quasi 80 mila dipendenti e oltre 9 mila negozi. Lo scorso 10 aprile Forbes lo aveva incoronato come il secondo uomo più ricco d’Italia e il 62° nel mondo, con un patrimonio di 27,3 miliardi di dollari 

SHINZO ABE 

È morto invece vittima di un attentato Shinzo Abe, 67 anni, ucciso l’8 luglio mentre si trovava nel distretto di Nara per un comizio. L’attentatore, Yamagami Tetsuya, ha dichiarato alla polizia che lo ha subito arrestato, di essere “insoddisfatto di lui”, anche se ha sostenuto di non averlo fatto “per motivi politici”. Abe è stato il più giovane primo ministro del Giappone postbellico e quello rimasto più a lungo in carica: dal 2006 al 2007 e dal 2012 al 2020

IVANA TRUMP 

Il 14 luglio è spirata all’età di 73 anni Ivana Marie Zelnícková, nota anche come Ivana Trump visto che fu la prima moglie dell’ex presidente USA tra il 1977 e il 1992. Insieme a "The Donald" Ivana fu una delle artefici della crescita della Trump Organization, visto il ruolo operativo che le venne affidato dal marito. Dopo la separazione nel 1992, Ivana fu sposata anche con due italiani, l’imprenditore Riccardo Mazzucchelli e l’attore Rossano Rubicondi

EUGENIO SCALFARI 

Il 14 luglio è venuto a mancare anche il fondatore di Repubblica, il giornalista Eugenio Scalfari, spirato all’età di 98 anni. Tra i giornalisti italiani più conosciuti ed importanti del XX secolo, fu direttore e firma di punta del quotidiano romano ma ebbe un ruolo importante anche nella fondazione del settimanale L’Espresso

OLIVIA NEWTON-JOHN 

“Sarò per sempre il tuo Danny”. Con queste parole John Travolta ha ricordato la morte della collega Olivia Newton-John, spirata l’8 agosto all’età di 73 anni. I due attori sono gli immortali protagonisti del film-musical Grease, nella quale hanno interpretato Danny e Sandy

PIERO ANGELA 

Il 13 agosto è invece vento a mancare Piero Angela, morto a 93 anni. Giornalista, divulgatore scientifico e conduttore televisivo, a lui si deve la serie dei “Quark”, programma nato nel 1981 con lo scopo di compiere “una serie di viaggi nel mondo della scienza” e che ebbe anche un seguito, visto che negli anni ’90 divenne “Superquark” 

MIKHAIL GORBACIOV 

Il 30 agosto è morto Mikhail Gorbaciov, scomparso a Mosca all’età di 91 anni. Personalità iconica del XX secolo, lo si ricorda per essere stato l’ultimo segretario del Partito comunista sovietico e colui che ha dato avvio alla dissoluzione del sistema di potere dell’URSS al grido di glasnost e perestrojka, parole d’ordine che volevano rinnovare lo Stato, non certo demolirlo. Si dimise la notte di Natale del 1991 

ELISABETTA II 

È venuta a mancare all’età di 96 anni la regina Elisabetta II, morta l’8 settembre. Ha segnato un’epoca: i suoi 70 anni di Regno sono stati il periodo più lungo per un regnante nella storia della Gran Bretagna. Ha vissuto ogni possibile mutamento del Paese, dal post Seconda guerra mondiale all’Unione europea, e nella sua famiglia, che conta 4 figli e 8 nipoti. A prendere il suo posto è stato re Carlo III

JEAN-LUC GODARD 

Il 13 settembre è invece venuto a mancare il novantunenne Jean-Luc Godard, regista francese conosciuto come tra i più prolifici esponenti della cosiddetta Novelle Vague. Ha vinto un Leone d’oro nel 1984 per il film “Prénom Carmen” e un Oscar alla carriera nel 2011. A lui hanno detto di ispirarsi i registi della cosiddetta “New Hollywood” e anche Quentin Tarantino, che ha chiamato la sua casa di produzione “Bande à part”

BRUNO ARENA 

È spirato invece a 65 anni il comico e cabarettista Bruno Arena, morto nella sua Milano lo scorso 27 settembre. Insieme a Max Cavallari ha formato il conosciutissimo duo dei “Fichi d’India”, che ha calcato i palchi di Zelig e di Colorado. Proprio mentre stava registrando una puntata di Zelig nel 2013 viene colpito da un aneurisma, che gli causò un’emorragia celebrale

 COOLIO 

Lo scorso 28 settembre, a 59 anni è morto il rapper Coolio, conosciutissimo negli anni Novanta, che ha venduto in carriera 17 milioni di dischi. L’artista è famoso per essere l’autore di “Gangsta’s Paradise”, inciso nel 1995, che gli valse un Grammy Award e tre MTV Video Music Awards 

ANGELA LANSBURY 

Lo scorso 11 ottobre si è invece spenta a 96 anni l’attrice britannica, ma cittadina statunitense, Angela Lansbury. È diventata famosa per aver interpretato Jessica Fletcher nella serie “La signora in giallo”, ma è stata anche protagonista di film come “Il ritratto di Dorian Gray” (1945) e “Assassinio sul Nilo” (1978) 

JERRY LEE LEWIS 

È morto a 87 anni lo scorso 28 ottobre il cantante Jerry Lee Lewis, considerato uno dei re del rock and roll, come Elvis Presley. Molti artisti, come Elton John e Billy Joel, hanno dichiarato di ispirarsi a lui, che ha ottenuto un posto nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1986. La rivista Rolling Stone lo ha inserito al ventiquattresimo posto tra i più grandi artisti di tutti i tempi 

ROBERTO MARONI 

Lo scorso 22 novembre è morto Roberto Maroni, venuto a mancare all’età di 67 anni. Politico della Lega, è stato più volte ministro e uomo di punta del partito, con una propria linea moderata spesso in contrasto con quella di Umberto Bossi. È stato anche segretario del partito, tra il 2012 e il 2013, e presidente della Regione Lombardia, tra il 2013 e il 2018 

RENATO BALESTRA

Il 26 novembre è venuto a mancare lo stilista Renato Balestra, 98 anni, creatore dell’omonimo marchio. Ha creato abiti per l’imperatrice Farah Diba, moglie dell’ultimo Scià di Persia, Sirikit ma anche per la regina della Thailandia e sua figlia, la Principessa Choulaborn. Fiore all’occhiello è l’abito da sposa della principessa Noor Hamzah di Giordania per le sue nozze con il principe Hamzah bin Hussein. Ha lavorato anche per il teatro di Belgrado e Trieste 

DAVIDE REBELLIN 

È morto invece a 51 anni l'ex ciclista Davide Rebellin, spirato lo scorso 30 novembre dopo essere stato investito da un camion. Nella sua carriera è stato uno specialista delle classiche: ha vinto un'edizione dell'Amstel Gold Race, tre della Freccia Vallone e una della Liegi-Bastogne-Liegi, oltre a una tappa al Giro d'Italia

SINISA MIHAJLOVIC 

È morto invece a 53 anni l’allenatore Sinisa Mihajlovic: l’ex allenatore del Bologna è spirato a Roma lo scorso 16 dicembre. Nella sua carriera da calciatore aveva vinto praticamente tutto, dalla Coppa dei Campioni con la Stella Rossa agli scudetti con Lazio e Inter. Da mister era rimasto praticamente sempre in Italia: tra le sue esperienze si contano le panchine di Bologna, Milan, Torino, Sampdoria e Catania

LANDO BUZZANCA 

Si è spento a 87 anni Lando Buzzanca, celebre attore italiano venuto a mancare lo scorso 18 dicembre. Noto per il film “Il merlo maschio” (1971), esempio di commedia sexy all’italiana, vince il Globo d’Oro come miglior attore nel 2007 per “I Viceré”. Ha lavorato anche in radio e ha interpretato diversi ruoli nel piccolo schermo, come il protagonista nella serie Rai “Il restauratore” (2012) 

PELÉ 

"O Rei", una delle più grandi leggende del calcio, si è spento il 29 dicembre a 82 anni. Da alcuni anni lottava contro un tumore che dal colon si era espanso a fegato e polmoni. Record FIFA per numero di reti realizzate in carriera  - 1.281 su un totale di 1.363 partite giocate - "Il Re" del Calcio è stato uno dei giocatori più amati di sempre. Con il Brasile ha vinto 3 Mondiali 

VIVIENNE WESTWOOD

 La stilista inglese di fama mondiale è morta il 29 dicembre a Londra. Aveva 81 anni ed era malata da tempo anche se la sua malattia, per volontà della stessa stilista, non era mai stata rivelata ufficialmente. Eccentrica, provocatrice, era considerata la regina dello stile punk

·         Un anno di calcio.

Un anno di calcio: dallo Scudetto del Milan, all'inchiesta Juventus. Giovanni Capuano su Panorama il 30 Dicembre 2022.

 Il 2022 è stato carico di sorprese ed emozioni, la vittoria del Milan ha rilanciato l'idea di un progetto sostenibile. Lo scandalo che ha travolto la Juventus, la crisi del pallone e un 2023 che promette di sorprendere ancora...

Ci siamo divertiti e non poco. E' stato un anno di calcio pieno di sorprese ed emozioni, anche di pronostici sovvertiti se è vero che nessuno metteva il Milan in cima alla lista delle favorite per la conquista dello scudetto - e invece alla fine scudetto è stato - e che la stessa sorte era stata riservata a Carletto Ancelotti in Europa e all'Argentina nel Mondiale. E a tanti altri protagonisti di un'annata indimenticabile in cui la notizia migliore per tutti è stato il ritorno delle masse allo stadio. Finita l'emergenza sanitaria, cancellate le restrizioni, è stata una corsa al pallone: in Italia e ovunque. Il filo della passione non si è spezzato.

L'ultima immagine è stata quella della sublimazione di Lionel Messi, trascinatore nel Mondiale sbagliato che una finale meravigliosa ha nobilitato e reso per sempre. Trionfo con porta sulla leggenda e finestra sul 2023 in cui la Pulce proverà a scrivere altre pagine, alcune quasi scontate come il Pallone d'Oro numero 8 della collezione e altre che da troppo tempo rappresentano quasi un tabù se è vero che la Champions League sfugge a Messi addirittura dal 2015. Lui e Mbappé insieme, i due protagonisti della super sfida di Doha, i bracci armati della potenza dell'emiro Al Thani arrivato quasi all'ultima chiamata per dare un senso compiuto ai miliardi investiti (spesso gettati via) in un decennio alla guida del Paris Saint German. Nessuno è in grado di preconizzare cosa sarà del club parigino oltre il 2023: forse andrà avanti a comandare e l'ingresso dell'Arabia Saudita spingerà il Qatar a moltiplicare gli sforzi in una guerra geopolitica più che di pallone, forse la missione di accompagnare al Mondiale appena vissuto si sarà esaurita.

Ora che il Mondiale è alle spalle si è conclusa anche la penitenza cui si è condannata l'Italia di Roberto Mancini. E' stato un dicembre difficile per gli amanti della maglia azzurra, esclusa per la seconda volta di fila dal ballo mondiale. Ora, però, si torna tutti a competere ad armi pari e l'anno di sofferenza pura vissuta mentre gli altri preparavano l'appuntamento di una vita potrebbe rivelarsi un vantaggio. Intanto ci giocheremo le finali della Nations League, che non conta nulla a meno che non la vinci; risultato che renderebbe l'Italia l'unica nazionale europea ad aver sollevato qualcosa nell'ultimo quadriennio insieme alla Francia. Non è una consolazione da poco: in Qatar hanno fatto figuracce anche Germania e Belgio, la Spagna si è spenta sul più bello, la Croazia è a fine corsa e l'Inghilterra ha confermato l'incapacità di trasformare in oro il suo talento. Insomma, saremo anche messi male ma siamo nel mazzo e ora si ricomincia. In Italia tutti a caccia del Napoli. O, meglio, a caccia del Milan che a maggio si è preso uno scudetto inatteso e meritato, frutto della programmazione di una società che il fondo Elliott ha instradato sul sentiero della sostenibilità prima di farsi affiancare da Gerry Cardinale. E' la stessa via percorsa da De Laurentiis per il suo Napoli, cambiato di pelle con notevoli risparmi la scorsa estate. La stessa che vogliono e debbono praticare Inter e Juventus, le grandi più esposte al vento di una crisi che non ha ancora finito di far sentire i suoi morsi. L'inchiesta della Procura di Torino ha azzerato i vertici del club bianconero ed è stato un elettrochoc per il sistema italiano. Inimmaginabile fino a qualche mese fa pensare Andrea Agnelli fuori dalla sua Juventus dopo un decennio di vittorie. La lettura delle carte, al netto delle vicende giudiziarie e sportive che seguiranno, sono un romanzo sulla mala gestione di un club una volta virtuoso e sui limiti di un sistema malato che non trova la cura. Non succede solo in Italia. La primavera che arriva scriverà la parola fine alla questione Superlega e il parere dell'avvocato generale della Corte di Giustizia dell'Unione pare aver anticipato un ko tecnico per i club definiti ribelli. Non è detto finisca così e nemmeno che nelle sfumature di quel documento non ci sia qualche preannuncio di riforma. Intanto la Fifa ha varato il super mondiale per club a 32 squadre, la Uefa la super Champions League a 36 con girone unico e moltiplicazione delle partite e tutti tirano dritto per la propria strada ignorando la necessità di un quadro unico dove tenere insieme le cose. Ma usciamo dal 2022 del Mondiale in inverno nel deserto del Qatar, perché sorprendersi ancora?

·         I fatti del 2022.

Il risveglio della Storia. 2022, un racconto per immagini. Maurizio Molinari su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2022.

La scelta della Russia di Putin di aggredire l’Ucraina e annientarla. Il coraggio delle donne iraniane. E il ritorno del Covid. Un anno difficile che ripercorriamo insieme con la forza dirompente delle fotografie

L'anno che si conclude deve essere ricordato per il risveglio della Storia e le foto che pubblichiamo in questo inserto lo raccontano con la dirompente forza delle emozioni che contengono. La scelta del presidente russo Vladimir Putin di usare il secondo esercito più potente del mondo per aggredire l’Ucraina ed annientarla, cancellarla dalla mappa geografica, ci ha riportato indietro alle guerre più brutali dell’Ottocento e Novecento, trasformando la nostra realtà in un racconto drammatico che sembra uscito dai libri di testo sul più buio passato della nostra Europa.

Nessun cittadino europeo immaginava di poter rivedere sul territorio del proprio Continente la stessa aggressione totalitaria, assoluta, di un popolo contro un altro ma questo è ciò che è avvenuto. Il massacro di Bucha, l’assedio all’acciaieria di Mariupol, l’esaltazione degli aggressori e il coraggio della resistenza degli aggrediti descrivono un mosaico di eventi che nessuno di noi aveva pensato di poter vivere, attraversare, raccontare ma che invece hanno segnato in maniera indelebile le nostre vite.

Ma non è tutto perché il 2022 è stato anche l’anno nel quale le donne iraniane hanno trovato il coraggio per sfidare a mani nude la più medievale delle teocrazie, dopo 43 anni di oppressione, e le donne afghane hanno subito dai talebani la violazione sistematica dei loro diritti fondamentali che gli erano stati invece garantiti dal 2001 al 2021. È come se dalle viscere del Pianeta siano fuoriusciti i fantasmi di un passato capace di tenere in ostaggio le nostre vite ed emozioni. E lo stesso vale per il Covid-19 che in molti pensavano battuto grazie ai vaccini ma ora riacquista forza, riuscendo a tenere in scacco la Cina, ovvero la nazione da dove si è originato nel 2019 con modalità ancora tutte da raccontare. Presi in contropiede da una Storia che accelera, gli abitanti della Terra sono chiamati a riaprire in fretta i propri libri di testo scolastici per tentare di saperne di più sull’anno che verrà.

L'invasione

Notte, freddo. Una luce gialla sui marmi della Bankova, tra le creature spettrali della Casa delle chimere. Gli incursori ceceni hanno ordine di uccidere il presidente Zelensky e lui è lì, davanti al palazzo presidenziale, tra i suoi uomini. È il secondo giorno di guerra: l’iconica mimetica verdognola è in strada, nel cuore della capitale braccata. È dove deve essere, è dove meno lo aspetti. «Noi siamo tutti qui», sorride scrivendo una pagina di storia: la storia della resistenza ucraina. È il 25 febbraio, da quasi 48 ore non si sapeva nulla di lui. Raffiche di kalashnikov a Kiev, echi di esplosioni dagli aeroporti. La legge marziale, le guardie territoriali coi fucili spianati, i cadaveri dei “sabotatori”. Gira voce che il presidente sia fuggito. Mosca «prenderà Kiev in tre giorni», si dice. Ma nella notte nera del coprifuoco il presidente prende per mano il Paese. «Buonasera», dice in un video selfie che apre un dialogo ininterrotto. Con lui Yermak e Arakhamia, il premier Shmyhal e il fido Podolyak: «Siamo tutti qui a proteggere la nostra indipendenza. E continueremo a farlo». 

Il massacro

La menzogna si è fermata a Bucha. «Colpiremo esclusivamente le infrastrutture militari», aveva detto Putin all’alba dell’invasione. Bucha allora era solo un nome sulla mappa, una piccola città di 36mila persone sulla via per Kiev. Di lì a un mese diventerà un altro modo di chiamare un massacro. Come Srebrenica, Sabra e Shatila, le Fosse Ardeatine. Le unità russe e cecene l’hanno occupata subito: depredavano, terrorizzavano, stupravano. Se ne sono andate a fine marzo, quando l’assedio a Kiev era fallito. Non hanno avuto il tempo di nascondere i corpi dei loro reati, disseminati lungo le strade, nelle cantine, nelle fosse comuni, interrati per metà nel fango, con le mani legate. Uomini inermi mutilati, vecchi calpestati, donne e bambini bruciati. Un eccidio che il Cremlino ha negato, poi schernito, infine dimenticato. In ogni caso, tollerato. Quante croci nella Srebrenica ucraina? Ne han contate più di 400. Non hanno colpito solo infrastrutture militari, no. Quella era la bugia di Putin al mondo. Fino a quando il mondo ha visto Bucha.

L’assedio

I soldati russi puntano dritti su Mariupol fin dal primo giorno, occupano i quartieri periferici, cominciano con i cannoni la demolizione sistematica della città mentre è ancora piena di civili che non possono più scappare. Ancora oggi il numero degli ucraini uccisi in quelle settimane di febbraio, marzo e aprile non è chiaro, forse 100mila. I militari ucraini che difendono Mariupol si trincerano nei tunnel della acciaieria Azovstal, stretta tra la linea del fronte e il mare. Diventa un assedio feroce e carico di simboli. La maggior parte degli assediati appartiene al reggimento Azov, sul quale pende l’accusa di essere un gruppo neonazista anche se da molti anni è stato inquadrato nell’esercito regolare e sottoposto a epurazioni e “normalizzazioni”. Fuori 15mila tra russi e ceceni, dentro circa 2mila ucraini che sfidano ogni previsione e resistono per 90 giorni. Senza medicine, con poco cibo e molti feriti, si arrendono a maggio. Tornano in superficie in un’Ucraina cambiata che li considera eroi e non vede più la Russia come una minaccia invincibile. 

Il simbolo

Nessuno sa fino a dove voglia spingersi Vladimir Putin, il nuovo Zar di tutte le Russie che alle 5.45 del mattino del 24 febbraio ha dichiarato contro l’Ucraina quella che ha chiamato e continua a chiamare «operazione militare speciale». Un eufemismo ammantato di oscuri slogan — “denazificazione” e “smilitarizzazione” — e altrettanto indecifrati simboli — la Z e la V che non appartengono all’alfabeto cirillico. Una perifrasi per mantenere l’illusione gattopardesca che tutto sia rimasto com’è benché tutto sia cambiato: l’orrore delle bombe è tornato nel cuore dell’Europa, l’isolamento e la repressione hanno catapultato la Russia indietro di oltre trent’anni e il mondo è precipitato sul limitare di un’Apocalisse nucleare. Ma nessuna capriola linguistica può più bastare. L’Ucraina potrebbe diventare per Mosca un nuovo Afghanistan, il pantano che anticipa, o accelera, la caduta di Putin. Ma non è detto che, andato via lui, il conflitto finirà. A guardare i signori degli eserciti che rivendicano scalpi, dopo potrebbe essere anche peggio.

La rivolta

La ragazza vestita di bianco danza intorno al fuoco tra gli applausi della piazza, uomini e donne insieme,c’è chi lancia il velo tra le fiamme, bruciando decenni di oppressione. È notte a Sari, sono passati pochi giorni dalla morte di Mahsa Amini (Jina, in curdo) nelle mani della polizia morale, il 16 settembre: dal Nord curdo al Sud belucio, dalla liberale Teheran alla città sacra di Qom, l’Iran è in rivolta. “Zan, Zendegi, Azadi”, Donna, vita, libertà: lo slogan di origini curde risuona nelle università e nei bazar, si mobilitano gli artisti, gli sportivi. Un’intera generazione, iperconnessa e libertaria, si riprende la parola, sfidando la teocrazia al potere dal 1979: chiede la fine della Repubblica Islamica, vuole la democrazia. Le donne guidano la rivoluzione culturale, il Sistema reagisce nel modo di sempre: con la repressione, forte di un consenso minoritario ma potente grazie a denaro, armi e fede. La maggioranza, che pure vuole un cambiamento, finora è rimasta a guardare. La sfida sarà portarla in piazza intorno al fuoco di un nuovo Iran, un Iran per tutti.

Midterm

Nella storia politica americana non si ricordano tante vittorie di Pirro disastrose come quella patita dal Partito repubblicano e Trump nelle midterm di novembre. In genere il partito del presidente in carica straperde queste consultazioni, e con l’inflazione alle stelle tutti davano per scontato che il Gop avrebbe ripreso una larga maggioranza alla Camera e probabilmente il Senato. Siccome i candidati e la linea erano stati dettati da Trump, il trionfo avrebbe spianato la sua riconquista della Casa Bianca nel 2024. Biden invece avrebbe preso una tale botta da rendere impossibile la sua ricandidatura. È successo il contrario. L’onda rossa non si è materializzata, soprattutto perché il referendum tra Donald e Joe lo ha vinto il secondo. I problemi ci sono, l’inflazione frena ma resta troppo alta, guerra in Ucraina e tensioni con la Cina minacciano la stabilità globale. Biden però se la sta cavando meglio del previsto e gli americani iniziano a stancarsi di caos e scandali giudiziari di Trump. Segnale che potrebbe risultare decisivo per le presidenziali del 2024, se i repubblicani non lo ascolteranno.

Il lutto

Per gli inglesi più scaramantici, dopo la morte della 96enne regina Elisabetta il Regno Unito capitolerà presto. Quanto occorso sinora non li ha rassicurati: la prima ministra Liz Truss caduta in 44 giorni, uno tsunami finanziario che ha quasi mandato in bancarotta il Paese, una Brexit sempre più preoccupante, prospettive di crescita peggiori di tutto il G20 - Russia esclusa. Ma almeno i corvi della Torre di Londra sono tornati a essere nove, tre in più del limite della sopravvivenza della Monarchia secondo la leggenda, e l’erede 74enne re Carlo finora è stato impeccabile e promettente. Certo, l’addio di Elisabetta II lascia un vuoto incolmabile: il suo irripetibile regno, celebrato lo scorso giugno con il maestoso Giubileo di Platino, è durato 70 anni ed è stato perpetua luce di sicurezza, spentasi nella scozzese Balmoral alle 15:10 dell’8 settembre 2022, quando si è gelato il sangue, non solo blu, del Regno e del mondo, prima dei leggendari funerali a Westminster Abbey 11 giorni dopo. Ma “Lilibet”, il suo sorriso e il suo esempio splenderanno per sempre: «È facile odiare e distruggere», disse la Queen nel discorso di Natale 1957, «costruire e amare è molto più difficile».

Il Congresso

Un’incoronazione ad imperatore storica, anche se annunciata. Il ventesimo Congresso del Partito comunista cinese, apertosi il 16 ottobre, ha stracciato tutte le regole non scritte dai tempi di Mao: Xi Jinping, per la terza volta consecutiva, si è aggiudicato le redini del Pcc e della Cina. Quello che è uscito dal Congresso è un Partito ancora di più a pensiero unico, nazionalista e autoritario, con un Comitato permanente del Politburo - l’élite rossa che guida il Paese - zeppo di fedelissimi del leader. Un leader, il più potente dai tempi del Grande Timoniere, che non ha successore all’orizzonte e che si prepara a rimanere al comando ben oltre il prossimo quinquennio. Un’immagine rimane iconica: l’allontanamento dalla Grande Sala del Popolo di Hu Jintao, metafora perfetta della fine di un’era. Nel nuovo mandato di Xi l’attenzione sarà sull’economia, fiaccata da 3 anni di restrizioni per il Covid. In politica estera c’è il rapporto con l’Europa da ricucire, quello con gli Usa da riportare in carreggiata nonostante le tensioni su Taiwan - la “provincia ribelle” che Pechino intende “riunificare”, anche con la forza - e l’amicizia “senza limiti” con Mosca da rimodellare.

Le elezioni

Ci puntavano in molti a livello internazionale, ci ha creduto poco più della metà dei brasiliani: il 50,8 per cento dei votanti. Il 2022 sarà ricordato per il ritorno di Luiz Inácio Lula da Silva alla guida del gigante sudamericano. La terza volta come presidente, dopo aver governato dal 2003 al 2011. La sua elezione è stata contrastata e combattuta fino all’ultimo e il padre della sinistra brasiliana ha prevalso con poco più di 2 milioni di voti su Jair Bolsonaro. Il Brasile resta spaccato in profondità. Ancora adesso, alla vigilia dell’insediamento, sostenitori e militanti di estrema destra presidiano gli ingressi delle caserme invocando l’intervento dei militari. Sostenuto da una coalizione di una decina di partiti che vanno dall’estrema sinistra al centrodestra, l’ex tornitore metalmeccanico diventato capo di Stato dovrà conciliare le richieste degli industriali che vogliono rilanciare l’economia e le esigenze di 30 milioni di poveri che non riescono neanche a mangiare. Sarà un Lula diverso, più moderato, attento agli umori dei mercati, aperto alle richieste asiatiche di materie prime, impegnato a cancellare la corruzione che offuscò l’immagine del suo partito e che gli ha provocato tanta opposizione nel Paese. Come in Colombia e in Cile, la sinistra torna al governo, tra speranze e perplessità.

Il Covid

È il simbolo più potente di quello che è avvenuto. Anche più dei vaccini e dei respiratori delle terapie intensive, più dei tamponi e del Green Pass. La mascherina ha accompagnato per almeno due anni le giornate di milioni di persone. Oggi le cose sono cambiate e dal primo maggio scorso non è più obbligatoria fuori dalle strutture sanitarie. Quest’anno, del resto, sono decadute quasi tutte le misure. Quelle ancora in piedi d’estate sono state cancellate dal governo di destra. L’Italia cerca di passare dalla fase di emergenza (pure questa formalmente conclusa, il primo aprile scorso) a quella di convivenza, facendo leva, oltre che sul vaccino, su Omicron. La variante, generatrice di decine di sottovarianti, ha monopolizzato il 2022 ed è meno capace di scendere nelle basse vie respiratorie delle forme di virus che l’hanno preceduta. Ma è una fatica. Il Covid c’è ancora, colpisce, costringe a letto, manda persone in ospedale e all’obitorio. Quello che avviene in Cina, con l’incubo che da lì arrivino nuove varianti, fa capire che a livello globale il Sars-CoV-2 non può essere considerato endemico. E anche se lo fosse, quello status non significherebbe che è innocuo ma che si è radicato e quindi è destinato a restare.

La tragedia di Lorenzo Parelli

Una sbarra d’acciaio da un quintale e mezzo. Un ragazzo di 18 anni che era entrato in quell’azienda della provincia di Udine per imparare il mestiere di manutentore di macchine a controllo numerico. Due mesi di pratica, prevede il protocollo della scuola salesiana che lo ha inviato in ditta, e due di lezioni. La mattina del 21 gennaio 2022 era l’ultimo giorno di stage, non c’era il tutor. La sbarra si sgancia e schiaccia Lorenzo Parelli, un padre, una madre, una sorella che da un anno viaggia con il braccialetto al polso con la scritta “Lore”. Il freddo è entrato in una casa, in strada gli studenti hanno urlato, scritto “omicidio di Stato”. La madre di Lorenzo, Maria Elena, insegnante, ha detto: “Nessuna strumentalizzazione, Lorenzo voleva imparare quel mestiere”. L’Alternanza scuola lavoro non uccide di per sé, uccide se è insicura. I sindacati, e le organizzazioni studentesche, dicono che la scuola oggi trasforma i ragazzi in merce, ma il problema vero è il lavoro in sé. Che, oggi, in Italia fa tre vittime al giorno e, sì, trasforma gli operai in merce. Dopo Lorenzo, il Paese ha pianto Giuseppe, 16 anni, andato a sbattere contro un albero sul furgone della ditta, e Giuliano, appena maggiorenne come Lorenzo, una morte terribilmente simile. Erano ragazzi in tirocinio.

Il suicidio assistito

Non siate tristi, non piangete per me, ora sono libero e volo via». Sono state queste le ultime parole di Federico Carboni, 44 anni, tetraplegico dopo un gravissimo incidente stradale, il primo paziente ad aver ottenuto per via legale il suicidio assistito in Italia. Senza dover emigrare, senza dover andare in Svizzera. Era il 16 giugno 2022, a Senigallia, un giorno d’estate che ha cambiato per sempre i diritti civili del nostro paese. Federico Carboni, che durante la lunga battaglia legale contro l’Azienda unica sanitaria delle Marche aveva protetto la sua identità facendosi chiamare “Mario”, alle 11,05 ha premuto quel pulsante che iniettandogli in vena il farmaco letale, lo ha condotto dolcemente alla morte, in 10 minuti, senza dolore. Dieci minuti che hanno fatto la Storia. Nella sua silenziosa stanza, dopo l’ultimo saluto della mamma Rosa Maria, c’erano Marco Cappato e Filomena Gallo dell’Associazione Coscioni e Mario Riccio, il medico che aiutò Welby a morire. Dietro questa vittoria grazie alla quale tanti altri “Mario” potranno spezzare le catene della sofferenza, c’è la sentenza della Consulta sul caso di Dj Fabo, l’assoluzione di Cappato e l’indomita tenacia dell’avvocata Filomena Gallo. «Federico voleva che non piangessi, francamente è stato impossibile».

Il delitto in famiglia

Fosse viva, oggi Saman Abbas avrebbe vent’anni e qualche giorno, essendo nata il 18 dicembre 2002 a Maudi Bahauddin, Pakistan, ed essendo morta il 30 aprile 2021 a Novellara, provincia di Reggio Emilia. Una ragazza che aveva voglia di essere felice, e libera, e perciò la sua famiglia ha deciso di ammazzarla, come si fa con un capretto ribelle. Le sue colpe: il rifiuto di un matrimonio forzato, un fidanzato scelto e amato. Un errore: essersi fidata dei suoi genitori, che le promettevano di restituirle il passaporto, ed era la sua trappola. A novembre lo zio assassino ha fatto ritrovare il cadavere, forse convinto da un imam che gli ha spiegato che l’Islam non è uccidere, non è costringere le ragazze a sposarsi a forza. Servono altri uomini e donne di buona volontà, perché in Italia ci sono sicuramente altre Saman, in bilico tra le tradizioni di origine e la vita nuova che gli si apre davanti, con famiglie che non accettano e anzi rifiutano i figli che cambiano, servono mille parole per far ragionare padri e madri così, non dialoganti, chiusi nelle loro convinzioni, che sono la verità unica. Poi, non è solo una questione di giustizia tribale, lo schema padronale e primitivo della famiglia di Saman torna in altre famiglie e coppie italiane, e ne vediamo gli effetti brutali, e così spesso.

Clima e Scienza

Una stella accesa in laboratorio, purtroppo solo per una frazione di secondo. Il successo dell’esperimento sulla fusione nucleare condotto presso il Lawrence Livermore National Laboratory, in California, e annunciato al mondo il 13 dicembre, ha entusiasmato e alimentato speranze. D’altra parte ottenere dalla fusione di due atomi di deuterio e trizio più energia di quanta ne fosse servita per spingerli, a colpi di laser, uno contro l’altro è un risultato storico. Ma quanto ci vorrà prima che questa scintilla stellare diventi una fonte pulita e inesauribile di energia? «Decenni», ha ammesso Kim Budil, direttrice del Lawrence Livermore National Laboratory. Perché? Nell’esperimento i laser hanno sparato 2 megajoule di energia sugli atomi, la cui fusione ha prodotto 3 megajoule, ma l’energia totale per alimentare la macchina è stata pari a 300 megajoule. E il tutto è durato un istante. Il cammino per produrre in modo continuativo più energia di quella introdotta è davvero lungo. Eppure ci sono compagnie private che promettono di riuscirci già alla fine del decennio. Chi ha ragione? Lo si scoprirà solo continuando a fare ricerca. Ed è questa la lezione più importante della “svolta storica” sulla fusione: studiare oggi come innescare una scintilla nucleare, per poter domani accendere piccole stelle artificiali.

L’alluvione di Senigallia

Lo hanno cercato per giorni. La madre lo teneva in braccio quando l’acqua glielo ha strappato di dosso. Non riuscivano a trovarlo perché era stato portato lontano dalla corrente. Matteo aveva otto anni, inimmaginabile il dolore di quella madre ricoverata in ospedale a Senigallia, straziante la volontà inesausta con cui il padre, fuori, non smetteva di cercarlo. Era un bambino intelligentissimo, avrebbe poi detto di lui, quando quel corpo piccolo diventato ramo, sasso, terra era stato ritrovato. Adesso era lì, tra le sue braccia e la speranza diventava strazio, uno strazio infinito, ma reale. Per noi che lo guardiamo Matteo era un bambino molto bello con occhi grandi ed espressivi, per gli altri bambini era un compagno di scuola allegro, vivace, e goloso. Per suoi compaesani di San Lorenzo in Campo quello che amava girare col motorino dietro al padre e mandare i baci ai passanti, per il prete della chiesa l’aiutante magico che accendeva le candeline. Per chi aveva diagnosticato la sua malattia, Matteo era affetto da autismo. Da qui, dalla sua assenza, autismo è solo una parola come un’altra. Rimane la foto di un bambino di otto anni che non c’è più. Una foto identica a quella di ogni altro bambino con gli occhi grandi.

Peppe, l'uomo di fango

Il fango e il terrore, i soccorsi e la speranza. L’immagine dell’uomo tratto in salvo dopo essere rimasto aggrappato a un asse di legno fotografa la tragedia di Casamicciola d’Ischia, l’isola delle vacanze sconvolta dalla frana venuta giù dal Monte Epomeo all’alba del 26 novembre scorso. Il disastro provoca dodici vittime, lascia senza casa oltre 400 persone e sparge altro sale sulle ferite di una terra meravigliosa, storicamente esposta a calamità naturali come terremoti e alluvioni, ma anche violentata dal cemento e imbrigliata in un groviglio burocratico di piani, norme e mappe di rischio che spesso si contraddicono uno con l’altro. Le abitazioni distrutte, le famiglie cancellate e il volto di Peppe l’idraulico coperto di fango impongono ora di accertare se tutto questo poteva essere evitato e di individuare, eventualmente, le responsabilità. I soccorritori che aiutano il sopravvissuto a uscire dalle macerie e lo incoraggiano ripetendogli, con calma, «non vi muovete, stiamo arrivando», accendono invece una luce di speranza: ci ricordano che, anche mentre tutto crolla, c’è ancora un’Italia che resta in piedi.

Il miliardario e i social

È il 26 ottobre 2022, la chiusura dell’affare Twitter è prevista per il giorno seguente ma Elon Musk ha una voglia matta di “giocare” con il suo nuovo acquisto. Nel video che posta poco prima delle 12 è allegrissimo: jeans e maglietta marroni, si fa riprendere mentre porta a braccia nella sede di Twitter un enorme lavandino da cucina. Sta creando un meme di sé stesso, un contenuto virale, a volte divertente, a volte arguto, che tutti rilanciamo sui nostri canali perché anche i nostri amici possano divertirsi. Il gioco di parole è questo: lavandino in inglese si dice “sink”, ma “sink in” è un verbo che Musk usa per costruire la frase “Let that sink in”. Il senso è: “(ho comprato Twitter) fatevene una ragione”. Poi sono venuti i licenziamenti di massa, la riammissione di migliaia di utenti banditi per estremismo, la fine del contrasto alle fake news sul Covid, la sospensione di una dozzina di giornalisti critici e il sondaggio con il quale gli utenti gli hanno detto “dimettiti”. Ma prima c’era un uomo di 51 anni che ha appena speso 44 miliardi di dollari per un’azienda che ne valeva molti meno e che festeggia abbracciando un lavello perché sa che questo farà divertire i suoi 120 milioni di followers. Quel giorno cambierà la sua bio ufficiale in “chief Twit”, che non vuol dire “capo di Twitter”: in inglese “twit” vuol dire idiota. In fondo era un avvertimento.

Rieletto al Quirinale

Milano, 7 dicembre. Una foto riassume l’anno dell’Italia sotto l’aspetto politico e istituzionale. Sul palco d’onore della Scala ricevono gli applausi il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, alla sua destra la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, il sindaco di Milano, Sala, il presidente del Senato, La Russa, e un po’ defilata la neo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. È in un certo senso il riassunto del 2022, dodici mesi che hanno visto Mattarella protagonista, sia pure con stile discreto e poco appariscente. Egli è il punto di equilibrio tra l’Unione e la nuova Italia governata da una coalizione di destra-centro. L’anno era cominciato con una rielezione al Quirinale che pochi avevano previsto. Il suo stile non è cambiato, il contesto invece si è trasformato. Qualcuno parla di un semi-presidenzialismo di fatto, altri negano. Mattarella, senza mai derogare al dettato costituzionale, svolge sempre più una funzione dinamica. Il ‘22 è anche il suo anno.

La destra al governo

Come il Grifone dantesco, la fiera “ch’è sola una persona in due nature”, anche Giorgia Meloni è uno strano ibrido che ha catalizzato la curiosità e l’attenzione di mezzo mondo. Incarna infatti la rivoluzionaria novità (per un Paese ammuffito come il nostro) di una giovane donna per la prima volta a capo del governo. E, allo stesso tempo, presiede una compagine che culturalmente, ideologicamente, ricade sempre nel vecchio tic della donna-madre. Vedi, ad esempio, la contestata norma sulle pensioni anticipate delle lavoratrici con figli. Giorgia-Grifone ha la testa nella modernità, vede se stessa come leader di un moderno raggruppamento conservatore europeo. Ma il corpo resta quello della fiera missina. Fiera nel senso della bestia e della fierezza di restare politicamente “dalla parte sbagliata della Storia”. Di certo questa autoproclamata “underdog”, che ha terremotato il 2022, è un’avversaria tosta, che non indulge come Salvini e Berlusconi ad amicizie anti-occidentali. E non c’è da sperare che faccia molti errori. Meglio sbrigarsi a prenderle le misure.

Il mandato interrotto

L’Italia è abituata ai salvatori della patria, come la serie A ai campioni stranieri. Quando Mattarella, in pieno manicomio populista, reclutò il suo supertecnico, tutti pensarono all’elenco di saggi, professori, esperti, che la politica, come un’infezione, aveva contagiato: Monti, Dini, Tremonti, Ciampi, Martino, Pera e prima ancora Visentini, Amato, Spadolini, Vassalli, Carli. Solo Mario Draghi, finito il mandato, è ancora un soggetto misterioso, sparito come Mina, la “numero uno” che serenamente invecchia al posto della sua immagine. Ma, al contrario di Mina, Draghi ha smesso pure di “cantare”. Insomma, non c’è mai stata un’uscita di scena così felicemente totale come quella del premier di unità nazionale, il regista del Pnrr, il terzo uomo con Macron e Scholz della foto sul treno verso Kiev che racconta il posto che l’Italia ha avuto e ha perduto. «Amico mio - scrisse Leopardi nel Dialogo di Tristano - i pochissimi uomini che rimangono si debbono andare a nascondere per vergogna, come quello che camminava dritto in un paese di zoppi». Così andavano le cose nel 1834.

Il segretario sconfitto

Nell’anno orribile della sinistra italiana Enrico Letta deve ammainare la bandiera della sua seconda segreteria dopo 18 mesi di faticose quanto vane battaglie. Condotte con stile, va detto. Gli elettori dem, quanto mai smarriti dopo la batosta del 25 settembre, sperano adesso che con l’addio dell’ex premier non vada in archivio anche il Partito democratico. O peggio, come avvenuto in Francia, dell’intera sinistra. Sarebbe una doppia sciagura, sotto la cappa del governo più di destra che l’Italia abbia mai conosciuto. Con Letta tramonta una leadership “per bene”, d’altri tempi si direbbe, che sconta tuttavia un doppio peccato (mortale, nell’era della politica-social): l’assenza di carisma e di visione. Per Bonaccini o Schlein o Cuperlo o De Micheli, per chi verrà insomma, la storia del ‘22 servirà da monito: esserci non basta, serve incidere se non si vuole soccombere. Ne va della sopravvivenza del partito, appunto. E dell’opposizione: mai come nei prossimi mesi essenziale per la tenuta democratica del Paese.

Calcio

Direte, ci siamo. Voto 10 al numero Diez. La favola è finita, soprattutto è riuscita, si volta pagina. Messi al quinto tentativo è finalmente salito sul mondo con la sua Argentina. Anche lui come Maradona: due finali giocate, una persa (2014), una vinta (2022). A 35 anni il lungo inseguimento è terminato: la pulce è diventata un drago. I sette Palloni d’Oro non bastavano a decretarne la bellezza, c’era bisogno anche della grandezza. E quella è arrivata con il titolo mondiale, e con un Messi capitano deciso e decisivo, per la prima volta al comando della sua nazionale. Se prima si lasciava trascinare dalla corrente, questo nuovo Messi ha domato (anche) le onde del destino. Con numeri impressionanti: 13 gol segnati in cinque partecipazioni mondali, 7 in Qatar (quattro su rigore), superato con 26 partite il record di presenze di Matthaus (25), terzo marcatore più prolifico della storia del calcio, miglior realizzatore sudamericano e miglior uomo-assist di sempre (392). Affondato il rivale Cristiano Ronaldo, non più titolare nel suo Portogallo, e ormai senza squadra. Mentre Messi un club ce l’ha, è il Psg, e anche una nuova mission, vincere la Champions con i Magnifici Tre: Neymar, Mbappé, Messi. Finalmente fuori da ogni confronto e raffronto. Libero di essere solo Messi. Una pulce unica.

Tennis

Se l’uscita di scena è il passo più difficile per chiunque sia stato un grande, Roger Federer è riuscito a essere perfetto persino lì. Ha ufficializzato il ritiro quand’era ormai un anno che non giocava, e il tempo aveva diluito il dolore del suo popolo in una soffusa malinconia. Poi, per addolcire ulteriormente lo strappo, ha condito l’addio con l’annuncio dell’ultima esibizione, alla Laver Cup. Un genio. Alla fine, così, abbiamo pianto tutti non per la disperazione, ma di pura e semplice commozione. È successo quando in capo a un discorso pieno di gratitudine e buoni sentimenti, che in altri avremmo giudicato melenso ma in lui suonava come l’ennesimo accessorio di inarrivabile eleganza, Federer sia scoppiato in lacrime stringendo la mano di un Rafa Nadal devastato in egual maniera. È stato un flash da un mondo altissimo e lontano, quello degli unicorni che passano la vita a battersi, accessibili soltanto alla nostra ammirazione. Un flash che respingeva le banalità sull’odio, sportivo e - dicono - anche umano, necessario per primeggiare, ma rivelava piuttosto riconoscenza verso chi, col suo talento, ti costringe ogni giorno a migliorare.

Moto

Partito coi favori del pronostico, Pecco Bagnaia a metà campionato aveva già detto addio al sogno di vincere il mondiale di MotoGP: una caduta all’esordio in Qatar, un 15° posto nella successiva gara in Indonesia, neppure un podio dopo 2 mesi di corse. I successi di maggio (Barcellona, Mugello), erano stati vanificati da 3 mortificanti “zeri”. Che disastro. Fabio Quartararo, leader della classifica, aveva 91 punti di vantaggio sul ducatista. «Mi sono detto: è finita. Però la mattina seguente ho pensato che valesse la pena provarci comunque: correndo per il piacere di farlo, senza più pensare alla classifica». Sono arrivate 4 vittorie consecutive, poi 3 podi – e che brividi, i duelli con Bastianini! -, uno scivolone in Giappone ma anche il primo posto in Malesia. Nel gp finale, a Valencia, in sella alla moto di Borgo Panigale gli è bastato arrivare al traguardo per laurearsi campione del mondo: 13 stagioni dopo Valentino Rossi, nel primo anno senza il Doc. Da mezzo secolo un italiano non vinceva il titolo iridato nella categoria regina in sella ad una moto italiana. Qualche giorno fa Pecco ha fatto la proposta di matrimonio alla fidanzata, Domizia: è arrivato un altro sì.

Ginnastica

Intimidazioni, umiliazioni, minacce, pesate pubbliche. La ginnastica ritmica italiana precipita in un buco nero il 30 ottobre, quando Repubblica pubblica l’atto di accusa contro il sistema dell’ex azzurra Nina Corradini, seguita poi da Anna Basta e Giulia Galtarossa. Dietro i successi delle Farfalle, denunciano le ragazze, ci sono metodi spregiudicati da parte di insegnanti e tecnici, diete forsennate, privazioni insostenibili. L’accademia di Desio e la sua direttrice, Emanuela Maccarani, diventano materiale di cronaca, in un anno illuminato in precedenza dai successi a ripetizione di Sofia Raffaeli e della squadra nazionale, capitanata da Alessia Maurelli. La Federginnastica minimizza, accusa le accusanti, poi si ritrae, commissaria l’accademia e accenna a tentativi si riforme interne di fronte alla valanga di denunce raccolte dall’associazione ChangeTheGame, quasi duecento in due mesi. Due Procure della Repubblica, Brescia e Monza, oltre alla giustizia sportiva, indagano. Le prime settimane del nuovo anno saranno decisive. Ma niente, tra cerchi, nastro e clavette, sarà più come prima.

La band

Sì, una volta suonavano per strada a Via del Corso. Sì, tutto è iniziato a un talent come X Factor. Dicono che suonano male, che rifanno cose vecchie, che non portano niente di nuovo. Però poi sono i Måneskin che hanno steso tutti prima a Sanremo e poi all’Eurovision, scudetto e Champions nel giro di pochi mesi. E qualcosa vorrà dire se tutti i grandi festival rock internazionali (compreso il Primavera Sound di Barcellona, la Mecca dei fanatici dell’indie rock, che li ospiterà a giugno) li chiamano per poi metterli alti in cartellone. E se vanno in America e fanno all-in nei luoghi simbolo del rock con un’attitudine che, più che a Piazza del Popolo, fa pensare a club storici e a tour memorabili, con folle di teenager abituate alle star planetarie che fanno ancora sogni di rock’n’roll, è possibile che qualcosa sia veramente successo. Un filotto di record che spinge una band italiana dove mai nessuno era arrivato. Con loro il Circo Massimo è diventato il Coachella. Un salto tra le stelle.

La serie tv

Esterno notte di Marco Bellocchio: una serie tv che è anche grande cinema e suprema prova d’autore e di attori. Un’opera che, in prima serata Rai, ha riportato l’Italia nel cuore di uno dei suoi drammi solo in apparenza risolti: il rapimento di Aldo Moro, l’eccidio della scorta, l’assassinio dello statista dopo la lunga prigionia. Con la certezza, da parte di Moro, di non essere stato condannato a morte soltanto dalle Brigate Rosse, ma dalla stessa Democrazia Cristiana, il partito di cui era presidente. Una tragedia politica che Bellocchio ha magistralmente trasformato in epica della condizione umana, della solitudine e del dolore, nella claustrofobia di una famiglia obbligata a soffrire senza rimedio. Impressionante l’interpretazione di Fabrizio Gifuni, capace di mimesi assoluta: una somiglianza del corpo, del viso e delle espressioni che è diventata un calco dell’anima.

Il cinema

A scuotere il torpore di una cerimonia noiosa trasmessa a notte fonda (da noi), lo schiaffo di Will Smith al presentatore degli Oscar Chris Rock, dopo una brutta battuta sulla testa rasata di Jada Pinkett Smith. Da lì un crescendo al ribasso: le preghiere di Denzel Washington che evoca il diavolo, il mancato pentimento sul palco di Smith: premiato migliore attore, blatera sulla difesa della famiglia tipo uomo delle caverne. L’Academy, lo condanna a dieci anni di interdizione. Nessuno si ricorda dei premi assegnati. Smith gestisce a singhiozzo le scuse, Rock risponde con un mancato perdono. Dopo un ritiro canonico un ritorno accelerato del divo per promuovere un kolossal da 120 milioni su uno schiavo in fuga, Emancipation. È iniziato l’apology tour, l’itinerario delle scuse sotto i riflettori che tocca agli artisti coinvolti in scandali. Variety sostiene che per l’opinione pubblica è meno grave lo schiaffone del tradimento coniugale di Tiger Wood. Will evoca il razzismo e dice che la sofferenza migliora. La migliore, Jada, si è chiamata fuori.

Il programma

Non è una scoperta, sappiamo bene cosa è in grado di fare. Ma Fiorello è ancora la novità dell’anno, capace di dare la sveglia a una tv in letargo, ripetitiva e senza idee, che va avanti con gli stessi titoli. Viva Rai2 è la scommessa vinta, va in onda la mattina presto ma potrebbe essere un varietà da prima serata, divertimento e improvvisazione, il magic touch fiorellesco che rende il cazzeggio irresistibile. Nel format passato e futuro, ospiti, informazione, satira, anche la fiction demenziale (Giorgia con la chioma candida nella serie Regina dei draghi, con il drago Viserion allergico ai pioppi che con una lingua di fuoco la elimina), l’angolo belvesco delle interviste «col morso». L’ospite segue le regole d’ingaggio: deve mettersi in gioco, essere disposto a tutto, vedi Bruno Vespa con la faccia impietrita che tiene l’ombrello durante l’esibizione dei Jalisse. Alle 7 del mattino pensi che i soldi spesi per il canone siano benedetti, peccato per le troppe ore in cui realizzi che sono buttati dalla finestra.

Produzione Gedidigital

I 10 fatti del 2022. Linda Di Benedetto su Panorama il 30 Dicembre 2022.

L'invasione russa in Ucraina, la morte della Regina Elisabetta, le elezioni e la nascita del governo Meloni, Messi che vince il Mondiale di calcio. Un anno denso, come pochi

Ci sono anni che passano quasi anonimi, ed altri che invece lasciano una traccia indelebile nella storia. Come il 2022 che ha scoperto notizie davvero difficili da dimenticare e pronte a finire nei libri di testo. La guerra in Europa, la morte della Regina Elisabetta, le elezioni politiche anticipate e la rielezione di Mattarella.

Sergio Mattarella è stato rieletto Presidente della Repubblica. Mattarella si era precedentemente mostrato contrario a questa ipotesi per ragioni personali e costituzionali. Tuttavia di fronte alla richiesta del parlamento, dopo giorni di trattative serrate e polemiche tra i partiti, Mattarella non si è tirato indietro e all’ottavo scrutinio è stato rieletto con 759 voti

Il 24 febbraio la Russia ha invaso l’Ucraina cambiando la storia dell’Europa e del Mondo. Ad oggi dopo 10 mesi dall’inizio della guerra l’Onu ha stimato 6700 morti civili di questi 400 sono bambini oltre a circa 200 mila soldati deceduti in battaglia. La guerra ha provocato la più grande crisi per l'accoglienza di rifugiati in Europa mai vista dopo la fine della seconda guerra mondiale ed uno stato di emergenza economica che ha travolto l’Europa già provata da due anni di pandemia.

Il 14 luglio 2022 comincia ufficialmente la crisi di governo a causa dei 5 Stelle che non hanno votato la fiducia sul Dl Aiuti. In seguito a questo Mario Draghi salito al Quirinale ha cercato di rassegnare le sue dimissioni respinte da Mattarella ma divenute “irrevocabili” il 21 luglio dopo la fiducia votata in Parlamento. Gli italiani così sono stati chiamati a votare in un clima di incertezza e di profonda crisi economica.

L’8 settembre ci lascia all'età di 96 anni la Regina Elisabetta. La sua morte segna la ne di un epoca. Elisabetta II ha guidato il Regno Unito a cavallo tra due secoli, durante la guerra e la Brexit ed è stata la Regina più longeva per il suo Paese e per tutto il mondo. Alla morte il figlio Carlo è diventato Re con il nome di Carlo III.

Il 13 settembre 2022, mentre era con la famiglia a Teheran la 22enne Mahsa Amini è stata fermata e arrestata dalla polizia morale perché non indossava correttamente lo hijab. Il 16 settembre è morta per le percosse subite nel reparto terapia di intensiva dell’ospedale di Kasra, dopo due giorni di coma. La sua tragica scomparsa ha sollevato migliaia di proteste in Iran che sono sfociate in manifestazioni a livello mondiale.

C'è stato un giorno in cui il mondo, tutto, ha pianto. E non parliamo del solo mondo dello sport. Il 24 settembre scorso Roger Federer ha dato l'addio al tennis con un'ultima epica partita alla Laver cup, dopo mesi e mesi di voci ed infortuni che di fatto per due anni lo hanno tenuto lontano dai campi da tennis. Un addio studiato nei minimi dettagli con il doppio giocato in compagnia di Rafa Nadal, il rivale più duro di un ventennio, l'amico forse più vero. E la foto con i due in lacrime a ne match, mano nella mano, è il simbolo di un'epoca sportiva e storica che finisce. Nessuno come lo svizzero infatti ha saputo coniugare agonismo ed eleganze, vittoria e stile. Un esempio per tutti, sportivi e non che non sarà mai dimenticato.

Il 26 settembre l’Italia ha votato e la coalizione guidata da Giorgia Meloni ha vinto le elezioni politiche. Il Governo è passato al centrodestra che ha una maggioranza ampia sia alla Camera che al Senato grazie soprattutto al risultato sorprendente di Fratelli d’Italia e della sua leader. Pochi giorni dopo Giorgia Meloni viene nominata Presidente del Consiglio; è la prima premier donna nella storia dell’Italia.

La natura e l'incuria dell'uomo hanno provocato tragedie costate la vita a troppe persone. Sulla Marmolada i 3 luglio 2022 la caduta di una grossa valanga dalla vetta della catena montuosa in prossimità di punta Rocca ha travolto ed ucciso 11 escursionisti. L’enorme massa di ghiaccio (seracco) si è staccata per le temperature elevate rispetto alla media stagionale. Infatti tra il 15 e il 16 settembre 2022 a Senigallia un’alluvione ha causato 12 morti e 50 feriti a causa di una bomba d'acqua che in sole tre ore ha scaricato più di 400 millimetri di pioggia. Le Marche sono state travolte da fango ed acqua a umi tra le strade di Senigallia e nei piccoli paesi. Un dramma senza precedenti in cui ha perso la vita anche un bambino di 8 anni ritrovato dopo alcuni giorni seppellito dal fango. Dopo Marmolada e Marche un’altra tragedia recente legata al clima ha colpito anche la Campania. Il 25 novembre ad Ischia una frana ha colpito il comune di Casamicciola causando la morte di 12 persone. Tra questi anche un neonato di 22 giorni, l’ultimo corpo è stato ritrovato il 6 dicembre. Un dramma che ha riaperto il dibattito pubblico sull’abusivismo edilizio su cui lo Stato sembrerebbe impotente.

L’anno si conclude con lo scandalo giudiziario del Qatargate. Il 9 dicembre ci sono stati i primi arresti avvenuti in seguito alle indagini della polizia belga che hanno coinvolto il parlamento europeo su presunte tangenti arrivate dall’emirato per inuenzare la politica dell'europarlamento ed evitare critiche e polemiche sui Mondiali di calcio. Tra gli arrestati anche Antonio Panzeri, ex europarlamentare del Pd, ora in Sinistra Italiana. Assieme a lui anche la ex vice presidente del Parlamento Europeo, la greca Eva Kaili. Nelle case degli arrestati sono state recuperati contanti per alcuni milioni di euro

DALLA A ALLA Z. L'alfabeto del 2022 della «Gazzetta del Mezzogiorno»

Dalla A di Autonomia Differenziata alla Z di Zona Bianca raccontiamo gli ultimi 365 giorni. E sì, lo sappiamo che manca la N... Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 30 Dicembre 2022

A- AUTONOMIA DIFFERENZIATA: Ancora tu, ma non dovevamo vederci più? Non c’è scampo. Governi di larghe intese, dei migliori, dei peggiori, di destra, di sinistra, non cambia nulla. Il federalismo rafforzato è l’idea ovunque della politica italiana. E le poche barricate erette da Sud sembrano di cartapesta. In un mondo che non conosce certezze, l’unica è proprio questa. Ahinoi.

B - BRONZI: Non solo plastica vomitano le acque. A San Casciano dei Bagni, nel Senese, sono riemerse 24 statue in bronzo, e 5mila monete d’oro, dopo 2300 anni di giacenza nei fanghi termali. Una scoperta che, annunciano gli esperti, “riscriverà la storia” della statuaria etrusco-romana e che, in collegamento ideale con i Bronzi di Riace, affratella Nord e Sud nel nome della meraviglia museale. Dal fango la grandezza. Una cosa molto italiana.

C - CLIMA: Il pianeta si surriscalda e le tragedie si susseguono. Comprese le azioni dimostrative degli eco-attivisti che bloccano il traffico (ambulanze comprese) e imbrattano opere d'arte. O la conversione del parco auto in elettrico a tappe forzate. Macchine costosissime e ore alla colonnina. Pagina uno del manuale “Come far detestare una nobile causa in poche, semplici mosse”.

D - DRAGHI: Viene in mente una battuta di Beppe Grillo su Mario Monti, tornato nella “sua” Bocconi dopo la parentesi di governo, con l'usciere dell'università che lo blocca e gli chiede: “Chi è lei? Dove va?”. Anche il migliore dei migliori è transitato portandosi dietro la classica gloria mundi. E ora - anzi, per ora - non ne parla più nessuno. Il tempo postmoderno digerisce perfino i banchieri.

E - ELISABETTA: La sovrana si congeda dal suo popolo e porta con sé forse l'ultimo pezzo di Novecento. Intere generazioni, cresciute a pane e regina, scoprono che i re inglesi (al maschile) non esistono solo nei romanzi cavallereschi. Pure questa è parità di genere.

F - FASCISMO: Cento anni dalla marcia su Roma ed è come se fosse ieri. Nel senso dell'ossessione di cui il dibattito italiano non riesce – o non vuole? - liberarsi. Aveva torto, Umberto Eco. Non è il fascismo a es- sere eterno ma la sua ombra. Sono fascisti la Meloni, Putin, i talebani, ma anche gli Ucraini, i pro vax, i no vax, quelli del green pass, a seconda dell’angolo visuale. Fascisti dappertutto, ma senza fascismo.

G - GAZZETTA: Il lettore ci perdonerà, rubiamo una lettera per noi. Dopo sette mesi di assenza forzata, la Gazzetta del Mezzogiorno è tornata nelle edicole e sul web il 19 febbraio, riprendendo una marcia che ora conta 135 primavere. E il Sud ha recuperato una corda vocale silenziata ma mai spezzata. Grazie per averci aspettati.

H - HOTEL: L’estate del 2022 ha proiettato Puglia e Basilicata nell’Eldorado del turismo. Bellezze naturali, borghi, città, cibo, accoglienza. E’ il nostro vantaggio competitivo, il petrolio che zampilla ovunque nelle nostre regioni. Ma occhio a non diventarne dipendenti. Quella di trasformare il Sud Italia in un Club Med a cielo aperto è una vecchia suggestione imprenditoriale, da Briatore in giù. Poi arriva il Covid e nessuno sa fare le mascherine. Non di solo turismo può vivere il Mezzogiorno.

I - INFLAZIONE: Rieccolo, il nemico numero uno delle famiglie. E pure in un'epoca in cui l'unica “scala mobile” è quella nei sottopassaggi delle stazioni. All'Italia intera sanguinano le tasche. L’unico che gongola è Karl Marx perché aveva ragione lui: la classe media non esiste. E’ un’illusione ottica. Appena i prezzi impennano, tutti giù per terra. Come nella celebre filastrocca. Ma stavolta non ride nessuno.

L - LIONEL (Messi): Al netto delle vestaglie qatariote e nonostante i suoi lascivi apologeti si adoperino in ogni modo per farcelo odiare, Leo corona con il Mondiale una carriera straordinaria. Non sarà Maradona, d’accordo, ma è il più grande della sua generazione con buona pace dell'eterno rivale Cristiano Ronaldo. Averlo visto correre su un campo di calcio è roba da raccontare a figli e nipoti.

M - MELONI: La prima presidente del Consiglio donna. O il primo, come ella comanda. Ma il fatto è quello. Così come è un fatto che, per la prima volta, un governo italiano sia guidato da un partito post- fascista. Donna e destra. Un binomio con tante sfumature e un alfabeto a parte: May, Merkel, Metsola, Lagarde, Le Pen, Truss, Von der Leyen. Qualcosa vorrà dire, o no?

O - ORI (di San Nicola): Scherza coi fanti e lascia stare i santi. E invece ai santi rubano gli ori come successo a San Nicola a Bari. Anche questo è un segno dei tempi: fino a qualche anno fa nessuno, italiano o straniero, si sarebbe permesso di consumare un simile oltraggio. Ma se a Napoli hanno saccheggiato la casa di Maradona, allora tutto può succedere. Non c’è più religione.

P - PD: Se avete finito l'università ma non sapete ancora cosa farvene della vita, state tranquilli. C'è chi ha crisi di identità peggiori della vostra. Dopo 15 anni di vittorie, sconfitte, governi, segretari a raffica (tutti uomini), il Partito democratico si prepara all’ennesima seduta collettiva di auto-analisi. Nel 2009 Pierluigi Bersani scelse la canzone Un senso di Vasco Rossi come colonna sonora della propria campagna congressuale. Faceva così: “Voglio trovare un senso a questa storia/ anche se questa storia (continuate voi….)”

Q - QATAR: Migliaia di operai morti, libertà negate, corruzione a pacchi, anzi a sacchi (di denaro). E il mondiale più bello di sempre. Un po' come l'Italia che, nell'anno dello scandalo scommesse, vinse il Campionato del Mondo del 1982 e, in quello di Calciopoli, il 2006, si premiò espugnando Berlino. Al dio del calcio non frega nulla di legalità e diritti.

R - REDDITO DI CITTADINANZA: Il grande tema del 2022. Ogni opinione è lecita ma senza l’acronimo più discusso d’Italia, RdC, si rischia l’ingresso di una valanga di nuovi poveri nell’arena sociale italiana, già piuttosto affollata. Sbaglia chi, privato del sussidio, chiede che sia la politica a trovargli un lavoro. Ma è altrettanto vero che è stata la politica a dargli il Reddito e poi a ritirarlo. Come recita il detto, per aggiungere tasse e cancellare bonus basta una colf. Il difficile è il piano B. Qualcuno ci pensi.

S - SPORT: Il Lecce in A, il Bari in B. E poi il nuoto con l’oro della tarantina Benny Pilato nei 100 rana e la pallavolo con la doppietta del salentino Fefè De Giorgi, unico al mondo ad aver vinto il mondiale di Volley sia da giocatore che da allenatore. L’anno d’oro dello sport italiano, quel 2021 tra Europei di calcio e volate di Jacobs, si prolunga nel 2022 con un’appendice pugliese. Testa alta e petto in fuori.

T - TARANTO: Il destino dell’ex Ilva, le aziende dell’indotto, la qualità dell’aria. Una storia infinita, molto italiana e molto meridionale, che si apparenta a quella dell’ex Alitalia e a mille altre, certificando la nostra incapacità di mettere un punto, quale che sia, ai grandi problemi del presente. Il tutto mentre la città prova a tessere un’altra tela con i fili del turismo, dell’impresa, della cultura, della bellezza. Una narrazione che merita di essere ascoltata. E raccontata. La sindrome di “Gomorra” va lasciata ad altri.

U - UCRAINA: Abbiamo imparato a metterla sulla carta geografica. Il che non necessariamente significa aver compreso la complessità della faccenda. Una sola certezza: la Storia è tornata, altro che finita. Pandemie, guerre, tumulti in Medio Oriente, crisi economiche. Il nostro tempo farà danna- re gli studenti di domani così come, per altri versi, fa dannare noi oggi. Ci distrugge “l’effetto farfalla”. Ricordate? Se una farfalla sbatte le ali a Pechino, piove a New York. Un modo colorito per dire che nel mondo globale nessuno è al sicuro.

V - VIRUS: L’anno si chiude col riapparire di un vecchio fantasma. Il Covid che dilaga in Cina e spande nel pianeta il profumo pungente della paura. Ci siamo già passati. Ma proprio per questo nessuno ha più voglia di mangiare involtini primavera a favor di telecamera o di promuovere aperitivi ponte tra Oriente e Occidente. La nuova ondata probabilmente non la scanseremo. Il circo speriamo di sì.

Z - ZONA BIANCA: L’ultimo spazio non ha cronache né colori se non il bianco della tabula rasa e della ripartenza. Quella che, ciclicamente, ci auguriamo segni la discontinuità col passato recente. Ognuno ci metta l’auspicio che vuole. Noi vi promettiamo l’impegno di sempre. Buon 2023 a tutti.

·         Chi sono i peggiori dell'anno?

Chi sono i peggiori dell'anno? Ecco il Podio del 2022. Michel Dessì ed Andrea Indini il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La medaglia di bronzo va a Conte e ai grillini trasformisti. L'argento a Letta che quest'anno le ha sbagliate davvero tutte. L'oro, infine, è per i radical chic, quelli che "se vince la Meloni lascio l'Italia"

Quante ne abbiamo viste quest'anno! È quasi impossibile tirare le somme: il bis di Sergio Mattarella al Quirinale; la guerra in Ucraina e la conseguente crisi energetica, che hanno letteralmente gonfiato i costi di tutto e svuotato i nostri portafogli; la fine degli inutili (e pericolosi) allarmismi dell'ormai ex ministro Roberto Speranza e delle viro-star sul Covid-19. E ancora: la caduta di Mario Draghi, il risultato storico di Fratelli d'Italia e il primo governo guidato da una donna, la sempre verde emergenza immigrazione. A ripercorrerli tutti c'è da far notte. Per questo abbiamo pensato a un Podio in edizione speciale che premi (si fa per dire) i tre peggiori del 2022.

Partiamo, come è nostra consuetudine, dal gradino più basso. La medaglia di bronzo va al "Giuseppi" nazionale. Una legislatura, tre matrimoni e tre divorzi: prima con la Lega di Matteo Salvini, poi con il Partito democratico a guida Nicola Zingaretti e, infine, con tutti quanti (tranne Fratelli d'Italia) a sostegno di Mario Draghi. Che trasformismo! E poi, in campagna elettorale, l'ultima magia: da avvocato del popolo a sobillatore del popolo. In Aula Giuseppe Conte faceva il pacifinto votando contro gli aiuti militari all'Ucraina, poi in spiazza agitava l'odio sociale contro Giorgia Meloni. Cosa non si è disposti a fare per un pugno di voti in più? Non c'è che dire: un vero furbetto! Tutto fumo negli occhi, per carità, ma bisogna ammettere che il gioco di prestigio gli è riuscito. Soprattutto tra i percettori del reddito di cittadinanza.

Ma non fatevi meravigliare. Conte, l'avvocato prestato alla politica, ha imparato dai migliori: i Cinque Stelle. Guardate Luigi Di Maio: sentito puzza di bruciato, si è inventato un partito che valeva lo zero virgola; è riuscito a convincere Enrico Letta a dargli un posticino in lista sotto l'ombrello del Partito democratico; e, dopo essere stato trombato dagli italiani, ora rischia pure di prendersi un mega incarico in Europa. Strabiliante!

E veniamo alla medaglia d'argento. Non può che andare a Enrico Letta. Poveretto: quest'anno le ha sbagliate davvero tutte. Quando poteva far fuori i Cinque Stelle dal governo, ha preferito incaponirsi contro il centrodestra. Poi Draghi ci ha messo del suo ed è venuto giù tutto. Quindi la campagna elettorale: la peggiore di sempre! A braccetto con Verdi e Sinistra Italiana, si è fatto spernacchiare da Conte con cui ha cercato fino all'ultimo di stringere un'alleanza. E, poi, tutti quegli allarmismi: "La destra restaurerà il fascismo"; "La destra spaccherà l'Unione europea"; "La destra devasterà il sistema Italia"; "La destra calpesterà i diritti umani". Peccato che si è rivelato una specie di Nostradamus al contrario. Non ne ha azzeccata una. Infatti gli elettori del Pd lo hanno sonoramente punito. E lui, coda tra le gambe, ha lasciato il Nazareno in un caos completo.

E arriviamo al primo posto! I peggiori di quest'anno sono sicuramente i radical chic. Quelli che "se vince la Meloni me ne vado dall'Italia". Elodie, la Murgia con i suoi schwa, Saviano con il suo diritto a insultare, tanto per citare i più agguerriti. Dopo un anno così gli italiani ne avranno sicuramente tasche piene di certi moralisti. Che poi, questa sinistra ha davvero poco di che fare la morale. Non fosse altro per come è andata a finire con l'idolo Aboubakar Soumahoro o con le mazzette dal Qatar.

·         E’ morta l’intervistatrice tv Barbara Walters.

(ANSA il 31 Dicembre 2022) - Barbara Walters, la star del piccolo schermo Usa che è stata a lungo anchor di Abc, è morta all'età di 93 anni. Lo riporta la stessa Abc. Walters è entrata in Abc News nel 1976 ed è divenuta la prima donna anchor in un programma di informazione serale. 

Walters ha trascorso 50 anni di fronte alla telecamera, fino a quando aveva 84 anni. Nella sua carriera, l'icona americana ha intervistato le maggiori celebrità: alle sue domande hanno risposto tutti i presidenti statunitensi da Richard Nixon a Barack Obama, ma anche lo shah dell'Iran, Muammar Gheddafi e Fidel Castro. La sua ascesa ha spianato la strada ad altre anchor di successo. I suoi primi passi li ha compiuti a Nbc, poi nel 1976 è approdata ad Abc salendo alle cronache come 'million-dollar baby' per il suo contratto di cinque anni da cinque milioni di dollari.

·         E’ morto l’arbitro Robert Anthony Boggi.

L'arbitro Boggi è morto: dalle partite internazionali allo scontro con Nicchi. Francesco Carci su La Repubblica il 31 Dicembre 2022.

Il fischietto italo-americano se n'è andato a 67 anni. Dopo le dimissioni, nel 1999, è stato critico con la categoria

Lutto nel mondo del calcio, in particolare in quello della classe arbitrale. Se n'è andato a Salerno, all'età di 67 anni, Robert Anthony Boggi, ex fischietto internazionale. Nato a New York, ma cresciuto nella città campana (era appartenente proprio alla sezione Aia di Salerno), Boggi era malato da tempo. Nel 2020 aveva confessato: "Sono malato, non so quanto tempo mi resta".

Boggi, l'esordio in Serie A nel 1990

Boggi ha diretto 119 partite in Serie A, debuttando in un Bari-Lazio del 1990, anno in cui si aggiudicò il premio "Giorgio Bernardi" come miglior giovane arbitro esordiente nella massima serie. Fu nominato internazionale nel 1996 (quando vinse un nuovo riconoscimento, il Premio Mauro) su scelta dell'allora designatore Casarin e conservò la carica fino al 1999, quando decise di dimettersi. Nel frattempo i nuovi designatori erano Bergamo e Pairetto. Nell'anno di Calciopoli, 2006, la Commissione straordinaria dell'Aia lo scelse come nuovo designatore dei direttori di gara di Serie C, carica che però lasciò poco dopo per alcuni contrasti con il presidente Gussoni, diventando poi osservatore per la Uefa. 

Boggi e lo scontro con Nicchi

Non era uno che le mandava a dire, Boggi. Ne sa qualcosa Marcello Nicchi, che se lo ritrovò avversario nel 2012 per la nomina alla presidenza dell'Aia. Vinse Nicchi e Boggi non la prese bene: "Dopo il Ventennio di Mussolini e di Berlusconi, preparatevi a quello di Nicchi", disse il fischietto di origini americane. I vertici federali non la presero benissimo e decisero per le vie legali. Negli ultimi anni Boggi ha criticato la divisione tra Can A e Can B, mentre a proposito del Var si è sempre dichiarato favorevole ("se c'è un rigore va dato, che importanza ha se lo segnala un altro e non io?"), auspicando però tempi di decisione più brevi. E un'altra presa di posizione era quella di dare la possibilità agli arbitri di parlare ai microfoni nel post-partita. Un argomento che tuttavia resta ancora oggi un tabù. Intanto, il vice presidente dell'Aia, Duccio Baglioni, insieme ai componenti del Comitato nazionale, hanno espresso alla famiglia Boggi "profondo cordoglio a nome di tutti gli arbitri italiani". 

·         È morto il musicologo Guido Zaccagnini.

Aveva 70 anni. È morto Guido Zaccagnini, addio al musicologo voce di Rai Radio 3. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Dicembre 2022

Guido Zaccagnini è morto all’improvviso, la scorsa notte, a 70 anni. Il musicologo e critico musicale era docente di storia della musica al Conservatorio e voce di Rai Radio 3, per la quale aveva condotto numerosi programmi. “La comunità di Radio3 è in lutto. Abbiamo perso un amico, uno straordinario uomo di musica. Guido Zaccagnini non c’è più. È mancato questa notte. Radio 3 lo ricorderà nel corso della giornata come si conviene ad un uomo che ne ha condiviso a lungo la storia e la grandezza“, si legge in un tweet di Radio 3.

È morto a Roma Zaccagnini, dov’era nato nel 1952 e dove viveva. Si era laureato al Dams di Bologna e si era diplomato in pianoforte al Conservatorio di Musica San Pietro a Majella di Napoli. Ha insegnato storia della musica al Conservatorio di Perugia, alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università Roma Tre e al Conservatorio di Musica di Santa Cecilia di Roma. Per dieci anni ha diretto l’ensemble cameristico Spettro Sonoro, che aveva fondato e con il quale ha eseguito e registrato l’intero corpus compositivo di Friedrich Nietzsche.

Zaccagnini aveva anche intrapreso una florida attività editoriale con traduzioni e cure di opere a tema musicale per editori quali Adelphi, Einaudi e Marsilio. Con Radio Rai collaborava da una trentina d’anni con i programmi “Audiobox” e “Il Paginone” come autore e conduttore. Aveva lavorato anche con RaiNews24 e Rai5. Conduceva da molti anni diversi programmi musicali, tra cui Primo Movimento, Radio3 suite, Edo e Zac, l’attualità riscattata dalla grande musica. Il suo ultimo libro lo aveva pubblicato quest’anno per l’editore Marsilio, Una storia dilettevole della musica. Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Morto Guido Zaccagnini, storico della musica e voce colta di Rai Radio3. HELMUT FAILONI su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2022.

È scomparso improvvisamente la notte del 27 dicembre all’età di settant’anni il celebre studioso e conduttore. Aveva appena pubblicato un libro (Marsilio) sulle invidie e ingiurie fra i compositori

Guido Zaccagnini (Roma 1952-2022)

Per migliaia di persone era una voce che arrivava in casa attraverso le frequenze di Rai Radio3 e raccontava la musica classica con un taglio alto ma mai cattedratico, e un’ironia in grado di strappare un sorriso anche al più ostico degli ascoltatori. Una voce che in tanti aspettavano come un irrinunciabile rito quotidiano.

Una voce che però ora non c’è più, perché si è spenta la notte del 27 dicembre a Roma. Improvvisamente. Aveva da poco pubblicato un libro mastodontico al quale teneva tantissimo (la recensione è su «la Lettura» del 2 ottobre): Una storia dilettevole della musica. Insulti, ingiurie, contumelie e altri divertimenti (Marsilio, pagine 496, euro 19), sulle cattiverie che si dicevano fra di loro i compositori. Lo divertivano molto. Storico della musica («musicologo sarà lei», scherzava con chi lo chiamava in quel modo), era nato a Roma 70 anni fa, nel 1952.

Si era laureato al Dams con il compositore Aldo Clementi e diplomato in pianoforte al Conservatorio. Ha insegnato inoltre alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’università Roma Tre e al Conservatorio di Santa Cecilia a Roma, collaborato con Rai News24 e con Rai5. Ha poi fondato e diretto l’ensemble Spettro Sonoro, con cui ha eseguito e registrato l’opera omnia musicale del filosofo Friedrich Nietzsche.

Coltissimo e rigoroso nei suoi articoli e nei suoi libri — oltre a quello appena citato, ha scritto Hector en Italie. Una lettura di Berlioz (Pendragon, 2002) e tradotto e curato La generazione romantica di Charles Rosen (Adelphi, 1997) e Su Beethoven. Musica, mito, psicanalisi, utopia di Maynard Solomon (Einaudi, 1998) — sempre piacevolmente divulgativo ed empatico nelle sue trasmissioni, Zaccagnini rimane per tantissime persone soprattutto una delle voci storiche di Radio3.

Voce roca, profonda, a chi gli diceva che avrebbe potuto cantare il blues rispondeva ridendo con qualche frase in romanesco. Poteva apparire burbero a volte, e forse si divertiva anche a lasciarlo pensare, ma era una persona dolcissima, come spesso lo sono quelli che giocano a fare i burberi.

In queste ore lo stanno ricordando sul suo profilo social (aveva iniziato da poco a farne uso) e con messaggi a tutte le trasmissioni di Radio3. Non manca nessuno: amici, studenti, ascoltatori, colleghi.

·         Si è spento il discografico Elio Cipressi.

Si è spento a 74 anni Elio Cipressi, detto Cipri, padre di Syria e punto di riferimento della discografia italiana. “Non è stato per niente facile dirti addio, ma ho fatto in tempo a coccolarti come speravo in questi giorni” scrive la figlia sui social. Emanuele Corbo su Il Fatto Quotidiano il 31 Dicembre 2022. 

Lutto nel mondo della musica. È morto Elio Cipressi, noto come Cipri, protagonista della discografia italiana e papà della cantante Syria. È proprio lei a dare la notizia sui social dedicandogli un post commosso: “Non è stato per niente facile dirti addio, ma ho fatto in tempo a coccolarti come speravo in questi giorni” scrive la cantante nel salutare il padre 74enne deceduto a Roma.

IL DOLORE DI SYRIA – A corredo di una foto in cui Elio Cipressi sorride felice con un cane in braccio, Syria, nome d’arte di Cecilia Cipressi, scrive: “Grazie di tutto papone mio, ascolto e riascolto i messaggi vocali sulla nostra chat, la tua voce sempre rassicurante anche quando discutevamo per le stupidaggini!! Quanti ricordi, quante sfumature vissute insieme… che privilegio averti avuto come padre”. Quindi la domanda più complicata di tutte e che non ha mai una risposta: “Come farò senza di te e le nostre telefonate la mattina!? Come farò senza di te punto! Mi mancherai sempre per sempre tutti i giorni. Ti amo”. In una serie di Instagram stories Syria ha condiviso numerose foto del padre in compagnia di grandi artisti, come Jovanotti, Zucchero e Mango. Un modo per tenere vivo il suo ricordo: “Ciao papà, quanto mi manchi […] Domani posto altre foto, che mi fa bene al cuore… mamma mia ragazzi che botta” ha confessato la cantante in un video postato all’alba, non riuscendo a prendere sonno.

L’ADDIO DEI BIG DELLA MUSICA – Elio Cipressi era molto conosciuto nell’ambiente musicale italiano. Lo testimoniano i tanti ricordi di artisti che non appena saputa la notizia gli hanno dedicato un pensiero: “Riposa in pace anima bella, quanto amore sta arrivando da ogni parte, quanto ti hanno voluto bene, quanto amore hai seminato, sei unico papà” prosegue ancora Syria. Tra i tanti messaggi di condoglianze quello di Emma Marrone (“Ti abbraccio sorella”), di Giorgia (“No Elio! un abbraccio stretto a te e al Tuta”), Biagio Antonacci (“Quante risate, che anni belli, riuscivi sempre a farmi compagnia… Anche quando il mio successo era lontano”). E ancora Red Ronnie (“Elio, sempre positivo. Quanti ricordi. Quando i discografici avevano un’umanità incredibile”), Nek (“Elio. Tutte le volte che ci vedevamo ci piaceva ricordare i miei inizi in fonit cetra. Quando c’eri tu che migliaia di volte mi hai affiancato e accompagnato. Un abbraccio stretto a voi tutti in famiglia. Vi sono vicino”) e Laura Pausini (“Mi sono svegliata con questa notizia che è un pugno nello stomaco. Caro Elio… come sei presente nei miei ricordi, quanti sorrisi e quante battute insieme, con quel tuo essere un uomo buono, gentile, attento, premuroso… Riposa in pace”).

CHI ERA ELIO CIPRESSI – Elio Cipressi, che lascia la moglie Paola e i figli Cecilia e Giorgio, aveva iniziato la carriera negli anni ’60 come cantante. Nel tempo è divenuto un punto di riferimento nella comunicazione musicale e talent scout. Ha curato l’ufficio stampa di diversi artisti e ha lavorato anche come promoter radiofonico.

·         E’ morto il fotografo Tony Vaccaro.

(ANSA il 30 dicembre 2022) - Tony Vaccaro è morto. Il fotografo italo-americano, che con i suoi scatti ha conquistato il mondo, aveva compiuto 100 anni dieci giorni fa. L'annuncio della scomparsa è stato dato dai figli. Originario di Bonefro (Campobasso) dove ha trascorso la sua infanzia, paese nel quale è tornato spesso e dove da otto anni c'è una mostra permanente dedicata alle sue foto, Vaccaro ha vissuto per decenni a New York dove la città ha celebrato i suoi 100 anni con una mostra intitolata "Tony Vaccaro: the Centennial Exhibition", conclusasi pochi giorni prima di Natale.

Bonefro invece aveva celebrato i cento anni del fotografo con una videochiamata pubblica di auguri lo scorso 21 dicembre, giorno del suo compleanno. Vaccaro è noto per aver raccontato con i suoi scatti la seconda guerra mondiale e gli anni successivi. Anni vissuti in prima persona e raccontati con oltre 20mila fotografie. La sua carriera sarà poi dedicata alla moda e alla collaborazione con le più importanti riviste americane. 

Ha fotografato i più importanti personaggi del mondo del cinema, dell'arte, della moda e della politica, da Kennedy a Sophia Loren. Il fotografo, che aveva superato per due volte il covid e nelle settimane scorse era stato di nuovo ricoverato in ospedale, ha rilasciato la sua ultima intervista proprio nei giorni scorsi al New York Post nella quale attribuiva la sua longevità a "cioccolato, vino rosso e determinazione".

·         È morto il musicista Alessandro Speranza.

È morto a 27 anni Alessandro Speranza, musicista che sognava di comporre colonne sonore da Oscar. Edoardo Iacolucci su Il Corriere della Sera il 31 Dicembre 2022.

Aveva 27 anni ed è stato stroncato da una malattia con cui combatteva da tempo. Aveva già scritto brani per il cinema

Il 28 dicembre, a soli 27 anni è morto il musicista romano Alessandro Speranza, stroncato da una malattia con cui combatteva da tempo. Era uno fra i compositori emergenti della scena musicale romana. Sognava di comporre la  colonna sonora per qualche film importante, ma ancora giovanissimo aveva già ottenuto importanti riconoscimenti. Dopo aver frequentato il liceo scientifico «Avogadro», aveva studiato Composizione al «Conservatorio di Santa Cecilia» e Musica per film presso il «Centro Sperimentale di Cinematografia» a Roma. Alessandro viveva per la musica. 

Tra mixer, chitarre, pianoforte, microfoni, le colonne sonore e i brani scritti con Michele Proietti, Alessandro Rizzo ed Emanuele Fragolini, gli amici che insieme formavano il suo groppo folk rock «McFly’s Got Time». Le cinque canzoni della band hanno iniziato a veder luce nel marzo 2015 e sono poi confluite nell’Ep d’esordio «Elsewhere», pubblicato a ottobre 2016. Il disco era stato autoprodotto ed arrangiato con gran raffinatezza, insieme a Nicola d'Amati presso «Officine Zero». Introspezione, amori spaziali, l’evasione dalla realtà e una californiana malinconia alla Tim Buckley percorrono navigando sulle onde del ritmo folk per tutta la durata dell’album. Le ricercate influenze più o meno dirette di Jim Croce, Bob Dylan, Jeff Buckley, George Harrison, contraddistinguono musica e testi, il miglior modo per ricordare e conoscere questo virtuoso musicista romano.

 A seguito dell’esordio discografico, tra le serate «Spaghetti Unplugged», quelle al «Monk», alle «Mura» e altri live club romani, la band era stata scelta per la Festa della Musica di Mantova e Alessandro Speranza premiato a 21 anni, dal «Quirinetta Social Bar», come «artista dell’anno 2016 ExitWell». E poi ancora il cinema. Da Cannes a Torino, da Venezia a Roma, le sue composizioni musicali, come quella per il corto del 2021 «Notte romana» di Valerio Ferrara, vincitrice per la miglior colonna sonora all’«Io non ti conosco film festival» e la colonna sonora composta per il corto «Il barbiere complottista», che vince al festival di Cannes 2022 per La Cinef Selection, lo portano in giro per l’Italia e l’Europa. Alessandro Speranza era un talento musicale e un ragazzo sensibile. È scomparso a 27 anni, gli anni in cui muoiono le rockstar, dopo una lunga battaglia contro la malattia che lo affliggeva da tempo. Alessandro lascia chi lo ha incrociato nel suo percorso, amici, cari e familiari con un grande dolore, ma anche con tanta musica che viaggerà per sempre navigando per l’aria.

·         E’ morto Pelè.

Da gazzetta.it il 29 dicembre 2022.  

Piange il mondo del calcio: Pelé non ce l'ha fatta, dopo diversi giorni in gravi condizioni è venuto a mancare. O Rei aveva 82 anni e a darne notizia è stata la figlia. 

Pelé. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Nazionalità  Brasile

Altezza 172 cm

Peso 75 kg

Calcio 

Ruolo Centrocampista, attaccante

Termine carriera 1º ottobre 1977

Carriera Giovanili 1952-1956

 Bauru 1956

Squadre di club

1957-1974  Santos 580 (568)

1975-1977  N.Y. Cosmos 56 (31)

Nazionale

1957-1971

 Brasile 92 (77)

Palmarès

 Mondiali di calcio

Oro Svezia 1958

Oro Cile 1962

Oro Messico 1970

 Campeonato Sudamericano de Football

Argento

Argentina 1959

 Taça das Nações

Argento

Brasile 1964

1 I due numeri indicano le presenze e le reti segnate, per le sole partite di campionato.

Pelé, pseudonimo di Edson Arantes do Nascimento (Três Corações, 23 ottobre 1940 – San Paolo, 29 dicembre 2022), è stato un calciatore e dirigente sportivo brasiliano, di ruolo centrocampista o attaccante.

Definito O Rei (in italiano Il Re), O Rei do Futebol (Il Re del Calcio) e Perla Nera (in portoghese Pérola Negra), è il Calciatore del Secolo per la FIFA, per il Comitato Olimpico Internazionale e per l'International Federation of Football History & Statistics (IFFHS), nonché Pallone d'oro FIFA del secolo, votato dai precedenti vincitori del Pallone d'oro. Successivamente ha ricevuto, unico calciatore al mondo, il Pallone d'oro FIFA onorario.

Da calciatore ha legato la sua carriera principalmente al Santos, con cui ha vinto, tra il resto, dieci volte il campionato Paulista, quattro il Torneo Rio-San Paolo, sei il Campeonato Brasileiro Série A e cinque (peraltro consecutive) la Taça Brasil, oltre a due edizioni della Copa Libertadores, altrettante della Coppa Intercontinentale e la prima edizione (su due disputate) della Supercoppa dei Campioni Intercontinentali. Trasferitosi negli Stati Uniti d'America nella parte finale di carriera, ha conquistato un Campionato NASL con i New York Cosmos.

È l'unico calciatore al mondo ad aver vinto tre edizioni del campionato mondiale di calcio, evento avvenuto con la nazionale brasiliana nel 1958, 1962 e 1970. Il suo gol realizzato alla Svezia nella finale del 1958 è considerato il terzo più grande gol nella storia della Coppa del Mondo FIFA e primo tra quelli realizzati in una finale di un campionato del mondo. La FIFA gli riconosce il record di reti realizzate in carriera, 1281 in 1363 partite, mentre in gare ufficiali ha messo a segno 757 reti in 816 incontri con una media realizzativa pari a 0,93 gol a partita.

Fa parte della National Soccer Hall of Fame ed è stato inserito dal settimanale statunitense Time nel "TIME 100 Heroes & Icons" del XX secolo. È stato dichiarato "Tesoro nazionale" dal presidente del Brasile Jânio Quadros e, nel luglio 2011, "Patrimonio storico-sportivo dell'umanità".

Caratteristiche tecniche

Pelé nel corso della sua carriera si è dimostrato un calciatore completo, capace di coniugare tecnica e abilità atletiche, intelligenza e velocità, precisione nei passaggi e senso del gol. A tal proposito, si ricorda che segnò cinque reti in un solo incontro in almeno sei occasioni, realizzò quattro gol in una singola partita trenta volte ed aggiunse a ciò novantadue triplette. Il giornalista sportivo Gianni Brera disse che «Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell'attacco e, scattando a fior d'erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull'altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti».

Il repertorio di dribbling di Pelé includeva una particolare giocata che in Brasile viene chiamata drible da vaca; un esempio di questa si ebbe nella partita contro l'Uruguay del Mondiale del 1970, quando l'attaccante lasciò passare il pallone – senza toccarlo – verso un lato del portiere Ladislao Mazurkiewicz e si lanciò su quello opposto, disorientando l'avversario. Abile con entrambi i piedi, Pelé fu anche un eccelso colpitore di testa, nonostante la statura relativamente ridotta; nella finale della citata edizione dei Mondiali di calcio marcò un gol effettuando un balzo da atleta.

Inizi

Figlio dell'ex calciatore Dondinho (all'anagrafe João Ramos do Nascimento) che terminò la propria carriera a causa di un infortunio al ginocchio, e di Maria Celeste Arantes, Pelé fu inizialmente soprannominato Dico dai suoi parenti. A 5 anni, nel 1945, si trasferì con la famiglia a Bauru. Da bambino si guadagnò compensi extra pulendo scarpe e quando il padre gli disse di giocare a calcio inizialmente, vista la povertà della famiglia, non poté comprare un pallone, ma giocò solitamente con un calzino o degli stracci riempiti con carta e legati con un laccio, oppure con un frutto di mango.

Fu in quel periodo che un suo compagno di scuola gli diede il soprannome Pelé (secondo uno dei film autobiografici su Pelé, tra questi ragazzi c'era anche José Altafini; tuttavia lo stesso giocatore smentì quest'ipotesi). Il nomignolo gli fu dato per farlo arrabbiare, poiché Pelé pronunciava Pilé il nome del portiere Bilé. Sebbene egli non abbia mai nascosto di non gradirlo, esso rimane l'appellativo con cui è stato consegnato alla storia del calcio. In realtà, Pelé ha sempre ricordato con orgoglio come il suo vero nome, cioè Edison o Edson, con il quale vorrebbe essere chiamato, gli sia stato imposto in onore di Thomas Alva Edison. La prima squadra in cui giocò Pelé fu il Bauru, squadra dilettantistica locale, ma a breve fu notato da Waldemar de Brito, ex nazionale brasiliano degli anni trenta e quaranta, che all'età di 15 anni lo convinse a fare un provino per il Santos.

Nel 1956 Waldemar de Brito disse alla dirigenza del Santos che quel ragazzino di 15 anni sarebbe diventato il miglior calciatore del mondo. Pelé raggiunse così le giovanili del Santos e vi giocò per una stagione prima di approdare in prima squadra. Pelé debuttò con la maglia del Santos il 7 settembre 1956 in amichevole contro il Corinthians de Santo André, subentrando a Del Vecchio e segnando al 36º minuto un gol nel 7-1 finale per la squadra di Santos.

Santos

Nel 1957, all'inizio della stagione, Pelé, che fu soprannominato Gasolina in onore di un cantante brasiliano, fu inserito stabilmente come titolare della prima squadra e, all'età di soli 16 anni, divenne il capocannoniere del Campionato Paulista. Dieci mesi dopo aver firmato il suo primo contratto professionistico il ragazzo fu anche convocato in Nazionale.

Sia dopo il Mondiale 1958 che quello del 1962, diverse squadre europee offrirono cifre importanti per acquistare il giovane giocatore, fra cui il Real Madrid, la Juventus e il Manchester United; nel 1958 l'Inter riuscì persino a fargli stipulare un regolare contratto, ma Angelo Moratti si vide costretto a stracciarlo in seguito a un'aggressione subita dal presidente del Santos a opera di un tifoso. Nel 1961, comunque, il governo del Brasile dichiarò Pelé "Tesoro nazionale" per evitare qualsiasi possibile trasferimento.

Il 22 novembre 1964, nella gara Santos-Botafogo (11-0), batté otto volte il portiere Machado, stabilendo il nuovo record di marcature in una sola partita del Campionato Paulista, che in precedenza apparteneva ad Arthur Friedenreich con i sette gol realizzati nel 1929. Il 19 novembre 1969 Pelé segnò il 1.000º gol in carriera. La rete, chiamata familiarmente O Milésimo (Il Millesimo), è stata realizzata contro Edgardo Andrada del Vasco da Gama su calcio di rigore allo Stadio Maracanã.

Secondo Pelé il suo più bel gol fu quello segnato allo Stadio Rua Javari il 2 agosto 1959 in una partita del Campionato Paulista contro il Clube Atlético Juventus. Siccome non esiste una registrazione visiva di quella partita la rete è stata ricostruita con un'animazione a computer su richiesta dello stesso Pelé. A ricordo di quel gol nell'agosto 2006 sono stati realizzati un busto e una targa all'esterno del Rua Javari. Nel marzo 1961, Pelé invece ha realizzato il cosiddetto gol de placa (gol da targa): una rete contro il Fluminense, ritenuta così spettacolare che fu realizzata una targa con una dedica al più bel gol mai segnato al Maracanã.

Negli anni sessanta e settanta il Santos era considerata tra le squadre migliori del mondo, tanto che girava i continenti disputando amichevoli con innumerevoli squadre, una sorta di Harlem Globetrotters del calcio. Singolare è l'episodio avvenuto in Colombia in cui un arbitro espulse O Rei: il pubblico si imbestialì a tal punto che Pelé rientrò in campo e fu il direttore di gara stesso a dover abbandonare il rettangolo verde. Per non parlare del fatto che nel 1967 le due fazioni che stavano combattendo la guerra civile in Nigeria siglarono una tregua di 48 ore per poter vedere giocare Pelé in amichevole a Lagos. Questo episodio fu la testimonianza che la figura di Pelé trascese i confini sportivi più di qualunque altro atleta al mondo, entrando nella storia come una delle maggiori icone contemporanee.

Il 27 maggio 1971, allo stadio Lužniki di Mosca, partecipò alla partita d'addio di Lev Jašin, da lui considerato "un grande portiere ed un uomo dalla grandissima generosità".

Nel 1974 dopo 19 stagioni con la maglia del Santos, Pelé decise di ritirarsi dal calcio dopo aver giocato insieme a grandissimi calciatori come Zito, Pepe e Coutinho, vincendo 10 titoli paulisti, 5 Taça Brasil consecutive dal 1961 al 1965, record del calcio brasiliano (allora il campionato brasiliano ancora non esisteva e la coppa nazionale di fatto eleggeva la squadra migliore del Paese), 3 Tornei Rio-San Paolo, una Taça de Prata, 2 Coppe Libertadores, 2 Coppe Intercontinentali e una Supercoppa dei Campioni Intercontinentali.

New York Cosmos

Nel 1975 dopo un anno lontano dai campi di gioco, Pelé fu ingaggiato dai New York Cosmos, squadra della North American Soccer League (NASL), che gli offrì, con il beneplacito del governo brasiliano, un contratto di circa 4,5 milioni di dollari per tre anni. La Warner Communications, proprietaria del club, volle Pelé, oltre che per le sue doti tecniche, anche per promuovere il calcio nell'America del Nord e mise insieme una parata di giocatori d'eccezione quali, oltre a Pelé, Carlos Alberto, Beckenbauer e Chinaglia.

Pelé esordì con i Cosmos il 15 giugno 1975 in amichevole contro i Dallas Tornado (2-2), partita nella quale realizzò un gol e fu autore di un assist. Con la squadra di New York riuscì a vincere l'edizione del 1977 del giovane campionato nordamericano di calcio. In tutte e tre le stagioni di militanza fu inserito nell'All-Star Team della NASL, di cui fu nominato MVP nel 1976.

Il ritiro

Il 1º ottobre 1977 Pelé concluse la sua carriera disputando un'amichevole tra Cosmos e Santos, le sue due squadre. La partita fu disputata in un Giants Stadium tutto esaurito e fu trasmessa dalle televisioni di 38 Paesi di tutto il mondo. Il brasiliano giocò il primo tempo con i Cosmos e il secondo con il Santos. Il match fu vinto dalla squadra statunitense: a segnare furono Reynaldo per l'1-0 del Santos e Pelé su punizione nella prima metà della gara e Mifflin, che all'intervallo aveva preso il posto dello stesso Pelé nelle file dei Cosmos, per il 2-1 finale. Durante l'intervallo i Cosmos ritirarono la maglia numero 10 di Pelé e alla fine della partita O Rei, impugnando una bandiera del Brasile nella mano destra e una degli Stati Uniti in quella sinistra, fu caricato sulle spalle dai compagni di squadra e portato in trionfo fuori dal campo. Dopo il suo ritiro J.B. Pinheiro, ambasciatore brasiliano presso l'ONU, dichiarò:

«Pelé ha giocato a calcio per ventidue anni e durante quel periodo ha promosso l'amicizia e la fraternità mondiali più di qualunque ambasciatore»

Pelé si ritirò dal mondo del calcio dopo aver realizzato 1.281 gol, che gli valsero il titolo di più grande goleador della storia del calcio. Arthur Friedenreich, secondo alcune fonti, forse anche per un errore di trascrizione, avrebbe segnato ancora di più: ben 1.329 reti dal 1909 al 1935, ma a differenza di O Rei non esistono statistiche ufficiali per confermarlo e quindi per la FIFA il primato spetta a Pelé.

Nazionale

Pelé debuttò nella Nazionale brasiliana il 7 luglio 1957, tre mesi prima del suo 17º compleanno, contro gli storici rivali dell'Argentina che in quell'occasione sconfissero il Brasile per 2-1. L'unica rete dei verdeoro fu messa a segno proprio da Pelé.

Mondiale 1958

Pelé (a destra) e il portiere della Svezia, Kalle Svensson, durante la finale del Mondiale 1958

Pelé fu convocato dal CT verdeoro Feola per i Mondiali 1958 svoltisi in Svezia. Pelé disputò la prima partita ai Mondiali contro l'Unione Sovietica nella fase a gironi. Era il più giovane del torneo e il più giovane ad avere mai giocato una partita della fase finale della Coppa del Mondo. Realizzò il primo gol ai Mondiali contro il Galles il 19 giugno 1958, rete che determinò l'1-0 finale consentendo al Brasile di qualificarsi alle semifinali. In semifinale contro la Francia il 24 giugno Pelé segnò una tripletta che determinò il 5-2 finale. Grazie a queste reti diventò il più giovane marcatore nella storia della Coppa del Mondo (17 anni e 239 giorni) e anche il più giovane a realizzare tre gol (17 anni e 244 giorni).

Il 29 giugno 1958 Pelé scese in campo allo stadio Råsunda nella finale contro i padroni di casa della Svezia e a 17 anni e 249 giorni fu il più giovane calciatore a giocare una finale di Coppa del Mondo. La Seleção sconfisse la Svezia per 5-2 aggiudicandosi il suo primo titolo mondiale, anche grazie a due reti di O Rei. Il primo gol di Pelé, un pallonetto a superare il difensore che lo marcava, seguito da un preciso tiro al volo, in seguito è stato scelto come uno dei più grandi gol nella storia della Coppa del Mondo. A fine torneo Pelé poteva vantare sei gol realizzati in quattro partite giocate, secondo miglior marcatore a pari merito con il tedesco Helmut Rahn (che però giocò sei partite) e alle spalle del francese Just Fontaine, che in quell'edizione realizzò ben tredici reti, segnando almeno un gol in tutte e sei le gare disputate dalla sua Nazionale.

Campeonato Sudamericano de Football 1959

Nel 1959 Pelé disputò il Campeonato Sudamericano de Football in Argentina. Il Brasile arrivò secondo nel torneo alle spalle dell'Argentina (10 punti contro gli 11 dell'Albiceleste) e Pelé si laureò capocannoniere con 8 gol in 6 partite.

Mondiale 1962

Il 30 maggio 1962 contro il Messico, prima partita dei Mondiali di Cile '62 ai quali il Brasile, guidato da Moreira, era qualificato di diritto in qualità di detentore del titolo, Pelé fu autore dell'assist per il primo gol di Zagallo e segnò il secondo che decretò il 2-0 finale dopo avere superato quattro difensori. Il 2 giugno, però, nella seconda gara contro la Cecoslovacchia, O Rei si infortunò mentre stava tentando un tiro da lontano e fu sostituito da Amarildo. Pelé a causa di quell'infortunio dovette saltare tutte le altre gare della competizione, ma a guidare il Brasile verso il suo secondo titolo mondiale fu Garrincha.

Pelé guida in campo il Brasile allo stadio San Siro di Milano, in occasione dell'amichevole del 1963 contro l'Italia.

Inizialmente Pelé non fu premiato con alcuna medaglia, non avendo disputato la finale, ma nel novembre del 2007 la FIFA annunciò che avrebbe consegnato una medaglia d'oro anche ai 122 componenti delle rose campioni del mondo prima del 1978 che non l'avevano ricevuta, quindi anche a O Rei per i Mondiali 1962.

Mondiale 1966

Anche per i Mondiali del 1966 in Inghilterra il Brasile, alla cui guida era tornato Feola, era qualificato di diritto avendo vinto l'edizione precedente della Coppa del Mondo. Il torneo del 1966 fu contraddistinto da un gioco molto duro e Pelé fu uno dei giocatori che ne fecero le spese. Con la rete realizzata su punizione il 12 luglio contro la Bulgaria, prima gara dei verdeoro, O Rei divenne il primo giocatore a segnare in tre diverse edizioni dei Mondiali. Dopo quella partita Pelé dovette fermarsi per recuperare da un infortunio al ginocchio subito per un rude intervento del difensore bulgaro Žekov e fu costretto a saltare il secondo match contro l'Ungheria, perso dalla Seleção per 3-1. Fu nuovamente disponibile per la terza gara del girone eliminatorio contro il Portogallo di Eusébio, ma diversi contrasti violenti dei difensori portoghesi (in particolare uno di João Morais), tollerati dall'arbitro inglese McCabe, non essendo permesse sostituzioni lo costrinsero a giocare buona parte dell'incontro zoppicando. Il Brasile fu nuovamente sconfitto per 3-1 e venne così eliminato al primo turno dei Mondiali per la prima volta dal 1934. Dopo la fine della manifestazione Pelé dichiarò che non avrebbe più giocato nella Coppa del Mondo.

Mondiale 1970

(EN) «How do you spell Pelé? G-O-D»

(IT) «Come si scrive Pelé? D-I-O»

(Titolo del Sunday Times il giorno dopo la finale dei Mondiali 1970)

Pelé (il secondo in basso partendo da destra) prima della partita contro il Perù durante la Coppa del Mondo 1970

Quando fu chiamato dal CT nel 1969, Pelé rispose alla convocazione e disputò sei partite di qualificazione ai Mondiali del 1970 segnando altrettanti gol.

La squadra brasiliana che partecipò alla fase finale dei Mondiali settanta in Messico, che sarebbero stati gli ultimi per Pelé, fu guidata da Zagallo e fu radicalmente diversa da quella dei Mondiali 1966 anche per il ritiro di diversi giocatori quali Garrincha, Nílton Santos, Djalma Santos e Gilmar. Il 3 giugno 1970, nella prima partita contro la Cecoslovacchia, Pelé segnò la seconda rete verdeoro del 4-1 finale su assist di Gérson, diventando il secondo giocatore della storia a segnare in quattro diverse edizioni della coppa del mondo (il tedesco Uwe Seeler lo precedette di soli 3 minuti nella partita Germania Ovest - Marocco, iniziata in contemporanea. Seller segno al 56', Pelè al 59'). Il 10 giugno, nell'ultima partita della fase a gironi, O Rei realizzò una doppietta contro la Romania che, insieme al gol di Jairzinho, consentì ai verdeoro, comunque già qualificati, di vincere 3-2. Nei quarti contro il Perù, Pelé non andò a segno ma fornì l'assist a Tostão per la terza rete della Seleção (4-2 il risultato finale). Anche in semifinale contro l'Uruguay O Rei non figurò tra i marcatori, ma fornì a Rivelino l'assist per il 3–1 finale. Il 21 giugno il Brasile affrontò in finale l'Italia, reduce dal successo per 4-3 dopo i supplementari contro la Germania Ovest. Fu proprio Pelé ad aprire le marcature al 18º minuto di gioco, segnando di testa su cross di Rivelino, realizzando poi anche gli assist per le reti di Jairzinho e Carlos Alberto. Con quel gol O Rei divenne il secondo calciatore a segnare in due diverse finale dei Mondiali dopo Vavá. Il Brasile vinse per 4-1 (segnarono anche Gérson per i verdeoro e Boninsegna per gli azzurri), conquistando, come Pelé, il terzo titolo mondiale della sua storia e potendo così tenere definitivamente la Coppa Jules Rimet. Burgnich, difensore italiano che ebbe il compito di marcare O Rei in finale, dopo la partita dichiarò:

«Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo»

Ritiro dalla Nazionale

Pelé dopo la vittoria del Mondiale 1970 giocò altre quattro partite amichevoli con la Seleção, l'ultima delle quali il 18 luglio 1971 a Rio de Janeiro contro la Jugoslavia.

Nel 1976 Pelé fu convocato nella Selezione degli Stati Uniti per una gara contro l'Italia (persa per 0-4). La gara era inserita nel programma del Torneo del Bicentenario dell'Indipendenza degli Stati Uniti.

Con la maglia del Brasile Pelé ha disputato in totale 92 partite (67 vittorie, 14 pareggi e 11 sconfitte) realizzando 77 reti (miglior cannoniere della Nazionale brasiliana di sempre con una media 0,837 gol a partita) e vincendo tre Mondiali. Con in campo sia Garrincha che Pelé la Nazionale brasiliana non ha mai perso una partita. Dopo il ritiro

Il presidente brasiliano Lula (a sinistra) e Pelé durante la commemorazione dei 50 anni della vittoria del primo Mondiale della Seleção

Terminata la carriera agonistica, Pelé, a differenza di molti suoi colleghi, preferì non fare l'allenatore di calcio.

Inizialmente Pelé pubblicò alcune autobiografie e comparve in diversi documentari, oltre a comporre alcuni brani musicali, tra cui l'intera colonna sonora del film Pelé del 1977. Nel 1981 insieme ad altri celebri calciatori degli anni sessanta e settanta e a Michael Caine e Sylvester Stallone, recitò in Fuga per la vittoria, film sul tentativo di fuga di alcuni detenuti in un campo di concentramento nazista durante la seconda guerra mondiale.

È stato il primo personaggio sportivo intorno a cui è stato realizzato un videogioco, Pelé's Championship Soccer per Atari 2600 nel 1980 e dall'anno successivo con il nome Pelé's Soccer; gli è stato anche intitolato lo stadio di Maceió, l'Estádio Rei Pelé (in italiano Stadio Re Pelé), conosciuto anche come Trapichão e costruito nel 1970.

Nel 1992 fu nominato ambasciatore delle Nazioni Unite per l'ecologia e l'ambiente e nel giugno 1994 Goodwill Ambassador dall'UNESCO. Nel 1995 il presidente brasiliano Cardoso lo nominò ministro straordinario per lo sport. In questo periodo Pelé propose una legge per ridurre la corruzione nel calcio brasiliano, che divenne nota con il nome di "Legge Pelé". O Rei ricoprì tale carica fino all'aprile del 1998, quando si dimise.

Pelé mentre palleggia con Bill Clinton a Rio de Janeiro nel 1997

Pelé è ritornato a ricoprire un ruolo nelle squadre di calcio nel 2002, quando fu talent scout per gli inglesi del Fulham, squadra di Premier League.

Ambasciatore per il calcio della FIFA e membro del Football Committee, è stato scelto per effettuare i sorteggi della qualificazione ai Mondiali 2002 in Giappone e Corea del Sud e come ospite all'inaugurazione dei Mondiali 2006 in Germania insieme alla top model Claudia Schiffer. Ha inoltre supervisionato per la FIFA la stesura del FIFA 100, lista dei 125 calciatori viventi (123 uomini e 2 donne) considerati i migliori al mondo.

Nel novembre 2007 è stato ospite d'onore ai festeggiamenti per il 150º anniversario dello Sheffield Utd, la più antica squadra di calcio ancora in attività, che ha disputato un'amichevole con l'Inter (5-2 per i nerazzurri). Pelé ha inaugurato una mostra nella quale veniva esposta al pubblico per la prima volta in 40 anni la copia originale scritta a mano delle regole del calcio.

Da anni lotta per l'educazione dei giovani contro l'uso di sostanze stupefacenti, causa dell'arresto del figlio Edinho, ex portiere, nel 2005. Importante anche il suo impegno contro le discriminazioni razziali e sessuali fuori e dentro il mondo sportivo.

Nonostante il suo vasto patrimonio, derivante in gran parte da attività extracalcistiche, dal 2008 è stato registrato presso la previdenza brasiliana come ex atleta professionista e da ottobre ha ricevuto una pensione mensile di quasi 3.000 real.

Nell'agosto del 2010 è stato nominato presidente onorario dei New York Cosmos per riuscire a rilanciare la società newyorkese, coadiuvato anche da Éric Cantona, Giorgio Chinaglia Carlos Alberto e dall'attore Robert De Niro. in vista di un futuro approdo nella Major League Soccer.

Il 27 luglio 2011 è stato nominato, insieme all'argentino Lionel Messi e al messicano Hugo Sánchez, "Patrimonio storico-sportivo dell'umanità" dall'Ufficio internazionale del capitale culturale a seguito di un sondaggio popolare cui hanno partecipato 327.496 persone provenienti da 72 paesi diversi.

I nipoti di Pelé, Octavio Felinto Neto e Gabriel Arantes do Nascimiento di 12 e 10 anni e figli di Sandra Regina Arantes do Nascimiento, riconosciuta da O Rei nel 1996, a partire da luglio 2011 sono entrati a far parte delle giovanili del San Paolo dopo essersi messi in mostra con il Paraná. Anche l'altro suo figlio Joshua, avuto a 56 anni, è un calciatore.

Il 12 agosto 2012 partecipa alla Cerimonia di chiusura dei Giochi Olimpici di Londra nel segmento di presentazione dei Giochi Olimpici che si sono tenuti a Rio de Janeiro nel 2016.

Il 15 giugno 2015 Pelè partecipa alla conferenza di Electronic Arts all'Electronic Entertainment Expo 2015, salendo fisicamente sul palco con lo stupore di tutti i presenti, dove racconta la sua storia che lo ha portato ai 1000 gol in carriera, presentando il videogioco a tema calcistico FIFA 16. Lo stesso Pelè sarà poi protagonista del primo trailer del videogioco.

Nel maggio 2016 è in Italia per la promozione del suo film Pelé: il 25 maggio è sul palco della Bocelli & Zanetti Night insieme a Roberto Carlos e Leonardo. Il 5 giugno è ospite alla partita benefica Soccer Aid a Manchester insieme a José Mourinho e altri. Quattro giorni dopo a Parigi, prima dell'inizio dell'Europeo, ha modo di riappacificarsi con Diego Armando Maradona mettendo da parte i vecchi dissidi.

Nel 2019 il gruppo musicale Thegiornalisti gli dedica una canzone dal titolo Maradona y Pelé.

Problemi di salute

Il 12 novembre 2014 viene ricoverato in ospedale a causa di calcoli renali localizzati a livello dell'uretra e della vescica e per un'infezione urinaria, venendo curato in emodialisi; viene dimesso il 9 dicembre. Nel maggio seguente viene operato alla prostata all'ospedale Albert Einstein di San Paolo. In seguito, il 4 settembre 2021 viene operato per un tumore al colon.

Tuttavia, il peggioramento delle sue condizioni di salute crea preoccupazione nei medici. L'aggravarsi del suo tumore al colon provoca la morte il 29 dicembre 2022.

Statistiche

Tra squadre di club e nazionale maggiore, Pelé ha giocato globalmente 816 incontri ufficiali segnando 757 reti, alla media di 0,93 gol a partita.

Record

Calciatore ad aver segnato più reti (654) in competizioni nazionali e statali di massima divisione (605 nei campionati, dei quali 6 in playoff e spareggi e 49 nel Torneo Rio-San Paolo) ed in assoluto con squadre militanti nei tornei di massima divisione (680).

Calciatore ad aver segnato più gol in campionato (o massima competizione nazionale) con la stessa maglia (568 gol nel Santos).

Calciatore ad aver segnato più gol con la stessa maglia in un club sudamericano (643 nel Santos). Il primato è stato assoluto fino al dicembre 2020, quando è stato battuto da Messi con il Barcellona.

Maggior cannoniere della storia della Selecão e miglior media gol a partita in nazionale verde-oro (77 reti in 92 presenze, pari a 0,84 gol/partita) tra coloro che hanno messo a segno almeno 30 reti.

La FIFA gli riconosce il maggior numero di reti realizzate in assoluto in carriera nonostante le sue marcature totali siano oggetto di dibattito e, stando ai dati ufficiali, non sia il più prolifico bomber della storia del calcio (1281 gol comprensivi di amichevoli, incontri non ufficiali e nelle giovanili, che si riducono a 757 accreditati).

Ha segnato almeno 50 reti per 4 stagioni durante l'arco della sua carriera (al pari di Bican e Peyroteo). Hanno fatto meglio di lui solo Cristiano Ronaldo e Lionel Messi con 6. Unico nella storia ad aver segnato più di 70 gol tra club e nazionale in due annate (1958 e 1965).

Palmarès

Club

Competizioni statali

 Campionato Paulista: 10

Santos: 1958, 1960, 1961, 1962, 1964, 1965, 1967, 1968, 1969, 1973

 Torneo Rio-San Paolo: 4

Santos: 1959, 1963, 1964,

Torneo Roberto Gomes Pedrosa: 1

Santos: 1968

Competizioni nazionali

Campeonato Brasileiro Série A : 6

Santos: 1961, 1962, 1963, 1964, 1965, 1968

 Taça Brasil: 5

Santos: 1961, 1962, 1963, 1964, 1965

Campionato interstatale brasiliano

Selezione di San Paolo 1959

Campionato NASL: 1

New York Cosmos: 1977

Competizioni internazionali

Copa Libertadores: 2

Santos: 1962, 1963

Coppa Intercontinentale: 2

Santos: 1962, 1963

Supercoppa dei Campioni Intercontinentali: 1

Santos: 1968

Nazionale

Maglia autografata di Pelè al Museo del calcio di Coverciano

 Campionato mondiale: 3 (record)

Svezia 1958, Cile 1962, Messico 1970

Copa Roca: 2

1957, 1963

Coppa Oswaldo Cruz: 3

1958, 1962, 1968

Coppa Bernardo O'Higgins: 1

1959

Coppa dell'Atlantico: 1

1960

Individuale

Miglior giovane dei Mondiali: 1

Svezia 1958

Capocannoniere del Campionato Paulista: 11

1957 (36 gol), 1958 (58 gol, record per il Campionato Paulista), 1959 (45 gol), 1960 (34 gol), 1961 (47 gol), 1962 (37 gol), 1963 (22 gol), 1964 (34 gol), 1965 (49 gol), 1969 (26 gol), 1973 (11 gol)

Capocannoniere della Taça Brasil: 2

1961 (7 gol), 1964 (8 gol)

Capocannoniere del Torneo Rio-São Paulo: 1

1963 (14 gol)

Capocannoniere della Copa Libertadores: 1

1965 (8 gol)

Capocannoniere della Copa América: 1

Argentina 1959 (8 gol)

Calciatore sudamericano dell'anno: 1

1973

MVP del Campionato NASL: 1

1976

All-Star Team del Campionato NASL: 3

1975, 1976, 1977

Inserimento nella National Soccer Hall of Fame:

1993

FIFA World Cup All-Time Team

Atleta del Secolo del CIO:

1999

Calciatore del secolo della FIFA:

2000

Patrimonio storico-sportivo dell'umanità del Brasile:

2011

Pallone d'oro FIFA - Prix d'Honneur

2013

Inserito nel Dream Team del Pallone d'oro (2020)

Filmografia

Cinema

O Barão Otelo no Barato dos Bilhões (1971)

A Marcha (1973)

Isto É Pelé – documentario (1974)

Os Trombadinhas (1978)

Fuga per la vittoria (Escape to Victory), regia di John Huston (1981)

A Minor Miracle (1983)

Pedro Mico (1985)

Os Trapalhões e o Rei do Futebol (1986)

Hotshot (1987)

Solidão, Uma Linda História de Amor (1990)

Mike Bassett: England Manager (2001)

ESPN SportsCentury (2004)

Pelé eterno – documentario (2004)

Pelé (Pelé: Birth of a Legend), regia di Jeff e Michael Zimbalist (2016)

Pelé: il re del calcio (Pelé: the King of Soccer), regia di David Tryhorn e Ben Nicholas – documentario (2021)

Televisione

Os Estranhos – serie TV (1969)

Onorificenze

Cavaliere Commendatore dell'Ordine dell'Impero Britannico

— Londra, 3 dicembre 1997 

Ordine al Merito Culturale

«Per il contributo allo sviluppo della cultura del paese»

— Brasilia, 9 novembre 2004

BIOGRAFIA DI PELÈ

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Pelé (Edson Arantes do Nascimento), nato a Três Corações (Brasile) il 23 ottobre 1940. Ex calciatore, di ruolo attaccante. Storica bandiera del Santos (1956-1974), poi nei New York Cosmos (1975-1977). Asso della Nazionale brasiliana (1957-1971), con cui, unico calciatore della storia, conquistò tre campionati mondiali (1958, 1962, 1970). «Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelé. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione» (Gianni Brera)

• «Il suo nome, Edson, fu voluto dal padre, il discreto centravanti Dondinho, perché in quei giorni carichi d’attesa del marzo 1940, nel paese di Três Corações, Tre Cuori, sud-est del Brasile, era arrivata l´elettricità. Sicché il battesimo cattolico di quello scimmiotto tutto nero, un vero "crioulo", un creolo, come lo chiamò una volta il medico della Nazionale, era stato anche una cerimonia in onore di Thomas Alva Edison, l´inventore della lampadina.

Un buon auspicio per un giocatore predestinato: già papà Dondinho, vedendolo, appena nato, scalciare con le gambette magroline, aveva esclamato: “Sarà un grande calciatore”; il nome elettrico era la sottolineatura per un asso che avrebbe illuminato il calcio mondiale. […] "Pelé" giunse dopo altri soprannomi: "Dico", come lo chiamava lo zio e lo avrebbe sempre chiamato la mamma; e "Gasolina", quale lo etichettarono nel Santos, in onore di un cantante brasileiro» (Edmondo Berselli) 

• «Ci sono due versioni sull’origine del nome “Pelé”: la prima pare derivi dal fatto che “O Rei” da ragazzino storpiasse il nome del suo portiere “Bilé” in una delle sue prime squadre giovanili; la seconda invece sarebbe derivata dall’abbreviazione del termine “pelada”, palla di stracci. La stessa con la quale il giocatore (di origini umili) cominciò a stupire tutti…» (Fiorenzo Radogna).

• «Erano poverissimi i Nascimento. Il papà, João Ramos, era il più umile uomo delle pulizie dell’ospedale di Bauru. E il piccolo Dico arrotondava il magro bilancio familiare facendo il lustrascarpe. João Ramos aveva sperato in una vita diversa, e aveva avuto anche l’opportunità di viverla. Ma il sogno brasiliano (diventare una stella del calcio) lo aveva sedotto e poi abbandonato giocando con lui come il gatto con il topo. Era stato un buon centravanti, João Ramos do Nascimento, ma ai suoi tempi, gli anni Trenta, centravanti ce n’erano di grandissimi, e il più forte era Leônidas, detto il Diamante Negro. 

Il nome di battaglia di João era, più modestamente, “Dondinho”. La sua carriera si svolse quasi per intero nel Bauru dopo che a un provino con il forte Atlético Mineiro era stato scartato (pare perché impaurito dalla violenza del difensore che lo curava). Ma era un buon giocatore, alto un metro e 83, molto tecnico (segnò cinque gol tutti di testa in una partita: record che, probabilmente, non è stato mai più battuto). […] 

È il giorno fatale del Maracanaço, il 16 luglio 1950, quando l’Uruguay batté (al Maracanã di Rio, per l’appunto) il Brasile sfilandogli un Mondiale che i brasiliani davano ormai già per stravinto. Alla fine di quella partita, che fu una tragedia nazionale con morti suicidi non metaforici, il piccolo Dico, 9 anni, per consolare il padre disperato gli avrebbe detto: “Vedrai, la Coppa del Mondo la farò vincere io al Brasile”» (Antonio D’Orrico).

• «È tutto vero. Io vidi mio padre piangere alla radio, quel giorno del 1950, e tutti gli amici attorno pure. E dissi: “Smettila, papà, perché io vincerò un Mondiale per te”» (a Rocco Cotroneo). «Mio padre era un calciatore professionista. […] Si ruppe un ginocchio e dovette smettere, e per me è stato un dono di Dio: mi ha insegnato la vita, non il calcio. Quando già a 10-11 anni iniziavano a esaltarmi, lui mi ripeteva che prima di ogni altra cosa dovevo divertirmi, giocare per puro piacere. Diceva che avevo molto da imparare e dovevo lavorare sodo. Mi spingeva ad allenarmi sempre, a non dare mai per scontate le mie qualità»

• «Waldemar de Brito […] lo vide giocare con la sua prima squadra, il Bauru, e chiamando in sede al Santos pregò tutti di prendere subito quel bambino, dicendo che sarebbe diventato in poco tempo il miglior giocatore del mondo. In effetti Pelé ci mise poco ad affermarsi. Il 7 settembre 1956, a 15 anni, giocò la sua prima partita con il Santos segnando anche il primo gol, entrando poi stabilmente in prima squadra l’anno successivo, quando divenne anche capocannoniere del Campionato paulista, e venendo convocato in Nazionale a soli 10 mesi dalla firma del suo primo contratto da professionista. Un anno dopo si trovò a giocare il Mondiale in una squadra che fino ad allora aveva sempre perso nell’occasione più importante. Dopo la seconda partita, Pelé sostituì Mazola, il nostro José Altafini, nell’attacco verdeoro e non uscì mai più, segnando in finale due gol, di cui uno votato come il più bel gol della storia dei Mondiali mai segnato in una finale» (Jvan Sica).

• «Chiaro che i carioca vincono alla grande il Mondiale del ’58, con Pelé che segnava facendo tre dribbling di fila e un "sombrero" sulla testa del difensore avversario, mentre la torcida sugli spalti ritmava: “Samba! Samba!”. Il quinto gol del Brasile lo fa lui, Edson, un colpo di testa lento e molle, al rallentatore, e l’emozione è tale che sviene davanti alla porta, con Garrincha che gli tira su le gambe per ossigenargli il cervello, in un clima di miracoli e di pensieri al padre Dondinho, e a una promessa rispettata. Tanto per chiarire il livello sportivo e civile del confronto, il freddo marcatore di Pelé, Sigge Parling, confidò agli amici: “Dopo il quinto gol anch’io avevo voglia di applaudire”» (Berselli).

• «Dopo quella partita, tutto il mondo […] si rende conto di chi è Pelé e cosa vuole dire per il futuro del calcio. Quello che fece da allora in poi è appunto epocale: col Santos vince 10 volte il Campionato paulista, 5 Coppe del Brasile, 2 Coppe Libertadores, 2 Coppe Intercontinentali; 3 campionati del mondo con il Brasile. […]   

Dopo la vittoria del 1958, nel 1962 Pelé arrivò in Cile già infortunato e le carezze messicane alla prima partita lo costrinsero a saltare tutto il torneo. Ben sostituito da Amarildo e soprattutto da Garrincha, che prese sulle sue spalle l’intero attacco dei verdeoro, il Brasile rivinse il titolo, eguagliando l’Italia per mondiali vinti. La partita che decretava la migliore squadra di sempre e chi avrebbe portato a casa la Coppa Rimet si giocò proprio contro l’Italia nel 1970 in Messico. Il Brasile dei cinque numeri 10 (Pelé, Gérson, Jairzinho, Rivelino e Tostão) era davvero qualcosa di unico e incontrollabile. I nostri giocarono una partita coraggiosa e attenta, ma quella squadra straordinaria vinse facilmente per 4-1. facendo entrare Pelé direttamente al primo posto nell’Olimpo dei più grandi» (Sica).

• «Era la finale del Mondiale 1970, era Brasile-Italia. La partita dopo la partita del secolo, Italia-Germania 4-3. […] Era il diciottesimo minuto allo stadio Azteca di Città del Messico. I verdeoro effettuano un rimessa laterale, la palla rimbalza, Rivelino allunga la gamba, crossa al centro. Un cross a palombella, non forte, ma preciso. Un cross che spiove al centro dell’area di rigore, dove il numero 10 brasiliano salta, rimane a mezz’aria secondi che sembrano minuti, colpisce di testa nonostante Tarciso Burgnich avesse provato a ostacolarlo pure con il braccio, segna: 1-0 per il Brasile. 

Un gol divenuto cartolina, immortalato ovunque, da qualsiasi angolazione. Un gol che è Pelé, nonostante non sia il gol più bello di Pelé. Ma ne è diventato immagine, esposizione globale. Quella è la foto che fece conoscere il calciatore brasiliano in tutto il mondo. E, anche se c’era Tarciso Burgnich con lui, a contrastarlo, era come se non ci fosse davvero, era rumore di fondo. Un colpo di testa che diventa icona.

E così un gesto spesso ignorato, perché si applaude altro – il dribbling, il tiro, la rovesciata –, diventa un lasciapassare globale, segno di riconoscimento. Quello è Pelé, non ci sono dubbi. Il 1970 sarà l’ultimo anno che il numero dieci della nazionale brasiliana sarà sulle sue spalle, l’ultimo, forse, del miglior Pelé. Fu soprattutto l’avvio di un progetto che si realizzerà solo cinque anni dopo. E questo progetto è forse il primo di un nuovo calcio, di una nuova èra fatta di calciatori che superano gli stadi e la stampa sportiva e diventano altro, un po’ divi, un po’ uomini di spettacolo. 

Quello dell’America (e del suo immaginario vastissimo) che entra nel pallone, che regala a New York il meglio che c’è stato per vent’anni, ossia Pelé, ossia mister oltre mille gol in carriera. È una maglia bianca bordata di verde, un numero 10 sulla schiena, il solito, quello dello stadio Azteca, ma più di quello dello stadio Azteca. È l’ultimo spettacolo di Pelé, la sua esistenza americana, la vetrina più grande in uno dei campionati, almeno allora (e forse ancora oggi), più scalcagnati al mondo. […] 

Pelé nel 1975 si considerava già un ex calciatore, aveva 35 anni, aveva voglia di rilassarsi, ma non aveva soldi per farlo. Glieli avevano in un modo o nell’altro fregati tutti i procuratori, i restanti aveva pensato lui stesso a sperperarli. Steve Ross, fondatore della Warner Communications e finanziatore dei New York Cosmos, il club fondato dai fratelli Ertegün nel 1970, era dai Mondiali messicani che pensava a come riuscire a tesserare il numero 10 della nazionale brasiliana, a come riprodurre ogni settimana Pelé nei campi da calcio americani.

C’era però da convincere il calciatore, e per quello servirono 6 milioni di dollari in tre anni, allora una cifra mostruosa. C’era soprattutto da convincere il governo del Brasile, perché il capitano della Seleçao era considerato un patrimonio della nazione e lo Stato non avrebbe mai permesso la sua esportazione. Le trattative furono lunghe e difficili, ma, quando il 15 giugno 1975 O Rei calcò per la prima volta un campo da calcio americano, Pelé divenne, per la prima volta, un patrimonio internazionale. E non solo per il calcio» (Giovanni Battistuzzi). 

• Il 1° ottobre 1977, il gran finale: «Pelé concludeva la sua carriera disputando un’amichevole tra le uniche due squadre di club della sua vita. Il Santos, società brasiliana che lo aveva lanciato (tra il 1956 e il 1974), e la squadra americana dei Cosmos (tra il 1975 e il 1977). La partita fu disputata nel Giants Stadium del New Jersey tutto esaurito e fu trasmessa dalle televisioni di 38 Paesi. “O Rei” per l’occasione giocò un tempo con la maglia locale e uno con quella del Santos.

[…] Sotto la pioggia quel 37enne di Rio che aveva ubriacato una grande Svezia nel 1958, stordito una “rocciosa” Italia nel 1970 e vinto tutto il vincibile, uscì dal calcio giocato per entrare nella leggenda di questo sport. Dove resta tutt’ora, parametro senza tempo, a cui accostare (qualche volta a sproposito) altri aspiranti “calciatori più forti della storia”. […] Quando Edson […] si ritirò quel 1° ottobre 1977, aveva segnato la bellezza di 1.281 gol in tutte le competizioni (e le amichevoli) e con tutte le maglie. 1.281 reti in 1.363 partite, mentre in gare ufficiali aveva messo a segno 761 marcature in 825 incontri (media realizzativa: 0,92 gol a partita). Secondo le fonti ufficiali (anche quelle Fifa), si tratta di un primato assoluto. È lui, a tutt’oggi, il più grande goleador della storia del calcio. Questo malgrado fonti non ufficiali attribuiscano questo primato all’antesignano Arthur Friedenreich. Attaccante brasiliano a cui sono attribuite, forse per un errore di trascrizione, ben 1.329 reti dal 1909 al 1935» (Radogna).

• «John Huston lo volle in Fuga per la vittoria. Nel film prese il nome di Luis Fernandez, nativo di Trinidad: segnò, con un braccio incollato al petto dopo un fallo bestiale di un tedesco, il pareggio del 4 a 4 con una splendida rovesciata, detta la “chilena”, che fece scattare in piedi e applaudire anche il gerarca nazista» (Tony Damascelli). Ha inoltre collaborato alla produzione del film biografico Pelé dei fratelli Jeff e Michael Zimbalist (2016), incentrato sulla sua infanzia e sulla sua formazione di calciatore 

• «Oltre a vincere trofei, con il Santos girava anche il mondo, guadagnando ma soprattutto facendo guadagnare tantissimi soldi a dirigenti e faccendieri che seguivano allora la squadra della Perla Nera. Quel Santos giocò ovunque, con aneddoti incredibili che riguardano il suo numero 10. In Colombia un arbitro espulse Pelé, e il pubblico iniziò ad urlare e tirare di tutto in campo: fu allora che Pelé rientrò in campo, e ad uscire fu l’arbitro. Nel 1967, invece, in Nigeria si stava combattendo una guerra civile, ma a Lagos giocava il Santos, e allora le due fazioni in contrasto dichiararono un periodo di tregua per poter assistere pacificamente alla partita del più grande giocatore di calcio dell’epoca» (Sica)

• «Il suo modo di giocare era quello classico dei ragazzi in strada e sulle spiagge. Era l’amata ginga, lo stile che derivava addirittura dalla capoeira, la forma di lotta/danza praticata nella notte dei tempi dagli schiavi africani deportati in Brasile dai portoghesi. Il calcio era la prosecuzione della capoeira con altri mezzi: il dribbling, il palleggio, il colpo di tacco, il morbido stop di petto, il sombrero, il tunnel, la finta di corpo e tutti gli altri effetti speciali del pallone. Era quello che Gianni Brera chiamava il fútbol bailado del Magno Brasile. […] Per dire quanto era bravo Pelé, Brera scelse come pietra di paragone non un altro calciatore ma un grande poeta, Giacomo Leopardi. Ogni giocata di Pelé era, secondo Brera, come un endecasillabo di Leopardi» (D’Orrico).

«È alto 1,73, mi pare; traccagnotto e potente, ma nello stesso tempo agile e sciolto, come i grandi atleti olimpici che corrono soltanto. Batte di sinistro e destro, sempre mirando. Dribbla con movenze armoniose, sor­nione, plastiche, senza sculettare o danzare come tanti. Rifiuta il numero di dribbling (el pase) come una manife­stazione deteriore e inutile. È un vero classico. Dolce e chiara è la notte e senza vento. Pronunciate le comunissime parole di questo che è fra gli endecasillabi di più limpida trasparenza. Continuate: e cheta sovr’ai tetti e dentro gli orti

È mia nonna che parla affacciandosi nottetempo alla finestra. Mia nonna analfabeta e grande. Posa la luna, e di lontan rivela / Serena ogni montagna. Sapete che è Giaco­mino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo. Bene: adesso guardate Pelé. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull’erba: un piedino prensile l’accarezza mentre l’altro spinge: echetasovraitetti: accorreva un avversario: si è coricato come un birillo: tettiposalà: avanza un altro: piroetta; lalùna: ecco un compagno smarcato: oppure, ecco una nuova battuta di dribbling: si corica il secondo birillo: o magari no, questa volta il birillo non si corica e vince il tackle: Pelé ha sbagliato il dribbling: càpita: anch’io ho dimenticato: sovr’ai tetti e dentro gli orti. Ripetizione: posalalunedì lontàn rivèla: ora parte Pelé in progressivo: è Berruti che vòlita fìngendo di allenarsi. Serenognì montàgna. Cor­rendo, senza sforzo apparente, ha fissato i bulloni in terra ed ha scaricato fulmineo la pedata: ha mirato, si è visto: mentre correva ha mirato e battuto a rete. Serenognì montàgna. Punto. Gol. Mi dico di non aver mai visto nulla di simile. Gli dedico epinici. Mi esalto e lo esalto» (Brera)

• Numerose relazioni e tre matrimoni (l’ultimo nel 2016, con una donna di oltre trent’anni più giovane, sua attuale consorte). Tre figli dalla prima moglie (due femmine e un maschio, Edinho, portiere poi allenatore condannato nel 2017 a 12 anni e 10 mesi di reclusione per riciclaggio di denaro proveniente da traffico di droga), due gemelli dalla seconda (una femmina e un maschio, Joshua, anch’egli calciatore), e almeno altre due figlie da altrettante donne • «C’è un momento in cui ha capito di essere il più grande calciatore al mondo? “Quando ho segnato il millesimo gol, al Maracanã (il 19 novembre 1969, a 29 anni, ndr). Era un rigore. Non ho mai avuto le gambe così pesanti. Quando la palla è entrata, mi sono precipitato verso la rete e sono rimasto col pallone in mano per godermi quel momento: avevo realizzato qualcosa in cui nessuno era mai riuscito prima”» (Adriano Ercolani

 • «Dio mi ha fatto il dono di saper giocare al calcio – perché è davvero solo un dono di Dio –, mio padre mi ha insegnato a usarlo, mi ha insegnato l’importanza di essere sempre pronto e allenato, e che oltre a saper giocare bene dovevo essere anche un uomo». «Alla fine, tutto quello che volevo dalla vita è essere uguale a mio padre, giocare a pallone come lui. Niente di più. Non sognavo certo di diventare un grande campione. E tantomeno Pelé». «Sono nato Edson, Dico, Nascimento. Poi, dopo, è venuto Pelé, quel tipo che non morirà mai».

Il mondo del calcio perde il suo “O Rei”: è morto Pelé. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 29 Dicembre 2022

L’ex calciatore era ricoverato dal 29 novembre per una rivalutazione del suo trattamento chemioterapico dopo l'individuazione di un tumore al colon nel settembre 2021. Fatali gli sono state l’insufficienza renale e cardiaca che hanno indebolito il fisico già debilitato dalla malattia.

Tutto il mondo del calcio che ha perso il suo “O Rei”. L’ex calciatore era è ricoverato dal 29 novembre per una rivalutazione del suo trattamento chemioterapico dopo l’individuazione di un tumore al colon nel settembre 2021. Fatali gli sono state l’insufficienza renale e cardiaca che hanno indebolito il fisico già debilitato dalla malattia. Edson Arantes Do Nascimiento come si chiamava prima di diventare il bisillabo più famoso dello sport cioè Pelè, ci ha lasciato. Una vita da copertina in cui ha regalato record, è stato l’ unico calciatore a vincere tre mondiali, segnando nella sua eccezionale carriera 1279 reti ma soprattutto facendo sognare bambini, giovani e vecchi di tutto il mondo.

È stato intervistato e fotografato più di qualsiasi altra persona al mondo, dagli statisti ai divi del cinema e tycoon vari. È stato accolto da ‘Rei‘ in 88 nazioni, e ricevuto da 70 premier, 40 capi di Stato e tre Papi. In Nigeria venne dichiarata una tregua di 48 ore ai tempi della guerra con il Biafra perché tutti, da entrambi gli schieramenti, potessero vederlo giocare. Lo Scià di Persia lo aspettò tre ore in un aeroporto solo per potersi fare una foto con lui, le guardie alle frontiera cinese abbandonarono i loro posti e si spostarono a Hong Kong, attirandosi le ire del regime, solo perché avevano saputo che la Perla Nera si trovava quel giorno nella città-colonia. Pelé fu espulso durante una partita In Colombia, ma la folla invase il campo costringendo l’arbitro alla fuga. La partita riprese solo con il ritorno in campo del grande brasiliano, ed a quel punto la folla tornò disciplinatamente sugli spalti da sola pur di vederlo giocare.

Nessun altro sportivo ha avuto più spettatori di lui, e la sua faccia è tuttora, molti anni dopo il suo ritiro, tra le più popolari del pianeta. “Sono conosciuto più di Gesù Cristo“, dichiarò anni fa in un’intervista all’Ansa. Una frase che gli attirò critiche: ma a pensarci bene non aveva torto perché “anche se è una cosa blasfema – spiegò – c’è una logica. Io sono cattolico, e so cosa significhi Gesù con i suoi valori. Ma nel mondo è pieno di gente che crede in altro: in Asia, ad esempio, ci sono centinaia di milioni di buddisti. Magari non sanno chi è Cristo, ma di Pelé hanno sentito parlare...”.

L’ex calciatore era ricoverato dal 29 novembre per una rivalutazione del suo trattamento chemioterapico dopo l’individuazione di un tumore al colon nel settembre 2021. Fatali gli sono state l’insufficienza renale e cardiaca che hanno indebolito il fisico già debilitato dalla malattia. Atleta del secolo (riconoscimento assegnato dal Cio nel 1999), calciatore del secolo (ex aequo con Maradona). O Rei è stato, ed è tuttora con Muhammad Alì, l’atleta sportivo più celebre della storia, famoso nei punti più remoti dell’Asia Minore come nel cuore dell’Africa, nei deserti australiani come nelle grandi capitali.

La scomparsa di O’Rei ha scosso l’intero mondo del calcio: sono tantissimi i messaggi che stanno arrivando sui social per omaggiare il campione. Il Santos ha voluto postare sul proprio profilo la foto di una corona accompagnata dal commento “Eterno“, così come il Brasile che nella foto pubblicata per ricordarlo al posto dell’anno in cui è morto ha scelto di inserire il simbolo dell’infinito.

Il messaggio di Cristiano Ronaldo

“Le mie più sentite condoglianze a tutto il Brasile, e in particolare alla famiglia di Edson Arantes do Nascimento. Un semplice ‘addio’ all’eterno Re Pelé non sarà mai sufficiente per esprimere il dolore che attualmente condivide l’intero mondo del calcio“, è il messaggio di cordoglio di Cristiano Ronaldo: “Un’ispirazione, un riferimento ieri, oggi, per sempre. L’affetto che ha sempre dimostrato per me è stato reciproco in ogni momento condiviso, anche a distanza. Non sarà mai dimenticato e il suo ricordo vivrà per sempre in ognuno di noi amanti del calcio. Riposa in pace, O’Rei Pelè“, chiosa l’ex attaccante di Real, Juve e Manchester United.

L’omaggio di Neymar: “Ha cambiato il calcio“

Il numero 10 del Brasile Neymar ha detto: “Prima di Pelé, il 10 era solo un numero. Ho letto quella frase da qualche parte, ad un certo punto della mia vita. Ma quella frase, bellissima, è incompleta: direi che prima di Pelé il calcio era solo uno sport. Ha cambiato tutto. Ha trasformato il calcio in arte, in intrattenimento. Ha dato voce ai poveri, ai neri e soprattutto, ha dato visibilità al Brasile. Il calcio e il Brasile – prosegue Neymar – hanno alzato il loro status grazie al Re! Se n’è andato, ma la sua magia rimarrà. Pelè è eterno!!“

L’omaggio di Mbappé e Messi

“Il re del calcio ci ha lasciato ma la sua eredità non sarà mai dimenticata: riposa in pace, Re“. Così Kylian Mbappé, sul suo profilo Instagram, ricorda Pelé, associando il messaggio a una foto che li ritrae abbracciati. Il fenomeno francese si era reso protagonista, durante i Mondiali, di un commovente scambio social con il brasiliano in cui gli augurava una pronta guarigione. Lionel Messi, compagno di Mbappé al Psg, ha postato una foto che lo ritrae abbracciato a Pelé scrivendo “Riposa in pace“.

Beckenbauer: “È stato il più grande della storia“

“Il calcio oggi ha perso il più grande della sua storia, e io un amico unico. Il calcio sarà tuo per sempre. Riposa in pace“. Così Franz Beckenbauer, campione del mondo con la Germania nel ‘74 e compagno di squadra di Pelé ai Cosmos, ha ricordato Pelé in una nota diffusa dal Bayern Monaco di cui è presidente onorario. Dal Kaiser a O Rei: “Sono partito per gli Stati Uniti nel 1977, perché volevo davvero giocare al fianco di Pelé al Cosmos di New York. Questo periodo al suo fianco è stata una delle migliori esperienze della mia carriera. Siamo diventati campioni degli Stati Uniti al nostro primo tentativo e da quel momento Pelé mi ha designato riferendosi solo a me come suo fratello, un onore inimmaginabile per me”. Redazione CdG 1947

Le reazioni alla morte di Pelé, la famiglia: «Ti amiamo infinitamente». Neymar: «Diede voce a poveri e neri». Maria Strada su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Dalla figlia, ai calciatori e allenatori di tutto il mondo: l’ultimo saluto al mito del calcio

• Pelé è morto, il re del calcio aveva 82 anni.

• La storia di Pelé: O Rei, tre volte campione del mondo, unico nel calcio.

• Pelé visto da Sconcerti: patrimonio del calcio e dell’umanità, è lui il migliore di sempre

Ore 20:46 - L’addio della figlia: «Ti amiamo infinitamente»

Emozionante il post, giovedì 29 dicembre, per congedarsi da Pelé. O Rei è morto a 82 all’ospedale Albert Einstein di San Paolo del Brasile. Kely Nascimiento, la figlia maggiore del grande Edson Arantes, unico calciatore ad aver vinto tre Mondiali con il Brasile, alle 20 in punto ora italiana, scrive: « Tudo que nos somos é graças a você Te amamos infinitamente Descance em paz», «Tutto quello che noi siamo è grazie a te, ti amiamo infinitamente. Riposa in pace». E la foto con le mani dei figli sopra a quelle della leggenda del calcio.

Ore 20:57 - Lega Serie A, suo talento ha cambiato gioco del calcio

«Lega Serie A esprime la sua vicinanza alla famiglia di Pelé e a tutti gli appassionati di calcio del mondo per la scomparsa della leggenda brasiliana. Il suo talento ha cambiato il gioco del calcio, la sua personalità e il suo sorriso iconico vivranno per sempre». Lo scrive la Lega Serie A su Twitter ricordando il mito del calcio brasiliano.

Ore 21:03 - Mbappé: «La sua eredità non sarà dimenticata»

Kylian Mbappé è stato tra i primi a ricordare O Rei. Anche l’attaccante francese, campione del mondo 2018 e autore di una vana tripletta nella finale 2022 di dieci giorni fa, persa dalla Francia contro l’Argentina, si è rivolto aTwitter: «Ci ha lasciati il re del calcio, ma la sua eredità non sarà dimenticata. Rip, Re».

Ore 21:06 - Mourinho: «Orgoglioso di un premio dalle sue mani»

José Mourinho sceglie invece il profilo Instagram: «Nel 2005 ho ricevuto il premio BBC direttamente dalle mani del re, e ancora oggi è uno dei momenti di cui sono più orgoglioso», ricorda. E rievoca anche un incontro avuto a Manchester: «Ero così felice di averlo lì dove abbiamo fatto una bella chiacchierata e vissuto bei momenti. Oggi sono molto triste. Riposa in pace Re Pelé e un pensiero ai suoi cari».

Ore 21:11 - Federcalcio Brasile: «Mai avuto paura delle difficoltà»

«Pelé è stato molto di più del più grande sportivo di tutti i tempi. Il nostro “Re del Calcio” è stato il massimo esponente di un Brasile vittorioso, vincente, che non ha mai avuto paura delle difficoltà». La Federcalcio brasiliana rende onore a O Rei . «Ragazzo di colore, povero e nato a Tres Corações, Pelé ci ha mostrato che c’è sempre una strada nuova — si legge nel cordoglio della Cbf — Ha promesso a suo padre un Mondiale e ce ne ha regalati tre, oltre a segnare 95 gol in 113 partite con la nazionale. O’Rei ci ha regalato un nuovo Brasile e non possiamo che ringraziarlo per la sua eredità. Grazie Pelé »

Ore 21:09 - Neymar: «Ha trasformato calcio in arte e dato voce a poveri e neri»

«Prima di Pelé, 10 era solo un numero. Ho letto questa frase da qualche parte, ad un certo punto della mia vita. Ma questa frase, bellissima, è incompleta. Direi che prima di Pelé il calcio era solo uno sport. Pelé ha cambiato tutto. Ha trasformato il calcio in arte, intrattenimento. Ha dato voce ai poveri, ai neri e soprattutto: ha dato visibilità al Brasile. Il calcio e il Brasile hanno alzato il loro stato grazie al Re! Se n’è andato, ma la sua magia rimarrà. Pelé è Eterno!!». Lo scrive su Instagram il brasiliano Neymar.

Ore 21:13 - Il Santos: «Fosti d’ispirazione per il mondo, sempre sarai leggenda»

Il Santos, la squadra dove Pelé ha giocato quasi tutta la sua carriera, negli scorsi giorni aveva già introdotto la corona d’oro nel suo stemma. Oggi lo piange con un post listato a lutto, con l’immagine di una corona e la scritta «Eterno». Successivamente ha diffuso una nota in cui «piange con profonda tristezza la scomparsa del miglior giocatore di calcio di tutti i tempi, l’uomo che ha portato nel mondo il nome dell’Alvinegro Praiano (Binconeri della Spiaggia, in italiano), il nostro maggiore idolo, che eternizzato la maglia 10 e l’ha trasformata in un’opera d’arte. Qualsiasi omaggio è piccolo rispetto alla grandezza di Edson Arantes do Nascimento, il nostro eterno Rei Pelé». E ancora: «Fosti d’ispirazione per il mondo, sempre sarai leggenda»

Ore 21:18 - Ceferin: «Profondamente addolorati, la prima superstar globale»

«Siamo profondamente rattristati nell’apprendere della perdita di Pelé, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi» Lo ha dichiarato il presidente dell’Uefa Aleksander Ceferin. «È stato la prima superstar globale del calcio e, grazie ai successi dentro e fuori dal campo, ha svolto un ruolo pionieristico nell’ascesa del calcio fino a diventare lo sport più popolare al mondo. Ci mancherà molto. A nome della comunità calcistica europea, riposa in pace, Pelé».

Ore 21:19 - Altobelli: «È morto il calcio, nessuno come lui e Maradona»

«Purtroppo la notizia è arrivata e stavolta è morto un pezzo del calcio, se non il calcio». Così Alessandro Altobelli, campione del mondo di Spagna 82, ai microfoni dell’agenzia di stampa Agi. «Lui è Maradona hanno dato lustro alle rispettive nazionali e hanno portato lo spettacolo del calcio in tutto il mondo: loro sono lo spettacolo. Mai nessuno sarà come Pelé, come Diego. Loro sono il calcio. Mai nessuno come lui, come loro. Irraggiungibili. Ora possono riposare in pace insieme».

Ore 21:21 - Il Napoli: «Muore un mito del calcio»

«Aurelio De Laurentiis e tutta Ssc Napoli esprimono cordoglio e profondo dolore per la scomparsa di Pelé, mito del calcio mondiale. Addio O Rei». È quanto si legge sul profilo twitter del calcio Napoli in memoria del grande campione carioca scomparso in serata. In aggiunta, un disegno del paradiso dove il numero dieci del Brasile tiene per mano Diego Armando Maradona, morto due anni fa a soli 60 anni.

Ore 21:25 - Fiorentina: «Per sempre nella storia del calcio»

Anche la Fiorentina ha voluto subito esprimere il proprio cordoglio per la scomparsa di Pelé. «Tutta la Fiorentina ricorda O Rei Pelé. Per sempre nella storia del calcio. Riposa in pace» il messaggio postato via Twitter dal club viola, accompagnato da due immagini del fuoriclasse brasiliano.

Tutta la Fiorentina ricorda ?O Rey Pelè.

Per sempre nella storia del calcio.

Riposa in pace. 

Ore 21:26 - Cristiano Ronaldo: «Un riferimento ieri, oggi, per sempre»

«Le mie più sentite condoglianze a tutto il Brasile, e in particolare alla famiglia di Edson Arantes do Nascimento. Un semplice “addio” all’eterno Re Pelé non sarà mai sufficiente per esprimere il dolore che attualmente condivide l’intero mondo del calcio». È il messaggio di cordoglio su Instagram di Cristiano Ronaldo. «Un’ispirazione, un riferimento ieri, oggi, per sempre. L’affetto che ha sempre dimostrato per me è stato reciproco in ogni momento condiviso, anche a distanza. Non sarà mai dimenticato e il suo ricordo vivrà per sempre in ognuno di noi amanti del calcio. Riposa in pace, O’Rei Pelé», chiosa l’ex attaccante di Real, Juventus e Manchester United.

Ore 21:28 - «Ispirazione e amore», l’ultimo messaggio su Twitter

«L’ispirazione e l’amore hanno segnato il viaggio del Re Pelé, che oggi si è spento serenamente. Amore, amore e amore, per sempre». Sono le parole comparse poco dopo la sua morte sul profilo «Twitter» di Pelé. Il cinguettio post mortem, accompagnato da un bel ritratto fotografico del campione brasiliano, all’ora di questo lancio è stato visualizzato 12,2 milioni di volte, e oltre 755 mila persone hanno commentato con un cuoricino.

Ore 21:29 - Ardiles: «Era il mio idolo, “Fuga per la vittoria” un sogno diventato realtà»

«Il Re dei Re è morto. Giocatore straordinario. Unico. Tre volte campione del mondo, più di mille gol. Il mio idolo da giovane. Ha reso il calcio un gioco bello e totalmente internazionale. Il tempo trascorso a giocare con lui in “Fuga per la vittoria” è stato un sogno diventato realtà. Rip Pelé». Lo scrive su Twitter l’argentino Osvaldo César Ardiles, che con Pelé recitò nel film cult di John Huston (iconica la rovesciata di O Rei) . Nel suo post, Ardiles pubblica anche la foto della squadra protagonista schierata in campo nella celebre pellicola.

Ore 21:33 - Messi: «Riposa in pace»

«Riposa in Pace». Così su Instagram Leo Messi saluta Pelé, postando una foto che lo vede abbracciato con un sorridente O Rey.

Ore 21:34 - Usain Bolt: «Riposa in pace, Re»

«Una leggenda dello sport. Riposa in pace, Re». Anche Usain Bolt, campione olimpico e primatista mondiale dei 100 e 200, rende omaggio a Pelé. Il campione giamaicano posta, sul profilo Instagram, una sua foto abbracciato a O Rei, tutti e due sorridenti.

Ore 21:35 - L’ Atalanta:«Riposa in pace, leggenda»

Anche l’Atalanta ha espresso il cordoglio per la morte di Pelé attraverso un messaggio letto dallo speaker del Gewiss Stadium di Bergamo, poi ripreso dai propri canali ufficiali, al termine dell’amichevole persa 1-0 con gli olandesi dell’AZ Alkmaar. «Un fenomeno, un grande, una leggenda che con le sue giocate ha saputo incantare ed appassionare intere generazioni di tifosi. Buon viaggio O Rei, riposa in pace» il messaggio dei nerazzurri.

Un fenomeno, un grande, una leggenda che con le sue giocate ha saputo incantare ed appassionare intere generazioni di tifosi.

Ore 21:37 - Totti: «Tu il calcio, ciao O Rei»

«Tu, il calcio. Ciao O Rei». Così, in una storia su Instagram, Francesco Totti commenta la scomparsa del mito brasiliano. Il messaggio è abbinato a una foto di Pelé che palleggia in campo.

Ore 21:38 - Blatter ricorda «il più grande calciatore della storia»

L’ex presidente della Fifa Sepp Blatter ricorda «il più grande calciatore della storia», dicendosi «immensamente triste» per la scomparsa di Pelé: «Il mondo piange il più grande calciatore della storia e una persona meravigliosa.Celebrava il gioco come nessun altro».

Ore 21:41 - Ronaldo (il Fenomeno): «Che privilegio venire dopo di te amico mio»

«Unico. Fantastico. Tecnico. Creativo. Perfetto. Senza pari. Dove è arrivato Pelé, è rimasto. Senza mai scendere dall’alto ci lascia oggi il re del calcio, uno solo. Il più grande di sempre». Così Ronaldo su Instagram in un lungo post ricorda l’asso brasiliano. «Il mondo in lutto — scrive ancora l’ex centravanti dell’Inter, del Real e della Nazionale verdeoro con cui ha vinto uno strepitoso mondiale — La tristezza dell’addio misto all’immenso orgoglio della storia scritta. Che privilegio venire dopo di te amico mio — aggiunge il Fenomeno — Il tuo talento è una scuola che ogni giocatore dovrebbe frequentare. La tua eredità trascende generazioni. Ed è così che rimarrai vivo. Oggi e sempre, ti festeggeremo. Grazie, Pelé Riposa in pace».

Ore 21:43 - Infantino: «Immortale, per sempre con noi»

Pelé è immortale, perché resterà per sempre con noi». Così Gianni Infantino, presidente della Fifa, ricorda Pelé, con una foto e un post Instagram. «Lo chiamavano «Il Re» e il suo volto è uno dei più riconoscibili nel calcio mondiale», sottolinea la Fifa sul suo sito, ricordando di averlo premiato come il « il più grande giocatore del 20 secolo». «La stella di Pelé era già in ascesa all’età di soli 17 anni, quando ha celebrato il suo primo titolo di Coppa del Mondo FIFA con il Brasile in Svezia, il 29 giugno 1958. Detiene ancora il record come il più giovane campione del mondo di tutti i tempi».

Ore 21:52 - La Juventus lo ricorda, foto insieme a Sivori in campo

La Juventus ricorda Pelé sui social con uno scatto insieme a Omar Sivori. Il club pubblica uno scatto in bianco e nero con i due miti del calcio che si stringono la mano alla fine di una sfida tra Juventus e Santos. Le due squadre si sono incontrate più volte, la prima nel 1961 con la vittoria per 2-0 dei brasiliani e un gol proprio di Pelé. Ciao Pelé

Ore 22:03 - I Cosmos: «Inestimabile»

I Cosmos di NewYork, l’unica altra squadra di Pelé oltre al Santos, salutano l’impatto «inestimabile» e «duraturo» avuto da O Rei sul calcio, e sul «soccer» che, durante il suo periodo americano, ebbe un pubblico smisurato.

Ore 22:05 - Deschamps: «Resterà il re, per sempre»

Il c.t. della nazionale francese Didier Deschamps ha diffuso una nota per salutare Pelé, che «rimarrà il re, per sempre. Con la scomparsa di Pelé il calcio perde una delle sue leggende più belle, se non la più bella. Come tutte le leggende, il re sembrava immortale. Ha fatto sognare e continuava a fare sognare generazioni e generazioni di amanti del nostro calcio. Con il suo numero 10 ha messo il suo virtuosismo tecnico, il suo coraggio e la sua creatività al servizio delle sue squadre.

Ore 22:08 - Altafini: «Il più grande di ogni tempo, noi mai rivali»

« Il più grande giocatore di tutti i tempi, da quando esiste il calcio. Pelé è stato il calcio». Josè Altafini, ai microfoni di Sky Sport, ricorda così O Rei. «Ha esordito con me, lui aveva 17 anni e io 19, contro l’Argentina vincendo 2-0 con un gol suo e uno mio — le sue parole — Non ci frequentavamo ma eravamo amici, non c’era nessuna rivalità. Dovevamo incontrarci l’anno scorso ma non è stato possibile perché stava già poco bene». Altafini paragona la morte di Pelé a quelle di «Garrincha, Senna, Kobe Bryant, personaggi fantastici dello sport. È un giorno triste per il calcio». E sul Pelé calciatore aggiunge: «Aveva destro, sinistro, saltava di testa, aveva velocità. Gli ho visto fare cose che nessuno può capire».

Ore 22:09 - Gasperini: «Una leggenda»

«Una leggenda, era il calcio per noi di quella generazione. Non so per quanti anni è stato il giocatore più forte al mondo». Così Gian Piero Gasperini, ai microfoni di Sky.

Ore 22:10 - Capello: «Impressionava la sua normalità, non se la tirava»

« Ho avuto la fortuna di giocarci contro ma la cosa più bella era la sua normalità, non se la tirava, era uno sempre pronto a congratularsi, ad aiutare le persone. Meritava di essere chiamato O Rei anche per quello che è stato dopo. È stato un personaggio che mi ha sempre toccato, è difficile trovare un difetto in lui». Così Fabio Capello ricorda ai microfoni di Sky la figura di Pelé. «Come calciatore era super, ha fatto vedere qualcosa di impossibile nel gioco del calcio», ha aggiunto.

Ore 22:12 - Lula: «Non c’è mai stato un numero 10 come lui»

«Pelé ci ha lasciato oggi. È andato in paradiso con Coutinho, suo grande compagno al Santos. Ora è in compagnia di tante stelle eterne: Didi, Garrincha, Nilton Santos, Socrates, Maradona. Ha lasciato una certezza: non c’è mai stato un numero 10 come lui. Grazie Pelé». Lo scrive su Twitter il Presidente eletto del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva.

Ore 22:13 - Milan: «Scomparsa una leggenda del calcio»

«Siamo profondamente addolorati nell’apprendere che la leggenda del calcio Pelé è morta. Inviamo le nostre più sincere condoglianze ai suoi amici e alla sua famiglia. Riposa in pace, O Rei». Il Milan sceglie una foto con Trapattoni e Pelé in quella finale Intercontinentale 1963 in cui O Rey mandò il Trap in bambola nella gara d'andata a San Siro.

Ore 22:17 - Zagallo: «Se n’è andato il mio più grande compagno»

«Se n’è andato il mio più grande compagno, ed è con questo sorriso che ti porterò con me. Amico di tante storie, vittorie e titoli e che lascia un messaggio eterno e indimenticabile. La persona che varie volte ha fermato il mondo. La persona che ha fatto della maglia numero 10 la più rispettata. Un brasiliano che difeso il nostro Paese in tutto il mondo. E oggi il mondo, piangendo, si congeda dal più grande di tutti. Dal Re del calcio. Grazie di tutto @pele. Tu sei eterno. Io ti amo». Così Mario Zagallo, tre volte campione del mondo (due da giocatore e una, nel 1970, da c.t.) con Pelé, ricorda l’amico scomparso oggi, postando su Instagram anche una foto di loro due insieme e sorridenti.

Ore 22:29 - Buffon: «Con le tue gesta hai fatto innamorare mondo del calcio»

« Con le tue gesta hai fatto innamorare il mondo di questo sport, diventandone uno dei simboli stessi. Grazie O Rei, per me sei e sarai per sempre una leggenda». Così su Instagram Gigi Buffonnni.

Ore 22:51 - Nadal: «Se ne va un grande dello sport mondiale»

«Oggi se ne va un grande dello sport mondiale. Un giorno triste per il mondo del calcio, per il mondo dello sport. La sua eredità sarà sempre con noi». Così Rafa Nadal ricorda Pelé. «Non l’ho visto giocare, non ho avuto questa fortuna, ma mi hanno sempre insegnato e mi hanno detto che era il Re del calcio. Riposa in Pace».

Ore 22:52 - Il Cio, Bach: «Perdiamo una grande icona sportiva«

«Con la scomparsa di Pelé, il mondo ha perso una grande icona sportiva. Come ho potuto sperimentare io stesso, credeva fermamente nei valori olimpici e ha portato con orgoglio la fiamma olimpica. È stato un privilegio consegnargli l’Ordine Olimpico». Così il presidente del Comitato olimpico internazionale, Thomas Bach.

Ore 22:53 - Beckenbauer: «È stato il più grande della storia»

«Il calcio oggi ha perso il più grande della sua storia, e io un amico unico. Il calcio sarà tuo per sempre. Riposa in pace». Così Franz Beckenbauer, campione del mondo con la Germania nel ‘74 e compagno di squadra di Pelé ai Cosmos, ha ricordato Pelé in una nota diffusa dal Bayern Monaco di cui è presidente onorario. Dal Kaiser a O Rei: «Sono partito per gli Stati Uniti nel 1977, perché volevo davvero giocare al fianco di Pelé al Cosmos di New York. Questo periodo al suo fianco è stata una delle migliori esperienze della mia carriera. Siamo diventati campioni degli Stati Uniti al nostro primo tentativo e da quel momento Pelé mi ha designato riferendosi solo a me come suo fratello, un onore inimmaginabile per me».

Ore 23:06 - Platini: «Era la storia del calcio e i miei sogni: mi fermavo Peléatini»

Pelé «era “Monsieur Football”, la storia del calcio, la scoperta del calcio, tutto il calcio». È’ il pensiero che Michel Platini — Le Roi — dedica a O Rei. «Nel 1970 avevo 15 anni, sono cresciuto con la sua figura. Mio padre mi ha parlato di Pelé. A scuola, inoltre, mi firmavo “Peléatini”», ha raccontato il francese a L’Équipe. «Anche se non sempre lo abbiamo visto giocare, abbiamo solo parlato di lui. Non era più un uomo, non era più un calciatore,

Ore 23:09 - Baresi: «Più forte del tempo»

«Addio a Pelé, rimarrà sempre nella memoria, più forte del tempo. Icona e leggenda nel mondo. Rip». Così su Instagram Franco Baresi.

Ore 01:20 - Gianni Rivera: «Il mio amico Pelé era il più grande di tutti»

«Stasera è mancato il mio amico Pelé che ho sempre considerato il più grande di tutti i tempi. Sapeva utilizzare entrambi i piedi allo stesso modo, con la stessa sensibilità e con la stessa potenza. Se non ci fosse stato il calcio lo avrebbe sicuramente inventato». Ad affermarlo in un post su Facebook è Gianni Rivera, l’ex calciatore del Milan tra il 1960 e il 1979 e campione europeo con l’Italia nel 1968, ricordando Pelé scomparso oggi. Con Pelé, ricorda Rivera, «avevamo un ottimo rapporto e sono veramente dispiaciuto della sua scomparsa. Mi sembra inutile tentare di fare una classifica fra chi era più bravo tra lui e gli altri grandi calciatori di tutti i tempi. Altafini mi ha raccontato una volta che era bravo anche in porta! Un giorno prima di iniziare gli allenamenti con il Santos, la sua squadra, si mise d’accordo con l’allenatore per fingersi un nuovo portiere che voleva essere assunto. Nessuno si accorse che era lui e paro’ tutti i tiri che gli fecero i compagni dal limite dell’area di rigore!!!Questo è sufficiente per capire chi è stato», sottolinea Rivera.

Ore 01:22 - Bolsonaro proclama tre giorni di lutto nazionale in Brasile

Il presidente uscente del Brasile, Jair Bolsonaro, ha dichiarato tre giorni di lutto in tutto il Paese per la morte di Pelé, scomparso giovedì a 82 anni. La misura è stata annunciata in un decreto pubblicato in un’edizione straordinaria della gazzetta governativa e firmato dal presidente uscente, che lascerà il suo incarico domenica.

Ore 08:46 - Biden e l’esempio di Pelé

«Per uno sport che unisce il mondo come nessun altro, l’ascesa di Pelé da umili origini a leggenda del calcio è una storia di ciò che è possibile». Lo ha scritto su Twitter il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, ricordando la figura del campione.

La storia di Pelé: O Rei, tre volte campione del mondo, unico nel calci. Fiorenzo Radogna su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Nel 1977, con un’amichevole tra New York Cosmos e Santos, le uniche due squadre della sua carriera, Pelé, il più forte calciatore di tutti i tempi si ritirava. Tre Mondiali vinti, oltre mille gol

La Perla Nera

Raccontare di Pelé (calcisticamente) in modo completo, è come pretendere di condensare la Divina Commedia in un film hollywoodiano. Limitante, nel migliore dei casi. Ecco perché qualche volta per evocare le vicende sportive di un grande personaggio, è lecito partire dalla fine. Sontuosa ed «epocale» quella di Edson Arantes do Nascimento (classe 1940). Brasiliano nero, dalla carriera più che luminosa: «splendente».

Tutt’ora considerato il più forte calciatore di ogni tempo (era in competizione col Maradona degli anni ‘80 e il Messi degli ultimi anni). Proprio in un primo ottobre, ma del 1977, Pelé concludeva la sua carriera disputando un’amichevole tra le uniche due squadre di club della sua vita. Il Santos, società brasiliana che lo aveva lanciato (tra il 1956 e il 1974) e la squadra americana dei Cosmos (tra il 1975 e il 1977). La partita fu disputata in un «Giants Stadium» di New York tutto esaurito e fu trasmessa dalle televisioni di 38 paesi. «O Rei» per l’occasione giocò un tempo con la maglia locale e uno con quella del Santos. Gli americani per la prima volta nella loro pur articolata (e ricca) storia sportiva, s’inchinavano davanti a un uomo di calcio, in un tributo che avrebbe segnato un’epoca. Forse il primo grande evento calcistico seguito in America con i numeri, il trasporto e l’emozione di una partita di baseball o football di alto livello. Poi sotto la pioggia quel 37enne di Rio che aveva ubriacato una grande Svezia nel 1958, stordito una «rocciosa» Italia nel 1970 e vinto tutto il «vincibile», uscì dal calcio giocato per entrare nella leggenda di questo sport. Dove resta tutt’ora, «parametro» senza tempo, a cui accostare (qualche volta a sproposito) altri aspiranti «calciatori più forti della storia»...

L’evento

Quella partita quasi surreale (come un po’ tutto il calcio Usa era in quegli anni pionieristici) si concluse con la vittoria della squadra statunitense. In gol il talentuoso Reynaldo per l’1-0 del Santos. Quindi il pareggio di Pelé (con la maglia verde del Cosmos) con una punizione da distanza «siderale». Nella ripresa il «carneade» statunitense Mifflin, che aveva preso il posto di O Rei nel Cosmos, siglò il 2-1 finale. Si giocava su una superficie che oggi non andrebbe bene nemmeno come pista da ballo. Un «sinteticone» liscio (e anche pericoloso) dove la palla schizzava via come una pietra di curling fra i piedi (troppo spesso «inconsapevoli») di giocatori locali improvvisati. D’altra parte quella era il «calcio finale» che il supercampione si era scelto. Per fare cassetta negli ultimi anni, per imparare la lingua inglese ed esordire in quel ruolo di ambasciatore del calcio nel modo, che sarebbe stato suo per sempre.

La maglia ritirata

Durante l’intervallo, in quel 1 ottobre 1977, i newyorchesi ritirarono la maglia numero 10 di Pelé che prese il microfono e con la casacca dei locali ancora addosso ringraziò gli ottantamila e i tutti i tifosi in mondovisione. In un inglese balbettante, ma dolce e comprensibile come tutta l’emozione che trasmetteva. Poi pianse portandosi le mani al viso. A fine gara, impugnando una bandiera del Brasile nella mano destra e una degli Stati Uniti in quella sinistra, fu caricato a spalla dai compagni di squadra e portato in trionfo fuori dal campo.

Quel talento

Inutile parlare della qualità tecnica di un giocatore che aveva e sapeva (in anticipo) tutto. Per inquadrare l’essenza della sua grandezza, basti pensare che il suo punto debole avrebbe potuto essere l’altezza nel gioco aereo (era alto solo 1,72). Ma proprio il colpo di testa lo rese un giocatore assolutamente completo, a livelli mai visti. Un esempio? La rete siglata contro l’Italia ai Mondiali del 1970, quella dell’1-0. Il piccolo Pelé svettò sul «2» azzurro, il «Marcantonio» Burgnich. Elevazione e scelta di tempo perfetti.

Un soprannome «irriverente»

Prima dei numeri e delle vittorie: quel soprannome. Un po’ irriverente e non amatissimo dal fuoriclasse come spesso sono i nomignoli che ci affibbiano da ragazzini. Ci sono due versioni sull’origine del nome «Pelé»: la prima pare derivi dal fatto che «O Rei» da ragazzino storpiasse il nome del suo portiere «Bilé» in una delle sue prime squadre giovanili; la seconda invece sarebbe derivata dall’abbreviazione del termine «pelada», palla di stracci. La stessa con la quale il giocatore (di origini umili) cominciò a stupire tutti...

1958, l’anno decisivo

Nel 1958 non c’erano servizi televisivi continui, ne telefonini, ne social media e tanto meno videocamere portatili. C’era solo il passaparola. Se si voleva (vagamente) intuire chi sarebbe stata l’immancabile rivelazione del Mondiale, che quell’anno (senza l’Italia) si sarebbe giocato in Svezia. Così quando Pelé «ubriacò» la (pur fortissima) difesa svedese a molti addetti ai lavori davanti ai primi televisori... cascò la mascella. Una rete, in particolare, sarebbe entrata nella leggenda: quella del 3-1 al 55’ : palombella e tiro al volo come solo gli «dei del calcio». 5-2 il finale con «O Rei» a siglare una doppietta. Il mondo della pedata (e non solo) aveva scoperto un 17enne che avrebbe fatto la storia dello sport.

L’unico tre volte «Mundial»

1958, 1962, 1970. Pelé è l’unico giocatore della storia ad aver vinto tre Campionati del Mondo. Due da assoluto protagonista (il primo e l’ultimo), uno da infortunato. Al suo posto nel 1962 in Chile il pur fortissimo Amarildo, che altrimenti non avrebbe visto il campo. Letteralmente preso a calcioni, da bulgari e portoghesi (e non tutelato dagli arbitri) anche nel 1966 in Inghilterra non riuscì a dare il proprio contributo per una nazionale verdeoro, che pure avrebbe potuto fare ben altra strada. Come nel Mondiale del 1970 dove vinse alla guida del Brasile più forte di sempre (forse) . «Macinò» una stanca Italia piena di fuoriclasse, sconfitta in un 4-1 figlio anche di una semifinale azzurra troppo gravosa; il «mitico» 4-3 sulla Germania di pochi giorni prima.

Pelé in Nazionale

92 e 77 reti con la Nazionale verdeoro. Questo il bilancio di un giocatore che aveva esordito a soli 16 anni (segnando) nella sconfitta contro l’Argentina (1-2) di Rio de Janeiro. Era il 7 luglio 1957. Quattordici anni dopo, il 18 luglio 1971 il suo passo d’addio: a nemmeno 31 anni il suo cammino con la Nazionale si chiudeva con un 2-2 contro la Jugoslavia sempre a Rio.

Il Santos, la sua vita

Con la maglia del Santos di San Paolo (fino al suo arrivo, solo un piccolo sodalizio paulista) i suoi anni migliori, fra il 1957 e il 1974, le stime ufficiali parlano di 665 presenze con 647 reti in tutte le competizioni. La sua stagione più prolifica? Il 1958: 66 reti a fronte di 46 gare. Un gol ogni partita «e mezza» (quasi). Con la maglia bianca dei «Santi» 10 Campionati Paulista; 6 Campeonato Brasileiro Série A; 5 «Taça Brasil» (coppa nazionale); 2 Coppa Libertadores e 2 Coppe Intercontinentali. 11 volte capocannoniere del Campionato Paulista.

Ai Cosmos «da ambasciatore»

Nel 1975 il passaggio nella Nasl (North American Soccer League) con la franchigia ricchissima dei Cosmos che costruì una squadra zeppa di fuoriclasse al tramonto (Chinaglia e Beckenbauer su tutti) proprio partendo da O Rei. Di quella militanza biennale non sono importanti tanto le cifre (64 presenze, 37 reti) quanto il messaggio di cui era portatore in un campionato «paradossale», fatto di soldi facili, stadi mezzi vuoti con tappeti sintetici e soprattutto tanta approssimazione di base. A partire dalla qualità media dei calciatori statunitensi. La sua presenza comunque contribuì a far conoscere uno sport fino ad allora snobbato nella terra dello Zio Sam.

Un primato incredibile

Quando Edson (come pare preferisca farsi chiamare dai suoi amici) si ritirò quel 1 ottobre 1977 aveva segnato la bellezza di 1.281 gol in tutte le competizioni (e le amichevoli) e con tutte le maglie. 1.281 reti in 1.363 partite, mentre in gare ufficiali aveva messo a segno 761 marcature in 825 incontri (media realizzativa: 0.92 gol a partita).

Secondo le fonti ufficiali (anche quelle Fifa) si tratta di un primato assoluto. È lui, a tutt’oggi, il più grande goleador della storia del calcio.

Questo malgrado fonti non ufficiali attribuiscano questo primato all’antesignano Arthur Friedenreich. Attaccante brasiliano a cui sono attribuite, forse per un errore di trascrizione, ben 1.329 reti dal 1909 al 1935...

Pelé visto da Sconcerti: è lui il migliore di sempre. Quando il Brasile si ribellò al contratto con l’Inter.  Mario Sconcerti su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Quando tutto il Brasile si ribellò al contratto con l’Inter

Mario Sconcerti amava Pelé. Aveva scritto questo bellissimo pezzo: lo pubblichiamo, così oltre il fuoriclasse brasiliano, ricordiamo anche il nostro Mario, campione di penna che ci ha lasciato il 17 dicembre 2022.

Diceva Pelé che quando fosse venuta l’ora di presentarsi al buon Dio, avrebbe chiesto di essere trattato in paradiso come era stato trattato sulla Terra. Perché Pelé ha avuto una vita lunga e felice. E quando non lo era, sorrideva comunque perché quello voleva sembrare, il simbolo tranquillo, gioioso, del calcio in Sud America e nel mondo. Più Maradona si accostava alla parte oscura, più lui si vestiva da Migliore. Era il suo ultimo modo per rimanere unico. Ha avuto tante donne, tanti figli anche lui ma trattenendoli, spargendo sempre parole di pace.

Ha coltivato con cura la sua leggenda, ne ha fatto un mestiere, apparire come un fuoriclasse deve essere, il sacerdote di un calcio buono. Sempre con vestiti brillanti ma classici, sempre con cravatte firmate e moderato champagne, un uomo di mondo inventato dal pallone, la parte ingenua, infantile del calcio, corretta e presentabile. Per definire la sua storia sul campo bisogna evitare di paragonarlo a Maradona . Erano due giocatori diversi, unici, le cui qualità a confronto sono sempre state soltanto opinioni. Erano un tesoro inestimabile, tra loro potevi scegliere ad occhi chiusi, non sbagliavi mai, eri pronto per vincere.

Pelé ha avuto un riconoscimento in più: è stato il calcio a scegliere lui . È stato premiato miglior calciatore del secolo dalla Fifa, dal Comitato Olimpico Internazionale e dalla Federazione mondiale di storia e statistica. Hanno scelto lui perfino i suoi colleghi fuoriclasse: tutti i vincitori di Palloni d’oro, riuniti in commissione, lo hanno eletto primo tra i primi. Undici anni fa 376.496 persone di 72 paesi hanno votato perché diventasse patrimonio dell’umanità. Qualcosa di molto simile aveva già fatto il governo brasiliano ai tempi in cui ancora giocava.

Angelo Moratti era riuscito a metterlo davanti a un contratto, a farglielo firmare, ma si ribellò tutto il Brasile e l’affare si fermò. Due anni dopo, per evitare tentazioni, il governo dichiarò Pelé «Tesoro nazionale», impossibilitato per legge a trasferirsi, prigioniero della sua bellezza. Ho spesso pensato che gli unici giocatori paragonabili a Pelé siano stati Cruyff e Di Stefano. Non per colpa di Maradona, per vicinanza di passo e di ruolo. Pelé era prima di tutto un atleta. La sua differenza era saper dare forza alla tecnica. Quando segnò all’Italia nella finale del 1970 a Città del Messico non segnò un gol memorabile, non dribblò tre avversari. Si alzò un metro da terra e colpì di testa rimanendo in elevazione per un tempo infinito. Il suo avversario era Tarcisio Burgnich, forse il miglior difensore italiano. E gli stava attaccato. Fu semplicemente saltato, ignorato.

Il vero limite di Pelé è stato il tempo. Ha giocato in anni in cui la comunicazione era lenta, la televisione alle prime ore. Noi riusciamo a sentire nostro solo quello che vediamo. Pelé non lo abbiamo davvero mai visto. Era un modo di dire, mi sembri Pelé. Ma non capivamo cosa stavamo dicendo. Pelé usciva dal Brasile solo per lunghe tournée in giro per il mondo, come un’opera d’arte da mostrare e poi subito impacchettare e riportare a casa. La gente accorreva, allargava ogni giorno la leggenda. Voleva far parte del miracolo. Una volta in Colombia fu espulso, ma il pubblico si rivoltò contro l’arbitro, minacciò seriamente di invadere il campo. Alla fine, Pelé tornò in campo e fu espulso l’arbitro.

Un’altra volta in Nigeria, due clan in guerra firmarono una pace di 48 ore per andare tutti allo stadio a vederlo giocare. In Italia venne per un’amichevole col Milan a San Siro. Era stanco e infortunato, ma nel contratto era obbligatoria la presenza. Scese in campo per 23 minuti, trotterellando. I giornali il giorno dopo esaltarono il giovane Trapattoni che lo aveva fermato. La storia del Trap che ferma Pelé va avanti ancora oggi. Perché Pelé illuminava, bastava passargli vicino per salire di energia. Altafini perse il posto nel Brasile del '58 per colpa dell’estro di Pelé. Altafini aveva 21 anni ed era un grande centravanti. Continua a giurare che farsi superare da Pelé è stato uno dei suoi più forti motivi di orgoglio.

Pelé aveva un capriccio, quasi una nostalgia: non amava il suo nome Pelé. Amava essere chiamato col nome che gli aveva dato suo padre, Edson, Edison, come l’inventore della lampadina. Pelé era un nomignolo conquistato sul campo quando era ragazzo, glielo gridò contro un avversario scontroso. Probabilmente il suono partì come bilè, che in brasiliano è un’offesa. E comunque si poteva equivocare. A 18 anni quel cattivo nome, Pelé, era già così famoso nel mondo che non ci fu più nessun equivoco.

P.s.: A scanso di equivoci e rispettando il libero arbitrio, successivamente la Fifa ha dato il premio di miglior calciatore del secolo anche a Maradona. Ex equo con Pelé.

Morte di Pelè, quando 'O Rei sfidò la Juve di Sivori: le due partite negli anni Sessanta.  Alessandro Chetta su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Nelle amichevoli a Torino tra i bianconeri e il Santos, una vittoria per parte: entrambi i fuoriclasse andarono in gol. Il ricordo sul sito del club

Pelè, 'O Rei, è morto oggi 29 dicembre all'età di 82 anni. La Juventus ha omaggiato la leggenda del calcio, tre volte campione del mondo col Brasile, ricordando le partite del Santos, squadra della Perla nera, contro il team bianconero in cui furoreggiava un altro mito calcistico di quei tempi, Omar Sivori.

«Il fuoriclasse brasiliano con la sua smisurata grandezza - si legge sul sito del club - ha rappresentato il fascino del calcio a tutte le latitudini. Una storia che si è incrociata con quella della Juve, il cui mensile Hurrà gli dedicò una copertina accanto alla stella argentina bianconera: Omar Sivori».

La foto dei due campioni risale al 26 giugno 1963: i due battagliarono in una amichevole giocata allo stadio Comunale di Torino finita 5-3 per i bianconeri. Pelè segnò ma Sivori ne fece tre.

Però Edson Arantes do Nascimento e la Vecchia Signora si erano già incontrati nel '61 in un match organizzato nell'ambito dei festeggiamenti per il centenario dell'Unità d'Italia: in quell'occasione, sempre a Torino, vinsero i sudamericani 2-0, ancora con un gol di Pelè. 

Un ulteriore incontro vi fu nel 1974: Pelé andò in visita alla Juventus al Combi, il campo di allenamento: salutò la squadra e i tanti bianconeri convocati in azzurro per i Mondiali in Germania. 'O Rei era già tre volte iridato: col successo di quattro anni prima in Messico - proprio contro l'Italia - aveva donato la Coppa Rimet per sempre al suo Paese.

Pelé-Boninsegna e la finale Mondiale 1970: «Non vide Rivera e si preoccupò». Carlo Baroni su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

L’ex attaccante dell’Italia e la sfida al fuoriclasse: «In quel Brasile aveva dal numero 7 all’11 c’era un concentrato di classe, eleganza e tecnica calcistica. Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino».

La prima volta che lo incrociò, Pelé era già O Rei , lui non ancora Bonimba. Tre anni dopo i loro due nomi lampeggiavano sul tabellone della finale della Coppa Rimet. Pelé e Boninsegna mai insieme eppure sempre dalla stessa parte: quella del bel calcio, del gol da farci una cornice intorno.

La prima volta al Martelli di Mantova. Era una sera di giugno del ‘67. In quello stadio si era appena consumata la fine della Grande Inter. La papera di Giuliano Sarti, lo scudetto alla Juve. «Se il Mantova ha battuto i nerazzurri, è una squadra da temere» disse Pelé ai giornalisti. Finì 2-1 per il Santos e il fuoriclasse brasiliano segnò il primo gol. Le cronache dell’epoca raccontano che «Carburo» Negri, il portiere prestato ai lombardi dal Bologna per l’occasione, «neppure vide il pallone». Quel Santos giocava 120 partite all’anno, due a settimana. «Questo ritmo non logora i calciatori, anzi li irrobustisce» spiegava il loro medico Ermindo D’Alò, brasiliano di origine calabrese. Di sicuro rimpinguava le casse del club paulista. Un Pelé da portare in giro garantiva il tutto esaurito sempre. Come Buffalo Bill nei circhi un secolo prima. Ma il fuoriclasse non era solo marketing trent’anni prima. Anche per un’amichevole ci metteva faccia e gambe. «Non giocai quella partita (all’epoca militava nel Cagliari ndr) — ricorda Boninsegna — ma ero allo stadio». Il match con il Santos era legato anche al fatto che il Mantova era chiamato «il piccolo Brasile». Quindi in fondo era quasi un derby. E i giornali diedero un buono spazio a quell’evento che portava il più grande calciatore da noi.

Sempre in una sera (italiana) di giugno Boninsegna indossò maglietta e scarpini e sfidò una squadra che non sapeva buttare la palla in tribuna. Era il 1970. La finale dei Mondiali. L’Italia ci arrivava dopo 32 anni. «Avevano cinque trequartisti — prosegue Bonimba —. Dal numero 7 all’11 c’era un concentrato di classe, eleganza e tecnica calcistica. Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Noi ne avevamo tre (Mazzola, De Sisti e Rivera) ma uno lo lasciammo in panchina… Quando Pelé seppe che Rivera non giocava, si preoccupò. Se questi non mettono in campo il Pallone d’oro, disse, sono davvero forti».

Com’era O Rei visto da vicino? «Lui dettava i tempi, accendeva la luce, proponeva e concludeva. In una squadra dove tutti facevano tutto e bene. Eppure fino al 70’ restammo in partita. E Domenghini arrivò lì lì a portarci avanti. Poi la stanchezza venne fuori. La semifinale incredibile con la Germania si fece sentire. Insieme con la confusione in panchina. In porta giocava Albertosi, che fece il suo, niente da dire ma in panchina finì Zoff per tutto il Mondiale. Lui che era il titolare della squadra campione d’Europa, giusto per precisare. Mi resta il rammarico di non aver visto il duello Rivera-Pelé. Certo fossi stato io nei panni di Gianni, non sarei entrato per giocare solo sei minuti. Un’umiliazione. Rivera era troppo cortese».

Viene da pensare a cosa sarebbe stato avere un Pelé dalla stessa parte. «Con lui a regalarmi assist, qualche gol in più l’avrei segnato. Ma non posso lamentarmi: da Mazzola a Bettega ho sempre trovato chi esaltava le mie qualità. Certo con un Pelé...». Forse il più grande di sempre. «Ognuno è il più grande del suo tempo. I paragoni tra epoche lasciano il tempo che trovano». Negli occhi del grande bomber dell’Inter c’è ancora il balzo incredibile di Edson Arantes do Nascimento che non aveva bisogno di appoggiarsi sulle spalle rocciose di Burgnich. E l’aria rarefatta di Città del Messico era solo ossigeno di un’infinita fuga per la vittoria.

Pelé è morto, il re del calcio aveva 82 anni. Carlos Passerini su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Pelé, uno dei più forti campioni della storia del calcio, è morto oggi a San Paolo del Brasile. Da tempo era malato di tumore

Pelé, uno dei più importanti calciatori della storia, è morto oggi a San Paolo del Brasile. Da tempo Edson Arantes do Nascimento — questo il suo nome all’anagrafe — era malato di tumore al colon; nelle ultime settimane era stato ricoverato e il 21 dicembre i medici avevano parlato di «condizioni in peggioramento» a causa di «una insufficienza renale e cardiaca».

«Sono pronto a giocare novanta minuti e pure i supplementari». Era il settembre del 2021, aveva appena lasciato la terapia intensiva dell’ospedale Albert Einstein di San Paolo dopo l’intervento per la rimozione di un tumore al colon. La situazione risultava però già grave. Lo sapevano tutti, lo sapeva lui. Ma anche quella volta Pelé aveva fatto Pelé, caricandosi la squadra sulle spalle, col suo inimitabile sorriso, autentico e infinito, cercando di rassicurare il mondo intero, in ansia per le sue condizioni di salute.

Aveva concluso il messaggio agli 8 milioni di tifosi su Instagram scrivendo tre semplici parole: «Amore, amore e amore!». Questo era Edson Arantes do Nascimento. E questo sarà sempre.

O Rei non ce l’ha fatta. L’aveva promesso: la partita sarebbe stata lunga e non si sarebbe arreso neanche al 90’. Così è stato. La sua sfida si è conclusa quindici mesi dopo quel primo intervento. Ha combattuto fino all’ultimo, come ha sempre fatto in vita sua, sul campo di calcio e fuori. Troppo forte però stavolta l’avversario. Eppure non ha smesso un minuto di lottare, di crederci, di giocare la sua partita, assicura chi gli sta vicino.

Negli scorsi mesi era stato sottoposto all’ennesimo ciclo di chemioterapia e fin da subito le indiscrezioni filtrate dall’ospedale avevano lasciato poche speranze. Secondo diversi media brasiliani, la situazione negli ultimi tempi era peggiorata, col cancro che si era esteso ad altri organi. Si sono poi aggiunte complicazioni renali e cardiache. S’è capito che non c’era più nulla da fare quando nei giorni scorsi i figli lo hanno raggiunto all’ospedale per l’ultimo saluto, quando hanno capito che il padre non sarebbe più tornato a casa.

Pelé non si è mai arreso. Debilitato ormai da anni, anche per via di un serio problema all’anca che ne condizionava i movimenti e che lo costringeva a usare il bastone per muoversi. Ha affrontato il suo calvario con la stessa forza e la stessa tenacia che aveva sul campo e che gli hanno permesso di vincere tre Mondiali, 1958, 1962 e 1970, unico calciatore della storia a riuscirci. Di segnare oltre 1281 gol in 1363 partite fra Santos, New York Cosmos e Brasile. Di diventare calciatore del Secolo per la Fifa, per il Comitato Olimpico Internazionale e per l’International Federation of Football History & Statistics, nonché Pallone d’oro del secolo, unico giocatore al mondo.

Ma soprattutto di diventare il Re, un Re buono, partito dall’inferno giocando con un pallone di stracci e arrivato in cielo.

Talento precocissimo, come forse mai più se ne vedranno. A 16 anni era divenuto il capocannoniere del Campionato Paulista, un anno dopo era in Nazionale, a 17 e 249 giorni vinceva il suo primo Mondiale. Mai più nessuno come lui. Dopo la vittoria del Mondiale messicano del 1970, con quel 4-1 in finale contro l’Italia di Mazzola e Rivera, il Sunday Times titolò a tutta pagina: «How do you spell Pelé? G-O-D». «Come si scrive Pelé? D-I-O».

Mille successi, mille premi. Ma la sua vita stessa è stata molto più di questo. Innanzi tutto è stata un messaggio di speranza per molti. «Il più grande successo della mia vita non sono state le coppe o le medaglie, ma sapere di aver aiutato tanti ragazzi di strada che guardandomi hanno capito che lottando si può arrivare ovunque, perché nulla è impossibile se lo vuoi davvero» disse nel suo ultimo indimenticabile viaggio a Milano, nel maggio del 2016.

Quell’incontro in sala Buzzati, ospite della Gazzetta, è ancora negli occhi di molti, anche di chi non l’aveva mai visto giocare. Mostrando il suo bastone, fondamentale per camminare, sorrideva: «La vita è questa, amici: non è facile, ma si va sempre avanti, sempre».

A gennaio era morta a 91 anni Elza Soares, leggenda della musica brasiliana. Bellissimo il messaggio dedicatole da Pelè: «Un mito della nostra musica. Storica, genuina, unica e ineguagliabile. Oggi ci lascia, ma nel cuore sarà sempre eterna». Condividevano le medesime origini, la stessa straordinaria parabola esistenziale: cresciuti nelle favelas, arrivati in cima al mondo. Una delle canzoni più belle della Soarez, «Somos Todos Iguais», Siamo tutti uguali, dice: «L’uomo muore, il fiore muore/ Figlia non essere triste».

Impossibile, O Rei. La partita è finita, ora siamo più soli. Ma resterai. Obrigado.

(La veglia funebre sarà lunedì 2 gennaio a Vila Belmiro, lo storico stadio del Santos dove la leggenda del calcio brasiliano ha giocato per la maggior parte della sua carriera sportiva).

O Rei ha pregato con la famiglia e i medici. E ora l'ultimo saluto nello stadio del Santos. Paolo Manzo il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

I figli accanto: "Tutto quello che siamo è grazie a te. Ti amiamo infinitamente..."

San Paolo. Stavolta o Rei non ce l'ha fatta ad uscire vivo dall'ospedale Einstein di San Paolo dove negli ultimi anni era ormai diventato un paziente di casa. Prima per una brutta artrosi poi per un cancro al colon che lo aveva colpito nel 2021. Il suo ultimo ricovero era cominciato lo scorso 29 novembre. Colpito dal Covid Pelé era stato costretto a ricorrere alle cure ospedaliere per una sopraggiunta infezione ai polmoni.

«Tutto quello che siamo è grazie a te. Ti amiamo infinitamente. Riposa in pace» ha scritto la figlia Katy su Instagram poco dopo la sua morte. Poco prima di Natale tutta la famiglia si era raccolta al suo capezzale. I figli fino all'ultimo speravano di riuscire a portare a casa il padre per festeggiare almeno il Natale ma le condizioni erano peggiorate. Qualche giorno prima sull'Instagram ufficiale del campione era stata pubblicata una sua lettera aperta. «La vita è una opportunità» si leggeva - quello che decidiamo farne dipende da noi. Possiamo avere successo ma anche sbagliare. Nella vittoria veniamo celebrati ma è nella sconfitta che impariamo». Per poi aggiungere che «la vita è sempre generosa e offre nuovi inizi. Ogni giorno che passa, iniziamo un nuovo cammino. E in questo ciclo alimentiamo sogni che non muoiono mai, a prescindere dagli ostacoli che incontriamo».

Campione sul campo di calcio ma anche nella vita, nonostante qualche ombra. Da una figlia, Sandra, che tardò a riconoscere al figlio Edinho, arrestato più volte per riciclaggio e traffico di droga, Pelé ha giocato ogni istante della sua vita con l'intensità di chi è nato povero ma ha realizzato il suo talento

Nato come Edson Arantes do Nascimento a Três Corações, una cittadina di 75mila abitanti nell'entroterra del Minas Gerais circondata da piantagioni di caffè, l'aveva resa famosa in tutto il mondo. Da 10 anni Três Corações gli aveva dedicato un museo con i suoi trofei e costruito una casa replica di quella della sua infanzia trascorsa con i fratelli Zoca e Maria Lúcia Nascimento e i genitori. La madre Celeste Arantes do Nascimento, è ormai centenaria e vive da anni a Santos. Al padre João Ramos do Nascimento anche lui calciatore nella squadra locale di Vasco de São Lourenço, noto con il nome di Dondinho, O Rei deve tantissimo a partire dal nome che lo consegnerà alla storia, Pelé. La leggenda vuole che da ragazzino o Rei amasse giocare in porta, ispirato dal portiere José Lino da Conceição Faustino, detto Bilé, un amico della squadra del padre. Non riusciva però a pronunciarne il nome, Bilé e lo storpiava con Pilé. Così i suoi amici alla fine lo ribattezzarono Pelé.

In questa ultima fase della sua vita segnata dalla sofferenza fisica in cui tutto quello che si poteva fare dal punto di vista medico è stato fatto, Pelé fino alla fine ha dato al mondo una lezione di umiltà: lottando, assaporando la vita in ogni istante ma anche accettando il suo destino. Ha persino seguito in tv i Mondiali in Qatar che gli hanno reso omaggio. Circondato dai suoi sei figli e dalla terza moglie Márcia Aoki, O Rei ha pregato fino alla fine, persino con i medici e gli infermieri che lo avevano in cura all'ospedale.

Appena saputa la notizia della sua morte a migliaia i tifosi si sono recati a Vila Belmiro, nel centro della città costiera di Santos dove Pelé è nato come campione. Lo stadio del quartiere, che ha ospitato anche i mondiali del 2014, è stato scelto dallo stesso O Rei perché il Brasile potesse dargli l'ultimo saluto prima della cremazione. Lo stato di San Paolo e la città di Santos hanno dichiarato il lutto per sette giorni, mentre la maglia numero 10 del Santos FC sarà ritirata. «Il calcio mondiale ha perso un mito» gridano i tifosi accorsi per dirgli addio. «Il suo nome risuonerà in tutti gli angoli del pianeta» dicono giovani e adulti non riuscendo a trattenere le lacrime. In questo clima surreale da fine dell'anno e di fine di un mito aleggiano allora su tutti i presenti le parole della lettera testamento del campione: «Non so cosa in Brasile ci renda così pazzi per il calcio. Se è l'amore che ci unisce o perché il calcio ci fa dimenticare i nostri problemi di fame e povertà per 90 minuti. Ma non importa il motivo. Questo tifo ci ha unito. E il mio sogno è che questo sentimento duri per sempre».

"Senza O Rei il mondo del calcio sarà più povero e triste". Suo compagno di squadra nel Brasile: "Con lui avrei potuto vincere altri due Mondiali". Massimo M. Veronese il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Erano i due bambini prodigio del Brasile, diversissimi e complementari, amici e rivali, l'uno l'altra faccia dell'altro, le due stelle bambine del Brasile che conquistò nel 1958 il Mondiale di Svezia. Altafini e Pelé si incrociarono la prima volta il 6 marzo 1958: José fece due gol, Pelé uno ma il Santos di quello che sarebbe diventato «O Rei» sconfisse il Palmeiras 7-6. Mai banali, sempre unici.

Altafini, ha saputo?

«Per me è un dolore tremendo. Sono anni di tristezza e dispiacere: ci ha lasciato Maradona, ci ha lasciato Paolo Rossi. Adesso Pelé. Sapevo che era malato, ma non sei mai preparato. É terribile».

Immaginava questo finale di partita?

«Sinceramente no. Non ho mai creduto che uno come lui si ammalasse. Era un atleta perfetto, un professore di educazione fisica, fisicamente era fortissimo. Però...»

Però?

«Però è vero che lui ha giocato moltissimo, molto più di tutti gli altri. Quando viaggiava per il mondo in tournée con il Santos, che doveva fare cassa, giocava anche due partite nella stessa giornata. Di certo la sua carriera è stata più usurante di quanto si creda. Un logorio pazzesco».

Lei si arrabbiò con Pelé per il film che la raccontava come un ragazzo ricco viziato e arrogante...

«È vero. In realtà noi non abbiamo mai giocato insieme da bambini, non vivevamo nella stessa città e sua mamma non ha mai lavorato da me come donna di servizio perché io ero povero come lui. Le pare che avessi bisogno di una cameriera quando avevo una sola camicia da mettermi? Però ha scelto come attore per interpretarmi un ragazzo bellissimo come Diego Boneta......».

Nel film si capisce che Altafini era per Pelé un rivale ma anche un modello.

«Non c'è mai stata rivalità tra me e lui, se non in campo, ma vinceva sempre lui. Se io facevo un gol lui ne faceva due, se io ne facevo due, lui tre. Non c'era partita».

Quando vi siete conosciuti?

«A San Paolo, alla prima convocazione in Nazionale: lui aveva 17 anni, io 19. Anche se era più piccolo di me sembrava più grande. Io ero più ragazzino di lui».

Vi sentivate?

«Ci vedevamo ogni tanto, soprattutto a qualche evento dove ci invitavano. Con Pepe, Zito, Clodoaldo avevo un rapporto, con Pelé meno».

Com'era come uomo?

«Ha avuto una vita sentimentale turbolenta, si è sposato tre volte, nemmeno lui sapeva quanti figli aveva, ma era un uomo che al di là del sorriso eterno aveva anche sofferto molto, per la morte della figlia Sandra, uccisa dal cancro nel 2006, e per il carcere inflitto al figlio Edinho».

È stato il più forte di tutti i tempi?

«Non c'è Maradona che tenga. Lui sfiorava la perfezione. Destro e sinistro al cento per cento, testa, velocità, dribbling, acrobazia. Ha fatto 1225 gol, ha vinto tre mondiali. Diego è stato un grandissimo ma nessuno è stato come Pelé».

Peccato non aver continuato a giocare insieme nel Brasile.

«Purtroppo negli anni Cinquanta e Sessanta in Nazionale non chiamavano i giocatori brasiliani. Altrimenti con lui ne avrei vinti almeno altri due».

Come sarà adesso il mondo senza Pelé?

«Io ho vissuto un dolore atroce quando è morto Garrincha e quando è morto Ayrton Senna. La vita perde anche i suoi uomini migliori. Ma senza Pelé e la gioia del calcio e per la vita che portava sarà un mondo più povero e più triste».

Il gol di Pelé all'Azteca: quel volo infinito sopra Burgnich. Il 21 giugno 1970, nella finale messicana contro l'Italia, O'Rei resta come sospeso in aria segnando una delle reti più iconiche di sempre. Paolo Lazzari il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Rimessa laterale per il Brasile. Tostao sfrega il pallone con la maglietta verdeoro e serve Rivelino. Scelta indiscutibile, perché quello è uno che sa progettare calcio. Il tramestio incessante del pubblico che freme sugli spalti si addensa fino a scendere quasi in campo. In mezzo all'area già sfrigolano i corpi. Valcareggi ha impartito istruzioni limpide: inizialmente a Pelé ci doveva pensare Bertini, perché pareva che il dieci venisse più dentro il campo per poi sprigionarsi in progressione. Quando è stato chiaro che invece giocava davanti, il mister ha srotolato un bel discorsetto a Tarcisio: "Lo marchi a uomo, dove va lui vai te. Non lasciargli mai nemmeno mezzo centimetro. Asfissialo". Burgnich ha fatto sì con il capo, pronto ad eseguire. Una finale mondiale è una di quelle fenditure spazio - temporali che capitano molto di rado nella carriera di un calciatore professionista. E l'avversario è fenomenale, ma lui è già un pitbull che lo lavora alle caviglie dal fischio d'inizio.

Addio a Pelè, tre volte campione del mondo con il Brasile

Non può sapere, il pur ottimo Tarcisio, che quello che gli svolazza intorno è un elemento extraterrestre. Come una sorta di frammento meteroritico precipitato sul campo da una sperduta galassia lontana. Sì, d'accordo: se ne è avveduto parzialmente. Sa che O'Rei non è un soprannome che ti incollano per caso. Certe cose però, valicano l'umana comprensione. Rivelino ha una frazione di secondo a disposizione. Alza la testa. Contempla con la coda dell'occhio la cricca di maglie azzurre a gialle che rimbalzano in mezzo all'area. Rimugina soltanto un'istante ancora sulla forza da imprimere e sulla direzione più insidiosa. Poi crossa di prima intenzione.

Tutto il mondo (non solo del calcio) piange Pelè

Pallone che si impenna. Occhi che lo scrutano speranzosi. Burgnich incollato a Pelè. Che poi parliamoci chiaro: ha marcato pure Gerd Muller, uno che se gli concedi mezzo metro ti infila con brutale indelicatezza. Sa come domare il killer instinct altrui. Però compie un unico, impercettibile, errore. Cade nel tranello ordito da Rivelino, che ha sussurrato una traiettoria infida alla sfera. Tarcisio fa un passo in avanti, aspettandosi che il motivo del contendere divampi in mezzo all'area. Invece la scia è esterna. Una sola defaillance, ma sufficiente per armare l'intuito di Pelé, che gli ha già preso il tempo. Lui l'ha studiato approfonditamente. Sa che non ti devi mai far puntare, perché nessuno dribbla come lui. Nessuno possiede la sua velocità d'esecuzione. Confesserà in seguito il nostro: "Ho avuto a che fare con tanti fenomeni, ma nessuno come lui. Un Sivori ad esempio era fantastico, ma sapevo che andava sempre sul sinistro. Perlé invece trattava il pallone allo stesso modo con entrambi i piedi, era immarcabile".

Però questo succede palla a terra. Pelé non si è certo fatto un nome infilzando porte a suon di incornate, come un qualsiasi manovale del calcio. E Burgnich è un autentico colosso, difficile da sovrastare nel gioco aereo. Il dieci però non se ne cura. Il suo disegno è più alto. Fluttua sulla mediocrità generale. Si stacca da terra facendo leva su tutta la potenza esplosiva dei suoi muscoli. Tarcisio pure stacca, quasi all'indietro, costretto ad un movimento innaturale da quella lettura livida: "Sono stato un pollo, se solo non avessi fatto quel passo". Come tutti i marziani, Edson Arantes do Nascimento non può fare le cose in modo terrestre. Deve incidere il match con una segnatura cosmica.

Salgono i due, dunque. Presto però la differenza si annuncia in tutta la sua cruenta verità. La forza di gravità richiama a terra Burghich senza che quello abbia incocciato il pallone. Pelé invece rimane innaturalmente sospeso in cielo, quasi a voler decidere lui il momento di scendere. Che poi è esattamente dopo aver girato di testa in rete, dove Albertosi non può proprio arrivare. "Pensavo fosse un essere umano - confesserà il difensore azzurro successivamente - invece quando io torno a terra lui è ancora lassù".

Il gol stappa la partita e avvia il Brasile verso un dilagante successo: 4 a 1. Non è stata sicuramente la sua più fulgida prodezza. Eppure quel fotogramma se lo ricordano tutti: manifesto di una superiorità calcistica connaturata ai fuoriclasse autentici. Ricordo che copre anche il dolore della scomparsa, perché immortale. Il lascito di un tizio con il dieci sulle spalle che praticava un altro sport.

Pelé come Ali, nomi brevi che racchiudono l'universo. La storia dello sport è piena di grandi personaggi, ma nessuno come loro è riuscito a farsi amare tanto. Riccardo Signori il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Chi più famoso? Diciamo Papa e sappiamo di chi parliamo, non importa quale sia l'interprete: diciamo sia il personaggio vivente più famoso nel mondo. E se diciamo Pelè e Ali, la lettera iniziale del nome reiterata diventa PAPA, sembra un gioco del destino o della fantasia: sono stati gli sportivi più conosciuti e riconosciuti nel mondo globale. Chi mai non ne ha sentito parlare almeno una volta? Chi mai non li ha citati seppur casualmente? Immortali da vivi, non li dimenticheremo da morti ora che anche Pelè se n'è andato. Ali ci lasciò il 3 giugno 2016. Qualcuno suggerirà che ci sono e ci sono stati altri campioni della gente, delle fede sportiva, del buon ricordo: Michael Jordan per il basket, Joe di Maggio per il baseball, Maradona che nel calcio ha conteso a Pelè la palma del più grande. Ali si era incoronato da solo come «The Greatest», sebbene sul ring ci sia stato di meglio.

«Era il migliore della storia, non il più bravo» sentenziò lo storico Bert Sugar che assecondò classifiche che vedevano davanti a tutti Ray Sugar Robinson oppure Joe Louis specificamente fra i pesi massimi, la categoria di Ali.

Pelè è arrivato prima, il suo triplete nei mondiali cominciò nel 1954, e ci ha lasciato dopo. Ali comparve alle Olimpiadi romane 1960 ed anche nel suo pedigrèe ci sono tre titoli mondiali. Piccoli segni di comparazione, sensibili segnali di una dimensione che li ha regalati al mondo così uguali seppur diversi. A modo loro sono due brand dello sport che entra nel cuore della gente: inimitabili. Ecco perché oggi la morte di Pelè ci ricorda Ali. Così fenomeni seppur uno con i piedi, l'altro con i pugni. Ma nessun altro ha esaltato la bellezza estetica dello sport, due uomini neri che hanno conquistato titoli, rispetto e dimensione che ai neri non sembrava permessa. Nomi brevi perché la gente non dimenticasse. Questo lo abbiamo scoperto dopo. Ali che prima era Cassius Clay, eppoi divenne Muhammad Ali che, tradotto, significa l'uomo di Maometto. Ma per tutti Ali. Pelè era Edson Arantes do Nascimento: celebrato come Pelè. L'uno spinto dal motivo di fede, l'altro dalla presa in giro di un ragazzino per una questione calcistica. C'è una sostanziale differenza: Ali diverrà più grande nel mondo al di fuori dello sport, Pelè manterrà la sua maestosità nei ricordi del calcio. Ma soltanto loro stagliati in una sorta di Olimpo sul quale nessun altro è riuscito a posizionarsi. Emblemi di dimensione politico-sportiva, infilati nello stesso dipinto di vita: monumenti di una perfezione del gesto e di una intelligenza di azione.

Due icone che hanno colorato lo sport, non due icone di colore. Ali e i suoi ritornelli da farfalla del ring, Pelè con quelle azioni pennellate rimaste nelle fotografie e nei ricordi: sette avversari dribblati più il portiere prima di mandare la palla in rete. Oppure il pallone che sorpassa due teste prima della conclusione al volo davanti agli occhi sbarrati di Svensson, il numero uno della Svezia nel mondiale 1954. Gianni Brera scrisse che Ali era un Arcangelo, Tristano nero. Ma quando venne martoriato dai colpi di Larry Holmes divenne un torpido bovino da macello. Non così nel resto della vita sua, dove rischiò per un credo politico che non lo voleva combattente contro i Vietcong. Uomo di pugni e di azione che, nel 1990, si imbarcò per l'Iraq ad impedire la guerra del Golfo, per chiedere a Saddam Hussein la liberazione di 350 ostaggi americani: ne riportò a casa 15. Eppoi lassù, nel 1996, ad Atlanta quando accese il tripode olimpico mostrando al mondo la sua sofferenza e la sfida al male.

Pelè, invece, si è sempre mostrato sorridente e rassicurante, uomo annesso al potere quanto l'altro era rivoluzionario: a 20 anni già definito «patrimonio nazionale» per il Brasile, recordman delle 1300 partite e dei 1300 gol. Pure lui entrò in storie di guerra, fermando Nigeria e Biafra che accettarono la tregua per vederlo giocare. Ali non badò ai danari, anzi ne fu spolpato dalle sette religiose. Pelè divenne miliardario e mercenario andando ad esplorare il calcio statunitense, sorta di slot machine per ogni atto di presenza. Scrisse Eduardo Galeano in «Splendori e miserie del gioco del calcio»: «Non regalò mai un minuto del suo tempo, e mai una moneta gli cadde di tasca». Negli istinti c'è stata la differenza e la grandezza che li ha accomunati: Pelè pianse sul petto di Gilmar dopo aver battuto la Svezia nella finale mondiale 1954. Ali tenne il pugno levato, irridente e iracondo su Sonny Liston a terra, ai suoi piedi, a conclusione del match mondiale.

Per tutto questo, e forse tanto altro, Pelè e Ali resteranno legati nella vita che fu e nella morte: dopo il Papa, gli uomini più conosciuti del mondo tra gente povera e gente ricca, predicatori e detrattori, tra cultori dello sport e semplici orecchianti. L'addio di Pelè ci ha ricordato quanto sono stati grandi e ineguagliabili: non c'è gol o ko che tenga.

Addio O Rei. Pelé, poesia e romanzo: leggenda vera, in un calcio di figurine. O Rei è morto a 82 anni. È stato il prima e il dopo del calcio, luce nella nebbia di questo sport.  Tony Damascelli su Nicolaporro.it il 30 Dicembre 2022.

Pasolini scrisse che per gli europei il calcio è romanzo, per i sudamericani è poesia. Pelé era poesia e romanzo assieme, ha scritto la storia del football, l’ha vissuta come nessuno prima, nessuno dopo, il gioco infantile e inutile di un duello tra lui e Maradona appartiene a chi vive a distanza questo meraviglioso gioco.

Pelé è stato il prima e il dopo del calcio, dunque non Maradona, non Puskas, non Di Stefano, non Messi, non Cristiano, non Ronaldo brasiliano, nemmeno Van Basten o Platini. In principio c’era Lui, il carnevale del pallone, dopo soltanto coriandoli bagnati, segni malinconici di feste paesane. Pelé ha portato il Brasile nel mondo, Pelé ha portato il soccer a New York, ha vinto tre mondiali, ha scelto di vivere e giocare nel suo Pese, la maglia bianca del Santos sulla sua pelle di puma, le cosce ipertrofiche su un busto feroce, muscoli di seta e istinto felino, maestosa la sua elevazione nel gol all’Italia, Mexico70, Tarcisio Burgnich si inerpica nell’aria dell’Azteca ma sopra di lui stacca il Re e batte Albertosi con un colpo di testa che è un colpo di frusta.

Unico, irripetibile, leggenda vera e non televisiva, un privilegio per noi che abbiamo vissuto l’epoca migliore di qualunque sport, Marcellus Cassius Clay e Mennea, Thoeni e Tomba, Mercks e Pantani, Paolo Rossi e Tardelli, Maradona e Di Stefano, Spitz e Pellegrini ma prima di tutti, sopra tutti e tutto c’è stato Pelé, quattro lettere facili da pronunciare in qualsiasi lingua. I coribanti che raccontano ubriachi il calcio di oggi non sanno, non possono sapere, capire, spiegare. Pelé sfugge da qualsiasi facile narrazione, è luce che corre nella nebbia di un calcio che si trastulla di figurine.

Aveva diciassette anni e i capelli a spazzola quando si presentò al mondo, nella coppa Rimet in Svezia, segnò tre gol alla Francia in semifinale e due agli svedesi nella finale che lo portò in trionfo. Venne poi la storia, venne la leggenda. Tre mondiali come nessun altro, gol mille e più, il suo viso sorridente su una carta di credito e contratti milionari però mai nessuna polemica, nessuna lotta al potere, nessun sigaro castrista, nessuna storia acida eppure tre matrimoni e molti, troppi figli tra vari giacigli.

L’ultimo Pelé è stato sofferenza, un monumento d’oro non può avere crepe ma il suo copro si era lentamente prosciugato, le gambe di marmo erano diventate di sabbia bagnata, però gli occhi erano vivi. L’immortalità non esiste ma Pelé è esistito per dimostrare che il sogno può continuare in eterno. Il mondo lo piange, scrivono i giornali. Credo che in Argentina però accenderanno di nascosto le candele. Tony Damascelli, 30 dicembre 2022

Addio Re, porta "O jogo" nel Paradiso del calcio. Sconfitto solo dalla malattia: i suoi gol erano poesia e rimarranno una carezza per l'anima. Tony Damascelli il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Non c'è stato un prima. Non c'è stato un dopo. C'è stato Pelé. Chi non crede nelle divinità alla fine ha dovuto arrendersi: un giorno l'eroe scese dal cielo. È stato più di un uomo che giocava a pallone, era angelo per chi lo adorava, diavolo per chi se lo trovava di fronte. Era il Brasile, carnevale di etnie, di religioni, di razze, di colori, era Edson Arantes do Nascimiento, romanzo, commedia, poesia, racconto favoloso e impossibile oggi da narrare per intero. Pelé non era Di Stefano, Pelé non era Maradona, Pelé non era Zamora, Pelé era di pelle nera e questo, pensando al tempo suo ancora peggiore di quello contemporaneo, ne esalta le imprese. I muscoli di seta, lucidi, feroci, gli garantivano velocità ed eleganza, potenza e precisione, correva silenzioso come un puma, staccava nell'aria come un'aquila, già al decollo preparava la torsione e il colpo di testa, caracollava e calciava silenziosamente e con raffinatezza, di destro e di sinistro, si udiva il colpo, come da una canna di pistola con il silenziatore, la sua chilena fu il fotogramma migliore del film di John Huston, Fuga per la vittoria, là dove i gerarchi nazisti si dovettero arrendere all'arte dell'uomo negro.

Il nome che da bambino i suoi compagni di giochi gli appiccicarono addosso, lui tifoso di un portiere chiamato Bilé, ha aiutato la sua leggenda, quattro lettere facili da pronunciare, impossibili da dimenticare, lasciapassare di qualunque confine, anche là dove il calcio è merce ignota. Edson era all'anagrafe un nome sbagliato, suo padre adorava l'inventore della lampadina, Pelé avrebbe dato la luce al calcio, riassunto di un secolo grandioso di questo sport passato da semplice divertimento di squadra a fenomeno sociale e poi imprenditoriale e infine finanziario. Era nato il 23 di ottobre del Quaranta nella città di Tres Coracoes nel Minas Gerais. I tre cuori sarebbero stati la sua fede religiosa, cattolico fedele con qualche peccato di percorso, tre matrimoni e un numero non precisato di figli, tra sette e dieci, non tutti riconosciuti.

Nella lingua portoghese la partita si traduce O jogo, così come nel vocabolario del football mondiale sta scritto O Rei, sovrano accettato e riverito da tutte le repubbliche dove i titoli nobiliari sono decaduti ma quelli calcistici resistono. Aveva diciassette anni quando scoprì l'altro continente, venne in Svezia per i Mondiali del 58, la formazione brasiliana aveva nomi da cadenze musicali, i due Santos, Nilton e Djalma, Vavà, Didì, il ragazzino con i capelli a spazzola segnò tre gol alla Francia in semifinale e due nella partita decisiva alla Svezia. Fu il primo dei tre trionfi mondiali, l'inizio dell'epopea. Il gol realizzato all'Azteca di Città del Messico, nella finale contro l'Italia, resta l'immagine migliore e più prepotente della sua classe, Tarcisio Burgnich abbandonò, per ordine di Valcareggi, la marcatura di Rivelino lasciandola a Bertini e si spostò sul re, il cross lo trovò quasi impreparato, la roccia friulana di Ruda tentò comunque lo stacco, saltando storto e allungando tutto il braccio destro, Pelé aveva già preso l'ascensore, salendo un piano più in sù, perfida la deviazione di testa, credo che nell'aria dello stadio messicano si senta ancora il fruscio di quel momento. Giocò una volta in Italia, era il maggio del Sessantatré, e lo marcò Trapattoni che per questo passò alla storia come l'uomo che fermò Pelé, il quale agevolò l'impresa del Giuàn perché si presentò con una gamba fessa causa stiramento, dopo mezzora salutò il Trap e il resto della comitiva.

Aveva quindici anni quando lo presero al Santos, la bianchissima casacca, come i pantaloncini e i calzettoni, abbagliava sul colore del volto cafro e le gambe già potenti, un anno dopo esordì in nazionale, la letteratura calcistica gli ha attribuito 1281 gol in 1363 incontri, le statistiche della Fifa registrano 761 reti in 821 partite ufficiali, i numeri sono aridi e non bastano per comprendere il fuoriclasse che è tale perché fuori da qualunque categoria ordinaria. Lo desiderarono mille club, mille padroni gli offrirono miniere di pepite, scelse di restare nella sua Patria. Avrebbe vinto cento Palloni d'oro, non so quante coppe europee, l'esilio sudamericano ha concesso facili alibi e comode teorie agli ignoranti e faziosi. Quando decise di fermarsi, nel Settantaquattro, qualcuno pensò che non fosse giusto, le favole non debbono finire mai, così felici e contenti arrivarono e vinsero gli americani di New York per trasformarlo nel nuovo Cristoforo Colombo del soccer, i Cosmos furono la sua ultima Peleland, i dollari si moltiplicarono, la gloria ne fece interprete di pellicole cinematografiche e ambasciatore del football, incontrò pontefici e capi di Stato che, in verità, furono loro ad avere il privilegio di incontrare il Re, finì come simbolo di una carta di credito, il Beautiful Game era lo slogan dei favolosi anni.

Venne a Milano per festeggiare il mezzo secolo, un abile organizzatore di spettacoli, Giorgio Galeffi, allestì l'evento a San Siro, Brasile contro Resto del Mondo, Pelé nascose un infortunio, non poteva scendere in campo, aveva il muscolo della coscia destra ferito, bisognava inventarsi assolutamente qualcosa. Per amicizia personale gli consigliai di affidarsi a due medici traumatologi di mia conoscenza, eccitati e affascinati dal paziente imprevisto, i due specialisti lo raggiunsero nella stanza dell'albergo portandosi appresso, dall'ospedale in cui operavano, i macchinari per permettere all'illustre almeno un accenno di movimento veloce. Nessuno venne a sapere di quel miracolo clandestino. Pelé arrivò al Meazza, nello spogliatoio indossò la maglia verde oro con il numero 10, la folla di San Siro seguì ogni tocco della leggenda, dopo quaranta minuti Pelé si arrese, il muscolo tornò a dolere. La sera fu piena di cose e di emozioni e di parole. Vennero anni attraversati e firmati da altri idoli, Diego Maradona su tutti e in contesa fanatica con lui, Brasile contro Argentina sempre. Il paragone è impossibile, il duello appartiene a chi gioca con le figurine, questa storia non permette vincitori, Pelé appartiene al calcio senza nemici e senza proprietari, il football di Pelé fu a favore e mai contro qualcuno.

Il tempo prese a lasciare i segni sul suo corpo non più perfetto, le gambe di marmo diventarono come di sabbia bagnata, la sedia a rotelle fu il primo avviso di pericolo, una statua d'oro non può prevedere crepe. Altrove, in Argentina, la pazza gioia celebra Messi, nuovi paragoni, nuove classifiche, chiacchiere e distintivi. Lontano, distante nel suo Brasile, Pelé ha continuato a spedire messaggi, rassicurando chi temeva ogni giorno il buio improvviso dopo la luce. Gli occhi si erano affossati, lo sguardo smarrito e il sorriso si era nascosto nella coscienza del male, la voce lenta e affaticata, di ruggine. Soltanto la sua vita si è infine conclusa, i sogni, i dribbling, i gol non possono svanire. La polvere del tempo mai coprirà la sua storia.

Pelè morto, la decisione senza precedenti di Bolsonaro. Libero Quotidiano il 30 dicembre 2022

Se n'è andato il più grande del mondo? La morte di Pelè, al secolo Edson Arantes do Nascimento, non scioglie il dubbio più amato dagli appassionati di calcio del pianeta, ma di sicuro certifica il ruolo di o Rey, o la perla nera, nell'immaginario collettivo, non solo del Brasile: con l'82enne, scomparso dopo una lunga malattia, se ne va il volto, il corpo, il simbolo e il nome che ha fatto diventare il pallone un fenomeno globale. Poi è arrivato Diego Armando Maradona, oggi c'è Leo Messi, domani chissà. Ma Pelè è il calcio, semplice. E lo è diventato quando ancora stava giocando. 

Per il Brasile, in realtà, era e sarà sempre qualcosa in più. La prova è la decisione del presidente uscente Jair Bolsonaro, che domenica lascierà l'incarico a Lula: tre giorni di lutto in tutto il Paese, stabiliti in un decreto pubblicato in un'edizione straordinaria della gazzetta governativa. "Pelè ha fatto conoscere il Brasile al mondo intero - ha spiegato Bolsonaro -, ha trasformato il calcio in felicità e in un'arte". E per una volta, ai di là della retorica, il presidente della Fifa Gianni Infantino ha espresso un pensiero che troverà tutti d'accordo: la vita di Pelè è andata oltre il calcio.  

"Per tutti coloro che amano il bel gioco, questo è il giorno che non avremmo mai voluto arrivasse. Il giorno in cui abbiamo perso Pelè", spiega Infantino nel comunicato Fifa. "Oggi, tutti noi piangiamo la perdita della presenza fisica del nostro caro Pelè, ma lui ha raggiunto l'immortalità molto tempo fa e quindi sarà con noi per l'eternità. La sua abilità e la sua immaginazione erano incomparabili. Pele ha fatto cose che nessun altro giocatore si sarebbe mai sognato di fare - ha proseguito - soprattutto, il 'Re' saliva sul trono con il sorriso sulle labbra. Il calcio poteva essere brutale a quei tempi, e Pelè era spesso sottoposto a trattamenti duri. Ma, pur sapendo farsi valere, è sempre stato un uomo di sport esemplare, con un autentico rispetto per gli avversari". Infantino ha aggiunto: "Pelè aveva una presenza magnetica e, quando eri con lui, il resto del mondo si fermava. La sua vita va oltre il calcio. Ha cambiato le percezioni in meglio in Brasile, in Sud America e in tutto il mondo". 

Sui siti online dei principali media internazionali viene celebrato Pelè come l'indiscusso "Re" del calcio, 'O Rei'. Le Monde in Francia parla di "leggenda del calcio mondiale", per il britannico The Sun è stato "Il più grande di tutti i tempi" che è riuscito a trasformare "Il calcio in arte". Sul sito del Washington Post si titola "Il Re del calcio. Veloce, agile, abile con entrambi i piedi e preciso nei colpi di testa, ha aiutato il Brasile a vincere tre titoli mondiali". Per Usa Today Pelè è "considerato da molti il più grande calciatore di sempre"; mentre per il Financial Times Pelè è morto "dopo una carriera calcistica stellare per il Brasile". "Pelè esce di scena come il più grande di tutti i Mondiali di calcio, l'unico con tre titoli" celebra il sito brasiliano O Globo; "Il re del calcio, muore a 82 anni a San Paolo", scrive il Jornal do Brasil; per A Tribuna è stato 'unico, leggendario ed eterno'. La stampa argentina evita di definirlo 'il più grande in assoluto' evitando paragoni con i campioni nazionali come Maradona e Messi. La Nation, uno dei più importanti quotidiani argentini ha annunciato la morte di Pelè titolando con "L'artista del calcio che ha portato il Brasile in cima al mondo e ha deciso di rimanervi seduto" per poi spiegare che si tratta di "Uno dei più grandi calciatori della storia". "La prima grande stella mondiale del calcio", evidenzia il sito argentino Clarin. 

Resterà nella storia il mancato, pieno duello tra il brasiliano e Gianni Rivera, in campo solo 6 minuti nella finalissima del Mondiale di Mexico 70. "Se non ci fosse stato il calcio lo avrebbe sicuramente inventato", ricorda l'ex bandiera del Milan e stella della Nazionale azzurra negli anni Sessanta e Settanta. "L'ho sempre considerato il più grande di tutti i tempi, sapeva utilizzare entrambi i piedi allo stesso modo, con la stessa sensibilità e con la stessa potenza". "Avevamo un ottimo rapporto e sono veramente dispiaciuto della sua scomparsa - ha ricordato Rivera su Facebook -, mi sembra inutile tentare di fare una classifica fra chi era più bravo tra lui e gli altri grandi calciatori di tutti i tempi. Altafini mi ha raccontato una volta che era bravo anche in porta! Un giorno prima di iniziare gli allenamenti con il Santos, la sua squadra, si mise d'accordo con l'allenatore per fingersi un nuovo portiere che voleva essere assunto. Nessuno si accorse che era lui e parò tutti i tiri che gli fecero i compagni dal limite dell'area di rigore!!! Questo è sufficiente per capire chi è stato".

1940-2022. Addio O Rei, la storia del calcio. È morto Pelé, genio inimitabile. Anche nella sua capacità di percorrere il passaggio allo sport come business. Boris Sollazzo su Il Dubbio il 29 dicembre, 2022.

C’è una foto che è impossibile non ricordare oggi. Sorteggi dei gruppi di Russia 2018, una giostra pacchiana in cui Putin, tra doping di Stato, Donbass e dissidenti silenziati, cerca una nuova verginità internazionale. E lui, uomo di guerra, prova a farsi passare da paciere. Invita un Pelé già su sedia a rotelle e Maradona fresco di intervento ad anche e ginocchio per far loro superare anni di liti (in realtà i due si erano riavvicinati già con la trasmissione tv La Noche del Diez, con tanto di palleggio in studio). Poi cerca disperatamente, in mezzo a tante vecchie glorie profumatamente pagate per farsi vedere (si riconoscono Matthaus, Jay Jay Okocha, Marcel Desailly, Samuel Eto’o), di costruire una foto di gruppo a metà tra il mitico selfie degli Oscar di Ellen DeGeneres e Clinton che benedice la stretta di mano tra Arafat e Rabin. Insomma, una foto alla Silvio Berlusconi a Pratica di Mare per intenderci. Ecco, in quella istantanea c’è tutto Pelé. Il sorriso bambino e felice per il bacio di Diego Maradona, con cui si sono attaccati per una vita ma che alla fine, da uomini di campo invecchiati e dolenti, si ritrovano per una pace tutta emotiva, la mano che stringe quella del Pibe e ci si aggrappa e l’altra distratta ma non casuale che non dimentica Putin, in evidente disagio, totalmente fuori posto.

Sia mai che Edson Arantes do Nascimento si inimichi il potere o non lo blandisca. Che non sieda al tavolo più importante.

In una delle tante schermaglie con Diego quest’ultimo gli disse “si è venduto un mondiale nel suo paese per una Coca Cola”, alludendo a Usa ’94, agli ottimi rapporti del brasiliano con Kissinger e al colosso di Atlanta che avrebbe convinto il tre volte campione del mondo a far campagna per gli Stati Uniti contro la candidatura del proprio paese.

Pelé, in realtà, ha capito prima di tutti che il calcio non era più uno sport, un gioco, e che era divenuto un business. Anzi, a dirla tutta ha contribuito in modo determinante a questo cambiamento. Lui, che veniva da una povertà disillusa - il padre, Dondinho, era un ex calciatore stroncato nel momento della consacrazione da un infortunio al ginocchio -, giurò a se stesso che a calciar calzini e stracci e a pulir scarpe non sarebbe più tornato. Per questo non si cimentò mai con altro calcio che quello brasiliano, se non nelle coppe del mondo. Non per romanticismo o attaccamento alla maglia, ma perché la sua squadra lo torturò tra vittorie e tournée internazionali infinite, facendolo diventare la prima icona del marketing nel mondo dello sport e costruendo una joint venture squadra-campione che fu macchina da soldi avidissima e instancabile. Entrambi sacrificarono vittorie e sfide al denaro, integrità sportiva (il Santos rinunciò deliberatamente a un dominio che poteva essere storico, Edson soffrì ferocemente nel fisico questo ipersfruttamento che dagli anni ’90 in poi sarebbe divenuto regola). Se abbiamo avuto Cristiano Ronaldo, come fenomeno mediatico oltre che calcistico, insomma, lo dobbiamo a Pelé. Fu però al contempo uno straordinario precursore dei tempi. Non il più forte della storia del calcio - gli argentini Maradona e Di Stefano, l’olandese Johan Cruyff, probabilmente gli erano superiori - ma è stato di sicuro il più moderno e innovatore. In un calcio che a stento conosceva moduli elementari e ancora all’età della pietra, lui curava il suo fisico maniacalmente riuscendo a portarlo a un’efficienza tecnica e atletica al limite della perfezione per potenza e agilità, era padrone di una conoscenza tattica e strategica fuori dal comune, sapeva giocare senza palla quando, probabilmente, questa specificità del gioco del calcio non era stata neanche teorizzata. Quel Brasile fortissimo non vinse solo grazie a Pelé, ma non avrebbe potuto dominare un’epoca senza di lui: Didì, Vavà, Garrincha e soci avevano in lui un direttore d’orchestra e primo violino, esecutore e rifinitore che ricorda la consapevolezza, l’atletismo e lo strapotere fisico, tecnico e tattico dei grandi campioni moderni (il più vicino, in questo senso, sembra il Messi del Barcellona di Guardiola, anche se per certi movimenti e exploit acrobatici e atletici è Ronaldo quello che lo ha “imitato” meglio).

Il titolo migliore e più esaustivo per la dipartita di Pelé lo ha coniato il New York Times che ai tempi dei Cosmos lo celebrò senza risparmiargli critiche (anche lì il brasiliano era avanti anni luce, nel capire come altri mercati ricchissimi potessero essere la pensione dorata e il dividendo di una carriera di alto profilo): “Pelé, the Global Face of Soccer, Dies”. Lo era, nel bene e nel male. La faccia globale - e globalizzata - del calcio.

Aveva 82 anni. È morto Pelé, addio a O Rei del calcio. Antonio Lamorte su Il Riformista il 29 Dicembre 2022.

Erano alcune settimane che le notizie sul suo stato di salute, in costante peggioramento si rincorrevano. Al netto di smentite, smussature, erano partite anche le organizzazioni per gli omaggi in un Paese che per il calcio vive, che del calcio è simbolo e patria. E così il Brasile oggi piange il suo Rei, O Rei do Futebol, Edson Arantes do Nascimiento in arte Pelé. Uno dei calciatori più forti di tutti i tempi, per molti il più forte, per i brasiliani soprattutto. Aveva 82 anni. Combatteva da tempo con un tumore al colon. La notizia del suo ricovero aveva fatto irruzione durante i Mondiali in Qatar il mese scorso e aveva tenuto con il fiato sospeso appassionati e tifosi.

Edson Arantes do Nascimiento era nato il 23 ottobre 1940 nel villaggio di Três Corações, nello stato meridionale del Minas Gerais. Quando aveva cinque anni la famiglia si trasferì a Bauru, una grande città nello Stato di San Paolo. Cominciò lì a giocare a calcio quello che sarebbe diventato noto in tutto il mondo come “La Perla Nera”. Esordì in campionato con il Santos il 7 settembre 1956. Passò diciassette anni con quella maglietta bianca: 643 gol in 656 presenze. Ha vestito la maglia di una sola altra squadra: New York Cosmos, dove si trasferì nel 1975, una star in trasferta negli Stati Uniti dopo un anno sabbatico lontano dai campi, come già facevano all’epoca i campioni a fine carriera. Circa 4,5 milioni di dollari per tre anni, vinse il campionato nel 1977 e fu nominato MVP nel 1976.

Con la maglia del Santos aveva vinto dieci campionati statali paulisti e sette nazionali, tra il 1962 e il 1963 vinse le prime due coppe Libertadores del calcio brasiliano e le prime due Intercontinentali battendo il Benfica di Eusebio e il Milan di Maldini. Era 19 novembre 1969 Pelé quando segnò il millesimo gol in carriera. La rete, chiamata familiarmente O Milésimo (Il Millesimo) fu stata realizzata contro il Vasco da Gama su calcio di rigore allo Stadio Maracanã.

A soli 16 anni debuttò con la maglia della Nazionale: contro l’Argentina, subito in gol. A 17 anni venne convocato per i Mondiali in Svezia e segnò il gol decisivo nei quarti di finale contro il Galles, tre alla Francia in semifinale e due alla Svezia nella finale di Stoccolma – uno dei due, con pallonetto e tiro a volo, uno dei più belli della storia del calcio. Divenne il più giovane a realizzare tre gol ai Mondiali. Quella del 1958 fu la prima Coppa del Mondo vinta dal Brasile e lui, a 17 anni e 249 il più giovane in assoluto a disputare una finale di Coppa del Mondo. Pelé ne vinse un’altra in Cile nel 1962 – anche se giocò soltanto due partite a causa di un infortunio – e un’altra nel 1970 in Messico: la squadra dei cinque numeri 10 che in finale travolse 4 a 1 la fortissima Italia di Riva, Facchetti, Mazzola e Rivera. Di nuovo, in finale, Pelé segnò un gol memorabile di testa in una sospensione pressoché interminabile. “Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo”, disse di lui il difensore Tarcisio Burgnich. Pelé con la Nazionale smise nel 1976: 92 partite, 77 reti.

Chiuse con il calcio giocato il primo ottobre 1977 con un’amichevole tra Santos e New York Cosmos in un Giant Stadium tutto esaurito e collegato con 38 Paesi in tutto il mondo. Alla fine della sua carriera è stato dirigente calcistico. Iconica la sua rovesciata nel film Fuga per la vittoria di John Houston al fianco di Sylvester Stallone. È stato anche ambasciatore delle Nazioni Unite per l’ecologia e l’ambiente, mentre dal 1995 al 1998 è stato ministro dello sport brasiliano sotto la presidenza Cardoso. La Fifa gli ha riconosciuto un record di 1281 gol in 1363 partite. Giocatore totale: attaccante dotato fisicamente, moderno, atleticamente incomparabile, imprendibile nel dribbling, impareggiabile nell’elevazione, fortissimo nello stacco di testa nonostante i soli 173 centimetri, unico nel tocco di palla, mai vista prima tanta velocità palla al piede.

Gli è stato riconosciuto con l’argentino Diego Armando Maradona il premio della FIFA come Giocatore del Secolo. Si è aggiudicato lo stesso titolo per il Comitato Olimpico Internazionale e per l’International Federation of Football History & Statistics (Iffhs), Pallone d’oro Fifa come miglior giocatore del secolo scorso, e anche Pallone d’oro Fifa onorario, alla carriera. L’ospedale israelita Albert Einstein di Rio de Janeiro dove era ricoverato da un mese ha diramato un sintetico bollettino medico in cui conferma “con rammarico la morte oggi di Edson Arantes do Nascimento, Pelé” per “il cedimento di più organi, conseguente alla progressione del cancro al colon associato alla sua condizione medica precedente”.

Sulla pagina Instagram del calciatore è comparso il messaggio: “L’ispirazione e l’amore hanno contraddistinto la giornata del Rei Pelé, che è morto in pace oggi. Edson ha incantato tutti con la sua genialità nello sport, ha fermato una guerra, ha fatto opere sociali nel mondo intero e ha spalleggiato ciò che più di ogni altra cosa accreditava come la cura per tutti i nostri problemi: l’amore. Il suo messaggio in vita si trasforma nel lascito per le future generazioni. Amore, amore e amore, per sempre”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Chi è la moglie di Pelè, i tre matrimoni e i 7 figli: “Non sono stato un buon padre, ho lavorato troppo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

Edson Arantes do Nascimento, o meglio conosciuto come Pelè amava il calcio, ma anche le donne. E non ne ha mai fatto mistero. Il campione del calcio brasiliano ha dichiarato di aver amato diverse donne e di avere anche avuto figli di cui è venuto a conoscenza solo dopo. Lo aveva raccontato anche in occasione della presentazione del documentario su Netflix sulla sua vita: “in tutta onestà ho avuto molte relazioni, alcune delle quali hanno avuto come conseguenza dei bambini. Ho saputo della loro esistenza soltanto molto tempo dopo”, aveva detto.

La prima moglie di Pelè è stata Rosemeri dos Reis Cholbi. La conobbe quando lei aveva 14 anni e la corteggiò per quasi 8 anni prima di convolare a nozze il 21 febbraio 1966. Dal loro matrimonio sono nati tre figli Kelly, Edinho, Jennifer, i due divorziano nel 1982. Successivamente Pelè si sposa con Maria da Graça Meneghel conosciuta come Maria da Graca Xuxa, una conduttrice televisiva, attrice e cantante. L’amore durò per 5 anni, di tradimenti e colpi di scena, tanto che lei arrivò a dire che “lui diceva che era una relazione aperta, ma era aperta solo per lui”.

Nel 1994 Pelè all’età di 50 anni si sposa in terze nozze con Assiria Seixas Lemos, psicologa e cantante gospel più giovane di 16 anni. Dalla loro unione sono nate due gemelli nel 1996, Joshua e Celeste. Hanno divorziato nel 2008. Successivamente conobbe la donna d’affari brasiliana Marcia Cibele Aoki, una 41enne imprenditrice di attrezzature mediche conosciuta a New York. Nel 2016, dopo sei anni di fidanzamento, la coppia si è sposata. La donna gli è rimasta accanto fino al suo ultimo sospiro.

Tra i figli illegittimi c’è Sandra Machado, figlia che lui rinunciò a riconoscere e che denunciò per il diritto di usare il suo cognome. In seguito lei scrisse un libro dal titolo “La figlia che il re non voleva”. Pelè disse che questo libero lo imbarazzò molto. Sandra morì di cancro nel 2006 senza mai aver conosciuto di persona suo padre e nemmeno essere stata riconosciuta, nonostante la sentenza del tribunale che ne riconosceva la paternità. Poi c’è Flávia Christina Kurtz Nascimento nata da una storia con la giornalista Lenita Kurtz.

Secondo quanto riporta il New York Times, il figlio Edinho, dopo una breve carriera da portiere professionista durata 5 anni, stroncata da un infortunio, è stato in prigione dopo una condanna per traffico di droga. Quella di Pelè è stata una vita sentimentale e familiare rocambolesca. Parlando del suo ruolo di padre ha ammesso: “non sono stato un buon padre, forse perché lavoravo troppo non mi sono mai reso conto di quello che succedeva vicino a me”. Alla sua morte i figli e l’ultima moglie si sono riuniti al suo capezzale per l’ultimo abbraccio.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La battaglia contro il tumore al colon. Com’è morto Pelè, il tumore e la malattia: l’avversario che non è riuscito a vincere. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Dicembre 2022

“Tutto ciò che siamo, è grazie a te. Ti amiamo infinitamente. Riposa in pace”. Così, aggiungendo l’emoticon di due cuori e una foto delle sue mani ‘intrecciate’ con quelle di sorelle e nipoti, la figlia di Pelé, Kely Nascimento ha annunciato su Instagram la morte del padre. Il calciatore si è spento a 82 anni, a lungo aveva lottato contro un terribile male. La partita più importante della sua vita probabilmente, che lui ha affrontato con il coraggio e la determinazione che solo un campione può avere.

O Rei era ricoverato nell’ospedale Albert Einstein di San Paolo dallo scorso 29 novembre, per un ciclo di cure dopo essere stato operato nel settembre del 2021 per un tumore al colon. Aveva contratto anche il Covid. Lascia la moglie Nomi Aoki e sette figli. Le sue condizioni sono peggiorate drasticamente quando al campione brasiliano è stata diagnosticata una “disfunzione renale e cardiaca”. Pelé era stato operato un anno fa per un cancro al colon. Nei giorni scorsi, il quotidiano Folha di San Paolo aveva scritto che la leggenda del calcio non rispondeva alla chemioterapia. Tutto il mondo del calcio è in lutto.

Pelè da tempo combatteva contro un cancro all’intestino che si è allargato a polmoni e fegato. La notizia dell’aggravamento delle sue condizioni è avvenuta mentre erano in pieno svolgimento i Mondiali di Calcio in Qatar. Secondo quanto aveva scritto il quotidiano Folha de Sao Paulo Pelé era stato trasferito nel reparto delle cure palliative perché non rispondeva più alla chemioterapia. Il bollettino medico comunicava che all’ex calciatore era stata diagnosticata un’infezione respiratoria, “che è stata trattata con antibiotici. La risposta è stata adeguata e il paziente, che rimane in una stanza comune, è stabile, con un miglioramento generale delle sue condizioni di salute. L’ex giocatore continuerà ricoverato nei prossimi giorni per continuare il trattamento”.

La famiglia però aveva smentito. Le figlie Kely e Flavia, prima della nota dell’ospedale, avevano già annunciato che era “necessario” che Pelé trascorresse il Natale in ospedale per ricevere adeguate cure mediche: “Il nostro Natale a casa è fallito. Abbiamo deciso con i dottori che, per vari motivi, è meglio restare qui, con tutte le cure dalla nostra nuova famiglia, l’Albert Einstein Hospital”. Secondo l’aggiornamento dell’ospedale le condizioni si sono aggravate a causa della “progressione della malattia oncologica” e della “necessità di maggiori cure per le disfunzioni renali e cardiache”.

“Ricoverato dal 29 novembre per una rivalutazione della terapia chemioterapica per un tumore al colon e la cura di un’infezione respiratoria, pseudonimo Edson Arantes do Nascimento, presenta una progressione della malattia oncologica e necessita di maggiori cure legate alle disfunzioni renali e cardiache. Il paziente rimane ricoverato sotto le necessarie cure dell’équipe medica” si legge. Poi il triste annuncio della sua morte il 29 dicembre 2022.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da Messi a Ronaldo, da Biden a Putin: Pelé unisce tutti. Polemiche per i tweet dall’Argentina.  Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2022.

Lunedì la veglia funebre nello stadio del Santos, martedì il corteo per la città e il funerale in forma privata. Tutto il calcio italiano osserverà un minuto di silenzio

Lo avrebbe celebrato a dovere anche Diego Armando Maradona, se fosse stato ancora tra noi. Tra geni, d’altronde, una volta messe da parte le vecchie ruggini, non si può che andare d’accordo: si parla la stessa lingua, quella che in pochi altri riescono anche solo a comprendere. La morte di Pelé ha scosso tutto il mondo, ma soprattutto il Brasile, dove ha suscitato «un’emozione profonda», per usare le parole del presidente uscente Bolsonaro che ha decretato tre giorni di lutto nazionale (a Rio il Cristo Redentore è stato illuminato con i colori della bandiera verdeoro. Poi, lunedì la veglia funebre nello stadio Urbano Caldeira del Santos nei pressi di San Paolo, «lì dove Pelé ha incantato il mondo» (hanno scritto dal club) che precederà i funerali in programma martedì, quando il feretro sarà portato in corteo per le vie della città, prima della cerimonia religiosa celebrata in forma privata e la sepoltura. Tutto il calcio italiano (dalla serie A in giù, finanche alle amichevoli) osserverà un minuto di silenzio in sua memoria prima delle partite che si disputeranno fino al 4 gennaio.

E se in tanti continuano a interrogarsi se sia stato più forte Pelé o Maradona (il compianto Mario Sconcerti non ha dubbi sul fatto che esista un prima e un dopo Pelé), da ogni latitudine sono arrivati messaggi di cordoglio. Hanno scritto i compagni, avversari e campioni di ieri e oggi (Bonimba Boninsegna l’ha ricordato in un’intervista al Corriere), da José Altafini (che ha esordito con lui in Nazionale) a Gianni Rivera, fino a Messi (con cui Pelé si era congratulato per la vittoria del Mondiale), Mbappé (suo pupillo), Cristiano Ronaldo e Ronaldo il Fenomeno (che, in un bel ricordo sulle pagine della Gazzetta dello Sport, ha detto che «il vero Fenomeno era Pelé»).

IL RICORDO

Sconcerti racconta Pelé: patrimonio del calcio e dell’umanità, è lui il migliore di sempre

Ma anche i potenti del mondo hanno scritto all’unisono. Hanno scritto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden («Per uno sport che unisce il mondo come nessun altro, l’ascesa di Pelé da umili origini a leggenda del calcio è una storia di ciò che è possibile»), ma anche l’omologo russo Vladimir Putin («Grazie al suo talento, abilità uniche, gioco bello e affascinante, il calcio è diventato lo sport preferito da milioni di persone in tutto il mondo, Russia inclusa. Ho avuto la fortuna di comunicare personalmente con questa persona meravigliosa e conserverò per sempre i ricordi più luminosi di lui»).

E addirittura la Nasa gli ha reso omaggio diffondendo su tutti i propri account social l’immagine di una galassia a spirale (che si trova nella costellazione dello Scultore) che mostra i colori del Brasile.

E poi ci sono gli argentini di Cronica Tv che — in maniera decisamente poco elegante, ma coerente con il solito stile «trash» — hanno scritto: «Adios Pelé, è morto il terzo miglior giocatore della storia». E le polemiche sono arrivate anche per il tweet con cui la federcalcio argentina ha espresso il proprio cordoglio per la scomparsa di Pelé. «Profondo dolore — si legge nel messaggio —.

La Afa, attraverso il suo Presidente Claudio Tapia piange la scomparsa del leggendario calciatore brasiliano Pelé, uno dei migliori giocatori della storia, e invia il suo più sentito abbraccio ai suoi familiari e a tutto il Brasile». A provocare polemiche la definizione «uno dei migliori» e non il migliore della storia, da parte della Federazione di Maradona, Di Stefano e Messi. Perché nessuno riuscirà mai a rispondere alla fatidica domanda che già si facevano a Napoli: «Ma Maradona è meglio ‘e Pelé?».

Carlo Baroni per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2022.

La prima volta che lo incrociò, Pelé era già O Rei, lui non ancora Bonimba. Tre anni dopo i loro due nomi lampeggiavano sul tabellone della finale della Coppa Rimet. Pelé e Boninsegna mai insieme eppure sempre dalla stessa parte: quella del bel calcio, del gol da farci una cornice intorno. 

La prima volta al Martelli di Mantova. Era una sera di giugno del '67. In quello stadio si era appena consumata la fine della Grande Inter. La papera di Giuliano Sarti, lo scudetto alla Juve. «Se il Mantova ha battuto i nerazzurri, è una squadra da temere» disse Pelé ai giornalisti. Finì 2-1 per il Santos e il fuoriclasse brasiliano segnò il primo gol. Le cronache dell'epoca raccontano che «Carburo» Negri, il portiere prestato ai lombardi dal Bologna per l'occasione, «neppure vide il pallone». Quel Santos giocava 120 partite all'anno, due a settimana. 

«Questo ritmo non logora i calciatori, anzi li irrobustisce» spiegava il loro medico Ermindo D'Alò, brasiliano di origine calabrese. Di sicuro rimpinguava le casse del club paulista. Un Pelé da portare in giro garantiva il tutto esaurito sempre. Come Buffalo Bill nei circhi un secolo prima. Ma il fuoriclasse non era solo marketing trent' anni prima. Anche per un'amichevole ci metteva faccia e gambe. «Non giocai quella partita (all'epoca militava nel Cagliari ndr ) - ricorda Boninsegna - ma ero allo stadio». Il match con il Santos era legato anche al fatto che il Mantova era chiamato «il piccolo Brasile». Quindi in fondo era quasi un derby. E i giornali diedero un buono spazio a quell'evento che portava il più grande calciatore da noi. 

Sempre in una sera (italiana) di giugno Boninsegna indossò maglietta e scarpini e sfidò una squadra che non sapeva buttare la palla in tribuna. Era il 1970. La finale dei Mondiali. L'Italia ci arrivava dopo 32 anni.

«Avevano cinque trequartisti - prosegue Bonimba -. Dal numero 7 all'11 c'era un concentrato di classe, eleganza e tecnica calcistica. Jairzinho, Gerson, Tostao, Pelé e Rivelino. Noi ne avevamo tre (Mazzola, De Sisti e Rivera) ma uno lo lasciammo in panchina Quando Pelé seppe che Rivera non giocava, si preoccupò. Se questi non mettono in campo il Pallone d'oro, disse, sono davvero forti».

 Com' era O Rei visto da vicino?

«Lui dettava i tempi, accendeva la luce, proponeva e concludeva. In una squadra dove tutti facevano tutto e bene. Eppure fino al 70' restammo in partita. E Domenghini arrivò lì lì a portarci avanti. Poi la stanchezza venne fuori. La semifinale incredibile con la Germania si fece sentire. Insieme con la confusione in panchina. In porta giocava Albertosi, che fece il suo, niente da dire ma in panchina finì Zoff per tutto il Mondiale. Lui che era il titolare della squadra campione d'Europa, giusto per precisare. Mi resta il rammarico di non aver visto il duello Rivera-Pelé. Certo fossi stato io nei panni di Gianni, non sarei entrato per giocare solo sei minuti. Un'umiliazione. Rivera era troppo cortese».

Viene da pensare a cosa sarebbe stato avere un Pelé dalla stessa parte.

«Con lui a regalarmi assist, qualche gol in più l'avrei segnato. Ma non posso lamentarmi: da Mazzola a Bettega ho sempre trovato chi esaltava le mie qualità. Certo con un Pelé...». 

Forse il più grande di sempre.

«Ognuno è il più grande del suo tempo. I paragoni tra epoche lasciano il tempo che trovano». 

Negli occhi del grande bomber dell'Inter c'è ancora il balzo incredibile di Edson Arantes do Nascimento che non aveva bisogno di appoggiarsi sulle spalle rocciose di Burgnich. E l'aria rarefatta di Città del Messico era solo ossigeno di un'infinita fuga per la vittoria.

(ANSA il 30 dicembre 2022) - Cosa lascia Pelé ai suoi eredi, la terza moglie Marcia Aoki, 56enne imprenditrice, e i sette figli (cinque donne e due uomini, Edinho e Joshua) avuti da donne diverse? In Brasile e non solo qualcuno sta già facendo i conti, e il sito specializzato ''Celebrity Net Worth' ha stimato in più di cento milioni di dollari il patrimonio netto dell'unico calciatore ad aver vinto tre Mondiali. In particolare Pelé amava investire in immobile, attività in cui era anche abile come dimostra il fatto che nel 2008 riuscì a vendere per tre milioni una mega-villa che aveva a Hamptons, all'estremità orientale di Long Island, e che a suo tempo aveva acquistato per centomila dollari. 

Pur guadagnando cifre notevoli quando giocava, erano altri tempi e i calciatori di spicco non percepivano le cifre multimilionarie di oggi. E infatti Pelé, pur non lamentandosi mai di ciò che aveva percepito grazie al 'futebol', diceva spesso di aver guadagnato di più con la pubblicità e partecipando a eventi che con lo sport agonistico.

Aveva comunque sempre rifiutato di prestarsi a propagandare "tabacco, alcolici e cose legate a temi di natura politica o religiosa".

Curiosamente O Rei dal 2014, quando aveva 74 anni,percepiva in Brasile un sussidio pari a circa 550 euro al mese. "In più - aveva raccontato in un'intervista - per via della mia età potrei viaggiare gratis sui mezzi pubblici e pagare metà prezzo al cinema". Unica condizione per beneficiare di queste agevolazioni, il dimostrare agli enti preposti di essere ancora in vita, regola che in Brasile vale per qualsiasi 'pensionato'.

Pelé, la sua eredità è di 93 milioni di euro: ecco a chi andrà. Storia di Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 30 dicembre 2022.

Sono in tanti a chiedersi cosa lascia Pelé ai propri eredi, alla terza moglie Marcia Aoki, 56enne imprenditrice, e ai sei figli (quattro donne e due uomini, Edinho e Joshua) avuti da donne diverse. In Brasile qualcuno sta già facendo i conti e il sito specializzato «Celebrity Net Worth» ha stimato in più di 100 milioni di dollari (93,39 milioni di euro) il patrimonio netto dell’unico calciatore ad aver vinto tre Mondiali (Svezia ’58, Cile ’62 e Messico ’70).

Pelé, ecco il cimitero dove sarà sepolto: 14mila cripte, una cascata, un museo d’auto. E con 14 piani è il più alto del mondo

O Rei amava molto investire in campo immobiliare: nel 2008 riuscì a vendere per tre milioni di dollari (2,8 milioni di euro) una mega villa che aveva acquistato negli Hamptons, all’estremità orientale di Long Island, per 156mila dollari (poco più di 145mila euro). Ai tempi di Pelé i calciatori di certo non guadagnavano le cifre di oggi. Tanto che O Rei non ha mai nascosto di aver guadagnato di più con la pubblicità o grazie alla partecipazione ad eventi sportivi e non. «Non sono diventato ricco con il calcio come capita adesso, i soldi li ho fatti con le pubblicità. Ma non ho mai prestato il mio volto per alcol, religione, politica e tabacco».

Eppure incontrò delle difficoltà dopo il primo ritiro, al termine della sua esperienza nel Santos. Nel 1974 a quanto pare, la stella brasiliana pagò dazio per una serie di investimenti imprenditoriali sbagliati. Infatti, le banche gli sequestrarono 41 proprietà, a seguito del fallimento di sei società. Inevitabile a quel punto il pensare a un ritorno in campo con i New York Cosmos che avevano preparato per lui un contratto faraonico, dando definitivamente l’addio al calcio nel 1977. Nonostante gli otto mesi di stop, Pelé all’età di 34 anni brillò anche nella Grande Mela, con 15 gol e 19 assist in 24 partite. Un rendimento che gli permise di far crescere la propria popolarità negli States. E da quel momento le cose per Pelé andarono molto meglio dal punto di vista finanziario e la sua principale fonte di guadagno fu il suo status di icona.

Pelé e l’Italia, dal contratto saltato con l’Inter alla finale mondiale del 1970 e alle sfide col Milan di Trapattoni e la Juventus di Sivori

È infatti stato uno dei primi sportivi a valorizzare al massimo la propria immagine, sbarcando anche a Hollywood con il film «Fuga per la vittoria». Così il suo patrimonio, appunto, sarebbe arrivato adesso a quota 100 milioni di dollari. Ma cosa accadrà ora alla sua eredità? La famiglia di O Rei è composta dalla terza moglie Marcia Aoki, sposata nel 2016, e dai sei figli. E queste 7 persone dovrebbero essere i suoi principali eredi. Negli ultimi anni Pelè sarebbe poi diventato più avveduto. Dal 2014, in Brasile, l’asso carioca ha ricevuto la pensione. Non molto, ma tanto bastava per arrotondare: 552 euro al mese. «Al cinema pago la metà e non pago i mezzi pubblici. Dopo il Mondiale del 2014 sono diventato un pensionato a tutti gli effetti», dichiarò O Rei alla rivista brasiliana «Veja». Segno che voleva mantenere il suo patrimonio intatto. Anche se, come sempre, si prevedono polemiche per come sarà ripartito.

Pelé, ecco il cimitero dove sarà sepolto: 14mila cripte, una cascata, un museo d’auto. E con 14 piani è il più alto del mondo. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2022.

Il 3 gennaio sarà seppellito all’interno dell’edificio che si trova nei pressi dello stadio del Santos ed è conosciuto in tutto il mondo per essere nel guinness dei primati

Sepolto vicino a dove ha giocato

Si terrà lunedì 2 gennaio la veglia funebre per Pelé, scomparso il 29 dicembre all’età di 82 anni. Lo ha annunciato il suo ex club, il Santos, aggiungendo che i funerali avranno luogo il giorno dopo, martedì 3 gennaio. Per la veglia sarà aperto lo stadio Urbano Caldeira, meglio conosciuto come Vila Belmiro, il tempio del Santos, «lì dove Pelé ha incantato il mondo», come annunciato dal club. Il feretro di Pelé sarà poi portato in un corteo funebre per le vie della città, prima che venga celebrata una cerimonia religiosa in forma privata.

Il cimitero più alto del mondo

Pelé verrà sepolto in un cimitero verticale, il più alto del mondo con i suoi 108 metri, nel municipio di Santos. Il campione brasiliano acquistò anni fa una serie di loculi per sé e la famiglia nel «Memoriale della Necropoli Ecumenica». Il cimitero è affacciato sull’Estadio Urbano Caldeira, teatro delle geste del fuoriclasse brasiliano. O Rei ha acquistato il loculo al nono piano della struttura: ha scelto il nono piano del memoriale in onore di suo padre, che da giocatore indossava la maglia numero nove del Santos. Il cimitero verticale, situato nel quartiere di Marapé, è stato inserito nel Guinness dei primati dal 1991 come il più alto del mondo, e custodisce le spoglie dei parenti e degli amici di Pelé. L’acquisto di un intero piano per la famiglia è avvenuto il 7 luglio 2003, quando Pelé aveva 62 anni.

I familiari e gli amici sepolti

Nel cimitero sono già sepolti il fratello di Pelé, Jair Arantes do Nascimento, detto Zoca, morto nel 2020; sua figlia, Sandra Arantes do Nascimento, morta nel 2006; così come Antonio Wilson Honorio, detto Coutinho, compagno d’attacco del mitico Santos morto nel 2019.

Ben 14mila cripte

Come detto è il cimitero verticale più alto del mondo con 14 piani. In questa struttura imponente ci sono 14mila cripte. Oltre che le stanze per le varie funzioni, ci sono anche un crematorio e un mausoleo.

La cascata

Il cimitero nel quale sarà appunto sepolto Pelé ha anche un giardino tropicale. E qui c’è addirittura una cascata. Inoltre, sul tetto della struttura c’è una piccola caffetteria. Insomma, non si fa mancare nulla.

Il museo dell’automobile

E non è finita qui. Il «Memoriale della Necropoli Ecumenica» ha addirittura un museo di auto d’epoca al suo interno. Fu costruito nel 1983 dall’eccentrico architetto Pepe Altstut e nel corso del tempo è persino diventata un’attrazione turistica.

Da eurosport.it il 30 dicembre 2022.Come fa un gol non registrato dalle telecamere a risultare il più bello mai siglato da Pelé, uno che in carriera di reti ne ha realizzati 1281 in 1363 partite (si dice)? Forse proprio per questo...

 Sì, perché chi era presente allo stadio quel 2 agosto del 1959 ha tramandato la storia di un gol da leggenda, un'impresa che di generazione in generazione e grazie alla sola tradizione orale ha assunto i caratteri del mito vero. Siamo allo stadio Rua Javari di San Paolo, campionato Paulista, con il Santos di Pelé che affronta il Clube Atletico Juventus: il Santos è già avanti per 3-0 (la partita terminerà sul 4-2), ma il meglio deve ancora venire. Edson Arantes do Nascimento riceve palla al limite dell'area, dribbla un primo avversario con un tocco morbidissimo e poi comincia il suo show: 1, 2, 3 sombreri uno in fila all'altro, l'ultimo addirittura al portiere, prima di depositare in rete di testa.

Un gol mai visto, che mai avremmo potuto vedere se non fosse stato ricostruito al computer grazie a un'animazione: niente che si avvicini minimamente alla realtà, naturalmente ma qualcosa che certamente rende l'idea. L'idea di qualcosa di grande, di eterno, che tale rimane grazie al busto e alla targa eretti all'esterno dello stadio in questione nell'agosto del 2006.

Una prodezza che nessuno, a parte i presenti, ha mai visto: forse per questo è il gol più bello di sempre.

Addio Pelé, O Rei che ha riscritto la storia del calcio. Massimiliano Carrà su La Repubblica il 30 Dicembre 2022.

Classe. Genio. Intuizione. Con queste caratteristiche ha portato la luce nei campi da gioco. Ed è diventato il più amato di tutti

Il calcio piange il suo Re. Edson Arantes do Nascimento, meglio noto a tutto il mondo con il suo soprannome, Pelè, si è spento all’età di 82 anni, dopo l’ennesimo ricovero all’ospedale Albert Einstein di San Paolo, dove a settembre 2021 è iniziata la partita più difficile della sua vita: quella contro il tumore al colon. Una sfida che O Rey ha giocato e combattuto con il suo tradizionale sorriso e con la sua immensa classe. Quelle stesse qualità che, sommate al genio e all’intuizione - caratteristiche principali di ogni artista - gli hanno permesso di portare la luce nei campi da gioco e di riscrivere la storia di questo sport. Replicando così, con la fisica dei suoi dribbling, le gesta di colui che ha ispirato il suo nome: Thomas Edison.

E anche se un errore all’anagrafe gli cancellò una “i” dal nome, Edson dimostrò fin da subito di essere un predestinato e un campione, vincendo con classe anche una delle sfide più difficili per ogni bambino: quella della derisione. Il soprannome Pelè, infatti, per il quale passerà alla storia, arrivò perché il giovanissimo Edson non riusciva a pronunciare il nome del portiere Bilé, che giocava nella sua città natale, chiamandolo erroneamente Pelé.

Una storpiatura che i compagni di O Rey sfruttarono immediatamente per schernirlo, ma che successivamente si rivelerà il soprannome di quello che a più riprese, insieme a Diego Armando Maradona, sarà il più grande giocatore di tutti i tempi.

E se il suo record di reti segnate, 1281 secondo la FIFA, è ancora oggi contestato, nessuno potrà mai mettere in discussione i 77 gol segnati con la maglia del Brasile (un record che resiste ancora oggi), la vittoria di due mondiali per club, con la maglia del Santos, e di tre coppe del mondo.

Gabriele Isman per repubblica.it il 30 dicembre 2022.

 “Io Pelé l’ho visto giocare. Era il giugno del 1960: la prima volta del suo Santos all’Olimpico. Era già O Rei”. Antonello Venditti si gode l’ennesima sigaretta seduto a un bar di Porta Portese, in un giorno di pausa dal tour con De Gregori. “Ero già innamorato della Roma, e cercavo di contagiare mio padre che mi portava allo stadio soprattutto d’estate. Pelé non era più una figura in bianco e nero sul televisore condominiale di via Zara 13. Vivevamo in un quartiere agiato e qualcuno, non noi, aveva l'apparecchio. Dopo l’immancabile partita con gli amici nel cortile, arrivavano quelle dei Mondiali: nel 1958 lui divenne O Rei. E lo restò sempre” 

Cosa ricorda di quella partita? Era il primo giugno del 1960. All’Olimpico Pelé tornerà altre cinque volte, l’ultima nel 1975 con la maglia del Cosmos.

“Ne ho viste parecchie di quelle partite. Mio zio Adalberto Sicardi era tra i soci fondatori della Roma e nel mio palazzo di via Zara abitava Egidio Guarnacci, che nel 1958 era capitano della squadra. Lui andava allo stadio con la sacca, io in autobus, e sedevo in Curva Nord perché dal quartiere Trieste dove vivevo era più vicino. Ma quel Roma-Santos la ricordo bene. Vinsero loro per 3-2. Io e mio padre Vincenzo quel giorno eravamo in tribuna Montemario. Avevo ancora negli occhi le magie del 1958 in Svezia, lui aveva battuto il calcio di Liedholm e Gren in coppia con Garrincha, un altro mio mito, e con la sua ginga, quel particolare modo di giocare che secondo i brasiliani era perdente ma che invece è stata una rivoluzione nel calcio. L’Europa era la potenza del pallone, il suo Brasile l’aveva sbancata”.

La citazione dalla sua Giulio Cesare è inevitabile: “Era l’anno dei Mondiali, quelli del Sessantasei/ La regina d’Inghilterra era Pelè”.

“Ho immaginato che fosse il re d’Inghilterra, era l’unico vero monarca, una nobiltà di fondo, la monarchia delle favelas. Invece quell’anno non vinse perché si impose un atleta africano, Eusebio, che portò il Portogallo alle semifinali in quel Mondiale vinto dall'Inghilterra padrona di casa. Eusebio poi l’ho conosciuto a Roma: ritirava un premio e ci trovammo a pranzo assieme. Ricordavo un giocatore longilineo, veloce, invece aveva problemi alle anche ed era più basso di me”. (...)

Pelé è morto: i gol più belli del più grande attaccante della storia del calcio. Francesco Carci su La Repubblica il 29 Dicembre 2022.

O Rei ha segnato 1.281 reti, ma la sua preferita resta quella segnata con la maglia del Santos contro il Clube Atletico Juventus

Statistiche Fifa alla mano, Edson Arantes do Nascimento, semplicemente Pelé, morto il 29 dicembre a 82 anni, ha realizzato 1.281 gol in carriera in 1.363 partite, mentre le reti in gare ufficiali sono 757 in 816 incontri con una media pari a 0,93 gol a partita. Dunque oltre 500 sono stati siglati in amichevoli con il Santos e i New York Cosmos. Numeri comunque impressionanti per O Rei, semplicemente il Re del calcio.

Pelé, l'exploit a Svezia 1958

L'exploit di Pelé avvenne nel Mondiale 1958 in Svezia. Non ancora maggiorenne, O Rei realizzò il primo gol iridato nei quarti di finale, decidendo la sfida contro il Galles per 1-0. A 17 anni e 239 giorni fu il più giovane realizzatore in una rassegna continentale. Non contento, siglò una tripletta nel 5-2 alla Francia in semifinale e trascinò la Seleçao, nella finalissima contro i padroni di casa svedesi vinta con lo stesso punteggio, alla conquista del primo Mondiale con un'indimenticabile doppietta. In particolare, la rete del 3-1 fu un'autentica perla: assist dalla sinistra di Nilton Santos per Pelé che, dopo lo stop di petto e il pallonetto a un difensore avversario, superò di collo esterno destro il portiere Svensson. La Fifa collocò questa prodezza al terzo posto nella classifica dei gol più belli di sempre al Mondiale (dietro a Maradona in Argentina-Inghilterra dell'86 e Owen in Inghilterra-Argentina del '98), mentre nel 2020, dopo un sondaggio di O Globo, è stato scelto come il miglior gol di tutta la storia della nazionale brasiliana. A tempo scaduto arrivò il pokerissimo con una precisa palombella di testa all'angolino su assist di Zagallo.

Pelé e il colpo di testa all'Italia

Il Brasile bissò il successo iridato quattro anni dopo in Cile ma Pelè, dopo un gran gol all'esordio contro il Messico segnato superando quattro avversari, non poté lasciare ulteriormente il segno a causa di un infortunio nel secondo match contro la Cecoslovacchia che gli fece saltare tutto il resto della competizione. Si rifece ampiamente al Mondiale 1970 in Messico: rimasto a digiuno sia nei quarti che in semifinale rispettivamente contro Perù e Uruguay, aprì invece le marcature nella finalissima contro l'Italia del 21 giugno con un'altra rete che rimarrà per sempre negli almanacchi grazie all'imperiosa elevazione di testa vincente su cross di Rivelino: i malcapitati Burgnich e Albertosi non poterono far altro che inchinarsi alla Perla Nera. In tempi recenti il gol di testa di Cristiano Ronaldo in Sampdoria-Juventus del 2019 ha ricordato la stessa elevazione di Pelé allo stadio Azteca di Città del Messico.

Pelé e le due Coppe intercontinentali del 1962-63

Nella sua ventennale esperienza al Santos, condita da 643 gol, Pelé trascinò il club paulista alla vittoria di due Libertadores e due Coppe Intercontinentali (c'era ancora la finale andata e ritorno contro la vincitrice dell'allora Coppa dei Campioni europea), entrambe nel biennio 1962-63. O Rei, manco a dirlo, fu grande protagonista. Nel 1962 segnò una doppietta sia nella sconfitta per 4-2 a San Siro contro il Milan che nel successo al ritorno, sempre per 4-2, in terra brasiliana (il Santos vinse poi lo spareggio per 1-0 grazie a Gaspar). L'anno successivo, contro il Benfica, la leggenda verdeoro siglò una doppietta nel 3-2 all'andata e addirittura una tripletta nel 5-2 del Santos in casa dei lusitani. 

Pelé, gol numero mille su rigore

Considerando anche le amichevoli, Pelé ha dunque abbattuto la soglia delle mille reti in carriera. Curiosità vuole che il gol numero 1.000, il cosiddetta O Milésimo, sia arrivato il 19 novembre 1969 allo stadio Maracanà contro il Vasco da Gama su calcio di rigore. Niente da fare per il portiere avversario Edgargo Andrada che riuscì soltanto a sfiorare il pallone.

La rete più bella di Pelé

Ma chi se non lo stesso Pelé poteva decretare il suo gol più bello tra i 1.281 realizzati? Nonostante l'importanza di quelli messi a segno nei quattro Mondiali disputati dal '58 al '70, O Rei scelse una rete siglata nel 1959 con la maglia rigorosamente del Santos nel campionato paulista contro il Clube Atletico Juventus: mise a referto addirittura tre sombreri, il terzo al portiere avversario, prima di depositare di testa il pallone in rete.

L'ultima partita di Pelé

Impossibile poi non citare il "gol de targa" realizzato in Fluminense-Santos 1-3 del 1969: Pelé saltò come birilli mezza squadra avversaria e siglò il gol che fu premiato come il più bello mai segnato allo stadio Maracanà di Rio de Janeiro. Il lungo elenco termina l'1 ottobre 1977, giorno dell'addio al calcio della Perla Nera. Per l'occasione, fu organizzata un'amichevole tra il Santos e i New York Cosmos (dove Pelé giocò a fine carriera) in cui O Rei scese in campo, un tempo a testa, con entrambe le maglie realizzando su punizione, con la casacca della squadra statunitense, la sua ultima rete.

Buona la prima. Pelé e quella rovesciata contro i nazisti in "Fuga per la vittoria". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 30 Dicembre 2022.

Il re del calcio scomparso ieri a 82 anni fu protagonista nel 1981 nel film di John Huston

Una rovesciata in faccia ai nazisti. Il cross che arriva da Bobby Moore, capitano dell'Inghilterra mondiale del 1966, il pallone che va verso l'area seguito dalle telecamere di John Huston. E poi lo scarpino nero di Pelé che punta al cielo, colpisce la palla in modo perfetto. Gol, buona la prima, altri ciak non servono. Il re del calcio scomparso ieri ha avuto anche una carriera cinematografica e Fuga per la vittoria (1981, con Michael Caine e Sylvester Stallone) gli ha regalato un fotogramma che già risiede nella storia del cinema. "Avevo fame di gol anche sul set", dichiarò in un'intervista di qualche anno dopo.

"Gli dica di darmi il pallone qui", le poche indicazioni che Pelé aveva dato al regista. Neanche Houston ci credeva, aveva infatti predisposto il set per poter girare più scene. Non fu necessario. Anche lui, il genio di Giungla d'asfalto, corse incontro all'Eternità a braccia alzate, esultando come un ultras. E quel gol impresso su pellicola sublima tutti gli altri della carriera di O Rey: un gol di rivalsa, di liberazione. Il calcio - anche al cinema - come grande gioco dell'emancipazione.

Estratto dell'articolo di Maurizio Crosetti per “la Repubblica” il 30 dicembre 2022.

«C'è stato Pelé, e poi tutti gli altri. Lo guardavo giocare, lì, sullo stesso campo e non credevo ai miei occhi. Era a due metri, ma era sulla Luna. Oggi se ne va una parte di me». 

Sandro Mazzola incrociò Pelé per la prima volta in una finale mondiale, che allora si chiamava Coppa Rimet. Non proprio un'occasione qualunque. Messico '70, stadio Azteca: Pelé, e tutto il mondo intorno. 

Qual è il suo primo ricordo di quel giorno?

«Entrammo in campo per il riscaldamento e guardavamo soltanto lui, come si muoveva, cosa faceva. Gli osservai le scarpe, cercando di carpire chissà quale segreto, se avesse i tacchetti di gomma o di cuoio, come potesse accarezzare il pallone in quel modo. Inseguivo la risposta a un segreto che risposte non ha: si chiama arte». 

Voi due vi parlaste?

«A un certo punto, nel riscaldamento si avvicinò e mi disse: "So chi era tuo padre e tu sei degno di lui". Mi mancò il respiro, quella frase mi paralizzò. Dopo, non ricordo nemmeno come la giocai quella finalissima». 

Italia contro Brasile. Un sogno, o forse no.

«Avevamo tutti contro, la Nazionale era spaccata come solo noi italiani possiamo fare.

Sembrava che essere arrivati fin lì desse fastidio ai dirigenti: avevano già prenotato l'aereo per tornare a casa dopo il primo turno. Ma quella finale, sì, fu un sogno».

 (...) 

Nel Brasile giocavano cinque numeri 10, nell'Italia non c'era posto per Mazzola e Rivera insieme. Perché?

«Eppure eravamo diversissimi. Qualunque altra nazionale avrebbe detto: giocano quei due più altri nove, invece noi ci complicammo solo la vita. Una specialità italiana. Peccato».

Dagospia il 30 dicembre 2022. Dal profilo Facebook di Loredana Bertè

Arrivederci Re Pelé, ricorderò sempre con affetto quando venivi a prendermi a New York per andare a lezione d'inglese insieme

Da calciomercato.com il 30 dicembre 2022.

A volte il Viagra viene assunto anche dai calciatori, specialmente quando giocano in altura per favorire l'ossigenazione del sangue. Ad esempio esattamente un anno fa, il 28 marzo 2017, lo prese l'Argentina, sconfitta 2-0 ai 3600 metri di La Paz sul campo della Bolivia nelle qualificazioni mondiali. Tra i testimonial pubblicitari più famosi c'è il brasiliano Pelé: "Parlane col tuo medico, io lo farò!". L'ex portiere della Juventus e della Nazionale, Stefano Tacconi ha ammesso di averlo provato "una notte per curiosità", ospite di Maurizio Costanzo e Michele Santoro in tv. Ma lo show più memorabile sul piccolo schermo l'ha regalato il compianto giornalista sportivo Maurizio Mosca.

Giancarlo Dotto per La Gazzetta dello Sport il 30 dicembre 2022.

“Se chiedete a qualunque zebra dello zoo di San Paolo chi è stato il più grande giocatore della storia, tutte le zebre risponderanno in coro: Pelé”, amava dire il giornalista pernambucano Nelson Rodrigues, uno dei suoi più ispirati cantori. Zebre, uomini e donne da Salvador a Porto Alegre, da Manaus a Rio de Janeiro, fino a Belo Horizonte, possono ora fare i conti con un lutto tanto atteso e temuto. Ora che, dopo aver raccontato la sua indicibile grandezza, il mito Pelé raccontava la sua insopportabile vulnerabilità. 

Bella e crudele la sovrapposizione. Nel tempo di un soffio, il soffio della vita, due geni del pallone all’unisono: uno siglava la sua epica e l’altro la sfiniva. Di qua il verso di esultanza di Leo Messi, di là i rantoli terminali di Pelé. La timida pulce autistica che a 35 anni diventa finalmente profeta della sua terra e il più incantevole animale da calcio mai apparso nel pianeta, che profeta della sua terra lo è stato da sempre. Certo, da quel Brasile-Svezia, finale mondiale del’58 a Stoccolma. Il giorno in cui, non ancora diciottenne, Pelé diventa re. 

Strano e buffo il caso. Il fuoriclasse dell’assoluto muore a San Paolo in una stanza dell’ospedale Albert Einstein, il fuoriclasse della relatività. Due geni, entrambi associabili a un’equazione che, nel caso del ragazzo mineiro, è la più semplice di sempre: Pelé uguale al pallone moltiplicato per luce e movimento. Il cancro ha finito per divorare e spegnere ciò che era comprensibile di lui, il suo corpo stremato, le sue spoglie mortali, non ha intaccato di un’unghia il suo mistero illeggibile. 

Ci voleva la morte di Pelé per andare oltre quella di Senna, nello schianto sentimentale di una nazione intera. L’ultima immagine che ha fatto il giro del mondo, la figlia Kely al capezzale del leggendario padre, stretta a lui, come a proteggerlo e a cercare protezione nello stesso abbraccio. “Ancora una notte insieme”. A sussurrarlo con lei, una ragazza di 23 anni, era una nazione intera, i ricchi, i senza casa e i senza terra, la borghesia agiata paulista, i diseredati delle favelas, i contadini delle fazendas, gli indigeni della foresta. Un unico, immane abbraccio che più struggente non si può.

Mentre il respiro diventava rantolo, di un tempo sospeso per tutto il Brasile, e le centinaia e poi migliaia che si radunavano alle porte dell’ospedale. Insieme a Kely e gli altri figli, che si davano il turno a stringere la mano di quel mitico padre che dormiva in attesa di svanire. Aspettando la notizia che tutti, medici, stregoni, giornalisti, hanno provato a differire il più possibile.

 Pelé. Un suono storpiato che diventò un nome senza senso, il più musicale di sempre. Quattro lettere, un bisillabo, che hanno racchiuso e raccontato un’enormità. Il resto, Edson Arantes do Nascimento, superfluo. Anche se lui, il moccioso funambolo, detestava essere chiamato Pelé perché gli sembrava una canzonatura, mentre lui si sentiva Edson e basta, Edison, colui che inventò la lampada. Quando giocava per le strade terrose di Bauru con un pallone di calzini  e lustrava scarpe dove capitava per aiutare papà Dondinho e mamma Donna Celeste. Non sapendo nulla, o forse sì, del suo destino, che avrebbe giocato partite epiche negli stadi più glamour del mondo, da ladro di noccioline a cavaliere decorato dalla Regina, da “parassita” che si mimetizzava nel grano a ministro di Stato. Da uomo a leggenda e poi ancora uomo, senza aver mai smesso di essere leggenda. Il suo scopritore, Waldemar de Brito, fu preso per un profeta da bar quando disse: “Questo ragazzino di 11 anni diventerà il più forte calciatore del mondo”.

Troppo piena di atti celestiali la sua storia di calciatore. Libri, film e documentari, lo testimoniano in qualunque lingua. Una miniera. Ognuno poi estrae la sua pepita. Partendo dall’inizio, dove la storia di Pelé inizia davvero. Otto anni dopo lo choc del 16 luglio 1950, lo stupro uruguagio del Maracanà, la bola che diventa in tutta la nazione oggetto di una rimozione totale, indispensabile per sopravvivere alla nausea e all’umiliazione. In Brasile non si giocò a calcio per due anni. Un gigante collassato su stesso, sull’argilla di un talento che doveva vincere per diritto divino e per questo immenso ma fragile.

Risalire dall’abisso della disistima, un percorso lungo e dolente. Fu un ragazzino di 17 anni a fare il miracolo, restituire orgoglio e dignità alla “ragazza inferma”, scaraventando in cantina il fantasma del Maracanazo. Quel giorno in cui, all’ombra del magnetico Didì, il totem della squadra, il Brasile dispiega l’inaudito talento del ragazzino Pelé e quello folle del selvaggio Garrincha. Garrincha spaventò gli svedesi, Liedholm e compagni, Pelé li finì. Cercarono di abbatterlo in tutti modi il ragazzino, quel bisillabo venuto dal nulla, ma lui è un miraggio inafferrabile, materia di un sogno incarnato. Sempre prodigiosamente equilibrato e centrato, qualunque decisione e direzione prenda. 

Appena affacciatosi in classe, Pelé è definitivamente fuori della classe. Lo tirano su da terra i compagni e provano a spiegargli il concetto: “Sei campione del mondo”. Lui non capisce, ma si rende conto. Che è una cosa grande e scoppia a piangere tra le braccia di Garrincha, che capisce meno di lui. Il pianto di un bambino. E tutta una nazione che lo adotta e lo consola per quella cosa enorme che gli era capitata.

Si scatena quel giorno di prodezze e lacrime l’identificazione più impressionante che si sia mai vista tra un popolo intero e il suo eroe sportivo. Quel bambino non è solo il riscatto di un Paese, è il prodigio entusiasmante di un re spuntato dal nulla, destinato a dispensare felicità a un Paese che non si fa troppe domande e preferisce cantare con la voce di Tom Jobim “muita calma pra pensar e ter tempo pra sohnar”. 

La gente s’innamora perdutamente di questo ragazzo, l’emanazione di un sogno, che vincerà tutto, segnerà più di chiunque altro e piangerà sempre di meno. La cui corona è un’appendice naturale della testa e viceversa. È lui per primo, Pelé, a sentirsi re dalla testa ai piedi quando sta in campo. È ancora Nelson Rodrigues a delirare il giusto quando scopre, e gli prende un colpo, che ha 17 anni e “non può entrare al cinema a vedere un film di Brigitte Bardot”. Scrive l’8 marzo del ’58, su Manchete Esportiva “Quando prende il pallone è come se cacciasse via da sé un popolano ignorante e pieno di pidocchi”.

Gol raccontati, celebrati, idolatrati. Dribbling inventati e mai visti prima, come nella semifinale del ’70, la sua finta di corpo nei minuti di recupero e Ladislao Mazurkiewicz, il portiere uruguagio, guarda caso, che non ci capisce nulla. Un movimento irreale, pura sottrazione di corpi, palla che esce di un soffio. Il grande rammarico di Pelé ma non degli esteti e degli intellettuali. “Il gol avrebbe normalizzato l’impresa. Così invece resterà nei nostri occhi per sempre. La sua imperfezione ne garantisce l’immortalità”, scriveva Sergio Rodrigues, scrittore e giornalista mineiro. “Lo straordinario non è fare mille gol come Pelé. È farne uno come Pelé”, rilancia il poeta Carlos Drummond de Andrade. 

Lasciò più volte il pallone. Incapaci di lasciarsi, lui e il pallone. Come tutti i fuori della classe sapeva oscuramente che smettere significava un po’ morire. In attesa un giorno di morire davvero. Pelé. La meraviglia. L’immortalità. Per sempre. 

Dagospia il 30 dicembre 2022. Dal profilo Facebook di Ventanni di Roma by Night – Cristiano Colaizzi

Ci lascia purtroppo Edson Arantes do Nascimento conosciuto in tutto il mondo come Pelè, insieme a Maradona è stato il più grande calciatore di tutti i tempi. Il suo mito continuerà a vivere in eterno noi lo ricordiamo in alcuni momenti a Roma….

Al Gilda nel party dopo i sorteggi per il mondiale di Italia ‘90, con Sandro Melaranci al Jackie ‘O, a cena da Alfredo ed in pista con Elsa Martinelli

Gianluca Piacentini per roma.corriere.it il 30 dicembre 2022.

Per molti anni, a Roma, è stato ricordato come il portiere che parò un calcio di rigore a Pelè. Un’impresa che non riuscì a nessun altro numero uno del calcio italiano. A riuscirci, fu Alberto Ginulfi. Era il 1972, il Santos giocava in amichevole all'Olimpico contro la Roma e Ginulfi, che difendeva i pali della porta giallorossa, fece la parata che lo consegnò alla storia. 

«Sono tristissimo per la morte di Pelè, parliamo dell’élite del calcio, una leggenda come poche. Di quel giorno ricordo soprattutto il riconoscimento che mi fece dopo - ricorda Ginulfi -. Mi ha lasciato la maglia e a fine partita mi ha invitato all'ambasciata brasiliana di piazza Navona, per il giorno dopo. Stiamo parlando di Pelè, un mito per me. Nel '58 avevo 17 anni anche io: come facevi a non innamorarti di lui? Al Mondiale nella partita contro la Svezia fece tre gol: uno meglio dell'altro».

Non è stata quella l’unica volta che O’Rey fu impressionato da Ginulfi. «Tutti si ricordano del rigore, ma non si ricordano di due o tre anni prima. Perché il Santos veniva in tournée al Flaminio e io all'epoca ero riserva e giocai il secondo tempo. In quell'occasione feci delle parate incredibili. Tanto che Fannella, un procuratore del periodo che portava i brasiliani in Italia, mi disse gli apprezzamenti che Pelè aveva fatto su di me. "Ma perché non lo prendiamo noi questo qui?" disse Pelè. Ecco quello fu gratificante, più del rigore». 

Dopo il rigore parato nell’amichevole del 1972, Pelè gli regalò la maglia, che conserva gelosamente. «La terrò per sempre. Non parliamo di quelle di adesso, ma di quelle vere. Maniche lunghe, scudetto ricamato e numeri attaccati con il filo. La tengo nascosta, insieme a quella di Maradona. Me l'hanno chiesta in tanti, ma è incedibile. Anche la Roma che ha fatto una sua piccola esposizione a Trigoria. Ma è un ricordo incredibile, un motivo di orgoglio».

(ANSA il 30 dicembre 2022) - Il Santos ha deciso di sospendere l'utilizzo della maglia on il numero 10 da parte dei suoi giocatori. Lo ha annunciato il presidente del club, Andrés Rueda. Ieri la famiglia di Pelé aveva chiesto che questa maglia venisse ritirata e oggi Rueda ha risposto che "per ora, in questo 2023, l'utilizzo del numero 10 è sospeso. In seguito ne parleremo con il Consiglio e vedremo se ritirare la maglia".

Emiliano Guanella per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.

Era una notizia che il Brasile aspettava da giorni, è arrivata nel mezzo delle feste, proprio a ridosso del Capodanno e a due giorni dall'insediamento del nuovo governo del redivivo Lula da Silva. O Rei se ne va dopo un'agonia durata un mese presso il reparto oncologico dell'ospedale Albert Einstein, dove è entrato il 29 novembre, ufficialmente per dei controlli di routine a seguito del trattamento contro il tumore al colon che gli avevano tolto due anni fa. 

Pochi giorni dopo si è capito che la situazione era seria, dalla clinica è filtrata la notizia che oramai c'era spazio solo per cure palliative, le metastasi stavano avanzando. Sembrava uno scherzo del destino, Pelé che lotta per la vita proprio nel mezzo dei Mondiali in Qatar e da allora si è formato un capannello di giornalisti in pianta stabile fuori dall'ospedale.

La notizia è arrivata con il Brasile sospeso tra Natale e Reveilon, con la stampa attenta alle mosse di Lula, con le incertezze di un Paese che sta cambiando anno e guida politica, lasciandosi alle spalle l'esperienza assai controversa di Jair Bolsonaro.

Ma si tratta di Pelè, non di un campione qualsiasi e quindi logicamente tutto si è fermato. I canali televisivi hanno interrotto la programmazione, molti conduttori in studio non hanno trattenuto le lacrime e sono partite le dirette fiume infarcite dai tanti "coccodrilli" già pronti da un tempo. Innumerevoli le testimonianze di calciatori, artisti, commentatori. 

Un lungo omaggio e ricordo che è viaggiato nei vari luoghi simboli della vita del Re, ad iniziare da Santos, la sua città e il suo club di sempre. Allo stadio di Vila Belmiro hanno preparato da una settimana due grandi tende bianche, non è un segreto per nessuno che il suo desiderio fosse essere salutato proprio lì, a pochi passi dall'Oceano atlantico e dalla sua casa di Guaruja, il rifugio di tutta una vita.

La logistica è tutta da disegnare e preoccupa non poco, perché Santos è come Rimini, qui siamo in estate e quindi tutto è pieno. Decine di migliaia di tifosi si sono riversati davanti allo stadio, vogliono essere lì per riceverlo, per dirgli bentornato a casa. Obrigado, grazie, è la parola che percorre l'animo di 210 milioni di brasiliani, i nonni hanno raccontato di lui ai genitori che oggi fanno lo stesso con i figli. 

Nella patria del futebol lui è sempre stato considerato oltre, sopra ogni limite ed ogni record e saranno tantissimi i calciatori, allenatori ed addetti al settore a voler rendergli omaggio. Su tutti Neymar, anche lui un menino del Santos, amico di famiglia da anni, che è corso da Parigi per l'ultimo saluto.

A Sportv, la principale emittente sportiva, ricordano il suo periodo americano e un dato che impressiona, se si considera l'epoca in cui ha vissuto; Pelè ha giocato in 66 paesi e ha segnato almeno un gol in 54 nazioni diverse. Molti ricordano il suo debutto, l'incredibile protagonismo a 17 anni nel Mondiale in Svezia, il più giovane di tutti i tempi a giocare una finale, a segnare, a vincere il trofeo. 

L'ospedale ha comunicato il momento esatto del decesso, le 15.47 ora locale, a causa del blocco di diversi organi. Nel settembre del 2021 era stato sottoposto a una chirurgia per rimuovere il tumore al colon, ma il male è tornato e avrebbe colpito anche diversi organi. La figlia maggiore Keyla è stata la prima a gestire dalla camera dell'Einstein la comunicazione con il mondo esterno. All'inizio ha negato la gravità della situazione, poi il tono è cambiato e sono comparsi gli inviti a pregare.

Uno a uno sono arrivati anche gli altri figli e nipoti sparsi per il mondo, hanno voluto essere con lui a Natale, l'ultimo Natale tutti insieme. Le loro foto pubblicate sui social hanno fatto il giro del mondo, il figlio Edinho che gli tiene la mano, quella pace famigliare che è mancata per molto tempo nella vita del Re del calcio. Ora saranno loro ad organizzare l'ultimo abbraccio, ma è il Brasile intero che si ferma, a cavallo fra l'anno vecchio e quello nuovo, per salutare il suo massimo idolo.

Da gazzetta.it il 30 dicembre 2022.

Immediate e numerose, come logico sia, le reazioni alla morte di Pelé. Il messaggio più toccante è sicuramente quello della figlia Kely: " Tutto ciò che siamo, è grazie a te. Ti amiamo infinitamente. Riposa in pace". L'annuncio della morte è arrivato anche direttamente dall'account Twitter del brasiliano. 

Uno dei primissimi sui social a dare l’addio a O’Rei è stato Franco Baresi, bandiera rossonera: "Addio a @Pele rimarrà sempre nella memoria, più forte del tempo. Icona e leggenda nel mondo RIP". In Inghilterra il ricordo di O'Rei avverrà con Wembley illuminato coi colori del Brasile. Molte leghe hanno inoltre già annunciato un minuto di silenzio per la prossima giornata di campionato. La famiglia ha poi chiesto al Santos di ritirare la maglia numero dieci. Il corpo di Pelé sarà portato a Vila Belmiro, storica "casa" del Santos, per una veglia funebre. Questa era infatti la volontà dello stesso Pelé. I tifosi si stanno già radunando allo stadio del Santos per onorarlo. Il club aveva già allestito nei giorni scorsi una struttura sul prato dello stadio. Il governo ha decretato tre giorni di lutto nazionale.

Anche il presidente del consiglio Giorgia Meloni è intervenuta su Twitter: "Grazie al suo estro e alla sua classe è riuscito a lasciare il segno anche nelle generazioni che non hanno avuto la fortuna di vederlo giocare. Oggi tutto il mondo piange una leggenda di nome Pelè".

Dal Frosinone al Milan, iniziano ad arrivare le condoglianze da tutti i club italiani, e non solo. Il club tricolore lo fa con una splendida foto che ritrae Pelé con il Santos e Giovanni Trapattoni in rossonero nella Intercontinentale 1963. 

Anche l'Assocalciatori si associa al lutto: "Indimenticabile, meraviglioso, eterno. Addio grande Pelé". "Un dolore enorme, oggi lo sport piange un grandissimo, perché Pelé era il calcio - sono le parole del presidente della Figc Gabriele Gravina - Anche grazie a lui, infatti, è diventato il gioco più amato e praticato in tutto il mondo. In lui milioni di persone si sono riconosciute in una bellissima storia di riscatto e di grande passione. La sua classe illuminerà per sempre i nostri occhi".

"Il gioco. Il Re. L'Eternità". Così in un tweet con una foto di Pelé che celebra un gol il ricordo del presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron. "Aurelio De Laurentiis e tutta SSC Napoli esprimono cordoglio e profondo dolore per la scomparsa di Pelé, mito del calcio mondiale. Addio O Rei". Così il Napoli su twitter, che poi pubblica anche una foto che ritrae Maradona e Pelè insieme e la scritta "Eternal"."Ciao O Rei, riposa in pace". Lo scrive Bruno Conti su Instagram pubblicando una foto che lo ritrae con Pelé. "Un giorno triste per il mondo del calcio. Riposa in pace Pelé". L'Ajax ricorda così, postando una foto di O Rei assieme a Johan Cruijff. "Buon viaggio mito" scrive su Facebook il vicepremier e ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini.

Nella finale mondial del 1970 erano stati avversari. Gigi Riva lo ricorda così: "Per me è un grande dispiacere. Era sempre disponibile, conosceva il suo ruolo. Lo ricordo quando nel 1972 venne a Cagliari col Santos". "Mi dispiace particolarmente per questa grave perdita per il mondo del calcio, che da oggi è un po' più povero. Ci lascia un campione unico, il più grande nella sua epoca e insieme a Maradona, il più grande di sempre - l'addio a Pelé di Dino Zoff - Ci siamo incontrati e abbracciati diverse volte. C'è sempre stata cordialità tra di noi, era una persona a modo e per bene".

Eredi non ne può avere perché Pelé era unico. Ma quelli che sono considerati quattro dei più grandi giocatori di questa epoca, hanno reso omaggio a O'Rei. Il connazionale Neymar lo ricorda così: "Prima di Pelé, il 10 era solo un numero. Ho letto quella frase da qualche parte, ad un certo punto della mia vita. Ma quella frase, bellissima, è incompleta. Direi che prima di Pelé il calcio era solo uno sport. Pelè ha cambiato tutto. Ha trasformato il calcio in arte, in intrattenimento. Ha dato voce ai poveri, ai neri e soprattutto ha dato visibilità al Brasile. Il calcio e il Brasile hanno alzato il loro status grazie al Re! Se n'è andato, ma la sua magia rimarrà. Pelè è ETERNO!!".

Questo invece il messaggio di Mbappé: "Il re del calcio ci ha lasciato ma la sua eredità non sarà mai dimenticata. Rip Re". E poi Cristiano Ronaldo: "Le mie più sentite condoglianze a tutto il Brasile, e in particolare alla famiglia del signor Edson Arantes do Nascimento. Un semplice 'arrivederci' all'eterno Re Pelé non sarà mai sufficiente per esprimere il dolore che attualmente abbraccia l'intero mondo del calcio. Un'ispirazione per così tanti milioni, un riferimento di ieri, oggi, per sempre. L'affetto che ha sempre dimostrato per me è stato reciproco in ogni momento condiviso, anche a distanza. Non sarà mai dimenticato e il suo ricordo vivrà per sempre in ognuno di noi amanti del calcio. Riposa in pace, re Pelé". E poi Leo Messi, semplice e diretto: "Riposa in pace Pelé". "Tutto quello che vedi fare a qualsiasi giocatore, Pelé lo ha fatto prima. Rip" l'addio di Haaland. 

"Nel 2005 ho ricevuto il premio BBC direttamente dalle mani del re, e ancora oggi è uno dei momenti di cui sono più orgoglioso". Lo scrive José Mourinho su Instagram. Poi ricorda il suo incontro avuto anche a Manchester: "Ero così felice di averlo lì dove abbiamo fatto una bella chiacchierata e vissuto bei momenti. Oggi sono molto triste. Riposa in pace Re Pelé e un pensiero ai suoi cari". " Una leggenda dello sport. Riposa in pace re Pelé". Così Usain Bolt su Twitter dove pubblica una sua foto con il mito. 

"Ci ha lasciato uno dei migliori calciatori della storia. Ricorderemo sempre quegli anni in cui Pelé abbagliò il mondo con le sue abilità. Un grande abbraccio alla sua famiglia e al popolo del Brasile che lo porteranno nel cuore" il saluto del presidente dell'Argentina, Alberto Fernández.

" Siamo profondamente rattristati nell'apprendere della perdita di Pelé, uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi - ha dichiarato il presidente Uefa Aleksander Ceferin - E' stato la prima superstar globale del calcio e, grazie ai successi dentro e fuori dal campo, ha svolto un ruolo pionieristico nell'ascesa del calcio fino a diventare lo sport più popolare al mondo. Ci mancherà molto. A nome della comunità calcistica europea, riposa in pace, Pelé". "Pelé è immortale, perché resterà per sempre con noi -ha detto Gianni Infantino, presidente della Fifa - Lo chiamavano 'Il Re' e il suo volto è uno dei più riconoscibili nel calcio mondiale".

 "Purtroppo la notizia è arrivata e stavolta è morto un pezzo del calcio, se non il calcio. Lui è Maradona hanno dato lustro alle rispettive nazionali e hanno portato lo spettacolo del calcio in tutto il mondo: loro sono lo spettacolo. Mai nessuno sarà come Pelé, come Diego. Loro sono il calcio. Mai nessuno come lui, come loro. Irraggiungibili. Ora riposare in pace insieme" il saluto di Spillo Altobelli. "Io sono stato tra i tanti che hanno iniziato a correre dietro ad un pallone per provare a emulare Pelé. La sua scomparsa mi lascia una grande tristezza. Lui rappresenta il gioco del calcio - dice Antonio Cabrini - La scomparsa di un mito lascia tutti più poveri. Lui e Maradona sono stati i più grandi della storia, ognuno nella sua epoca".

"Unico. Geniale. Tecnico. Creativo. Perfetto. Senza pari. Dove è arrivato Pelé, lì è rimasto. Senza aver mai lasciato la vetta, ci lascia oggi. Il re del calcio, uno solo. Il più grande di sempre. Il mondo è in lutto - così Ronaldo Il Fenomeno lo ricorda - La tristezza dell'addio misto all'immenso orgoglio della storia scritta. Che privilegio essere venuto dopo di te, amico mio. Il tuo talento è una scuola che ogni giocatore dovrebbe frequentare. La tua eredità trascende le generazioni. Ed è così che continuerai a vivere. Oggi e sempre, ti festeggeremo. Grazie Pelè. Riposa in pace".

"Grazie di tutto Re Pelé, riposa in pace" il saluto di Marcelo. Casemiro lo ricorda così: "Riposa in pace Re Pelé, grazie per la gloria che hai dato al Brasile e al calcio. La tua eredità è eterna". "Per te, Re Pelé" il saluto di Vinicius. Thiago Silva: "Per sempre Re del calcio e leggenda, riposa in pace Pelé. Hai cambiato la storia del calcio, la tua eredità sarà sempre nei nostri cuori, grazie per tutto".

Così invece l'ex milanista Cafù: "Pelé non morirà mai... Pelé è eterno, è Re, è unico... Sarà immortalato in ogni magnifico traguardo, in ogni colpo da maestro, in ognuno di noi che si è ispirato a lui e alla sua intera generazione. Stai tranquillo fratello, qui continueremo senza il tuo genio, ma con la tua eredità". "Oggi il Brasile saluta uno dei suoi figli più illustri: Pelé, il re del calcio. Eletto atleta del secolo, Edson Arantes do Nascimento ha fatto inchinare il mondo davanti al suo talento, portando il calcio brasiliano all'altare degli dei" il saluto di Romario.

"Gran parte della storia di questo sport che amo così tanto è stata scritta da te - il saluto di Ricky Kakà -. Grazie per aver portato il nome del Brasile ai quattro angoli del mondo. Hai incantato, commosso, toccato i nostri cuori, posto dove ti porteremo per sempre".

"E' stato un grandissimo giocatore, forse il più grande. Da quando guardo il calcio lui insieme a Maradona e Di Stefano sono stati i migliori e dopo loro metto Cruijff e Messi - dice Arrigo Sacchi - Io l'ho anche allenato in una partita esibizione nel 1990 in occasione dei suoi 50 anni, la mia squadra vinse quel match e lui mi disse scherzando alla fine della partita 'mi devi la rivincita tra 50 anni'. Non so dove la faremo questa partita. Da allora ci siamo incontrati svariate volte ed è nata un'amicizia. L'ultima volta l'ho visto 2-3 anni fa, poi purtroppo tra la pandemia e i suoi problemi di salute non è stato più possibile".

"Il mio più grande partner se n'è andato ed è con quel sorriso che ti terrò con me. Amico di tante storie, vittorie e titoli e che lascia un'eredità eterna e indimenticabile. La persona che ha fermato il mondo più volte. La persona che ha reso la maglia numero 10 la più rispettata. Un brasiliano che ha difeso il nostro Paese nel mondo. Oggi il mondo, piangendo, si ferma e saluta il più grande di tutti. Dal re del calcio. Grazie di tutto Pelé, sei eterno. Ti amo" il commovente addio dell'ex c.t. verdeoro Mario Zagallo che con O'Rei vinse il Mondiale 1970.

" Il più grande giocatore di tutti i tempi, da quando esiste il calcio. Pelè è stato il calcio - racconta Josè Altafini, ai microfoni di Sky Sport - Ha esordito con me, lui aveva 17 anni e io 19, contro l'Argentina vincendo 2-0 con un gol suo e uno mio. Non ci frequentavamo ma eravamo amici, non c'era nessuna rivalità. Dovevamo incontrarci l'anno scorso ma non è stato possibile perché stava poco bene. Il vuoto che lascia è paragonabile a quello di Garrincha, Ayrton Senna, Kobe Bryant, personaggi fantastici dello sport. È un giorno triste per il calcio. Aveva destro, sinistro, saltava di testa, aveva velocità. Gli ho visto fare cose che nessuno può capire". "Tu, il calcio. Ciao O Rei". Così Francesco Totti su Instagram.

Circa un anno fa Pelé era stato ospite alla trasmissione Rai "Che tempo fa". Il conduttore Fabio Fazio lo ha ricordato, commosso.

Non poteva mancare il messaggio del presidente eletto brasiliano Lula: "Ho avuto un privilegio che i brasiliani più giovani non hanno avuto: ho visto Pelé giocare, dal vivo, al Pacaembu e al Morumbi. Ho visto Pelé dare uno spettacolo. Perché quando prendeva palla faceva sempre qualcosa di speciale, che spesso finiva in gol. Confesso che ero arrabbiato con Pelé, perché ha sempre massacrato il mio Corinthias. Ma, prima di tutto, lo ammiravo. E la rabbia ha presto lasciato il posto alla passione di vederlo giocare con la maglia numero 10 della nazionale brasiliana. 

Pochi brasiliani hanno portato il nome del nostro Paese così lontano come ha fatto lui. Per quanto diversa fosse la lingua portoghese, gli stranieri provenienti dai quattro angoli del pianeta trovarono ben presto il modo di pronunciare la parola magica: 'Pelé'. Oggi ci ha lasciato. È andato a fare una tavolata in paradiso con Coutinho, suo grande compagno al Santos. Ora ha la compagnia di tante stelle eterne: Didi, Garrincha, Nilton Santos, Sócrates, Maradona... Ha lasciato una certezza: non c'era mai stato un numero 10 come lui. Grazie Pelè".

Persino l'ex presidente Usa Barack Obama, grande appassionato di sport, ha affidato ai social il suo ricordo di Pelé: "E' stato uno dei più grandi di sempre a giocare il "beautiful game" (come gli americani chiamano il calcio, ndr.)- Ed è stato uno degli sportivi più conosciuti al mondo, ha capito la potenza dello sport per unire la gente. Il nostro pensiero va alla famiglia e a tutti quelli che l'hanno amato e ammirato". Joe Biden, l'attuale presidente statunitense, ha invece scritto: "Per uno sport che riunisce il mondo come nessun altro, l'ascesa di Pelé da umili origini a leggenda del calcio è la storia di ciò che è possibile. Oggi, il mio pensiero e quello di mia moglie Jill sono con la sua famiglia e tutti coloro che gli hanno voluto bene".

 "Sarà molto difficile trovare un altro Pelé. Aveva tutto ciò che un giocatore dovrebbe avere. Agile, saltava come nessuno, sapeva calciare con entrambi i piedi fisicamente molto forte e coraggioso. Non c'era nessuno come Pelé" le parole dell'ex c.t. argentino Cesar Menotti, che con O'Rei aveva anche giocato nel Santos. "Con la morte di Pelé, il calcio ha perso una delle sue più grandi leggende, se non la più grande. Come tutte le leggende, il re sembrava immortale. Ha fatto sognare e ha continuato a farlo con generazioni e generazioni di amanti del nostro sport. Chi, da bambino, non sognava di essere Pelé?" il ricordo di Didier Deschamps, c.t. della Francia.

"Pelé era un calciatore davvero magico e un meraviglioso essere umano. È stato un onore aver condiviso un campo con lui e invio le mie più sincere condoglianze alla sua famiglia, ai suoi amici e al popolo brasiliano" ha scritto Bobby Charlton. Questo invece il pensiero di Gary Lineker: "Pelé è morto. Il più divino dei calciatori e gioioso degli uomini. Ha giocato a un gioco a cui solo pochi eletti si sono avvicinati. Tre volte ha alzato il trofeo d'oro più ambito con quella bellissima maglia gialla. Potrebbe averci lasciato ma avrà sempre l'immortalità calcistica. RIP Pelè".

Angelo Benedicto Sormani lo ricorda chi ha parecchi capelli bianchi in testa. Ha giocato in Italia dal '61 al '76 vincendo Coppa Campioni, Coppa Coppe, scudetto e Intercontinentale col Milan e vestendo anche, da naturalizzato, la maglia azzurra. Ma era nato in Brasile e aveva iniziato a giocare con Pelé al Santos e oggi lo ricorda così': "Eravamo amici nella vita privata oltre che nel calcio. Lui e il pallone erano una cosa sola, sembrava che il pallone lo capisse. Con tutto il rispetto per tutti gli altri non ci sarà più nessuno come lui, è arrivato molto vicino alla perfezione".

"Oggi se ne è andato un grande dello sport mondiale. Un giorno triste per il mondo del calcio, per il mondo dello sport - il messaggio di Rafa Nadal -. La sua eredità sarà sempre con noi. Non l'ho visto giocare, non sono stato così fortunato, ma mi hanno sempre insegnato e mi hanno detto che era il Re del calcio. Riposa in pace! O'Rei".

Molto bello il messaggio del cantante Enrico Ruggeri: "Non sapevamo quanto guadagnava, che macchina avesse, com’era sua moglie. Era una leggenda e basta, stringergli la mano fu una delle più belle emozioni della mia vita. Lo scorrere del tempo ci sta strappando i sogni a uno ad uno". E per restare nel mondo della musica, anche Rita Pavone ha voluto salutare O'Rei: "Mi aggiungo al dolore e al cordoglio non solo del Brasile ma del mondo intero per la scomparsa del grande Pelé. Averlo conosciuto di persona è stata una gioia grandissima". 

"Addio a O Rey, una leggenda immortale. Stasera mi è capitata la sua citazione che è lo specchio di un vero campione.. 'Il successo non è un caso. È duro lavoro, perseveranza, apprendimento, studio, sacrificio e, soprattutto, amore per ciò che stai facendo o imparando a fare'. Pelé". E ancora Piero Pelù: "Non è solo per la nostra assonanza di soprannome (Suo) e cognome (mio) ma per me Pelè rimarrà sempre il più grande di tutti i tempi (in proporzione al livello del calcio di ieri e di oggi). Rimarrai sempre con me, grande Maestro d’arte e di vita!".

 "Oggi il calcio ha perso il più grande della sua storia - e io ho perso un amico unico - ha detto Franz Beckenbauer, leggendario difensore della Germania Ovest e del Bayern Monaco - Pelé aveva tre cuori: per il calcio, per la sua famiglia e per tutti. Sono andato negli Stati Uniti perché volevo davvero giocare in una squadra con Pelé (ai Cosmos, ndr.). Quella volta al suo fianco è stata una delle più grandi esperienze della mia carriera. Siamo diventati subito campioni degli Stati Uniti e Pelé mi ha appena chiamato suo fratello. Era un onore inimmaginabile per me. Il calcio sarà tuo per sempre! Ci sarai sempre. Grazie per il tuo gioco, O Rei!".

Anche Samuel Eto'o ha salutato Pelé: "Oggi diciamo addio al più grande di sempre. Riposa in pace Pelé, mancherai a milioni e milioni di persone. Leggenda".

Attraverso le colonne de L'Equipe, Michel Platini lo ha ricordato così: "Era Monsieur Football, la storia del calcio, la scoperta del calcio, tutto il calcio. Nel 1970 avevo 15 anni ed ero cresciuto con la sua figura nella mia immaginazione. Mio padre mi ha parlato di Pelé, e a scuola, inoltre, mi firmavo 'Peléatini'. Anche se non sempre lo abbiamo visto giocare, abbiamo solo parlato di lui. Non era più un uomo, non era più un calciatore, era il Dio del calcio. Sono molto, molto commosso. E' la mia vita. Questa è la mia storia. E' Pelè. Sono i miei sogni. Ho visto i suoi gol, le sue imprese e non ho mai dimenticato il suo Mondiale del 1970".

"Stasera è mancato il mio amico Pelè che ho sempre considerato il più grande di tutti i tempi - il messaggio di Gianni Rivera -. Sapeva utilizzare entrambi i piedi allo stesso modo, con la stessa sensibilità e con la stessa potenza. Se non ci fosse stato il calcio lo avrebbe sicuramente inventato. Avevamo un ottimo rapporto e sono veramente dispiaciuto della sua scomparsa. Mi sembra inutile tentare di fare una classifica fra chi era più bravo tra lui e gli altri grandi calciatori di tutti i tempi. Altafini mi ha raccontato una volta che era bravo anche in porta! Un giorno prima di iniziare gli allenamenti con il Santos, la sua squadra, si mise d'accordo con l'allenatore per fingersi un nuovo portiere che voleva essere assunto. Nessuno si accorse che era lui e parò tutti i tiri che gli fecero i compagni dal limite dell'area di rigore!!! Questo è sufficiente per capire chi è stato".

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 30 dicembre 2022.

Quando Andy Warhol realizzò il suo ritratto gli disse : « Sei l’unica celebrità che, invece di durare 15 minuti, durerà 15 secoli». Fu Pelé a raccontare questo episodio. Pelé che tra un secolo e l’altro è stato messo a confronto con altri fenomeni e, a suo dire, è sempre uscito vincitore: «Mi hanno paragonato a Di Stefano, in seguito a Sivori e infine a Maradona» le sue parole.   

«Per prima cosa decidano chi dei tre era il più grande e poi accettino il fatto che io sono migliore di ognuno di loro».  

Se Di Stefano è stato soprattutto il ricordo dei vecchi e la suggestione de   gli inguaribili romantici - sono rarissime le immagini delle sue giocate -, Pelé è stato il sogno grande e Maradona il bisogno e il desiderio di un erede all’altezza.  Pelé ha vinto tre Mondiali, ma per i profani resta quello della rovesciata in “Fuga per la vittoria”. 

Ha smesso di giocare all’inizio degli anni 70, poiché l’avventura con i New York Cosmos non può che essere considerata un’appendice del romanzo. Per noi, figli degli anni Sessanta, Pelé è il “lenzuolo” all’avversario prima di un gol indimenticabile ai Mondiali di Svezia, nel ’58. Oppure l’incredibile finta a Mazurkiewicz - nell’uno contro uno, il pallone va da una parte e Pelé dall’altra costringendo il portiere uruguaiano a seguirlo e a trascurare il pallone stesso che non entrerà per pochi centimetri . 

Ma è anche la leggenda dei mille e passa gol in carriera e chissà mai chi li avrà contati tra Rio, Santos, San Paolo e il resto del Pais. 

 Questo non è il giorno dei confronti, ma dell’addio al Re. Il primo re. A suo dire senza eguali anche perché « dopo la mia nascita mia madre chiuse la fabbrica».  

Pelé è stato molto amato dalla Fifa, dalle istituzioni mondiali e dalla politica . Lui è stato il governo del calcio, Maradona l’opposizione. I due non si sono mai presi del tutto. Ricordo quando nel 2000 la Fifa di Blatter decise di eleggere Pelé calciatore del secolo. 

L’irritazione di Diego fu tale che per averlo alla cerimonia di premiazione la federazione internazionale dovette improvvisare un referendum e si tolse dall’impaccio facendolo vincere a l Pibe con il 53,6 per cento dei voti. 

Nel 1979 ebbi l’occasione di entrare nello spogliatoio dell’allora fatiscente Vila Belmiro, lo stadio del Santos dove la famiglia di Pelé ha deciso che saranno celebrati i funerali. Il custode mi regalò una maglia bianca piena di buchi, forse prodotti dalle tarme, che estrasse da un armadietto di legno. Mi spiegò che era quella che Pelé aveva indossato più volte in allenamento. Mi piacque credere che fosse vero. Che potessi stringere tra le mani la camiseta del Re. Aveva il 7 sulle spalle. Il numero di un’illusione giovanile. 

Marco Ciriello per “il Mattino” il 30 dicembre 2022.

Il lustrascarpe che palleggiava con i calzini e divenne re, il bambino che aveva il nome “elettrico” di Edson che portò la luce sui campi; Arantes do Nascimento, il calciatore che ha segnato milletrecento gol: uno così prezioso che venne rubato; 

che è in cento canzoni e mille romanzi e troppi film, che ha duettato con presidenti e papi (quattro), che è stato la regina di Svezia e quasi quella d’Inghilterra; che ha vinto tre Coppe del mondo (’58,’62,’70) con la nazionale brasiliana e due (per club) col Santos: 

il primo a diciassette anni, e a venti era già patrimonio nazionale, poi divenne anche uno stadio: quello di Maceió; che una volta fermò una guerra: quando il Santos andò a giocare in Africa, Zaire e Congo fecero pace per il tempo della partita; 

che è l’unico calciatore espulso a tornare in campo sostituendo l’arbitro a furore di popolo, l’uomo che era il monumento a se stesso, se c’era una onorificenza l’ha avuta, se c’era un premio gli è stato dato, così per copertine, muri e strade e piazze, statue e busti, videogiochi e leggi; il cui nome è stato il motore fisico e mentale di miliardi di corse verso una porta con un pallone: Pelé; è morto.

«Meglio di Pelé forse Gesù, e qualche volta Dio», ripeteva César Luis Menotti tradendo la fede argentino-maradoniana. La morte di Pelé ha smentito anche Burgnich (1939 –2021) che dopo averlo marcato, nel 1970 a Città del Messico, dichiarò: «Prima della partita mi ripetevo che era di carne ed ossa come chiunque, ma sbagliavo». 

La raccontava come se fosse facile e ci fosse una scala, un albero, un trampolino di fianco a Burgnich: «Saltai con perfetto tempismo e colpii di testa la palla, che oltrepassò le braccia tese del portiere Ricky Albertosi».

 

Quello che per gli altri era difficile per lui era facile, tutta la sua vita è stata una volata di successi e conservazione di questi. Difficile separare Pelé dal calcio, difficile scindere il gioco e la vita, sono un solo corpo. Ogni volta che gli mostravano documentari o film sulla sua bella esistenza al riaccendersi delle luci, singhiozzando, diceva: «Questo non è pallone, ma è vita». 

Per questo non ha mai allenato, per non lasciare il campo per la panchina, per non smettere il suo “essere” calciatore in funzione di allenatore – che rimane un estraneo rispetto al gioco –. 

Perché Pelé è stato il calciatore – universale – il modello al quale guardare: «Pelé vede il gioco suo e dei compagni: lascia duettare in affondo chi assume l'iniziativa dell’attacco e, scattando a fior d'erba, arriva a concludere. Mettete tutti gli assi che volete in negativo, poneteli uno sull'altro: esce una faccia nera, un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti», così lo raccontava Gianni Brera.

Nato in una casa povera da un calciatore sfortunato, João Ramos do Nascimento detto Dondinho, al quale promise di vincere i mondiali – giurando su un quadretto di Gesù – vedendolo in lacrime davanti all’impresa dell’Uruguay nel ’50. 

E ponendo fine, otto anni dopo, al “Complexo de vira lata”, definizione del drammaturgo e scrittore brasiliano Nelson Rodrigues, per l’inferiorità brasiliana rispetto al mondo, sputando sulla sua immagine da narciso. 

Passò dalla strada al campo del Bauru, dove abitava, e lì lo vide correre e segnare Waldemar de Brito che lo portò al Santos e profetizzò anche tutto il resto che sarebbe venuto: aveva quindici anni ma già attraversava le difese a folate, già dribblava tutti come un antenato della playstation.

Eduardo Galeano lo raccontava come un corpo estraneo: «Quando Pelé avanzava di corsa, passava attraverso gli avversari come un coltello. Quando si fermava, gli avversari si perdevano nei labirinti che le sue gambe disegnavano. 

Quando saltava, saliva nell’aria come se l’aria fosse una scala. Quando batteva un tiro da fermo, gli avversari che formavano la barriera avevano voglia di piazzarsi alla rovescia, con la faccia rivolta alla porta, per non perdersi il golazo».

“Pelé” arrivò dopo altri soprannomi: “Dico”, come lo chiamava lo zio e lo avrebbe sempre chiamato la mamma; e “Gasolina” che si deve ai compagni del Santos, in onore di un cantante brasilero. 

È qui che divenne Pelé – nome che non gli è mai piaciuto, perché quando aveva sei anni e faceva il lustrascarpe, il suo idolo era il portiere Bilé, che però non sapeva pronunciare bene, e allora diceva “Pilè”, e tutti cominciarono a prenderlo in giro ripetendogli Pelé, Pelé – segnando gol a nastro, fin dalla prima partita di esordio, una amichevole contro il Corinthians de Santo Andrade. Segnò anche all’esordio in nazionale contro l’Argentina. Era il 1957, aveva 16 anni, giocò il suo primo campionato da titolare che chiuse da capocannoniere (lo sarà per 11 volte).

Cominciando la sua carriera di extracalciatore, bisogna ricordare 8 gol in una sola gara, contro il Botafogo col portiere Machado tatuato a vita. Per capire la portata del cammino di Pelé e di come vedeva la porta, bisogna ricordare che segnò cinque gol in un solo incontro per sei volte, realizzò quattro gol in una singola partita trenta volte e per novantadue partite fu autore di una tripletta. 

Trattandosi di Pelé, niente è normale e i gol più belli sono due, di cui uno rubato e l’altro perso dalle telecamere e ricostruito al computer attraverso i racconti: quello del ’59 allo stadio Rua Javari contro il Clube Atletico Juventus. Pelé superò quattro avversari con quattro «sombreros» consecutivi, quattro pallonetti sopra le loro teste portandosi solo in area e poi segnando.

L’altro è quello segnato nel marzo ’61, «il gol della placa», torneo Rio-San Paolo, il Santos vince 1-0 col Fluminese quando al 41' Pelé guada tutto il campo, scartando sette avversari, zigzagando tra Valdo e Edmilson, lasciando indietro Clovis, Altair e Pinheiro, liberandosi di Jair Marinho, superando Castilho, e segnando. 

«Sembrava una nave che faceva slalom tra le onde», ricordano i suoi compagni Coutinho e Doraval. È considerato il gol più bello segnato al Maracanà. Quella rete venne filmata da due tv e da tre telegiornali, ma non esiste più. 

Se la sono rubata e l’hanno sostituita con un’altra azione che entra perfettamente nel gioco. Forse era un sequestro temporaneo di gol con un riscatto da chiedere, e quindi un romanzo “gialloro” da scrivere: ad accorgersene un produttore e regista cinematografico, Anibal Massaini Neto, uno che collezionava gol di Pelé. È Neto che ha rifatto entrambi i gol, rendendoli immortali.

Anche con la nazionale brasiliana ha segnato a valanga, sei al suo primo mondiale, nel ’58 in Svezia, di cui una doppietta in finale contro i padroni di casa: il primo dei due gol, è considerato tra i migliori della storia dei mondiali, pallonetto a scavalcare il suo marcatore e poi tiro in porta. Nel ’62 si infortunò alla seconda partita contro la Cecoslovacchia, e toccò a Garrincha fare il Pelé. 

Non tutti conoscono la storia della più grande ala destra del calcio, Mané Garrincha, spesso dimenticato, ma ha fatto molto per i record di Pelé, senza i suoi dribbling – con una gamba più corta dell’altra di sei centimetri – e soprattutto i suoi cross, avremmo meno gol da raccontare: faceva finta di mandare la palla da un lato e poi la mandava dall’altro, lì c’era Pelé che correggeva tutto in porta, anche lo strabismo di Mané. 

Nel ’66 segnando su punizione contro la Bulgaria divenne il primo calciatore ad andare a segno in tre mondiali differenti, ovviamente poi i mondiali divennero quattro. Il resto del campionato lo giocò zoppicando ed evitando calci, non andò bene, e alla fine con l’eliminazione disse di non voler più giocare un mondiale. Purtroppo per l’Italia nel ’70 era di nuovo in campo in Messico.

E tutti se lo ricordano arrampicarsi in cielo e segnare, crossare e dribblare, generando la più bella finta senza toccare il pallone, ai danni del portiere Ladislao Mazurkiewicz nella semifinale del campionato mondiale del 1970 contro l’Uruguay. 

Arrivò a quel mondiale non senza difficoltà, a riprova che la vita non è stata facile nemmeno per Pelé: João Saldanha, giornalista e allenatore, che aveva guidato il Botafogo, vedeva Pelé miope e attaccante, alla fine fu rimosso dalla guida della nazionale, arrivò ad allenare Mario Zagallo che si accertò che Pelé ci vedesse bene e che tornasse a giocare nella posizione che voleva, infatti vinsero il mondiale. Perché Pelé non faceva la differenza, era la differenza.

Nello spogliatoio dell’Azteca, dopo aver battuto l’Italia urlò a lungo e soprattutto agli altri: «non sono morto, non sono morto». Amava essere un idolo. Era un nero disinteressato, anche se veniva percepito come sottomesso alla dittatura brasiliana, diverso da Muhammad Ali che invece si muove in contrapposizione come Diego Armando Maradona. È la stella nel buio della dittatura, brilla nelle imprese sportive, e illumina il regime di Emílio Garrastazu Médici.

La sua modernità come atleta coincise con lo sviluppo del Brasile, i suoi successi con l’emancipazione dei brasiliani. Con la terza coppa del mondo alzata, si ritirò dalla nazionale, non diventando però una gloria stanca ma andando a giocare nei Cosmos con Beckenbauer e Chinaglia in America, fino al ’77. 

Dopo farà l'attore-giocatore nel film di John Huston: “Fuga per la vittoria” giocando con Michael Caine e Sylvester Stallone, diventerà ministro dello Sport con Fernando Henrique Cardoso, e il testimone di se stesso, un trofeo per papi, Kennedy e Warhol. Ha giocato 1367 partite e ha fatto 1283 gol, concludendo: «Mi pare abbastanza».

Ha avuto solo tre mogli: Rosimeri Cholbi dalla quale ebbe due figlie Cristina e Jennifer Kelly e un figlio, l'ex portiere Edinho, che gli ha dato non pochi problemi tra droga e riciclaggio di denaro sporco. Poi la cantante Assiria Seixas Lemos, dalla quale ha avuto due gemelli Joshua e Celeste, e infine l’imprenditrice Marcia Aoki Cibele. Collezionando una serie di storie con domestiche, attrici, modelle, psicologhe e regine di bellezza, che l’hanno portato a dire di non sapere quanti figli abbia realmente. 

Fuori dal campo è sempre apparso goffo, a parte la rivalità con Diego Armando Maradona, ha sempre evitato i conflitti, è sempre stato dalla parte del potere come in occasione delle proteste pre-mondiali apparendo come un Forrest Gump bravo solo col pallone e che pubblicizza il Viagra. Però, quando superava gli avversari li convinceva anche che fosse giusto. Sigge Parling, calciatore svedese, confidò agli amici: 

«Dopo il quinto gol anch’io avevo voglia di applaudire», e stava perdendo un mondiale. Ha illuminato i giorni e le notti, gli stadi e le periferie, mostrando la sacralità del calcio, e anche se ora ci dicono che è scomparso, sappiamo che l’immortalità esiste e passa per un gol. Pe-Lé, quattro lettere, due coppie, tre mondiali. Dolce più di Lo-li-ta, che non ha l’accento finale e non salta, dribbla, segna, conquista.

Estratto dell’articolo di Marco Ciriello per “il Mattino” il 30 dicembre 2022. 

[…] Ha avuto solo tre mogli: Rosimeri Cholbi dalla quale ebbe due figlie Cristina e Jennifer Kelly e un figlio, l'ex portiere Edinho, che gli ha dato non pochi problemi tra droga e riciclaggio di denaro sporco. Poi la cantante Assiria Seixas Lemos, dalla quale ha avuto due gemelli Joshua e Celeste, e infine l’imprenditrice Marcia Aoki Cibele. Collezionando una serie di storie con domestiche, attrici, modelle, psicologhe e regine di bellezza, che l’hanno portato a dire di non sapere quanti figli abbia realmente. […]

Rocco Cotroneo per “Domani” il 30 dicembre 2022. 

È morto Pelé, l’atleta del secolo, il brasiliano più famoso della storia, simbolo unico per un paese che vive il complesso della periferia, poco prolifico di numeri uno al mondo, senza un unico premio Nobel nel paniere. Si è spento all’età di 82 anni dopo giorni in cui le sue condizioni di salute erano peggiorate. Il Pelé che il Brasile oggi piange è un monumento più che un eroe nazionale.

Pesa il lungo tempo trascorso dai tempi del pallone, chi ha oggi meno di 60 anni se lo ricorda praticamente solo negli spot pubblicitari e nelle cerimonie in tv: fino a pochi anni fa non passava giorno senza che apparisse da qualche parte, mai invecchiato, nemmeno un capello bianco. E non ho bisogno di tingerli, diceva, è genetica. 

L’esuberanza e l’ubiquità della sua figura nel “dopo” hanno finito per condizionare tutti, anche i meno giovani. Per mezzo secolo Pelé ha interpretato Pelé, e non era poi così fuori luogo l’uso costante della terza persona. A chi gli chiedeva i motivi del vezzo, arrivava sempre la stessa risposta: «Tento sempre di separare Edson da Pelé: Edson è una persona normale, fatta di carne ed ossa, Pelé è eterno».

La sua grandezza fuori dal tempo lascia poco spazio agli eterni dibattiti Maradona o Pelé? E oggi Pelé, Maradona o Messi. L’ennesimo video comparativo su Youtube avverte: attenzione, esistono immagini di appena il 20 per cento delle partite giocate da O Rei. E un altro: tutte le cose più spettacolari che vedete nel calcio oggi lui le aveva già fatte. Fine della discussione, dunque. 

Sia l’adolescente nero che conquistò il mondo, sia il brillante e integrato businessman della maturità hanno lasciato segni indelebili nella storia e nella cultura del Brasile, in una identificazione senza pari tra un paese e un suo figlio. Pelé è l’inventore del Brasile. Prima dell'esplosione della “perla nera” – Mondiali 1958 – il suo paese non solo non aveva vinto nulla, ma il mix razziale era stato più un argomento polemico che un vantaggio competitivo.

Nei precedenti tornei i giocatori di colore erano pochi, e venivano sempre accusati per primi per le disfatte (su tutti, terribile fu il destino professionale e umano del portiere Barbosa, quello che subì incolpevole il gol fatale dell'Uruguay nella finale del 1950). Il Pelé favoloso diciassettenne in Svezia fu una rivoluzione culturale oltre che una svolta calcistica. 

Da quel momento la figura del ragazzino nero, povero e scalzo cresciuto a colpi di dribbling in spiaggia divenne la più perfetta simbologia dell'arte applicata al pallone, dell'allegria come motore per la vittoria, della danza come contorno alla forza fisica. Era nato il calcio brasiliano, unico e inimitabile. 

C’è un prima e un dopo Pelé per il Brasile. Prima di lui era un luogo misterioso da qualche parte sulla Terra, alla quale era difficile associare un solo nome. Quanti ancora adesso sanno citare un brasiliano noto prima del 1950?

Edson aveva avuto un’infanzia modesta ma tranquilla, e un padre abile ad inserirlo nel mondo del pallone, come i genitori manager dei nostri giorni. L’immagine che passò al mondo la sua esplosione fu comunque quella del riscatto di un escluso, dal ventre di una società che ha sempre sottovalutato e negato le sue radici razziste. Interessante (e assai polemico) è il fatto che lo stesso Pelé abbia sempre trascurato il tema, fino a negare il problema. 

È stato accusato lui stesso di pregiudizio, per parlarne poco, tessere relazioni solo con donne bianche (e preferibilmente bionde), fino alle recenti battute sui casi di razzismo in campo: «Se avessero dovuto sospendere le partite ogni volta che mi chiamavano scimmia, non ne avrei finita una». E quando il difensore del Barcellona Daniel Alves fece il gesto clamoroso di sbucciare una banana lanciatagli dalla tribuna, il Re tagliò corto: «Un gesto inutile, se n’è parlato appena per un giorno».

Per Edson Arantes do Nascimento, il mineiro di Tres Coraçoes, capitale del caffè, poi cresciuto a Santos, l’eternità di Pelé era una cosa ovvia e già liquidata a 29 anni, nelle pompose cerimonie nazionali per il millesimo gol (1969), e prima ancora di conquistare il terzo titolo mondiale (1970) umiliando l’Italia in finale. Il più grande del mondo viene allora cooptato dal regime militare brasiliano come simbolo di potenza nazionale. 

Lui non si oppone, al contrario. Dice che in Brasile non esiste alcuna dittatura, «è un paese felice» e comunque meglio così «perché i brasiliani non sanno votare». «Io ho fatto il servizio militare nel mio paese e ne sono fiero», risponde a chi gli chiede un parere sulla vicenda di Cassius Clay, che vide interrotta la sua carriera per le sue posizioni contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta. 

Elogiato per non aver mai voluto lasciare il Santos e il Brasile nell’auge della carriera, spiazza tutti con l’operazione Cosmos nel 1975, quando viene ricoperto di denaro per lanciare il calcio negli Stati Uniti, mentre già da anni si rifiutava di giocare per la Seleção. Venne perdonato: al calcio nazionale Pelé aveva già dato tutto, tre titoli mondiali, la coppa Rimet definitiva, il primato assoluto nel mondo. «Se volessi, potrei ancora giocare, e anche piuttosto bene», disse ancora nel 1986.

La vita personale di Pelé è stata tutt’altro che esemplare. Una figlia che non ha voluto riconoscere, un altro che tuttora entra e esce di galera, altri episodi che mostrano distacco regale dagli affetti privati per non disturbare il mito, diventato nel frattempo una poderosa macchina per far soldi.

Per quarant'anni “O Rei” Pelé ha prestato il suo volto a qualunque prodotto in Brasile, dal caffè alle dentiere passando per il viagra («ma io non ne ho mai avuto bisogno»), forte alla fine dell'immagine costruita fuori dal campo. Esempio, sosteneva, di come comportarsi da numeri uno. 

In un mondo di fuoriclasse finiti per buttarsi via (dal compagno di trionfi Garrincha all’eterno rivale Maradona), Pelé ha celebrato ogni giorno il proprio successo personale ritagliato sulla perfezione dello stile di vita. Sano, moderato, senza vizi e senza eccessi, saldamente istituzionale, amico del potere costituito, lontano dagli estremismi. Tutte le sue polemiche, e non sono poche, vengono riservate a singoli personaggi nel mondo del calcio, mai troppo potenti. Celebri quelle con Romario, autore a sua volta della migliore battuta sul rivale: «Pelé? Con la bocca chiusa è un poeta». Quando non è al centro della scena preferisce defilarsi.

A Pelé, lungo mezzo secolo, vengono chieste interviste e opinioni su tutto quel che riguarda il calcio mondiale. Diventa noto per sbagliare quasi tutti i pronostici. Una volta un giornalista argentino lo sfida a palleggiare con una arancia, cosa che “l’altro”, inteso come Maradona, aveva già dimostrato di saper fare. Rifiuta, ovviamente. Così come non prende mai in considerazione l'idea di diventare tecnico di club o della sua Seleção. 

È invece ministro dello Sport per tre anni nel governo Collor, il primo dopo il ritorno della democrazia, e mette il nome su una buona legge che svincola i calciatori. Ma non c'è alcuna attività che offusca la sua unica vera professione: quella di essere Pelé.

È solo in vecchiaia, ingiustamente colpito da acciacchi proprio su quelle gambe magiche, che il monarca torna uomo. Lui che può disporre dei migliori medici del Brasile, ne trova uno che sbaglia una delicata operazione al femore, ed è l’inizio del calvario. Passa gli ultimi anni praticamente in sedia a rotelle, all’inizio si nasconde, dice sempre più spesso no a inviti e cerimonie varie, poi si arrende. E sono commoventi le immagini dell’ultimo documentario sulla sua vita (ce ne sono a decine) uscito lo scorso anno su Netflix. 

Da disabile, incontra i vecchi compagni di squadra nella sede del Santos arrivando spinto da un infermiere, e resta seduto poi lungo tutta l’intervista. Ammette che qualche parola in più contro la dittatura e il razzismo strutturale del suo paese avrebbe pur potuto dirla. Anche il tumore che alla fine lo ucciderà è pubblico sin dall'inizio, e gli andirivieni dall'ospedale titolo per qualunque tg sulla faccia della Terra. Vissuto da mito, il vecchio Edson morirà finalmente da uomo.

Pelé: "Mamma, grato d'essere tuo figlio". Così Edson a novembre quando la madre ha compiuto 100 anni. Il corteo funebre passerà da lei. Paolo Manzo il 31 Dicembre 2022 su Il Giornale.

San Paolo. Celeste Arantes do Nascimento potrà rivedere suo figlio, Edson (lei lo ha sempre chiamato così) martedì 3 gennaio, quando il corteo funebre farà una breve sosta sotto casa sua prima della sepoltura nel Memorial Necrópole Ecumênica, un grattacielo di 108 metri nonché il cimitero più alto del mondo secondo il libro dei Guinness. La mamma di Pelé ha compiuto cento anni lo scorso 20 novembre, proprio nel giorno di apertura della Coppa del Mondo ed è stata sempre un punto di riferimento per lui. Poco prima di essere ricoverato in ospedale O Rei, che alla famiglia lascerà un patrimonio stimato di 100 milioni di euro, aveva pubblicato su Instagram un post per celebrare il centenario di Dona Celeste. «Sin da bambino mi hai insegnato il valore dell'amore e della pace. Ho più di cento motivi per essere grato di essere tuo figlio. Grazie per ogni giorno al tuo fianco, mamma», aveva scritto Pelé. Celeste oggi vive a Santos insieme alla figlia Maria Lúcia che si prende cura di lei, l'unica rimasta dei suoi fratelli visto che, prima di Pelé, era morto nel 2020 a 77 anni anche l'altro suo figlio, Zoca.

Nata poverissima a Três Corações, nel Minas Gerais, nel 1923, la madre di Celeste morì dando alla luce il suo decimo figlio, e fu così allevata dalla sorella maggiore, che era molto severa. Il più grande divertimento della futura mamma di Pelé da bambina era suonare il campanello a casa dei vicini per poi scappare a gambe levate. Da adolescente amava passeggiare nella piazza principale di Três Corações e guardare i matinée al cinema la domenica con la sua amica del cuore Maria de Lourdes, che poi sarebbe diventata la madrina di Pelé. Aveva 16 anni quando, il 29 luglio 1939, si sposò con il 26enne Dondinho, il futuro padre di Edson. La coppia faceva fatica a mettere insieme il pranzo con la cena. Il padre di Pelé era un calciatore dilettante, fortissimo nel colpo di testa ma per molto tempo non ha guadagnato uno stipendio. Faceva il lattaio ma il primo salario vero iniziò a guadagnarlo quando cominciò a giocare nella squadra del quarto reggimento di cavalleria dell'esercito.

Celeste mise al mondo Edson quando aveva solo 18 anni ma fu sempre presente nell'educazione del figlio. Memorabile l'incontro tra i due l'8 maggio 1966. Quel pomeriggio Pelé stava assistendo da bordo campo all'allenamento della squadra brasiliana che preparava i Mondiali d'Inghilterra nella città di Teresópolis, quando fu sorpreso dalla visita di Celeste, arrivata senza preavviso. La mattina Celeste aveva ricevuto il titolo di "Madre brasiliana dell'anno", promosso all'epoca dalla Globo a Rio, poi era andata a messa all'Orto Botanico ma, soprattutto, quella domenica si celebrava la festa della mamma e lei voleva ad ogni costo fare una sorpresa al figlio. Ci riuscì nonostante prima Dondinho fosse rimasto bloccato nell'ascensore di un hotel per 50 minuti e poi la macchina su cui viaggiavano i due si fosse rotta lungo la strada. Quando Pelé la vide scoppiò in lacrime e corse ad abbracciarla.

Pelè, un alieno che veniva dal futuro: imparagonabile. È stato un calciatore filosofico, l’essenza platonica del calcio che con lui è uscito dalla caverna. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 30 dicembre 2022.

Lasciamo stare i paragoni, le similitudini, gli accostamenti. E soprattutto le puerili graduatorie su chi fosse il “più forte”, in quelle dispute tra supereroi che ci fanno sentire eterni bambini, chi vincerebbe in uno scontro tra Hulk e Iron Man, e tra Superman e Thor?

Pelè è semplicemente imparagonabile a chiunque altro, forse perché non veniva da questo mondo, da questo sistema solare o, forse ancora, non veniva neanche dal suo tempo ma dal futuro: basta guardare le immagini di lui che sfreccia sul campo circondato dai “normali”, sembrano un trucco di computer grafica, con questa freccia che va più veloce di tutti, con la palla sempre incollata ai piedi quasi vittima di un sortilegio.

È piombato sulla terra in un giorno di ottobre del 1940 quasi un messo degli dei del calcio, a sua volta un semidio a cominciare da quel nome che non è un nome ma un grido ancestrale, “Pelè” che per decenni ha schioccato sulla lingua di milioni di ragazzini estasiati nei campetti di periferia: «E chi sei, meglio di Pelè?» si diceva un tempo a quelli bravi col pallone. Se per la fisica c’era Albert Einstein, per la musica Mozart, per il calcio c’era, lui, Pelé.

Tirava fuori cose che nessun altro aveva mai visto su un campo di gioco, il controllo orientato, il colpo di tacco col dribbling a seguire, il doppio passo, i tunnel, il sombrero (con cui a 18 anni segna un memorabile gol in finale di coppa del mondo), la rovesciata a bicicletta, il colpo di testa in sovraelevazione, il cosiddetto tiro a giro, gli assist con gli occhi “dietro la nuca”.

Fino alla sua apparizione il calcio era un altra cosa, più vicina al podismo con i suoi picchi di arte sparsi qua e là, piccole eresie che non modificavano il corso ordinario del pallone. Poi è cambiato tutto, altro che trasformazione graduale c’è stata una rottura improvvisa, una rivoluzione, incarnata da un solo uomo.

È vero, non ha mai giocato nei club europei, come dicono i pinocchietti, non si è mai confrontato con il calcio “che conta”, ma è una sciocchezza visto che negli anni sessanta e settanta le nazionali erano molto più competitive dei club (a lungo privi di stranieri) e il divario di velocità tra europei e sudamericani era ridotto. Che i suoi oltre mille gol realizzati in carriera non sono tutti documentati e altri luoghi comuni. Ma in fondo cosa contano i titoli, i numeri, il palmares, le statistiche quando stai parlando di qualcuno che viene da un altro universo?

Pelè non è un calciatore letterario, ma filosofico, è l’idea platonica del calcio che esce dalla caverna e illumina il nostro intelletto. “È” il calcio con il quale ha un rapporto di immanenza. Tutto il contrario di Maradona, attraverso il quale il calcio diviene una metafora potente della vita, un grumo di genialità e passioni, di riscatto e di orgoglio, un romanzo di formazione in cui il protagonista si perde nel labirinto delle scelte e sbagliate e degli errori, un antieroe tipicamente novecentesco stritolato dalla “società” ma nel suo rovescio virtuoso anche un acclamato eroe del popolo.

Logico che Diego piaccia di più agli scrittori e agli artisti che la sua umanità e la sua vita imperfetta ci facciano battere il cuore più forte.

Fuori dal campo Edson Arantes do Nascimiento non ha infatti compiuto nulla di memorabile, ambasciatore ingessato nel piatto mainstream comunicativo della Fifa non ha mai avuto guizzi, non ha espresso pensieri forti, rimanendo grigio e consensuale, poco più di una decorazione. Fuori dal terreno era un Clark Kent come tanti, forse come tutti noi, ma lì in mezzo al campo la luce delle sue impossibili acrobazie eseguite con eleganza aristocratica sfidando le equazioni della fisica e poi cambiandole per sempre era semplicemente sua maestà il calcio.

(ANSA il 30 dicembre 2022) Maradona è meglio di Pelé. Lo cantavano i napoletani allo stadio e ne sono convinti da tempo anche gli argentini, che adesso discutono invece se il titolo di miglior giocatore della storia del calcio spetta a Diego o a Lionel Messi, che ha portato a casa "la tercera". Nella terra del tango 'O Rei' non è mai stato in lizza per lo scettro, tanto che uno dei canali di notizie argentini noto per il suo stile "trash" e i suoi titoli irriverenti - Cronica TV - ha scritto ieri: "Adios Pelé, è morto il terzo miglior giocatore della storia".

Maurizio De Giovanni per “la Stampa” il 30 dicembre 2022.

Ce ne saranno di più forti, vedrete. Sarà inevitabile, man mano che cambieranno schemi di gioco e metodologie di allenamento, e gli statistici misureranno tutto il misurabile, scomponendo ogni gesto tecnico in algoritmi e smantellando la fantasia in processi neurologici e collegamenti sinaptici. 

Ce ne saranno di più forti, man mano che la cultura fisica e l'alimentazione ipercontrollata produrranno performances esaltanti, e il calciatore robot percorrerà i cento metri del campo palla al piede in meno di dieci secondi netti, e lo studio sui materiali produrrà scarpe e palloni in grado di mantenere una traiettoria precalcolata per trentadue virgola sette metri, andando a infilarsi esattamente all'incrocio dei pali. Ce ne saranno di più forti, e compiranno gesta mirabili immortalate da settantaquattro telecamere e certificate dal VAR, al suono delle voci esaltate di telecronisti sensazionalisti dalle mirabolanti, disarticolate urla di giubilo. 

Ce ne saranno di più forti, e saranno pettinati e tatuati e brillantinati e orecchinati e griffati e bellissimi a vedersi, immersi in prodotti sponsorizzati e circondati da un'aura di vaga antipatia, arroganti e sprezzanti, circondati da auto costruite apposta per loro, e saranno seguiti da stuoli di agenti, procuratori, curatori d'immagine e psicoterapeuti, allenati da preparatori personali. 

Ce ne saranno di più forti, e incontreranno raramente i compagni che avranno l'unico malinconico ruolo comprimario di superare questo problema del calcio: essere purtroppo uno sport di squadra e aver quindi bisogno anche di altri dieci, o nove, o otto o sette figuranti che consentano a loro, i più forti, di fare la loro porca figura, scintillando come comete nel cielo di Natale. 

Sì, probabilmente ce ne saranno di più forti. Eppure chi, come chi scrive e come tutti voi che leggete, c'era sa bene che il cuore saltava un battito e che nessun fotogramma o filmato in 4k e nessuna alta definizione potrà mai valere quanto il racconto commosso, e rigorosamente orale, delle gesta di quei due che hanno portato uno sport come gli altri a diventare il Calcio, quella cosa che ti costringe a restare a occhi, orecchie, bocca e cuori spalancati a ricevere emozioni, come nient' altro e nessun altro spettacolo riesce a fare.

Raccontava che si dipingeva i piedi di nero, per fingere le scarpette che non poteva avere.

Che metteva della carta in un vecchio calzino, per fingere il pallone che non poteva avere. Che immaginava le linee attraverso le mura, per fingere il campo che non poteva avere.

E l'altro, dello stesso continente e di un paese rivale, anni dopo avrebbe finto di essere più grande e più alto, e avrebbe giurato da bambino che sarebbe salito sul tetto del mondo, lui che a stento ce l'aveva sulla testa un tetto, ed era di lamiera che bolliva al sole. 

Tutt'e due, il brasiliano e l'argentino, dal sud del mondo e da periferie senza un centro, tra cento e mille bambini con lo stesso sogno, tutt' e due fino in cima, per un calcio che diventava Calcio e che risuonava di parole senza immagini che diventavano leggenda.

Perché, sapete, tutti noi che oggi piangiamo la fine di un tempo, la conclusione di un'epoca, siamo consapevoli di averne fatto parte. Di essere stati in volo e in sospensione per colpire di testa, vincendo un mondiale non contro avversari ma contro il diventare vecchi. Siamo certi che entrambi, il brasiliano e l'argentino, hanno vissuto una parentesi all'interno di un sogno e che il sogno eravamo noi. 

È questo che ne scolpisce la grandezza, è questa l'unicità che nessun Ronaldo e nessun Messi, nessun Mbappè e nessun Pincopallo che calcherà i terreni semisintetici di ultima generazione potrà mai replicare. Perché, vedete, nessun video tridimensionale avrà mai lo spessore di un sogno. Dice che Pelè, ci raccontavamo alle elementari, ha segnato con una rovesciata da metà campo.

Dice che Maradona ha dribblato tutti e undici gli avversari, e pure un paio di compagni, ci confidavamo nei cortili delle ricreazioni. Dice che Pelè ha segnato palleggiando e senza far toccare terra al pallone per quaranta metri. Dice che Maradona ha fatto due gol di rabona nella stessa partita. Non conta niente la verità, sapete. Conta quello che serve al cuore per volare. Che è poi l'unico motivo per cui oggi piangiamo la fine del nostro tempo, dell'epoca dolcissima dei nostri sogni. Perché ieri, con quel re brasiliano, ha chiuso definitivamente gli occhi una parte del nostro cuore che aveva le ali.

Da gazzetta.it il 30 dicembre 2022. 

"Mio grande amico, grazie per questo viaggio. Un giorno in paradiso giocheremo nella stessa squadra. E sarà la prima volta che in campo alzerò il mio pugno al cielo senza festeggiare un gol. Lo farò perché finalmente ti avrò riabbracciato". Così appena due anni fa Pelé, scomparso oggi, rendeva l'ultimo omaggio sui social a Diego Armando Maradona.

Era il 2 agosto del 1959 e il Santos di un Pelé ancora 18enne, ma già apprezzato per le sue immense doti, affrontava l’Esporte Clube Juventude allo stadio Rua Javari in una partita del campionato paulista. Il Santos vinse 4-0. E quella partita sarebbe stata a lungo ricordata per quello che molti considerano il gol più bello della storia del calcio. Una prodezza che nessuno, a parte gli spettatori presenti, ha mai potuto vedere perché non fu registrata dalle telecamere. Ma adesso quel gol è stato ricostruito al computer.

Pelé, il gol mai visto

Il Pibe de Oro è infatti l'altra grande stella del calcio mondiale, protagonista di un annoso dualismo proprio con O Rei (ingigantito anche dal "derby" sudamericano tra Brasile e Argentina) che però ha sempre rifiutato la sfida, stimando Maradona e, in qualche modo, volendogli bene come testimoniava il lungo post su Instagram corredato da una foto dei due campionissimi abbracciati. 

"Oggi sono sette giorni da quando te ne sei andato - scriveva Pelé - In molti hanno provato a fare un paragone fra le nostre vite. Tu sei stato un genio che ha incantato il mondo. Un mago con il pallone fra i piedi. Una vera leggenda. Ma più di tutto questo, per me, sarai sempre un grande amico, con un cuore ancora più grande. 

Oggi, sono sicuro che il mondo sarebbe sicuramente un posto migliore se smettessimo di fare paragoni e cominciassimo ad ammirarci di più. Per questo motivo voglio dire che sei incomparabile". E ancora: "La tua traiettoria è stata segnata dall'onestà. E nel tuo stile unico e particolare, ci hai insegnato ad amare e a dire più spesso 'Ti Amo'. La tua rapida partenza non mi ha permesso di dirtelo, quindi scriverò: ti voglio bene Diego".

(ANSA-AFP il 30 dicembre 2022) - Il presidente brasiliano Jair Bolsonaro ha decretato tre giorni di lutto per la morte del leggendario calciatore Pelé, in un decreto pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. "Viene decretato il lutto ufficiale in tutto il Paese, segno di rispetto dopo la morte di Edson Arantes do Nascimento", si legge nella misura.

Da Messi a Ronaldo, da Biden a Putin: Pelé unisce tutti. Polemiche per i tweet dall’Argentina. Pierfrancesco Catucci su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2022.

Lunedì la veglia funebre nello stadio del Santos, martedì il corteo per la città e il funerale in forma privata. Tutto il calcio italiano osserverà un minuto di silenzio

Lo avrebbe celebrato a dovere anche Diego Armando Maradona, se fosse stato ancora tra noi. Tra geni, d’altronde, una volta messe da parte le vecchie ruggini, non si può che andare d’accordo: si parla la stessa lingua, quella che in pochi altri riescono anche solo a comprendere. La morte di Pelé ha scosso tutto il mondo, ma soprattutto il Brasile, dove ha suscitato «un’emozione profonda», per usare le parole del presidente uscente Bolsonaro che ha decretato tre giorni di lutto nazionale (a Rio il Cristo Redentore è stato illuminato con i colori della bandiera verdeoro. Poi, lunedì la veglia funebre nello stadio Urbano Caldeira del Santos nei pressi di San Paolo, «lì dove Pelé ha incantato il mondo» (hanno scritto dal club) che precederà i funerali in programma martedì, quando il feretro sarà portato in corteo per le vie della città, prima della cerimonia religiosa celebrata in forma privata e la sepoltura. Tutto il calcio italiano (dalla serie A in giù, finanche alle amichevoli) osserverà un minuto di silenzio in sua memoria prima delle partite che si disputeranno fino al 4 gennaio.

E se in tanti continuano a interrogarsi se sia stato più forte Pelé o Maradona (il compianto Mario Sconcerti non ha dubbi sul fatto che esista un prima e un dopo Pelé), da ogni latitudine sono arrivati messaggi di cordoglio. Hanno scritto i compagni, avversari e campioni di ieri e oggi (Bonimba Boninsegna l’ha ricordato in un’intervista al Corriere), da José Altafini (che ha esordito con lui in Nazionale) a Gianni Rivera, fino a Messi (con cui Pelé si era congratulato per la vittoria del Mondiale), Mbappé (suo pupillo), Cristiano Ronaldo e Ronaldo il Fenomeno (che, in un bel ricordo sulle pagine della Gazzetta dello Sport, ha detto che «il vero Fenomeno era Pelé»).

IL RICORDO

Sconcerti racconta Pelé: patrimonio del calcio e dell’umanità, è lui il migliore di sempre

Ma anche i potenti del mondo hanno scritto all’unisono. Hanno scritto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden («Per uno sport che unisce il mondo come nessun altro, l’ascesa di Pelé da umili origini a leggenda del calcio è una storia di ciò che è possibile»), ma anche l’omologo russo Vladimir Putin («Grazie al suo talento, abilità uniche, gioco bello e affascinante, il calcio è diventato lo sport preferito da milioni di persone in tutto il mondo, Russia inclusa. Ho avuto la fortuna di comunicare personalmente con questa persona meravigliosa e conserverò per sempre i ricordi più luminosi di lui»).

E addirittura la Nasa gli ha reso omaggio diffondendo su tutti i propri account social l’immagine di una galassia a spirale (che si trova nella costellazione dello Scultore) che mostra i colori del Brasile.

E poi ci sono gli argentini di Cronica Tv che — in maniera decisamente poco elegante, ma coerente con il solito stile «trash» — hanno scritto: «Adios Pelé, è morto il terzo miglior giocatore della storia». E le polemiche sono arrivate anche per il tweet con cui la federcalcio argentina ha espresso il proprio cordoglio per la scomparsa di Pelé. «Profondo dolore — si legge nel messaggio —.

La Afa, attraverso il suo Presidente Claudio Tapia piange la scomparsa del leggendario calciatore brasiliano Pelé, uno dei migliori giocatori della storia, e invia il suo più sentito abbraccio ai suoi familiari e a tutto il Brasile». A provocare polemiche la definizione «uno dei migliori» e non il migliore della storia, da parte della Federazione di Maradona, Di Stefano e Messi. Perché nessuno riuscirà mai a rispondere alla fatidica domanda che già si facevano a Napoli: «Ma Maradona è meglio ‘e Pelé?». 

Maradona-Pelé, una rivalità diventata amicizia. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 30 Dicembre 2022.

Si sono odiati a lungo Diego Armando Maradona e Pelé, non si risparmiavano frecciate. Poi, però, la grande rivalità si è trasformata in un legame vero

Nell’immagine postata ieri sera sui profili social del Napoli si vedono Pelé e Diego Armando Maradona, mano nella mano, di spalle, che camminano sulle nuvole. Perché a loro, quel grande dibattito su chi fosse il più grande di tutti i tempi interessava il giusto. La loro era stata una grande rivalità, diventata poi una altrettanto grande amicizia. È la trama del rapporto tra i due più grandi calciatori di sempre. Da una parte O Rei, unico calciatore nella storia a vincere tre Mondiali (Svezia ’58, Cile ’62 e Messico ’70) scomparso all’età di 82 anni giovedì 29 dicembre, dall’altra El Pibe de Oro, deceduto a 60 anni il 25 novembre 2020.

«Che notizia triste. Io ho perso un grande amico e il mondo una leggenda. Un giorno, spero che potremo giocare insieme a pallone nel cielo», furono le parole di Pelé, appresa la notizia della morte del Pibe de Oro. I due si erano tanto odiati e c’era chi, forse, in quella rivalità ci sguazzava. Con il tempo, però, si sono riavvicinati e i confini di quella inimicizia si sono ristretti. Anzi, annullati. Non è stato facile per entrambi sopravvivere per decenni alla famosa domanda di chi fosse meglio tra i due. Nel frattempo, il mondo del calcio aveva visto Eusebio (contemporaneo di O Rei), Cruijff, Platini, Van Basten, Baggio, Ronaldo il Fenomeno, Messi, Cristiano Ronaldo, Neymar e Mbappé. Giusto per citare solo i fenomeni dei reparti offensivi. Ma, appunto, la domanda era solo una: «Chi è stato il migliore tra Pelé e Maradona?».

Eppure Pelé un giorno spiazzò tutti: «Discutono tutti di me e Diego, ma il più grande di tutti a mio parere è stato Di Stefano». Intanto, lui chiudeva la sua stellare carriera nei Cosmos di New York quando in pratica Maradona cominciava la sua. Due caratteri diversi: uno tranquillo, uno rivoluzionario. Ma anche Pelé sapeva trasgredire. Lui stesso confessò di aver avuto il primo rapporto sessuale con un travestito. Sta di fatto, che per decenni entrambi si sono lanciati frecciate pesanti: «L’unico gol di testa importante di Maradona è stato di mano», disse O Rei riferendosi alla sfida tra Argentina e Inghilterra a Messico ’86. Oppure: «I suoi trofei li ha vinti da drogato. Non è un esempio per i giovani, nonostante la sua vita sregolata trova ancora gente che gli dà un lavoro». Il più tenue di Maradona: «Come giocatore è stato il massimo, ma non ne ha saputo approfittare per far progredire il calcio. Lui pensava politicamente, pensava di diventare il presidente dei brasiliani». E ancora: «Avrei voluto che si occupasse di Garrincha e non lo lasciasse morire nell’indigenza».

Passano gli anni e i due, però, si avvicinano e diventano amici. Il primo passo è dell’ex attaccante del Napoli ai sorteggi per il Mondiale di Russia 2018. Il Pibe stampa un bacio sulla fronte di Pelé. E l’anno successivo, quando il brasiliano viene dimesso dall’ospedale, dove era stato ricoverato per un’infezione delle vie urinarie, Maradona posta su Facebook una foto di tanto tempo prima con lui sorridente e Pelé con in mano la chitarra. E Pelé: «Non avevamo un’amicizia intima, ma quando ci incontravamo scherzavamo l’uno con l’altro. Lui diceva di essere migliore di me. Ma io gli ricordavo che segnavo di testa, di destro e di sinistro, lui solo di sinistro. Scherzavamo molto su questa rivalità ma la verità è che di fronte a Dio siamo tutti uguali».

"Pelè il migliore di tutti i tempi. Leo numero uno oggi, Mbappé..." Intervista a Josè Altafini, campione del mondo col Brasile di "O Rei" nel 1958: "Il francese super, ma che sfortuna..." Nino Materi il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Se sfreghi la Lampada del Calcio viene fuori un Genio che è la copia esatta di José Altafini: anzi no, è proprio lui. I giovani di oggi non possono apprezzare a pieno i fuoriclasse contemporanei come Messi o Mbappé se non hanno ammirato, almeno una volta, le imprese vintage di José; i «giovani» di ieri non ne hanno invece bisogno, perché sanno bene chi è Altafini, alias «Mazzola» (per la somiglianza al grande Valentino). Ridurre questo 84enne - ancora oggi dalla simpatia che prende alla gola e rischia di farti strozzare dal ridere - al riassuntino Wikipedia è oltraggioso: «Ex calciatore brasiliano naturalizzato italiano, di ruolo attaccante. Ha fatto parte della nazionale verdeoro, con cui si è laureato campione del mondo nel 1958 e, dal 1961, di quella italiana». Macché, José è una filosofia di vita.

Lo raggiungiamo al telefono mentre guida in autostrada. Ma a mettere le cinture di sicurezza siamo noi. Che rischiamo di essere investiti dalla velocità delle sue risposte.

José, posso farti qualche domanda?

«Cos`è, stai preparando il mio coccodrillo? Guarda che ho 84 anni, ma sto benissimo».

No, no... niente coccodrillo. Vogliamo solo sapere se ieri hai visto la finale dei Mondiali.

«Ma sei scemo? Certo che l`ho vista».

E come ti è sembrata?

«Stupenda».

L`Argentina ha trionfato meritatamente?

«Sì. E sono contento per Messi».

Hai tifato per l`Albiceleste?

«Impossibile che un brasiliano tifi Argentina».

Mbappé ha preso solo il trofeo come il miglior goleador.

«Sfortunato. Mai successo che chi fa tre gol in finale poi non sollevasse la Coppa d`oro».

Come quella che conquistasti tu nel `58.

«Altra epoca. Confronto improponibile».

Con te ai Mondiali in Svezia c`era un giovanissimo Pelè.

«Non aveva ancora 18 anni»

Messi, Maradona e Pelé. Il migliore?

«Non ho dubbi: Pelé. Messi è però oggi il numero uno, l`erede indiscusso di Maradona».

Messi è stato paragonato da un «analista» italiano, specializzato in iperbole, a «Gesù».

«Lasciamo stare Gesù. Io, ad esempio, parlo ogni giorno con il mio angelo custode. Ma non discutiamo mai di football. E comunque non mi piacciono i commentatori che vogliono insegnare il calcio ai calciatori».

Anche tu sei stato un telecronista spettacolare, anzi il papà di tutti i commentatori showman.

«Ideavo tormentoni lessicali. Allegria, brio. Ma non facevo il ct. Pur avendo una certa pratica di calcio».

Altro che una «certa pratica». Hai fatto 85 gol nel Palmeiras, 120 nel Milan, 71 nel Napoli, 25 nella Juve, 9 tra nazionale carioca e italiana.

«Vengo da una famiglia poverissima. Ho sempre mangiato solo pane e gol».

Per questo ti sei arrabbiato quando nel film dedicato a Pelé ti hanno raffigurato come un ragazzino ricco la cui famiglia aveva come governante la mamma del piccolo «O Rei».

«Una balla enorme».

Il grosso della tua carriera si è svolta in Italia nel triangolo Milano, Napoli, Torino. È vero che l`allenatore del Milan, Gipo Viani, ti appioppò il soprannome di «coniglio» perché una sera ti beccò in discoteca e tu ti nascondesti dietro un divanetto?

«Altra balla stratosferica. Viani era uno che scaricava sugli altri le sue responsabilità. Io "coniglio"? Non ho mai giocato una partita indossando i parastinchi. Mai tirato indietro la gamba».

Col Nereo Rocco sulla panchina rossonera andò poi meglio

«Il "Paron", persona leale».

A Napoli col mister Bruno Pesaola fu uno spasso.

«Col "Petisso" ci allenavamo divertendoci».

Natale è alle porte, sfodera il tuo slogan per le grandi occasioni.

«Incredibile amici!».

Un augurio per un amico speciale?

«Pelé, ti voglio bene. Guarisci presto. Un abbraccio da tuo fratello José».

Estratto dell’articolo di Cristiano Gatti per altropensiero.net il 20 dicembre 2022.

(…) Messi è meglio di Maradona. Lo pensavo già prima di questo Mondiale, questo Mondiale non cambia nulla, caso mai aggiunge qualcosa senza alterare la classifica. Né tanto meno ho bisogno del patetico melodramma di Adani, peraltro un difensore che la sparava di stinco al terzo anello, per comprendere e apprezzare il capolavoro: Adani, caso mai, ti porterebbe d’istinto a odiarlo, il povero Messi. Ma chiaramente non possiamo prendercela con Messi se il suo cantore italiano è diventato Adani. Pelé e Maradona avevano Brera e Mura, a Messi è rimasto il fondo di magazzino.

Pelè, l'ultima vergogna della sinistra: "Non ha fatto nulla per i neri". Daniele Dell'Orco su su Libero Quotidiano il 31 dicembre 2022

Nelle mille vite che ha vissuto, O Rei Pelé, dotato di un cervello superiore oltre che di un talento leggendario, si è cimentato in diversi ambiti, si è confrontato con i leader politici e le massime autorità planetarie, ha lottato per l'educazione dei giovani contro l'uso di sostanze stupefacenti, contro la povertà e contro le discriminazioni razziali e sessuali. Ma a quanto pare non abbastanza. Giacché nessuno, nemmeno Gesù il Nazareno è mai stato simpatico a tutti né esente da giudizi morali mossi da chissà chi, nei momenti successivi alla scomparsa di Pelé c'è chi, coerentemente ai tempi di disumanità ideologica in cui viviamo, ha provveduto a ricordare che la leggenda brasiliana è stata più volte in vita accusata di non essersi battuta troppo per la lotta contro il razzismo. Sui social e non solo, è stato rispolverato il j' accuse che l'ex calciatore francese Lilian Thuram mosse proprio a Pelé nel 2021 al Festival dello sport di Trento. «Pelé non ha mai detto molto contro il razzismo, quando sei a certi livelli devi prendere la parola per aiutare chi è in difficoltà». E, elogiato Maradona («ha sempre detto no al potere») Thuram mosse un altro affondo implicito contro O Rei, che con alcuni discussi leader politici ha avuto un rapporto profondissimo.

ETICHETTE

Un aspetto ricordato ieri l'altro da Le Monde. Pelé è stato ministro dello Sport dal 1995 al 1999 e una volta ha persino sperato di diventare presidente del Brasile. Il suo Ministero per inciso si impegnò molto nella lotta contro la corruzione che affolla il calcio brasiliano. Ma evidentemente sono aspetti meno importanti da considerare per chi vorrebbe cucirgli addosso le etichette di bigotto conservatore, passivo, freddo e con le amicizie sbagliate. La principale critica riguarda il periodo in cui il generale Emilio Garrastazu Médici salì al potere nel 1969, intensificò la repressione in un Brasile in cui le libertà erano sospese e la tortura degli oppositori era diffusa. Per nascondere i suoi crimini, si servì molto della vittoria nella Coppa del Mondo in Messico nel 1970. Pelé, a quasi 30 anni, era al top della sua carriera ed era ormai un Dio. Médici mise il re del calcio sui suoi manifesti di propaganda insieme a slogan patriottici («Brasile, o lo ami o lo lasci», «Nessuno può trattenere questo Paese»). Pelé non protestò e venne in automatico accusato di essere il volto sorridente di una dittatura. Tornato in patria dopo la vittoria contro l'Italia, si recò immediatamente a Brasilia, per tenere in mano la Coppa Rimet accanto a Médici.

Chi lo critica dimentica che Pelè subì l'ira del regime per il suo rifiuto di partecipare alla Coppa del Mondo del 1974 e che, nella sua vita, aprì le porte per un confronto con tutti i governanti, democratici e dittatori, di destra ma anche di sinistra. Tra questi, il fondatore di Brasilia, Juscelino Kubitschek, il sostenitore dei lavoratori Joao Goulart o, più tardi, Lula. E sulla lotta al razzismo? Il "modello Pelé", che lo ha subito in prima persona per una vita intera, non piace perché troppo raffinato e troppo poco volgare. INCOERENTI Alle manifestazioni di dissenso incoerenti e straccione come quelle dei calciatori superstar in ginocchio per il Black Lives Matter, ha preferito anzitutto parlare sempre di razzismo in senso ampio (disse a Uol Esporte nel 2015: «In Brasile abbiamo il razzismo contro i neri, contro i giapponesi, contro gli obesi etc.») e poi invocare esempi come quello di Dani Alves, che raccolse e mangiò una banana lanciatagli in campo dai tifosi del Villareal nel 2014. «I razzisti sono banditi, vanno ignorati». Esattamente come chi vorrebbe dargli lezioni.

Il Brasile si prepara a svelare gli ultimi segreti di Pelè. Vigili del fuoco e un battaglione d'assalto scorteranno la bara. Matteo Pinci su La Repubblica l’1 gennaio 2023

SAN PAOLO - Ci sarà anche Lula a dire addio a Pelé. Tra poche ore, nel primo giorno del 2023, il nuovo presidente firmerà l’incarico e parlerà sia al Congresso, sia al Palazzo do Planalto. Ma il giorno dopo parteciperà alla veglia per il mito, nello stadio Vila Belmiro: la notizia non è ancora ufficiale, ma al Santos hanno avuto informazioni dirette dai fedelissimi del nuovo presidente, che ha rassicurato sulla propria presenza per omaggiare il mito del calcio non solo brasiliano, ma mondiale. Neanche San Paolo ha voluto rinunciare a ciò a cui teneva, nonostante il lutto. I fuochi d’artificio illuminano nella notte di Capodanno la Avenida Paulista che, fino a qualche ora prima, aveva accompagnato la annuale “Corrida de Sao Silvestro”, una corsa cittadina con migliaia di partecipanti. San Paolo ha ripreso a respirare. 

I misteri di Pelé: l’armadietto e la 10 da ritirare

Ma in città il mito sta già lasciando spazio a stori leggendarie. E a misteri. In queste ore, è nata la leggenda dell’armadietto dello stadio Vila Belmiro. Un armadietto chiuso addirittura dal 1974. Era quello che usava Pelé, che dopo la sua ultima partita mise lì dentro degli oggetti per poi chiuderlo e portarsi via la chiave. Un armadietto che nonostante i restauri è stato dipinto, colorato, forse anche spostato. Ma non è mai più stato aperto. Ora il Santos sta pensando di trasformare in una cerimonia l’apertura per scoprire cosa ci sia all’interno: nemmeno durante i tanti restauri, questa la vulgata ufficiale, è mai stato permesso a nessuno di scoprirne il contenuto che Pelé aveva lasciato custodito lì dentro.

Sempre il Santos, ha cambiato in poche ore più volte versione sulla maglia numero dieci. Familiari di O Rey avrebbero voluto che la casacca del club più prestigiosa fosse ritirata perché nessuno potesse più indossarla. La società, inizialmente, aveva preso tempo pensando di sospenderne l'utilizzo per tutto il 2023. Poi ha cambiato idea. "Non sarà mai ritirata", questa la decisione definitiva. Perché, ha spiegato il presidente del Santos Andrés Rueda, nel 2017 in un’intervista, Pelé stesso disse che non avrebbe voluto, perché ogni giocatore del Santos col numero dieci sulle spalle avrebbe richiamato alla memoria le sue gesta. Mistero risolto.

Il viaggio del feretro con vigili del fuoco e battaglione d’assalto

Molto più pragmatici i pensieri del governatorato di San Paolo. Mentre il corpo riposa ancora all’ospedale israelitico Albert Einstein, omaggiato da un messaggio d’amore affisso davanti all’ingresso dai medici e dagli infermieri che lo hanno curato (“Obrigado, Pelé. Toda la equipe medica do Hospital Einstein”), l’amministrazione pubblica lavora per blindare il corteo del feretro. L’ospedale è monitorato da agenti con giubbino antiproiettile a vista e almeno cinque jeep della polizia a darsi il cambio. La bara di Pelé sarà scortata nel suo viaggio vero Santos, località sul mare a sud di San Paolo, da un mezzo dei vigili del fuoco e dal 2° Batalhao de Choque, un corpo d’assalto.

Partenza nelle prime ore di lunedì: la polizia militare e la stradale blinderanno l’Autostrada Imigrantes che collega i due centri urbani. Fino alla cerimonia nello stadio Vila Belmiro, la mitica casa del Santos. La famiglia di O Rey attenderà, dicono, nella casa di Jardins, quartiere bene di San Paolo, non lontana dalla tenuta da 343 metri quadrati e 5,4 milioni di reais, un milione di euro, che il Partido Liberal di Bolsonaro ha acquistato con la propria quota di risorse pubbliche. Tra poche ore sarà tutto diverso: addio Bolsonaro, già rifugiatosi negli States. E addio Pelé.  

Aveva compiuto 100 anni a novembre. Pelé, la madre non sa niente della morte del figlio: “Doña Celeste vive nel suo piccolo mondo”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 31 Dicembre 2022

Si fermerà davanti alla residenza di Doña Celeste, sua madre, il feretro di Pelé, il campione brasiliano scomparso due giorni fa a 82 anni. Il corteo funebre si terrà martedì tre gennaio, dopo i tre giorni di lutto in Brasile indetti dal Presidente Jair Bolsonaro. Celeste ha 100 anni e non sa ancora che suo figlio, all’anagrafe Edson Arantes do Nascimiento se n’è andato, stroncato dalle complicanze del tumore al colon con il quale combatteva da tempo.

Doña Celeste ha compiuto 100 anni lo scorso novembre. Sua figlia, sorella della “Perla Nera”, Maria Lucia, che si prende cura della madre ha spiegato a ESPN che “lei non lo sa. Parliamo, ma lei non lo sa. È nel suo piccolo mondo. A volte capisce, a volte no. Lei apre gli occhi e io le dico: ‘Preghiamo per lui’. Non è cosciente”.

Quando lo scorso 20 novembre la donna aveva compiuto cent’anni il figlio l’aveva celebrata con un post sui social network: “Oggi celebriamo i 100 anni di vita di Doña Celeste. Fin da piccolo mi ha insegnato il valore dell’amore e della pace. Ho più di cento motivi per essere grato di essere tuo figlio. Condivido con voi queste foto, con tanta emozione per celebrare questa giornata. Grazie per ogni giorno al tuo fianco, mamma”.

Celeste aveva sposato Dondinho quando aveva 16 anni e aveva il suo primo figlio a 18. La famiglia viveva nel villaggio di Três Corações, nello stato meridionale del Minas Gerais. Quando il piccolo aveva cinque anni si trasferì a Bauru, una grande città nello Stato di San Paolo. Lì dove Edson avrebbe cominciato a giocare a calcio, dove sarebbe entrato nel Santos. E il resto è storia.

A ESPN la sorella del campione Maria Lucia ha parlato della scomparsa del fratello: “È stato molto difficile. Sappiamo che non siamo eterni, ma mi ha rattristato molto il cuore. Siamo riusciti ad accompagnarlo, lui stesso sentiva che se ne stava andando. Era calmo. Abbiamo parlato un po’, ho visto quello che provava, sapevo che se ne andava. Essendo molto religioso, quando mi ha parlato, mi ha detto che era nelle mani di Dio. Penso che il calcio muoia un po’ insieme a lui. Quello che ha rappresentato, quello che ha vissuto nel mondo del calcio sarà molto difficile da superare”.

È stata intanto posticipata la veglia funebre in onore dell’ex attaccante, campione eterno, a lunedì 2 gennaio. La famiglia ha deciso di rinviare di un giorno la celebrazione per evitare la concomitanza con l’insediamento del Presidente Lula, vincitore delle ultime elezioni, che si terrà domenica 1 gennaio. L’ultimo omaggio si terrà sul campo di Vila Belmiro, lo stadio del Santos. Su una passerella passeranno a rendere omaggio i campioni Ronaldo, Ronaldinho, Cafù, Romario, Falcao e Jairzinho. 

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 31 Dicembre 2022.

«Giocasse oggi, altro che mille gol: ne segnerebbe almeno il doppio». Dino Zoff ha attraversato oltre mezzo secolo di grande calcio, dagli anni Cinquanta al nuovo millennio, prima da portiere e poi da allenatore, ha vinto molto, qualche volta ha perso, ha conosciuto epoche diverse, campioni diversi, stili, moduli, mode. E su Pelé non ha dubbi: «Non era un campione, era un fuoriclasse».

La differenza?

«Nella storia del calcio ci sono stati diversi campioni, ma i fuoriclasse sono pochissimi, come Pelé e Maradona. Diciamo che Diego era un'artista, diverso da Pelè, che era più attaccante, ma entrambi sono primi alla pari in questo dualismo storico, entrambi sono il calcio. Facevano cose che altri non facevano». 

Tipo sopravvivere ai tackle dei terzini vecchio stile.

«Oggi i calciatori sono più tutelati, anche se questa parola non mi piace. Pensate solo ai rigori in più che avrebbe potuto calciare. Eppure, nonostante lo picchiassero per tutta la partita, faceva magie». 

Altafini sostiene fosse bravissimo anche in porta.

«Se lo dice José... Comunque non mi sorprende: Pelé sapeva fare tutto, questa era la sua vera grandezza, la sua vera differenza, anche rispetto ai campioni attuali». 

Non è possibile individuare un erede quindi? Ronaldo il fenomeno? Oppure oggi Mbappé?

«Campioni grandissimi, ma più settoriali. Ognuno di loro eccelle in alcune caratteristiche, ma nessuno ha avuto la completezza di Pelé, che segnava in tutti i modi, di destro, di sinistro, di testa, di forza, di velocità, di astuzia».

Cosa pensa un portiere quando ha di fronte Pelé o Maradona?

«Se pensa, è finita. Non puoi azzardarti a prevedere ciò che possono fare, perché a differenza dei giocatori normali sono imprevedibili, hanno una creatività che è solo loro. Si chiama genio». 

Nella finale persa del 1970 la paura di Pelé fu decisiva? Secondo qualche azzurro che giocò quella partita, sì.

 «Io non credo. Quel giorno perdemmo perché loro erano complessivamente più forti, tutto qui». 

 Ricorda qualche incontro particolare con Pelé?

«Ci siamo incrociati molte volte. Giocammo contro negli Usa in un'amichevole (al torneo del Bicentenario del 1976, ndr ). Conservo in salotto una fotografia di quel giorno: gli feci una parata, me la ricordo ancora oggi».  

Il primo pensiero, il primo dettaglio che le viene in mente ricordando il Pelé giocatore e il Pelé uomo? 

«Uno solo: il sorriso. In campo e fuori, era sempre lo stesso».

Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 31 Dicembre 2022.

Un re, di sicuro. Che dava la mano alla regina, che alla Casa Bianca costrinse Ronald Reagan a presentarsi: «Sono il presidente degli Stati Uniti, lei non ha bisogno di dire chi sia, visto che qui tutti la conoscono ». Ma anche l'orgoglio di un paese che prima del '58 non aveva vinto niente (zero Nobel) e che in pochi sapevano posizionare sulla mappa. Pelé è stato il Brasile e il Brasile è stato Pelé. Non ha inventato solo il calcio, ma un paese. Non c'è mai stata identificazione più forte. La sua maglia verdeoro è stata esposta al Moma di New York. 

Quando Andy Warhol, quello che «nel futuro ognuno sarà famoso per 15 minuti» se lo trovò davanti per un ritratto, cambiò idea, e disse «Pelé sarà famoso per 15 secoli». Se La ragazza di Ipanema di Jobim ('62) fa conoscere al mondo una nuova musica, la bossa nova, tanto che anche Frank Sinatra si converte, Pelé è il ragazzo di Santos che vendica la discriminazione razziale in un Brasile che ha abolito la schiavitù nel 1888, appena 52 anni prima della nascita del povero bimbo nero che fa il lustrascarpe. 

E che sarà avanguardia dimostrando come il futebol nero (spesso disprezzato e con meno diritti) abbia carattere, qualità, dignità. E la forza per vincere. Riscattando anche il portiere Moacir Barbosa, quello del Maracanazo del 1950, maledetto per la pelle scura, per non aver parato il tiro fatale di Ghiggia, additato come "l'uomo che ha fatto piangere tutto il Brasile", condannato come disse lui per l'eternità. «In Brasile la pena massima è di 30 anni, ma io ne sto pagando 50 per un crimine mai commesso». 

Allora i giocatori neri erano pochi e venivano incolpati delle sconfitte, perché di diversità multiculturale proprio non se ne parlava. Ma Pelé, il giovane favoloso, a diciassette anni in Svezia nel '58, cambia questa percezione. Con i suoi dribbling afferma che il calcio made in Brasil è un wonderful game, il jogo bonito è fantasia e il futebol bailado merita rispetto e amore.

 È una rivoluzione: il ragazzo della favela, quello che ha niente, un figlio del popolo, si prende tutto. Le gerarchie del mondo finiscono sottosopra. Ma Pelé non hai mai rivendicato di essere una Perla Nera. Trascura il tema, quando Cassius Clay rifiuta di andare in Vietnam, lui riafferma di aver fatto il servizio militare. 

Si fa usare dalla dittatura, che uccide e tortura, come portatore di gioia, si fa fotografare sorridente con il generale Emílio Garrastazu Médici, il generale della linea dura del regime. Quasi negasse ci sia un problema. «Un sottomesso, un nero abituato a dire solo sissignore», è la critica che gli fa il compagno di nazionale a Messico '70 Paulo Cesar Lima, che aggiunge: «Non contestava mai niente. Una sua sola parola avrebbe voluto dire tanto per il Brasile».

E il dottor Socrates, "Il Tacco di Dio", che credeva che chi gioca a calcio non deve essere per forza stupido e ignorante gli dette del venduto: «Un nero bianco, una marionetta ».

Pelé di recente ha ammesso di aver saputo dei crimini della dittatura. «Ma sono convinto di aver aiutato il Brasile più io con il mio calcio che non tutti quelli che campano con la politica». Non si meravigliava: «Mi hanno dato della scimmia e del negro e allora? Avessi dovuto uscire dal campo ogni volta non avrei mai giocato». 

Dribblava su molte cose, non solo gli avversari. Però si è fatto fotografare con una maglia gialla con sopra la scritta "Diretas já", elezioni dirette, lo slogan di un movimento che richiedeva l'elezione presidenziale a suffragio universale diretto. E nell'94 in una conferenza stampa annunciò che si sarebbe presentato alle elezioni come socialista.

Non si candidò, ma divenne ministro dello Sport dal '95 al '98 del presidente di centro-destra Fernando Henrique Cardoso, adoperandosi per la modernizzazione e i diritti dei calciatori brasiliani, con una buona legge sullo svincolo. Controverso, troppo tradizionale e borghese, preoccupato di non prendere mai posizione? 

Forse, ma anche Michael Jordan negando l'appoggio ad un candidato democratico (si è pentito) non è stato migliore. Ma Pelé ha saputo restituire anzi dare al Brasile un suo posto nel mondo, che prima non aveva. E oggi c'è chi dice che il football dovrebbe cambiare nome e chiamarsi "Pelébol". Ha dichiarato Silvio Almeida, uno dei più grandi intellettuali neri brasiliani e che sarà ministro dei Diritti Umani nel terzo governo Lula: «Pelé è la prima persona che mi ha fatto amare il Brasile. Vedere un uomo della mia terra essere il migliore in quello che faceva mi ha fatto pensare che malgrado tutto valeva la pena di credere in qualcosa».

E comunque quando Pelé in lacrime nel '77 a New York dette l'addio al calcio segnando ancora un gol, Muhammad Ali era lì sul campo ad omaggiare un re nero che aveva vinto e sedotto anche la società americana. Perché Pelé con i Cosmos al suo arrivo nel '75 aveva firmato per tre anni un contratto da sei milioni di dollari, che equivalgono a 34 milioni attuali. 

Nessuna superstar nera in Usa guadagnava così tanto, il più pagato era O.J. Simpson nel football Nfl, 700 mila dollari l'anno, seguito da Wilt Chamberlain, basket Nba, con 600 mila. Il contratto di Pelé non era da calciatore, ma da performing artist, e infatti l'avvocato che si occupò della trattativa era quello di Dustin Hoffman e nello spogliatoio dei Cosmos spesso c'era Mick Jagger che si addormentava. Forse aveva ragione lo scrittore Nelson Rodrigues: «Vedere solo il pallone è come non vedere niente».

·         Addio alla stilista Vivienne Westwood. 

È morta Vivienne Westwood, la stilista regina del punk. Storia di Redazione Tgcom24 il 29 dicembre 2022.

Vivienne Westwood è morta all'età di 81 anni "serenamente e circondata dalla sua famiglia, a Clapham, nel sud di Londra". A darne notizia sono i profili social ufficiali della stilista britannica, considerata la regina dello stile punk. Nata a Tintwistle nel 1941, la Westwood ha continuato a fare le cose che amava, fino all'ultimo momento, progettando, lavorando sulla sua arte, scrivendo il suo libro e cambiando il mondo. Era malata da tempo.

Vivienne Westwood ha condotto una vita straordinaria. La sua innovazione e il suo impatto negli ultimi 60 anni sono stati immensi e continueranno a produrre effetti anche in futuro.

La stilista non ha mai voluto rivelare la sua malattia. Le sue condizioni erano peggiorate negli ultimi giorni, ma tutti quelli che le sono stati vicini hanno riferito di una donna che ha combattuto fino all'ultimo.

Le ultime parole della ribelle della moda  Vulcano di idee e novità in vita, Vivienne ha voluto tener fede al suo genio anche in punto di morte. Le sue ultime parole sono praticamente già passate alla storia: la stilista ha sottolineato ai suoi cari, ancora una volta, l'assoluta necessità di prenderci cura del pianeta. La Westwood avrebbe compiuto 82 anni l'8 aprile. Le sue creazioni hanno vestito generazioni di giovani ribelli come lei, testimoni di una rivoluzione della moda a suon di pelle e borchie, prima, e di corsetti e panier, dopo.

Westwood è celebre per aver dominato la scena punk e per essere "madre" di alcuni degli abiti più belli della moda sposa. Da diversi anni la sua collezione è stata disegnata dal partner Andreas Kronthaler. Insignita anche dalla Regina Elisabetta II dell'Order of the British Empire nel 1992, la stilista è stata così amata da ottenere che top model del calibro di Naomi Campbell sfilassero per lei gratuitamente.

Il cordoglio del compagno (e partner creativo) Andreas  "Continuerò con Vivienne nel mio cuore", ha detto Kronthaler, marito e partner creativo della stilista. "Abbiamo lavorato fino alla fine e lei mi ha dato un sacco di cose con cui andare avanti. Grazie tesoro. Il mondo ha bisogno di persone come Vivienne per cambiare in meglio. Lei che era stata la regina incontrastata della estetica del punk, gli ultimi tempi, si considerava una taoista. Non c'è mai stato più bisogno del Tao di oggi. Il Tao ti dà la sensazione di appartenere al cosmo e regala uno scopo alla tua vita. Ti dà un tale senso d'identità e forza sapere che stai vivendo la vita che puoi vivere e quindi dovresti vivere: fai pieno uso del tuo carattere e pieno uso della tua vita sulla terra".

L'impegno civile e politico  Vivienne ha sempre lottato per la giustizia e l'equità e ha lavorato a un piano per salvare il mondo. La stilista ribelle, nonostante gli 81 anni di età, ha continuato a essere un'attivista politica fino a poco prima di morire. "Julian Assange - aveva dichiarato di recente - è un eroe ed è stato trattato atrocemente dal governo britannico". O ancora: "Il capitalismo è un crimine. È la causa principale della guerra, del cambiamento climatico e della corruzione". "La Vivienne Foundation - si legge in una nota ufficiale - una società senza scopo di lucro, fondata da Westwood alla fine del 2022, con i suoi figli e il nipote, sarà lanciata ufficialmente il prossimo anno per onorare, proteggere e continuare l'eredità della vita, del design e dell'attivismo di Vivienne. L'obiettivo della Fondazione è quello di aumentare la consapevolezza e creare un cambiamento tangibile lavorando con le Ong, basandosi su quattro pilastri: cambiamento climatico, stop alla guerra, difesa dei diritti umani e protesta contro il capitalismo. La Fondazione Vivienne esiste per creare un mondo migliore e attuare i piani di Vivienne. Il suo ultimo monito: fermare il cambiamento climatico. Questa è una guerra per l'esistenza stessa della razza umana. E quella del pianeta. L'arma più importante che abbiamo è l'opinione pubblica. Diventa un combattente per la libertà".

Daniela Fedi per “il Giornale” il 29 dicembre 2022.

E' morta ieri sera a Londra Vivienne Westwood, stilista e attivista di fama mondiale, da 60 anni sulla scena della moda e al centro di ogni ribellione. Aveva 81 anni ed era malata da tempo ma sulle sue condizioni di salute era calato il massimo riserbo: Queen Viv (così la chiamavano tutti) non concedeva a se stessa e a nessuno del suo entourage la minima debolezza. 

Anche in questo aveva qualcosa in comune con l'altra regina inglese: una tempra senza precedenti. Nata nel Derbyshire l'8 aprile 1941 in una famiglia molto modesta, Vivienne Isabel Swire si trasferisce a Londra insieme ai genitori quando è ancora adolescente. Comincia a lavorare come insegnante e nel 1962 sposa Derek Westwood. Dal matrimonio nasce il figlio Ben, ma dopo soli 3 anni Vivienne incontra Malcolm McLaren il musicista che di lì a poco avrebbe inventato i Sex Pistols il gruppo Punk per antonomasia.

I due s' innamorano e cominciano a collaborare lei con il suo innato talento sartoriale, lui con quella musica che strappa l'anima. Nel 1971, aprono il loro primo negozio al 430 di King' s Road a Londra. Lo chiamano «Sex» perché la libertà sessuale è il tema del momento. In un baleno tutti i giovani della città passano di lì e nasce un nuovo modo di essere e pensare. Vivienne con le sue magliette strappate e tempestate di slogan politici e Malcolm conquistano Londra. 

Il movimento punk ha un impatto dirompente sulla cultura inglese, ma è un fuoco di paglia. Agli inizi degli anni Ottanta Sex diventa «Too fast to live, too young to die», poi cambia pelle di nuovo e si trasforma in Nostalgia of Mud. Westwood e McLaren ormai producono una linea di moda vera e propria e il talento di Vivienne diventa sempre più riconosciuto.

E' in quel periodo che lei in gran segreto frequenta le sartorie di Savile Rowe impara la geometrica perfezione dell'arte sartoriale. Coltissima anche se autodidatta frequentale gallerie d'arte per scoprire l'evoluzione della moda e del costume. Resterà per tutta la vita legatissima allo stile seicentesco. 

Una volta ci disse che le donne francesi erano riuscite a fare una grande rivoluzione vestite con strettissimi corsetti e imponenti gonne con tanto di faux cul. Nessuno li ha mai fatti bene come lei. La sua influenza nel patinato mondo della moda è stata incredibile. Non si contano le top model che hanno sfilato gratis per lei tra cui Carla Bruni con un indimenticabile cache ses in faux fur.

Nel 1992 Vivienne Westwood riceve dalla Regina Elisabetta II l'Order of the British Empire. Pensa bene di non indossare biancheria intima sotto al tailleur e l'inevitabile vento di Londra fa scoppiare un grande scandalo. L'anno dopo conosce Andreas Kronthaler, più giovane di 25 anni, che oltre a diventare il suo compagno raccoglie la sua eredità nell'ideazione delle linee di moda. 

Lei è sempre comparsa alle sue sfilate di Parigi tranne quella dello scorso ottobre per cui si inventa la scusa di aderire allo sciopero indetto dalle maestranze inglesi. Con il tempo Andreas è diventa sempre più bravo come stilista e lei sempre più fragile ma piena di energia creativa incanalata verso 4 gradi temi: cambiamento climatico, rispetto dei diritti umani, lotta la consumismo e pace nel mondo. Ha lasciato perfino una Fondazione che porterà avanti tutto questo e un messaggio in cui dice che Jualian Assange è stato un eroe trattato in modo atroce dal governo inglese. 

 BIOGRAFIA DI VIVIENNE WESTWOOD

Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Vivienne Westwood, nata nel villaggio di Tintwistle, in Inghilterra, l’8 aprile 1941. Stilista. Iniziò a lavorare nel mondo della moda nel 1971, quando aprì un negozio a Londra assieme a Malcom McLaren, suo compagno di allora e futuro agente dei Sex Pistols. È considerata la creatrice dello stile punk 

• «Con le svastiche sulle T-shirt, i crocifissi capovolti e le bluse in stile camicia di forza ha segnato un’epoca» (Alessandra De Tommasi, Vanity Fair, 28/1/2019) 

• «Gran dama dell’eccentricità brit» (Angelo Fiaccavento, Il Sole 24 Ore, 22/11/2013)

• «La più trasgressiva e provocatoria delle stiliste» (Laura Laurenzi, il venerdì, 5/10/2012)

• «Vivienne è una ribelle e mi piace per questo» (Kate Moss)

• «Al principio degli anni Ottanta, interrotto ogni legame commerciale con McLaren, W. si è concentrata sempre più nel mestiere di stilista imponendosi, in breve, come una delle maggiori creatrici di moda in ambito internazionale. La cultura visuale britannica, pur irrisa e deformata al punto dell’irriconoscibilità, assurge nella maggior parte delle sue collezioni a un ruolo centrale» (Treccani)

• «Una che nella vita ha fatto quello che le pareva e ha anche l’aria essersi molto divertita» (Cristina Marconi, Il Messaggero, 10/10/2014). 

Titoli di testa Quando iniziò a sperimentare tagliandosi e ossigenandosi i capelli, un tizio le urlò: «Anche lì sotto sei pettinata così?». 

Vita «La prima cosa che c’è da sapere su di me è che sono nata durante la Seconda guerra mondiale. Razionamenti e tutto il resto. Ho mangiato la mia prima banana all’età di sette anni. E non mi piacque neanche» 

• Le decorazioni natalizie a casa Swire sono i «tappi cromati dei contenitori di sale e pepe» • Suo padre, Gordon Swire, è magazziniere in una fabbrica dell’aeronautica. Prima della guerra faceva l’ortolano

• Sua madre, per annunciare la nascita di Vivienne, manda un biglietto ai giornali: «Swire. L’8 aprile 1945, alla Partington Maternity Home di Glossop, Dio ha benedetto Gordon e Dora con il dono prezioso di una figlia. Vivienne Isabel. Prima nipote del signore e della signora E. Ball» 

• A tre anni, quando le nasce la sorellina, Vivienne dice: «Io la uccido e la butto nella spazzatura»

• Da piccola il suo desiderio più grande è possedere «una piuma di pavone». Invece, la cosa più preziosa che possiede è una scatolina di fiammiferi con dentro dei frammenti di specchio

• «Vivevo per saltare la corda. Saltare è fantastico. Lo facevo con due corde. Era la cosa più bella»

• Anche leggere le piace moltissimo. La madre si lamenta: «La nostra Vivienne è sempre in un altro mondo». Quando ha otto o nove anni, le promette cinque scellini, equivalente di cinque paghette, per distruggere la tessera della biblioteca. Lei accetta ma continua a prendere libri in prestito usando le tessere delle amiche

• Sono anni duri per il Regno Unito. Nel 1948 il 60 per cento dei britannici ammette di voler emigrare. «La BBC non trasmise musica rock’n’roll fino agli anni Sessanta. Dovevi sintonizzarti sull’American Forces Network, che negli anni del Piano Marshall trasmetteva in tutta Europa, o su Radio Luxembourg»

• Un giorno Vivienne porta a scuola delle décolleté comprate a Manchester e il professore di storia le dice: «Cara, cara Vivienne Swire, se Dio avesse voluto che camminassimo sugli spilli, ce ne avrebbe provvisti un paio per natura» 

• «Il primo a credere in lei è stato il professore di storia dell’arte alle superiori che le ha consigliato di studiare a Oxford. Lei ci ha provato ma le condizioni economiche della famiglia non lo permettevano e così, dopo un solo semestre, ha mollato gli studi pensando che forse avrebbe potuto ripiegare facendo l’insegnante» (De Tommasi) 

• Diventa maestra alle elementari. Si crea i vestiti da sola. Un giorno una ispettrice la sgrida: «Signorina, le si vede la sottoveste. La sua gonna non è troppo corta?»

• Vivienne Swire diventa Vivienne Westwood il 21 luglio 1962 nella chiesa di St John the Baptist di Greenhill. «Quel giorno ero in ritardo. Mi ero cucita il vestito da sola. Non molto bene, a dire il vero: non era nemmeno finito. Era ancora tutto pieno di spilli, imbastito. Riuscii ad arrivare in chiesa giusto in tempo. Fiùùù. Per un pelo». Nel 1963 nasce Benjamin Arthur Westwood, detto Ben. E nel 1966 divorzia 

• Poi conosce Malcom McLaren. Lei ha 24 anni, lui 18

• Malcolm, ricorda Gordon Swire, il fratello di Vivienne, «si spolverava del borotalco sul viso per accentuare ulteriormente il pallore, cosa che trovai esilarante. Non conoscevo nessun altro che facesse cose del genere». 

A Vivienne, invece, «sembrò che avesse un grosso buco rosso in mezzo al viso bianco: era quella l’impressione che dava la sua bocca». Lo chiamano Red Malcom perché ha i capelli rossi ed è molto di sinistra • Si mettono assieme ma non si possono sposare: se lo facessero Malcolm perderebbe la borsa di studio della St Martin’s, Croydon College of Art, Goldsmith, South East Essex, Chiswick Polytechnics e, infine, della Harrow Art School. Dai diciassette fino ai venticinque anni Malcolm campa alle spalle del sistema. Di sé dice: «Sono un artista senza portfolio» 

• Quando Vivienne rimane incinta, la nonna di Malcolm si offre di pagarle l’aborto, all’epoca illegale

• Con quei soldi, lei si compra un maglione di cashmere e un tessuto della stessa lana, con cui si fa una gonna

• Il bambino nasce il 30 novembre 1967. Lo chiamano Joseph Ferdinand Corré: Joseph Ferdinand per via del quadro di Velázquez Ferdinando de Valdés y LLanos (Re di Portogallo), che si trova alla National Gallery; Corré, in onore della bisnonna che lo avrebbe fatto abortire 

• «La prima cosa che facemmo da genitori fu andare alla riunione del partito socialista operaio, per prendere parte a qualche intrigo trotzkista»

• La famigliola - Malcom, Vivienne e i due bambini - va a vivere in una roulotte. Joe impara a camminare appoggiandosi alla fiancata

• Malcolm non si fa mai chiamare papà. Al figlio Joe dice che «il papà di Joe» è un grande cactus. Si rifiuta di finire le storie della buonanotte. Una volta invade il reparto giocattoli di Harrods vestito da Babbo Natale. Un’altra volta chiede a Vivienne di andare al Madame Tussauds per dare fuoco alle cere dei Beatles. Lui li odia i Beatles 

• Vivienne è vegetariana, più per necessità che per scelta. Manda McLaren e i bambini in cerca di tarassaco per farci il «caffè»: lo ha visto fare durante la guerra 

• «Ci volevano dei pazzi scatenati per recuperare le botteghe dismesse di ferramenta e drogheria di King’s Road – lontane dai circuiti commerciali di Knightsbridge e Bond Street – e trasformarle nel centro creativo e modaiolo di Londra e poi del mondo intero. Partì per prima Mary Quant, che aprì il suo negozio nel ’55 e poi inventò la minigonna.

C’erano poi altri luoghi di culto come Alkasura, il cui proprietario John Loyd era sempre vestito da monaco, o Granny Takes a Trip caratterizzato da un’auto americana che sembrava aver appena sfondato la vetrina, e poi al 430 di King’s Road c’era Trevor Myles con il Paradise Garage, entrato nella storia per aver venduto il primo paio di blue jeans […] Proprio a quello stesso numero e in quel locale […] partì la leggenda di Vivienne […] Lei e McLaren partirono (a dir poco) in sordina, affittando per poche sterline il retrobottega del 430 per vendere vecchi 45 giri di r’n’r e cardigan fluorescenti comprati nei mercatini» (Antonio Lodetti, Il Giornale, 19/12/2015) 

• Hanno deciso: il loro negozio si chiamerà Let it Rock. Vendono jeans, giubbotti di pelle, magliette bianche. Poi Vivienne inizia a creare i suoi vestiti 

• «Fu subito un successo, e al mattino, già prima dell’apertura, Vivienne e Malcolm erano attesi da decine di “Teds” che fumavano e bevevano birra» (Lodetti) • Sono anni epici. Malcolm lascia in giro per il negozio materiale pornografico vintage e hardcore. I commessi urlano: «Are you cool?». Le ferrovie britanniche, per tenere a bada gli altri passeggeri ed evitare disordini, una volta devono riservare una carrozza di prima classe a Jordan, la «dea delle commesse» di Vivienne. Un’altra volta «qualcuno chiese dove fossero le ragazze e io dovetti rispondere: “Questo non è un bordello, sa?!”. Ma divenni grande amica di alcune prostitute e alcuni presunti “deviati”» 

• Nel 1972 Let it Rock viene ribattezzato Too Fast to Live Too Young to Die o TFTLTYTD, omaggio a James Dean • Vivienne diventa famosa. Di lei si occupano il London Evening Standard e il Rolling Stone. Ringo Starr, insieme a David Essex, la vuole come stilista per il film That’ll be the Day, uscito nel 1973. Ken Russell vuole qualcosa di scioccante per il suo film Mahler – La Perdizione del 1974, e chiede a Vivienne e Malcolm di realizzarla. «Crearono una tuta di pelle da valchiria dominatrice, con una svastica di brillantini e un Cristo applicato sul pube. L’insieme era completato da un elmetto nazista e da una frusta» 

• Sul simbolo della svastica Vivienne ricorda che Malcolm voleva scioccare le masse. «Essendo ebreo, aveva le sue ragioni per voler fare una cosa del genere, non solo rifiutavamo i valori della vecchie generazioni, rigeneravamo anche i loro tabù»

• «Certo le magliette strappate, incernierate e piene di slogan, i capi in lattice e quelli bondage (calzoni con una cinghia cucita tra le gambe che legava un ginocchio all’altro), hanno lasciato il segno nell’immaginario collettivo. Chrissie Hynde sostiene che il punk in un modo o nell’altro si sarebbe sviluppato ugualmente, ma Vivienne ribatte arrogantemente: “Non abbiamo fregato nessuno, né tantomeno sfruttato un fenomeno da strada: il punk non esisteva prima di noi”» (Lodetti) 

• Emblema del suo stile è una maglietta nera decorata con ossa di pollo che Vivienne scolora con la candeggina. Incatenate fra loro, e poi cucite, formano la parola «Rock»

• Nel 1974 cambiano ancora insegna al negozio: diventa SEX, scritto in lettere di gomma rosa a caratteri cubitali; sotto, un aforisma di Thomas Fuller: «L’astuzia può essere vestita, ma la verità ama andare in giro nuda» 

• La Disney vieta loro di usare i suoi personaggi dopo che «in una delle orecchie del principale personaggio Disney fu disegnata una “A” anarchica, e la principessa Disney fu rappresentata in un amplesso con gli eponimi nani»

• «Fu il 6 novembre 1975 che Vivienne andò al primo concerto ufficiale dei Sex Pistols, creati da McLaren, e divenne responsabile del look dei ragazzi che, peraltro, “si fecero prendere la mano e cominciarono a mutilare i vestiti”, tanto che Malcolm glieli mise in conto! Vivienne aveva sempre giocato con i suoi abiti al limite della violenza, o perlomeno della violenza potenziale...» (Lodetti) 

• Il negozio cambia nome di nuovo: diventa Seditionaries nel 1977. «Creare abiti per eroi e incoraggiare la sedizione: istigare alla rivolta». E Worlds End nel 1979. «Sull’orologio esposto in esterno sopra alla vetrina compaiono tredici ore e le lancette, da allora, scorrono al contrario» 

• «La polizia rimaneva in attesa a Sloan Square e radunava tutti i punk che uscivano dalla metropolitana. Una volta, ne fermarono circa duecento e li scortarono in processione per tutta King’s Road, fino al negozio. Fu una camminata di venti minuti. Allucinante» • In America Malcolm e Vivienne alloggiano al Chelsea Hotel, proprio come avevano fatto Frida Kahlo, Dylan Thomas, Jimi Hendrix e i Doors. Arthur Miller, che ha vissuto lì per sei anni dopo il divorzio da Marilyn Monroe, dice: «Il Chelsea Hotel non appartiene all’America» 

 • Alla fine del 1979 quando Malcolm e Vivienne si lasciano, Malcolm iniziò a dire: «Se Vivienne ha avuto successo, è stato grazie a Malcolm McLaren» 

• Lui le dice «“se vuoi, puoi darmi lui” indicando Joe “ma lo sai che lo porterei subito all’orfanotrofio del dottor Barnardo”» 

 • «Quando ha lasciato Malcolm, l’uomo per ripicca le ha fatto perdere il più grosso contratto di collaborazione mai avuto e così Vivienne è tornata a Londra senza un soldo, costretta a lavorare a lume di candela sulla macchina da cucire casalinga e ricominciare tutto da capo» (De Tommasi) 

• «Insomma, tra il 1982 e 1983 cominciai a lavorare da sola. Avevo un modellista che mi aiutava e un paio di cucitrici. Mi provavo perfino i vestiti. Ho imparato che l’unico modo per capire se un capo veste bene ed è comodo è provarlo su te stesso»

• «Se il Punk era stato una “battaglia” al sistema, l’incontro con Carlo D’Amario, suo futuro manager […], le fa cambiare prospettiva: non si tratta di cercare di “frenare” quel sistema, ma di cercare di “superarlo” per lasciare il segno. Di qui, la storia forse meno conosciuta e più intrigante. Nel 1983 D’Amario la mette in contatto con lo stilista Elio Fiorucci che, impazzendo per lei, le lascia la sua casa di Milano come base italiana. È Fiorucci a consigliarle di rivolgersi a Sergio Galeotti, manager di Armani, per ottenere il capitale necessario a finanziare le collezioni e creare una joint venture con lo stesso Armani. 

La cosa sembra fatta, ma sopraggiunge inaspettata la morte di Galeotti e l’accordo sfuma. Come di lì a poco sarebbe sfumata la collaborazione con Madonna, che dopo un primo entusiasmo si fa letteralmente “di nebbia”, non rispondendo nemmeno più al telefono. Così va la vita, si dice. Quella della Westwood si tuffa in una serie di peripezie personali (la fuga da Rimini a Milano in un furgone Ford Transit con i cartamodelli di collezione), l’ombra dei creditori inglesi, le angherie di McLaren, la difficile gestione dei figli (Ben e Joe), lo studio dell’italiano e i viaggi per lo Stivale alla ricerca di fabbriche produttrici (a tutt’oggi la sua produzione è tutta italiana).

Proprio sotto le pressioni emotive e materiali di quei “tempi eroici” […] la ribelle della moda forgia il suo spirito combattente e la sua creatività letteralmente esplode. In passerella è un avvicendarsi d’innovazioni che hanno fatto la storia del costume: la reintroduzione del corsetto, della lingerie a vista, la resurrezione del tweed (“è come il burro: con il tweed non sbagli mai”) per la collezione Harris Tweed (1987), l’asimmetria, il fetish, la silhouette a clessidra, i riferimenti alla storia e molto altro» (Fabio Massacesi, iO Donna, 2/12/2015) 

• «Tra i suoi gesti più anticonformisti molti ricordano di quando nel 1992 andò dalla regina Elisabetta II per ricevere il titolo di Dama dell’Ordine dell’Impero Britannico: non indossava mutande anche se portava dei collant, e di fronte ai fotografi che le stavano scattando delle foto fece ruotare l’ampia gonna con cui si era vestita. 

Nell’aprile del 1989 invece comparì sulla copertina della rivista Tatler vestita e pettinata come Margaret Thatcher, allora primo ministro del Regno Unito: sotto l’immagine si leggeva la scritta “This woman was once a punk”, cioè “Un tempo questa donna era punk”. Il completo indossato da Westwood nell’immagine era stato ordinato per Thatcher, ma non le era ancora stato consegnato» (Ludovica Lugli Il Post, 8/4/2016) • Le modelle di Vivienne sono costrette su tacchi e zeppe di 15 centimetri. Rovinosa la caduta in passerella di Naomi Campbell nel 1993. Quell’incidente trasforma Vivienne Westwood in una vera e propria firma dell’alta moda 

• «“Col passare degli anni la moda mi ha interessato sempre meno e ho cominciato a pormi delle domande su quello che avrei potuto fare per aiutare la causa, insomma per salvare il pianeta ed evitare il disastro. Possiamo sicuramente fare tutti molto per combattere il cambiamento climatico e il riscaldamento globale. E io ho usato la moda come piattaforma, come medium per aprire la bocca e dire quello che penso.

E cioè quanto sia importante ciò che io chiamo la rivoluzione del clima. A volte sono importanti anche dei piccoli gesti come la decisione di usare meno plastica”.  Lei, cosa abbastanza insolita per uno stilista, consiglia alle donne di comprare meno abiti per ridurre lo spreco.

 Assolutamente. Parlo contro i miei interessi. Io non forzo la gente a spendere meno, la forzo semmai a spendere meglio. E a far durare le cose più a lungo. Sarebbe fantastico se anche la regina indossasse sempre lo stesso vestito. In realtà usa vestiti sempre molto simili, quasi identici: quello che cambia è soltanto il colore. Sarebbe una grande iniziativa”» (Laurenzi) 

• «Ho vissuto tutta la vita come se fossi giovane, ma ora che sono vecchia mi rendo conto che la giovinezza non solo è preziosa, ma è proprio un’altra cosa»

• «Non ho mai voluto che mi amassero. L’amore non è essenziale per me. Se piaccio, ne sono grata, ma non mi aspetto che sia così».

Vita privata Dal 1992 è sposata con lo stilista Andreas Kronthaler, venticinque anni più giovane di lei. «Oggi non c’è un solo capo che non revisionino insieme né un unico dettaglio che sfugga al controllo incrociato di questo duo creativo a dir poco esplosivo» (De Tommasi). 

Curiosità Pedala ogni mattina fino al lavoro. «Pare che ogni londinese abbia un aneddoto da raccontare su di lei, perché quasi tutti, almeno una volta, hanno rischiato di investirla mentre passava in bicicletta»

• Una volta disse a Kate Moss che, se mai decidesse di avere una storia con una donna, sceglierebbe lei

• Stima Angela Merkel, Julian Assange, il principe Carlo e Greta Thunberg

 • Sembra si nutra solo di mele e tè. Tiene sempre una bottiglietta d’acqua calda accanto al letto, la sorseggia mentre al mattino, per un’ora o più, legge i suoi adorati libri

• Ancora oggi, come da bambina, è una grande lettrice: «Qual è il migliore accessorio? Un libro»

• «La migliore guida alla vita sono Le avventure di Pinocchio. È pura filosofia di vita. Un modo di vivere. Pinocchio è birichino, sfrenato, ma ha un cuore d’oro. E ovviamente è questo a salvarlo»

• Ha scritto un’autobiografia assieme allo scrittore e attore Ian Kelly, che al cinema ha interpretato il padre di Hermione nel settimo Harry Potter 

• Non ha cellulare né computer, non guarda la tivù e non va nemmeno al cinema • Nel 2011 ha creato il sito Activeresistence.co.uk contro l’appiattimento intellettuale indotto nei giovani da social network e tivù spazzatura. Lei scrive tutto a mano, poi un suo collaboratore ricopia i testi al computer e li carica in rete 

• Malcom McLaren, così come non voleva essere chiamato papà, non volle essere chiamato nonno. È morto l’8 aprile 2010, il giorno del 69° compleanno di Vivienne. Sulla sua bara hanno scritto TFTLTYTD.

Titoli di coda A Marc Jacobs, dopo aver chiesto una donazione per Cool Earth, scrisse: «Sarebbe bello vedersi durante il periodo di Natale, ma il 13 devo operarmi al ginocchio: sono caduta sulle scale mobili della metropolitana, perché indossavo delle zeppe allucinanti! Oh, Marc! Che vita!».

È morta Vivienne Westwood, la stilista aveva 81 anni. Federica Bandirali Paola Pollo su Il Corriere della Sera il 29 dicembre 2022.

La stilista era malata da tempo. Le sue condizioni erano peggiorate negli ultimi giorni

Vivienne Westwood è morta oggi a Londra. Aveva 81 anni. La stilista era malata da tempo ma non ha mai voluto rivelare la sua malattia. Le sue condizioni erano peggiorate negli ultimi giorni ma chi le è stata accanto racconta di una donna combattiva sino all’ultimo.

Le sue ultime ore sono già una leggenda. Ha parlato sino all’ultimo del pianeta e di quello che bisogna fare per salvarlo. Vivienne Westwood se ne è andata cosi come ha vissuto, in prima fila e senza limiti. Avrebbe compiuto 82 anni il prossimo 8 aprile. Era nata nel Derbyshire figlia di operai del tessile, Gordon e Dora Swire. Una famiglia delle campagna inglese e lei cresce proprio così fra pic nic e feste del raccolto. Chi avrebbe mai pensato che quella ragazzina bionda bionda (o rossa rossa) dai grandi occhi celesti e la pelle di porcellana sarebbe diventata la regina del punk e che avrebbe vestito generazioni di gioventù ribelli prima con pelle e borchie e poi con corsetti e panier?

Gli abiti come manifesto ribelle ma anche la sua vita che sino all’ultimo ha graffiato e vissuto, parlando e parlando di tutte le ingiustizie che secondo lei andavano cancellate: dall’inquinamento alla pena di morte.

A Londra Vivienne arriva a 17 anni ma lascia presto l’università perché si annoia: la city la cattura e la stimola a esplorare luoghi e persone. A ventun anni sposa Derek Westwood, ha un figlio ma la città una tentazione troppo forte. Conosce Malcom McLaren, il musicista che sarà da lì a poco l’impresario dei Sex Pistols e lei con lui diventerà la più irriverente stilista del Regno Unito. Insieme aprono una boutique, al 430 di King’s Road. Diventerà «la» vetrina della generazione ribelle di una Londra che vive di musica, pelle e catena. Una vetrina che cambierà più nomi (da «Let it Rock», «Too fast to live, too fast to die» a «Sex»), e sarà uno scandalo dopo l’altro, poliziotti sempre in agguato. Come quella volta, nel 1974 quando per una collezione piuttosto hard, fatta di abiti di cuoio e magliette di latex, catene e t-shirt porno intervennero a mettere i sigilli.

Poi vennero i Sex Pistols e le irriverenze contro la regina Elisabetta che nel ‘92 la perdonerà conferendole addirittura l’Ordine Britannico. D’altronde la Queen era lei, almeno nei club e nei quartieri più cool. Qui, i progetti italiani della stilista punk («Il mio piano per il made in Italy»).

E’ che lei, autodidatta e caparbia, nelle etichette proprio non è mai riuscita a stare: «L’unico motivo per cui faccio moda è fare pezzi la parola conformismo», era una delle frasi storiche che amava ripetere a chiunque le si avvicinasse definendola. Così quando la ribellione si fa establishment, esplora altro. In nome di una disciplina cultura, l’unica da lei seguita, si mette a studiare storia del costume. L’Ottocento l’affascina, ed ecco i corsetti, le parrucche, le gonne di crine, i faux cul. La tradizione, già. Incredibile.

E in poco tempo, la moda, quella grande e vera la celebra: il Victoria and Albert Museum le dedica addirittura la più grande mostra allestita per una stilista vivente. E da Londra Vivienne si sposta a Parigi. Ha sempre dormito poco e lavorato tanto, questa signora. L’Atelier, la vita fra l’Inghiletrra e la Francia e poi una cattedra a Vienna. L’anno in cui la regina le fa l’onore di una medaglia (alla cerimonia la stilista ne fa una delle sue e si prende gioco dei fotografi alzando la gonna per fare vedere che non porta la lingerie) in quell’anno incontra anche il futuro marito, Andreas Kronthaler, suo allievo alla scuola di moda di Vienna, 25 anni più giovane. Dove è il problema? E’ amore a prima vista.

Si sposano poco dopo, durante una pausa pranzo a Londra. Lui diventa il suo assistente inseparabile al quale lei lascia la direzione creativa nel 2016, non certo per andare in pensione. Il mondo, raccontava a chiunque andasse a salutarla, ha bisogno di altro. «Basta parlare di vestiti», ammoniva a chiunque le si avvicinasse nei back stage degli show curati dal marito. Peccato che non appena gli sguardi o le telecamere guardavano da un’altra parte, lei velocemente sistemava questo o quell’abito. Un’attrazione fatale verso la cosa più giusta da fare.

È morta Vivienne Westwood, la regina della moda inglese. Serena Tibaldi su La Repubblica il 29 dicembre 2022.

È scomparsa a 81 anni la regina della moda britannica. Una provocatrice per eccellenza, una stilista che ha giocato un ruolo fondamentale nell’invenzione dell’estetica punk e ha saputo unire stili ed epoche come nessun altro, fino all'ultima delle battaglie: quella per una moda sostenibile

Vivienne Westwood, la voce più forte della moda britannica, la provocatrice per eccellenza, colei che ha giocato un ruolo fondamentale nell’invenzione dell’estetica punk, che ha saputo unire stili ed epoche come nessun altro, la prima designer a dare anima e corpo nella lotta per una moda sostenibile, l’unica forse venerata in patria tanto quanto Elisabetta II, è scomparsa all’età di 81 anni. La causa è una malattia vissuta con discrezione lontano dai riflettori delle passerelle. In realtà, le prime avvisaglie che la sua salute non fosse al meglio si sono avute lo scorso settembre a Parigi, quando per la prima volta la stilista non si è presentata alla sfilata del suo marchio. Sono anni che la collezione è disegnata dal suo partner Andreas Kronthaler, negli ultimi anni voluto dalla stilista alla guida del brand, ma lei era sempre stata in prima fila ad applaudirlo. Nel comunicato che conferma la morte di Vivenne, Kronthaler scrive : "Continuerò con Vivienne nel cuore. Abbiamo lavorato fino alla fine e lei mi ha dato un sacco di cose con cui andare avanti. Grazie Tesoro."

In occasione della sfilata di settembre a Parigi, l’assenza è stata spiegata con la volontà di Westwood di manifestare nelle strade di Londra assieme ai lavoratori che protestavano contro il governo inglese. Forse, invece, le cose stavano diversamente, ma l’episodio non toglie nulla all’immensa forza della creatrice. Perché la moda inglese, il suo significato e l’idea stessa che ne ha il mondo, corrispondono in toto alla sua di visione, al suo senso dissacratorio, alla volontà di sorprendere e distruggere lo status quo, unito nel suo caso a una conoscenza enciclopedica della storia del costume.

Chi era Vivienne Westwood

Vivienne Isabel Swire nasce l’8 aprile del 1941 in un villaggio del Derbyshire. Da adolescente si trasferisce con i genitori nella periferia nord-ovest di Londra, dove la realtà la fa desistere dai suoi sogni di gloria. Lei il senso dello stile ce l’ha, eccome, inizia anche a studiare moda e oreficeria, ma lascia perdere dopo un anno: “Non avevo idea che quell’universo potesse diventare un lavoro vero e proprio, e io avevo bisogno di uno stipendio”. Decide perciò di fare l’insegnante, e nel 1962 sposa Derek Westwood, da cui però si separa dopo tre anni e la nascita di un figlio, Ben.

La sua vita cambia definitivamente quando nel 1965 conosce un compagno di studi del fratello, creativo tanto quanto lei: Malcolm McLaren. L’inventore dei Sex Pistols, in altre parole. I due diventano prima amici e poi compagni nella vita e nel lavoro, con Vivienne che traduce in abiti e accessori le idee dirompenti di Malcolm. Oltre a fare un figlio, Joseph, insieme, i due cominciano a vendere abiti vintage e dischi in uno stand a Portobello Road. Visto il successo riscontrato da quelle prime creazioni, presto passano a offrire abiti interamente fatti da loro: li vendono in un negozio alla fine di King’s Road che aprono nel 1971, e che diventa sotto vari nomi (Too Fast to Live, Too Young to Die, Sex, World’s End) la mecca della gioventù inglese. Quelle T-shirt distrutte, ricucite e riempite di slogan politici sono già un successo, ma quando poi diventano la “divisa” del gruppo punk più dissacrante ed esplosivo di sempre, i Sex Pistols, si trasformano nel simbolo di un’epoca e di un modo di pensare. Inutile dire che l’ala più conservatrice del pubblico vede di mal occhio certi eccessi, ma ai due l’ostracismo dei benpensanti non è che interessi granché... 

Finita l’esperienza punk, con l’inizio degli anni Ottanta la coppia debutta con una linea vera e propria, in passerella: le collezioni Pirate, Savages, Buffalo, Punkature mettono in luce l’incredibile capacità della stilista di fare propri tradizioni e costumi del passato rivoltandoli e trasformandoli in qualcosa di nuovo e magnetico. Non è un caso che di pari passo con il manifestarsi del suo enorme talento, il rapporto con McLaren vada a esaurirsi: lui era sempre stato la star nella coppia, ma gli equilibri ora sono cambiati. Libera di esprimersi, Vivienne prosegue nella sua rilettura dello stile, che siano i “suoi” punk o le mise dell’alta borghesia inglese, passando per i Ballets Russes fino a reinventare la crinolina degli abiti settecenteschi, da lei trasformata in microgonne ribattezzate, per l’appunto, Minicrini. E poi ci sono i corsetti dalla costruzione immacolata, le gonne lunghe che sul retro lasciano in bella mostra il sedere, le silhouette che fondono gli anni Ottanta e l’Ottocento. 

L'influsso di Westwood sulla moda (non solo) britannica

Tutti i suoi colleghi sono influenzati da lei, e questa è una delle grandi ironie della sua straordinaria carriera. Per molto tempo Vivienne è stata la creativa più influente: le top-model sono pronte a sfilare gratis per lei (come dimenticare Naomi Campbell che nel 1992 cade sulla passerella a causa di un paio di zeppe da 20 centimetri?), gli stilisti più grandi si dichiarano suoi fan, la Regina Elisabetta la insignisce dell’Order of the British Empire nel 1992, e lei si presenta davanti ai fotografi presenti alla cerimonia roteando su se stessa, e mostrando che sotto la gonna a ruota non ha biancheria (facendo la storia anche così).

Eppure sono anni duri per lei che, fedele ai suoi principi e completamente a digiuno di economia, non sa come far quadrare i conti. L’entrata di un socio italiano, Carlo D’Amario, cambia le cose, aiutandola a far fruttare anche finanziariamente le sue capacità. Ma i soldi, per Vivienne, non sono mai stati il motivo per cui fa quello che fa, ed è anche la sua immensa coerenza ad averla resa il gigante che è.

Nel 1993, in un corso di moda a Vienna dove insegna, conosce un suo studente, Andreas Kronthaler, 25 anni meno di lei: i due si innamorano, e lui diventa il suo braccio destro prima e il suo successore poi, permettendole di dedicarsi anima e corpo alla sua nuova battaglia, quella per l’ambiente. Nell’ultima parte della sua vita Vivienne diventa così il simbolo della lotta al Climate Change, e all’idea stessa di una moda pensata solo per essere consumata. “Buy less, buy better, make it last”: compra meno, compra meglio, fallo durare, è lo slogan che ripete durante le interviste, mettendosi metaforicamente alla guida del movimento green. E proprio in occasione della morte della stilista la maison fa sapere che la Vivienne Foundation, una società senza scopo di lucro, fondata da Vivienne, i suoi figli e la nipote alla fine del 2022, verrà lanciata ufficialmente il prossimo anno per onorare, proteggere e continuare l'eredità dell'attivismo di Vivienne. L'obiettivo della Fondazione è quello di sensibilizzare e creare un cambiamento tangibile lavorando con le ONG. Costruito su quattro pilastri: cambiamento climatico, fermare la guerra, difendere i diritti umani e protestare contro il capitalismo. La Fondazione Vivienne, spiegano nel comunicato che conferma la sua scomparsa, esiste per creare un mondo migliore e attuare i piani di Vivienne.

E se è vero che la stilista si è ampiamente guadagnata un posto tra i più grandi della moda come pure nella cultura pop della nostra epoca (un esempio su tutti: l’abito da sposa di Carrie Bradshaw nel primo film di Sex and the City), va pure rilevato come negli ultimi tempi il suo nome e il suo immaginario sono tornati a tenere campo nello stile dei più giovani.

Lo scorso anno su TikTok il suo “storico” choker di perle con il globo sormontato da una croce, il suo logo, di cristalli, è diventato virale, andando sold-out in tutto il mondo. Da lì è partita la “riscoperta” del suo lavoro, complice pure la passione di star della moda contemporanea come Bella Hadid e Doja Cat. Ne è testimonianza la folla immensa ed entusiasta di curiosi davanti alla location dell’ultimo show parigino, proprio il primo che Vivienne si è persa. Si sarebbe divertita parecchio.

Paola Pollo per il "Corriere della Sera" - Articolo del 1 aprile 2021 

Non c'è un limite che Vivienne Westwood non abbia superato, cancellandolo e spostandolo oltre. L'8 aprile la stilista del punk compirà 80 anni, ma solo la scorsa stagione ha posato nuda e qualche settimana fa si è fatta fotografare con baffi e barba disegnati. Ieri erano gli abiti il suo manifesto ribelle, oggi sono le battaglie politiche contro ingiustizie e cambiamento climatico. Prima parlava di corsetti e sottogonne, ora solo e soltanto di libertà e rispetto.

«La mia - dice nella biografia uscita qualche anno fa di Ian Kelly - è una storia di moda, di attivismo e di vita». Sintesi sincera di racconti leggendari che cominciano da un'infanzia nelle campagne inglesi (nasce nel Derbyshire figlia di operai del tessile, Gordon e Dora Swire) fra picnic e feste del raccolto. A Londra Vivienne arriva a 17 anni ma lascia presto l'università perché si annoia come succede a tanti geni assetati di vita. A ventun anni sposa Derek Westwood, ha un figlio ma la città è uno stimolo continuo e Vivienne non riesce a stare lontana dai Ted, dai Mod, dalla cultura pop, dalla musica, dall'arte e da Malcolm McLaren, il musicista che sarà da lì a poco l'impresario dei Sex Pistols nonché l'uomo che farà di lei la più irriverente stilista del Regno Unito.

Per palcoscenico la coppia sceglie una boutique, al 430 di King' s Road. Una vetrina che cambierà più nomi (da «Let it Rock», a «Too fast to live, too fast to die» a «Sex») e non smetterà mai di dare scandalo: nel '74, per una collezione di abiti di cuoio, magliette di gomma, catene e t-shirt pornografiche interviene la polizia a mettere i sigilli. Subito dopo arriva il capitolo dei Sex Pistols, le spille in bocca, le creste e la regina «deficiente» in «God Save the Queen». Gli anarchici del punk, tutti, si vestono lì. E si ritrovano lì.

La vera queen per loro è Vivienne. Che naturalmente, quando la ribellione si fa establishment, esplora altro. La storia, i costumi, i corsetti, le parrucche, le gonne di crine, i faux cul : un recupero della tradizione di grande impatto. Il consenso del fashion system non tarda ad arrivare: il Victoria and Albert Museum le dedica la più grande mostra allestita per una stilista vivente. Da Londra, però, la Westwood porta la sua moda a Parigi, crinoline e zeppe vertiginose dette «platform»: epica la caduta a gambe all'aria di Naomi Campbell. Vivienne studia e crea. Dorme poco, lavora sempre.

Nel '92 la regina le perdona l'affronto e le conferisce l'Order of British Empire. E la stilista cosa fa? Il giorno della premiazione alza la gonna per far vedere che lei non usa la biancheria intima. Provocazione e non esibizione. Ormai tutti lo sanno. Non c'è nulla da perdonarle, se non la forza di essere se stessa. Coincidenza: in quell'anno incontra anche il futuro marito, Andreas Kronthaler, suo allievo alla scuola di moda di Vienna, 25 anni più giovane. Non certo un limite, per la «ragazza» dai capelli rossi. Si sposano poco dopo, durante una pausa pranzo a Londra. 

Lui diventa il suo assistente inseparabile al quale lei lascia la direzione creativa nel 2016, non certo per andare in pensione. La moda, dice, non le interessa più. O meglio non ha più voglia e tempo di parlare di abiti. Le sue battaglie ora sono altre, non si contano più: sociali, politiche, per l'ambiente. Ma ad ogni sfilata Vivienne continua ad esserci, musa ispiratrice del marito, e consigliera. Non c'è dettaglio che non le sfugga e non c'è, ancora, a 80 anni, limite al quale si sottragga. Auguri queen.

Addio Vivienne! Alessandro Ferrari su Panorama il 30 Dicembre 2022.

Ci ha lasciato Vivienne Westwood, icona del Punk e decisamente una delle ultime vere stiliste di moda al mondo

Eclettica, ribelle, originale, anticonformista… non basterebbe una pagina di aggettivi per descriverla per tanto unica e inimitabile! All’età di 81 anni ci ha lasciato ieri Vivienne Westwood, icona indiscussa del movimento Punk nonché regina delle passerelle internazionali. In più di 50 anni di attività, Dame Westwood ha scritto interi capitoli della storia della moda, con grande cultura ed enorme rispetto ha saputo evolvere l’estetica e rivoluzionare i costumi. Un’estetica eclettica e provocatoria che ha sempre trovato le proprie radici nella storia del costume, in particolare nell’heritage della sua amata Inghilterra.

Dai molti ritenuta «la stilista pazza», in realtà Vivienne Westwood si è sempre contraddistinta per la sua forte identità e per la sua integrità morale, anticonformista per natura e non solo per definizione, non si è mai inginocchiata davanti all’altare dei costrutti sociali. «L'unica ragione per cui lavoro nella moda è per distruggere la parola conformismo». Le sue collezioni non solo hanno definito un’estetica moda unica e originale, ma sono diventate un mezzo per sostenere problematiche sociali e ambientali, dai diritti umani alla sensibilizzazione verso il riscaldamento globale. Pioniera indiscussa del concetto di sostenibilità, il suo motto «Buy less, choose well» (compra meno, scegli meglio, ndr) passerà alla storia. «La lotta non è più tra le classi o tra ricchi e poveri, ma tra gli idioti e gli eco-coscienti».

La sua storia comincia in un paesino del Derbyshire dove nasce l’8 aprile del 1941 come Vivienne Isabel Swire. Ben presto si trasferisce con la famiglia nella periferia londinese dove tra vari tentativi didattici e professionali comincia ad avvicinarsi al mondo della moda e dell’underground sovversivo di una Londra ombelico del mondo. Sono gli anni Sessanta della Swinging London. L’evento catartico arriva nel 1965 quando Vivienne incontra Malcom McLaren, promotore musicale e creatore dei famigerati Sex Pistols. Amici, complici, amanti, i due intraprendono un percorso personale/professionale dettato dai valori anarchici e anticonformisti della losoa Punk. Nel loro storico negozio in King’s Road, denominato prima «Too fast to live, to young to die», poi «Sex» e inne «World’s End», le creazioni originali propongono t-shirt strappate, pantaloni kombat, giubbotti in pelle vissuti e abiti tenuti insieme da spille da balia. Una vera e propria rivoluzione. Da qui un’escalation di successi che porterà il marchio Vivienne Westwood sulle passerelle parigine dagli anni Ottanta a oggi. Un successo cosi imponente e una gura così incisiva che porterà addirittura Vivienne Westwood a Buckingham Palace, nel 1992, davanti a Sua Maestà la Regina Elisabetta per ricevere l’onoricenza dell’Order of the British Empire. Vivienne si presenterà alla cerimonia senza indossare l’intimo come svelerà lei stessa alla ne della cerimonia!

«I miei vestiti hanno una storia. Hanno un'identità. Hanno un carattere e uno scopo. Ecco perché diventano dei classici. Perché continuano a raccontare una storia. La stanno ancora raccontando» (V.Westwood).

·         È morto il batterista Giovanni Pezzoli. 

È morto Giovanni Pezzoli, batterista e cofondatore degli Stadio. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 29 dicembre 2022.

È morto Giovanni Pezzoli, batterista e confondatore degli , aveva 70 anni. A darne notizia è la stessa band di Gaetano Curreri sui profili social: «Alle 21.00 di questa sera purtroppo Giovanni ci ha lasciato. I nostri pensieri e i nostri cuori sono pieni di dolore! Vogliamo ricordarlo con il suo sorriso e la voglia di fare musica per farci e farvi divertire. Ciao Giovanni». Giovanni Pezzoli era bolognese. Nel 2016 era stato colpito da un grave malore mentre si trovava in vacanza in montagna, poche settimane dopo la vittoria al Festival di Sanremo con il brano Un giorno mi dirai e pochi giorni dopo l’avvio del Miss Nostalgia Tour. Proprio per suonare quel brano Pezzoli era tornato per la prima volta su un palco nell’agosto successivo, all’Arena della Regina di Cattolica (Rimini): un ritorno di pochi minuti con gli Stadio, introdotto da un emozionato e commosso Curreri e accompagnato da un’ovazione. Dal vivo era stato sostituito nel frattempo da Adriano Molinari, collaboratore di Zucchero, poi da Iarin Munari. Il 27 novembre, sulla pagina Fb era apparso un post che aveva preoccupato i fan: «Giovanni non sta bene. Per ora non possiamo aggiungere altro per rispetto nei suoi confronti e dei suoi familiari. Vi chiediamo solo di avere pazienza e pensare a Gio con tutta la positività possibile, che ci auguriamo possa essergli di aiuto. Sono momenti difficili, non insistete per cortesia nel chiedere informazioni. Grazie di cuore». E ancora: «Gio in questo momento più che mai ha bisogno delle nostre energie positive, di tutto ciò che il vostro affetto può produrre di concreto e utile alla battaglia che sta combattendo». Il 7 dicembre un messaggio più rassicurante, con una foto di Pezzoli dal letto d’ospedale con il respiratore nasale, il pollice alzato, un accenno di sorriso e la scritta «Durante la battaglia non è importante vincere o perdere, ma battersi e il nostro Gio è un great fighter!».

Morto Giovanni Pezzoli, batterista e fondatore degli Stadio. la Repubblica il 30 dicembre 2022.  A dara la notizia è stata la band sulla sua pagina Facebook. Insieme a Curreri fondò il gruppo nel 1981 e non lo lasciò mai. Un mese fa la notizia del suo ricovero.

Morto a 70 anni il batterista e fondatore degli Stadio, Giovanni Pezzoli. A dare la notizia sono stati gli stessi Stadio sulla pagina Facebook ufficiale. "I nostri pensieri e i nostri cuori sono pieni di dolore - è il messaggio - vogliamo ricordarlo con il suo sorriso e la voglia di fare musica per farci e farvi divertire. Ciao Giovanni".

Nato a Bologna il 14 maggio del 1952, Pezzoli aveva scoperto la passione per la musica da giovanissimo. Da bambino si era costruito una batteria artigianale con fustini di detersivo e un ferro da calza. A 13 anni comincia a suonare. Il suo esordio in una band è con Gli indecisi. Poi inizia una lunga collaborazione con Lucio Dalla, che continuerà fino al 1992. Nel 1981 dà vita agli Stadio insieme a Gaetano Curreri (i due si erano conosciuti 4 anni prima), anche con l'aiuto di Dalla e Ron.

Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 2016 viene colpito da un grave malore che segnerà il resto della sua vita, anche professionale: si trovava in vacanza in montagna, poche settimane dopo la vittoria al Festival di Sanremo con il brano 'Un giorno mi dirai' e l'avvio del 'Miss Nostalgia Tour'. Proprio per suonare quel brano Pezzoli torna per la prima volta su un palco nell'agosto successivo, all'Arena della Regina di Cattolica (Rimini): un ritorno di pochi minuti con gli Stadio, introdotto da un emozionato e commosso Curreri e accompagnato da un'ovazione. Dal vivo era stato sostituito nel frattempo da Adriano Molinari, collaboratore di Zucchero, poi da Iarin Munari.

Nel mese di giugno dello scorso anno Pezzoli era stato ricoverato in ospedale per accertamenti. Un mese fa, il 27 novembre, sulla pagina Fb 'Giovanni Pezzoli friends', riconducibile all'artista, era apparso un post che aveva preoccupato i fan: "Giovanni non sta bene. Per ora non possiamo aggiungere altro per rispetto nei suoi confronti e dei suoi famigliari. Vi chiediamo solo di avere pazienza e pensare a Gio con tutta la positività  possibile, che ci auguriamo possa essergli di aiuto. Sono momenti difficili, non insistete per cortesia nel chiedere informazioni. Grazie di cuore".

E ancora: "Gio in questo momento più che mai ha bisogno delle nostre energie positive, di tutto ciò che il vostro affetto può produrre di concreto e utile alla battaglia che sta combattendo". Il 7 dicembre veniva segnalato un miglioramento: "Durante la battaglia non è importante vincere o perdere, ma battersi e il nostro Gio è un great fighter!". Oggi, sulla stessa pagina, quest'ultimo messaggio.

·         E’ morto il regista Ruggero Deodato.

Ruggero Deodato, addio al regista di Cannibal Holocaust. "Il film più censurato di sempre". Il Tempo il  29 dicembre 2022

Lutto nel cinema di genere che a partire dagli anni '70 ha fatto incetta di incassi al botteghino ma si è anche procurato critiche feroci fino a diventare negli ultimi tempi un fenomeno "cult" di costume e cultura popolare. È morto all’età di 83 anni Ruggero Deodato, regista tra gli altri titoli del celebre Cannibal Holocaust, controverso film finito anche in tribunale per la crudezza di alcune scene e definito il più censurato di sempre. A darne notizia è stato sul suo profilo facebook il regista e sceneggiatore italiano, Sergio Martino: "Ho appena saputo che Ruggero Deodato, ci ha lasciato. Con lui ho diviso una stagione bellissima di cinema. Abbiamo iniziato praticamente insieme un percorso parallelo che in questi anni di rivalutazione del nostro cinema, ci ha 'goliardicamente' portato in giro per il mondo, insieme. Ciao Ruggero!".

Dopo gli esordi come aiuto regista al fianco di Roberto Rossellini, il cineasta lucano, nato a Potenza il 7 maggio 1939, lavorò con esponenti di primo piano del "B-Movie all’italiana - tra i quali Sergio Corbucci e Antonio Margheriti - prima di debuttare dietro la macchina da presa nel 1964, ancora a fianco di Margheriti, con il peplum Ursus il terrore dei Kirghisi. Nei primi anni ’70 Deodato lavorò soprattutto per gli spot televisivi, cimentandosi nel frattempo con il thriller erotico (Ondata di piacere, 1975) e con il poliziottesco (Uomini si nasce poliziotti si muore, 1976). (

La notorietà arrivò però con la "trilogia dei cannibali" composta da Ultimo mondo cannibale (1977), Cannibal Holocaust (1980) e Inferno in diretta (1985), tre pellicole caratterizzate dall’estrema violenza grafica e accolte da accese polemiche per le scene di uccisioni non simulate di animali. Cannibal Holocaust, girato con una perizia non comune tra gli artigiani del cinema di genere, si guadagnò presto la fama di film maledetto. La vicenda del professor Monroe, che si reca in Brasile alla ricerca di quattro reporter misteriosamente scomparsi, è considerato il primo "found footage" della storia dell’horror. Il ritrovamento del filmato che mostra le violenze dei reporter ai danni degli indigeni, che poi si vendicheranno uccidendoli e divorandoli, sarà l’ispirazione per un intero filone, a partire dal celebre "The Blair Witch Project".

L’attività di Deodato sarebbe scemata negli anni ’90, con il progressivo esaurimento del cinema di genere. L’ultimo colpo di coda del vecchio leone arrivò nel 2016 con "Ballad In Blood", una pellicola dai toni ironici sul delitto di Perugia. Negli ultimi anni Deodato aveva tenuto una rubrica fissa sulla rivista specializzata "Nocturno" dove aveva condiviso i suoi ricordi di quella spericolata, irripetibile era.  

Ruggero Deodato, è morto il regista di «Cannibal Holocaust»: aveva 83 anni. Redazione Spettacoli su su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Il film, particolarmente violento, gli costò quattro mesi di carcere con la condizionale. Diresse anche la serie cult «I ragazzi del muretto»

È morto a Roma all’età di 83 anni Ruggero Deodato, uno dei registi più importanti e controversi dell’epoca d’oro del cinema di genere italiano. La notizia è stata data su Facebook da Sergio Martino, un altro protagonista di quella indimenticabile stagione. Dopo gli esordi come aiuto regista al fianco di Roberto Rossellini, il cineasta lucano, nato a Potenza il 7 maggio 1939, lavorò con esponenti di primo piano del «B-Movie» all'italiana — tra i quali Sergio Corbucci e Antonio Margheriti — prima di debuttare dietro la macchina da presa nel 1964, ancora a fianco di Margheriti, con il peplum «Ursus il terrore dei Kirghisi».

Nei primi anni ‘70 Deodato lavorò soprattutto per gli spot televisivi, cimentandosi nel frattempo con il thriller erotico («Ondata di piacere», 1975) e con il poliziottesco («Uomini si nasce poliziotti si muore», 1976). La notorietà arrivò però con la trilogia dei cannibali composta da «Ultimo mondo cannibale» (1977), «Cannibal Holocaust» (1980) e «Inferno in diretta» (1985), pellicole caratterizzate dall’estrema violenza grafica e accolte da accese polemiche per le scene di uccisioni non simulate di animali.

«Cannibal Holocaust», girato con una perizia non comune tra gli artigiani del cinema di genere, si guadagnò presto la fama di film maledetto. La vicenda del professor Monroe, che si reca in Brasile alla ricerca di quattro reporter misteriosamente scomparsi, è considerato il primo «found footage» della storia dell’horror. Una pellicola che costò al regista ben quattro mesi di carcere con la condizionale. Di Deodato si ricorda anche la regia di «I ragazzi del muretto», serie tv cult degli anni Novanta.

Marco Giusti per Dagospia il 29 Dicembre 2022.

Eterna gloria a Ruggero Deodato, regista di un capolavoro cannibal imitato in tutto il mondo come “Cannibal Holocaust”, uno dei grandi Italian Kings of B’s celebrati da Quentin Tarantino che davvero cambiarono le regole del cinema internazionale di exploitation, che se ne è andato a Roma a 83 anni, ma ancora così attivo e generoso. 

Eppure Ruggero, che per tutta la vita fu un vero ragazzo dei Parioli, al punto che partecipò come attore anche all’omonimo film di Sergio Corbucci, “I ragazzi dei Parioli”, era nato, cinematograficamente parlando, neanche ventenne come assistente adorato di Roberto Rossellini (“Il generale della Rovere”, “Era notte a Roma”, “Anima nera”, “L’età del ferro”), e assistente alla regia fu per tanti film di Totò diretti da Sergio Corbucci e poi per i peplum e gli horror di Antonio Margheriti, al punto che completò, senza firmarlo, “Ursus e il terrore dei Kirghisi”.

Braccio destro di Sergio Corbucci quando iniziò il western all’italiana su capolavori western-spaghetto come “I crudeli”, “Navajo Joe” e “Django”, non vedeva l’ora di girare i suoi film e uscire dai troppi assistentati. Ma si dovette accontentare, agli inizi, ormai in pieno 68, di piccoli avventurosi e musicarelli, “Fenomenal e il tesoro di Tutankamen”, l’erotico-esotico “Gungala, la vergine della giungla”, girato a Roma con Kitty Swan e Angelo Infanti, “Donne… botte e bersaglieri” e “Vacanze sulla Costa Smeralda” con Little Tony, dove incontrò una giovanissima e bellissima Silvia Dionisio, che diventò la sua prima moglie e che diresse in moltissimi film successivi.

Dirige un solo western, ma per ironia della sorte comico, scritto da Maurizio Costanzo, “I 4 del Pater Noster”, con Villaggio, Montesano, Toffolo e Lionello. “Non era bello, ma ci sono delle gag divertenti di Villaggio e Toffolo”, ricordava Deodato. “E’ stato un film sofferto, sul set e quando uscì. Alla fine l’ho pagata cara. Il film non andò bene e io sono finito sul genere comico.” 

Passa così al primissimo seriale televisivo, “Il triangolo rosso” e “All’ultimo minuti”, dove si mostrò efficientissimo. E dirige, nel 1969, anche uno dei rari cine-fumetti-erotici, lo spintissimo “Zenabel” con Lucretia Love e Mauro Parenti, suo marito e produttore, John Ireland e Lionel Stander. “Mi divertii molto a farlo, ma non ebbe una grande distribuzione. (..) Lionel Stander non voleva mai girare perché diceva che aveva caldo… ma poi bastava che gli mettessi due o tre donne seminude lì vicino ed ecco che saltava subito in piedi…”.

Al di là del valore del film, dimostra che sa come inquadrare le sue attrici. Del resto se ne è sempre vantato. E’ una dote che gli frutterà un nome nella pubblicità, ma anche al cinema, come dimostrerà il suo primo vero film erotico, “Ondata di calore” con Silvia Dionisio che si spogliava per la prima volta.

Negli anni ’70 esplode davvero e dimostra di poter dirigere di tutto, a cominciare dal poliziottesco alla Di Leo (qui sceneggiatore) “Uomini si nasce, poliziotti si muore” con Marc Porel e Ray Lovelock. Ma è con il nascente generale cannibal, efferati avventurosi che divide con Umberto Lenzi, che dimostra di essere insuperabile. Prima gira “Ultimo mondo cannibale” con Massimo foschi, reduce dall’Orlando furioso di Luca Ronconi, Me Me Lay, una giovane vigilessa asiatica inglese, e il torvo Ivan Rassimov, e poi con il fenomenale “Cannibal Holocaust” nel 1980, che diventerà il suo film di maggiore successo e che gli darà negli anni una fama internazionali.

Ancora oggi stupisce la forza del film perché Deodato tratta il genere con un realismo che nessuno dei registi del tempo possiede. Anche la storia e la struttura narrativa precedono di molti anni la struttura dei piccoli film costruiti col finto footage. “Cannibal Holocaust”, che pure portò molti guai legali a Deodato per la crudezza di molte scene e che oggi non sarebbe più possibile fare con la stessa libertà, segnò la nascita di un cinema di genere completamente libero, anche narrativamente, che svegliò il pubblico e i giovani cineasti di tutto il mondo. 

Deodato diresse tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, molti altri film di terrore e di exploitation, “La casa sperduta nel parco”, “I predatori di Atlantide”, “Inferno in diretta”, “Camping del terrore”, dimostrandosi un vero maestro del genere e distribuendo i suoi film in tutto il mondo. Diresse anche un tardo peplum alla post-Conan, “I barbari” con i gemelli forzuti David e Peter Paul. Diresse i maggiori cattivi del tempo, David Hess, Richard Lynch, Michael Berryman.

Per poi tornare, con la fine del cinema di genere italiano, al seriale televisivo, dove dette vita a un successo come “I ragazzi del muretto”. Negli ultimi vent’anni non riuscì a girare i suoi film come avrebbe voluto e potuto fare. Dovette adattarsi alla miseria del nostro cinema e al suo scarso coraggio. Ma venne “riscoperto” da Eli Roth che lo omaggiò con tanto di partecipazione da cannibale in “Hostel”, e poi da Tarantino a Venezia, che lo celebrò con una proiezione speciale di “Cannibal Holocaust” l’ultimo giorno del festival.

Diresse ancora, ne ho viste almeno tre diverse versioni, un ultimo vero film, “Death in Blood”, una sua versione dell’omicidio di Margareth Kirchner, molto violento e molto erotico, che ci piacerebbe che qualche televisione mostrasse. Perché Deodato, al di là delle celebrazioni più o meno sentite, era un grande regista. Uno degli ultimi grandi registi italiani.

·         È morto l’ archistar Arata Isozaki. 

È morto Arata Isozaki, addio all'archistar giapponese che disegnò la Torre Allianz di Milano. Storia di Redazione Tgcom24 il 29 Dicembre 2022.

È morto Arata Isozaki, "l'imperatore dell'architettura giapponese", vincitore del Premio Pritzker nel 2019. Aveva 91 anni. Tra le sue opere più celebri, spiccano il Museo di Arte Contemporanea di Los Angeles e il Palau Sant Jordi di Barcellona per i Giochi del 1992. In Italia, l'archistar disegnò la Torre Allianz (il "Dritto") di Milano assieme all'italiano Andrea Maffei, il Palasport Olimpico di Torino e firmò il progetto per la Loggia degli Uffizi, mai realizzata.

Oltre al Pritzker, considerato il "Nobel dell'Architettura", Isozaki vinse  nel 1996 il Leone d'Oro alla Mostra internazionale di architettura di Venezia. Durante la sua brillante carriera ha progettato più di cento edifici tra Asia, Europa, America e Australia. La conferma della sua comparsa, avvenuta a Tokyo, è stata data un portavoce del suo studio di Barcellona.

Chi era Isozaki  Grande architetto anche dal punto di vista teorico, Isozaki ha decisamente rivoluzionato il pensiero architettonico in Giappone e nel mondo. Ha partecipato con grande impegno al processo di ricostruzione dopo la Seconda Guerra Mondiale, contribuendo alla radicale modernizzazione del suo Paese. Scevra da influenze oppressive e quasi profetica per quelle che sarebbero diventate nuove tendenze, la sua architettura appare eterogenea, spaziando dalla sperimentazione estrema al gusto storicizzante per la citazione. Il tutto creando un ponte fra tradizione orientale e occidentale.

Anche a 7 posti.

Schmidt: "Si ispirava al Rinascimento italiano"  La scomparsa di Isozaki è stata commentata, tra gli altri, anche dal direttore delle Gallerie degli Uffizi, Eike Schmidt. "Apprendo con sommo dispiacere della scomparsa di Arata Isozaki, grande architetto del XX secolo di fama internazionale. Il suo linguaggio astratto e limpido era in parte ispirato dalla sua profonda conoscenza dell'architettura rinascimentale italiana".

Morto Arata Isozaki, architetto vincitore nel 2019 del premio Pritzker. STEFANO BUCCI su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

Il progettista giapponese aveva 91 anni. Aveva ideato più di cento edifici in Asia, Europa, America e Australia. Tra le sue opere, la Torre Allianz a Milano

Scomparso giovedì 29 dicembre a 91 anni, l’architetto giapponese Arata Isozaki è una delle figure che hanno contribuito a disegnare il paesaggio architettonico dei nostri giorni. Lasciando, tra l’altro, un’impronta significativa nel nostro Paese, dal controverso progetto della Loggia degli Uffizi a Firenze alla Torre Allianz a Milano, 202 metri che svettano sopra il nuovo quartiere di CityLife. «Il suo linguaggio astratto e limpido era in parte ispirato dalla sua profonda conoscenza dell’architettura rinascimentale italiana», ha commentato il direttore del museo fiorentino, Eike Schmidt.

Isozaki poteva contare su un’ispirazione molto versatile: suoi il Museo d’arte contemporanea a Nagi, gli uffici della Disney a Orlando, l’edificio di Potsdamer Platz a Berlino, lo Zendai Art Museum Hotel a Shanghai. E, soprattutto, su una fatale attrazione per l’Italia: in particolare per Brunelleschi e Palladio.

Numerosi i progetti made in Italy (affiancato dall’architetto Andrea Maffei): la nuova stazione ferroviaria di Bologna, il PalaOlimpico di Torino, la Stazione marittima e il Palazzetto dello sport di Salerno, la nuova sede della Provincia di Bergamo, la nuova biblioteca di Maranello (in provincia di Modena), la Torre Allianz a Milano («il Dritto» fra i tre grattacieli di CityLife), per cui aveva scelto come modello la Endless Tower di Constantin Brancusi coniugando però questa ispirazione con l’intera esperienza urbana di Milano, quella della Torre Velasca e del Grattacielo Pirelli.

Nato nella prefettura di Oita (nell’isola di Kyushu) il 23 luglio 1931, Isozaki aveva studiato e si era laureato nell’università di Tokyo, lavorando poi con Kenzo Tange dal 1954 al 1963, anno in cui aveva aperto il suo studio (Arata Isozaki Atelier). Anticipata dall’interesse per il tema delle rovine (un’eco delle distruzioni di Hiroshima è l’Electric Labyrinth esposto alla Triennale di Milano del 1968), la sua prima fase di attività è caratterizzata, secondo i critici, da progetti «utopico-programmatici» in linea con le posizioni del gruppo inglese Archigram e con le proposte del gruppo giapponese Metabolism.

«Sono cresciuto — aveva detto nel 2008 in un’intervista al “Corriere della Sera” — in un luogo raso al suolo. Era in rovina, e non c’erano architetture, edifici e nemmeno una città. Solo baracche e rifugi. Quindi, la mia prima esperienza di architettura è stata il vuoto dell’architettura, e ho iniziato a considerare come le persone potrebbero ricostruire le loro case e città».

Tra le sue realizzazioni più note: il Centro medico di Oita (1961-66); il Piano di espansione della città macedone di Skopje (1965-66) cui ha lavorato come esponente dello staff di Tange; una serie di sedi della Banca Sogo di Fukuoka (sede centrale, Tokyo, Nagasumi, Saga, Ropponmatsu) eseguite tra il 1968 e il 1973; il Museo d’arte moderna della Prefettura di Gumma (1972-74); il Museo d’arte e la Biblioteca Centrale della città di Kitakyushu (1972-74); il Centro generale per esposizioni del Giappone occidentale (1975-77); il municipio di Kamioka (1976-78); il Centro audiovisivo di Oita (1977-79); l’edificio della Nippon Electric Glass Co.Ltd a Otsu (1977-80); il Museo d’arte contemporanea di Los Angeles (1981-86); il palazzo dello sport Sant Jordi a Barcellona (1984-90); l’Art Tower a Mito-Ibaragi (1986-90); il centro di conferenze di Kitakyushu (1987-90). Aveva sposato la scultrice Aiko Miyawaki, peraltro autrice delle sculture all’ingresso del Palau Sant Jordi, che simboleggiano un giardino di alberi.

A proposito delle archistar (di cui faceva comunque parte), teneva a precisare: «Non mi piace come definizione, piuttosto penso che una certa spettacolarizzazione della figura dell’architetto sia il frutto di quella evoluzione generazionale che ha catapultato il progettista al centro dell’attenzione mediatica».

Drastico il giudizio sullo stato attuale dell’architettura: «Ci siamo allontananti dall’idea più classica, quella della tradizione, e i giovani oggi vogliono occuparsi soprattutto di design, hanno perso quell’idea di progetto classico, alla Brunelleschi che non a caso costruiva i propri edifici guardando alla classicità e direttamente sul cantiere» (in un suo libro aveva stabilito «affinità elettive» tra il Quattrocento italiano e il Giappone).

Quando nel 2019 il premio Pritzker era tornato a celebrare la lezione dei maestri, aveva scelto di conferire il riconoscimento proprio al grande (e schivo) Arata Isozaki. Con una motivazione che aveva apprezzato: «Un progettista capace di superare la struttura dell’architettura per sollevare domande che trascendono le ere e i confini». E di confrontarsi «con una modernità sempre più complessa». Un architetto che, spiega il collega Andrea Maffei (nel 2005 hanno fondato a Milano l’Arata Isozaki & Andrea Maffei Associati), «ha sempre voluto essere cittadino del mondo».

Isozaki, l'utopista che ha ricostruito il "suo" Giappone e cambiato Milano. Il celebre architetto aveva vinto i premi più prestigiosi e aperto uno studio in Italia. Andrea Dusio il 30 Dicembre 2022 su Il Giornale.

«Nella sua ricerca di un'architettura significativa, ha creato edifici di grande qualità che ancora oggi sfidano le categorizzazioni». Nel 2019 Arata Isozaki, archistar giapponese, morto ieri a 91 anni, veniva insignito del Pritzker, il prestigioso riconoscimento che vale nell'ambito dell'architettura quanto un Nobel. Nelle motivazioni della giuria ricorreva un giudizio che accomuna in qualche modo i suoi estimatori e detrattori, diffusi soprattutto alle nostre latitudini. Isozaki era un architetto sorprendente, un utopista che aveva partecipato con grande energia alla modernizzazione del Giappone dopo la Seconda guerra mondiale, un grande protagonista della ricostruzione postbellica. In quella fase il suo lavoro teorico era stato preziosissimo per il suo Paese, per la capacità di aprirsi al confronto e allo scambio con la cultura occidentale, nel segno di un pensiero architettonico eclettico, che compendiava la sperimentazione radicale e l'inserzione di citazioni. Nella memoria degli italiani, il suo nome è legato soprattutto al concorso per l'uscita monumentale degli Uffizi. Era il 1998, e il suo progetto, firmato assieme ad Andrea Maffei, venne preferito a quelli di Norman Foster, Hans Hollein, Vittorio Gregotti, Mario Botta e Gae Aulenti. Un esito controverso, perché la costruzione, in acciaio, vetro e pietra serena, che intendeva parafrasare la Loggia dei Lanzi di Piazza della Signoria, riorganizzando gli spazi di Piazza del Grano, venne contestata da subito, in parte per i pochi ancoraggi al terreno e per ragioni di conservazione del patrimonio storico (durante i lavori vennero presto alla luce resti archeologici). Ancora nelle scorse settimane Vittorio Sgarbi, sottosegretario ai Beni e alle Attività Culturali, è tornato a ripetere che il progetto non verrà completato dal nuovo governo. La vicenda, ormai ventennale (i lavori dovevano essere completati nel 2003), ha finito per diventare il terreno di una discussione relativa alla convivenza tra il linguaggio dell'architettura contemporanea e la lunga stratificazione monumentale delle nostre città d'arte. Discussione che trascende il senso del progetto di Isozaki e suoi eventuali limiti.

Ma l'architetto giapponese ha continuato a lavorare nel nostro Paese, realizzando progetti che hanno contribuito a ridisegnare il profilo di alcune aree urbane al centro di importanti progetti di riqualificazione. Vanno ricordati in tal senso i suoi interventi nel sito della vecchia Pirelli (2001) e della Fiera Campionaria di Milano (2004). Isozaki ha contribuito in maniera determinante a ridefinire lo skyline meneghino, con il progetto della Torre Allianz, il grattacielo di Citylife che dialoga con le costruzioni di Zaha Hadid e Daniel Libeskind. Per le Olimpiadi Invernali di Torino ha realizzato il Palahockey (2002-2006), che ha finito per incarnare esteticamente il nuovo volto del capoluogo piemontese, e la sua transizione da «motor city» a città in grado di attrarre anche il turismo culturale, diventando una «fabbrica di avvenimenti», secondo la definizione dello stesso Isozaki, il quale negli anni successivi si è aggiudicato anche i concorsi per la realizzazione della nuova stazione centrale di Bologna (2008), la sede della Provincia di Bergamo (2009 ), della Biblioteca comunale di Maranello (2011).

Leone d'oro alla Mostra internazionale di architettura di Venezia del 1996, Isozaki era nato a Oita, sull'isola di Kyushu, nel 1931. Il bombardamento atomico del 1945 sulla vicina Hiroshima aveva segnato la sua adolescenza. «Sono cresciuto sul ground zero. Era in completa rovina, non c'era architettura, non c'erano edifici e nemmeno una città. Mi circondavano solo baracche e rifugi. La mia prima esperienza di architettura è stata il vuoto, e ho iniziato a pensare a come le persone avrebbero potuto ricostruire le loro case e le loro città». Si era laureato a Tokyo nel 1954, e aveva cominciato a progettare edifici solo dopo aver viaggiato a lungo, visitando la Cina rurale, le città del mondo islamico, le metropoli americane e del Sud-Est asiatico. Nel 1954 aveva realizzato la Medical Hall e la Biblioteca della Prefettura della sua città natale. Quei primi lavori sono segnati dalla lezione del Brutalismo europeo, che all'epoca contrastava vivacemente con la tendenza del movimento nipponico Metabolism, ispirata a un'idea di architettura organica, in profondo colloquio con la natura. Isozaki per molti versi era invece più vicino alla ricerca del gruppo inglese Archigram. La sua visione della città è sempre stata segnata dal tentativo di mettere a confronto elementi verticali e volumi elementari, a cui legare le aree in cui è destinato a crescere il nuovo abitato, e il paesaggio preesistente, con la sua storia significativa, che leggeva attraverso la lezione dei primi maestri dell'architettura europea, da Le Corbusier a Loos. Il conflitto con la visione che gli italiani mantengono delle loro città è probabilmente legato a questa sua spinta a essere assolutamente moderno, figlio del XX secolo e delle sue contraddizioni estetiche.

·         È morto il giornalista Carlo Fuscagni.

È morto Carlo Fuscagni, storico direttore di Rai1. Storia di Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 28 dicembre 2022.

È morto Carlo Fuscagni, giornalista e dirigente Rai di lungo corso, in cui era stato tra l’altro direttore di Rai1 dal 1988 al 1993. Aveva 89 anni. Ad annunciarlo è il sindaco di Città di Castello Luca Secondi. «Ci ha lasciati oggi un grande uomo prima di tutto, innamorato della sua città e delle sue origini che ha sempre rivendicato con orgoglio» dice. «Un professionista elegante e colto del giornalismo - afferma Secondi -, della televisione e del cinema, ambiti che lo hanno visto a lungo protagonista di successi e progetti che ancora oggi tutti ricordano con doverosa gratitudine».

Direttore

Carlo Fuscagni era soprattutto un simbolo, un volto noto della Rai, il servizio pubblico, dove ha ricoperto incarichi di primissimo piano alla guida della Rete. Carlo Fuscagni ha legato la brillantissima carriera anche alla sua città dove ha ricoperto soprattutto il ruolo di presidente del Festival delle Nazioni adoperandosi fattivamente per promuovere a livello internazionale l’immagine della città e delle numerose eccellenze attraverso la presenza costante negli anni ‘80 e ‘90 di tante celebrità della televisione, del cinema, dello spettacolo e della cultura. «Un pezzo di storia del nostro Paese che con orgoglio ricorderemo attraverso la sua figura e quello che ci lascia in eredità in termini di valori e punti di riferimento». Il giornalista era nato a Città di Castello il 7 gennaio 1933

·         E’ morto lo scrittore e critico letterario Cesare Cavalleri.

Stile, intransigenza, humour. La lezione di un critico etico. È morto il direttore di "Studi cattolici" e delle edizioni Ares. Lettore severo e autore di grande eleganza. Luca Doninelli il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le persone che contano davvero si rivelano al primo impatto, quello che si stamperà per sempre nella memoria e che sarà l'ultimo ad andarsene.

Ricordo perfettamente il caldo pomeriggio di luglio, anno 1983, in cui feci la conoscenza di Cesare Cavalleri. Ero stato assunto come praticante da una settimana ad Avvenire e mi avevano messo a titolare gli articoli della pagina degli spettacoli. Conobbi Cesare, prima che di persona, attraverso un suo articolo: su Loretta Goggi. A quarant'anni di distanza ricordo ancora l'attacco: «Quasi irriconoscibile nel suo look vecchile...». L'aggettivo mi incantò. Il giorno seguente Cesare comparve di persona in redazione per lamentarsi del titolo, che era mio. Fu tagliente, quasi cattivo, ma nella sua ramanzina riconobbi una specie di benevolenza: gli ero simpatico.

Mi colpiva la corrispondenza perfetta tra lo stile della sua scrittura e la sua presenza fisica, il suo modo di vestire, i baffi, lo sguardo sottile. In lui non c'era mai nulla di casuale: questo lo compresi subito e lo constatai sempre, fino al nostro ultimo incontro, qualche mese fa. L'orrore per la chiacchiera, per i discorsi equivoci o generici, per il «si fa», il «si dice» era tale in lui da indurlo a definire molto bene l'immagine che intendeva trasmettere di sé. Questo è lo stile.

Un'immagine che si tradusse in un'attività editoriale (la fondazione e la direzione della casa editrice Ares) e pubblicistica (la direzione di Studi Cattolici e la collaborazione con altre testate, prima fra tutte Avvenire) davvero sterminate. Eppure, qualunque suo scritto leggiate, avrete sempre l'impressione di parole meditate e sedimentate a lungo. Perché la profondità non è questione di ore, anni o minuti, è un'attitudine etica: le cose vanno dette con le loro parole, e le parole sono quelle, e mai altre. Pochi sono stati maestri in questo come Cesare. Per questo trattengo ancora quell'incipit su Loretta Goggi.

Ogni casa editrice importante ha un suo totem. Il totem di Ares si chiama Eugenio Corti, uno degli scrittori italiani più letti dell'ultimo mezzo secolo, che Cavalleri sottrasse alla bolla sistemica della cultura italiana. Corti con il suo Il cavallo rosso non è uno di quegli autori che «si» leggono: Corti deve essere scelto, Corti è una decisione, Corti non è sistemico: è un grande scrittore, e va tenuto fuori dalla chiacchiera letteraria. La preferenza di Cesare per Eugenio Corti rappresentava una sorta di endorsement: indicando Corti ai lettori, Cesare raccontava il proprio modo di fare e raccontare la letteratura.

So che si dovrebbe, a questo punto, parlare della sua appartenenza all'Opus Dei, alla sua scelta di dedicare interamente la propria vita a Dio attraverso il lavoro e l'impegno culturale. Sono cose importanti ma facilmente equivocabili e preferirei lasciarle a chi le sa raccontare meglio di me.

Ho fatto esperienza, piuttosto, della sua intransigenza, che riservava tanto a una poesia quanto a un fatto di Chiesa quanto a sé stesso. Ma questa parola, «intransigenza», non deve a sua volta trarre in inganno: in lui non c'era nulla di inquisitorio, la sua intransigenza era essenzialmente di carattere estetico, nel senso alto di questa parola. Cesare sapeva che lo stesso Cristianesimo è prima di tutto un fatto estetico, il contraccolpo di una bellezza alla quale un uomo serio dovrebbe consegnare tutto sé stesso.

Perciò il rigore conviveva anche, beato lui, con un humour straordinario, che sarebbe un grave errore passare sotto silenzio. Le sue «stroncature» contengono alcune delle pagine più esilaranti della letteratura italiana degli ultimi decenni. Una scrittura sciatta lo feriva, lo offendeva, meritando la sua crudeltà tutta di stile e mai di cuore. Un esempio su tutti: le memorabili stroncature dei libri di Umberto Eco.

Con me fu sempre buono anche quando scrivevo cose che non gli piacevano. Segno di una preferenza per me incomprensibile, ma di cui sono grato a Dio. Del resto il suo metodo critico, pur rigorosissimo, non incoraggiava mai la sistematicità, bensì la preferenza, il rischio, fino all'arbitrio.

Sospetto che oggi ci abbia lasciato non tanto un grande editore o un grande giornalista, ma un grande scrittore. Che, come tutti i grandi, sarà scoperto poco a poco, perché l'ingegno pesa e portarlo a galla è più difficile.

"In Italia non ci sono più veri scrittori e veri poeti". Così, nel 2019, bacchettava la cultura nostrana. Luigi Mascheroni il 29 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Capelli candidi, e l'anima di più ancora, elegantissimo nelle nuance delle pochette e nelle sfumature della scrittura, 83 anni, nato a Treviglio, cresciuto professionalmente a Verona e da mezzo secolo a Milano - terre esigenti e dure di cattolicesimo contadino, famigliare, conservatore - Cesare Cavalleri, scrittore e critico letterario, numerario dell'Opus Dei, dal 1965 è direttore delle Edizioni Ares e - record di durata per una testata italiana - della rivista Studi cattolici. Alle spalle ha una vita di letture, una magnifica vetrata del suo studio che dà sul Parco delle Basiliche a Milano («ora si chiamano Giardini Giovanni Paolo II...») e un cartello che dice molto di lui e del lavoro dell'editore: «Se davvero volete aiutarmi, vogliate passare i vostri consigli agli editori concorrenti»). Davanti a sé ha invece una parete con bigliettini e fotografie dei «suoi» pontefici e dei grandi scrittori incontrati (Buzzati, Eliot, Quasimodo...) e una parete di scaffali con i libri dedicati (Spadolini, Pampaloni, Bonura...).

Lei è il motore della casa editrice Ares, che pubblica 40 titoli l'anno. Scrive per Avvenire dal primo numero, nel '68. E dirige Studi cattolici. Siamo al numero 700. Auguri.

«Sono arrivato qui quando usciva il numero 46, nel gennaio 1965. E non mi sono più mosso».

E la rivista?

«La rivista sì che si è mossa. Si è trasformata coi tempi, ma mantenendosi fedele allo spirito originale: offrire una chiave di lettura delle cose che accadono nel mondo e nella cultura. Tanto più necessaria oggi in un'epoca in cui, travolti da un eccesso di informazioni, si fatica a trovare un ordine, delle gerarchie».

E la chiave di lettura è quella cattolica.

«Certo. Da cattolici lavoriamo nell'ottica di una ricerca e di una passione cristianamente ispirate ai temi del Bello come rivelatore del Vero. In quanto all'aggettivo cattolico, be'... San Josemaría Escrivá diceva che era inutile rimarcare la radice confessionale della rivista. E in effetti quel cattolici dà più fastidio a noi che ai non cattolici, i quali anzi ci dicono: Fate bene. Così si sa subito chi siete!».

Lei per anni ha seguito, recensito e criticato la letteratura e la poesia italiane. Che peso hanno oggi?

«La letteratura italiana nel mondo conta nulla. Dopo Italo Calvino e la sua generazione, che a me neppure piace particolarmente, non c'è stato più niente. Per altro la forma romanzo non è tipica della tradizione letteraria italiana, ma di quella anglosassone. I nostri sono racconti che tiriamo a 200 e più pagine per poterli chiamare romanzi. Ma mancano del tutto l'intreccio romanzesco e la creatività che distingue un romanziere da un compilatore».

I nostri scrittori sono compilatori?

«Ma sì... Non se ne può più dei romanzi sull'infanzia, la famiglia, la madre, il racconto intimistico... Ma chi se ne frega. Stessa cosa la poesia. Quando sento parlare di poesia narrativa mi irrigidisco. Questi non sono veri scrittori, non sono veri poeti».

·         E’ morto il direttore di fotografia Blasco Giurato.

Marco Giusti per Dagospia il 27 dicembre 2022.

Bravo, efficiente, veloce, spiritoso, gran memoria del cinema italiano, Blasco Giurato, 81 anni, uno degli ultimi direttori della fotografia della vecchia generazione ancora attivi, anzi attivissimo fino all'ultimo, se ne va con il suo carico di esperienze, racconti favolosi e praticaccia di set. 

Romanissimo, nato nel 1941, fratello del giornalista televisivo Luca Giurato e del cantautore Flavio, tre fratelli con tre strade del tutto diverse, è stato il direttore della fotografia di film importanti come "Il camorrista", "Nuovo cinema Paradiso", "Stanno tutti bene" e "Una pura formalità" di Giuseppe Tornatore, "L'anno del terrore" di John Frankenheimer, "Teresa" e "Tolgo il disturbo" di Dino Risi, "Una spirale di nebbia" e "La orca" di Eriprando Visconti, "Fuga dal Bronx" di Enzo Castellari, "Ferdinando e Carolina" di Lina Wertmuller.

Ma soprattutto è stato un prestigioso operatore alla macchina a fianco del suo maestro, Dario Di Palma, lavorando su film favolosi come "I clowns" di Federico Fellini, "La morte ha fatto l'uovo" e "Arcana" di Giulio Questi, "Mimi metallurgico" della Wertmuller. 

Ha fotografato decine e decine di spot pubblicitari per la Cep di Arturo La Pegna e le regie di Giulio Questi e Franco Giraldi. Sarebbe stato il giusto e naturale ricambio dei suoi maestri, come i Di Palma o i Delli Colli, se il cinema degli anni 80 e 90 fosse stato davvero in linea con quello precedente. Ma si dovette accontentare dei film di Pupi Avati e Renzo Martinelli, o di una serie incredibile di opere prime e seconde di qualsiasi tipo, spesso ai limiti del trash, come "Chicken Park" di Jerry Calà.

Si specializzò per il suo carattere aperto e cordiale nei film diretti da ragazze, soprattutto per le commedie, penso al recentissimo "Vecchie canaglie" di Chiara Sani o a "Burraco fatale" della veterana Giuliana Gamba, ma lo troviamo attivo anche nei due film finali di Carlo Lizzani per la TV, "Maria José" e "Le cinque giornate di Milano" o per il bellissimo e sfortunato "Vipera" di Sergio Citti. L'ultimo film, del 2022, è l'ancora inedito "Lamborghini" di Bobby Moresco con Frank Grillo e Mira Sorvino.

·         E’ morto l’imprenditore Gabriele Piemonti.

E’ morto Gabriele Piemonti, marito di Ambra Orfei. Era il re delle notti in Romagna. La Repubblica il 28 dicembre 2022

Gabriele Piemonti nel giorno del suo matrimonio con Ambra Orfei celebrato a Gradara nel 2015 

Aveva 61 anni. L'ultimo saluto alla Casa funeraria di Milano, il funerale a Cattolica. Un imprenditore che è stato innovatore in ambito turistico. Lo piangono gli amici: "Sarai il nuovo direttore artistico del Paradiso"

 È scomparso a 61 anni in ospedale a Milano, stroncato da un malore, Gabriele Piemonti, marito di Ambra Orfei, storico imprenditore della notte della Riviera romagnola. Molto attivo a Riccione, ha dato vita a locali del divertimento notturno conosciuti in tutto il Paese e all'estero, come il "Prince" e il Malindi di Cattolica. Per 30 anni con la moglie Ambra ha realizzato i sogni dei bambini e dato "vita alle fantasia di grandi e piccoli" realizzando i "Villaggi delle meraviglie" proprio durante le feste. Un personaggio, indimenticabile. Ogni anno l'inizio della stagione veniva celebrato con l'immancabile appuntamento del concerto di Dj Ralf sulla spiaggia del Bikini in occasione del ponte del 25 aprile.

La funzione religiosa per l'ultimo saluto sarà presso la Casa Funeraria San Siro di via Corelli a Milano giovedì 29 (alle ore 11). Il rito funebre sarà celebrato a Cattolica presso la chiesa Pio x venerdì 30 dicembre alle ore 11.30. 

"Alla famiglia, ad Ambra e alla figlia Ginevra va il cordoglio più sincero mio e di tutta l'amministrazione comunale", scrive la sindaca di Riccione Daniela Angelini. "Un imprenditore che è stato un vero innovatore in ambito turistico - ricorda la sindaca di Cattolica Franca Foronchi - Conoscevo Gabriele ed Ambra per la loro attività imprenditoriale e la loro indiscussa capacità professionale, e li ho sempre considerati amici, persone con le quali ti trovi bene. Avevano scelto Gradara come luogo del loro matrimonio, quando ne ero sindaca e tutte le volte che andavo al Malindi mi stupivano sempre per la gentilezza, il sorriso e la disponibilità d’animo, l’affabilità con cui ti accoglievano. Porgo le più sentite condoglianze ad Ambra, a Ginevra e alla sua famiglia. La comunità di Cattolica si stringe a voi con un grande e forte abbraccio". 

"Ciao Gabriele, non ti dimenticheremo mai"

Centinaia i messaggi degli amici che lo piangono. "Ciao Gabriele che la terra ti sia lieve. Sarai il nuovo Direttore Artistico del Paradiso"; "Bellissime serate passate insieme al tuo locale Il Prince di Riccione e in seguito in tanti altri, che belle avventure, e proprio questa estate ci siamo rivisti nel tuo Bikini a Cattolica. Ciao amico mio fai buon viaggio"; "A proposito quando sei su organizza , qualcosa come sai far te così quando tocca a noi sappiamo già dove andare a divertirci";" Mi permetto di dire che per me era un nuovo amico, gli volevo bene, mi piaceva la sua schiettezza, semplicità e generosità.  Col suo “Villaggio delle Meraviglie” ha fatto divertire migliaia e migliaia di bimbi, ci ha fatto stare bene, ci ha rallegrato, ci ha fatto pensare a cose buone, come lui. Ciao Gabriele, non ti dimenticheremo mai". E ancora: "Ci lascia un grande uomo, Gabriele Piemonti. Una di quelle persone che mi ha affascinato dal primo giorno in cui l’ho incontrato sulle gradinate del Rolling Stone, progettando allestimenti. Ne è nata un’amicizia vera, basata sulla comune passione nel costruire strumenti di felicità per le persone".

Addio a Gabriele Piemonti, era il marito di Ambra Orfei. Scomparso dopo un malore improvviso Gabriele Piemonti noto imprenditore e re delle notti della Riviera Romagnola. Roberta Damiata su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

A soli 61 anni è scomparso per un malore improvviso, Gabriele Piemonti noto imprenditore della Riviera Romagnola e marito di Ambra Orfei figlia del celebre Nando della nota famiglia circense. L'uomo è deceduto in un ospedale di Milano dopo un breve ricovero dovuto ad un improvviso malore. Diventato il re delle notti della Riviera Romagnola era partito agli inizi degli anni '90 con la nota discoteca Prince di Riccione, che grazie alla sua guida divenne un punto di riferimento non soltanto per l'Italia, ma anche all'estero.

Fu lui a creare le famose cubiste del locale, come ricorda Attilo Cenni, suo socio: "Al Prince sono nate le cubiste. Le inventò lui. Preparò i cubi ed ebbe l’idea di farci ballare sopra delle ragazze che diventarono appunto le “cubiste”. Noi eravamo estasiati, lui integerrimo. Senza timori reverenziali". Ricordato da molti come un "visionario, creativo, una persona con cui si poteva fare l’impossibile", dopo il Prince, che fu il suo fiore all'occhiello, allargò gli orizzonti del suo lavoro. Per molti anni Piemonti gestì anche il Bikini di Cattolica, locale a pochi passi dal mare, ma non solo, sua anche l'idea della Sceniko Events, la grande società di eventi che riuscì ad organizzare le più grandi scenografie per marchi come Ferrari, Microsoft o per il Comune di Milano, dove l'imprenditore viveva.

"Con lui organizzammo una sfilata di moda alla Triennale di Milano. – racconta un suo caro amico di Riccione – In pratica l’idea era questa: una sfilata di modelle lungo una passerella, a fare da sfondo un telo bianco. Dietro il telo si esibivano vari artisti. Con un gioco di luci venivano proiettate le loro ombre sul telo. Gli spettatori credevano che erano video proiettati, poi d’improvviso il telo veniva alzato. Apparvero gli artisti in carne ed ossa. Una cosa da brividi".

Nel 2015 aveva sposato, con una sontuosa cerimonia nel castello medievale di Gradara nelle Marche, Ambra Orfei, figlia di Nando della nota famiglia circense, che attualmente gestisce l'azienda di eventi. I due hanno avuto una figlia. Tanti i messaggi di cordoglio arrivati, tra cui quello di Alessandro Belluzzi, vicesindaco di Cattolica: "La notizia della scomparsa di Gabriele Piemonti mi lascia veramente senza parole, da oggi il mondo dell’intrattenimento notturno e non perde un vero e proprio punto di riferimento". Anche l’amministrazione comunale di Riccione si è unita al cordoglio con una nota firmata dal sindaco Daniela Angelini.

Alle 11 di mercoledì 28 dicembre è prevista una funzione religiosa alla casa funeraria San Siro di via Corelli a Milano. La salma sarà poi trasferita alla chiesa PioX di Cattolica, e il rito funebre si terrà venerdì 30 dicembre alle 11.30.

·         E’ morta la corista Claudia Arvati.

Da tgcom24.it il 28 dicembre 2022.

Addio a Claudia Arvati. La cantante è morta a 62 anni al termine di una malattia che lei stessa aveva raccontato con diversi post social. "Ciao Claudia. La tua voce bellissima canterà sempre con noi" ha scritto Claudio Baglioni di cui l'Arvati è stata storica corista così come di molti altri grandi artisti.

Aveva partecipato anche alla seconda stagione di "The Voice Senior" arrivando in finale. Claudia Arvati era originaria di Gazoldo degli Ippoliti, nel Mantovano, dove era nata il 14 novembre 1960. In oltre quarant'anni di carriera ha collaborato con alcuni degli artisti più importanti della musica italiana. Oltre a Claudio Baglioni la cantante aveva lavorato con Gianni Morandi, Renato Zero, Fiorella Mannoia, Giorgia e Andrea Bocelli oltre che di Gigi D'Alessio che era stato suo coach a "The Voice Senior". 

Ma in qualità di corista aveva partecipato anche a quattro edizioni del Festival di Sanremo e a trasmissioni televisive come "Pronto chi gioca", "Furore", "Amici", "La Corrida" e "Carramba che sorpresa". 

La cantante aveva affidato ai social, attraverso immagini e parole, la sua battaglia contro la malattia. Il 22 luglio aveva postato su Facebook una foto che la ritraeva in ospedale accompagnata da un testo che accennava alla malattia. "Mi chiamo Claudia e sto per operarmi. E' un appuntamento a cui non posso mancare ma se supero questa vinco 100 punti Millemiglia - aveva scritto -. E magari trovo il tasto CANC e fermo questa centrifuga. Sto provando a convincere il corpo ad allearsi con me e a surfare su questo stronzetto che mi zompetta dentro. Un po' come succede con le voci in coro: ascoltando, seguendo l'onda, vibrando all'unisono. Conoscendo il percorso da fare insieme. Se il corpo si convince e mi segue, siamo a cavallo".

Claudia Arvati, addio alla corista dei più grandi big italiani. Scomparsa all'età di 62 anni la corista dei più grandi big italiani: da Baglioni a Fiorella Mannoia. Il dolore dei fan e di tanti noti personaggi del mondo della musica. Roberta Damiata su Il Giornale il 27 Dicembre 2022.

È un giorno molto triste per la musica italiana, è scomparsa all'età di 62 dopo una lunga malattia, Claudia Arvati una delle più grandi coriste del nostro Paese. A darne il commosso annuncio Claudio Baglioni che con lei aveva condiviso per decenni il palco: "Ciao Claudia. La tua voce bellissima canterà sempre con noi". Al suo saluto si è unito quello di decine di big da Gigi D'Alessio a Fiorella Mannoia che con Claudia divideva anche una lunga amicizia.

Nata a Mantova il 14 novembre del 1960, la passione per la musica e il canto erano sbocciati prestissimo in lei. Già all'età di 7 anni frequentava la scuola di musica e andando avanti cominciò a prendere lezioni di canto e a studiare basso e chitarra. A 17 anni formò una cover band tutta al femminile, che attirò l'attenzione dell'allora casa discografica RCA che le fece un provino e la prese come cantante e chitarrista nel gruppo dei Pandemonium. Claudia si trasferì quindi a Roma dove, con la sua voce unica, iniziò la carriera di corista lavorando con i più grandi.

I grandi artisti che hanno lavorato con lei

Donatella Rettore, Fiorella Mannoia, Renato Zero, Gigi D'Alessio, Gianni Morandi, Giorgia e Andrea Bocelli, sono soltanto alcuni con cui ha condiviso il palco in giro per l'Italia e per il mondo. Ma non solo; notata da Gianni Boncompagni si aprì per lui una proficua carriera televisiva. Boncompagni la volle per alcuni dei suoi programmi come Pronto chi Gioca e Carramba che sorpresa. Partecipò poi ad altre importanti trasmissioni come Furore, Passo Doppio, La Corrida, Amici e Fantastico.

Diventà anche direttrice del Coro Roman Academy. Sin dagli inizi della sua malattia, aveva condiviso il suo percorso con i fan attraverso i social, così come la sua battaglia che aveva affrontato giorno per giorno sempre con il sorriso sulle labbra come la ricordano in molti. Una guerriera viene ora considerata in molti messaggi, che però non è riuscita a vincere la sua battaglia. "Dolore. Senza parole. riposa in pace guerriera..", è il commento di Tosca che spicca tra i tanti lasciati.

E sono infatti innumerevoli i personaggi che si sono uniti al dolore della famiglia, come il commovente post dell'amica Fiorella Mannoia corredato da una foto della corista già malata ma sempre sorridente: "Eravamo giovani, compagne di musica e di giochi. La voglio ricordare così con quel sorriso e quell'allegria contagiosa. Buon viaggio Claudia". A lei i messaggi anche di Gigi D'alessio che la volle fortemente nella sua squadra di The Voice: "Da oggi sei la voce più bella del coro degli angeli. Ciao Claudia", e anche quelli di Andrea Bocelli e Donatella Rettore.

·         È morto il cantante Maxi Jazz.

È morto il cantante dei Faithless Maxi Jazz: aveva 65 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 25 Dicembre 2022

L’artista aveva dato vita alla band elettronica nel 1995: si «è spento serenamente nel sonno»

È morto a 65 anni Maxi Jazz, voce dei Faithless. A darne la notizia è stato lo stesso gruppo elettronico britannico con un post su Facebook: «Abbiamo il cuore spezzato nel dire che Maxi Jazz è morto ieri sera - ha scritto sabato la formazione -. Era un uomo che ha cambiato la nostra vita in così tanti modi. Ha dato il giusto significato e messaggio alla nostra musica. Era una persona adorabile che trovava tempo per tutti, con una saggezza che era al tempo stesso profonda e accessibile. È stato un onore e, naturalmente, un vero piacere lavorare con lui».

Nome d’arte di Maxwell Fraser, Maxi Jazz era nato a Londra nel 1957 e aveva dato vita ai Faithless nel 1995 insieme agli altri componenti fissi Rollo e Sister Bliss, attorno a cui ruotavano spesso molti artisti ospiti. Con un mix di dance e trip hop che di frequente lanciava anche messaggi politici (con attenzione in particolar modo al tema dell’immigrazione), il gruppo ha venduto milioni di dischi e raggiunto le vette delle classifiche in molti Paesi, riscuotendo grande successo con hit come «God is a dj». Le cause della morte di Maxi Jazz non sono state rivelate, ma Sister Bliss ha scritto sui propri account social che il cantante «è morto serenamente nel sonno» nella sua casa a sud di Londra. 

·         Morto l'attore britannico Ronan Vibert.

Da leggo.it il 26 Dicembre 2022.

Morto l'attore britannico Ronan Vibert, noto per i ruoli dell'editore Diarmuid Russell nel film «Saving Mr. Banks» e di Giovanni Sforza nella serie tv «I Borgia», è morto in un ospedale della Florida dopo una breve malattia all'età di 58 anni.

L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla sua manager Sharon Vitro a «The Hollywood Reporter»; la natura esatta della malattia non è stata specificata. Nato nel Cambridgeshire, in Inghilterra, il 23 febbraio 1964, Vibert ha vissuto a Penarth, nel Galles meridionale, fino a quando non ha frequentato la Royal Academy of Dramatic Art a Londra.

La carriera

Tra i primi ruoli di rilievo figurano tre episodi dell'acclamata miniserie britannica «Traffik» del 1989, da cui è stato tratto il film «Traffic» di Steven Soderbergh, vincitore di un Oscar nel 2000. Negli anni '90 Vibert ha ottenuto numerosi ruoli in programmi televisivi britannici. In seguito ha recitato in film come «L'ombra del vampiro» (2000) con John Malkovich e Willem Dafoe, «Hollywood Confidential» (2001) del regista Peter Bogdanovich, «Il pianista» (2002) del regista Roman Polanski, «Tomb Raider: La culla della vita» (2003).

In «Saving Mr. Banks» (2013) di John Lee Hancock, film su Walt Disney, Vibert ha interpretato l'editore della scrittrice Pamela Lyndon Travers, autrice di «Mary Poppins», interpretata da Emma Thompson, in un cast che comprendeva anche Tom Hanks, Colin Farrell, Paul Giamatti e Bradley Whitford. I suoi ruoli più recenti nei lungometraggi sono arrivati con due titoli del 2017: il thriller «L'uomo di neve», diretto da Michael Fassbender, e il film d'azione storico «6 Days», con Jamie Bell e Mark Strong.

·         È morto il politico Nicola Signorello.  

È morto Nicola Signorello, ministro Dc ed ex sindaco di Roma. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2022.

È morto nella sera di Santo Stefano Nicola Signorello, 96 anni, senatore della Democrazia Cristiana per 5 legislature (V, VI, VII, VIII, IX), ministro del Turismo e dello Spettacolo nel governo Rumor tra luglio 1973 e marzo 1974, e della Marina Mercantile con Cossigna premier tra marzo e ottobre 1980, ma anche presidente della Commissione di Vigilanza Rai (1983-1985) e sindaco di Roma dal 31 luglio 1985 al 10 maggio 1988. A darne notizia, i figli Domenico e Clemente in una nota.

Morto Nicola Signorello, ex sindaco di Roma e ministro Dc. La Repubblica il 27 Dicembre 2022

Ha fatto parte dei governi Rumor e Cossiga. Dal 1985 al 1988 primo cittadino della capitale.

È morto nella sera di Santo Stefano Nicola Signorello, 96 anni, senatore della Democrazia Cristiana per 5 legislature, ministro del Turismo e dello Spettacolo nel governo Rumor tra luglio 1973 e marzo 1974, e della Marina Mercantile con Cossiga premier tra marzo e ottobre 1980, ma anche presidente della Commissione di Vigilanza Rai (1983-1985) e sindaco di Roma dal 31 luglio 1985 al 10 maggio 1988. A darne notizia, i figli Domenico e Clemente in una nota.

Il suo esordio in politica risale agli anni Cinquanta, come consigliere provinciale a Roma: è uno degli esponenti più in vista della corrente di Andreotti insieme a Evangelisti e Petrucci. A Roma guida la prima giunta di pentapartito dopo 9 anni di amministrazioni di sinistra a guida comunista. Si dimette nel maggio del 1988, dopo una serie di fibrillazioni della maggioranza e un'ondata di critiche soprattutto da parte dei socialisti. Viene sostituito ad agosto da Pietro Giubilo.

Si è ritirato dalla vita politica nel 1989. È stato anche presidente del Credito sportivo.

·         E' morto il giornalista Claudio Donat-Cattin.

Giornalismo, morto a 79 anni Claudio Donat-Cattin. Storia di Redazione Tgcom24 il 24 dicembre 2022.

Lutto nel mondo del giornalismo: è morto a 79 anni Claudio Donat-Cattin, ex vicedirettore de "Il Giorno" e di Raiuno. Primogenito dei quattro figli di Carlo Donat-Cattin, segretario della Democrazia Cristiana e ministro, alcune settimane fa era stato colto da un malore ed era stato ricoverato all'ospedale Gemelli. Ha lavorato per la "Gazzetta del Popolo" ed è stato autore, insieme al collega Vito Napoli, di un'inchiesta del 1969 sullo scandalo delle Cliniche nella Sanità Torinese. Autore di diversi programmi Rai, ha lavorato al fianco di Bruno Vespa nella trasmissione "Porta a Porta".

Da repubblica.it il 24 dicembre 2022.

E' morto a Roma, all'età di 79 anni, Claudio Donat-Cattin, primogenito dei quattro figli di Carlo Donat-Cattin, segretario della Democrazia Cristiana e ministro. 

Alcune settimane fa era stato colto da un malore ed era stato ricoverato all'ospedale Gemelli: nella notte c'è stato un peggioramento ed è deceduto. 

Giornalista professionista, era nato a Murazzano, in provincia di Cuneo. Ha lavorato per la 'Gazzetta del Popolo' ed è stato autore, insieme al collega Vito Napoli, di un'inchiesta, nel 1969, sullo scandalo delle Cliniche nella Sanità torinese. Una serie di articoli che fecero luce sulle attività private di nomi noti di medici, esercitate nelle strutture universitarie, utilizzando risorse pubbliche. Per quell'inchiesta Claudio Donat-Cattin vinse nel 1971 il premio 'Saint Vincent' per la cronaca. 

E' stato vice direttore della 'Gazzetta del Popolo', vice direttore de 'Il Giorno' e vice direttore di Raiuno. Autore di programmi Rai, ha lavorato a fianco di Bruno Vespa nella trasmissione 'Porta a Porta'. Donat-Cattin lascia la moglie Roberta, la figlia Barbara, la nipote Natalie e la sorella Maria Pia.

Morto Claudio Donat-Cattin, figlio del ministro Dc. Vespa: «Scompare un grande giornalista». Carlotta De Leo su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

Aveva 79 anni ed era stato colto da un malore alcune settimane fa. «Punto di forza della trasmissione Porta a Porta fin dalla sua fondazione»

È morto a Roma, all'età di 79 anni, Claudio Donat-Cattin, primogenito dei quattro figli di Carlo Donat-Cattin, vicesegretario della Democrazia Cristiana e ministro. Alcune settimane fa era stato colto da un malore ed era stato ricoverato all'ospedale Gemelli: nella notte c'è stato un peggioramento ed è deceduto. 

Giornalista professionista, era nato a Murazzano, in provincia di Cuneo. Ha lavorato per la «Gazzetta del Popolo»  ed è stato autore, insieme al collega Vito Napoli, di un'inchiesta, nel 1969, sullo scandalo delle cliniche nella sanità torinese. Una serie di articoli che fecero luce sulle attività private di nomi noti di medici, esercitate nelle strutture universitarie, utilizzando risorse pubbliche. Per quell'inchiesta Claudio Donat-Cattin vinse nel 1971il premio Saint Vincent per la cronaca.  È stato vice direttore della «Gazzetta del Popolo», vice direttore de «Il Giorno» e vice direttore di Raiuno. Autore di programmi Rai, ha lavorato a fianco di Bruno Vespa nella trasmissione Porta a Porta.

«Con Claudio Donat Cattin scompare un grande professionista, un amico di lunga data, un instancabile compagno di lavoro. Vice direttore del Giorno e di Raiuno, è stato un punto di forza di Porta a porta fin dalla Fondazione» scrive su Twitter Bruno Vespa. 

Morto Claudio Donat-Cattin, figlio del segretario e ministro Dc. Luca Rolandi su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

Il giornalista cuneese è mancato a Roma, all'età di 79 anni. Era presidente della fondazione Carlo Donat-Cattin

 L’improvvisa scomparsa di Claudio Donat-Cattin giornalista di grande rilievo nel panorama nazionale lascia sgomenti e richiama ad una persona che ha saputo rappresentare nei campi dove ha operato una testimonianza di grande professionalità e passione per il paese e la sua città. È mancato a Roma, dove risiedeva da anni per la sua poliedrica attività giornalistica, per l’aggravarsi di un malore che l’aveva colpito nei giorni scorsi e per il quale era stato ricoverato all’ospedale Gemelli. 

Nato in piena guerra mondiale nel 1943 a Murazzano, dove la famiglia di Carlo Donat-Cattin era sfollata, Claudio era il primogenito del leader della Democrazia Cristiana e futuro ministro della Repubblica. Insieme ai fratelli Carlo, Maria Pia e Marco, il più grande dolore nella vita della famiglia Donat-Cattin, ha trascorso la sua esistenza dentro la notizia, il giornalismo era il suo pane, l’approfondimento la sua cifra. 

La sua carriera inizia dopo gli studi in quella fucina di grandi firme che fu la Gazzetta del Popolo degli anni Sessanta e Settanta. Fu vice direttore negli anni d’oro del foglio torinese e anche nelle ore difficile delle lunghe ed estenuanti trattative per la salvezza della storia testata. Giornalista di testa e di inchiesta famosa fu quella realizzata insieme a Vito Napoli che portò alla ribalta lo scandalo delle cliniche nella sanità torinese che gli valse nel 1971 il premio Saint Vincent. Dopo la Gazzetta Claudio approdò al Giorno sempre nel ruolo di vice direttore per poi giungere alla Rai dove è rimasto per oltre trent’anni come giornalista, redattore, e autore di tante trasmissioni e con ruoli di prestigio compresa la vice direzione di Raiuno. 

Ha condotto programma ed è stato tra le anime fino all’ultimo del programma di Bruno Vespa Porta a Porta di cui è stato primo storico collaboratore. Nel 1991 dopo la morte del padre Carlo, Claudio insieme alla famiglia ha promosso la fondazione che porta il nome del leader democratico cristiano che nei trent’anni di vita è diventata uno dei punti di riferimento archivistico e documentale nell’area piemontese della cultura politica e sociale del cattolicesimo popolare e democratico. Dividendo la sua vita tra Roma e Torino, alla Fondazione, come presidente ha sostenuto le attività e promosso iniziative culturali, ricerche, acquisizione con i preziosi collaboratori tra il quali l’attuale direttore Gianfranco Morgando e illustri storici ed economisti membri del Comitato scientifico dell’Istituto.

 Claudio Donat-Cattin lascia la moglie Roberta, la figlia Barbara, la nipote Natalie e la sorella Maria Pia, e un grande vuoto per il ruolo che ha ricoperto nell’ambito politico-culturale e giornalistico per molti decenni. La sua preziosa eredità e passione civile meritano di essere raccolte e portate avanti per onorarne la sua memoria.

Da repubblica.it il 24 dicembre 2022.

E' morto a Roma, all'età di 79 anni, Claudio Donat-Cattin, primogenito dei quattro figli di Carlo Donat-Cattin, segretario della Democrazia Cristiana e ministro. 

Alcune settimane fa era stato colto da un malore ed era stato ricoverato all'ospedale Gemelli: nella notte c'è stato un peggioramento ed è deceduto. 

Giornalista professionista, era nato a Murazzano, in provincia di Cuneo. Ha lavorato per la 'Gazzetta del Popolo' ed è stato autore, insieme al collega Vito Napoli, di un'inchiesta, nel 1969, sullo scandalo delle Cliniche nella Sanità torinese. Una serie di articoli che fecero luce sulle attività private di nomi noti di medici, esercitate nelle strutture universitarie, utilizzando risorse pubbliche. Per quell'inchiesta Claudio Donat-Cattin vinse nel 1971 il premio 'Saint Vincent' per la cronaca.

E' stato vice direttore della 'Gazzetta del Popolo', vice direttore de 'Il Giorno' e vice direttore di Raiuno. Autore di programmi Rai, ha lavorato a fianco di Bruno Vespa nella trasmissione 'Porta a Porta'. Donat-Cattin lascia la moglie Roberta, la figlia Barbara, la nipote Natalie e la sorella Maria Pia.

Dagospia su il 24 dicembre 2022. SE NE VA A 79 ANNI CLAUDIO DONAT CATTIN, GIORNALISTA E FIGLIO DI CARLO, CHE A DIFFERENZA DI QUANTO SOSTIENE "REPUBBLICA" E “IL CORRIERE DELLA SERA” NON FU MAI SEGRETARIO DELLA DC - GIORNALISTA PROFESSIONISTA, ERA NATO A MURAZZANO, IN PROVINCIA DI CUNEO. AUTORE DI PROGRAMMI RAI, HA LAVORATO A FIANCO DI BRUNO VESPA NELLA TRASMISSIONE 'PORTA A PORTA'… 

Carlo Donat-Cattin. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Biografia

Esponente di spicco della Democrazia Cristiana e leader della corrente di sinistra interna Forze Nuove, era figlio di Attilio, di famiglia savoiarda, e di Maria Luisa Buraggi, dei conti di Finale Ligure. I genitori si erano conosciuti durante la Grande guerra: ferito in combattimento, il padre venne trasferito per le cure al distretto di Savona, dove incontrò la futura moglie. Ebbe tre fratelli (Camillo, Anton Paolo e Flaminio) e una sorella (Mariapia, morta in tenera età).

Chiamato alle armi il 6 dicembre 1941 e assegnato al 2º Reggimento granatieri, a fine luglio 1942 fu ammesso alla Scuola allievi ufficiali di Arezzo, Arma di fanteria, specialità granatieri. L’11 luglio dello stesso anno sposò a Torino Amelia Bramieri, maestra cucitrice di un’azienda tessile. Dal loro matrimonio nacquero quattro figli: Claudio, giornalista con una lunga carriera in Rai, Paolo, impresario teatrale, Mariapia, docente di Lettere, e Marco, ex terrorista di Prima Linea.

Secondo una testimonianza della moglie, Donat-Cattin rifiutò sempre di indossare la camicia nera. Dopo l'8 settembre 1943, la deportazione del padre nei campi di prigionia tedeschi lo spinse ulteriormente a combattere il fascismo come partigiano bianco. La sua partecipazione alla Resistenza avvenne nella zona del Canavese, essendo stato assunto alla Olivetti di Ivrea (prima come operaio e dopo come insegnante presso il Centro formazione meccanici), in seguito nelle Langhe cuneesi, abbandonate dopo la nascita del primo figlio. Divenne rappresentante nel Comitato di liberazione nazionale (CLN) della componente democratico-cristiana, attraverso la stampa del foglio clandestino Per il domani. Nel dopoguerra s'impegnò politicamente quale esponente del Partito Popolare e dirigente dell'Azione Cattolica.

La DC e la CISL

Nel 1950 partecipò alla fondazione della CISL, nata da una scissione (guidata da Giulio Pastore) dalla CGIL. Si guadagnò la fama di "falco" del sindacato italiano per la sua poca disponibilità a scendere a compromessi con gli industriali e in special modo con la famiglia Agnelli.

Nel frattempo aderì alla Democrazia Cristiana, per la quale fu consigliere comunale a Torino e nel 1953 consigliere provinciale per la provincia di Torino.

Parlamentare e ministro]

Nel 1954 entrò nel consiglio nazionale della DC, fu eletto deputato dal 1958 al 1979, anno in cui fu eletto senatore. Entrò nel I Governo Moro come sottosegretario nel 1963 e ricoprì la carica di ministro numerose volte:

dal 1969 al 1972, Ministro del lavoro e della previdenza sociale (governi Rumor II, Rumor III, Colombo, Andreotti I);

1973, Ministro per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno (Governo Rumor IV);

dal 1974 al 1978, Ministro dell'Industria, Commercio e Artigianato (governi Moro IV, Moro V, Andreotti III, Andreotti IV);

costretto a lasciare l'incarico il 25 novembre del 1978, Carlo Donat-Cattin fu sostituito da Andreotti con Romano Prodi.

Nel biennio 1969-70 aveva in più occasioni manifestato l'intenzione di lasciare la DC con l'intero gruppo di Forze Nuove per partecipare alla fase costituente del Movimento Politico dei Lavoratori (MPL) promossa da Livio Labor. Il 6 luglio 1970 abbandonò definitivamente questa ipotesi Con lo Statuto dei Lavoratori del 1970, che rimane un punto di riferimento per l'incorporazione dei diritti sociali, economici e culturali nel diritto interno, Carlo Donat-Cattin, insieme a Gino Giugni, ha avuto il merito di "portare la Costituzione nelle fabbriche".

La sua attenzione al sociale gli valse, da parte di alcuni commentatori, l'espressione di "ministro dei lavoratori". Nel 1978 divenne vicesegretario del partito, e inizialmente fu sostenitore della necessità di trovare un dialogo con il Partito Comunista Italiano. Nel 1979 tuttavia, dopo un arretramento elettorale del PCI, si fece promotore della politica del "preambolo", che auspicava l'esclusione dei comunisti da ogni incarico politico statale. Nel 1980, dopo lo scandalo suscitato dall'adesione del figlio Marco all'organizzazione terroristica di estrema sinistra Prima Linea, si dimise da ogni incarico e lasciò temporaneamente la politica.

Tornato in campo nel 1986, venne scelto nello stesso anno come Ministro della sanità da Bettino Craxi, che si accingeva a formare il suo secondo governo. Poco dopo Donat-Cattin tornò ad aderire a "Forze Nuove", la corrente della DC di cui era sempre stato leader, che sosteneva la necessità di una stretta alleanza con il Partito Socialista Italiano. Donat-Cattin si accinse a risolvere il problema sanitario emerso nel giugno 1986 grazie a un'indagine delle USL (che avevano la funzione delle ASL odierne) le quali denunciavano l'elevata percentuale di atrazina presente nell'acqua. Questo diserbante, usato intensamente in agricoltura, era penetrato nelle falde acquifere superando la soglia fissata dalla legge italiana e da una normativa CEE del 1980 pari a 0,1 microgrammi per litro, rendendo in questo modo l'acqua non più potabile.

Dopo aver concesso numerose proroghe nel corso di tre anni, bocciate dalla CEE e dal TAR, con un'ordinanza ministeriale Donat-Cattin aumentò di colpo le soglie consentite di atrazina di dieci volte, facendo poi lo stesso con le soglie del molinate, aumentate di 40 volte, e con quelle del bentazone, aumentate di 165 volte (comunque notevolmente minori delle percentuali proposte nel 1987 dallo stesso Donat-Cattin). Quest'azione scatenò presto le critiche del PCI, dei sindacati, delle regioni, Lombardia, Emilia-Romagna, Piemonte e Veneto, e soprattutto dei deputati dei Verdi Michele Boato, Franca Bassi e Anna Donati, i quali presentarono alla procura della Repubblica di Roma due denunce nei confronti del ministro della sanità: una per attentato alla salute pubblica e l'altra per omissione di atti d'ufficio.

Il 9 febbraio 1989 la Camera dei Deputati respinse (con 179 si e 278 no) una mozione di sfiducia presentata contro Donat-Cattin da Partito Comunista Italiano, Sinistra Indipendente, Democrazia Proletaria, Partito Radicale e Verdi. Il suo ultimo incarico gli venne conferito nel 1989, allorché Giulio Andreotti lo scelse come Ministro del lavoro e della previdenza sociale: in questa veste egli ebbe una trattativa serrata con la Confindustria per il rinnovo dei contratti dei metalmeccanici; una volta constatato che le sue idee non erano ben accette egli si alzò e se ne andò, abbandonando il tavolo della trattativa, ma successivamente questa si sarebbe risolta in suo favore.

Morì il 17 marzo del 1991 all'età di 71 anni a seguito di problemi cardiaci (aveva subito un infarto nel 1983). È sepolto nel Cimitero monumentale di Torino in una tomba di famiglia insieme al figlio Marco Donat-Cattin (1953–1988), terrorista di Prima Linea. In data 28 febbraio 2014 il comune di Torino gli ha intitolato il tunnel automobilistico di corso Mortara.[10]

Le polemiche sulla gestione dell'epidemia di AIDS

Lo stesso argomento in dettaglio: Caso degli emoderivati infetti.

Negli anni ottanta, in piena espansione dell'epidemia dell'AIDS, Donat-Cattin era Ministro della sanità. Molte polemiche suscitarono la gestione della crisi e le dichiarazioni fatte pubblicamente dal ministro. In seguito a vari scandali, solo nel 1988, con tre anni di ritardo rispetto agli altri paesi europei, il Ministero emanò una direttiva che imponeva il controllo delle sacche di sangue per la trasfusione; questo ritardo fece sì che molte persone contraessero il virus tramite trasfusione e morissero[11]. Il Ministro Donat-Cattin si espresse inoltre contro l'uso del preservativo, e dichiarò pubblicamente:

«L'AIDS ce l'ha chi se la va a cercare.»

Le polemiche sul ruolo di Donat-Cattin come Ministro della Sanità nei riguardi della diffusione del virus si riaccesero nel 1993, in occasione dell'attribuzione della medaglia d'oro. Mario Anelli, dell'Associazione Solidarietà AIDS, dichiarò: «Le medaglie dovrebbero darle a chi ha sofferto ed è morto per le inefficienze del servizio sanitario».

E' morto a 79 anni Claudio Donat Cattin, giornalista e autore Rai. A cura della redazione Torino La Repubblica il 24 Dicembre 2022.

Giornalista professionista, autore Rai, era nato a Murazzano, in provincia di Cuneo. Primogenito dell'esponente della Dc e ministro Carlo Donat-Cattin

E' morto a Roma, all'età di 79 anni, Claudio Donat-Cattin, primogenito dei quattro figli di Carlo Donat-Cattin, storico esponente della Democrazia Cristiana e ministro.

Alcune settimane fa era stato colto da un malore ed era stato ricoverato all'ospedale Gemelli: nella notte c'è stato un peggioramento ed è deceduto.

Giornalista professionista, era nato a Murazzano, in provincia di Cuneo. Ha lavorato per la 'Gazzetta del Popolo' ed è stato autore, insieme al collega Vito Napoli, di un'inchiesta, nel 1969, sullo scandalo delle Cliniche nella Sanità torinese. Una serie di articoli che fecero luce sulle attività private di nomi noti di medici, esercitate nelle strutture universitarie, utilizzando risorse pubbliche. Per quell'inchiesta Claudio Donat-Cattin vinse nel 1971 il premio 'Saint Vincent' per la cronaca.

E' stato vice direttore della 'Gazzetta del Popolo', vice direttore de 'Il Giorno' e vice direttore di Raiuno. Autore di programmi Rai, ha lavorato a fianco di Bruno Vespa nella trasmissione 'Porta a Porta'. Donat-Cattin lascia la moglie Roberta, la figlia Barbara, la nipote Natalie e la sorella Maria Pia.

Morto Claudio Donat Cattin: il lutto che colpisce Porta a Porta e la Rai. Libero Quotidiano il 24 dicembre 2022

Lutto per il giornalismo e la televisione italiani. E' morto a 79 anni Claudio Donat Cattin, stimatissimo autore televisivo e coordinatore di diversi programmi Rai. Aveva lavorato con Bruno Vespa a Porta a Porta ed era stato co-fondatore del programma nel 1996. Aveva iniziato la carriera giornalistica alla Gazzetta del popolo di Torino, prima come cronista di nera e poi di bianca. In seguito era approdato in Rai. Figlio di Carlo Donat-Cattin, personalità storica della Dc scomparso nel 1991, Claudio era presidente della Fondazione Carlo Donat Cattin. Suo fratello Marco Donat-Cattin aveva avuto un passato da terrorista ed era stato nelle fila di Prima linea, prima di morire nel 1988 travolto da un'auto mentre, sceso dalla sua vettura, stava segnalando alle macchine che sopraggiungevano di fermarsi per evitare un incidente.  

 "Un omo di grande cultura e umanità sempre vicino alla Cisl - lo ha ricordato Luigi Sbarra, segretario generale della Cisl, su Twitter -. Esprimiamo il nostro commosso cordoglio e siamo vicini alla sua famiglia in questo momento di grande dolore". "Addio a Claudio Donat Cattin, figlio del nostro leader Carlo e alto dirigente Rai - scrive sui social Gianfranco Rotondi -. Onoró il padre con discrezione, presiedendo la fondazione a lui dedicata, ma ebbe sempre luce propria in ruoli professionali di primissimo piano". 

·         Morto il ciclista Vittorio Adorni.

Morto Vittorio Adorni, campione di ciclismo. Il Tempo il 24 dicembre 2022

È morto Vittorio Adorni, uno dei grandi campioni di ciclismo degli Anni ’60, vincitore del Giro d’Italia 1965 e Campione de Mondo a Imola nel 1968. Ne dà notizia Norma Gimondi postandio sulla sua pagina Facebook la foto del padre Felice insieme al collega e amico ai tempi in cui correvano insieme. «Ciao Vittorio, salutami papà Rip - scrive - sentite condoglianze alla famiglia, vi siamo vicine».

Vittorio Adorni era nato a San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937. Nel 1958 si laurea campione italiano nell’inseguimento tra i dilettanti e viene selezionato come riserva nell’inseguimento per le Olimpiadi di Roma 1960. Diventa uno dei protagonisti del ciclismo italiano negli anni Sessanta riuscendo a vincere nel 1965 un Giro d’Italia e arrivando spesso tra i primi in classifica nella Corsa Rosa in quel decennio: due volte secondo nel 1963 dietro a Balmamion e nel 1968 dietro a Eddy Merckx, poi quinto nel 1962 e quarto nel 1964. In carriera ha vinto un solo Giro d’Italia ma detiene un record: il distacco dal secondo classificato al termine della corsa, 11'26'' su Italo Zilioli, è l’ultimo caso in cui il vincitore abbia rifilato più di 10 minuti di distacco al secondo classificato. Dopo essersi visto portar via la vittoria al Campionato del Mondo di Sallanches del 1964, beffato in volata da Jan Janssen, riesce a salire sul gradino più alto del mondo nel 1968 a Imola dove va in fuga a 90 chilometri dall’arrivo e, supportato dal pubblico di casa, non viene più ripreso tagliando il traguardo con nove minuti e 50 secondi di vantaggio sul primo inseguitore, Van Springel. Un distacco così ampio non si è più ripetuto nella prova su strada di un Campionato del Mondo ed è il secondo più ampio della storia dopo quello del 1928 (Georges Ronsse su Herbert Nebe: 19'43''). L’anno dopo, nel 1969, 

Adorni si laurea anche campione d’Italia al Giro della Provincia di Reggio Calabria, valido come campionato italiano, dove conquista il titolo vincendo davanti a Vito Taccone e Italo Zilioli. Nel 1970, suo ultimo anno da professionista, 

Adorni riesce a conquistare una tappa al Tour de Romandie e completa il Giro d’Italia con un eccellente decimo posto a 21’29« da Eddy Merckx. In dieci anni di professionismo, dal 1961 al 1970 ha indossato 19 volte la Maglia Rosa e vinto 11 tappe al Giro d’Italia di cui è entrato a far parte della Hall of Fame affiancando nell’albo d’oro Merckx, Gimondi, Roche, Moser, Baldini, Hinault e Indurain.

Morto Vittorio Adorni, ciclista che vinse il Giro d’Italia nel 1965 e fu anche campione del mondo. Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

A darne la notizia, Norma Gimondi, figlia di Felice, tra i suoi più grandi avversari negli anni Sessanta. Adorni aveva 85 anni

Grandissimo campione, grande signore, grande italiano: Vittorio Adorni è morto a Parma alla vigilia di Natale, a 85 anni. Nato a San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937, Adorni è stato una leggenda assoluta dello sport azzurro (professionista dal 1961 al 1970, vincitore del Giro d’Italia nel 1965, campione del mondo nel 1968) e un formidabile ambasciatore del ciclismo in tanti ruoli diversi, pedalati e non. Ricoverato a Parma la mattina del 23, si è spento poche ore dopo: era il più anziano trionfatore del Giro d’Italia vivente e da 57 anni deteneva il record del distacco più ampio inflitto ai rivali nella classifica finale della corsa rosa: 11’26” a Italo Zilioli e 12’57” a Felice Gimondi, suo grandissimo avversario e amico, mancato tre anni fa.

Di una carriera relativamente breve rispetto a corridori coevi come Gimondi e Merckx, si ricorda sopratutto il trionfo solitario al Mondiale di Imola nel 1968 (era stato argento a Sallanches quattro anni prima), a due passi dalla sua Parma, quando dopo un’epica fuga solitaria di 90 chilometri Adorni staccò il secondo e il terzo di dieci minuti. Ripercorse l’impresa per l’ennesima volta pochi mesi fa al Festival dello Sport di Trento, strappando un lungo applauso alla platea. Vinse in tutto 42 corse vestendo la maglia rosa per 19 giorni.

Stile pacato, eloquio forbito, Adorni fu tra i primissimi atleti azzurri a diventare un personaggio televisivo. Opinionista impeccabile ed elegantissimo al Processo alla Tappa di Sergio Zavoli nell’anno in cui vinse il Giro, Adorni condusse a fine carriera il telequiz «Ciao Mamma» con Moira Orfei e poi fu una sorta di proto commentatore tecnico al fianco di Adriano De Zan nelle telecronache del ciclismo negli anni Ottanta e Novanta. In virtù anche del suo ottimo francese e dei buoni rapporti a livello internazionale, Adorni è stato per lunghi anni rappresentante e presidente del movimento professionistico all’interno dell’Unione Ciclistica Internazionale viaggiando in lungo e largo per il pianeta. Assessore allo sport a Parma, quando lasciò il ciclismo diventò un broker assicurativo di grande successo. Tra i primi a salutarlo ieri Norma Gimondi, la figlia del grande Felice: «Fai buon buon viaggio Vittorio e salutami papà».

Del Processo alla Tappa del 1965 resta celebre un puntata in cui — capovolgendo lo schema della trasmissione (un intellettuale ospite rivolgeva una domanda a uno o più corridori) — Adorni prese in mano il microfono a Sergio Zavoli e si rivolse così a Pier Paolo Pasolini: «Volevo chiederle, Pasolini, come mai lei è qui in studio al Processo. Perché è venuto? Per farsi pubblicità, per vedere qualche nuovo soggetto o magari per progettare un film o per scrivere dei libri? È convinto che noi siamo solo pedalatori o faticatori della strada o crede che dentro di noi ci sia qualcosa di buono da tirar fuori, qualche bella storia o qualche bel personaggio?». E Pasolini rispose. «Sono qui perché mi è stato chiesto — replicò lo scrittore friulano — e non ho fatto nessuna fatica ad accettare. Il ciclismo è uno sport che amo fin da ragazzino. Lei sai chi era Canavesi, Adorni? Io sì e lo seguivo. Sono qui per amore del ciclismo. Io prenderei Dancelli e Taccone per un film, dopo quello che hanno detto». Adorni di nuovo: «Non volevo offenderla o criticarla, mi scuso, è che lei è un grosso personaggio: i giornalisti ci chiedono sempre dei rapporti che usiamo, delle fughe, del perché abbiamo mangiato questo o quello ma lei è un grandissimo scrittore e tutto quello che ha fatto è criticato o elogiato. Volevo ripetere la domanda: lei crede davvero che i corridori siano faticatori di strada o qualcosa di più?». Pasolini: «Non si possono dividere pedalatori e uomini in due categorie nette. Ci sono molti casi interessanti tra voi, molte vicende umane e tanto materiale ricco per l’ispirazione di uno scrittore o un regista».

 Il ciclismo piange Vittorio Adorni: vinse un Giro d'Italia e fu campione del mondo. Luigi Panella La Repubblica il 24 Dicembre 2022.

Aveva 85 anni, è stato uno dei grandi delle due ruote azzurre. Nel 1965 con la corsa rosa, 3 anni dopo con il mondiale di Imola i momenti clou di una grande carriera

Il ciclismo italiano piange uno dei suoi grandi, Vittorio Adorni, scomparso all'età di 85 anni. Professionista dal 1961 al 1970, vinse il Giro d'Italia nel 1965 e il campionato del mondo del 1968: furono gli apici di una carriera che lo ha visto primeggiare in 60 corse. Ma al di là delle indubbie qualità di atleta, Vittorio Adorni è stato probabilmente lo spartiacque tra il vecchio e il nuovo ciclismo. Nei primi anni Sessanta il ciclista era l'espressione di una Italia contadina, che si identificava perfettamente in quello sport di sudore e fatica. Adorni ha dato una svolta più 'intellettuale' a quella figura. Sulla fatica immane che ancora oggi fa da inevitabile sfondo al mestiere, ha intagliato la disinvoltura davanti al microfoni, le opinioni espresse in maniera forbita ed elegante. Particolari che non sfuggirono a Sergio Zavoli, che fece di lui opinionista fisso nella trasmissione più famosa della storia del ciclismo italiano, il 'Processo alla Tappa'.

Vittorio Adorni e quella fuga di 90 chilometri diventata leggenda

Talmente a proprio agio davanti alle telecamere, che nel periodo al quale è legato il suo successo più famoso - il Mondiale di Imola - ad Adorni fu affidata la conduzione, insieme a Liana Orfei, di un gioco a premi in tv dal titolo 'Ciao mamma'. Proprio la puntata seguente al trionfo iridato, fu una delle tante occasioni in cui Adorni parlò di quella impresa. Una gara che, con tanti assi al via, si presentava assai incerta. Adorni invece, sfruttando uno straordinario lavoro di squadra, fu protagonista di una cavalcata di 90 chilometri che lo fece entrare nella storia. Basti pensare che tagliò il traguardo con 9'50" sul secondo (Herman Van Springel) e 10'18" su Michele Dancelli. Fu la sua più grande vittoria in una corsa in linea, nonostante tre podi consecutivi alla Liegi-Bastogne-Liegi (tra il 1963 e il 1965), il secondo posto alla Milano-Sanremo nel 1965 e l'argento al mondiale di Sallanches, nel 1964.

Vittorio Adorni e quei miti come compagni di squadra

Nella seconda parte della carriera si trovò inoltre a interpretare il terzo uomo, quel ruolo scomodo toccato ad altri campioni del ciclismo (su tutti il grande Fiorenzo Magni) compressi in una forte dualismo. Era infatti esplosa una delle rivalità più leggendarie del ciclismo, quella tra Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Adorni fu compagno di squadra di entrambi, con il bergamasco (nel '65 si spartirono Giro e Tour) alla Salvarani, con il belga alla Faema. Lo fece da capitano, aiutando a vincere ma vincendo anche.

Vittorio Adorni, la figlia di Gimondi: "Salutami papà"

Terminata l'attività agonistica, è stato direttore sportivo, ha fatto il commentatore televisivo, quindi è stato presidente del Consiglio del ciclismo professionistico all'interno dell'Unione Ciclistica Internazionale e assessore allo Sport del Comune di Parma. Proprio Norma Gimondi, la figlia di Felice, con un post su Facebook ("Ciao Vittorio, salutami papà"), ha dato notizia della scomparsa.

Cassani: "Intelligente, per lui solo incarichi straordinari"

"Per la sua intelligenza ha sempre ricoperto incarichi straordinari, è stato un grande campione un grande uomo". Così Davide Cassani, ex ciclista, opinionista e commentatore televisivo, ha ricordato a Sky Sport la figura di Adorni. "Sono arrivato in Rai dopo Adorni, lui raccontava quello che vedeva e spiegava il motivo degli attacchi. Allora le telecronache erano brevi, lui aveva una grande capacità di linguaggio e spiegava in modo corretto quello che stava succedendo. Era al fianco di Adriano De Zan, è stato l'opinionista principale al 'Processo alla tappa". Era talmente bravo nel parlare che spiegava nel dettaglio quello che stava succedendo in gara".

L'addio ad un gigante dello sport. È morto Vittorio Adorni, il ciclismo piange un gigante delle due ruote: vinse Giro e Mondiale. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2022

A darne notizia è stata Norma Gimondi, figlia di quel Felice che in strada era stato sua grande avversario negli anni Settanta. È un Natale triste per gli appassionati di ciclismo e di sport: è morto all’età di 85 anni Vittorio Adorni, campione indimenticata e vincitore tra le altre cose di un Giro d’Italia nel 1965 e del Mondiale su strada del 1968.

Nella sua non lunga carriera, fu professionista dal 1961 al 1970, il ciclista nato  San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937 vinse un totale di 60 corse e indossò la Maglia Rosa, simbolo del primato al Giro d’Italia, per 19 giorni.

Adorni è morto poche ore dopo il ricovero nell’ospedale di Parma, avvenuto venerdì 23 dicembre. Di lui, su strada, si ricordano le due grandi vittorie, entrambe condite da record. Al Giro, come ricorda il Corriere della Sera, deteneva il record del distacco più ampio inflitto ai rivali nella classifica finale della corsa rosa: 11’26” a Italo Zilioli e 12’57” a Felice Gimondi, grande rivale e grande amico scomparso tre anni fa.

Il Mondiale su strada vinto nel 1968 a Imola, non distante dalla sua Parma, arrivò al termine di una clamorosa fuga in solitaria di 90 chilometri, staccando il resto del podio, composto da Herman Van Springel e Michele Dancelli, di dieci minuti.

Salì sul podio della Corsa Rosa in altre due occasioni (secondo nel 1963 e nel 1968) e tra i piazzamenti più importanti ci sono tre podi consecutivi alla Liegi-Bastogne-Liegi (tra il 1963 e il 1965) e la seconda piazza alla Milano-Sanremo nel 1965 e al Mondiale di Sallanches, nel 1964.

Ma Adorni fu anche il primo ciclista ‘moderno’ per il suo rapporto disinvolto con giornalisti e telecamere. Non a caso il grande giornalista Sergio Zavoli lo volle con sé come commentatore del “Processo alla tappa” nell’anno in cui vinse il Giro d’Italia.

Terminata l’attività agonistica è stato direttore sportivo della Salvarani e della Bianchi, oltre a presidente del Consiglio del ciclismo professionistico all’interno dell’Unione Ciclistica Internazionale.

“Con Vittorio Adorni c’era un rapporto di lunghissimo corso. Lo ricordo come un gentleman ancor prima che un campione in grado di vincere Giro d’Italia del 1965 e quell’indimenticabile Campionato Mondiale del 1968, in casa ad Imola, con un’azione incredibile e da lontano a 90 chilometri dal traguardo“, è stato il commento del presidente della Federciclismo, Cordiano Dagnoni, dopo aver appreso la notizia della scomparsa del grande campione.  “Al termine della sua carriera agonistica ha sempre ricoperto ruoli importanti, nel mondo del ciclismo e non solo, come quello di presidente del Panathlon Internazionale dal 1996 al 2004. Ricordo con piacere anche le sue telecronache, sempre misurate e competenti. Inoltre, era un grande amico di mio padre Mario con cui disputò alcune Sei Giorni dietro Derny. E’ stato anche uno tra i primi a complimentarsi con me, dopo la mia elezione. Lo ricordiamo tutti con affetto“, ha concluso Dagnoni.

Da gazzetta.it il 24 dicembre 2022.

È morto, all'età di 85 anni, Vittorio Adorni, grande campione di ciclismo. Nato a San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937, è stato ciclista professionista dal 1961 al 1970 vincendo il Giro d'Italia nel 1965 e laureandosi campione del mondo nel 1968. Quest'ultima impresa, realizzata a Imola, è stata il coronamento di una formidabile carriera, con una fuga a 90 chilometri dal traguardo. 

In totale in carriera ha vinto 60 corse professionistiche e vestito complessivamente per 19 giorni la maglia rosa di leader del Giro. In seguito Adorni ha fatto il commentatore tv ed è stato direttore sportivo alla Salvarani e alla Bianchi-Campagnolo. Aveva già iniziato come opinionista, al fianco di Sergio Zavoli nel celebre "Processo alla tappa", quando ancora correva ed è stato il precursore dei commentatori tv ex sportivi, capace di raccontare l'aspetto tecnico degli eventi con una capacità di linguaggio unica. Adorni era stato ricoverato ieri ed è deceduto oggi in ospedale. Ne ha dato notizia Norma Gimondi, figlia di Felice, con un post su Facebook: "Ciao Vittorio, salutami papà".

Ciro Scognamiglio per gazzetta.it il 24 dicembre 2022.

Se pensate che 85 anni siano troppi per emozionarsi, allora non avete ascoltato ieri sera la voce di Vittorio Adorni: "Al pomeriggio sono andato a una manifestazione al Teatro Regio di Parma. Mi hanno chiamato sul palco e omaggiato per il mio compleanno. Tutti in piedi ad applaudire. E che applausi. Forse neanche per aver vinto il Giro d’Italia e il Mondiale ne avevo ricevuti così…". Resta il piacere di sempre parlare con il campione emiliano, sguardo acuto su quello che è stato e quello che sarà. Con una bussola a guidarne il cammino.

Quale, Vittorio?

"La bici. La bici che fa ancora parte della mia vita. Certo, dopo gli 80 anni ho capito che alcune cose non potevo più farle. Ma in bici ci vado sempre. Non tanti chilometri, ma una decina, sì".

Il ciclismo ha tanto passato. Almeno altrettanto futuro, dal suo punto di vista?

"Almeno. È lo sport più bello".

Perché?

"Guardate negli occhi l’entusiasmo del pubblico a bordo strada quando passano i corridori. E poi ditemi se non è così".

 Come ha festeggiato il compleanno?

"Tutto sommato, niente di particolare. La cena in famiglia con i piatti parmigiani però non poteva mancare. A cominciare dal nostro salame e dalla pasta fresca".

A 85 anni, come si sente?

«Bene, tutto sommato. Fortunato e felice per tutto quello che la vita mi ha dato. Sono tanti 85 anni, ma io non me li sento".

 Come si fa?

«Avere sempre qualcosa da fare, in rapporto alle proprie possibilità, è sempre una buona scelta. Anche, “semplicemente”, dando una mano nelle faccende casalinghe".

Segue ancora l’agonismo?

"Sempre. Anzi, non vedo già l’ora che tornino le grandi corse, in primavera. Non vado più troppo in giro. Ma mi informo con i giornali, guardo la televisione".

Sembra l’epoca dei nuovi Merckx. Tadej Pogacar e Remco Evenepoel sono due esempi e…

"La fermo subito. Il nuovo Merckx io non l’ho ancora visto. Aspettiamo almeno un altro paio d’anni. Eddy è stato Eddy per quante stagioni? Tante. Dunque, ne riparleremo".

Eddy le è fatto gli auguri?

"Non sono riuscito a rispondere in tempo! L’ho richiamato".

I giovani fenomeni di oggi non le piacciono?

"Mi piace guardare chi fa una grande impresa e non aspetta gli ultimi chilometri per attaccare. Se succede una cosa così, mi entusiasmo. Ma in generale non mi piace che il gruppo sia troppo numeroso, arrivando a 170-200 corridori. Per me 130 sarebbero sufficienti. E i migliori si dovrebbero sfidare sempre negli appuntamenti più importanti". 

L’impressione è che preferisca il ciclismo dei suoi tempi.

"Sì, e non impazzisco neppure per le radioline. Ogni limitazione dell’istinto puro, quando si è in gara, fa perdere qualcosa".

Il 14 novembre è diventato, con lei, Hinault, Nibali e non solo, il giorno dei campioni. Che cosa le ispira questa coincidenza?

"Mi sento un pochino più legato a chi è nato nel mio stesso giorno, come anche Davide Boifava e Nakano... A proposito di Nibali, mi dispiace molto che si sia ritirato, come anche Valverde. Un nuovo Nibali, nel ciclismo italiano, non lo vedo. Mi pare che il nostro riferimento, con altre caratteristiche, sia Ganna".

I suoi due grandi successi per eccellenza sono il Giro d’Italia 1965 e il Mondiale 1968. Quale sceglie?

"Non scelgo! Perché dovrei? Al Mondiale il distacco che ho dato al secondo, 9’50” a Van Springel, non è stato più neppure avvicinato. Anche al Giro, il secondo, Zilioli, arrivò a 11’26”. Il margine più grande dal 1955. Sono numeri, ma spiegano".

E l’incontro nella vita che è stato più emozionante?

"Va bene se ripropongo una risposta di qualche tempo fa?".

Beh, per gli 85 anni glielo possiamo concedere.

"Ho avuto il privilegio di incrociare Samaranch e il Principe Alberto di Monaco, Grace Kelly e Claudia Cardinale. Ma il brivido più potente l’ho avuto con Papa Francesco, per i 50 anni di matrimonio con Vitaliana: veramente da pelle d’oca".

Francesca Monzone per “La Stampa” il 27 dicembre 2022.

Vittorio Adorni è stato un uomo importante nella vita di Eddy Merckx e la sua scomparsa ha profondamente turbato il Cannibale. Entrambi sono stati campioni del mondo, rivali ma soprattutto amici leali e insieme sono stati gli artefici di una delle rivoluzioni ciclistiche più importanti: quella del 1968 quando Merckx divenne il primo belga nella storia del ciclismo a vincere il Giro d'Italia e Adorni conquistò il Mondiale. 

Il successo nella corsa rosa arrivò grazie al parmense, che insegnò a Eddy ad essere meno impulsivo e più calcolatore, mostrandogli come correre e vincere in Italia. Tra i due campioni c'era un rapporto speciale che si è interrotto con la morte dell'ex campione del mondo alla vigilia di Natale. 

Merckx ha saputo immediatamente della scomparsa di Adorni, attraverso la telefonata e il messaggio whatsapp di Italo Zilioli suo compagno di squadra alla Faema e di Marino Vigna, il suo vecchio direttore sportivo. «Ho provato immediatamente una grande tristezza e ho ripensato al passato». 

Merckx, il 2022 è stato un anno drammatico per lei. Dopo la scomparsa di Van Springel ad agosto, anche l'addio ad Adorni.

«Sono state due persone molto importanti per me. Herman era belga, eravamo amici speciali e abbiamo corso alla Molteni. Mentre con Vittorio ho corso in Faema. Mi ha insegnato tantissimo, per lui ho sempre avuto grandissimo rispetto. La sua scomparsa mi ha profondamente turbato e rattristato». 

Quando vi siete incontrati l'ultima volta?

«È passato del tempo, non ricordo bene. Ma ci siamo sempre tenuti in contatto e anche quest' anno ci siamo sentiti». 

Il primo ricordo che le è tornato in mente?

«Un ritiro fatto insieme in Calabria. Eravamo compagni di stanza quell'anno e lui mi parlava tanto, mi ha insegnato i segreti del ciclismo. Era il mio "Professore". Avevo iniziato a chiamarlo così». 

Che insegnamenti le aveva dato?

«Lui ne sapeva più dei belgi, aveva un'etica incredibile e mi aveva spiegato come alimentarmi nel modo corretto e anche come guardare la gara. Mi diceva che la sera dovevo andare a dormire con la fame, perché così il giorno dopo in salita sarei andato più veloce». 

Con Adorni siete stati rivali e colleghi. Che ricordo ha del Mondiale di Imola del 1968?

«Correvamo insieme nella Faema, ma al Mondiale eravamo per forza avversari, ognuno con la maglia della propria nazionale. Correvamo contro, arrivò la fuga con Van Looy e noi rimanemmo chiusi. Vittorio andò via e capimmo che la vittoria sarebbe stata sua. Fu il più forte quel giorno». 

Tra voi c'era un legame forte e la sua vittoria al Giro del '68 nella tappa con le Tre Cime di Lavaredo, è stato uno dei momenti più esaltanti della sua carriera.

«Impossibile dimenticare quel giorno. Avevo una grande voglia di vincere ma Vittorio che era con me mi diceva di aspettare il momento giusto. Poi sono andato in fuga, ho staccato tutti e ho vinto in una tappa incredibile perché il meteo era terribile. Lo ricordo bene quel giorno e Vittorio, che restò vicino a me per darmi consigli, arrivò terzo». 

Prima di Adorni, nel 2019 era scomparso Gimondi, un altro uomo importante per lei: che rapporto avevate?

«Io e Felice eravamo rivali ma fuori dalle gare ci siamo sempre rispettati e abbiamo avuto ottimi rapporti. Quando ci ha lasciati ero triste, questi momenti ti fanno riflettere. Abbiamo corso tanti anni uno contro l'altro. Adesso che è andato via anche Vittorio, c'è ancora più tristezza. Rifletto sul passato e su quello che può accadere nel futuro». 

Lei è stato uno dei corridori più forti di sempre, con quali occhi guarda il ciclismo moderno?

«Con gli occhi di chi ha corso in un modo completamente diverso. Oggi i corridori si allenano tanto e fanno meno gare, mentre noi facevamo il contrario. Eravamo in gara praticamente tutto l'anno e ci allenavamo facendo le gare». 

Era più bello il suo ciclismo o quello dei nostri giorni?

«Il mio era più bello e vero. Lo preferisco».

·         Morto l’ex ministro Franco Frattini. 

Morto Franco Frattini, ministro degli Esteri di Berlusconi. Da gennaio presidente del Consiglio di Stato. Il Tempo il 24 dicembre 2022

È morto a Roma Franco Frattini. Era malato da tempo. Aveva 65 anni. Frattini è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Ha ricoperto le cariche di ministro degli Esteri nei governi Berlusconi II (2002-2004) e Berlusconi IV (2008-2011) e commissario europeo per la giustizia nella commissione Barroso I (2004-2008). Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Tra i primi ad annunciare la scomparsa di Frattini è Giancarlo Innocenzi Botti, ex presidente di Invitalia e sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II. «Franco Frattini non è più con noi. Il Paese perde un grand’uomo, un grand commis di stato, un uomo che ha servito le istituzioni con capacità, professionalità ed onore. Io perdo un fratello. Ho condiviso con lui una parte importante della mia vita. Mi onoro di averlo convinto a far parte della famiglia di Forza Italia e di essergli stato a fianco per molto tempo. Dio lo accolga con tutti gli onori che merita. Noi lo terremo sempre nel nostro cuore», ha concluso Innocenzi Botti. Cordoglio anche da parte del presidente del Senato, Ignazio La Russa. «Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze».

Lo scorso gennaio il suo nome era tra quelli circolati quale possibile candidato indicato dal centrodestra per l’elezione del presidente della Repubblica. A 27 anni Frattini era già avvocato dello Stato e poi magistrato del Tar Piemonte. Nel 1986 diviene consigliere di Stato e viene nominato consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Nel 1990 e 1991 ha lavorato come consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel sesto governo Andreotti. Tre anni dopo è nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il primo governo Berlusconi. E con la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del successivo governo Dini nel gennaio 1995, diventa ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali e lo resta fino al marzo 1996. Dal 1996 al 2001 Frattini è presidente del comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti e dal novembre 1997 all’agosto 2000 è stato consigliere comunale a Roma. Dal 2001 prende parte al governo Berlusconi II come ministro per la funzione pubblica. Nel novembre 2002, dopo un interim di dieci mesi a seguito dei disaccordi tra Berlusconi e Renato Ruggiero, assume il ruolo di ministro degli Affari esteri.

Nell’autunno 2004 lascia la Farnesina, che passa a Gianfranco Fini a seguito di un rimpasto di governo dovuto alla crisi di maggioranza del 2004 e al varo dell’esecutivo Berlusconi III. Nel novembre 2004 subentra a Rocco Buttiglione come candidato Commissario europeo per l’Italia alla Commissione Barroso I. Durante il suo termine come commissario europeo. Frattini è anche delegato dal Presidente del Consiglio al coordinamento degli interventi del governo per lo svolgimento delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006. Nel 2008 prende l’aspettativa dall’incarico di commissario europeo per candidarsi alle elezioni italiane, restando poi in aspettativa fino alla formazione del nuovo governo Berlusconi IV in modo da evitare che la nomina del suo successore a Bruxelles potesse essere definita dal dimissionario governo Prodi. Formato il nuovo governo ha dato formalmente le dimissioni da commissario, risultando così il secondo commissario europeo di nazionalità italiana a fare questa scelta di «priorità nazionale» sugli incarichi europei dopo Franco Maria Malfatti, presidente della Commissione dimissionario nel 1972. Dal 2008 al 2011 Frattini è tornato ministro degli affari esteri nel Governo Berlusconi IV, come già tra 2002 e 2004. Dal settembre 2009 è presidente di sezione del Consiglio di Stato, e nel 2012 è assegnato come presidente alla Sezione consultiva per gli Atti normativi. Nel dicembre 2012 lascia Il Popolo della Libertà, definendo poi «estremista» la leadership della nuova Forza Italia, accusandola di aver tradito le origini liberali del partito. Dal 2011 al 2013 è anche presidente della Fondazione Alcide De Gasperi. Alle successive elezioni politiche del 2013. Frattini sostiene l’«Agenda Monti» del premier uscente Mario Monti e il suo movimento Scelta Civica. L’anno dopo torna presidente di sezione del Consiglio di Stato e sempre nel 2014 è componente dell’Alta corte di giustizia sportiva del CONI, organo giurisdizionale di ultima istanza dell’ordinamento sportivo italiano. Nel settembre 2014 viene nominato presidente del Collegio di Garanzia del CONI, carica mantenuta fino a gennaio 2022. Nel 2018, in occasione della presidenza italiana dell’OSCE, il ministro degli esteri Angelino Alfano lo nomina come «Rappresentante speciale della presidenza OSCE per il processo di risoluzione del conflitto in Transnistria». Il 21 aprile 2021 viene nominato dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato. Il 14 gennaio 2022 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa lo elegge all’unanimità Presidente del Consiglio di Stato al posto di Filippo Patroni Griffi, precedentemente eletto giudice della Corte costituzionale; entra in carica il 29 gennaio successivo. 

E’ morto Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato aveva 65 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 25 Dicembre 2022

In due governi di centrodestra era stato ministro degli Esteri. Aveva ricoperto anche gli incarichi di deputato del Pdl, commissario Ue e presidente del consiglio di Stato

Franco Frattini, presidente del Consiglio di Stato, è morto all’età di 65 anni. Frattini in passato aveva ricoperto la carica di ministro degli Esteri in due governi guidati da Silvio Berlusconi, nel periodo 2002-2004 e 2008-2011. Frattini era stato commissario europeo per la giustizia dal 2004 al 2004. Nel 1986 diviene consigliere di Stato e viene nominato consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Nel 1990 e 1991 ha lavorato come consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel sesto governo Andreotti. Tre anni dopo è nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il primo governo Berlusconi. Dal 14 gennaio 2022 ricopriva la carica di presidente del Consiglio di Stato. Frattini è deceduto al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche tempo.

Franco Frattini, Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti

E con la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del successivo governo Dini nel gennaio 1995, diventa ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali e lo resta fino al marzo 1996. Dal 1996 al 2001 Frattini è presidente del comitato parlamentare di vigilanza sui servizi segreti e dal novembre 1997 all’agosto 2000 è stato consigliere comunale a Roma. Dal 2001 prende parte al governo Berlusconi II come ministro per la funzione pubblica. Nel novembre 2002, dopo un interim di dieci mesi a seguito dei disaccordi tra Berlusconi e Renato Ruggiero, assume il ruolo di ministro degli Affari esteri. 

Nell’autunno 2004 lascia la Farnesina, che passa a Gianfranco Fini a seguito di un rimpasto di governo dovuto alla crisi di maggioranza del 2004 e al varo dell’esecutivo Berlusconi III. Nel novembre 2004 subentra a Rocco Buttiglione come candidato Commissario europeo per l’Italia alla Commissione Barroso I. Durante il suo termine come commissario europeo, Frattini è anche delegato dal Presidente del Consiglio al coordinamento degli interventi del governo per lo svolgimento delle Olimpiadi Invernali di Torino 2006.

Nel 2008 prende l’aspettativa dall’incarico di commissario europeo per candidarsi alle elezioni italiane, restando poi in aspettativa fino alla formazione del nuovo governo Berlusconi IV in modo da evitare che la nomina del suo successore a Bruxelles potesse essere definita dal dimissionario governo Prodi. Formato il nuovo governo ha dato formalmente le dimissioni da commissario, risultando così il secondo commissario europeo di nazionalità italiana a fare questa scelta di “priorità nazionale” sugli incarichi europei dopo Franco Maria Malfatti, presidente della Commissione dimissionario nel 1972.

Dal 2008 al 2011 Frattini è tornato ministro degli affari esteri nel Governo Berlusconi IV, come già tra 2002 e 2004. Dal settembre 2009 è presidente di sezione del Consiglio di Stato, e nel 2012 è assegnato come presidente alla Sezione consultiva per gli Atti normativi. Nel dicembre 2012 lascia Il Popolo della Libertà, definendo poi “estremista” la leadership della nuova Forza Italia, accusandola di aver tradito le origini liberali del partito.

Dal 2011 al 2013 è stato anche presidente della Fondazione Alcide De Gasperi. Alle successive elezioni politiche del 2013, Frattini sostiene l'”Agenda Monti” del premier uscente Mario Monti e il suo movimento Scelta Civica. L’anno successivo torna presidente di sezione del Consiglio di Stato e sempre nel 2014 è componente dell’Alta corte di giustizia sportiva del CONI, organo giurisdizionale di ultima istanza dell’ordinamento sportivo italiano. Nel settembre 2014 viene nominato presidente del Collegio di Garanzia del CONI, carica mantenuta fino a gennaio 2022.

Il Procuratore Generale della Procura dello Sport, Enrico Cataldi, il Presidente del CONI Giovanni Malagò e Franco Frattini

Nel 2018, in occasione della presidenza italiana dell’OSCE, il ministro degli esteri Angelino Alfano lo nomina come “Rappresentante speciale della presidenza OSCE per il processo di risoluzione del conflitto in Transnistria”. Il 21 aprile 2021 viene nominato dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi, Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato. Il 14 gennaio 2022 il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa lo elegge all’unanimità Presidente del Consiglio di Stato al posto di Filippo Patroni Griffi, precedentemente eletto giudice della Corte costituzionale; entra in carica il 29 gennaio successivo. 

“Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all’estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri”, scrive il leader di Forza Italia su Facebook. “Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai famigliari”, aggiunge Berlusconi.

“Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini – ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa -. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze“.

“Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell’anno, forse perché sei sempre stato una persona speciale e straordinaria”, il tweet di Guido Crosetto, ministro della Difesa.

“Cordoglio per la scomparsa di Franco Frattini, uomo per bene, politico acuto e leale servitore dello Stato. Sincera vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari tutti in questo momento di dolore”, le parole di Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste.

Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco #Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità.

“Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità”, il messaggio di Enrico Letta, segretario del Pd.

“Sono profondamente addolorato. Con la scomparsa di Franco Frattini il Consiglio di Stato perde una guida sicura e autorevole e il Paese un servitore delle Istituzioni. In quarant’anni non ci siamo mai persi e conserverò sempre il ricordo di un amico schivo, leale e affettuoso. La sua famiglia, che abbraccio con affetto, può andarne orgogliosa”. Così il giudice costituzionale Filippo Patroni Griffi, Presidente del Consiglio di Stato fino allo scorso dicembre, ricorda con profonda commozione l’amico e collega Franco Frattini.

Redazione CdG 1947

Morto Franco Frattini, ex ministro con Berlusconi. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 24 dicembre 2022.

È morto Franco Frattini. Aveva 65 anni, era presidente del consiglio di Stato ed aveva ricoperto anche la carica di ministro degli Esteri nell’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi, dal 2008 al 2011; prima ancora era stato a capo della diplomazia italiana (sempre con Berlusconi) tra il 2002 e il 2004 e ministro della funzione pubblica nel governo di Lamberto Dini. Era stato anche commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Nel 1996 era stato anche eletto deputato nelle liste di Forza Italia e poi ancora nel 2008 per il Pdl.

Frattini è deceduto al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche tempo.

Proprio Silvio Berlusconi è stato tra i primi a manifestare il suo cordoglio per la scomparsa dell’ex ministro: «Era un vero servitore dello Stato, mi mancherà. In Italia e all’estero si era fatto apprezzare per la sua competenza». ha detto il leader di Forza Italia.

Oltre a Berlusconi, anche La Russa, Letta, Crosetto e altri politici hanno espresso il loro dolore per la scomparsa di Frattini. «Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini — ha detto il presidente del Senato, Ignazio La Russa —. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se na va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze».

Su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta scrive: «Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità».

Mentre il ministro della Difesa Guido Crosetto in un cinguettio lo ricorda come un uomo speciale con queste parole: «Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell’anno, forse perché sei sempre stato una persona speciale e straordinaria».

«Cordoglio per la scomparsa di Franco Frattini, uomo per bene, politico acuto e leale servitore dello Stato. Sincera vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari tutti in questo momento di dolore», dichiara il ministro dell’Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida. «Piango un amico vero, un compagno di tante battaglie» scrive Renato Brunetta in un tweet.

«Ci lascia uno dei migliori protagonisti della prima stagione di governo del centrodestra italiano, innanzi tutto, sempre e comunque, uomo di Stato — scrive su Facebook il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso —. Quando lo rividi qualche mese fa aveva sul corpo i segni della malattia ma continuava a svolgere il suo lavoro con la stessa dedizione di sempre. Esempio per chiunque agisca nelle istituzioni».

Morto Franco Frattini, ex ministro con Berlusconi. Meloni: «Perdo un amico». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 24 Dicembre 2022.

In due governi di centrodestra era stato ministro degli Esteri. Era stato deputato del Pdl, commissario Ue e presidente del Consiglio di Stato. La premier: «Era un uomo garbato e un servitore delle istituzioni»

È morto Franco Frattini. Aveva 65 anni, e da gennaio scorso era stato eletto presidente del Consiglio di Stato. In passato era stato anche ministro degli Esteri nell’ultimo governo presieduto da Silvio Berlusconi, dal 2008 al 2011; prima ancora era stato a capo della diplomazia italiana (sempre con Berlusconi) tra il 2002 e il 2004 e ministro della Funzione pubblica nel governo di Lamberto Dini. Era stato anche commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Nel 1996 era stato eletto deputato nelle liste di Forza Italia e poi ancora nel 2008 per il Pdl. Il nome di Frattini, nei complicati giorni di trattativa dello scorso gennaio, era entrato con forza anche nella rosa per il Quirinale.

Frattini è deceduto al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ricoverato da qualche tempo.

Il 21 aprile 2021, Frattini era stato nominato da Mario Draghi presidente aggiunto del Consiglio di Stato. E pochi mesi dopo, il 14 gennaio scorso, era stato eletto all’unanimità presidente al posto di Filippo Patroni Griffi. Una elezione suggellata da un consenso unanime. «Franco era una persona infaticabile, con un grande senso delle istituzioni — commenta una persona a lui molto vicina, che però preferisce restare anonima —. Ha continuato a lavorare senza sosta e con ostinazione, era fiducioso di sconfiggere la malattia che lo aveva colpito. L’elezione al vertice del Consiglio di Stato lo aveva reso orgoglioso. Poi questo brutto male si è riaffacciato con forza, ma lui ha continuato a dare indicazioni per telefono. Si è fermato solo fino a quando non ce l’ha più fatta fisicamente».

Silvio Berlusconi è stato tra i primi a esprimere il suo cordoglio per la scomparsa del suo ex ministro: «Era un vero servitore dello Stato, mi mancherà. In Italia e all’estero si era fatto apprezzare per la sua competenza», ha detto il leader di Forza Italia. Commosso anche il ricordo della premier Giorgia Meloni: «Franco Frattini era un uomo garbato e intelligente, un servitore delle istituzioni. Era mio amico. Rivolgo a nome del governo sentite condoglianze a famiglia e amici. Saremo fieri di portare a termine la riforma del codice degli appalti alla quale aveva lavorato con dedizione».

«Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche — è il ricordo del presidente del Senato, Ignazio La Russa —. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi».

Su Twitter il segretario del Pd Enrico Letta scrive: «Grande mestizia. La scomparsa prematura di Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità».

Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco #Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità.

Mentre il ministro della Difesa Guido Crosetto, via Twitter, lo ricorda come un uomo speciale con queste parole: «Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell’anno, forse perché sei sempre stato una persona speciale e straordinaria».

Addio Franco.

Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell’anno, forse perché sei sempre stato una persona speciale e straordinaria.

«Piango un amico vero, un compagno di tante battaglie», scrive Renato Brunetta via social.

Non era solo un fine giurista, un uomo colto ed elegante, un grande servitore dello Stato. Piango un amico vero, un compagno di tante battaglie. Addio Franco, mancherai a tutti coloro che ti hanno stimato e voluto bene

«Ci lascia uno dei migliori protagonisti della prima stagione di governo del centrodestra italiano, innanzi tutto, sempre e comunque, uomo di Stato — scrive su Facebook il ministro delle imprese e del made in Italy, Adolfo Urso —. Quando lo rividi qualche mese fa aveva sul corpo i segni della malattia ma continuava a svolgere il suo lavoro con la stessa dedizione di sempre. Esempio per chiunque agisca nelle istituzioni».

Chi era Frattini: da Berlusconi alla Farnesina. Iraq, Gheddafi e migranti i passaggi cruciali. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 25 Dicembre 2022.

Esordì nel 1995 in un governo «nemico» del Cavaliere, quello di Lamberto Dini. Due volte alla Farnesina, entrambe contraddistinte da difficili a controverse crisi internazionali

«Un servitore dello Stato che si era fatto apprezzare per la sua competenza»: Silvio Berlusconi è stato trai primissimi a ricordare la figura di Franco Frattini, morto alla vigilia di Natale a soli 65 anni per malattia. E in effetti la storia politica e istituzionale dell’ex ministro di iscrive quasi per intero all’interno della Seconda repubblica inaugurata dalla discesa in campo del Cavaliere e di Forza Italia.

Prima magistrato amministrativo in Piemonte, poi consigliere giuridico con Claudio Martelli, il debutto in prima persona sulla scena politica avviene per la verità in un governo osteggiato da Berlusconi, figlio addirittura del «ribaltone» che aveva posto termine alla prima esperienza a Palazzo Chigi del leader di Forza Italia: Frattini, il 17 gennaio del 1995 entra a far parte del governo di Lamberto Dini - che vede Berlusconi all’opposizione: è ancora solo un «tecnico» cui viene affidato il ministero della funzione pubblica.

La competenza giuridica amministrativa di Frattini convince tuttavia Berlusconi a «perdonargli» la partecipazione al gabinetto Dini e a candidarlo con successo deputato alle politiche del 1996 che tuttavia vedono la vittoria dell’Ulivo prodiano. Nel 2001 gli riesce il bis e questa volta per Frattini si spalancano le porte del governo: all’inizio di nuovo alla funzione pubblica, poi dopo il divorzio tra il Cavaliere e l’allora ministro Renato Ruggiero, approda alla Farnesina.

Il suo primo mandato da ministro degli esteri è contraddistinto da un passaggio cruciale: la partecipazione dell’Italia alla guerra in Iraq scatenata dal presidente americano George W.Bush in assenza di un mandato dell’Onu. L’opinione pubblica italiana si spacca, l’invio dei militari italiani in Irak comporterà un costo di vite umane (su tutti l’attentato di Nassiriya, 19 italiani morti). Frattini nel 2004 viene sacrificato sull’altare di un rimpasto di governo e lascia il posto a Gianfranco Fini. Per lui si aprono però le porte di Bruxelles: diviene commissario Ue alla giustizia sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso.

Rieletto nel 2008 nelle liste del Popolo della Libertà, Frattini è subito richiamato nella compagine di governo da Berlusconi ancora una volta agli esteri. Anche la seconda esperienza alla Farnesina è segnata da passaggi difficili. L’Italia firma un controverso trattato con il dittatore libico Gheddafi per fermare l’approdo dei migranti in Italia e a causa di questo il governo di Roma subisce anche una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per respingimenti illegali di migranti intenzionati a chiedere protezione internazionale. All’esplodere delle primavere arabe, tuttavia, la linea dell’Italia muta radicalmente: «scarica» Gheddafi e decide la partecipazione alla missione che segnerà la fine del colonnello di Tripoli.

Da capo della diplomazia italiana incorse anche in alcuni «incidenti» come quando fu sorpreso dall’attacco militare russo alla Georgia durante una vacanza alle Maldive: non rientrò dalle ferie e al vertice internazionale convocato nell’occasione l’Italia fu rappresentata da un viceministro. Nel 2008, in seguito a uno scontro tra israeliani e palestinesi a Gaza rilasciò un’intervista alla Rai in tenuta da sci (anche allora era in vacanza) suscitando critiche.

Quelli sono anche gli anni in cui matura l’allontanamento di Frattini da Berlusconi: tanto che alle elezioni del 2013 l’ex ministro sostiene la lista «Scelta civica» del premier uscente Mario Monti.

L’esplodere dei movimenti populisti coincide con l’addio di Frattini alla politica: ricompare sulla scena pubblica nel 2021, nominato da Mario Draghi presidente aggiunto del consiglio di Stato e dal gennaio del 2022 presidente effettivo.

I collaboratori di Frattini e gli ultimi giorni: «Ha lavorato fino a quando ha potuto fisicamente». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 25 dicembre 2022.

Draghi lo aveva indicato come presidente aggiunto nel 2021, poi l’elezione al vertice nel gennaio scorso, con consenso unanime. Un collaboratore: «Ne era orgoglioso, ha lavorato fino all’ultimo»

Nel 2011: l’allora ministro degli Esteri Franco Frattini con il segretario di Stato Usa Hillary Clinton

Il 21 aprile 2021, Franco Frattini (morto per un tumore alla vigilia di Natale al Gemelli di Roma) era stato nominato da Mario Draghi presidente aggiunto del Consiglio di Stato. E pochi mesi dopo, il 14 gennaio scorso, era stato eletto all’unanimità presidente al posto di Filippo Patroni Griffi. Una elezione suggellata da un consenso unanime.

Frattini, 65 anni, lottava da tempo contro un tumore. E proprio questa sua dura battaglia viene ricordata dal ministro leghista Roberto Calderoli, in cura per la medesima malattia: «Franco era un amico. Sono addolorato e in questo momento non posso che pensare anche all’altro amico, e coetaneo, Roberto Maroni — è il ricordo commosso —. E ancora una volta penso al “nemico” o “ospite indesiderato”, il tumore, che io come tanti italiani combatto da dieci anni: investire sulla ricerca, e sulla cura oncologica, oltre che sulla prevenzione, deve essere una priorità. Lo stiamo facendo, ma possiamo fare di più, dobbiamo fare di più».

«Franco era una persona infaticabile, con un grande senso delle istituzioni — commenta uno dei suoi più stretti collaboratori, che però preferisce restare anonimo —. Ha continuato a lavorare senza sosta e con ostinazione, era fiducioso di sconfiggere la malattia che lo aveva colpito».

L’elezione al vertice del Consiglio di Stato «lo aveva reso molto orgoglioso — prosegue il racconto di un suo fedelissimo al Consiglio di Stato —. Poi questo brutto male si è riaffacciato con forza, ma lui ha continuato a dare indicazioni per telefono. Si è fermato solo fino a quando non ce l’ha più fatta fisicamente».

E in questo solco, di grande attaccamento alla professione, prosegue anche il ricordo di Adolfo Urso: «Ci lascia uno dei migliori protagonisti della prima stagione di governo del centrodestra italiano, innanzi tutto, sempre e comunque, uomo di Stato — scrive il ministro delle imprese e del made in Italy —. Quando lo rividi qualche mese fa aveva sul corpo i segni della malattia ma continuava a svolgere il suo lavoro con la stessa dedizione di sempre. Esempio per chiunque agisca nelle istituzioni».

Morto Franco Frattini, ex ministro di Berlusconi: da gennaio scorso presidente del Consiglio di Stato. La Repubblica il 24 Dicembre 2022.

Aveva 65 anni ed era malato da tempo, è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL

E' morto a Roma a 65 anni Franco Frattini. L'ex ministro era malato da tempo: a 39 anni aveva cominciato la sua storia politica entrando a far parte del governo Berlusconi. Otto anni con Forza Italia, fino al 2004 e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Ha ricoperto le cariche di ministro degli esteri nei governi Berlusconi II (2002-2004) e Berlusconi IV (2008-2011) e commissario europeo per la giustizia nella commissione Barroso I (2004-2008). Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Tra i primi ad annunciare la scomparsa di Frattini è Giancarlo Innocenzi Botti, ex presidente di Invitalia e sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II. "Franco Frattini non è più con noi. Il Paese perde un grand'uomo, un grand commis di stato, un uomo che ha servito le istituzioni con capacità, professionalità ed onore. Io perdo un fratello. Ho condiviso con lui una parte importante della mia vita".

Nato a Roma il 14 marzo 1957, l'ex ministro degli Esteri, e prima ancora della Funzione Pubblica, era stato commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Dopo la laurea con lode alla Sapienza di Roma, nel luglio del 1979, nel 1981 diventa Procuratore dello Stato e magistrato del Tar Piemonte, nel 1986 viene nominato consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Nel 1990 e 1991 lavora come consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel sesto governo Andreotti. La sua carriera politica è tutta nel solco di Forza Italia prima e Pdl poi, al fianco di Silvio Berlusconi: nel 1994 è nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il primo governo Berlusconi.

Con la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del successivo governo Dini nel gennaio 1995, viene nominato ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali e lo resta fino al marzo 1996. Eletto alla Camera dei deputati nella lista di Forza Italia, dal 1997 al 2000 è stato consigliere comunale a Roma; rieletto alla Camera nel 2001, è stato ministro per la Funzione pubblica dal 2001 al 2002 e poi per gli Affari Esteri, durante il secondo governo Berlusconi, dal 2002 sino al 2004, quando è diventato commissario dell'Unione Europea per il portafoglio Giustizia, Libertà e Sicurezza, incarico che ha rivestito sino al maggio 2008. Rieletto alla Camera nelle elezioni politiche del 2008, dal maggio dello stesso anno al novembre 2011 ha nuovamente ricoperto la carica di ministro degli Affari Esteri.

Membro della Commissione per le riforme costituzionali (2013-2014) e tuttora Consigliere speciale del governo serbo per le trattative di adesione all'Unione Europea, dal 2011 al 2013 è stato Presidente della Fondazione Alcide De Gasperi. Frattini era Presidente della Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI), ente non a scopo di lucro a carattere internazionalistico. Nel 2014 è chiamato al Coni come Presidente dell'Alta Corte di Giustizia Sportiva. Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Meloni: fieri di portare a termine le sue riforme

"Franco Frattini era un uomo garbato e intelligente, un servitore delle istituzioni. Era mio amico. Rivolgo a nome del Governo sentite condoglianze a famiglia e amici. Saremo fieri di portare a termine la riforma del codice degli appalti alla quale aveva lavorato con dedizione". Lo scrive su Twitter il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Berlusconi: un servitore dello stato

Con un post su Instagram, Silvio Berlusconi ha ricordato l'amico col quale ha condiviso un lungo percorso politico: "Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all'estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri. Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai familiari".

Crosetto: persona speciale

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, rende omaggio via Twitter a Franco Frattini, morto questa sera. "Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell'anno, forse perchè sei sempre stato una persona speciale e straordinaria".

Letta, profonda tristezza per prematura scomparsa

"Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all'istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità". Così il segretario del Pd Enrico Letta in un tweet in merito alla scomparsa di Franco Frattini, morto oggi a 65 anni.

Foti (FdI), profondo dolore per scomparsa

"Profondo dolore e sgomento per la scomparsa di Franco Frattini, presidente del consiglio di Stato ed ex ministro dei governi Berlusconi. Persona perbene e grande politico, sempre al servizio degli italiani. Condoglianze di cuore alla famiglia, a nome di tutto il gruppo di Fratelli d'Italia alla Camera dei deputati. Riposa in pace Franco". Lo dichiara in una nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti.

Rosato (Iv), politico fine e grande giurista

"Ci ha lasciato questa sera Franco Frattini. Politico fine, persona mite, grande giurista. Siamo vicini alla famiglia e ai suoi tanti amici e colleghi che ne piangono la prematura scomparsa". Lo scrive sui social il presidente di Iv, Ettore Rosato.

Ciriani, perdiamo servitore dello Stato e uomo perbene

"Sono vicino con il cuore alla famiglia di Franco Frattini a cui va il mio pensiero ed il mio abbraccio in questa notte della vigilia di Natale. Perdiamo un servitore dello Stato, un uomo perbene che ha dedicato la sua vita all'Italia e agli italiani. A Dio Franco". Lo dichiara Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento.

Lollobrigida, politico acuto e leale servitore Stato

"Cordoglio per la scomparsa di Franco Frattini, uomo per bene, politico acuto e leale servitore dello Stato. Sincera vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari tutti in questo momento di dolore". Lo dichiara il Ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.

La Russa, enorme dispiacere, addio a una persona perbene

"Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze". Così il Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Zangrillo, "l'Italia perde un politico di razza"

Con la morte di Franco Frattini l'Italia perde "un politico di razza" e un "uomo delle istituzioni. E' con "profondo cordoglio" che il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, commenta la morte del presidente del Consiglio di Stato , "uomo delle istituzioni, apprezzato anche a livello internazionale per l'impegno da commissario europeo". La sua scomparsa "rattrista questa vigilia di Natale e priva l'Italia di un uomo delle istituzioni competente e perbene e di un politico di razza".

Timmermans, "uomo di Stato e amico indimenticabile"

"Un amico da non dimenticare, mai": così Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, commenta su Twitter la scomparsa di Franco Frattini.

"Lascia un grande vuoto fra tutti coloro che lo hanno conosciuto" aggiunge, "Ha servito l'Italia e l'UE con onore, passione e professionalità. Un vero 'homme d'Etat'".

È morto Franco Frattini. Aveva 65 anni. Il Domani il 25 dicembre 2022

Era stato nominato consigliere di Stato quasi un anno fa. Per due volte era stato ministro degli Esteri nel governo Berlusconi. Era stato a un passo dal diventare segretario della Nato al posto di Jens Stoltenberg

Era consigliere di Stato, ma soprattutto è stato ministro degli Esteri sotto il governo Berlusconi, ha avuto una lunga carriera politica e a un certo punto era a un passo per diventare segretario della Nato. Franco Frattini è morto nella sera della vigilia di Natale, aveva solo 65 anni.

Laureato in Giurisprudenza, magistrato, è diventato procuratore dello Stato nel 1981. Parlamentare, esponente di Forza Italia e del Popolo della Libertà, il ruolo di ministro degli Esteri lo ha rivestito fra il 2002 e il 2004 e poi ancora fra il 2008 e il 2011. Ma è stato anche  vicepresidente della Commissione Europea e Commissario per la Giustizia, Sicurezza e Libertà negli anni 2004-2008.

GLI ULTIMI RUOLI

L'ultimo incarico, quello da presidente del consiglio di Stato, gli è stato affidato lo scorso 14 gennaio. Negli stessi giorni, il suo nome era entrato nella rosa dei possibili aspiranti al ruolo di presidente della Repubblica, prima della rielezione di Sergio Mattarella.

Nell’estate del 2013 Franco Frattini era anche l’unico candidato per il ruolo di segretario generale della Nato. Oltre all’appoggio italiano, aveva ottenuto quello del Partito popolare europeo. Solo qualche mese più tardi però Angela Merkel – con l’appoggio dell’allora presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e poi del nuovo presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi – orchestrò l’elezione di un norvegese, Jens Stoltenberg.

IL RICORDO DI BERLUSCONI

«Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all’estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri», ha scritto Berlusconi su Facebook. «Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai famigliari».

Morto Franco Frattini: l'ex ministro aveva 65 anni. Frattini è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Dallo scorso 14 gennaio era presidente del Consiglio di Stato. Federico Giuliani il 24 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Si è spento a Roma Franco Frattini. Era malato da tempo e aveva 65 anni. Frattini è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Ha ricoperto le cariche di ministro degli esteri nei governi Berlusconi II (2002-2004) e Berlusconi IV (2008-2011) e di commissario europeo per la giustizia nella commissione Barroso I (2004-2008). Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

La morte di Frattini

Tra i primi ad annunciare la scomparsa di Frattini Silvio Berlusconi: "Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all'estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri. Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai famigliari".

Giancarlo Innocenzi Botti, ex presidente di Invitalia e sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II, ha così ricordato l'ex ministro: "Franco Frattini non è più con noi. Il Paese perde un grand'uomo, un grand commis di stato, un uomo che ha servito le istituzioni con capacità, professionalità ed onore. Io perdo un fratello. Ho condiviso con lui una parte importante della mia vita. "Mi onoro di averlo convinto a far parte della famiglia di Forza Italia e di essergli stato a fianco per molto tempo. Dio lo accolga con tutti gli onori che merita. Noi lo terremo sempre nel nostro cuore", ha aggiunto Innocenzi Botti.

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, ha reso omaggio a Franco Frattini via Twitter. "Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell'anno, forse perchè sei sempre stato una persona speciale e straordinaria".

"Profondo dolore e sgomento per la scomparsa di Franco Frattini, presidente del consiglio di Stato ed ex ministro dei governi Berlusconi. Persona perbene e grande politico, sempre al servizio degli italiani. Condoglianze di cuore alla famiglia, a nome di tutto il gruppo di Fratelli d'Italia alla Camera dei deputati. Riposa in pace Franco", ha dichiarato in una nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti.

La formazione giuridica e l'ingresso in politica

Frattini, nato a Roma il 14 marzo del 1957, si è laureato nel 1979 alla facoltà di giurisprudenza presso l'Università La Sapienza della capitale, dopo aver frequentato il liceo classico Giulio Cesare. Muove i primi passi nella politica come membro del Partito Socialista Italiano nonché segretario della Federazione Giovanile Socialista Italiana (FGSI).

Dal 1984 diventa avvocato dello Stato e magistrato del TAR Piemonte. Due anni più tardi diviene consigliere di Stato e riceve la nomina di consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Tra il 1990 e il 1991 è stato consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel governo Andreotti VI.

Nel 1994 viene nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il governo Berlusconi I. Con l'avvento del successivo governo Dini, nel gennaio 1995, diventa ministro per la Funzione Pubblica e per gli Affari Regionali. Mantiene la carica fino al marzo 1996. È stato presidente del Copaco (Commissione parlamentare di controllo sui servizi segreti) tra il 1996 e il 2001.

La parentesi al Ministero degli Esteri

Con il passare degli anni consolida la sua presenza all'interno delle istituzioni italiane. Nel 1996 si candida alle elezioni politiche con il Polo per le Libertà, nella lista di Forza Italia. Viene eletto nel collegio di Bolzano-Laives. Nel periodo compreso tra il novembre 1997 e l'agosto 2000 ricopre i panni di consigliere comunale della sua città natale, Roma, mentre tra il 1999 e il 2011 lavora al CONI, precisamente alla stesura della Carta federale dell'economia italians port agenzia.

Nel 2001 Frattini si candida alla Camera, sia nel collegio uninominale di Bolzano, sia nel proporzionale del Veneto 2. Viene sconfitto nel primo; eletto nel secondo. Resta deputato dal maggio 2011 al novembre 2004. Dal 2001 prende parte al governo Berlusconi II come ministro per la Funzione Pubblica.

Nel novembre 2002 assume la carica di ministro degli Esteri. In quel periodo l'Italia appoggia gli Stati Uniti nella missione in Iraq. Nell'autunno 2004 lascia l'incarico alla Farnesina, che passa a Gianfranco Fini, in seguito ad un rimpasto di governo dovuto alla crisi di maggioranza del 2004 e al varo dell'esecutivo Berlusconi III.

L'avventura in Europa e il ritorno alla Farnesina

Nel 2004 diventa Commissario dell’Unione Europea per il portafoglio Giustizia, Libertà e Sicurezza. Riveste l'incarico fino al 2008. Viene quindi rieletto alla Camera nelle elezioni politiche del 2008. In quello stesso anno, e fino al 2008, ricopre nuovamente la carica di ministro degli Affari Esteri. Dal 2012 è presidente della Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI).

Dal 2011 al 2013 Frattini è stato Presidente della Fondazione Alcide De Gasperi, nonché membro della Commissione per le riforme costituzionali dal 2013 al 2014. Nel 2022 il suo nome è stato accostato al Quirinale. L'ultima carica: presidente del Consiglio di Stato, dove rivestiva dall'aprile scorso il ruolo di presidente aggiunto al fianco di Filippo Patroni Griffi.

Tra i vari riconoscimenti Franco Frattini è stato insignito, da parte del Presidente della Repubblica di Francia, dell’ordine di Commandeur della Legion d’onore. Nel 2011 riceve a Losanna il Collare d’Oro dell’ordine Olimpico, la più alta onorificenza del Comitato Olimpico Internazionale, per il suo impegno personale e per l’azione italiana a favore del riconoscimento al CIO dello status di Osservatore presso le Nazioni Unite.

Morte Franco Frattini, il cordoglio e il racconto degli anni difficili. Libero Quotidiano il 25 dicembre 2022

Addio Franco Frattini: muore a 65 anni alla vigilia di Natale l'ex ministro degli Esteri, eletto lo scorso gennaio presidente del Consiglio di Stato. Dal 2008 al 2011 alla Farnesina nell'ultimo governo con Silvio Berlusconi premier, così come fu ministro degli Esteri tra il 2002 e il 2004 e, in precedenza ancora ministro della Funzione pubblica nel governo di Lamberto Dini. 

Era stato anche commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Nel 1996 era stato eletto deputato nelle liste di Forza Italia e poi ancora nel 2008 per il Pdl. Nei giorni della rielezione di Sergio Mattarella al Quirinale, era tra i nomi più quotati per la presidenza della Repubblica, poi sfumata.

Frattini si è spento al Policlinico Gemelli di Roma, dove era ormai ricoverato da qualche tempo. Tra i primi ad esprimere cordoglio, Silvio Berlusconi: "Era un vero servitore dello Stato, mi mancherà. In Italia e all’estero si era fatto apprezzare per la sua competenza".

Poi le parole sentite e commosse di Giorgia Meloni: "Franco Frattini era un uomo garbato e intelligente, un servitore delle istituzioni. Era mio amico. Rivolgo a nome del governo sentite condoglianze a famiglia e amici. Saremo fieri di portare a termine la riforma del codice degli appalti alla quale aveva lavorato con dedizione". Ovviamente il cordoglio raccoglie tutta la politica. Enrico Letta esprime "grande  mestizia. La scomparsa prematura di Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all’istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità".

Frattini fu prima magistrato amministrativo in Piemonte, dunque consigliere giuridico con Claudio Martelli. In politica con Dini, dunque con un governo osteggiato da Berlusconi, dunque una lunga carriera politica al fianco del Cavaliere. In particolare, fu il suo secondo mandato da ministro degli Esteri, iniziato nel 2008, ad essere molto complesso, difficile. Come ricorda il Corriere, "l'Italia firma un controverso trattato con il dittatore libico Gheddafi per fermare l’approdo dei migranti in Italia e a causa di questo il governo di Roma subisce anche una condanna da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo per respingimenti illegali di migranti intenzionati a chiedere protezione internazionale". Ma con l'esplodere delle primavere arabe, l'Italia cambia rotta con Gheddafi, per poi partecipare alla missione che di fatto fece calare il sipario sul suo regime.

Nel 2013, Frattini sostenne Scelta civica del premier uscente, Mario Monti. Da quel giorno, restò lontano dalla politica fino alla recente rielezione come presidente aggiunto del Consiglio di Stato nel 2021, presidenza effettiva da gennaio 2022.

Aveva 65 anni. È morto Franco Frattini, ex ministro degli Esteri dei governi Berlusconi e Presidente del Consiglio di Stato. Redazione su Il Riformista il 24 Dicembre 2022

Il nome di Franco Frattini era stato incluso dal centrodestra anche nella rosa lunga e interminabile per il Quirinale, per il ruolo di Presidente della Repubblica, alle elezioni dello scorso gennaio. Stasera la notizia improvvisa: Franco Frattini è morto all’età di 65 anni al Policlinico Gemelli di Roma, dov’era ricoverato da qualche tempo. Era Presidente del Consiglio di Stato. Era stato in passato per due volte ministro degli Esteri nei governi di Silvio Berlusconi. Proprio quello dell’ex Presidente del Consiglio uno dei primi messaggi di cordoglio per la scomparsa.

“Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all’estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri. Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai famigliari”, ha scritto il presidente di Forza Italia.

Frattini era nato nel 1957 a Roma. Laureato in Giurisprudenza, aveva cominciato a carriera di avvocato di stato nel 1984 per poi diventare magistrato del Tribunale Amministrativo Regionale del Piemonte. Consigliere giuridico di Claudio Martelli, era diventato segretario generale della Presidenza del Consiglio nel 1994. In parlamento venne eletto con Forza Italia. È stato anche presidente del Comitato di Controllo dei servizi segreti. Per due volte ministro degli Esteri, ha ricoperto anche il ruolo di responsabile della Funzione Pubblica nel governo Dini. Lasciò il Popolo della Libertà per sostenere la Scelta Civica di Monti tra 2012 e 2013.

La notizia della morte è stata battuta dall’Ansa. “Apprendo con enorme dispiacere La notizia della scomparsa di Franco Frattini. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se va va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze”, ha dichiarato il presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Stefano Stefanini per lastampa.it il 26 Dicembre 2022.

Roma era la sua città ma non appena le cime si imbiancavano gli stava un po’ stretta. Sentiva il richiamo delle nevi, delle piste delle Dolomiti, delle discese eleganti e rapide insieme a Stella conosciuta proprio per la comune passione degli sport invernali. Sotto il politico, sotto il magistrato, c’era sempre lo sportivo e l’amante della natura. 

Franco Frattini, ministro della Funzione pubblica e due volte ministro degli Esteri dei governi Berlusconi, Commissario europeo alla Giustizia, Libertà e Sicurezza nella Commissione Barroso, dal 2012 presidente della SIOI (Società internazionale per l’organizzazione internazionale, un cordone ombelicale con le Nazioni Unite), presidente del Consiglio di Stato in carica, non era uno sciatore della domenica. Lo sci era una cosa seria. Fra le tante attività, aveva trovato il tempo di essere direttore della Scuola Tecnici Federali della FISI che lo aveva nominato maestro e istruttore ad honorem.

Il 24 dicembre lo avrebbe dovuto trovare indaffarato fra decorazioni natalizie, che amava, preparativi di sci e scarponi o già sulla via delle Alpi. Invece Franco Frattini è spento prematuramente lontano dalle sue montagne, in una Roma prenatalizia e semideserta. Il presidente della Repubblica, la presidente del Consiglio non hanno mancato rendergli immediatamente tributo come “protagonista di alto livello della Repubblica” e “servitore delle istituzioni”.

Franco Frattini è stato senz’altro entrambe le cose e merita di essere ricordato per come si è distinto in tutti i ruoli politici e istituzionali che ha rivestito sempre con intelligenza, tratto, simpatia – e impegno professionale. Quando fu nominato ministro degli Esteri la prima volta masticava ben poco l’inglese. Dopo due settimane intensive era in grado di affrontare un colloquio. 

Nel giro di pochi mesi lo padroneggiava. Con gli anni era perfettamente a suo agio. Questa determinazione di essere all’altezza degli interlocutori fu un investimento nel suo futuro internazionale di Commissario Ue prima e, poi, nuovamente, di ministro degli Esteri nell’ultimo governo Berlusconi.

In quest’ultimo Franco Frattini lasciò un segno, invisibile a occhio nudo, oggi riassorbito dalla continuità della politica estera italiana, ma a suo tempo profondo. Come le tracce degli sci in neve fresca. Per apprezzare in pieno quel ruolo bisogna tornare al clima crescentemente crepuscolare che avvolge l’Italia, in Europa e nel mondo, durante i due anni e mezzo di quel governo (2008-2011). Uno degli effetti dell’autoproclamatasi “seconda Repubblica” era stato il definitivo spostamento a Palazzo Chigi del baricentro della politica estera – dove tuttora rimane.

Il problema è che l’ultimo Silvio Berlusconi non fa politica estera. Nella sua agenda viaggi di quel periodo c’è un pauroso vuoto di visite bilaterali; il Presidente del Consiglio partecipa solo ai Consigli europei e ai vari G8 e simili. Ma soprattutto ha un rapporto difficile con i partner europei – tutti ricordano i sorrisetti condiscendenti di Angela Merkel e Francois Sarkozy – e ha preso per il verso sbagliato Barak Obama; conserva l’amicizia con Vladimir Putin che però ha fatto un momentaneo passo indietro per lasciare la presidenza a Dmitry Medvedev. 

Quanto a Balcani, Mediterraneo, Golfo, Asia… Silvio Berlusconi è cospicuamente assente. A questo vuoto, accentuatosi nel 2011, anno critico del famigerato spread ma anche delle primavere arabe e dell’intervento Nato in Libia, Franco Frattini pose parzialmente riparo, in tre modi.

Innanzitutto, Frattini svolse un’intensa attività bilaterale e di contatti, ad esempio nel Golfo. Consentiva quanto meno di dare un segno di presenza dell’Italia in Paesi e parti del mondo che per noi contano. Fu costantemente accanto a Giorgio Napolitano, offrendo una sponda governativa alla statura internazionale del presidente della Repubblica, in un rapporto di stima reciproca.

Assente Berlusconi, ma presenti Napolitano e Frattini? Per molti interlocutori – a Pechino come alle Nazioni Unite - bastava ad assicurare che sull’Italia si poteva contare. Infine, grazie anche a questo filo diretto col Quirinale, Franco Frattini, dietro le quinte e in collaborazione con altri “servitori delle istituzioni”, riuscì mantenere la politica estera in rotta europea ed atlantica anche quando il Presidente del Consiglio, distratto da altri problemi, avrebbe navigato a vista. Non poca cosa, in tempi in cui, in non lontani palazzi romani, si arzigogolava di uscita dall’euro… 

In politica estera la limitazione danni è un obiettivo prioritario. L’Italia deve essere grata a Franco Frattini per averlo efficacemente conseguito in anni difficili, sempre con lucidità nella mente, sorriso sulle labbra, buon umore nel cuore, e senso dello Stato.

La politica piange Franco Frattini, un uomo di pace. Oggi i funerali. Luigi Bisignani su Il Tempo il 27 dicembre 2022

Caro direttore, Franco Frattini ha tagliato davvero troppo presto il traguardo della vita. Da consumato slalomista, ha sciato come «istruttore ad honorem» tra i paletti stretti della Prima e della Seconda Repubblica, rimanendo sempre coerente con se stesso. Non ha mai dimenticato chi aveva creduto in lui, ancora giovanissimo, come la famiglia socialista, da dove ha iniziato grazie a Nino Freni, accanto anche a Gianni Castellaneta, che poi nominò ambasciatore a Washington. Da Ministro degli Esteri in carica non esitò a volare ad Hammamet per il decennale della scomparsa di Craxi, con il quale aveva collaborato, marcando così la differenza con tanti altri beneficiati socialisti che si erano dileguati, da Giuliano Amato a Claudio Martelli. Lamberto Dini lo volle fortissimamente al Ministero della Funzione Pubblica dopo che Gianni Letta lo aveva scelto precedentemente in qualità di Segretario Generale a Chigi per poi approdare con Berlusconi Premier alla Farnesina, compito che assolse con grande lealtà. Eppure, come per altri esponenti che si sono affacciati a Forza Italia, il Cavaliere - che oggi lo piange - ha preferito circondarsi da quel Circo Barnum adesso guidato dalla vestale pro tempore Licia Ronzulli, mettendo da parte una classe dirigente di valore, incredibilmente lasciata andare o relegata in un angolo.

Ma anche altri leader hanno sbagliato a non aver puntato sudi lui. Ad un passo da poter diventare Segretario generale della Nato, con l'appoggio anche di Giorgio Napolitano e di Obama, Matteo Renzi preferì indicare l'irriconoscente Federica Mogherini come Alto rappresentante precludendo di conseguenza quell'incarico a Frattini. E chissà quanto sarebbe stato utile in quel ruolo, per l'Italia e per il mondo, in questi tempi di guerra. Molto apprezzato negli Stati Uniti, amico personale di Hillary Clinton, avrebbe tentato ogni possibile via per la pace. La sua parola d'ordine in politica estera era infatti «stabilizzare» per inseguire sempre l'armonia tra le nazioni, come aveva fatto con ottimi risultati anche nel martoriato Libano, in Pakistan, dove propose il modello altoatesino per cercare di far convivere le varie fazioni politiche, nella controversia tra Algeria e Marocco o in Libia con il Trattato di Bengasi. Buongustaio, raffinato sommelier e da poco tempo anche golfista, era atlantista convinto e rispettato anche in Russia; rispetto che, strumentalizzato stupidamente a Roma, gli ha forse ostacolato l'ascesa al Quirinale. Certamente l'Oscar dell'ipocrisia è ancora una volta appannaggio di Enrico Letta, che oggi parla di grande mestizia e di vuoto dopo che l'aveva volgarmente bocciato per il Colle in seguito alla solita ridicola campagna della stampa di sinistra di essere «un agente» al servizio di Putin. Ma nonostante le sparate del «pisano-parigino», il prestigio di cui godeva lo ha fatto approdare all'unanimità al vertice del Consiglio di Stato, dove da subito si è messo a lavorare per ridurre la conflittualità interna tra i magistrati del Tar e il Cds con riunioni plenarie mensili per coinvolgerli tutti nella gestione e a mettere ordine al codice degli appalti, da qualche mese definito appunto «Codice Frattini». 

Da presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti (COPACO), anni prima era riuscito a far passare tutte le decisioni, sempre all'unanimità, con argomentazioni impeccabili, mai di parte. Con la leggerezza del romano e la serietà del bolzanino d'adozione aveva visto giusto sulla deriva del web e sulla maggiore attenzione che occorreva dedicare al tema ambientale e alla giustizia sociale. Sulla «rete», pur contrario ad ogni forma di censura, dieci anni fa scriveva che quando «si va oltre i limiti si armano le mani». In questi pochi mesi a Palazzo Spada lascia un grande vuoto soprattutto con l'esempio del suo stile, che è servito anche a svelenire gli animi tra le varie correnti interne in perenne lotta tra loro in cerca di posti al sole nei vari Palazzi e Gabinetti del Potere. Chi raccoglierà il suo testimone? Luigi Maruotti, l'attuale Aggiunto con il cuore a sinistra, un carattere spigoloso e una grande amicizia con il governatore della Campania Vincenzo De Luca parte come grande favorito. Ma semmai non ce la facesse, sono in corsa Carmine Volpe, ex capo del Tar del Lazio e vicino al centrodestra, e Luigi Carbone, giurista di rango, appassionato musicista che con la sua band, Neapolitan Contamination, mischia musica jazz, blues con canzoni partenopee - già capo di gabinetto di «Topolino» Tria. Speriamo che nel segno di Frattini anche il nuovo Presidente del Consiglio di Stato, nonostante i veleni che soffiano impetuosi in questi giorni a Palazzo Spada, passi all'unanimità. Significherebbe che la lezione del vecchio Maestro di sci non è rimasta inascoltata. Berlusconi, Renzi ed Enrico Letta ne traggano insegnamento.

Renato Brunetta: "Frattini e gli anni al governo: affrontammo insieme la crisi economica più dura. Quei lampadari di Murano scelti da lui al ministero". Valentina Conte su La Repubblica il 25 Dicembre 2022

L'ex ministro della Pubblica amministrazione nel governo Draghi ricorda l'amico e collega di partito nell'esecutivo Berlusconi IV: "Portava la sua intelligenza e credibilità. Negli ultimi mesi abbiamo lavorato insieme sul codice degli appalti"

"Una notizia triste. Franco Frattini era un uomo gentile, preparato, corretto. Un amico". Renato Brunetta condivide più di un ricordo con l'ex ministro appena scomparso. Non solo la militanza nello stesso partito, Forza Italia. Ma anche un governo assieme, il Berlusconi IV, tra il 2008 e 2011, con Giorgia Meloni ministra della gioventù: "Quello della più grave crisi economica e politica di questo secolo.

Morto Franco Frattini, ex ministro di Berlusconi: da gennaio scorso presidente del Consiglio di Stato. Aveva 65 anni ed era malato da tempo, è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. La Repubblica il 24 Dicembre 2022

È morto a Roma a 65 anni Franco Frattini. L'ex ministro era malato da tempo: a 39 anni aveva cominciato la sua storia politica entrando a far parte del governo Berlusconi. Otto anni con Forza Italia, fino al 2004 e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Ha ricoperto le cariche di ministro degli esteri nei governi Berlusconi II (2002-2004) e Berlusconi IV (2008-2011) e commissario europeo per la giustizia nella commissione Barroso I (2004-2008). Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Tra i primi ad annunciare la scomparsa di Frattini è Giancarlo Innocenzi Botti, ex presidente di Invitalia e sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II. "Franco Frattini non è più con noi. Il Paese perde un grand'uomo, un grand commis di stato, un uomo che ha servito le istituzioni con capacità, professionalità ed onore. Io perdo un fratello. Ho condiviso con lui una parte importante della mia vita".

Nato a Roma il 14 marzo 1957, l'ex ministro degli Esteri, e prima ancora della Funzione Pubblica, era stato commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Dopo la laurea con lode alla Sapienza di Roma, nel luglio del 1979, nel 1981 diventa Procuratore dello Stato e magistrato del Tar Piemonte, nel 1986 viene nominato consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Nel 1990 e 1991 lavora come consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel sesto governo Andreotti. La sua carriera politica è tutta nel solco di Forza Italia prima e Pdl poi, al fianco di Silvio Berlusconi: nel 1994 è nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il primo governo Berlusconi.

Con la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del successivo governo Dini nel gennaio 1995, viene nominato ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali e lo resta fino al marzo 1996. Eletto alla Camera dei deputati nella lista di Forza Italia, dal 1997 al 2000 è stato consigliere comunale a Roma; rieletto alla Camera nel 2001, è stato ministro per la Funzione pubblica dal 2001 al 2002 e poi per gli Affari Esteri, durante il secondo governo Berlusconi, dal 2002 sino al 2004, quando è diventato commissario dell'Unione Europea per il portafoglio Giustizia, Libertà e Sicurezza, incarico che ha rivestito sino al maggio 2008. Rieletto alla Camera nelle elezioni politiche del 2008, dal maggio dello stesso anno al novembre 2011 ha nuovamente ricoperto la carica di ministro degli Affari Esteri.

Membro della Commissione per le riforme costituzionali (2013-2014) e tuttora Consigliere speciale del governo serbo per le trattative di adesione all'Unione Europea, dal 2011 al 2013 è stato Presidente della Fondazione Alcide De Gasperi. Frattini era Presidente della Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI), ente non a scopo di lucro a carattere internazionalistico. Nel 2014 è chiamato al Coni come Presidente dell'Alta Corte di Giustizia Sportiva. Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Il ricordo di Mattarella: "La sua scomparsa priva la Repubblica di un protagonista di alto profilo"

 "La morte del presidente Franco Frattini mi addolora profondamente. La sua scomparsa priva la Repubblica di un protagonista di alto profilo che in questi anni ha recato un importante contributo alla vita delle nostre istituzioni". Lo ricorda così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "In Parlamento, alla guida di importanti ministeri, come componente della commissione della Unione europea, nella autorevole presidenza del Consiglio di Stato e nell'impegno politico, culturale, amministrativo - osserva Mattarella - la sua presenza è sempre stata da tutti apprezzata in grande misura".

Meloni: fieri di portare a termine le sue riforme

"Franco Frattini era un uomo garbato e intelligente, un servitore delle istituzioni. Era mio amico. Rivolgo a nome del Governo sentite condoglianze a famiglia e amici. Saremo fieri di portare a termine la riforma del codice degli appalti alla quale aveva lavorato con dedizione". Lo scrive su Twitter il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Berlusconi: un servitore dello Stato

Con un post su Instagram, Silvio Berlusconi ha ricordato l'amico col quale ha condiviso un lungo percorso politico: "Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all'estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri. Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai familiari".

Crosetto: persona speciale

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, gli rende omaggio via Twitter: "Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell'anno, forse perchè sei sempre stato una persona speciale e straordinaria".

Letta, profonda tristezza per prematura scomparsa

"Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all'istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità". Così il segretario del Pd Enrico Letta in un tweet in merito alla scomparsa di Franco Frattini, morto oggi a 65 anni.

Foti (FdI), profondo dolore per scomparsa

"Profondo dolore e sgomento per la scomparsa di Franco Frattini, presidente del consiglio di Stato ed ex ministro dei governi Berlusconi. Persona perbene e grande politico, sempre al servizio degli italiani. Condoglianze di cuore alla famiglia, a nome di tutto il gruppo di Fratelli d'Italia alla Camera dei deputati. Riposa in pace Franco". Lo dichiara in una nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti.

Rosato (Iv), politico fine e grande giurista

"Ci ha lasciato questa sera Franco Frattini. Politico fine, persona mite, grande giurista. Siamo vicini alla famiglia e ai suoi tanti amici e colleghi che ne piangono la prematura scomparsa". Lo scrive sui social il presidente di Iv, Ettore Rosato.

Ciriani, perdiamo servitore dello Stato e uomo perbene

"Sono vicino con il cuore alla famiglia di Franco Frattini a cui va il mio pensiero ed il mio abbraccio in questa notte della vigilia di Natale. Perdiamo un servitore dello Stato, un uomo perbene che ha dedicato la sua vita all'Italia e agli italiani. A Dio Franco". Lo dichiara Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento.

Lollobrigida, politico acuto e leale servitore Stato

"Cordoglio per la scomparsa di Franco Frattini, uomo per bene, politico acuto e leale servitore dello Stato. Sincera vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari tutti in questo momento di dolore". Lo dichiara il Ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.

La Russa: "Enorme dispiacere, addio a una persona perbene"

"Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze". Così il Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Zangrillo, "l'Italia perde un politico di razza"

Con la morte di Franco Frattini l'Italia perde "un politico di razza" e un "uomo delle istituzioni. E' con "profondo cordoglio" che il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, commenta la morte del presidente del Consiglio di Stato , "uomo delle istituzioni, apprezzato anche a livello internazionale per l'impegno da commissario europeo". La sua scomparsa "rattrista questa vigilia di Natale e priva l'Italia di un uomo delle istituzioni competente e perbene e di un politico di razza".

Timmermans, "Uomo di Stato e amico indimenticabile"

"Un amico da non dimenticare, mai": così Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, commenta su Twitter la scomparsa di Franco Frattini.

"Lascia un grande vuoto fra tutti coloro che lo hanno conosciuto" aggiunge, "Ha servito l'Italia e l'UE con onore, passione e professionalità. Un vero 'homme d'Etat'".

Renato Brunetta: "Frattini e gli anni al governo: affrontammo insieme la crisi economica più dura. Quei lampadari di Murano scelti da lui al ministero". Valentina Conte su La Repubblica il 25 Dicembre 2022

L'ex ministro della Pubblica amministrazione nel governo Draghi ricorda l'amico e collega di partito nell'esecutivo Berlusconi IV: "Portava la sua intelligenza e credibilità. Negli ultimi mesi abbiamo lavorato insieme sul codice degli appalti"

"Una notizia triste. Franco Frattini era un uomo gentile, preparato, corretto. Un amico". Renato Brunetta condivide più di un ricordo con l'ex ministro appena scomparso. Non solo la militanza nello stesso partito, Forza Italia. Ma anche un governo assieme, il Berlusconi IV, tra il 2008 e 2011, con Giorgia Meloni ministra della gioventù: "Quello della più grave crisi economica e politica di questo secolo.

Morto Franco Frattini, ex ministro di Berlusconi: da gennaio scorso presidente del Consiglio di Stato. Aveva 65 anni ed era malato da tempo, è stato deputato dal 1996 al 2004 con Forza Italia, e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. La Repubblica il 24 Dicembre 2022

È morto a Roma a 65 anni Franco Frattini. L'ex ministro era malato da tempo: a 39 anni aveva cominciato la sua storia politica entrando a far parte del governo Berlusconi. Otto anni con Forza Italia, fino al 2004 e nuovamente dal 2008 al 2013 col PdL. Ha ricoperto le cariche di ministro degli esteri nei governi Berlusconi II (2002-2004) e Berlusconi IV (2008-2011) e commissario europeo per la giustizia nella commissione Barroso I (2004-2008). Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Tra i primi ad annunciare la scomparsa di Frattini è Giancarlo Innocenzi Botti, ex presidente di Invitalia e sottosegretario di Stato alle Comunicazioni nel governo Berlusconi II. "Franco Frattini non è più con noi. Il Paese perde un grand'uomo, un grand commis di stato, un uomo che ha servito le istituzioni con capacità, professionalità ed onore. Io perdo un fratello. Ho condiviso con lui una parte importante della mia vita".

Nato a Roma il 14 marzo 1957, l'ex ministro degli Esteri, e prima ancora della Funzione Pubblica, era stato commissario europeo dal 2004 al 2008 sotto la presidenza di Josè Manuel Barroso. Dopo la laurea con lode alla Sapienza di Roma, nel luglio del 1979, nel 1981 diventa Procuratore dello Stato e magistrato del Tar Piemonte, nel 1986 viene nominato consigliere giuridico del Ministero del Tesoro. Nel 1990 e 1991 lavora come consigliere giuridico del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli nel sesto governo Andreotti. La sua carriera politica è tutta nel solco di Forza Italia prima e Pdl poi, al fianco di Silvio Berlusconi: nel 1994 è nominato segretario generale della Presidenza del Consiglio dei ministri durante il primo governo Berlusconi.

Con la fine del primo governo Berlusconi e la nascita del successivo governo Dini nel gennaio 1995, viene nominato ministro per la funzione pubblica e per gli affari regionali e lo resta fino al marzo 1996. Eletto alla Camera dei deputati nella lista di Forza Italia, dal 1997 al 2000 è stato consigliere comunale a Roma; rieletto alla Camera nel 2001, è stato ministro per la Funzione pubblica dal 2001 al 2002 e poi per gli Affari Esteri, durante il secondo governo Berlusconi, dal 2002 sino al 2004, quando è diventato commissario dell'Unione Europea per il portafoglio Giustizia, Libertà e Sicurezza, incarico che ha rivestito sino al maggio 2008. Rieletto alla Camera nelle elezioni politiche del 2008, dal maggio dello stesso anno al novembre 2011 ha nuovamente ricoperto la carica di ministro degli Affari Esteri.

Membro della Commissione per le riforme costituzionali (2013-2014) e tuttora Consigliere speciale del governo serbo per le trattative di adesione all'Unione Europea, dal 2011 al 2013 è stato Presidente della Fondazione Alcide De Gasperi. Frattini era Presidente della Società Italiana per l'Organizzazione Internazionale (SIOI), ente non a scopo di lucro a carattere internazionalistico. Nel 2014 è chiamato al Coni come Presidente dell'Alta Corte di Giustizia Sportiva. Dal 14 gennaio scorso era presidente del Consiglio di Stato.

Il ricordo di Mattarella: "La sua scomparsa priva la Repubblica di un protagonista di alto profilo"

 "La morte del presidente Franco Frattini mi addolora profondamente. La sua scomparsa priva la Repubblica di un protagonista di alto profilo che in questi anni ha recato un importante contributo alla vita delle nostre istituzioni". Lo ricorda così il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "In Parlamento, alla guida di importanti ministeri, come componente della commissione della Unione europea, nella autorevole presidenza del Consiglio di Stato e nell'impegno politico, culturale, amministrativo - osserva Mattarella - la sua presenza è sempre stata da tutti apprezzata in grande misura".

Meloni: fieri di portare a termine le sue riforme

"Franco Frattini era un uomo garbato e intelligente, un servitore delle istituzioni. Era mio amico. Rivolgo a nome del Governo sentite condoglianze a famiglia e amici. Saremo fieri di portare a termine la riforma del codice degli appalti alla quale aveva lavorato con dedizione". Lo scrive su Twitter il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.

Berlusconi: un servitore dello Stato

Con un post su Instagram, Silvio Berlusconi ha ricordato l'amico col quale ha condiviso un lungo percorso politico: "Franco Frattini è stato un vero servitore dello Stato: in Italia e all'estero dove si è fatto apprezzare da tutti per la competenza con la quale ha svolto il ruolo di Commissario europeo e poi di ministro degli Esteri. Di lui ricorderò sempre la grande capacità di affrontare col sorriso problemi complessi, di trovarsi a suo agio in ogni ruolo e la stima che ha seminato. Mancherà a me come a tutte le persone che hanno avuto la fortuna di poter collaborare con lui. Un abbraccio ai familiari".

Crosetto: persona speciale

Il ministro della Difesa, Guido Crosetto, gli rende omaggio via Twitter: "Addio Franco. Ci lasci nella notte più speciale e straordinaria dell'anno, forse perchè sei sempre stato una persona speciale e straordinaria".

Letta, profonda tristezza per prematura scomparsa

"Grande mestizia. La scomparsa prematura di Franco Frattini lascia un senso di profonda tristezza. Esprimo alla sua famiglia, ai suoi cari e all'istituzione del Consiglio di Stato vicinanza e cordoglio da parte di tutta la nostra comunità". Così il segretario del Pd Enrico Letta in un tweet in merito alla scomparsa di Franco Frattini, morto oggi a 65 anni.

Foti (FdI), profondo dolore per scomparsa

"Profondo dolore e sgomento per la scomparsa di Franco Frattini, presidente del consiglio di Stato ed ex ministro dei governi Berlusconi. Persona perbene e grande politico, sempre al servizio degli italiani. Condoglianze di cuore alla famiglia, a nome di tutto il gruppo di Fratelli d'Italia alla Camera dei deputati. Riposa in pace Franco". Lo dichiara in una nota il capogruppo di Fratelli d'Italia alla Camera, Tommaso Foti.

Rosato (Iv), politico fine e grande giurista

"Ci ha lasciato questa sera Franco Frattini. Politico fine, persona mite, grande giurista. Siamo vicini alla famiglia e ai suoi tanti amici e colleghi che ne piangono la prematura scomparsa". Lo scrive sui social il presidente di Iv, Ettore Rosato.

Ciriani, perdiamo servitore dello Stato e uomo perbene

"Sono vicino con il cuore alla famiglia di Franco Frattini a cui va il mio pensiero ed il mio abbraccio in questa notte della vigilia di Natale. Perdiamo un servitore dello Stato, un uomo perbene che ha dedicato la sua vita all'Italia e agli italiani. A Dio Franco". Lo dichiara Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento.

Lollobrigida, politico acuto e leale servitore Stato

"Cordoglio per la scomparsa di Franco Frattini, uomo per bene, politico acuto e leale servitore dello Stato. Sincera vicinanza alla sua famiglia e ai suoi cari tutti in questo momento di dolore". Lo dichiara il Ministro dell'Agricoltura, della Sovranità alimentare e delle Foreste, Francesco Lollobrigida.

La Russa: "Enorme dispiacere, addio a una persona perbene"

"Apprendo con enorme dispiacere la notizia della scomparsa di Franco Frattini. Per molti anni ho avuto modo di lavorare con lui apprezzando le sue doti umane e politiche. Con Franco se ne va una persona perbene, una di quelle che lasciano tanti buoni ricordi. Alla famiglia giungano le mie sentite condoglianze". Così il Presidente del Senato, Ignazio La Russa.

Zangrillo, "l'Italia perde un politico di razza"

Con la morte di Franco Frattini l'Italia perde "un politico di razza" e un "uomo delle istituzioni. E' con "profondo cordoglio" che il ministro per la Pubblica amministrazione, Paolo Zangrillo, commenta la morte del presidente del Consiglio di Stato , "uomo delle istituzioni, apprezzato anche a livello internazionale per l'impegno da commissario europeo". La sua scomparsa "rattrista questa vigilia di Natale e priva l'Italia di un uomo delle istituzioni competente e perbene e di un politico di razza".

Timmermans, "Uomo di Stato e amico indimenticabile"

"Un amico da non dimenticare, mai": così Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, commenta su Twitter la scomparsa di Franco Frattini.

"Lascia un grande vuoto fra tutti coloro che lo hanno conosciuto" aggiunge, "Ha servito l'Italia e l'UE con onore, passione e professionalità. Un vero 'homme d'Etat'".

Grande cordoglio per la scomparsa del politico. Chi era Franco Frattini, il presidente del Consiglio di Stato che aveva fatto del garantismo la sua bandiera. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 27 Dicembre 2022

A fine gennaio scorso il suo nome era tra i Quirinabili. Franco Frattini, 65 anni, presidente del Consiglio di Stato, è scomparso per la recidiva di un tumore nella notte di Natale. La sua camera ardente, allestita a Palazzo Spada, ha visto sfilare uno spaccato delle istituzioni, a partire dagli ex presidenti del Consiglio Lamberto Dini, Massimo D’Alema e Giuliano Amato.

Al Consiglio di Stato era approdato dopo una carriera a cavallo delle istituzioni, tra magistratura e politica. Aveva dismesso presto la toga vestita nel 1981: il magistrato garantista ha ceduto il passo al giurista impegnato in ruoli di governo, a partire da quel primo incarico al seguito di Claudio Martelli, di cui Frattini è stato consigliere giuridico durante l’allora governo Andreotti. Socialista fino a quando il Psi di Craxi è rimasto in vita, aveva poi scelto Forza Italia. Con il Cavaliere a Palazzo Chigi, Frattini era stato due volte ministro degli Esteri: dal 2002 al 2004 e dal 2008 al 2011. Nei quattro anni che hanno diviso le esperienze alla Farnesina, è stato vicepresidente della Commissione europea e commissario per la Giustizia. Ruoli di primo piano che non ne hanno raffreddato la gratitudine: come ricorda oggi Stefania Craxi, “Fu spesso ad Hammamet a deporre un fiore sulla tomba di papà”.

Discreto, sobrio, sempre riservato, fu più volte vicino al mondo dei servizi segreti: presidente del Copasir nel 1996, fece integrare le competenze sull’intelligence nel Ministero della Funzione pubblica di cui fu titolare tra il 2001 e il 2002. Uomo di pace e del dialogo, quando Matteo Salvini e Silvio Berlusconi ne sostennero la candidatura al Colle venne ingenerosamente tacciato da qualcuno di essere “troppo vicino a Mosca”. Il precedente del 2008, quando c’era da discutere l’eventuale ritorsione per l’ingresso dei russi in Ossezia, non è paragonabile all’invasione dell’Ucraina. Per il Quirinale il suo nome girò nello spazio di una notte. Antonio Bettanini, suo storico collaboratore, la ricorda così: “La materia era troppo delicata e Frattini era una persona troppo riservata per commentare o per manifestare un qualche sentimento. Ma so che si considerava un civil servant”. Non si era candidato ma non avrebbe detto di no.

Con la stessa discrezione seguì il breve volgere della parabola quirinalizia di Elisabetta Belloni, figura istituzionale per la quale aveva grande stima. La riconferma di Sergio Mattarella mise fine alla giostra dei nomi, e Frattini poté dare pieno inizio al suo mandato al Consiglio di Stato. L’organo consultivo dalla doppia natura, di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione, dovrà adesso procedere alla nomina del nuovo Presidente. Il successore di Franco Frattini potrebbe essere una figura già formata e pronta a entrare in scena: l’esigenza condivisa tra il Governo e il Quirinale è quella di individuare un nome non politico, un tecnico capace di rimettere subito in corsa l’organismo. Per prendere il posto di Franco Frattini sembra dunque perfetto il profilo di Luigi Maruotti, avvocato, già Presidente Aggiunto del Consiglio di Stato.

Maruotti è cresciuto nell’Avvocatura dello Stato e ha nel tempo presieduto la terza, quarta, quinta e sesta sezione del Consiglio di Stato. Se l’avvicendamento fosse confermato, sarà la prima volta di un avvocato al vertice del Consiglio di Stato: un passo nella direzione dell’allineamento garantista del sistema-Giustizia voluto dal ministro Carlo Nordio. Nel dicembre dello scorso anno Maruotti corse contro Patroni Griffi per conquistare il vertice della Corte costituzionale. Rimase al Consiglio di Stato, e non avrebbe mai immaginato un epilogo in questi termini. I funerali di Stato di Frattini si terranno oggi, alle 11.30, nella basilica dei Santi Apostoli, a Roma.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste

·         E’ morto il musicista Mauro Sabbione.

Mauro Sabbione è morto, addio all’anima elettronica dei Matia Bazar che suonò anche coi Litfiba. Storia di Simona Marchetti su Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2022.

Noto come l’anima elettronica dei Matia Bazar (aveva fatto parte della band dal 1981 al 1984), Mauro Sabbione è morto a Milano all’età di 65 anni, dopo una grave malattia. Pianista e compositore (si era diplomato al conservatorio di Genova, la città dov’era nato il 17 aprile 1957), aveva debuttato coi Matia Bazar nel tour «Il tempo del sole» del 1981, contribuendo poi alla realizzazione di numerosi brani, fra cui «Zeta», «Astra» ed «Elettrochoc», sebbene la sua firma non compaia fra gli autori per la consuetudine dell’epoca di non considerare melodie gli intro e le parti finali.

Protagonista con i Matia Bazar al Festival di Sanremo del 1983, dove vinsero il premio della critica con «Vacanze Romane», Sabbione era stato anche il tastierista dei Litfiba (aveva partecipato alle incisioni di «El Diablo», «Live on Line» e «Insidia») e in seguito aveva lavorato come arrangiatore e produttore con altri gruppi italiani, come Modà, Diaframma e Stellerranti, mentre dal 1985 collaborava con Leo Bassi. Uomo solare e dalla creatività straordinaria, Sabbione lascia la moglie Simona Greco e le due figlie Zoe e Morgana, avute da un precedente matrimonio.

Morto Mauro Sabbione, tastierista dei Matia Bazar e dei Litfiba. A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 23 Dicembre 2022

Aveva 65 anni e si era molto ammalato nell'ultimo anno. Ha collaborato come arrangiatore/produttore anche con molti altri gruppi italiani come i Modà e i Diaframma

È morto Mauro Sabbione, pianista e compositore, noto per essere stato componente dei Matia Bazar dal 1981 al 1984. Aveva dato un contributo decisivo al cosiddetto periodo elettronico della band. Era anche stato tastierista dei Litfiba. Il musicista è morto ieri sera a Milano all'età di 65 anni. Si era gravemente ammalato nell'ultimo anno.

Gli inizi

Nato a Genova il 17 aprile del 1957, si era diplomato al conservatorio Niccolò Paganini del capoluogo ligure. Sabbione è stato il tastierista dei Matia Bazar dall'aprile 1981 all'aprile 1984. Il suo debutto nella band avvenne nel tour Il tempo del sole il 26 giugno 1981 a Cavallermaggiore, Cuneo. Mentre il suo ultimo spettacolo ufficiale con la band è stato al Piper di Roma, il 16 aprile 1984.

Con i Matia Bazar

Sabbione aveva contributi alla composizione di brani come Zeta, Astra, Palestina, Scacco un po' matto, Bambini di poi, Casa mia e altre come Elettrochoc o Intellighenzia. Ma la sua firma non compare tra gli autori per la consuetudine dell'epoca di non considerare melodie i ponti, gli intro e le parti finali.

Con i Litfiba

Tastierista anche dei Litfiba, Sabbione aveva partecipato alle incisioni di El diablo, Live on Line, Insidia.

Le altre collaborazioni

Come arrangiatore/produttore, Sabbione aveva collaborato con molti altri gruppi italiani come i Modà, Diaframma, Violet Eves, Diskanto, Stellerranti, Garbo, Belze e Mirage.

Dal 1985 collaborava assiduamente con Leo Bassi ma altre collaborazioni proficue furono quelle con Johnny Melville, Jango Edwards, Vanni De Lucia e Gianni Colosimo.

L'opera per Che Guevara

L'artista era stato anche fondatore, insieme alla contralto Cinzia Bauci, del gruppo interdisciplinare Melodrama che nel 1990 prese il nome di Ensemble Mediterraneo, con il quale produsse numerose opere, fra cui Saudade Che Guevara, dedicata al trentennale della scomparsa di Ernesto Guevara De la Sierna e premiata come migliore opera multimediale del 1997 a Cuba.

Le produzioni multimediali

Nel 2003 uscì un nuovo cd, Gramsci Bar, prodotto da Valerio Peretti e premiato al Mei di Faenza, distribuito dalla Edel, cui fece seguito un lungo tour con numerosi ospiti. Negli ultimi anni le produzioni multimediali si erano intensificate. Tra queste da sottolineare le composizioni per i due dvd Revelation e Utopia, testimonianza degli omonimi tour con Leo Bassi ai quali avevo preso parte anche come attore e direttore di palco.

Il tour fra video e pianosolo

L'ultimo tour di Sabbione è stato Tango nel fango il primo tour italiano che mescolava video e pianosolo, dedicato all'epopea elettronica degli anni 80 dei Matia Bazar. Dopo oltre 100 date il tour era proseguito cambiando nome in Tango nel fango di Rabelais.

Il remake

Nel 2019 l'editrice Lacerba e il suo mentore Lapo Belmestieri hanno realizzato il remake di Architettura sussurrante, il vinile dell'architetto Alessandro Mendini per il quale i Matia Bazar nel 1983 avevano realizzato il brano Casa mia. Per il remake Sabbione aveva composto, nell'appendice in tiratura limitata e numerata intitolata Extrasussurrante e pubblicata esclusivamente in cd, il brano Cinismo abitativo che comprendeva tutto il testo della poesia di Mendini pubblicato sulla rivista Modo da lui diretta nel 1979.

Festival di Sanremo

Negli ultimi anni, Sabbione, che con i Matia Bazar era stato protagonista al festival di Sanremo del 1983 con Vacanze romane (brano che vinse il Premio della Critica) curava le pagelle del Festival per l'Adnkronos, in una rubrica che aveva accettato di intitolare con grande autoironia Il fu Matia Bazar. Uomo solare, la cui creatività e curiosità non conosceva limiti, Mauro Sabbione lascia la moglie Simona Greco e le due figlie, avute da un precedente matrimonio, Zoe e Morgana.

·         E’ morto lo speaker radiofonico Ivo Caliendo.

Maria Egizia Fiaschetti per roma.corriere.it il 23 dicembre 2022.

La sigla del suo programma su Radio Dimensione Suono, accompagnata dal brano Sun goddess degli Earth, Wind & Fire, oggi risuona più triste. Dolore nel mondo della musica per la scomparsa improvvisa di Ivo Caliendo (aveva 69 anni), speaker radiofonico che i colleghi ricordano per il carattere mite, i modi gentili e il gusto raffinatissimo.

Agli albori del fenomeno delle emittenti private, quando Radio Dimensione Suono trasmetteva da una piccola mansarda in via Eutropio, alla Balduina, alla fine degli anni Settanta Caliendo ha educato le generazioni più giovani all'ascolto di musica di qualità, dal soul al blues alla fusion, fino alla black e all'R'n'b negli anni Novanta, quando è approdato a Radio Centro Suono. 

Andrea Torre, speaker di Rtr 99, ieri ha voluto rendergli omaggio con una canzone di Stevie Wonder: «Ivo è stato un grandissimo divulgatore musicale, "colpevole" dell'innamoramento collettivo verso la musica fusion attraverso la sua voce e le scelte musicali, anche difficili, che ci ha fatto ascoltare. 

Agli albori di Radio Dimensione Suono aveva la libertà di dare la sua impronta. Negli anni Novanta, da direttore artistico, fui contento di imbarcarlo a Radio Centro Suono: gli dedicammo la stessa fascia musicale con la stessa peculiarità. Era una persona meravigliosa, educata, riservata... mi dispiace moltissimo aver saputo in ritardo che non c'è più, sarebbe stato berlo dedicargli un tributo prima del funerale, ma lo faremo...». 

«Trovai Ivo al suo posto, nelle trasmissioni di gran classe della notte, in quella Radio Dimensione Suono dove iniziai la mia carriera - racconta Faber Cucchetti - . Era il 1978. Il fisico gracile, i modi garbati, la profonda conoscenza di una musica lontana dalle mode. Eppure, fra tanta classe e dolce modestia, aveva in serbo un'imperdibile vena ironica. Disincantato, sapeva lanciare battute di raro sarcasmo. Ivo era un appassionato della musica come ne restano pochi». 

Si uniscono ai ricordi di stima e affetto i colleghi Mario Tagliaferri e Francesco Scelta: «È sempre stato un tipo schivo, ma con la battuta pronta... Il suo modo di comunicare era la musica, in particolare la fusion di cui era un profondo conoscitore. Mancherà molto e una generazione intera di ascoltatori che l'hanno amato pregherà per lui».

·         E’ morto il giornalista Alessio Viola.

Giornalismo pugliese in lutto: a 70 anni muore Alessio Viola. Scrittore ed editorialista era nato a Troia, nel Foggiano, ma barese d'adozione. Tanti i messaggi di cordoglio. Maria Grazia Rongo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Dicembre 2022

Ci ha lasciati mentre tutto intorno è festa Alessio Viola. In una città che brilla di luci natalizie, e della quale, lui, ha raccontato le ombre.

Foggiano di nascita (di Troia) Alessio Viola è scomparso questa mattina a Bari, a settant'anni, per un cancro ai polmoni. La chiamiamo con il suo nome questa malattia perché lui non ci ha mai girato intorno. L'ha combattuta per tanti anni senza mai perdere il sorriso, con il suo approccio arguto anche nei momenti più difficili, e si è fatto promotore di tante battaglie per l'accessibilità alle cure da parte di tutti, per l'umanizzazione dei luoghi dove si praticano le terapie oncologiche, per la necessità dei vaccini ai più fragili, quando a inizio 2021 si lottava per una dose.

Laureato in Storia e Filosofia, giornalista - per Repubblica Bari e per il Corriere del Mezzogiorno- , scrittore, ma prima ancora operaio, insegnante, sindacalista, venditore di quadri porta a porta, rugbista -sport che amava follemente -, oste. Sì "oste", sottolineava spesso con orgoglio. Viola è stato il cofondatore, nel 1980, di un luogo cult di Bari, la "Taverna del Maltese", in via Netti, nel quartiere Libertà, il primo pub della città, dove generazioni di ragazzi hanno scoperto la buona musica, la socialità, punto di riferimento della sinistra barese, frequentato anche da tanti fuori sede. Alessio era un "maltese" e a quegli anni duri per Bari, difficili, gli Anni Ottanta e i Novanta, quelli della Bari criminale, ha dedicato il suo romanzo edito da Rizzoli nel 2012 "Dove comincia la notte", e prima ancora "Nessuno è innocente....piccola città bastardo posto" (2005) per Schena, "Closin time" per Laterza (2008). E poi, "Il ricordo è un cane che ti azzanna" di Progedit (2010) e tanti altri.

Ci mancherà la sua ironia pungente, la sua disarmante lucidità, il suo essere sempre dalla parte degli ultimi, siano essi gli operai di una fabbrica o i più fragili in cerca di salvezza, la passione che metteva in ogni cosa, il suo andare diritti al punto, la sua concreta visione del mondo pur rimanendo un sognatore, di quelli che il mondo sperano ancora di cambiarlo.

Alessio Viola ha fatto anche politica, tra la gente, con gli amici, confrontandosi in maniera serrata con chi la pensava diversamente da lui, nel pieno rispetto del pensiero altrui, non risparmiando nessuno, tantomeno le istituzioni, anche e forse soprattutto quelle di sinistra.

Tanti i messaggi di cordoglio anche su Facebook dove Alessio era molto attivo e dove proprio qualche giorno fa aveva postato una struggente poesia per la scomparsa di Sinisa Mihajilovic, principiando: "Per Sinisa. Che non era un guerriero, era un uomo. Come tutti noi che ci prepariamo". Un saluto a tutti noi.

Abbracciamo sua moglie, la collega Ileana Sapone, e il figlio Cesare, appena diciottenne.

Chi vorrà salutare Alessio Viola potrà farlo domani nella Sala del Commiato del Cimitero di Bari alle 15.

IL CORDOGLIO DI EMILIANO

«La scomparsa di Alessio Viola mi addolora molto. Scrittore e giornalista appassionato e leale, Alessio ha sempre cercato di utilizzare la scrittura come grimaldello dei tempi, sempre capace di ascoltare, di scardinare, di denunciare e al contempo di costruire. Mi unisco al dolore di quanti lo hanno conosciuto e apprezzato. Alla famiglia, ai colleghi, ai suoi cari, giunga il mio sincero cordoglio unito a quello dell’intera comunità pugliese». Lo dichiara il presidente della Regione Puglia Michele Emiliano.

·         È morto il cantante Terry Hall.

È morto Terry Hall, cantante degli Specials: band campione dello ska e dell’antirazzismo. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2022.

Aveva 63 anni: con il gruppo e due soli album segnò la storia del genere. Oltre a diventare un esempio per l’impegno contro le discriminazioni nell’Inghilterra di fine 70

«Solo perché sei un ragazzo nero/solo perché sei un ragazzo bianco/non significa che devi odiarlo/non significa che dovete scontrarvi»: intonare queste parole, alla fine degli anni’70, nell’Inghilterra plumbea della crisi, non doveva essere per niente facile. Già, il coraggio di essere sempre un passo avanti: per questo rimpiangeremo Terry Hall, leggendaria voce degli Specials, scomparso a 63 anni.

Già gli Specials, i capofila dello ska punk britannico proprio alla fine di quella decade, la working class della depressa Coventry (di cui Hall era piena espressione) e gli immigrati caraibici che si mettono insieme per guerreggiare contro il razzismo dell’estrema destra. In musica: prendendo a piene mani dalle felici intuizioni dei Clash di Joe Strummer e dal canzoniere giamaicano degli anni’60 con brani come « A Message to You Rudy» o «Monkey Man».

Di questa band numerosa e variegata, Hall era la bellissima voce e coscienza critica: con il marchio «2 Tone» (i tasti bianchi e neri, a simboleggiare l’interrazzialità del gruppo) avrebbero dato il via a un’ondata potente e numerosa, tra i Selecter, i Madness e quant’altri. Dando voce ai diseredati dei sobborghi delle città britanniche contro le politiche conservatrici della prima Thatcher e la xenofobia crescente. Una battaglia sonora di intensità tale (numerose le risse con i naziskin ai concerti con i membri della stessa band) che l’epopea Specials non poteva durare.

Solo due album, infatti, significativissimi, Specials e More Specials e ne 1981 era già finito tutto: Terry si sarebbe poi riunito altre due volte con la band, ma la fiammata era già stata troppo alta. Quello che rimaneva (e rimane) era però la potenza unificatrice e iconoclasta della band, attraverso la voce potente di Hall. Da cui tanti avrebbero tratto ispirazione e in tanti gli avrebbero poi chiesto di collaborare, da Sinead O Connor a Damon Albarn. E a tanti mancherà. Perché il coraggio non si compra al mercato.

·         E’ morto il regista Mike Hodges.

Marco Giusti per Dagospia il 21 dicembre 2022.

Se ne va Mike Hodges, 90 anni, importante regista inglese autore di un capolavoro del noir come “Carter”, la sua opera prima, che ridefinì il genere e rilanciò Michael Caine come king of cool, del curioso “Pulp”, sempre con Caine e Nadia Cassini, del folle miliardario giocattolone “Flash Gordon”, megaflop prodotto da Dino De Laurentiis a Hollywood dove nessuno capì che film si voleva fare, diventato negli anni un cult stracult, di “The Terminal Man”, di “La maledizione di Damien”, dove dovette lasciare il set dopo tre settimane.

Nato a Bristol nel 1932, dopo aver passato due anni del servizio militare sul ponte di una dragamine della Royal Navy, fece il suo primo lavoro in tv in Inghilterra come suggeritore. A metà degli anni ’60 produce per la tv dei corti legati alla musica, come “David, Moffett and Ornette: the Ornette Coleman Trio”, diretto da Dick Fontaine, “Sound”, dedicato a John Cage e Rahsaan Roland Kirk, produce e direge sette episodi della serie “World in Action” (1963-67), dirige un ritratto di Orson Welles per la serie “Tempo” (1966), sei episodi della serie “The Tyrant King” (1968), due episodi della serie “ITV Playhouse” (1969-70), prima di dirigere il suo primo film, “Carter” con Michael Caine, Britt Ekland, Ian Hendry e John Osborne, che diventò un cult immediato in tutto il mondo.

Hodges si sorprese dell’interesse di Caine, allora una star maggiore, per il film. "Uno dei motivi per cui ho voluto interpretare quel film è stato il mio background. Nei film inglesi, i gangster erano o stupidi o divertenti. Volevo dimostrare che non lo erano. I gangster non sono stupidi e di certo non sono molto divertenti." Violento, realistico, pieno di scene di nudo, ispirato al mondo di Chandler, venne massacrato dalla United Artist che doppiò per l’America le scene parlate in dialetto cockney. Uno dei fan maggiori del film era addirittura Stanley Kubrick che disse: "Qualsiasi attore che vedrà il film vorrà lavorare con Mike Hodges.”

Il suo progetto di cinema noir è ancor più chiaro col successivo e più stravagante “Pulp”, girato a Malta, dove un autore di novelle pulp dai troppi pseudonimi deve scrivere l’autobiografia di un attore da anni in ritiro. Ci sono Michael Caine, ma anche Mickey Rooney, Lionel Stander, Al Lettieri in un raro ruolo di gay, la mitica LIzabeth Scott, che tornava al cinema dopo 15 anni di assenza, oltre a attori del cinema italiano come Nadia Cassini, Leopoldo Trieste, Luciano Pigozzi. J.C. Ballard scrisse una lettera entusiasta a Mike Hodges dicendogli quanto avesse adorata la scena di seduzione che vede Giulio Donnini cercare di sedurre Michael Caine. Musiche di George Martin.

Nel 1974 scrive e dirige il potente noir di fantamedicina tratto dal romanzo di Michael Crichton “The Terminal Man” con George Segal, Joan Hackett, Richard Dysart, Jill Clayburgh. Anche questo piaceva molto a Stanley Kubrick, meno a Crichton che si vide espulso dalla sceneggiatura. Diresse poi, ma solo per tre settimane, venendo rimpiazzato dal ben più modesto Don Taylor, “La maledizione di Damien” con Gregory Peck e Lee Grant, sequel de “Il presagio”, che non poteva dirigere per problemi di conflittualità con un altro set Richard Donner. 

 Hodges perse il lavoro per divergenze col produttore. Due degli attori che aveva scelto, Leo McKern e Ian Hendry, vennero esclusi dalle scene finali del film. Problemi ancora maggiori arrivarono col kolossal da 27 milioni di dollari prodotto a Hollywood da Dino De Laurentiis, “Flash Gordon” con Sam Jones, Max Von Sydow, Ornella Muti, Mariangela Melato, Melody Anderson, un film dove la troupe italiana e quella americana non riuscivano a comunicare. Sembra che lo volessero fare sia George Lucas (ci credo) che Fellini (non ci credo, troppo furbo), lo rifiuta invece Sergio Leone.

 Poi deve farlo Nicolas Roeg con Debbie Harry come Aura e Keith Carradine come Ming. Mike Hodges arriva come ottava scelta. Pensava di fare un film serio e Dino De Laurentiis voleva da subito buttarla in commedia. Ma con un budget per il tempo incredibile, con la fotografia di Gilbert Taylor, che aveva da poco finito il primo “Star Wars” e scenografie ricchisssime. Nel ruolo di Flash Gordon, che doveva essere di Kurt Russell, viene preso Sam Jones perché la mamma di De Laurentiis lo aveva visto in una serie tv, “The Dating Game”.

Finisce che diventa, come disse Hodges, “L’unico film improvvisato della storia del cinema con un budget da 27 milioni di dollari”. De Laurentiis mette sotto contratto i Queens per le musiche senza sapere minimamente chi fossero. Un totale disastro. De Laurentiis pensava di fare parecchi sequel, che non vennero mai fatti. Sarà dura riprendersi da un tale colpo. Hodges ricominciò coi film per la tv “Missing Pieces” con Elizabeth Montgomery nel 1983, “Squaring the Circle” con Jonathan Adams nel 1984.

Poi diresse il curioso fantascientifico “Morons From Outer Space” con Mel Smith, il più interessante “Florida Straits" con Raul Julia e Fred Ward nel 1986. Riguardo il suo rapporto con Hollywood e l’America, Hodges dirà: “L'America mi ha stupito dal momento in cui ci sono andato a metà degli anni '60. La sua motivazione era totalmente diversa da quella del Regno Unito di quei giorni (ma purtroppo non è più così). Ma cos'era? Ho iniziato a rendermi conto che era una cultura fortemente basata sulla dipendenza. L'obiettivo di ogni produttore era quello di rendere le persone dipendenti da qualcosa, qualsiasi cosa”.

Torna in Inghilterra per il più politico “Una preghiera per non morire” con Mickey Rourke, Bob Hoskins, Alan Bates, 1987. Dirige ancora “Arcobaleno nero”, un noir con tinte horror con Rosanna Arquette, Jason Robards, Tom Hulce. Alla fine degli anni ’90 torna da celebrato maestro al noir inglese con “Croupier” con Cliwe Owen e “I’ll Sleep When I’m Dead” con Clive Owen, Malcolm McDowell e Jonathan Rhys Meyers. Il suo ultimo film è un documentario sui serial killer, “Murder by Numbers” del 2004 con Brian Cox.

·         È morto lo storico Asor Rosa.

È morto Asor Rosa: fu storico della letteratura italiana e deputato comunista. Redazione su Il Secolo d’Italia il 21 dicembre 2022.

Lo storico della letteratura Alberto Asor Rosa è morto a Roma all’età di 89 anni. Da una decina di giorni era ricoverato nella clinica Villa Margherita. Negli ultimi due anni l’intellettuale ha sofferto di ripetuti problemi cardiaci e polmonari. Studioso e critico letterario militante d’ispirazione marxista, Asor Rosa ha studiato soprattutto i rapporti fra letteratura e ideologie politiche, giungendo a un’idea della critica letteraria sempre permeata di rispetto nei confronti dell’individualità dell’opera. Deputato del Pci nel 1979-80, è stato a lungo una figura di primo piano nella vita intellettuale della sinistra italiana dopo essere stato in gioventù vicino alle posizioni operaiste del filosofo Mario Tronti.

Asor Rosa aveva 89 anni

Sotto il profilo politico, Asor Rosa fu soprattutto un intellettuale schierato. Il 13 aprile 2011 destò non poche critiche un suo articolo, pubblicato su “il manifesto“, dal titolo “Non c’è più tempo“. Era il tempo dell’ultimo governo Berlusconi. E Asor Rosa teorizzò «una prova di forza che, con l’autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano» instaurasse «quello che io definirei un normale “stato d’emergenza“». Una prosa quanto mai ambigua e sconcertante che facevano somigliare la sua analisi, certamente militante e politicamente orientata, all’invocazione di un golpe contro il leader del centrodestra, che poco tempo dopo dovette lasciare l’incarico in favore di Mario Monti.

Il cognome palindromo

Era l’unico intellettuale a vantare un cognome palindromo. Durante il movimento cosiddetto creativo del ’77 sui muri della “Sapienza” una mano ignota scrisse: «Asor Rosa, sei palindromo». L’annotazione, invero, stravagante trovò un (maligno) interprete in Indro Montanelli. «Asor Rosa – chiosò il grande giornalista – è un palindromo. Lo si può leggere da sinistra o da destra, e vuol dire la stessa cosa, cioè niente».

La querela a Montanelli

Montanelli, questa volta nelle vesti di direttore de La Voce (quotidiano da lui fondato dopo aver lasciato il Giornale), fu poi querelato da Asor Rosa quasi 20 anni dopo. Nel marzo 1995, infatti, quel giornale aveva pubblicato in cui riferiva di presunte accuse dell’ex capo del Sisde Riccardo Malpica nei confronti dell’intellettuale, indicato come uno dei pensatori marxisti ispiratori dei comunicati delle Brigate Rosse. Nel 1998 la vicenda giudiziaria si concluse con il ritiro della querela da parte del professore, dopo che questi aveva ricevuto da Montanelli una lettera di scuse in cui riconosceva che quell’articolo era basato su «affermazioni risultate completamente infondate».

ASOR ROSA «Ciò cui io penso è invece una prova di forza che, con l'autorevolezza e le ragioni inconfutabili che promanano dalla difesa dei capisaldi irrinunciabili del sistema repubblicano, scenda dall'alto, instaura quello che io definirei un normale stato d'emergenza, si avvale, più che di manifestanti generosi, dei carabinieri e della polizia di stato congela le camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione, stabilisce d'autorità nuove regole elettorali, rimuove, risolvendo per sempre il conflitto d'interessi, le cause di affermazione e di sopravvivenza della lobby affaristico-delinquenziale, e avvalendosi anche del prevedibile, anzi prevedibilissimo appoggio europeo, restituisce l'italia alla sua più profonda vocazione democratica». (Alberto Asor Rosa invoca il golpe)

Mirella Serri per "la Stampa" il 9 marzo 2021.

Professor Alberto Asor Rosa qual è attualmente lo stato di salute della sinistra italiana dopo lo shock che Nicola Zingaretti ha inferto al Pd con le sue dimissioni da segretario del partito?

«E' assai arduo definire cosa sia in questo momento storico la sinistra in Italia. Dubito che esista una frazione del mondo politico odierno per la quale si possa usare la parola "sinistra"», afferma con convinzione il docente romano. Storico della letteratura, critico letterario e da un po' di anni anche narratore, Asor Rosa è uno degli intellettuali che più hanno orientato il corso della cultura ma anche della politica italiana di sinistra dagli anni Sessanta in poi. L'addio di Zingaretti alla segreteria del Pd è l' ultimo atto di una vicenda che, dalla nascita del partito nel 2007, ha visto alternarsi al vertice otto segretari in 14 anni. Una storia fatta di dimissioni anticipate e incarichi ad interim.

Come la giudica?

«Da tempo, nelle forze politiche di un certo rilievo la connotazione di "sinistra" è più o meno assente. Forse la componente estrema che va da Liberi e Uguali a Sinistra italiana può aspirare a definirsi di sinistra. Ma perfino a loro manca un significativo rapporto con le classi popolari.

Ho seguito con attenzione Zingaretti quando domenica ha esposto le sue ragioni nel programma tv di Barbara D' Urso. Nicola mi ha deluso parecchio. Con mia sorpresa, ha tracciato un quadro del Pd molto positivo. Lo ha descritto come un partito nel quale sono presenti forze sane che possono reagire alla situazione data. Ma allora, perché se n' è andato? Doveva restare a combattere assieme con quella parte del partito nella quale ripone fiducia».

Dunque considera incoerenti, incomprensibili le sue dimissioni?

«Trovo coerenza solo se penso alle parole usate dal segretario dimissionario quando aveva annunciato di lasciare, e non invece a quelle pronunciate dalla D' Urso. Se è vero che nel Pd, in una fase così grave della vita del paese, si parla solo di poltrone e di primarie, come aveva detto Zingaretti, il suo gesto ha un senso. Ma è anche la testimonianza di un problema di enorme portata: neppure dentro al suo partito vi sono energie in grado di cavalcare la crisi e di portarla a un esito positivo?».

Come si è giunti a questo punto drammatico?

«Nel Pd vi erano serie difficoltà preesistenti che sono precipitate con l' avvento del governo di Mario Draghi. Si tratta di una compagine che prescinde dalle dinamiche di un sistema democratico rappresentativo, che nasce fuori dal Parlamento e che ha accentuato la fragilità delle forze politiche».

Il governo Draghi ha rappresentato uno tsunami che si è abbattuto su tutti i partiti causando disastri nella medesima misura?

«Non direi. Lo schieramento che definirei vagamente di centro-sinistra è stato sottoposto a una lacerazione strutturale, più drammatica di quella che ha interessato le forze di centro-destra. Il M5S era un alleato abbastanza naturale del Pd: questi due partiti avrebbero potuto portare il precedente governo alla fine della legislatura».

Zingaretti afferma il suo diritto di andare nel salottino pop della D' Urso sostenendo che «il populismo si combatte senza la puzza sotto al naso». E' così che la sinistra può conquistare nuovi consensi?

«Io non sarei mai andato a "Domenica live". Ma non condivido le animate critiche all' apprezzamento di Zingaretti per quello spazio televisivo. Si tratta di una scelta personale che non mi sento di condannare. Lo dico con una battuta: non ci sono più i partiti di una volta...».

Cos' è cambiato?

«Sono mutati i modelli di elaborazione del discorso politico. Il Pci era profondamente radicato nel corpo della società italiana. Prevaleva il comando politico ma la rappresentatività popolare era imprescindibile. Questo valeva anche per la Dc. Tutto ciò è venuto via via a mancare. Ora non vi è più né rappresentatività né comando».

Lei nel 1977 pubblicò il saggio "Le due società" in cui descriveva una spaccatura profonda tra garantiti e non garantiti che metteva in crisi le tradizionali basi sociali dei partiti. Oggi che succede?

«Nella realtà attuale la Lega rappresenta le forze produttive e le aree industriali del centro-nord. Le forze di sinistra, invece, non hanno più i riferimenti "classisti" di un tempo, la loro rappresentatività è quasi zero, sono sempre più paralizzate dall' impossibile scelta fra garantiti e non. E per di più la pandemia sta accentuando la frammentazione del tessuto sociale».

In questo contesto assolutamente nuovo, quale può essere la funzione degli intellettuali e della letteratura, argomenti a cui ha dedicato molte sue riflessioni e passioni?

«Gli intellettuali e la letteratura sono completamente usciti di scena. Ciò è l' espressione di quella rottura fra orientamenti politici e società italiana che si è ingigantita negli ultimi tempi. Mentre la politica ignora il mondo della cultura, quest' ultimo a sua volta sembra disinteressarsi dell' universo politico, forse perché non è più in grado di parlare una lingua che gli sia comprensibile».

Antonio Carioti per corriere.it il 21 dicembre 2022.

Sempre impegnato a sinistra, era stato per molti anni un esponente di spicco del Pci. Ma l’italianista e critico letterario Alberto Asor Rosa, scomparso all’età di 89 anni, non si riconosceva nel modello di «intellettuale organico» tratteggiato da Antonio Gramsci. Per sé rivendicava piuttosto il ruolo di intellettuale critico, niente affatto compiacente verso i dirigenti politici, ma capace di contribuire alla vita del partito in termini propositivi, indicando la necessaria sintesi complessiva rispetto all’invitabile frammentazione delle scelte quotidiane. 

D’altronde, rispetto alla linea ufficiale del Pci, il lavoro di Asor Rosa nel suo campo di studi era spesso andato controcorrente. Pubblicò il libro Scrittori e popolo, assai polemico verso l’ortodossia ideologica dell’epoca, per l’editore Samonà e Savelli nel 1965, quando era fuori dal partito. Ma anche in seguito, tornato alla militanza comunista, si era riservato una sorta di diritto all’eresia che gli aveva procurato molte antipatie.

Ben più grave però era l’isolamento che avvertiva negli ultimi anni, rispetto a un panorama culturale che giudicava appiattito e imbarbarito. Nel libro intervista Il silenzio degli intellettuali, curato da Simonetta Fiori (Laterza, 2009), Asor Rosa aveva detto di sentirsi come «quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta». Insomma, un dinosauro in via di estinzione. 

Nato a Roma il 23 settembre 1933, figlio di un ferroviere socialista, Asor Rosa era cresciuto in un ambiente refrattario ai dettami del fascismo, anche se il padre aveva dovuto prendere la tessera del partito unico e la sua infanzia lo aveva visto partecipare ai riti del regime. Di quel periodo aveva scritto quasi settantenne nella sua prima prova letteraria, L’alba di un mondo nuovo (Einaudi, 2002), libro colmo di lieve autoironia e calore umano, specie nel racconto delle estati ad Artena (località rurale del Lazio dove abitava la nonna materna), con una bella premessa sul valore della memoria.

Nel frattempo molta acqua era passata sotto i ponti. Asor Rosa si era iscritto alla gioventù comunista nel 1952, poi era uscito dal partito nel 1956, in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria. Ma il suo era stato un distacco da sinistra, che lo aveva portato su lidi operaisti. Con altri giovani, tra cui Mario Tronti, si era aggregato a Raniero Panzieri e alla rivista «Quaderni Rossi», con l’intento di stabilire un rapporto organico tra la ricerca intellettuale e le lotte della classe lavoratrice. 

Quindi aveva pubblicato Scrittori e popolo, un attacco frontale al modello nazionalpopolare della narrativa di sinistra, solitamente contigua al Pci: «L’idea di fondo — avrebbe ricordato anni dopo Asor Rosa — era che la ricerca inesausta e prepotente da parte dei critici progressisti di una letteratura socialmente impegnata avesse contribuito a impedire la nascita in Italia di una grande e moderna letteratura borghese di livello europeo». Prendeva di mira, tacciandoli di «populismo», Elio Vittorini, Vasco Pratolini, Cesare Pavese, i romanzi romani di Pier Paolo Pasolini. E suscitò scandalizzate reazioni di figure eminenti della sinistra comunista, tra cui Carlo Salinari e Carlo Muscetta.

Eppure pochi anni dopo Asor Rosa ritornò nel Pci. Vi arrivò attraverso il Psiup, cui aveva aderito nel 1968. Convinto sostenitore della politica di compromesso storico perseguita da Enrico Berlinguer, si ritrovò in prima linea a fronteggiare la rivolta giovanile del 1977, che aveva nell’Università La Sapienza di Roma, dove Asor Rosa insegnava, il suo centro propulsore di maggior rilievo. 

Fu un trauma per lui la cacciata dall’ateneo del leader sindacale Luciano Lama, costretto a battere in ritirata dai contestatori violenti. Subito dopo Asor Rosa pubblicò un articolo intitolato Le due società, ristampato poi con altri scritti nel volume omonimo (Einaudi, 1977). Sottolineava la gravità del divario tra i lavoratori dipendenti assunti regolarmente e l’area dell’emarginazione sociale. Ma fu sempre intransigente verso chi, come Umberto Eco, mostrava comprensione per i violenti. Eletto alla Camera per il Pci nel 1979, Asor Rosa concluse quell’esperienza prima della fine della legislatura.

Direttore del progetto della Letteratura italiana Einaudi (1982-2000), acquisì nel mondo accademico un notevole prestigio, che gli valse anche il soprannome di «barone rosso». Indubbio però era il suo impegno didattico: rivendicava tra l’altro di non aver mai tenuto un corso identico a un altro. E reputava nefasto l’uso di criteri quantitativi per valutare l’attività di ricerca: «Per me la qualità di un testo si prova leggendolo: tutto il resto è ciarpame burocratico». 

Nel 1989 Achille Occhetto, segretario del Pci, affidò ad Asor Rosa la direzione di «Rinascita», la rivista teorica fondata da Palmiro Togliatti. Ma ben presto tra i due intervenne una irrimediabile rottura sulla svolta che avrebbe condotto alla nascita del Pds. Asor Rosa non era tenero con il modello sovietico, ma considerava il comunismo «un grande movimento di liberazione umana»: recidere il legame con quella storia, come proponeva Occhetto, gli parve un disastroso «impoverimento». Del resto, pur riconoscendo alcuni meriti alla civiltà borghese, Asor Rosa rimaneva ostile al capitalismo e alla superpotenza americana. 

La prima guerra del Golfo lo indusse a scrivere l’infuocato e visionario pamphlet Fuori dall’Occidente (Einaudi, 1992), denso di citazioni bibliche, in cui descriveva in termini apocalittici il nuovo ordine mondiale promosso dagli Stati Uniti, muovendo accuse di razzismo allo Stato d’Israele. Pur senza mai abbandonare l’impegno civile, che declinava ormai soprattutto in chiave ambientalista, dall’inizio del nuovo secolo Asor Rosa aveva intensificato la sua produzione scientifica, accompagnandola alla pubblicazione di opere letterarie.

Nel 2009 aveva dato alle stampe una ponderosa Storia europea della letteratura italiana in tre volumi (Einaudi). E nel 2015 aveva ripubblicato, sempre per Einaudi, Scrittori e popolo, con un aggiunta dal titolo Scrittori e massa, nella quale lamentava la destrutturazione del tessuto sociale, dominato da un «individualismo atomistico», e la scomparsa di qualsiasi parvenza di «società letteraria». Poi nel 2019, con Machiavelli e l’Italia (Einaudi), era tornato alle vicende cinquecentesche, le invasioni straniere nelle quali individuava le radici della «disfatta storica» del nostro Paese. 

Di recente aveva raccolto le sue riflessioni su Joseph Conrad nel saggio L’eroe virile (Einaudi). Quando ai libri di narrativa, dopo L’alba di un mondo nuovo erano venuti, editi da Einaudi, Storie di animali e altri viventi (2005), Assunta e Alessandro (2010), Racconti dell’errore (2013), Amori sospesi (2017). Testi che esplorano i temi più sensibili dell’esistenza umana: gli affetti, il tempo, la memoria, la sessualità. Argomenti che l’autore aveva già sondato molti anni prima in un volume di riflessioni e aforismi, L’ultimo paradosso (Einaudi, 1985). Qui aveva scritto: «La verità è che l’uomo va a stare da morto esattamente come stava prima di nascere: la vita del singolo è un tragitto brevissimo tra due assenze». Ma anche: «Fino all’ultimo scoperte sono possibili». E lui, Asor Rosa, non aveva smesso mai di cercare.

Morto Asor Rosa, critico e militante tra la politica e la cultura. Storia di PAOLO DI STEFANO su Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2022.

Non era certo una personalità che poteva lasciare indifferenti, Alberto Asor Rosa. Aveva tanti amici quanti nemici. Amici fedelissimi, come Eugenio Scalfari, che gli chiese di introdurre il suo Meridiano. E nemici particolarmente agguerriti. È stato, prima e forse più che uno studioso, un critico militante (e per molti irritante). Nato nel 1933 a Roma, Circonvallazione Nomentana, da Assunta Fogliuzzi, di estrazione popolare (il padre trovatello era stato adottato), e da Alessandro, impiegato delle ferrovie, di famiglia anarco-socialista di origine bolognese. In Assunta e Alessandro (2010) Asor ricostruì la storia dei genitori, mentre ne L’alba di un nuovo mondo (2002), che tardivamente lo rivelò narratore (con sua stessa sorpresa), aveva raccontato la propria infanzia romana. Quello strano cognome a specchio fu inventato da un suo avo, che così intorno al 1820 intese distinguere, da quelli legittimi, un figlio naturale. Un «palindromo» a cui Montale volle dedicare una poesia di tono satirico («Asor, nome gentile / il suo retrogrado / è il più bel fiore…»). Insegnò nei licei per una decina d’anni e poi Letteratura italiana alla Sapienza: nel 1977, gli studenti scrissero sui muri dell’università «Asor Rosa sei un palindromo» (parola leggibile da sinistra a destra e viceversa) in scherno al suo dichiararsi marxista ed essere in realtà un uomo di potere (il tratto baronale gli sarebbe stato spesso rimproverato).

Alberto Asor Rosa con Inge Feltrinelli Alla Sapienza, Asor era stato studente, subito vicino al gruppo socialcomunista di Rinascita e poi iscritto alla Federazione giovanile del Pci, con cui avrebbe avuto poi rapporti tormentati. Si era laureato con Natalino Sapegno (correlatore Ungaretti) presentando una tesi su Vasco Pratolini. Proprio sul neorealismo di Pratolini nasceranno vivaci polemiche all’uscita di Metello (1958), e Asor Rosa non esiterà a schierarsi dalla parte di Muscetta, che inquadrò il romanzo nell’area della narrativa sentimentale più che in quella storico-sociale, opinione sostenuta da Salinari.

Morto Alberto Asor Rosa, storico della letteratura ed esponente del Pci

«Mondo operaio» per cominciare, in seguito «Mondo nuovo» e «Quaderni rossi», il periodico di tendenza operaista, di cui fu fondatore: sono gli anni delle collaborazioni alle riviste e delle amicizie con Raniero Panzieri, Massimo Cacciari, Mario Tronti, Toni Negri. Anni in cui balzarono in evidenza le qualità polemiche e dialettiche di Asor Rosa. Sorprendentemente nel 1964 lo troviamo alla riunione del Gruppo 63 di Reggio Emilia, dove stringe un rapporto stretto (e duraturo) con Umberto Eco. Ma la discussione più aspra sarebbe emersa di lì a poco, quando Samonà e Savelli nel 1965 pubblicò il libro suo destinato a rimanere più famoso, Scrittori e popolo, un’indagine sul populismo nel romanzo italiano: il saggio si configurò come una denuncia della cultura di sinistra, tesa a strumentalizzare la letteratura ai fini di un banale consenso politico. All’orientamento populistico (e ideologico) che elevava il popolo a mito e in particolare all’idea gramsciana di letteratura nazional-popolare, Asor Rosa opponeva l’esperienza degli scrittori borghesi capaci di vivere fino in fondo la crisi della loro classe. I nomi erano quelli di Verga, Svevo, Montale, Gadda e in parte Pirandello, ma sul versante europeo Asor aveva già scritto un importante saggio su Thomas Mann. Il paradosso era che partendo da posizioni operaiste Asor Rosa arrivava a rivalutare la «letteratura grande-borghese» europea che, a differenza della letteratura italiana del dopoguerra, rappresentava i drammi e le lacerazioni della società contemporanea. L’attacco frontale era a Carlo Salinari, che aveva teorizzato il passaggio dal neorealismo al realismo e che ribaltò sull’ex allievo l’accusa di essere lui stesso un «piccolo-borghese».

Alle incursioni del critico e dello storico della letteratura presiede sempre un impulso politico: un interrogativo costante sui problemi della contemporaneità, sulla funzione dell’intellettuale, sul suo rapporto con la società e il mondo. I risultati di questa mentalità si vedranno soprattutto nei saggi del decennio più infuocato: Intellettuali e classe operaia (1973), La cultura della Controriforma (1974), Le due società (1977), una raccolta di scritti d’occasione che nell’insieme rappresenta una riflessione sulla crisi come «somma degli elementi che impediscono a questo sistema di mantenere il suo passato equilibrio». Non sorprende che per Asor molti degli elementi che hanno provocato la crisi della società e della politica italiane li attribuisca a «noi»: «noi movimento operaio, noi partito comunista, noi lotte operaie e studentesche». Già contenevano, quei brevi saggi, un’idea peculiare di identità (non solo letteraria) italiana segnata, per tradizione secolare, da una «separazione fra governanti e governati» assai più netta che altrove, dunque di una frammentazione che rendeva impossibile il riconoscersi in una collettività. Non a caso nel ponderoso volume intitolato Genus italicum (1997) la storia letteraria italiana, da Boccaccio a Guicciardini a Verga a Collodi a Calvino, viene percorsa come entità tanto multiforme da rendere pressoché vano l’intento di definire un canone e più pertinente invece l’adozione del concetto di «gene nazionale».

L’interrogazione sugli intellettuali culmina in un libro-intervista a cura di Simonetta Fiori (Il grande silenzio del 2009), in cui viene affrontato, con un evidente senso di sconforto, il tema del cambiamento e il declino di quel nesso tra politica e cultura che ha caratterizzato la storia dell’Italia unita. Da qui, secondo Asor Rosa, il dissolvimento dell’idea stessa di intellettuale con il suo sostanziale mutismo. A prescindere dal campo letterario e nel solco di una visione sempre più negativa sulle sorti del mondo, va ricordato il pamphlet uscito all’indomani della Guerra del Golfo, Fuori dall’Occidente ovvero ragionamento sull’Apocalisse (1992). Il crescente pessimismo non bastò tuttavia a fargli perdere la fiducia nella letteratura quale fattore di «trasformazione del mondo», come nota Corrado Bologna introducendo il Meridiano di Asor Rosa, sottolineando la sempre più convinta stima del critico nei confronti di Italo Calvino quale esempio di stile e insieme di tensione etica e civile.

Al centro dell’attività politico-culturale di Asor Rosa, critico e studioso, che ha vissuto fasi variabili e non sempre coerenti con i presupposti di partenza, si pone un imponente laboratorio editoriale: il cantiere della Letteratura italiana Einaudi, che dal 1982 ha occupato quasi due decenni di lavoro e prodotto numerosi volumi storici e tematici. Nell’impianto multiforme dell’opera, l’impronta più riconoscibile è in quell’intreccio tra storia e geografia suggerito in un famoso saggio da Carlo Dionisotti. Una scelta tutto sommato inattesa. Va detto comunque che Asor Rosa, negli ultimi scritti, non esitava a esprimere la sua adesione alla filologia come approccio di lettura finalmente non ideologico: il che dà conto della intima (e forse radicale) trasformazione della sua visione critica.

Il narratore è stato una sorpresa, anzi più sorprese: ultima, nel 2017, la sequenza in chiave erotica di Amori sospesi. Ma si espresse forse al suo meglio nel «bestiario» del 2005 (Storie di animali e altri viventi), un’«arca di Noè in formato domestico» (il cane, il gatto io e te...) che si esalta non nella parola ma nella comunicazione telepatica. Per un intellettuale che aveva puntato tutto sulla ratio e sul discorso, un bel salto (felino).

Le reazioni di amici e avversari: «Rigoroso, lucido»

Molte le reazioni alla morte di Alberto Asor Rosa. Così lo ricorda il ministro Gennaro Sangiuliano su Twitter: «Rigoroso accademico e grande studioso della letteratura italiana, profondo indagatore del Novecento. Oggi è un giorno triste per la nostra cultura». Nel suo tweet, Vittorio Sgarbi, sottosegretario alla Cultura, scrive: «Asor Rosa non era un mio amico. Ci siamo scontrati diverse volte. Ma lo voglio ricordare e riconoscere il suo straordinario impegno civico. Ci univa la battaglia per la difesa del Paesaggio». Su Twitter anche l’ex premier Giuseppe Conte: «L’Italia perde la voce di una ricerca rigorosa, di un autorevole esponente della nostra cultura letteraria e politica». Il pd Gianni Cuperlo su Facebook scrive: «Ho molto amato alcuni saggi di Asor Rosa, da ultimo la riflessione lucidissima su . Ne scrissi una recensione e la sua telefonata successiva è tra i ricordi che ho con me». Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri: «Asor Rosa è stato uno straordinario intellettuale che con i suoi scritti e il suo impegno ha dato lustro al Paese e a Roma». Su Facebook, voci del mondo della cultura. Per Bruno Arpaia: «Ciao, Alberto. Non andremo più insieme sotto le cascate dell’Iguazù...». Per Renzo Paris: «Ricordo ancora la sua voce sofferente quando mi diceva che i suoi parenti e quelli del Pci avevano storto la bocca per il suo primo libro». E dalla Sapienza, il post con le parole della rettrice Antonella Polimeni: «La Facoltà di Lettere e filosofia è stata la sua casa per 52 anni».

Bibliografia. Saggi letterari, narrativa e polemiche

Il nome di Alberto Asor Rosa è legato al suo primo importante saggio di critica letteraria, (Samonà e Savelli, 1965), a cui era seguita una produzione molto vasta. Aveva curato la in 16 volumi (1982-2000) e pubblicato una (La Nuova Italia, 1979). Da segnalare anche(Einaudi, 1997), la (Einaudi, 2009), (Einaudi, 2011), (Einaudi, 2019). Sempre per Einaudi Asor Rosa aveva pubblicato saggi di attualità politica come(1977) e (1992) e i suoi libri di narrativa: (2002); (2005); (2017).

Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti 

• Roma 23 settembre 1933. Italianista. Professore e saggista. Ideatore della monumentale Storia della letteratura (11 volumi Einaudi). «Figlio unico di una famiglia della piccola borghesia impiegatizia: il padre lavora al Ministero dei Trasporti, è una sorta di ferroviere non viaggiante, la madre ha lasciato invece l’impiego per dedicarsi al figlio» (Paolo Mauri). 

• È stato ordinario alla Sapienza di Roma dal 1972 al 2003. Di formazione marxista, iscritto al Pci nel 1952, ne era uscito nel 1956, all’invasione dell’Ungheria. Vicino alle posizioni operaiste, assieme a Mario Tronti è stato fra i fondatori di Quaderni Rossi (1961) e di Classe operaia (1964). Nel 1965 pubblicò un libro che fece scandalo, Scrittori e popolo, contro la cultura nazionalpopolare. Demolì il populismo che aveva rappresentato «un popolo artefatto, idealizzato, trasfigurato» e che è stato mito di tutti i regimi di destra o di sinistra, liberali o autoritari.

• «Spara ad alzo zero su scrittori quali Giovanni Pascoli, Carlo Levi, Carlo Cassola, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini sino ad arrivare a Pier Paolo Pasolini: tutti segnati dal marchio di populisti. E dalla sua requisitoria non esce bene nemmeno Antonio Gramsci per quella sua esaltazione del “nazional-popolare”» (Gabriella Mecucci). A questo popolo finto, Asor Rosa contrappose il «popolo vero», destinato a fare la rivoluzione che si identificava con la classe operaia, cioè «la rude razza padana». 

• Deputato come indipendente nelle fila del Pci fra il 1979 e il 1980.

• Scalpore nel 2013 quando sul manifesto immaginò, «per rimediare alla democrazia italiana al collasso», una «prova di forza che (...) si avvale, più che di manifestanti generosi, dei Carabinieri e della Polizia di Stato congela le Camere, sospende tutte le immunità parlamentari, restituisce alla magistratura le sue possibilità e capacità di azione...». 

• Anche romanziere: L’alba di un mondo nuovo, Storie di animali e altri viventi, Assunta e Alessandro, I Racconti dell’errore (tutti per Einaudi).

• Dal 2006 guida in Toscana un coordinamento ambientalista, molto attivo nella difesa del territorio e del paesaggio (i maligni dicono che sia perché non vuole che l’autostrada gli passi vicino alla casa di campagna).

• «Il meglio e il peggio della vita vengono sempre da dentro, chi vi racconta il contrario non sa di che parla». 

• Una figlia, Laura, una delle colonne portanti della Enciclopedia Treccani. 

• Detto sprezzantemente dagli avversari “Palindromo” (come il suo cognome, che può essere letto da sinistra a destra e viceversa senza cambiare).

Scrittori e popolo. Alberto Asor Rosa credeva nella letteratura come educazione. Mario Lavia su Linkiesta il 22 Dicembre 2022

È morto a 89 anni, è stato un saggista di primissimo livello, un intellettuale di fortissime convinzioni e un uomo più di certezze che di dubbi

Alberto Asor Rosa, scomparso ieri a 89 anni, era un intellettuale di fortissime convinzioni. Tosto. Molto polemico, se necessario. Perché, sia nella veste di grande critico letterario che in quella dell’attivista politico benché sui generis, era animato dalla stessa passione incrollabile, uomo più di certezze che di dubbi. Detestava per esempio Pasolini.

Per venti e più anni non ci fu nulla da fare, l’autore di Ragazzi di vita era bocciato senz’appello: Pasolini! Non era una contestazione come poteva essere quella, che so, per un Cassola o scrittori considerati, a torto, minori (il suo più famoso saggio, Scrittori e popolo, è una macchina da guerra di bocciature), qui si trattava dell’intellettuale italiano più geniale del Novecento.

Quando nel 1985 andammo a chiedergli di partecipare ad un Festival della Fgci dedicato a Pasolini, a dieci anni dalla morte, Asor Rosa alzò il sopracciglio sbuffando come faceva lui, «ragazzi, siete fissati con Pasolini, ma era un reazionario!»: quel vagheggiamento di PPP di un’età dell’innocenza per un marxista altro non era che, appunto, reazione antilluministica e in un’ultima analisi borghesissimo travestimento di un’ideologia falsamente dalla parte del popolo (che sia stato un gran populista, Pasolini?).

Però venne al dibattito, Asor Rosa, che in fondo ci vedeva come suoi studenti particolari. Per polemizzare, ovviamente.

Il caso volle che il giorno prima fosse venuto a mancare Italo Calvino, da Asor molto amato, il che gli consentì di parlare più dell’autore del Barone rampante che di quello di Ragazzi di vita con gran sollievo nostro. E su Calvino Asor Rosa in quel dibattito disse cose molto importanti, poi riprese puntualmente e sistematicamente in vari scritti successivi, il cui nucleo fondamentale è leggere unitariamente tutta l’opera di Calvino come segnata da una forte impronta morale. Non che Pasolini, banalmente, fosse “immorale” (questa è una stolida critica casomai di destra), ma mentre questi si bloccava nella contemplazione, per quanto altissima, Calvino si poneva la questione della responsabilità della letteratura nel mondo.

Ritroviamo questi concetto in Genus Italicum (ora nel Meridiano Mondadori dedicato a Asor Rosa, p. 863 e segg) a proposito della «persuasione» di Calvino «che quella della scrittura sia fondamentalmente un’operazione morale» citando una sua frase del 1955: «Noi siamo tra quelli che credono in una letteratura che sia presenza attiva nella storia, in una letteratura come educazione, di grado e di qualità insostituibili»: nulla di più lontano dalla meta-storia di Pasolini.

Quando poi, passati dei mesi, gli chiedemmo se volesse partecipare a un dibattito su un altro grande scrittore italiano, Elio Vittorini, il professore arrivò persino a fare un accenno di sorriso: «Beh, lo considero un passo avanti rispetto a Pasolini». E fu come se avessimo preso un 18 a un suo esame.

Il critico che alla Letteratura preferiva l'ideologia marxista. Morto a 89 anni il celebre studioso che ha influenzato profondamente la cultura italiana del dopoguerra. Davide Brullo su Il Giornale il 22 Dicembre 2022

Gli piaceva ricordare che Pier Paolo Pasolini s'era incazzato. S'incontrarono alla Sapienza, «io ero seduto in prima fila e lui, passandomi davanti, mi fulminò con lo sguardo a mirino: Asor, l'uomo che mi ha fatto più male nella vita», racconta a Simonetta Fiori.

Uomo spinoso, Alberto Asor Rosa, morto ieri a 89 anni. Romano, classe 1933, marxista, laureatosi sotto Natalino Sapegno, sapeva essere riottoso coi dirigenti e indulgente con i potenti. Di fatto, per decenni, attraverso strumenti accademici pervasivi la Letteratura Italiana Einaudi coordinata dal 1977, ad esempio ha dettato la via ideologica della nostra cultura, ne ha voluto essere il Grande Timoniere. Ne aveva il nerbo. Lo screzio con Pasolini accadde nel 1965, quando Asor Rosa pubblicò per Samonà e Savelli il suo primo studio, il più noto, quello paradigmatico, Scrittori e popolo. Le «storie strappalagrime dei ragazzi di vita che muoiono nel crollo delle loro case» non piacquero ad Asor Rosa, che stroncò i romanzi «popolari» di Pasolini, accusandolo di esibizionismo partitico, descrivendolo come «l'ultimo grande letterato della tradizione italiana, con i caratteri e gli errori tipici di questa: l'egocentrismo, la sensibilità esasperata, la raffinatezza tecnico-stilistica, le ambizioni ideologiche, fortissime, ma non concresciute insieme con la ricerca formale». Anni dopo, disse che Pasolini l'assassinio se l'era cercato, «la sua morte fu coerente allo stile di vita».

Sulla scia di quello studio, Asor Rosa pubblicò moltissimo, con stile più incline alla dietrologia politica che alla critica letteraria. Ha investigato Calvino Stile Calvino e Machiavelli Machiavelli e l'Italia. Resoconto di una disfatta La cultura della Controriforma e Thomas Mann, principe della letteratura borghese; ha finito per occuparsi di Joseph Conrad (L'eroe virile, Einaudi, 2021). La letteratura gli interessava come alcova politica, come miccia per fare la rivoluzione. «Noi ci battiamo perché dal fondo oscuro di una difficile situazione emerga una generazione nuova di dirigenti e di militanti rivoluzionari della classe operaia», scrive, d'altronde, nella nota alla seconda edizione di Scrittori e popolo.

Tra le molte cose, collaborò a Mondo operaio e a Classe operaia; per un po' guidò Rinascita, la rivista fondata da Togliatti. In seguito ai fatti d'Ungheria del 1956, mollò il Pci. Vi rientrò anni dopo: nel giugno del 1979 fu eletto deputato nel collegio di Roma. Era l'ottava Legislatura, guidava le truppe Francesco Cossiga. La sua attività fu quasi irrisoria: tra l'altro, firma una proposta di legge per l'informazione e lo studio sui problemi della sessualità nella scuola pubblica (11 agosto 1979). Se ne andò quasi subito. Il 28 ottobre del 1980 scrisse una lettera al Presidente della Camera: ringraziò tutti «ho compiuto un'esperienza politica ed umana che resterà fondamentale per me e per il proseguimento delle mie attività anche intellettuali» per tornare a praticare in Università, alla Sapienza.

Quasi tutti i suoi studi sono pubblicati da Einaudi; un paio di anni fa Mondadori ha raccolto nei Meridiani le Scritture critiche e d'invenzione, titolo, si direbbe, neoromantico. In copertina, Asor Rosa campeggia a pieno viso: baffi curati, occhi felini, severi, capelli bianchi, pettinati con accuratezza. Il borghese leninista. Molto tempo prima Riccardo Malpica, già direttore del Sisde, aveva dichiarato che Asor Rosa, «noto professore universitario di estrazione marxista», era il «suggeritore delle Brigate Rosse»: le accuse, rilanciate da Indro Montanelli, all'epoca direttore della Voce, si rivelarono infondate.

Critico estraneo agli esercizi di stile, in un saggio del 2015, Scrittori e massa, non particolarmente originale, ribadì «la fine della società letteraria» e della «tradizione letteraria». Nel tentativo di censire il contemporaneo, Asor Rosa concluse che «per fare buona letteratura, anche all'altezza di questi nostri difficili tempi, non ci vorrebbe nient'altro che un po' più di amore, ossia... un po' più di conflitto». Frase buona per incontri occasionali. D'altronde, il critico arcipolitico nel frattempo si era dato alla letteratura. Il primo libro esce nel 2002, L'alba di un mondo nuovo; nel 2017 l'ultimo, Amori sospesi, una raccolta di racconti. In uno di questi, Il camionista solitario, ci sono un Hans Dietrich e una Edvige che tentano di fare del sesso disperato. La lettura è disperante: «Edvige gli si fece addosso, corpo contro corpo: e lo cinse con le sue due braccia all'altezza delle reni. Sì, abbracciare è un termine molto diffuso anche una pratica, ovviamente, alquanto scontata il cui significato è perciò tanto famigliare quanto inequivocabile». Peggio del peggior Pasolini.

Riteneva che la misura ordita contro Massimo Bontempelli, eletto senatore nel 1948, poi espulso a causa della sua passata appartenenza al fascismo, fosse una porcata, promossa «con un rigore che non fu usato nel confronto di altri». Aveva ragione. Il 31 marzo del 2019, su la Repubblica fondata da Eugenio Scalfari, recensì L'ora del blu, modestissimo libro di poesie di Eugenio Scalfari (leggere per credere: «E l'Io svolazza/ senza più consistenza/ in balenanti intervalli»). Il libro fu onorato con parole auree, a tratti imbarazzanti: «Eugenio Scalfari ci ha adusi alle sorprese. La sorpresa questa volta è un libro di poesie... L'Io... svolge un ruolo decisivo in quella che io mi azzarderei a definire la razionale fantasia di Eugenio Scalfari».

Meglio ricordarlo per altro.

Il Barone rosso, gentile e borghese. E così se ne è andato anche uno degli ultimi grandi baluardi del '900, Alberto Asor Rosa, "palindromo" per gli studenti ribelli del '77 alla Sapienza di Roma, Asor Rosé per Giulio Einaudi. Giuseppe Conte su Il Giornale il 22 Dicembre 2022

E così se ne è andato anche uno degli ultimi grandi baluardi del '900, Alberto Asor Rosa, «palindromo» per gli studenti ribelli del '77 alla Sapienza di Roma, Asor Rosé per Giulio Einaudi, suppongo con simpatia, e «Asor nome gentile» nell'epigramma che gli dedicò Montale, sicuramente acido come solo il vecchio Montale sapeva essere. Ho incontrato Asor Rosa una volta sola nella mia vita. E mi stupì la cordialità, certo non priva di condiscendenza da cattedratico, con cui mi venne incontro pronunciando il titolo del mio libro di poesia più noto, L'Oceano e il Ragazzo. Persino a cena conversammo senza screzi polemici. Quello che poteva agire da collante tra noi era certo la comune stima per Italo Calvino, lo sponsor maggiore di quel mio libro, e gli interessi rivolti al Barocco, e ai suoi poeti. Per il resto mi sono sempre sentito estraneo al mondo di Asor Rosa. Per chi come me era studente di Lettere negli anni '60 del secolo scorso, il suo nome aveva un valore mitologico. Fiorivano leggende che da Roma arrivavano sino a Milano in via Festa del Perdono, sul professore di Letteratura italiana autore di Scrittori e popolo che era anche un capo politico, un ispiratore della sinistra operaista, un nume tutelare della rivoluzione. Nella più prosaica realtà, Asor Rosa, entrato nella Federazione giovanile comunista nel '52, ne era già uscito nel '56, dopo i fatti d'Ungheria. Ma ne era uscito non verso sponde liberali, ne era uscito andando più a sinistra, incontrandosi con la filosofia operaista di Mario Tronti e Raniero Panzieri. Dopo il Settantasette, quando la ribellione giovanile, con gli Indiani metropolitani prese una piega più ludica prima, poi più violenta, Asor Rosa, impressionato dalla cacciata di Luciano Lama dall'Università se ne tornò nel Pci via Psiup, e fece una breve esperienza di parlamentare sedendo alla Camera. Dichiarò in un'intervista del 2013: «Per me la politica fu un impegno ineludibile, ma filtrata dalla mia vocazione intellettuale e culturale». Le contraddizioni in cui visse la sua vocazione sono molte. Si dichiarava rivoluzionario ma era un grande barone universitario e non scendeva a patto con gli studenti che chiedevano il voto politico. Era operaista ma fortemente polemico verso la letteratura populista e nazional-popolare in senso gramsciano, verso Vittorini, Pratolini, Pavese, sostenendo la forza conoscitiva delle opere di autori alto borghesi come Verga e Gadda, e interessandosi ad autori come Thomas Mann e Joseph Conrad. Forse in questa contraddittorietà stava il suo fascino, anche per chi è stato lontano da marxismo, operaismo e tutto l'armamentario della sinistra novecentesca. Invecchiando Asor Rosa cedette al demone della scrittura creativa, della prosa di romanzo. Il fatto è che era arrivato, nella sua attività critica, all'idea che dopo gli ultimi classici, Fortini, Pasolini e Calvino, la letteratura era finita. E dunque cosa scrivere ancora? Nel suo antiberlusconismo, poi, si spinse sino a toccare toni bolscevichi. Chi era dunque Asor Rosa? Per me, insieme a Franco Fortini, con cui polemizzai molto da giovane, salvo poi riconciliarmi con la sua poesia, era l'ultimo mastodonte del '900, convinto di un primato della politica, incapace di vedere che il primato che conta è quello dello spirito. Ma al vecchio combattente che se ne va, sia dato l'onore delle armi.

Addio al critico letterario, storico della letteratura, saggista e politico italiano. È morto Alberto Asor Rosa, aveva 89 anni: una vita tra politica e letteratura. Elena Del Mastro su Il Riformista il 21 Dicembre 2022

È stato un pilastro per la letteratura italiana. Alberto Asor Rosa si è spento a Roma a 89 anni. Critico letterario, storico della letteratura, saggista e politico italiano, Asor Rosa era ricoverato da dieci giorni alla clinica Villa Margherita. Poi le sopraggiunte complicazioni ne hanno causato il decesso. Deputato del Pci tra il 1979 e il 1980, è stato professore al La Sapienza di letteratura italiana, materia a cui ha dedicato la sua vita e la sua carriera. Il mondo della cultura piange la scomparsa di uno dei suoi massimi esponenti.

“Doveva uscire questo venerdì. Sembrava stesse meglio ma ha avuto un improvviso arresto cardiaco. Negli ultimi due anni mio padre ha avuto una salute traballante dovuta a problemi cardiaci e polmonari” spiega all’Ansa Angela Asor Rosa, una delle due figlie, con la sorella Laura, di Alberto Asor Rosa. È stato uno studioso di fama, docente di storia della letteratura alla Sapienza, intellettuale di formazione marxista da sempre impegnato nella dialettica tra cultura e potere e nell’analisi della realtà sociale. La sua opera sempre a cavallo tra letteratura e mondo reale.

L’Univesità La Sapienza, tramite la rettrice Antonella Polimeni esprime, a nome suo personale e di tutta la comunità, “il cordoglio per la scomparsa di Alberto Asor Rosa, italianista illustre, protagonista della cultura italiana e Maestro di generazioni di studenti, venuto a mancare a 89 anni il 21 dicembre 2022″. “Storico della letteratura italiana, saggista e scrittore, la Facoltà di Lettere e filosofia è stata la sua casa per 52 anni. Aveva tenuto l’ultima lezione il 6 giugno 2003, ma continuava a essere legato alla Sapienza e il 23 settembre 2020, in un’Aula magna gremita aveva presentato, insieme al filosofo Massimo Cacciari, il volume dei Meridiani che gli aveva dedicato Mondadori”, ricorda l’ateneo.

“Allieve e allievi di Asor Rosa hanno messo a frutto i suoi insegnamenti nel lavoro di ricerca e di didattica come docenti della Sapienza e nell’impegno nelle istituzioni, nelle imprese culturali e nel giornalismo”. Il saluto al professor Alberto Asor Rosa si svolgerà domani 22 dicembre alle ore 12,30 nell’aula Magna del Rettorato dell’Universitrà La Sapienza di Roma. Lo comunica la famiglia precisando che dalle 9.30 alle 12 vi sarà la camera ardente.

Chi era Alberto Asor Rosa

Era nato a Roma il 23 settembre 1933, per diplomarsi al Liceo Classico Augusto di Roma, si è poi laureato alla Sapienza, relatore Natalino Sapegno. Ha dedicato la sua vita allo studio della letteratura italiana moderna e del periodo barocco. L’esordio di Asor Rosa come studioso avvenne con ”Scrittori e popolo” del ’65, polemica disanima della letteratura italiana impegnata tra Otto e Novecento, scoprendone l’ottica populista e aprendo un dibattito sul rapporto intellettuali e proletariato che ebbe molta risonanza. Ha ideato e diretto la colossale opera “Storia della Letteratura” di Einaudi. Non c’era nessuna delle sue lezioni che non fosse affollatissima. Il classico di una vita per lui è stato l’Orlando Furioso. ‘L’età giusta per leggere l’Orlando Furioso intensamente e non distaccarsene più – diceva – è fra i 30 e i 40 anni, quando uno è, ancora abbastanza giovane per ricordarsi che la realtà quotidiana non è tutto e già abbastanza maturo per capire che oltre il visibile esistono mondi che non vale la pena perdere”. Ha scritto fino all’ultimo. È del 2020 il volume Scritture critiche e d’invenzione, contenente un’ampia selezione della sua produzione saggistica e letteraria.

L’impegno politico e ribelle

Fu impegnato anche nella politica. Lasciò il Pci nel 1956, come molti altri intellettuali dopo la tragedia ungherese, e vi rientrò solo nel ’72: lavorò alla sua trasformazione ed è stato più volte parlamentare (eletto nel ’79), e poi, dopo la caduta del Muro, membro della direzione del Pds e direttore della nuova ‘Rinascita’, che sotto la sua guida però prese sin dal primo numero le distanze dal passato togliattiano. Collaborò a periodici come ”Mondo operaio”, ”Mondo nuovo” e alla direzione di ”Contropiano”, ”Laboratorio politico” e, infine, appunto ”Rinascita” nel ’90/91.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

 L'addio all'intellettuale. Chi era Alberto Asor Rosa, l’anti-Pasolini che svelò il populismo. Michele Prospero su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

Oltre che un influente critico e storico della letteratura, Alberto Asor Rosa è stato anche un finissimo analista politico. Ha letto il caso italiano entro un’ottica temporale che prevede l’assunzione di più dimensioni: accanto alle riflessioni dedicate ai passaggi politici della congiuntura, che lo attraevano, per così dire, come intellettuale-militante, la sua attenzione è stata rivolta all’interpretazione della vicenda italiana scrutata entro l’ottica della lunga durata. L’intreccio tra l’origine della catastrofe e le ricadute nelle pieghe della quotidianità può forse essere rinvenuto nel suo saggio su Machiavelli e l’Italia (Einaudi 2019). Il Segretario fiorentino è osservato come un grande pensatore della crisi.

La sua è “una vicenda tragica, molto più tragica, che trionfante”. Alla base della produzione di Machiavelli c’è quella che Asor Rosa chiama “la disconnessione” ovvero la consapevolezza, per il pensiero critico-realista, dell’impossibilità di agire, di mutare le cose. Al pari di Guicciardini, con le sue categorie politiche rivelatrici del “pessimismo italiano” alle prese con la catastrofe registrata proprio alle soglie del moderno (Asor Rosa, Genus Italicum, Einaudi, 1997), anche l’analisi di Machiavelli si colloca a ridosso dell’instabilità, della corruzione, della caducità, dell’incertezza. Il carattere originale o eccezionale della vicenda italiana è impresso, per Asor Rosa, dal collasso del progetto di consolidamento politico-istituzionale. Con il fallimento del tentativo statuale, tra il 1492 e il 1530 si consuma la grande catastrofe italiana e il laboratorio di Machiavelli diventa “il tragico incubatoio negativo della futura identità italiana”.

La crisi di lunga durata, unita alle “infinite difficoltà di ripartenza”, si riverbera nelle dinamiche del ‘900. Non a caso Gramsci inventa il “suo” Machiavelli e, per leggere il presente, afferra la lente del fiorentino, accanto a quella del pensatore di Treviri. Scrive Asor Rosa: “È perché viene anche lui da una terribile disfatta che Gramsci afferra, o almeno tenta di afferrare, il nocciolo dell’insegnamento machiavelliano, e cioè il nesso indissolubile fra pensiero e azione, fra teoria e prassi”. Il realismo rivoluzionario ha la consapevolezza piena della possibilità e dei limiti invalicabili dell’azione collettiva. Scettico sul lessico gramsciano (non apprezza le locuzioni “nazionale-popolare”, “riforma intellettuale e morale”), Asor Rosa riconosce la produttività teorica della riflessione dei Quaderni sul senso della sconfitta e sulla difficoltà del riscatto del soggetto. “Non si può non cogliere qui lo sforzo che il pensatore-politico-carcerato compie per collocare Machiavelli e il suo Principe all’interno del suo proprio intero sistema”. Proprio entro questa cornice della grande catastrofe si colloca la questione del populismo come manifestazione di una carenza egemonica della borghesia italiana.

L’assenza di grande politica non può che tradursi in esercizi di piccola letteratura. Nel saggio Scrittori e popolo (Einaudi 1965 e 2015), il populismo, con il suo culto di tradizioni, valori e velleità umanitario-progressive, viene interpretato come un decadente “mito politico-letterario” che palesa, lungo tutta la sua esperienza, una “limitatezza provinciale e conservativa”. La rimozione del proletario, e quindi del conflitto politico, è la prevedibile conseguenza dei “tracciati spesso poveri e infantili del populismo indigeno”. Dinanzi ad una produzione letteraria subalterna e provinciale rispetto al grande quadro borghese europeo, la convinzione di Asor Rosa è che “il ruolo svolto dal populismo in Italia è prodotto e causa insieme dell’assenza di una forte, moderna, avanzata cultura borghese”. Anche uno scrittore borghese come Pavese, attento al mito e diverso dai canoni del populismo democratico-resistenziale, “quando avvertì il bisogno di essere scrittore sociale, fu populista”.

Il compimento della parabola del populismo, che si raccoglie nel mito del popolo-comunità e nel culto della terra come tradizione minacciata, è rintracciato in Pasolini. Ricorda Asor Rosa a Simonetta Fiori (Il grande silenzio, Laterza, 2010): “Una volta incontrai Pasolini a un’assemblea universitaria e mi disse: «Asor Rosa, l’uomo che mi ha fatto più male nella mia vita». Aveva l’occhio sbarrato, colmo d’odio”. Osservato come un fenomeno politico, oltre che artistico, il populismo appariva un discorso arretrato, funzionale al gradualismo riformista del Pci. La formula “masse popolari” assume la classe come una porzione minoritaria che obbliga a tessere politiche di alleanze per aggregare blocchi sociali competitivi. In nome della classe operaia come entità politica organizzata, Asor Rosa partecipa alle riviste dell’operaismo degli anni ’60. Dal popolo omogeneo, dal nazionale indistinto si deve discendere alla classe e insediarsi entro il luogo cruciale (per via dell’insediamento concentrato e combattivo dell’operaio-massa) della fabbrica come dimensione espansiva, capace di penetrare in ogni ambito del sociale. Bersaglio, in questa fase, è la “mediazione” vista come impedimento al farsi soggetto della classe.

Negli anni ’70, invece, matura la convinzione che l’operaismo, pur operando come un forte argine rispetto al populismo, difetta nella comprensione della specificità del fenomeno politico. Il progetto di un partito di classe senza compiti di mediazione, sintesi e alleanze, come quelli prospettati dal partito nuovo togliattiano, appare irrealistico. Come nota Asor Rosa (La cultura, in Storia d’Italia, Einaudi, 1975, p. 1657), all’analisi dell’operaismo “sfugge quasi completamente tutto ciò che potrebbe esser definito società politica. Sfugge cioè la politica, con tutti i suoi elementi soggettivi di trasformazione del sociale e di intervento sull’economico”. Oscillando tra inserimento nelle istituzioni, come forza alla ricerca di legittimazione, e intercettazione di una “seconda società” delusa e rivoltosa, il Pci rivela, secondo Asor Rosa (La cultura, cit.), tutta la carenza di una cultura a forte impronta filosofica e poco attrezzata a cogliere, in vista di una ricarica del “cervello del Principe”, il ruolo della cultura di massa (radio, scuola, editoria, teatro, cinema, tv) e le istanze dei nuovi ceti produttori di conoscenza. La sconfitta della stagione dell’autonomia del politico impone un rimescolamento delle carte della teoria per recuperare capacità di iniziativa.

“La fase 1976-1979 rappresenta la fine di un ciclo e, in quanto tale, ovviamente, l’inizio di uno nuovo, sostanzialmente diverso” (Asor Rosa, La sinistra alla prova, Einaudi, 1996, p. 36). Nei primi anni Ottanta, sulla rivista Laboratorio politico, Asor Rosa, con Tronti e un gruppo di intellettuali (non solo) comunisti, si cimenta nel passaggio “dall’ideologia all’approccio scientifico. Politologia, sociologia, teoria delle istituzioni – tutti campi che la cultura comunista aveva tenuto ai margini – entrano nel discorso culturale di questa sinistra, con una consistente apertura anche sul mondo delle scienze umane americane” (Asor Rosa, La sinistra alla prova, cit., p. 101). La rivista recupera i modelli matematici della teoria delle catastrofi (impossibilità di predefinire il punto critico nei termini di un esito univoco delle trasformazioni) per leggere i processi di “post-democrazia”, che impongono, con realismo, di pensare le istanze di governo oltre l’impostazione del protagonismo delle masse (si arriva a parlare di “ceto, staff, tecniche e strutture” per decidere).

La fine del secolo breve e lo scioglimento del Pci mostrano un Asor Rosa sempre più scettico sui costi delle scorciatoie della leadership personalistica occhettiana, che gli sembra di stampo quasi craxiano (cfr. La sinistra alla prova, p. 133). Nel dialogo del leader con l’opinione pubblica, che segna il tempo della Seconda Repubblica, si manifestano fenomeni fortemente regressivi nei campi del sapere, della produzione culturale, delle credenze di massa. Asor Rosa avanza l’ipotesi “della trasmigrazione semisecolare dal «popolo democratico» alla «massa post-democratica». Son venuti meno i capisaldi di quello che, in altri tempi, si sarebbe definito un sistema democratico- culturale fondato sul moderno”. In presenza di questa nuova catastrofe politico-culturale, Asor Rosa suggerisce di non ricorrere ad un uso inflattivo della categoria di populismo. “Bisognerà ammettere che alla definizione di «populismo» oggi non corrisponde più nulla di reale, e ancor meno a quella di «antipopulismo», usata peraltro con un’abbondanza indiscriminata, che lascia sospettare che ci sia, in coloro che continuano ad utilizzarla, la più totale ignoranza dell’oggetto, o degli oggetti, di cui parlano”.

La manifestazione di un conformismo di massa, che poco conserva dell’antica nozione di popolo, sollecita letture non pigre dei processi storici. Uno studioso come Asor Rosa, che si definiva un “critico marxista e fortemente politicizzato” che nel “confronto con la ‘scuola stilistica italiana’ (Contini, Segre, Corti)” si è orientato “sempre di più verso una considerazione intrinsecamente autonoma (non però autosufficiente né «formalistica») del fatto letterario” (Storia europea della letteratura italiana, Einaudi, 2009), dinanzi alla catastrofe politico-culturale degli ultimi decenni inviterebbe a recuperare quell’attitudine, di ascendenza rinascimentale, che consiste nel “guardare con acuto interesse le cose”, per scovarvi contrasti, antinomie (ivi, p. 460). Solo così è possibile “vivere, sopravvivere, comunicare”, come, secondo Asor Rosa, insegna il Segretario fiorentino.

***

Asor, nome gentile (il suo retrogrado

è il più bel fiore)

non ama il privatismo in poesia.

Ne ha ben donde o ne avrebbe se la storia

producesse un quid simile o un’affine

sostanza, il che purtroppo non accade.

La poesia non è fatta per nessuno,

non per altri e nemmeno per chi la scrive.

Perché nasce? Non nasce affatto e dunque

non è mai nata. Sta come una pietra

o un granello di sabbia. Finirà

con tutto il resto. Se sia tardi o presto

lo dirà l’escatologo, il funesto

mistagogo che è nato a un solo parto

col tempo – e lo detesta.

(E. Montale in Diario del ‘72)

Michele Prospero

Giorgio Gandola per “la Verità” il 22 dicembre 2022.

Nessuno è uscito dai partiti di sinistra più di lui. Ha sbattuto porte facendo tremare i cardini per tutta la vita, Alberto Asor Rosa, colpevole comunque di averle altrettante volte usate per entrare. 

L'intellettuale disorganico più famoso d'Italia è morto ieri a 89 anni in una clinica di Roma dov' era ricoverato per problemi cardiaci e polmonari. Docente di Storia della letteratura all'Università La Sapienza (dove si era laureato nell'immediato Dopoguerra con Natalino Sapegno), totem letterario di ogni configurazione moderna del Pci, ha percorso l'esistenza sulla locomotiva di Francesco Guccini nella speranza che si schiantasse davvero contro la classe dirigente capitalista. 

Per finire, come spesso accade ai rivoluzionari dall'anima in tumulto e lo stipendio fisso, a chiedersi il perché dell'esistenza davanti alla parola «identità» e a una cappella degli alpini.

Comunista palindromo per antonomasia, Asor Rosa si chiamava così perché, spiegò un giorno «un signore bolognese, Giuseppe Rosa appunto, intorno al 1820 aveva voluto riconoscere un figlio naturale. Ma per distinguerlo da quelli legittimi aveva preposto al proprio cognome il suo contrario, rendendoci palindromi per sempre». Polemista fegatoso, ha combattuto con la sciarpa rossa ogni battaglia possibile, da quelle operaiste a quelle studentesche, giustificando in parte anche chi getta le statue dai ponti «perché la cultura occidentale si è imposta nel mondo proprio così. Però spazzare via il passato impedisce di capire il presente». La sua trasformazione in ecologista con il cuore a Capalbio è stata del tutto naturale. 

Con una nuvola di capelli bianchi in testa e i baffoni candidi sotto il naso, Asor Rosa non fece fatica «al tempo degli Unni» (anni Settanta) ad accreditarsi come professore ribelle di formazione e identità marxista, capace di trasferire la rabbia dalle piazze in parlamento.

Usò il Pci come un taxi, uscendone sconvolto dopo l'invasione dell'Ungheria nel '56 e rientrandoci una prima volta per essere eletto a Montecitorio nel '79. Nel suo percorso professionale ha diretto la monumentale Storia della letteratura Einaudi, ha firmato monografie (Nicolò Machiavelli, Thomas Mann, Joseph Conrad), ha tenuto corsi universitari affollati di adepti appassionati. Nel periodo d'oro il suo personaggio di punta era l'Orlando Furioso, che declinava in ogni situazione politica trovandolo un combattente ideale, testimonial nella sua stagione da collaboratore militante delle riviste Mondo operaio» e Mondo nuovo. 

Non sopportava la Democrazia cristiana, snobbava il divino e se ne andò per la seconda volta dalla sinistra di lotta e di governo quando prese coscienza con orrore della fusione fra Pds e Margherita, papà e mamma del Pd dalle sette correnti. Per niente prodiano, detestava l'esportazione della libertà nella stagione del Clintonismo&Associati e la spiegava così: «L'idea dei neocon non era quella di creare delle gigantesche scuole di alfabetizzazione occidentale.

Nella loro visione da leninisti antileninisti loro pensavano a fare dell'esercito americano l'ala marciante della democrazia». Nei suoi ultimi scritti si leggono sprazzi indulgenti nei confronti dell'identità dei popoli, a conferma che i comunisti duri e puri sono più affidabili dei polli d'allevamento global e radical. Asor Rosa aveva due ossessioni: Pier Paolo Pasolini e Silvio Berlusconi. Il primo fu definito da lui «un'icona pop reazionaria e populista» invitando la sinistra «non farne un santino, è un destino che non merita». Per mettere a tacere il secondo teorizzò un golpe in piena regola per «farlo fuori con un intervento dei carabinieri». Non aveva mezze misure e negli ultimi anni aveva sempre meno pazienza. Qualche anno fa fece rumore una sua polemica contro l'arrivo di un McDonald's in Borgo Pio, «a 70 passi da San Pietro» (li aveva contati) ma soprattutto a pochi metri da casa sua. Un intellettuale del suo calibro poteva sopportare tutto, non gli stomaci proletari ansiosi di Big Mac.

Mirella Serri per “la Stampa” il 22 dicembre 2022.

Il mondo della cultura è in lutto. A Roma è scomparso ieri a 89 anni, dopo una lunga malattia, uno dei più importanti intellettuali italiani, Alberto Asor Rosa, critico letterario, storico della letteratura, narratore, politico e docente all'università romana La Sapienza. A sentirsi un po' orfani non sono oggi solo gli ex colleghi, gli ex allievi, i collaboratori delle sue storie letterarie, ma paradossalmente anche i suoi avversari e antagonisti in ambito intellettuale e politico, con cui ha discusso e duellato per decenni. 

Il professore - la cui opera è stata consacrata tra i Grandi Classici della Letteratura con il volume antologico Scritture critiche e d'invenzione, pubblicato nei Meridiani mondadoriani - è stato uno degli ultimi grandi polemisti e ideologi marxisti, teorico di uno stretto rapporto tra politica e letteratura.

Asor Rosa, nato a Roma e orgoglioso di aver coltivato la sua grinta intellettuale tramite l'educazione sentimentale in quartieri popolari, ha esibito il suo temperamento battagliero fin dai suoi esordi nel mondo della politica, nel 1956. Iscritto alla Federazione giovanile comunista, dopo aver firmato il famoso manifesto dei «101» contro l'invasione dell'Ungheria uscì dalla casa comunista (per poi rientrare nei ranghi del Pci ed essere eletto nel 1979 in Parlamento). Non temeva l'agone e non risparmiava i fendenti, il professore: è stato uno dei più temuti critici letterari italiani. 

«Asor, l'uomo che mi ha fatto più male nella vita», lo stigmatizzò Pier Paolo Pasolini, dopo essere stato messo sotto tiro nel saggio Scrittori e popolo, uscito nel 1965 per le piccole ma autorevoli edizioni Samonà e Savelli. Il libro fu un vero caso letterario e diede grande notorietà al docente: tra i suoi bersagli polemici c'erano anche Vasco Pratolini, Carlo Cassola e Antonio Gramsci.

Asor attaccava il modello nazionalpopolare della narrativa di sinistra che aveva scelto come soggetto dei propri romanzi un «popolo artefatto e sfigurato» e analizzava la formazione della tradizione letteraria nazionale, la genesi dello storicismo marxista italiano, del fascismo di sinistra e dell'antifascismo militante.

 Allievo di Natalino Sapegno, Asor Rosa fu influenzato dai saggi di Mario Tronti, poi raccolti nel libro del filosofo Operai e capitale. Dopo l'exploit di Scrittori e popolo, Asor Rosa acquistò il ruolo di saggista-guru, di maestro in grado di indicare strade e percorsi per i narratori e gli intellettuali contemporanei. Gli studenti e un esteso ceto intellettuale di sinistra lo avevano prescelto come maître à penser anche per gli scritti sulle pagine delle riviste da lui fondate o in cui ebbe un ruolo centrale, come Quaderni Rossi, Classe operaia e Contropiano (diretto da Asor Rosa con Massimo Cacciari).

Irritante, severo, spesso tranchant, con i suoi baffi spioventi e la cadenza spiccatamente romana, trasformò in seguito la sua immagine di ribelle in quella di padre ri-fondatore della storia della letteratura con imprese letterarie monumentali: lo fece a partire dal contributo intitolato La cultura nella Storia d'Italia dell'Einaudi (1975), per proseguire con l'impegno, sempre per lo Struzzo, di direzione e di coordinamento della Letteratura italiana (1982-2000), a cui poi seguì in tre volumi la Storia europea della letteratura italiana. 

Cresciuto in una famiglia della piccola borghesia romana - suo padre era impiegato delle ferrovie - dopo dieci anni di insegnamento nelle scuole superiori Asor si era conquistato la cattedra universitaria. Ma gli accademici della Facoltà di Lettere di Roma non gli perdonarono le critiche all'intellighenzia di sinistra.

«Mi fecero a fette», disse Asor Rosa, dal momento che entrò in conflitto anche con Carlo Salinari, il suo maestro, partigiano e animatore della Resistenza romana. Gli fu ostile anche Carlo Muscetta, che dopo avergli commissionato un ampio saggio sulla Cultura della Controriforma si rifiutò di pubblicarlo perché dava ampio spazio alla cultura dei gesuiti (il lavoro uscì poi dalla Laterza). 

Scontri e dispute accese non mancarono pure fuori dall'accademia: con la società letteraria capitolina «monocratica e chiusa», rappresentata da Alberto Moravia e da Enzo Siciliano, Asor Rosa non ebbe buoni rapporti: «Il gruppo Moravia-Pasolini-Betti-Siciliano viveva in una sua realtà impermeabile», scrisse indignato il professore operaista. «E io ai salotti romani preferivo il volantinaggio in fabbrica».

 Nel 1977 i giovani dell'ala più inventiva e creativa del movimento studentesco lo ribattezzarono «Asor palindromo», perché connotato da un cognome leggibile anche al contrario. Nonostante le contraddizioni che individuavano nel suo pensiero, i ventenni della fine degli Anni 70 videro in lui un punto di riferimento: ne Le due società (Einaudi) il «palindromo» lanciava un leitmotiv destinato a diventare popolarissimo e contrapponeva l'Italia del posto fisso all'Italia dei precari, dei disoccupati, degli studenti-lavoratori. 

Quando però la rivolta giovanile culminò nella cacciata dall'ateneo romano del leader sindacale Luciano Lama, Asor Rosa fu in prima linea ad opporvisi. Sempre controcorrente con le sue prese di posizione, irritò persino il pacifico Eugenio Montale, che ironizzò su di lui e lo accusò di subordinare il giudizio sull'opera poetica a valutazioni di tipo ideologico: «Asor nome gentile, il suo retrogrado, è il più bel fiore...». Negli ultimi anni della vita il professore passò dall'altra parte della barricata e si cimentò direttamente con la scrittura narrativa (L'alba di un mondo nuovo, Storie di animali e altri viventi, Assunta e Alessandro, in cui parla dei suoi genitori, I racconti dell'errore, Amori sospesi, dedicato alle esperienze erotiche di uomini in età avanzata, tutti pubblicati da Einaudi).

Per non smentire la sua inclinazione per le battaglie sociali, animò in Toscana un coordinamento ambientalista, molto attivo nella difesa del territorio e del paesaggio. Ritornò poi ai vecchi amori e pubblicò in un unico volume il suo saggio d'esordio e uno scritto che lo attualizzava: Scrittori e popolo (1965). Scrittori e massa (2015). Nelle sue opere - da Intellettuali e classe operaia a Galilei e la nuova scienza, a L'ultimo paradosso, a Fuori dall'Occidente - si è dimostrato uno degli ultimi cultori della letteratura intesa come qualcosa capace di scuotere le coscienze: era votato alla critica e alla storia degli intellettuali come impegno civile e, oggi, sembrano non esserci in questo campo eredi alla sua altezza.

La morte dell'intellettuale. Perché Alberto Asor Rosa era una spina nel fianco del Pci romano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

L’anno della svolta politica di Asor è il 1972. In quell’anno successero due cose importanti nella sua vita. Ottenne la cattedra di letteratura italiana all’Università di Roma (a Roma, all’epoca, c’era una sola Università) e aderì al Pci, dopo lo scioglimento del Psiup (il partito della sinistra socialista guidato da Basso, da Foa e da Valori) che aveva clamorosamente perduto le elezioni politiche di maggio, conquistando quasi un milione di voti ma senza raggiungere in nessuna città il quorum che era necessario per entrare in Parlamento. Asor era stato già nel Pci, da ragazzo, ma era uscito nel ‘56 per protesta contro l’invasione sovietica dell’Ungheria.

Io l’ho conosciuto proprio quell’anno, personalmente. Avevo letto i suoi libri, i suoi articoli sui giornali ma non lo avevo mai incontrato. Studiavo filosofia a Roma e facevo parte della sezione universitaria del Pci. Lui aveva quella sua aria un po’ superiore. Credo che sia stata la persona più sicura di sé che io abbia mai incontrato. Non era attraversato da molti dubbi. Però non era neppure arrogante. Neanche un po’. E con noi studenti discuteva di politica con grande cordialità, mettendosi al nostro livello, interagendo, talvolta persino assorbendo qualcosa delle nostre idee molto ribelli. Perché anche lui era un ribelle. Per tre anni ci siamo frequentati, sia nelle aule universitarie sia – soprattutto – nelle stanze e nel teatro della federazione comunista di via dei Frentani, sia al “rettorato” dove si tenevano le riunioni del consiglio di amministrazione dell’Università, nel quale eravamo entrati anche noi studenti. A noi della sezione universitaria Asor piaceva molto. Per una ragione semplice: costituiva un elemento fortissimo di rottura nella routine della burocrazia comunista.

La burocrazia comunista era fortissima, spesso noiosa, ma anche molto importante. Quel partito, che rappresentava un terzo degli italiani e che fu il motore vivente di clamorosi processi di riforma del paese, non sarebbe mai sopravvissuto, e non avrebbe mai avuto l’aderenza che aveva alla società, senza il suo apparato burocratico. E i suoi riti, le sue frasi fatte, gli slogan. Asor dentro quella macchina lì però non ci stava bene. Gli potevi chiedere tutto, ma non di diventare burocrate, o conformista, o di sostituire, di fronte a un qualsiasi avvenimento, la linea del partito alla sua capacità di pensiero. Asor pretendeva che fosse rispettata la sua capacità di pensiero e la cosa incredibile è che nella federazione romana del Pci, che forse era una delle più burocratiche e staliniste d’Italia, Asor fu accettato così com’era. I burocrati capirono che il suo pensiero serviva, svecchiava, creava movimento. Il merito forse fu del segretario della federazione di allora, che era un personaggio fantastico, del quale prima o poi bisognerà tornare a parlare. Si chiamava Luigi Petroselli, era un uomo del popolo ma nessuno come lui sapeva aggregare e governare gli intellettuali più diversi: Lombardo Radice, Tecce, Argan, Nicolini, Giannantoni, e anche Asor Rosa.

Io, ragazzetto, insieme agli altri miei compagni di università ho imparato diverse cose da lui e dal suo fascino. In particolare imparai la sua lezione sulle “due società”, che mi è sempre rimasta in mente. Lui le chiamò così. Provando a innovare le vecchie teorie marxiste sulle classi. La sua teoria – modernissima e incompresa – era riassunta in un libretto che scrisse nei primi mesi del 1978. E che chiedeva al Pci di accorgersi di una rottura che era avvenuta nel popolo e che rischiava di non rimarginarsi e di essere fatale per la sinistra. Mi ricordo che presentò il suo libro, mi pare alla casa della Cultura, la sera del 15 marzo del 1978. Ero lì, affascinato come sempre. Dovevo poi il giorno dopo scrivere il resoconto per l’Unità. Presi tantissimi appunti. Ma il giorno dopo, alle 9 del mattino, fu rapito Moro. Il resoconto passò in cavalleria. E anche la teoria di Asor Rosa. Nessuno mi leva dalla mente l’idea che l’inizio del declino della sinistra coincida con quella incomprensione.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il ricordo dell'intellettuale. “Alberto Asor Rosa era un pensatore che si sporcava le mani”, il ricordo di Mario Tronti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

“Ricordare Alberto come un critico letterario, seppur grande, o un esperto sublime di letteratura italiana, è sminuirne l’importanza e la grandezza. Alberto Asor Rosa è stato molto di più. È stato un intellettuale politico tra i più acuti e penetranti che l’Italia e la sinistra hanno avuto nella storia repubblicana. Io piango l’amico di una vita. E con lui se ne va una parte di me”. Mario Tronti fa fatica a trattenere la commozione quando al telefono gli diamo la notizia della scomparsa di Alberto Asor Rosa. La sua è la testimonianza di un’avventura politica e intellettuale, iniziata negli anni ’60 con l’ “operaismo” di cui Tronti e Asor Rosa furono compagni di ideazione, e che è continuata, appunto, per una vita.

Professor Tronti, è appena giunta la notizia della morte di Alberto Asor Rosa…

Ne sono affranto. Io perdo un amico carissimo con cui ho passato quasi per intero la mia vita, dagli anni 60 ad oggi. È come se cadesse un pezzo di me stesso. Per me Alberto Asor Rosa era un compagno di strada nell’esistenza quotidiana. Adesso bisognerà riflettere su tutta la sua personalità, la sua opera. Non era soltanto un intellettuale. Era un politico, nel senso più alto e nobile di questo termine. Era uno storico della cultura italiana. Ha dato un contributo fondamentale a tante cose. La sua era una visione completa di un intellettuale politico che non si è mai ritirato su una torre d’avorio, ma che ha inteso fare i conti e interagire con i bisogni, le aspirazioni delle masse. Alberto era un pensatore che sapeva e voleva “sporcarsi le mani”. La notizia è improvvisa e grave, occorrerà pensarci su per poi tentare un discorso più di fondo. Oggi è il tempo, per me, di piangere l’amico di una vita.

Una vita. A suo tempo, per una stagione importante nella storia del dopoguerra, per l’Italia e per la sinistra, gli anni 60, il suo nome, professor Tronti, e quello di Alberto Asor Rosa sono stati accomunati in quella che fu definita l’avventura, politico-intellettuale, dell’operaismo, di cui siete stati considerati un po’ i “padri”.

Ma certo. E sono orgoglioso di questo, come lo era Alberto. Io l’ho conosciuto all’università ancor prima che scegliessimo insieme di fare l’esperienza operaista. Poi quella cosa lì ci ha segnato definitivamente, per tutta la vita seguente. E da lì è nata un’amicizia. Un’amicizia che è stata anche profondamente politica che è stata, contemporaneamente, una grande amicizia umana.

Dal punto di vista umano, qual è la cosa che più le rimane impressa di Asor Rosa?

Dal punto di vista umano, intanto era una persona gradevole, nel suo porgere i discorsi, nella sua capacità di fare amicizie. Soprattutto era una persona che ha contribuito alla formazione di tanti intellettuali ancora presenti e che saranno a lungo protagonisti della vita culturale italiana.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Ori

·         E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.

Pablo Picasso, la figlia Maya è morta a 87 anni. Storia di Redazione Online su Il Corriere della Sera il 20 dicembre 2022.

È morta Maya Ruiz-Picasso, la figlia maggiore del grande artista spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), custode dell’eredità paterna e soggetti di molti dei suoi capolavori post-cubisti. Aveva 87 anni. Lo ha annunciato oggi un portavoce della famiglia. María de la Concepción Picasso viveva da sempre a Parigi. Era conosciuta da tutti come Maya. Era nata a Boulogne-Billancourt, vicino Parigi, il 5 settembre 1935, dalla relazione del pittore con la modella e musa francese Marie-Thérèse Walter, con cui era legato sentimentalmente dal 1927. Fotografa di professione, ha dedicato la maggior parte della sua vita allo studio e alla conservazione del lascito paterno, curando pubblicazioni e mostre. Maya era la seconda dei quattro figli di Pablo. Il maggiore era il fratellastro Paulo (1921-1975), nato dal matrimonio dell’artista con la ballerina Olga Chochlova. Aveva poi due fratellastri più giovani, Claude (nato nel 1947) e Paloma (nata nel 1949), nati dalla relazione del padre con la pittrice francese Françoise Gilot. Picasso adorava la figlia maggiore: l’arrivo di questa bambina fu una rivoluzione nella vita dell’artista, che non ha mai innalzato muri tra la sfera privata e il proprio universo creativo, tanto da farne soggetto di diversi capolavori e dedicandole una serie di dipinti: «Maya à la poupée» (1938), «Maya à la poupée et au cheval» (1938), «Maya au costume de marin» (1938), «Maya au bateau» (1938) o «Maya au tablier» (1938). Nel 1960 Maya si era sposata con Pierre Widmaier, soldato della marina militare con cui ha avuto tre figli: Olivier, Richard e Diana. Diana Widmaier Picasso è una storica dell’arte specializzata nel lavoro di suo nonno Pablo, di cui nel 2017 ha curato per la Gagosian Gallery di Parigi la mostra «Picasso and Maya: Father and Daughter», con i ritratti di Picasso della figlia maggiore. Nel 2021 Diana Picasso aveva curato per il Museo Picasso di Parigi con un piccolo tesoro inedito di opere del grande nonno, concepite come puro divertimento per la figlia Maya. Nell’ottobre 2021 Maya Picasso apparì per l’ultima volta in pubblico in una sala del Museo Picasso di Parigi, circondata dal figlio Olivier e dalla figlia Diana, per donare sei dipinti, un album di schizzi, una statua e un’opera etnografica. Per l’occasione fu mostrato un solo quadro, «Enfant à la sucette assis sous une chaise», un dipinto simbolico, poiché rappresenta Maya da bambina, «nascosta sotto i mobili, come oscuro presagio dell’imminente conflitto mondiale», spiegò Olivier Widmaier Picasso.

Da lastampa.it il 21 dicembre 2022.

Maya Ruiz-Picasso, la figlia maggiore del grande artista spagnolo Pablo Picasso (1881-1973), custode dell'eredità paterna e soggetti di molti dei suoi capolavori post-cubisti, è morta all'età di 87 anni, come ha annunciato oggi un portavoce della famiglia, senza fornire ulteriore spiegazioni. Maya Picasso viveva da sempre a Parigi. 

María de la Concepción Picasso, detta familiarmente Maya, era nata a Boulogne-Billancourt, vicino a Parigi, il 5 settembre 1935, dalla relazione del pittore con la modella e musa francese Marie-Thérèse Walter, con cui era legato sentimentalmente dal 1927.

Fotografa di professione, ha dedicato la maggior parte della sua vita allo studio e alla conservazione del lascito paterno, curando pubblicazioni e mostre. Maya era la seconda dei quattro figli di suo padre. Il maggiore era il fratellastro Paulo (1921-1975), padre di Bernard Ruiz-Picasso e Marina Picasso, nato dal matrimonio dell'artista con la ballerina Olga Chochlova. Ha anche due fratellastri più giovani, Claude (nato nel 1947) e Paloma (nata nel 1949), nati dalla relazione del padre con la pittrice francese Françoise Gilot.

Picasso adorava la figlia maggiore: l'arrivo di questa bambina fu una rivoluzione nella vita dell'artista, che non ha mai innalzato muri tra la sfera privata e il proprio universo creativo, tanto da farne soggetto di diversi capolavori e dedicandole una serie di dipinti: «Maya à la poupée» (1938), «Maya à la poupée et au cheval» (1938), «Maya au costume de marin» (1938), «Maya au bateau» (1938) o «Maya au tablier» (1938).

 Nel 1960 Maya si era sposata con Pierre Widmaier, soldato della marina militare con cui ha avuto tre figli: Olivier, Richard e Diana. Diana Widmaier Picasso è una storica dell'arte specializzata nel lavoro di suo nonno Pablo, di cui nel 2017 ha curato per la Gagosian Gallery di Parigi la mostra «Picasso and Maya: Father and Daughter», con i ritratti di Picasso della figlia maggiore.

Nel 2021 Diana Picasso aveva curato per il Museo Picasso di Parigi con un piccolo tesoro inedito di opere del grande nonno, concepite come puro divertimento per la figlia Maya. 

Nell'ottobre 2021 Maya Picasso si mostrò per l'ultima volta in pubblico in una sala del Museo Picasso di Parigi, circondata dal figlio Olivier e dalla figlia Diana, per donare sei dipinti, un album di schizzi, una statua e un'opera etnografica. 

Per l'occasione fu mostrato un solo quadro, «Enfant à la sucette assis sous une chaise», un dipinto simbolico, poiché rappresenta Maya da bambina, «nascosta sotto i mobili, come oscuro presagio dell'imminente conflitto mondiale», spiegò Olivier Widmaier Picasso.

·         E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.

Da rainews.it il 20 dicembre 2022.

Tony King, amico della coppia e padrino della figlia Seraphina, ricorda la lettera che Shirley gli scrisse quando erano in tournée in America, all'epoca di Altamont nel 1969, citata in “Charlie's Good Tonight: the Authorised Biography of Charlie Watts” di Paul Sexton: con lei accanto il batterista della “più grande band di rock and roll” del mondo non poteva montarsi la testa. 

Shirley Ann Shepherd, scultrice e rinomata allevatrice di cavalli arabi è morta all’età di 84 anni, a poco più di un anno dalla scomparsa del marito: "Shirley è morta serenamente venerdì 16 dicembre a Devon dopo una breve malattia circondata dalla sua famiglia", ha annunciato lunedì la famiglia.

Ronnie Wood, chitarrista dei Rolling Stones, è stato tra i primi a ricordarla sui suoi profili social: "Ci mancherai tantissimo, ma ti consoli il fatto che sei riunita con il tuo amato Charlie”.

Shirley, nata a Londra nel 1938, studiava scultura al Royal College of Art all’inizio degli anni Sessanta quando incontrò per la prima volta il batterista appassionato di jazz che ancora non si era unito alla band di Mick Jagger, Keith Richards e Brian Jones ma frequentava e suonava nel giro di locali della Swinging London che proponevano la musica d’oltreoceano.

In una band passata alla storia per la cattiva fama dei cinque ragazzacci – “Fareste uscire vostra figlia con un Rolling Stone?” era il mantra dei tabloid all’epoca – l’unico vero scandalo nella vita di coppia di Shirley e Charlie fu proprio la decisione di sposarsi.

I due si frequentavano già all'inizio del 1963 e si sposarono l'anno successivo, proprio quando la band si era affermata come principale rivale dei Beatles sulla scena musicale inglese. I matrimoni delle star del pop e del rock all’epoca non erano considerati un buon affare per la promozione e un deterrente per il gradimento delle giovanissime fan.

Lo sapeva bene Charlie che non informò gli Stones ma soprattutto l’allora manager della band, Andrew Loog Oldham, il principale artefice dell’immagine ribelle del gruppo. Sempre nella biografia autorizzata di Sexton si legge che il batterista inizialmente negò le notizie sul suo matrimonio, dicendo al Daily Express che "avrebbe danneggiato molto la mia carriera se la storia si fosse diffusa". Ma Shirley vuotò volentieri il sacco dicendo che non potevano "sopportare di vivere ancora separati". Il matrimonio è durato 57 anni, fino alla morte del marito nel 2021. 

L’unico momento di crisi alla metà degli anni Ottanta quando è stato il turno di Charlie a combattere con la dipendenza dall’eroina proprio quando anche la band sembrava sul punto di sciogliersi. Un periodo che, racconterà in seguito, gli è quasi costato il matrimonio.

Quando Charlie Watts non era in tour o in sala di registrazione si rifugiava nella tenuta familiare del XVI secolo nel Devon, dove la coppia era più nota per i loro cavalli arabi e per il dare ospitalità agli animali abbandonati che per il posto di rilievo del batterista nella storia del rock. 

Una vita domestica che la loro unica figlia Seraphina una volta ebbe a comparare a quella rappresentata in "The Osbournes", il reality show dei primi anni 2000 che seguiva la vita della famiglia del cantante dei Black Sabbath, Ozzy Osbourne: “I miei genitori erano un po' gli Sharon e Ozzy del Devon. Quando ho visto quella trasmissione ho pensato: 'Oh mio Dio'. Camminava per casa dicendo 'Shirleyyy'”.

·         E’ morta la cantante Terry Hall. 

Da rainews.it il 20 dicembre 2022.

Terry Hall, cantante della band britannica The Specials, è morto all'eta' di 63 anni. Lo ha annunciato la band ska fondata alla fine degli anni '70."E' con grande tristezza che annunciamo la scomparsa, dopo una breve malattia, di Terry, nostro meraviglioso amico, fratello e uno dei migliori cantanti, cantautori e parolieri che questo paese abbia mai prodotto", ha detto il gruppo su diversi social network, compresi Twitter e Facebook. 

"La sua musica e le sue esibizioni racchiudevano la vera essenza della vita... gioia, dolore, umorismo, lotta per la  giustizia, ma soprattutto amore", ha scritto la band, lodando la sua “musica straordinaria e la sua profonda umanità”. Nato nel 1959 e originario di Coventry, Warwickshire (Inghilterra occidentale), Terry Hall è salito alla ribalta con gli Specials alla fine degli anni '70. 

Depresso, Hall aveva rivelato in una canzone di essere stato vittima di pedofilia durante una gita scolastica in Francia. Aveva avuto altre esperienze musicali al di fuori degli Specials, prima che il gruppo si riformasse e si esibisse sul palco in varie formazioni. L'anno scorso, questi veterani della scena britannica hanno pubblicato un album di cover delle loro canzoni di protesta. Durante la sua carriera, Terry Hall ha anche collaborato con altri artisti come il rapper Tricky, Gorillaz o Lily Allen.

È morto Terry Hall, cantante degli Specials: band campione dello ska e dell’antirazzismo. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 20 Dicembre 2022.

Aveva 63 anni: con il gruppo e due soli album segnò la storia del genere. Oltre a diventare un esempio per l’impegno contro le discriminazioni nell’Inghilterra di fine 70

«Solo perché sei un ragazzo nero/solo perché sei un ragazzo bianco/non significa che devi odiarlo/non significa che dovete scontrarvi»: intonare queste parole, alla fine degli anni’70, nell’Inghilterra plumbea della crisi, non doveva essere per niente facile. Già, il coraggio di essere sempre un passo avanti: per questo rimpiangeremo Terry Hall, leggendaria voce degli Specials, scomparso a 63 anni.

Già gli Specials, i capofila dello ska punk britannico proprio alla fine di quella decade, la working class della depressa Coventry (di cui Hall era piena espressione) e gli immigrati caraibici che si mettono insieme per guerreggiare contro il razzismo dell’estrema destra. In musica: prendendo a piene mani dalle felici intuizioni dei Clash di Joe Strummer e dal canzoniere giamaicano degli anni’60 con brani come « A Message to You Rudy» o «Monkey Man».

Di questa band numerosa e variegata, Hall era la bellissima voce e coscienza critica: con il marchio «2 Tone» (i tasti bianchi e neri, a simboleggiare l’interrazzialità del gruppo) avrebbero dato il via a un’ondata potente e numerosa, tra i Selecter, i Madness e quant’altri. Dando voce ai diseredati dei sobborghi delle città britanniche contro le politiche conservatrici della prima Thatcher e la xenofobia crescente. Una battaglia sonora di intensità tale (numerose le risse con i naziskin ai concerti con i membri della stessa band) che l’epopea Specials non poteva durare.

Solo due album, infatti, significativissimi, Specials e More Specials e ne 1981 era già finito tutto: Terry si sarebbe poi riunito altre due volte con la band, ma la fiammata era già stata troppo alta. Quello che rimaneva (e rimane) era però la potenza unificatrice e iconoclasta della band, attraverso la voce potente di Hall. Da cui tanti avrebbero tratto ispirazione e in tanti gli avrebbero poi chiesto di collaborare, da Sinead O Connor a Damon Albarn. E a tanti mancherà. Perché il coraggio non si compra al mercato.

·         E’ morto il produttore Alex Ponti.

Marco Giusti per Dagospia il 20 dicembre 2022.

Se ne va Alex Ponti, 68 anni, produttore, figlio di Carlo Ponti, fratello di Guendalina Ponti e fratellastro di Carlo e Eduardo Ponti. Rampollo del jet set internazionale, cercò di farsi largo nel cinema americano alla fine degli anni ’70 legandosi al padre e poi alla stessa Sophia nei suoi progetti cinematografici, non sempre fortunati tra America e Italia.

Fece colpo il suo primo matrimonio, con grande festa a Santo Stefano nel 1980 dove per motivi legali né il padre né Sophia Loren poterono intervenire, con la fotografa Priscilla Rattazzi, la figlia di Susanna Agnelli e di Urbano Rattazzi. Un matrimonio che durò solo due anni. Si risposò poi con la attrice e regista Sandra Monteleoni, già moglie di Luca Corderio di Montezemolo.

Forte dell’esperienza produttiva paterna, entra nel mondo del cinema nel 1979 partendo da Hollywood con un sub-Jaws pieno di ferocissimi piranhas brasiliani, “Killer Fish – Agguato sul fondo”, filmone di Antonio Margheriti con Lee Majors, Karen Black, Margaux Hemingway, Marisa Berenson, coprodotto con Farrah Fawcett e suo marito Lee Majors, forte di un budget, allora ricco, di 6 milioni di dollari. In un primo tempo il suo socio nel progetto era il figlio di Dino De Laurentiis, Federico, che morirà tragicamente nel 1980.

 Il film vanta, secondo quanto scrisse Vincent Canby sul “New York Times”, ''un uragano, un tornado, un crollo di una diga, un incidente aereo, una barca che si incaglia e una zattera di salvataggio che affonda''. Nel 1980 co-produce con Roger Gimbel per la EMI Television Programs il biopic televisivo su Sophia Loren, “Sophia Loren: Her Own Story”, diretto da Mel Stuart con Sophia nel doppio ruolo di se stessa e di sua madre, Armand Assante come il padre, John Gavin come Cary Grant, Edmund Purdom come Vittorio De Sica e Rip Torn come Carlo Ponti. Mai arrivato in Italia.

Cerca di mettere in piedi, sempre per Sophia protagonista, una Sophia che non può ancora tornare in Italia, “The Maria Callas Story”, un biopic sulla Callas che non riuscirà a portare a termine. Produce subito dopo il film che doveva segnare nel 1984 il grande ritorno di Sophia al cinema in Italia, “Qualcosa di biondo” o “Aurora” diretto da Maurizio Ponzi, sceneggiato da Gianni Menon e Franco Ferrini su un soggetto di Sergio Citti, con suo figlio Edoardo di 11 anni nel ruolo proprio del figlio, Philippe Noiret, Marisa Merlini, Ricky Tognazzi, , seguito dalla miniserie televisiva “Mamma Lucia”, sempre con Sophia Loren, e nel 1990 dalla nuova versione tv di “La ciociara” per la regia di Dino Risi con Andrea Occhipinti e Robert Loggia, prodotto dal padre Carlo Ponti, dove ha solo la produzione esecutiva.

E’ produttore poi di “Sabato, domenica, lunedì” di Lina Wertmuller con Sophia Loren, Luciano De Crescenzo, Luca De Filippo, Alessandra Mussolini. In un primo tempo cerca di chiuderlo in America, ambientandolo a Pittsburgh, per la regia di Peter Bogdanovich e Sophia in coppia con Marcello Mastroianni e un contratto con la Warner di 10 milioni di dollari. La sua produzione maggiore, però come esecutivo, è la commedia americana del 1991 “Oscar – Un fidanzato per due figlie”, diretto da John Landis con Sylvester Stallone, Ornella Muti, Kirk Douglas, Yvonne De Carlo, remake di un successo francese.

Torna al cinema dopo un’assenza di dieci anni con i documentari “Madri” e “Vietato sognare” di Barbara Cupisti nel 2007, seguiti da quelli di Luca Archibugi, “Senza scrittori” e “Albuna Micheli”. Il suo ultimo lavoro per il cinema è il documentario di Francesco Saponaro “Eduardo: La vita che continua” con Luca De Filippo, Raffaele La Capria e Francesco Rosi.

·         Addio all’attore Lando Buzzanca.

Addio a Lando Buzzanca, fuoriclasse di destra odiato dalla sinistra: “Mi definiva di serie B”. Marta Lima su Il Secolo d’Italia il 18 Dicembre 2022.   

E’ morto oggi a Roma il grande attore Lando Buzzanca, malato da tempo e recentemente al centro di polemiche familiari sulle cure cui veniva sottoposto. Il grande attore siciliano, 87enne, era ricoverato al Gemelli, e come ha raccontato il figlio Massimiliano all’Adnkronos, “si è spento serenamente intorno alle 14”. “Ieri ero venuto a trovarlo – racconta Massimiliano Buzzanca – e credo mi abbia riconosciuto perché si voleva alzare. L’ho convinto a rimanere a letto. Certo, le sue condizioni non erano delle migliori, ma speravo che almeno questo Natale lo passasse con noi. Quando mi hanno avvisato per dirmi che era peggiorato, stavo uscendo da casa per andare a trovarlo, ma sono arrivato tardi”.

Lando Buzzanca era un uomo tutto d’un pezzo, mai molto amato dai critici e da quel circoletto intellettuale di sinistra che lo snobbava. Lui, in alcune interviste, aveva spiegato perché: “Sono sempre stato di destra, dalla sinistra arrivavano continue calunnie, mi definivano attore di serie b. Mi hanno danneggiato, ma non me ne è mai fregato niente. La gente mi vuole bene. Per tredici anni ho fatto attività politica in Alleanza Nazionale con Fini. Mi voleva fare senatore. Scherzando gli chiesi quanto prendesse al mese un senatore. Mi rispose 18 milioni. Io 18 milioni li prendevo in una settimana!”.

Tanti i messaggi di cordoglio per la scomparsa del popolare attore. Dal centrodestra, parlano Tommaso Foti e Maurizio Gasparri.

“Oggi ci lascia un grande attore, simbolo della commedia italiana e motivo di vanto per la nostra Nazione. Riposa in pace Lando, hai scritto pagine storiche di cinema e teatro. La mia vicinanza e le mie condoglianze alla famiglia da parte di tutto il gruppo di Fratelli d’Italia alla Camera dei deputati”, dice il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, Tommaso Foti.

“Lando Buzzanca è stato un amico per tanti di noi e ci ha sostenuto in tantissime occasioni. E questo non lo dimenticheremo mai. Ma nel momento in cui ci lascia ricordiamo le sue grandi doti artistiche. Non solo nel cinema brillante ma anche nel teatro più impegnato Lando è stato un grande protagonista della vita e della cultura italiana. Ho seguito con tristezza gli ultimi anni difficili della sua vita e preferisco ricordarlo con la sua energia vitale, con la sua forte personalità, con il suo protagonismo nello spettacolo, sul palcoscenico, ma anche nelle serate insieme a Lucia, nella sua casa a pochi passi da Ponte Milvio. Addio Lando, non ti dimenticheremo mai”, scrive Maurizio Gasparri.

Tanti messaggi su web, tra ricordi e dolore

Fai buon viaggio, amatissimo Lando”. Appena diffusa la notizia della morte di Lando Buzzanca, sono già decine i post sui social che esprimono il proprio cordoglio per la morte del popolare attore romano, che si è spento all’età d 87 anni dopo un lungo periodo di malattia e il ricovero al Gemelli di Roma. “Sei icona di un’epoca gentile che non tornerà più”, scrive un utente. “Mi hai fatto ridere sin da bambino, riposa in pace”, aggiunge un altro. “Un attore che per noi degli anni 60 è stato un punto di riferimento con i suoi film“, osserva qualcuno. “Ci mancherai”. Tra i tanti commenti, c’è anche chi osserva che l’attore avrebbe meritato un’attenzione diversa: “Un grande talento che avrebbe meritato molto piú spazio. Una delle tante “vittime” della solita critica ottusa e politicizzata”, chiosa l’utente.

I film sull’italiano medio furbo e onesto

Nei suoi tanti film ha saputo rappresentare quelle che erano le frustrazioni sessuali dell’uomo comune nei confronti del gentil sesso e del matrimonio. Vestendo i panni dell’italiano medio e del meridionale provinciale e furbetto, Lando Buzzanca ottenne la notorietà, ma il successo di pubblico e quello commerciale negli anni Settanta lo conquistò come donnaiolo impenitente, attore simbolo della commedia sexy all’italiana, grazie anche a una ‘bellezza maschia’ segnata da mascella prominente, sguardo vispo, bel sorriso e naso scolpito.

Con baffi o meno, con film come “Il merlo maschio”, “Homo Eroticus”, “L’uccello migratore” e “All’onorevole piacciono le donne” Buzzanca ha saputo rappresentare quelle che erano le frustrazioni sessuali dell’uomo comune nei confronti del gentil sesso e del matrimonio.

Nato come Gerlando Buzzanca a Palermo il 24 agosto 1935, una volta conclusa la scuola dell’obbligo si trasferisce subito a Roma in cerca di fortuna. Nel 1956, a 21 anni è già sposato con Lucia Peralta (scomparsa nel 2010), la futura madre dei suoi due figli, Mario e Massimiliano. Nella Capitale, dopo vari lavoretti, decide di fare il colpo grosso e seguire la sua vera passione: la recitazione.

Gli studi di recitazione e l’incontro con Pietro Germi

Frequenta l’Accademia Sharoff e inizia a fare la comparsa partecipando a kolossal in costume che si giravano a Cinecittà, il primo dei quali è “Ben Hur” (1959) di William Wyler. Questa prova gli porta fortuna e, successivamente, comincia a lavorare per il piccolo schermo partecipando a due sceneggiati di Vittorio Cottafavi: “La trincea” (1961) e “Il mondo è una prigione” (1962).

Ma sarà Pietro Germi a vedere in questo magro ragazzo siciliano dal naso pronunciato e dall’aspetto titubante un attore degno di lode, tanto che lo fa recitare insieme a Marcello Mastroianni e Stefania Sandrelli in “Divorzio all’italiana” (1961) e affiancando ancora la Sandrelli in “Sedotta e abbandonata” (1964). Nel frattempo Buzzanca prosegue la gavetta lavorando per grandi nomi, come Elio Petri in “I giorni contati” (1962), Dino Risi in “I mostri” (1963) e Antonio Pietrangeli in “La parmigiana” (1963); diventa anche la spalla di grandi e mitici attori come Amedeo Nazzari (“Le monachine”, 1963), Gino Cervi (“La smania addosso”, 1963) e della coppia comica Franco Franchi e Ciccio Ingrassia (“I marziani hanno 12 mani” e “Cadavere per signora”, entrambi del 1964).

Lando Buzzanca acquista lentamente ma con decisione i suoi spazi in una Cinecittà nel pieno della dolce vita, imponendosi, ancora per Pietrangeli e con Ugo Tognazzi, ne “Il magnifico cornuto” (1964).

Il ruolo comico che riveste per molti anni

Si afferma sempre di più come attore comico, fino a quando viene scritturato per una serie di pellicole che parodizzano James Bond, in cui veste i panni di ‘James Tont’ in “James Tont operazione uno” (1965) di Bruno Corbucci (con cui inizia un lungo sodalizio) e Giovanni Grimaldi che in seguito lo dirigerà in “La prima notte del dottor Danieli, industriale, col complesso del… giocattolo” (1970).

Ottenuta la notorietà, Nanni Loy lo dirige nel film a episodi “Made in Italy” (1965), al fianco di Peppino De Filippo, Anna Magnani e Aldo Fabrizi; è il protagonista Giovanni Percolla in “Don Giovanni in Sicilia” (1967) di Alberto Latttuada e recita in “Le dolci signore” (1967) di Luigi Zampa con Vittorio Caprioli.

Il lato sexy che lo fece diventare famoso

Ma sarebbe rimasto comunque un attore di secondo piano, se non fosse per la grande notorietà che raggiunge grazie alla sua partecipazione nella commedia sexy: la sua graffiante ‘masculinità’ e la capacità di far ridere in situazioni connotate dalla eccessiva attività sessuale, o al contrario, da una totale impotenza, sono la sua fortuna.

Pasquale Festa Campanile, Marco Vicario, Steno, Luciano Salce, Gianni Grimaldi e Luigi Filippo D’Amico diventano i suoi registi, mentre Barbara Bouchet, Laura Antonelli, Sylva Koscina, Rossana Podestà, Agostina Belli e Femi Benussi le sue compagne di set. Tale è la fama raggiunta, che il disegnatore Leone Cimpellin crea nel 1972 un personaggio per una serie fumetti comica e satirica con le sue fattezze, Jonny Logan, pubblicata fino al 1978. La faccia di Buzzanca sarà presa in prestito anche per il fumetto sexy “Il Montatore” (1975-1982; complessivamente 114 volumi tascabili per adulti), con storie ambientate nel mondo del lavoro con il protagonista che è un metalmeccanico.

Il successo arriva con “Il merlo maschio”

Buzzanca calca anche il palcoscenico, riscuotendo grande successo con le commedie musicale “Il cenerentolo” e “Signore e signora” accanto a Delia Scala, di cui viene realizzata anche una versione per la Rai in bianco e nero. Fu proprio il varietà del sabato sera “Signore e signora” sul Canale Nazionale della Rai del 1970 che mise in luce tutte le qualità comiche dell’attore e si rivelò un grande trampolino di lancio, soprattutto nel cinema ma anche alla radio, consentendogli di uscire dal cliché da caratterista nel quale era stato utilizzato fino ad allora. La sua battuta “mi vien ca ridere” divenne un simpatico tormentone, così come i personaggi grotteschi del contadino “Buzzurro”, del “Buzzanco” e del “Pecoraro dell’Apiro”.

La notorietà internazionale arriva a Buzzanca con la commedia sexy “Il merlo maschio” (1971) diretta da Festa Campanile con Laura Antonelli; nello stesso anno interpreta “Le belve” di Grimaldi, “Il vichingo venuto dal sud” di Steno e “Homo Eroticus” di Vicario.

Lando Buzzanca, "Valutare ipotesi di omicidio con dolo". La compagna contro i figli. Valentina Lupia su La Repubblica il 21 Dicembre 2022.

Si inasprisce il conflitto tra Francesca Della Valle e la famiglia dell'attore scomparso. Assieme alla sua associazione che combatte contro gli abusi dell'amministrazione di sostegno,  sta passando al setaccio carte e documenti. Mercoledì i funerali 

Per la morte di Lando Buzzanca "si potrebbe configurare l'ipotesi di omicidio con dolo eventuale". L'ultimo atto della battaglia ad alta tensione tra i figli di Lando Buzzanca e Francesca Della Valle va in scena a pochi giorni dalla morte dell'attore, venuto a mancare a 87 anni al Gemelli, dopo una caduta dalla sedia a rotelle e dopo aver lottato per anni contro la demenza senile.

Valentina Lupia per “la Repubblica - Edizione Roma” il 21 dicembre 2022.

Per la morte di Lando Buzzanca «si potrebbe configurare l'ipotesi di omicidio con dolo eventuale». 

L'ultimo atto della battaglia ad alta tensione tra i figli di Lando Buzzanca e Francesca Della Valle va in scena a pochi giorni dalla morte dell'attore, venuto a mancare a 87 anni al Gemelli, dopo una caduta dalla sedia a rotelle e dopo aver lottato per anni contro la demenza senile. 

La giornalista e conduttrice che ad agosto 2021 aveva annunciato le nozze con Buzzanca ha raccolto carte, documenti e testimonianze e li ha consegnati nelle mani dell'avvocata penalista Maria Rosa Dursi e all'ex giudice tutelare Claudio Reale. 

Entrambi fanno parte dell'associazione Labirinto 14 Luglio, fondata da Della Valle per tutelare i più fragili da un'errata applicazione della legge 6/04, quella sull'amministratore di sostegno. I due stanno passando in rassegna le carte, a caccia di difetti e vizi degli atti.

L'ipotesti dell'omicidio Due, al momento, i temi sui quali si stanno concentrando. Il primo riguarda il trasferimento di Buzzanca in una residenza sanitaria assistenziale. Secondo Reale, visto che l'attore «ha più volte espresso la volontà di non voler stare in una rsa», non sarebbe stato «rispettato l'articolo 410 del codice civile», che impone all'amministratore di sostegno di avere riguardo « di bisogni e aspirazioni del beneficiario ». 

In più « è risaputo che l'anziano fuori dal proprio ambiente quotidiano decade, perciò chi ha deciso di ricollocarlo era a conoscenza del rischio di morte o dell'accelerazione di questo processo » .

Per questo, dice l'esperto, « si potrebbe anche configurare l'ipotesi di omicidio con dolo eventuale». 

Il secondo punto riguarda la vendita della residenza di Roma (nuda proprietà con usufrutto) e della tenuta di Amelia dopo il trasferimento di Buzzanca nella rsa. 

Secondo quanto risulta a Labirinto 14 Luglio la vendita dell'immobile di ponte Milvio sarebbe avvenuta prima della richiesta di una perizia per riportare l'attore a casa. 

Il notaio nel mirino Gli accertamenti richiesti riguardano anche il notaio, che secondo Reale « non si è accertato della volontà di Lando Buzzanca di vendere » , trasgredendo quindi « il suo compito di controllo della funzione di legalità».

Per l'associazione, dunque, la vendita è stata un espediente per impedire a Francesca Della Valle di ereditare parte dei beni di Buzzanca: cosa che sarebbe successa se Corte di cassazione avesse dato ragione alla donna, consentendole, dopo aver presentato un ricorso, di potersi sposare con l'87enne. 

I debiti di Lando Accuse, queste, che in un'intervista rilasciata ieri a Repubblica il figlio di Lando Buzzanca, Massimiliano, respinge con forza. « Non ricordo quando è stato fatto il rogito. La scelta di vendere gli immobili è stata presa dal giudice tutelare per sanare dei debiti che mio padre, non sappiamo come, ha maturato all'incirca negli ultimi 5 anni». 

E aggiunge: « Davvero qualcuno pensa che sia piacevole per me e per mio fratello Mario vendere la casa dove siamo cresciuti? Non ci siamo intascati i soldi, oltre ai debiti quei fondi sono stati utilizzati per fare in modo che papà potesse mantenersi fino all'ultimo».

"Della Valle? Una sconosciuta" In più « una sentenza dice che Francesca Della Valle non è mai stata la compagna di mio padre, non è niente per noi. Io non devo giustificarmi con chi vuole utilizzare la questa storia per suoi fini e interessi personali. Quali, non lo so. Lo scoprirò molto presto». In effetti una resa dei conti sembra non essere così lontana. Venerdì scorso Labirinto 14 Luglio, che ha chiesto anche una riforma della legge sulla figura dell'amministratore, ha inviato «una segnalazione al giudice tutelare in via d'urgenza » che ora integrerà con «un esposto alla procura, concentrandoci sugli aspetti di penalistica e chiederemo al ministero della Giustizia di fare un'ispezione sulla gestione dei fascicoli di Lando Buzzanca ». Oggi alle 12, intanto, il funerale alla chiesa degli Artisti a piazza Popolo.

Lando Buzzanca, l'accusa della compagna: "La verità verrà fuori". Il Tempo il 18 dicembre 2022.

Insieme al momento del dolore, quello delle accuse. La morte di Lando Buzzanca all'età di 87 anni oggi 18 dicembre al pollicino Gemelli fa riemergere i contrasti tra la famiglia dell'attore siciliano e la compagna. "Si è realizzato ciò che avevo previsto e dichiarato. Nessuno è intervenuto affinché Lando fosse salvato. Le responsabilità sono molte, io non mi fermo: la verità verrà fuori", afferma Francesca della Valle, appena appresa la notizia della morte dell’attore.

"Aveva un’afasia, non una malattia mortale. L’abbandono è una malattia mortale", è la grave accusa raccolta dall'Agi da parte della donna, presidente dell’Associazione Labirinto 14 luglio che si batte per la modifica delle legge 6/04 e la difesa delle persone fragili.

Buzzanca in ospedale, la fidanzata svela a Il Tempo: l'amministratore di sostegno non mi fa sapere nulla

Una battaglia iniziata da più di un anno fa su media e social da Della Valle  per riportare a casa l’attore siciliano, sempre definito lucido, le cui condizioni di salute erano andate via via peggiorando come denunciato dal medico di fiducia Fulvio Tomaselli, che lo aveva descritto cachettico e pieno di piaghe da decubito; dichiarazioni seguite dalle minacce di querela per entrambi per violazione della privacy da parte del figlo di Buzzanca, Massimiliano, per il quale il padre - con l’aggravarsi delle condizioni di salute - aveva invece perso lucidità

Lo scorso agosto, prima della nuova caduta dell’attore nella Rsa che lo ha portato prima nel ricovero al Gemelli, e poi nell’hospice dove si è spento oggi, Della Valle aveva scritto sui social. "Lando Buzzanca sta morendo, denutrito e disperato, rinchiuso, contro la sua volontà, in una Rsa dal 27 dicembre 2021. La responsabilità sarà di tutti coloro che lo stanno trattenendo là, chiunque essi siano". Non c’è tempo da perdere, lasciava intendere la compagna, invocando il diritto di scelta del malato. "Non dovrebbe scegliere lui - si chiedeva la giornalista e conduttrice, nella sua battaglia legale e mediatica contro la legge 6/04 che riguarda oltre 400mila persone fragili - oppure ora interverrà qualche interdizione d’emblèe, per far tacere la verità? Troppo tardi - scriveva ancora la donna - il tentativo da parte dei figli nel settembre 2021, fu negato dallo stesso giudice tutelare. Lando aveva una afasia peggiorata dall’isolamento imposto dal suo amministratore di sostegno e dalla mancanza di logopedia». La documentazione di tutto ciò, scriveva ancora della Valle, «è nelle mani della procura della Repubblica di Roma, che ha anche documentazione su come Lando fosse a dicembre 2021 e com’è ora, dopo 7 mesi di Rsa".

Lando Buzzanca segregato in una residenza per anziani. L’appello della compagna. Eugenio Battisti su Il Secolo d’Italia il 5 agosto 2022.   

“Salvate Lando. Così morirà”. Dopo troppo silenzio Francesca Della Valle (alias di Francesca Lavacca),  giornalista, sceneggiatrice, autrice di programmi tv, è riuscita ad accendere i riflettori della stampa sulle condizioni mediche del suo compagno, Lando Buzzanca, a cui è legata dal 2016.

Lando Buzzanca rinchiuso in una Rsa

Il popolare attore, 86 anni, si trova praticamente ‘segregato’ (come riporta Dagospia) dallo scorso  27 dicembre in una Rsa, una residenza sanitaria per anziani, da cui è impossibile uscire. La sua “scarcerazione” è diventata ormai una crociata per la compagna. Che da almeno sette mesi combatte per far uscire Lando dalla struttura dove è praticamente detenuto contro la sua volontà. “E dove – racconta – mi hanno impedito perfino di parlare da sola con lui. Lando sta male! Non può restare lì. Deve tornare a casa. Deve curarsi assistito dal suo medico e da chi gli vuole bene”.

L’attore, che subito la demonizzazione del mainstream  per l’accusa di fascismo e maschilismo, è scheletrico, emaciato. Occhi incavati, lucidissimi, di colorito giallo – racconta all’Agi – questo è il risultato di 7 mesi in Rsa, gli rimane la lucidità”. Dopo una banale caduta, da 16 mesi non è più tornato a casa, aveva una blanda afasia che gestiva con la logopedia. “Oggi è denutrito, su una sedia a rotelle senza stimoli, ha perso tono muscolare”.

La compagna Francesca Della Valle: fatelo uscire

L’assurda situazione è determinata dall’applicazione della legge 6/4 che stabilisce la figura degli amministratori di sostegno delle persone fragili. Che hanno un esagerato potere discrezionale. Con l’aggravante dello scontro a suon di carte bollate tra la compagna e Massimiliano Buzzanca, 59 anni, uno dei due figli del popolare Merlo maschio. Nelle pieghe del provvedimento si annidano infatti truffe ai danni di persone anziane fragili. Sole e magari circondate da parenti interessati. Con medici e assistenti sociali compiacenti.

La legge sull’amministratore di sostegno

Un ginepraio che ha portato la fidanzata e il medico di Buzzanca a costituire un’associazione Labirinto 14 luglio a sostegno di queste deboli vittime. Nel caso del popolare attore il patrimonio, come ricostruisce Libero, ammonterebbe a un unico appartamento nella Capitale, vicino a Ponte Milvio. Una abitazione antica, piena di ricordi, scelta come location per una serie tv. Ma Casa Buzzanca non è certo un investimento da cui arricchirsi.

“A me interessa solo salvarlo, così morirà”

Per ora la Della Valle dice di avere a cuore solo le condizioni di salute allarmanti del suo compagno. Ridotto al lumicino, dimagrito 30 chili. “A me interessa solo salvare Lando”, dice a Libero, “prigioniero di una legge con cui lo stanno ammazzando. Bisogna portarlo via da dove si trova. Lando vuole uscire da lì, ormai è afasico, disperato. Ma è lucido e vuole tornare alla vita. Sennò muore!»

Sul web nuovi insulti a Lando Buzzanca e minacce ai giornalisti del “Secolo”. Redazione su Il Secolo d’Italia il 13 agosto 2022.   

Una battaglia ideologica per Lando Buzzanca? Non ridete, ma ci manca poco. Non sono gli effetti dalla calura estiva, ma gli sviluppi di una gaffe (e usiamo un eufemismo) di un giornalista palermitano, Vassily Sortino, che su Facebook aveva scritto un post contro l’attore ricoverato al Santo Spirito dopo un presunto mancato suicidio. Una frase che in un primo momento il giornalista, collaboratore di Repubblica, nell’intervista al nostro giornale non aveva rinnegato. Qualche ora dopo, il figlio di Lando, Massimiliano Buzzanca aveva chiesto e ottenuto le pubbliche (su Facebook) scuse di Sortino. Non chiedeteci chi ha portato i tarallucci e chi il vino, eravamo però convinti che la vicenda fosse morta lì. Neanche per sogno.

Un blogger (ovviamente anonimo) che sembra appena scongelato dall’Unione sovietica degli anni Cinquanta, ha preso di mira il nostro quotidiano e l’autore dell’articolo in difesa di Buzzanca: «È un maiale fascista che non merita pietà e la stessa cosa vale per il giornalista che l’ha scritto». Un intervento zeppo di insulti, firmati Pennatagliente, che inizia così, tanto per capire il tenore: «Quella fogna maleodorante che ha come ragione sociale Il Secolo d’Italia – storico quotidiano fascista di via della Scrofa (mai toponomastica fu più azzeccata, visto che la scrofa è la femmina del maiale, ed i fascisti hanno tutti notoriamente la mamma maiala)…». Il resto dello sproloquio è un antologia di insulti per l’autore dell’articolo (Valter Delle Donne) per Lando Buzzanca e per il nostro giornale. «Piuttosto, da stigmatizzare è il tentativo del Sortino di sminuire quanto accaduto: non ha detto niente di male – siamo in tanti a pensarla così – mentre è estremamente grave che Facce da libro (Facebook ndr) censuri il libero pensiero, soltanto perché può essere inviso a qualcuno». Perché le minacce e le dichiarazioni d’odio contro chi è di destra ovviamente sono «libero pensiero…».

Da La Zanzara pubblicato da Dagospia nel 2017 

“Non porto orologi, non porto nulla, mi danno fastidio. Da quando avevo 10 anni non metto le mutande, mi sento pesante”. Lando Buzzanca a La Zanzara su Radio 24, dopo l’avventura in Giappone con ‘Meglio tardi che mai’ (Rai2), racconta alcuni particolari intimi:  “Il pene a contatto coi pantaloni? Mi sento più libero. Sporco? No, cambio pantaloni ogni giorno e faccio continuamente il bidet. Non è una porcheria, mica cammino nudo. Mi lavo continuamente”. 

E il sesso a 81 anni come va?: “Non prendo viagra, nulla. Sono amante del cunnilingus, ma bisogna saperlo fare. Riesco ancora a fare altre cose. Muovo l’organo in un modo che diventa importante. Ma bisogna avere un pene giusto, con uno piccolo non fai nulla. Sono sopra la media. Sto messo bene”. 

Quante volte riesci a farlo, una al mese?: “Una volta al mese ti ammazzi, succede anche quattro volte a settimana. Poi ci sono settimane che non si fa nulla”. Poi, sul Giappone: “Le giapponesi sono brutte, meglio gli uomini. Sembrano tutte uguali”. Mai provato lo squirting?: “Squirting? Una cosa orrenda. Siamo animali pure noi, ma non così”.

E' morto Lando Buzzanca, attore della commedia sexy all'italiana. Lando Buzzanca, il dolore per la morte e lo scontro sulle cure tra la famiglia e la nuova compagna. Fulvio Fiano e Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

L'attore, 87 anni, da tempo afflitto da afasia e demenza senile, è morto nell'hospice dove era ricoverato da due settimane: «Nessuno lo ha salvato», accusa Francesca Della Valle. Il ricordo commosso di suo fratello Salvo

È un addio silenzioso quello di Lando Buzzanca, raggiunto dall’affetto del fratello Salvo e dal figlio Massimiliano (l’altro figlio, Marco, è in arrivo da Bangkok) nella stanza dell’Hospice Villa Speranza dove ha trascorso gli ultimi suoi giorni. Silenzioso come era ormai lui, colpito da afasia e demenza senile che lo facevano esprimere da tempo, e sempre più, solo per lallazioni e qualche gesto in cui non sempre era possibile riconoscere la consapevolezza. Incapace anche a camminare. Ma è un addio anche rumoroso quello dell’attore 87enne per i veleni che ne hanno già accompagnato le ultime settimane e sono riesplosi ieri con le accuse della sua compagna, Francesca Della Valle: «Come previsto, nessuno l’ha salvato. La verità verrà fuori».

«Avrei accompagnato mio fratello in Paradiso — dice Salvo, amaro — , avrei dato tutto per fargli fare un ultimo giro in auto a guardare la vita che tanto amava. A casa era tutto pronto per accoglierlo, dopo essere stato rimesso in sesto nella clinica Santa Lucia due anni e mezzo fa doveva restare per un breve periodo in casa di riposo ma ogni volta si aggiungeva un problema che prolungava il ricovero. La caduta, le difficoltà a deglutire... impossibile trasferirlo in sicurezza. Per me è stato un secondo padre, l’ho conosciuto a Roma che già avevo 9 anni (ne hanno 20 di differenza, Salvo è il settimo di otto figli, l’ultimo rimasto con Ettore ed Irene, ndr) e mi metteva soggezione, siamo diventati fratelli davvero a 24, è stato lui a far sbocciare in me il seme del giornalismo durante una chiacchierata nella sua Maserati nel 1972. Dovevo venire a trovarlo ieri e ho il rammarico di non averlo salutato un’ultima volta. “Gigi” come lo chiamavamo in famiglia (da Gerlando, ndr) è il Bambino del Cinema Paradiso che cresce sognando di fare l’attore. A sei anni sapeva già recitare Shakespeare. Sono sicuro che avrebbe solo voluto essere lasciato in pace nei suoi ultimi giorni», aggiunge. Il riferimento è alle presunte negligenze, se non vero abbandono, a cui Buzzanca sarebbe stato condannato nell’ultimo periodo, come adombrato da Della Valle.

La compagna di Lando Buzzanca: «È stato messo in un hospice contro la sua volontà. Non è malato terminale»

Che i rapporti tra la famiglia Buzzanca e la donna non fossero idilliaci era evidente da tempo. Da quando cioè l’attore e la giornalista avrebbero dovuto sposarsi ma gli «eredi» si erano opposti. «Papà è affetto da demenza senile, non ricorda il nome di nostra madre, la donna con cui ha condiviso tutta la sua vita — aveva spiegato tempo fa Massimiliano — Vogliamo essere sicuri che dietro a questa storia non ci sia altro». Da lì, e dal processo che ne scaturì, era scattato il regime di amministrato per Lando Buzzanca, che era dunque affiancato da un amministratore di sostegno e da un giudice tutelare. Gli stessi che decisero per lui il trasferimento, un anno fa, in una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale). Il resto è storia più recente. È l’8 novembre quando Lando, nella casa di cura, cade dalla sedia a rotelle e viene trasferito d’urgenza al Policlinico Gemelli. E qui la storia diventa di dominio pubblico, dopo la denuncia social del suo sedicente medico di fiducia (ma i familiari giurano di non averlo mai visto) Fulvio Tomaselli: «Oggi è un uomo rattrappito, peserà sì e no 50 chili e presenta piaghe da decubito. In Rsa lo hanno ridotto uno scheletro». Parole a cui fanno eco quelle di Francesca Della Valle: «Finalmente in ospedale si stanno prendendo cura di lui. Lando vuole tornare a casa, spero che amministratore e giudice tutelare esaudiscano il suo desiderio». E invece dopo il ricovero, l’1 di dicembre, Buzzanca viene trasferito nell’hospice in cui poi ieri è morto.

«Perché - si chiede Francesca – se non era un malato terminale?». La replica del figlio Massimiliano è stata puntuale. «Lui c’è ma la sua mente non c’è più. Pagherei perché mi riconoscesse ancora una volta». L’intento era che trascorresse lì un periodo di riabilitazione. Mercoledì alle 12 i funerali nella chiesa degli Artisti a Roma, poi verrà cremato e le ceneri portate a casa di suo figlio Massimiliano. 

A 87 anni è morto l'attore Lando Buzzanca. Ricoverato al Policlinico Gemelli, era malato da tempo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Dicembre 2022.

È morto a Roma Lando Buzzanca. L'attore, 87 anni, era ricoverato presso il policlinico Gemelli.

Se ne è andato in punta di piedi uno degli attori e volti più conosciuti del cinema e della tv italiana. Lui che dell’esuberanza e della simpatia aveva in parte fatto la sua cifra creativa. Un anno trascorso in un Rsa, seguito da un ricovero in ospedale e poi in un centro di riabilitazione. Acciacchi, cadute, malattie, e uno strascico di polemiche finale che lascia un senso di nostalgia. Lando Buzzanca aveva 87 anni e una lunghissima carriera alle spalle.

Famoso soprattutto per aver incarnato meglio di chiunque altro lo stereotipo dell’uomo siciliano passionale e geloso, anche per grandi registi come Pietro Germi e Antonio Pietrangeli. «Ho interpretato 110 film - raccontava -, ma fin dall’inizio ho sempre scelto, ho sempre voluto fare l’attore. Anche quando non ero nessuno ed ero al verde. Avevo 500 mila lire in tasca che mi aveva dato di nascosto mia madre, ma sono finiti in fretta, ho dormito per strada, ho mangiato alla Caritas, volevo fare il cinema, facevo piccole comparsate, ma sapevo che non bastava».

Gerlando Buzzanca, detto Lando, nasce a Palermo il 24 agosto 1935 da una famiglia di attori. Studia recitazione alla celebre Accademia Sharoff tra un lavoro saltuario e l’altro. Fa il cameriere ma anche il gigolò. A 17 anni si trasferisce a Roma. L'esordio al cinema arriva nel 1959 in un film storico, non solo per l’ambientazione. Si tratta di Ben-Hur, dove l’attore appare nella piccola parte di uno schiavo. L’occasione giusta arriva nel 1961 con Pietro Germi che lo sceglie per il ruolo di Rosario Mulè in Divorzio all’italiana. L’anno dopo è ancora Pietro Germi a regalargli una grande parte, quella del fratello di Stefania Sandrelli in Sedotta e abbandonata. Nel 1956 Lando si sposa con Lucia, donna con cui è rimasto per 57 anni.

Buzzanca, dopo i film di Germi, decide di non trascurare la televisione e partecipa a diversi sceneggiati come La trincea. Piano piano l’attore inizia a crearsi un suo personaggio, quello del provinciale amante delle donne e spesso poco furbo. Questa maschera ricorrente lo porterà a collaborare anche con grandi registi. Nel 1963 appare al fianco di Catherine Spaak in La parmigiana di Antonio Pietrangeli interpretando l’ottuso fidanzato della protagonista. Un’altra grande svolta nella sua carriera arriva nel 1971 con la commedia 'Il merlo maschiò di Pasquale Festa Campanile con Laura Antonelli.

Ma gli anni '70 sono anche quelli del successo televisivo in coppia con Delia Scala in “Signore e signora” con il tormentone “mi vien che ridere” del quale Buzzanca ha parlato come di una ''delle cose più belle della mia vita». Nel film L’arbitro del 1974 dà prova della sua capacità di entrare nei panni altrui. Tra la fine degli anni Sessanta e i Settanta, Lando collabora più volte con l’ennesimo grande regista della sua carriera: Lucio Fulci. Insieme i due girano tre film: Operazione San Pietro, Nonostante le apparenze e Purché la nazione non lo sappia.

Gli anni Ottanta gli regalano poco spazio al cinema, anche perché per i gusti di Buzzanca la deriva che stava prendendo la commedia sexy italiana era ormai eccessiva. Si rifà con il successo in radio e in teatro. Uno delle sue migliori sortite cinematografiche del decennio è in Secondo Ponzio Pilato di Luigi Magni. Buzzanca torna alla ribalta in tv nel 2005 con il trionfo della miniserie di Rai1 'Mio figliò nata da un’idea dello stesso Buzzanca che interpreta un poliziotto, il Commissario Vivaldi, padre di un ragazzo gay (oltre 8 milioni di spettatori e 30%). Lui apertamente di destra desta sorprese, ma è un trionfo. Nel 2007 raccoglie il plauso anche della critica per la sua interpretazione nel lungometraggio I Viceré di Roberto Faenza. La partecipazione al film gli garantisce la vittoria di un Globo d’oro e la nomination al David di Donatello come miglior attore protagonista. Dopo i successi de Lo scandalo della Banca Romana, Il commissario Vivaldi, La Baronessa di Carini, nel Restauratore è invece il “sensitivo” Basilio. Nel 2016 prese parte all’undicesima edizione di Ballando con le stelle, danzando in coppia con Sara Mardegan. Nel 2017, Buzzanca e Carlo Delle Piane interpretano una coppia di anziani omosessuali nel toccante film Chi salverà le rose?.

Buzzanca aveva due figli, Massimiliano e Mario. Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2010, aveva perso la forza e la voglia di vivere tanto che nel 2013 tentò anche di togliersi la vita, non riuscendoci. A salvarlo dal baratro fu l’incontro con la sua nuova compagna Francesca Della Valle di 35 anni più giovane. L’ultima fase della sua vita è stata segnata da ricoveri e polemiche. Dopo un anno in Rsa, la compagna Francesca Della Valle e il medico Fulvio Tomaselli avevano denunciato lo scorso novembre il declino dell’attore avvenuto nei mesi del ricovero in Rsa. Il figlio Massimiliano aveva quindi detto di voler denunciare entrambi «per tutelare il padre e la sua privacy». Poi il ricovero al Gemelli per una caduta e il trasferimento a Villa Speranza, dove è morto.

Una vita tra cinema e tv. Chi era Lando Buzzanca: i film, la malattia e la polemica tra la compagna e i figli. Rossella Grasso su Il Riformista il 18 Dicembre 2022

Il mondo del cinema e della televisione piange la morte di Lando Buzzanca. L’attore è morto al Policlinico Gemelli di Roma, aveva 87 anni. Attore siciliano era già da tempo alle prese con una malattia invalidante che lo aveva colpito nel 2021 e che lo aveva costretto a vivere su una sedia a rotelle. Le sue condizioni di salute si erano aggravate da più di un mese, quando era stato ricoverato in ospedale in seguito a una caduta dello scorso novembre.

Nato a Palermo nel 1935 da una famiglia di attori, si è trasferito a Roma all’età di 17 anni per frequentare corsi di recitazione all’Accademia Sharoff, di cui è poi diventato presidente onorario. Dopo una serie di film in cui svolto il ruolo di comparsa, compreso il capolavoro Ben-Hur (dove ha interpretato il ruolo di uno schiavo) ha esordito al cinema nel 1961 sotto la guida di Pietro Germi in ‘Divorzio all’italiana’ e ‘Sedotta e abbandonata’. Nel 1964 ha preso parte a ‘Senza sole né luna’ di Luciano Ricci, film drammatico che raccontava la vita dei minatori durante gli ultimi mesi di scavo per il traforo del Monte Bianco.

Agli inizi della sua carriera si ritrova spesso a interpretare il ruolo stereotipato di ‘maschio siciliano’ sciupafemmine e amante delle donne, etichetta di cui non riuscirà mai a liberarsi nel tutto. La critica non lo apprezza, inserendolo nella categoria di attore di film di serie B, ma Buzzanca riesce a far breccia nel cuore del pubblico grazie alla sua ironia e alla sua spontaneità. Nel 1970 sbarca in televisione con il varietà ‘Signore e signora’ (insieme a Delia Scala) riscuotendo un enorme successo. La sua battuta ‘mi vien che ridere’ rimarrà un tormentone ricordato e ripetuto dal pubblico per anni.

Sull’onda di questa popolarità viene notato a livello internazionale dopo il film ‘Il Merlo Maschio’, commedia sexy all’italiana diretta da Pasquale Festa Campanili. Negli anni successivi si ritrova quindi a girare sul set accanto a famose attrici del calibro di Claudia Cardinale, Catherine Spaak, Barbara Bouchet, Senta Berger e Joan Collins. A metà degli anni ’70 i suoi impegni cinematografici iniziano a diminuire con l’evoluzione della commedia sexy all’italiana, che renderà celebri Alvaro Vitali, Edwige Fenech e Gloria Guida.

Buzzanca virerà sulla radio dove sarà protagonista di ‘Gran varietà’ con il grottesco ‘Buzzanco’, erede del personaggio televisivo nato con ‘Signore e signora’. Dopo alcuni anni di impegno nel teatro, nel 2005 fa ritorno in televisione nella fiction ‘Mio figlio’, in cui interpreta il ruolo di padre di un ragazzo omosessuale. La serie si rivela un successo al punto che cinque anni più tardi arriverà il sequel ‘Io e mio figlio – Nuove storie per il commissario Vivaldi’. In quegli anni Buzzanca vive una seconda carriera e recita anche nel film ‘I Vicerè’ di Roberto Faenza, per il quale viene candidato al David di Donatello come miglior attore protagonista e vince il Globo d’oro al miglior attore.

Nel 2012 prende parte alla serie ‘Il restauratore’, che ottiene un ottimo riscontro a livello di pubblico (con più di sei milioni di spettatori) che porta alla realizzazione di una seconda stagione due anni dopo. Il suo ultimo lavoro risale al 2017, anno in cui compare nel film ‘Chi salverà le rose?’ di Cesare Furesi, al fianco di Carlo Delle Piane, nel quale i due interpretano una coppia di anziani omosessuali.

La polemica tra la compagna e il figlio

Negli ultimi mesi Buzzanca ha vissuto in un clima di polemica tra denunce, battibecchi, attacchi social e minacce di querele. Come ricostruito da Repubblica, le ostilità vedono da una parte la compagna, Francesca Della Valle e l’amico e medico di fiducia Fulvio Tomaselli, e dall’altra i figli di Buzzanca, Massimiliano e Mario. La compagna denunciava lo stato di salute e di abbandono in cui versava l’attore sostenuta da Tomaselli che sui social scriveva: “La lotta di Francesca non era il matrimonio”, facendo un velato riferimento all’eredità dell’attore, bensì “la verità”. E, scriveva lei sui social, “farlo uscire”.

Secondo quanto riportato da Repubblica a far accendere la polemica sarebbe stato stato l’annuncio delle nozze all’agosto dell’anno scorso dell’attore con la presentatrice e attrice. Della Valle, 35 anni più giovane di lui, aveva puntato il dito contri i figli del compagno e sul settimanale Nuovo diceva: “Stanno osteggiando la nostra relazione”. Poi per Buzzanca iniziò il calvario della malattia e della demenza senile.

Su diversi giornali la donna aveva detto che “l’amministratore di sostegno, con il beneplacito del giudice tutelare, lo isola da me” e diceva di non essere stata avvisata nemmeno del trasferimento dell’attore nell’Rsa. La giornalista e conduttrice ha anche sostenuto di aver aspettato “15 giorni” per andare a trovare il compagno. E di essersi sentita più volte ripetere negli ultimi mesi da Lando Buzzanca stesso “portami via da qua”. E così il figlio Massimiliano Buzzanca aveva annunciato querele nei confronti di Della Valle e Tomaselli che sui social aveva raccontato le condizioni dell’attore 87enne. “Vorrei farvi vedere le immagini di Lando Buzzanca, ricoverato d’urgenza al Policlinico Gemelli dall’8 novembre. Non mi ferma la privacy, ma il rispetto per un’icona italiana famosa nel mondo”, aveva scritto su Facebook. Parlando poi dell’attore come di una “tragica ombra di se stesso, rannicchiato in un letto, scheletrico, sfinito, drammaticamente lucido”. La denuncia, in questo caso, è per “tutelare la privacy di mio padre”, aveva annunciato Massimiliano. E infine: “Francesca non poteva andare a trovarlo liberamente, doveva fare richiesta all’amministratore. Le dicevano che ci sono file lunghissime per andare a fargli visita, ma di fatto non ci andava nessuno“.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Marco Giusti per Dagospia il 19 dicembre 2022.

L’Homo Eroticus è morto. E con lui se ne vanno Michele Cannaritta, l’onorevole Puppis, Zazà il domestico, Giuseppe Cicerchia detto il Fimminaro, Demetrio Cultura detto Dedé, quello che ha stilato il decalogo per le mogli: “primo non rompere i coglioni”, Lollo il Gatto Mammone, Costanzo Nicosia alias Dracula in Brianza, Carmelo Lo Cascio, l’arbitro, l’Io di Io e lui (e lui indovinate chi è), Ariberto da Ficulle, Rosario Trapanese il vichingo venuto dal Sud, il Dottor Danieli, quello del complesso del giocattolo, Giangiacomo Tontodonati detto James Tont, il Michele Pantanò de La parmigiana, l’Antonio Ascalone di Sedotta e abbandonata, il Rosario Mulé di Divorzio all’italiana.

Con Lando, insomma, crolla tutta l’impalcatura del machismo italiano, centinaia di titoli e di personaggi costruiti sul meridionale arrapato e superdotato, addirittura l’uomo con tre palle da esportare in Brianza. Fa nulla se, per sembrare più civile prima e dopo il 68 lo si è visto grottesco, confuso, sterile, addirittura impotente.

Difficile avere un altro Lando. Avvocato, manager, ingegnere, industriale meridionale, prete e perfino sindacalista spesso e volentieri trapiantato al nord alle prese con una modernità tecnologica che non corrisponde sempre a una modernità di pensiero, soprattutto per quello che riguarda i rapporti con le donne, Lando rappresenta per lo spettatore maschio italiano del tempo, da fine anni ’60 a oltre la metà degli anni ’70, qualcosa di più di uno stereotipo del maschio italiano. E’ il campione di una virilità che non ha paura di confrontarsi con le donne evolute del nord o con i maschi poi non così maschi tedeschi o svedesi. E’ il maschio latino in cui gli spettatori di mezzo modo possono specchiarsi. Al punto che il morigerato cinema spagnolo, con la morte di Franco nel 1975, la prima cosa che fa è liberare i grandi titoli erotici dei film di Lando Buzzanca, che da noi era ormai in crisi, e decretarne un nuovo incredibile successo con le sale sempre piene. Dando vita a un nuovo genere di commedia sexy buzzanchiana che prima era vietata. In Sudamerica, dove i film di Lando si erano visti subito, era addirittura nata con lui la porno-chanchada brasiliana e le commedie sexy messicane, che hanno le stesse caratteristiche dei suoi film più celebri. Film che si sono visti anche in America. Nel 1971, grazie a “Il vichingo venuto dal sud”, “Il merlo maschio” e “Homo Eroticus”, che venne ribattezzato “Man of Year”, è definito addirittura the big one, il solo attore italiano in grado di fare incasso non una ma tre volte in un anno. Per noi, in Italia, che lo abbiamo seguito da piccolo attore negli anni ’60, c’è addirittura in un incredibile apparizione in “Ben-Hur”, da pupillo di Pietro Germi in “Divorzio all’italiana” e “Sedotta e abbandonata”, o caratterista allampanato della commedia all’italiana, “I mostri”, “Le monachine”, la sua esplosione di anno in anno, se non di mese in mese, si evolve proprio assieme alla rivoluzione sessuale del nostro paese. Come se ne fosse una grottesca conferma capovolta.

Del resto il suo personaggio è sempre stato contraddittorio. Così, dopo il lancio comicarolo di “James Tont operazione U.N.O.”, il cui successo provocò la separazione della coppia di sceneggiatori e (poi) registi di successo Gianni Grimaldi e Bruno Corbucci, Lando viene ripreso dalla commedia all’italiana costruita sul sesso, grazie alle attenzioni di Marco Vicario, Steno, lo stesso Grimaldi, Pasquale Festa Campanile. E’ il suo grande momento. Tra il 1968 e il 1974 quel che tocca Lando è subito un successo. “Un caso di coscienza”, “Il prete sposato”, “La prima notte del Dottor Danieli”, “Il vichingo venuto dal sud”, “Homo Eroticus”, “Il vichingo venuto dal sud”, “Jus primae noctis”, “L’uccello migratore”, furono successi incredibili in un’Italia che cercava di definirsi moderna, lontana dalla chiesa e dal moralismo democristiano. Il conto da pagare, più che col femminismo dilagante e con i giovani rivoluzionari all’italiana, sarà col cinema americano, che aveva pensato di poterne fare un vero attore di commedia internazionale.

Dopo gli esordi con Germi, aveva girato film importanti, come “Caccia alla volpe” di Vittorio De Sica con Peter Sellers, “Operazione San Pietro” di Lucio Fulci con Jean-Claude Brialy e Heinz Ruhmann, “Meglio vedova” di Duccio Tessari, girato in inglese, con Virna Lisi e, in un primo tempo, Richard Harris, che venne sostituito da Peter McEnery, “Quei temerari sulle loro pazze, scatenate, scalcinate carriole” di Ken Annakin, dove divide la scena con comici del calibro di Bourvil, Tony Curtis, Walter Chiari, Terry-Thomas.

Ma con l’esplosione del Lando comico erotico, Hollywood si allontanò per sempre. Ma si aprì un mercato molto più vasto e inatteso del previsto. Probabilmente sostituì, come comici meridionali, i troppo sfruttati Franco Franchi e Ciccio ingrassia, che avevano dato il meglio negli anni ’60 e negli anni ’70 iniziarono a rallentare la loro produzione. Non è un caso che Lucio Fulci, già regista dei due palermitani, sappia anche come trattare Lando in un piccolo capolavoro come “All’onorevole piacciono le donne”, che lanciò pure Laura Antonelli.

E non è un caso che esiste un film cerniera tra le due comicità, “Nel giorno del signore”, diretto da Bruno Corbucci nel 1970, un altro regista che avranno in comune, dove fanno delle buffe apparizioni. Devo dire che Lando non solo non si è mai proprio ritenuto un sostituto dei troppo popolari, per lui, Franchi e Ingrassia, comici di grana grossa, ma ha sempre dichiarata di non averli amati. 

Cosa curiosa e forse c’è qualcosa che non sappiamo, visto che lo zio di Lando, Gino Buzzanca, fece da padrino a Franco e Ciccio a più riprese a teatro, e venne ricompensato dai due picciotti con una serie di ruoli dove inevitabilmente a lui andava il ruolo di capo-famiglia. Eppure, eppure… esce fuori che proprio nel celebre spettacolo al Teatro Arena Igea di Messina della stagione 1950, dove si incontrarono per la prima volta Domenico Modugno, allora star del nostro spettacolo, e Franco e Ciccio, complice proprio Gino Buzzanca come “presentatore”, appaiano anche i nomi di certa Lucia Stev e certo “Lando Buzzi”. Essendo Gino zio di Lando, questo Lando Buzzi sarà proprio Lando.

Un Lando giovane che forse non vide bene che la fortuna di Franco e Ciccio nascesse proprio sotto i suoi occhi a Messina grazie allo zio Gino. Quel che credo, però, è che Lando prese il posto magari di Franco e Ciccio nelle preferenze del nostro pubblico, ma non ne ha mai ripetuto in nulla quel tipo di comicità popolare. Lando, forgiato da Germi e Lattuada, diretto da Steno e De Sica, è stato un comico moderno, per quanto i ragazzacci ideologicizzati del tempo lo trovassero un troglodita. Pagò quel tipo di popolarità che giocava tutto sul sesso. Al punto che si vide preferire, per il ruolo, importante, del siciliano “Paolo il caldo” diretto da Marco Vicario, il suo regista, da Giancarlo Giannini, solo perché era più alla moda pur non essendo per nulla siciliano. E lo prese come un affronto personale. Incazzato, ruppe con Vicario per sempre.

Anche se “Paolo il caldo” fu un grosso successo e Vicario ci vide bene a non farne quel che si diceva la macchietta alla Lando del personaggio del siciliano a Roma che si tromba tutte le donne del momento. Ma era ovvio che quel personaggio era puro machismo alla Lando. Senza Vicario, negli anni ’70, in Italia, non riuscì a ricostruire quel grande successo che aveva avuto i primissimi tempi dei suoi film da protagonista. E un film come “Io e lui”, diretto da Luciano Salce, tratto dal romanzo di Alberto Moravia, non solo non fu un successo, ma fu un vero smacco per la sua filmografia. Ohibò! Finì per essere, almeno in Italia, proprio mentre veniva adorato in Spagna e in Brasile, in Messico e in Argentina, un attore da commedia bassa. Un imbarazzo per il cinema italiano impegnato, mentre Umberto Eco bollava “grammaticamente, sintatticamente e semanticamente fascista” il linguaggio dei film erotici del tempo.

E il marchio di “fascista” Lando se lo porterà avanti per molto tempo. Tanto che non fece scalpore il suo appoggio politico a Gianfranco Fini e a Alleanza Nazionale nei primi anni ’90, che ne fecero di nuovo un bersaglio facile della cultura un po’ trinariciuta di sinistra del nostro cinema. Personalmente sono stato sempre amico di Lando, l’ho sempre stimato e apprezzato. Senza imbarazzi. Ho fatto con lui decine di programmi. E’ stato tra i primi che ho intervistato e ho parlato a lungo anche di politica con lui. Ma credo che per l’Italia dei giornali, Lando non sia mai uscito dall’immagine per eccellenza dell’homo eroticus, un macho siculo e grottesco, una sorta di proto-La Russa, non il bravo attore di enorme successo che era stato e ancora poteva essere.

Alessandra Comazzi per “la Stampa” il 19 dicembre 2022.

 Per un meraviglioso paradosso, era stato proprio Lando Buzzanca, Grande Maschio della commedia all'italiana e classicamente «di destra», a normalizzare l'omosessualità. Nel 2005, Rai1 trasmise «Io e mio figlio», con l'attore che era commissario a Trieste. Ottimi ascolti. Ma il motivo di interesse era, se non è troppo usare la parola trattando di tv, ideologico: il commissario scopriva l'omosessualità del figlio, poliziotto pure lui. E la accettava senza farla nemmeno troppo lunga. Notevole. Sulla linea di azione sociale del «compagno Fini» all'epoca. Era l'aria dei tempi. 

Tra il '99 e il 2002 Rai1 aveva realizzato «Commesse»: tra loro, pure un commesso gay. E con Lino Banfi, «Il padre delle spose», 2006, parlava addirittura di omosessualità femminile. Dunque Buzzanca. Commissario Vivaldi, magari tormentato ma accudente e accettante. E premiato con una seconda serie del personaggio. E poi ancora «Il restauratore» (2012-2014), regista Giorgio Capitani. Qui l'attore, ex poliziotto che era stato in carcere per aver ucciso chi gli aveva ucciso la moglie, impara a restaurare oggetti. E ha le visioni.

Tocca qualcosa appartenuto a qualcuno, e di quel qualcuno vede il nero futuro. Corsa contro il tempo per rimediare al destino. E insomma, personaggi tv non legati all'iconico «Merlo maschio» di Pasquale Festa Campanile o al marito geloso, e cornuto, nei «Mostri» di Risi, o al «Don Giovanni in Sicilia» di Lattuada, dal libro di Brancati. Fu davvero un protagonista importante della commedia all'italiana al cinema negli Anni 60 e 70 del 900, come sottolinea Masolino d'Amico nel volume che ha dedicato al genere. Buzzanca non era considerato un intellettuale dagli intellettuali. 

Aveva detto: «Sono sempre stato di destra, dalla sinistra arrivavano continue calunnie, mi definivano attore di serie b. Mi hanno danneggiato, ma non me ne è mai fregato niente. La gente mi vuole bene. Per 13 anni ho fatto attività politica in Alleanza Nazionale con Fini. Mi voleva fare senatore. Scherzando gli chiesi quanto prendesse al mese un senatore. Mi rispose 18 milioni. Io 18 milioni li prendevo in una settimana». Oltre al cinema, aveva nelle scarpe i palchi teatrali e, appunto, gli studi tv. Non solo le serie «avanti», ma anche «Ballando con le stelle» nel 2016 e lo strepitoso successo di «Signore e signora», varietà del '70: lui e Delia Scala marito e moglie, loro amici Bice Valori e Paolo Panelli, la suocera Paola Borboni. Che cast. Ogni bambino dell'epoca diceva: «Mi vien che ridere», imitando una sua mossa, e nelle case si cantava: «L'amore non è bello se non è litigarello». Intanto si discuteva, e si varava, la legge sul divorzio. Non erano mica scemi, negli Anni 70. Di sicuro non Buzzanca.

Valentina Lupia per “la Repubblica” il 19 dicembre 2022.

«È stato ammazzato dalla legge 604, quella sull'amministratore di sostegno », è dura e netta la denuncia di Francesca Della Valle, la compagna di Lando Buzzanca. L'ultimo atto della battaglia ad alta intensità che si sta consumando da più di un anno tra Massimiliano e Mario, i figli di Lando e la stessa Della Valle (supportata da Fulvio Tomaselli, medico e amico dell'attore) va in scena poche ore dopo la dichiarazione del decesso.

«Denuncerò chi lo ha abbandonato », minaccia dunque la giornalista che già in passato aveva attaccato i due figli ottenendo come risposta l'accusa - a volte velata a volte meno - di muoversi solo per questioni di eredità.

Buzzanca da tempo combatteva contro la demenza senile, venne rinchiuso in una residenza sanitaria assistenziale (una rsa), poi ricoverato d'urgenza al policlinico Gemelli di Roma. Le denunce a mezzo social della compagna dell'attore diventarono quotidiane: «Lo stanno assassinando », «L'hanno sequestrato», «Vogliono coprire una morte annunciata ». La donna chiese insistentemente che il compagno uscisse, perché non aveva «una malattia terminale ». Della Valle ce l'aveva contro «l'amministratore di sostegno», che «con il beneplacito del giudice tutelare » aveva isolato l'attore da lei.

Buzzanca è morto così in ospedale, senza che la famiglia, la compagna e il suo amico medico si siano chiariti e riappacificati. Anzi. I figli dell'attore nei giorni scorsi hanno annunciato denunce ed esposti. Il primo dei quali è proprio contro Della Valle: «Una sentenza ha stabilito che lei non ha alcun diritto nei confronti di nostro padre». La seconda è per Fulvio Tomaselli, il medico che sui social aveva raccontato in maniera dettagliata delle condizioni dell'attore 87enne con frasi che, secondo la famiglia Buzzanca, avrebbero leso la privacy dell'uomo. «Vorrei farvi vedere le immagini di Lando Buzzanca, ricoverato d'urgenza al Gemelli dall'8 novembre.

Non mi ferma la privacy, ho rispetto per un'icona italiana famosa nel mondo», aveva scritto di recente Tomaselli su Facebook parlando dell'attore come di «una tragica ombra di se stesso, rannicchiato in un letto, scheletrico, sfinito, drammaticamente lucido». La rsa, aveva aggiunto il medico, «non è un ospedale ma un luogo di assistenza. Lando avrebbe dovuto trascorrere lì 11 mesi ». E anche lui sostiene che «l'amministratore di sostegno» abbia «impedito che uscisse» e ostacolato gli incontri con Della Valle.

Giancarlo Dotto per Diva e Donna il 19 dicembre 2022.

“…Ma dimmi: al tempo d’ì dolci sospiri…”. Tutto si ferma in quei due minuti e quindici secondi. Si ferma il tempo. Si fermano le cose. Si fermano i rumori del mondo, la pioggia di fuori. Si ferma il mio respiro. Tutto arretra. Le televisioni e tutti i social del pianeta tacciono. Tutta la chiacchiera del mondo. I pub e i locali di Ponte Milvio, il quartiere della movida a Roma. Tutto lo sterminato fingere di dirsi qualcosa e di ascoltarsi. Tutto oscurato da un’eclissi che nessun telegiornale aveva preannunciato. Accade un prodigio e non so da dove arriva. 

Così, per due minuti e quindici secondi, in quella piccola stanza. Non mi resta che provare a raccontarlo, sapendo che è impossibile farlo.

Lando Buzzanca, avete presente, proprio lui, il merlo maschio, l’homo eroticus della commedia italiana? Si era appena alzato dal divano e si era allontanato con la sua camminata buffa, tra Pinocchio e Charlot. E la sua testa ferita, piena di cose smarrite e di cose che avrebbe voluto dire ma non riusciva a dire. Era tornato poco dopo con un foglio in mano in cui era trascritta la parte finale del canto V di Paolo e Francesca, dal cerchio dei lussuriosi. I versi che aveva letto nove anni prima in chiesa, al funerale dell’amatissima Lucia, moglie e madre dei suoi due figli. La compagna di una vita, se mai ce n’è stata una. “Leggevo e piangevo…”.

Stavamo insieme già da un’ora. Lui, io e Francesca della Valle, la donna che gli è vicino da quasi tre anni. “Francesca, come la mamma di Lando…”. Bionda, camicia maculata, stivali in pelle nera e zeppa, quarant’anni più giovane di lui. Giornalista, attrice, cantante, produttrice televisiva. È pugliese di Canosa, ma parla con un accento esotico. Lando aspettava per la verità l’idraulico. Tutto lo turba e lo agita di questi tempi, incluso il tubo che perde acqua. Sorride festoso, Lando, soprattutto quando è turbato, anche quando si presenta a casa uno che fa domande invece di aggiustare i tubi che perdono. Lando fa tanta fatica a parlare, inizia ogni volta a dire con entusiasmo, ma i suoni inciampano dentro un invisibile filo spinato, rotolano via, gli si spengono in bocca, la memoria lo tradisce, tutto s’interrompe e si confonde. Allora si arrabbia, lui che aveva una memoria mostruosa, altre volte si sconforta, e con lo sguardo cerca Francesca. Chiede a lei di completare quello che lui non riesce a dire.

“Che mi dici di questa donna?”, gli chiedo io. “Guardala…E’ una donna piena di…Diglielo tu…”. “…Virtù, sì virtù…”, s’illumina felice. Somiglia a Delia Scala, gli faccio io, la sua grandiosa partner di tanti varietà televisivi. “Mi avevano proposto cinque donne, ma io volevo solo lei… Bellissima Delia anche a 45 anni…”. Si confessa geloso grave di Francesca. “Le ho detto: se ti vedo che dai un bacio a qualcuno puoi anche scappare…Le donne quando amano sono meglio di noi. Noi uomini siamo come figli…”. Perde il filo. Poi, all’improvviso, si alza, sparisce, e torna con quel foglio in mano.

Non è più il Lando che conoscevo. L’uomo che incendiava ed erotizzava tutto ciò che guardava. Donne, uomini, cose. Le donne soprattutto. È tornato Gerlando, il ragazzo naif che un giorno salì sul treno per Roma con cinquecento lire in tasca, un pacchetto di sigarette e la scatola dei fiammiferi. Mollando tutto, Palermo, la famiglia, il liceo scientifico, lui primo di otto figli e urlando a se stesso indemoniato: “Voglio fare l’attore!”. Non aveva diciotto anni. Iniziò a Cinecittà facendo lo schiavo in “Ben Hur”, una comparsa tra le migliaia. Ora ne ha 83 di anni e ne ha vissute di cose e di set da protagonista. È tornato Gerlando, ma senza quel fuoco dentro e gli occhi di brace. Messo al tappeto prima dalla morte di Lucia e poi dalla malattia. Ma con una voglia di vivere illesa. E di guardare la sua bella donna. Ora il suo è un corpo a corpo eroico con la parola e con la memoria. Lando si lascia docilmente domandare e fotografare. Si è lasciato anche togliere i suoi mitologici baffi da lei. “Così sta molto meglio, sembra più giovane. I baffi mi ricordano mio nonno”, dice Francesca. Si lascia amare. Le donne sono state la sua vita, lo erano ieri e lo sono oggi. Elena, la governante che lo accudisce e Francesca che si lascia guardare. E’ tornato a 83 anni quello che non è mai stato, una creatura che ha bisogno di protezione.

Sta seduto ora di fronte a me, a pochi centimetri. E ha cominciato a leggere quel foglio. Senza occhiali. L’attimo stesso in cui ha cominciato tutto è finito. Avendo ascoltato tutti, Bene, Albertazzi, Gassman, Benigni, mi ritrovo ora ad ascoltare, discesa dal nulla, dalla voce tremante di un uomo ferito, la più straordinaria, commovente lettura della Divina Commedia di sempre. Un capolavoro. Senza il minimo dubbio. Non recitata, non declamata, nemmeno detta. Sospirata. Il sospiro all’uscita di “…la bocca mi baciò tutto tremante…”, la voce che si spezza, mi lasciano stecchito. Un sospiro che arrivava dall’anfratto del mondo dove l’origine e la fine della vita coincidono. Fino alla chiusa. “…E caddi come corpo morto cade.” La più grande prova d’attore. L’attore che la fa finita per sempre con l’attore. Solo il pudore mi ha impedito di abbracciarlo.Lando ha finito di leggere Dante e ora lo assilla di nuovo il tubo che perde. Tutto è ripartito, anche se niente è più come prima. Frammenti che affiorano, slanci che si perdono e monconi di frasi. Francesca completa, aggiunge, lo sostiene. Lo chiama “tesoro”, “amore”, col suo accento esotico. Dice di aver vissuto tre anni tra gli Emirati Arabi e Malta. “Sono tornata in Italia da due anni e mezzo solo per amore di Lando. Volevo lui, solo lui, per un mio corto sul femminicidio.

 Lando è l’ultimo dei grandi divi, un uomo elegante e raffinato anche nella rabbia. Mi colpì già da adolescente quando vidi al cinema “Divorzio all’italiana” e me ne stavo a Canosa di Puglia, la citta da cui è emigrato Lino Banfi.” Lando non guarda Francesca, la contempla. E’ la bella donna che gli riempie la vita. Guardarla lo consola e forse lo fa felice. “Sì, ma è ragazzina…e non lo sanno gli altri.”. Non chiede altro che guardarla e averla vicino.

“In primavera ci sposeremo”, annuncia lei. “Non abbiamo ancora deciso la data, ma sarà tra Roma e la Puglia. Di sicurò, mi sposerò in bianco. Sarà la mia prima volta”. Lui annuisce. Lei lo prende per la mano. “Confessalo Lando che non avevi mai corteggiato nessuna donna prima, solo me…”. Lui ha sempre detto e me lo ripete ancora, me lo fa capire, che le donne non vanno corteggiate, perché tanto decidono tutto loro. Ha amato solo due donne, Lando. “Mia moglie e Francesca.”. “Era prigioniero del suo lutto. Temeva di non potersi più innamorare. Con me è andato oltre…”.

Quarant’anni di differenza. “Ma non la sentiamo”, dice lei. “Siamo due bambini. C’è una grande complicità su tutti i fronti.” “La stessa età. Siamo cinquanta io e cinquanta lei.”, rinforza il concetto lui. “L’ho presentato anche ai miei”, dice Francesca. “È riuscito a emozionare mia mamma, una lady di ferro. Questa energia che lui emana. Ha conquistato anche mio padre…”. “Uomo straordinario…”, fa lui.  

La prima volta che ho incontrato Lando, sua moglie tornava a casa con le buste della spesa. La seconda volta, tre anni dopo, le sue ceneri stavano in un’urna sul comò in camera da letto. Dove stanno ancora oggi. “Una volta sola mi è venuta in sogno, entrava nella stanza da letto e mi portava un copione. Non l’ho più vista. Cose da pazzi.” Gli restano i due figli. “Sono affettuosi. Lo vengono a trovare spesso”, dice Francesca. “Soprattutto Massimiliano Maria che vive a Roma, mentre Empedocle Mario sta a Bangkok”.  Si scalda Lando quando parliamo di attori. Strabuzza gli occhi. “Tognazzi? Straordinario… Vittorio Gassman? Col teatro no... Quando ha fatto i film. Col cinema è diventato un grande attore vero….Che cavolo stavo dicendo? Ah sì, Salvo Randone, quella volta che mi buttai ai suoi piedi. “L’attore quando recita non deve fare l’attore…”, gli dico. E lui: “Minchia!…”. Avrebbe potuto diventare nel cinema una grande maschera come Totò, ma lui non voleva. “Non volevo fare il comico. Volevo fare tutti I personaggi.”, mi dice.  S’illumina quando cito Pietro Germi, il regista che lo ha scoperto. “Mamma mia che uomo straordinario!”. Le tante attrici. Laura Antonelli su tutte. “Non era bellissima, ma che femmina!...”. Gli salgono da chissà dove strani rimpianti. “Non riesco a dare un cazzotto. Qualche volta avrei dovuto farlo... L’ho fatto una volta sola con un produttore…Ma lui prima mi ha dato uno schiaffo. Non mi ricordo chi era. La memoria è andata via.”, sospira Lando. 

“Un malore di quasi quattro anni fa, una sorta di ictus. Credo sia stato anche in coma per un periodo, io non c’ero ancora al suo fianco.”, racconta lei. Affiorano ricordi. Lampi di memoria. “Stavo facendo un film, “Il Restauratore”, e uno stronzo, come cavolo si chiama, mi ha detto quelle cose...e mi hanno portato all’ospedale.”. “…Ma sta recuperando con la terapia...”, lo accarezza lei. I giornali avevano scritto di un suo tentato suicidio. Che si era tagliato le vene nella vasca da bagno di casa. Lui aveva anche confermato all’epoca. Lei nega decisa, lui annuisce. “Nessun suicidio. Solo un malore. Lando non è un vigliacco. Non l’avrebbe mai fatto. Abbiamo un patto di amore eterno, lui e io. Arriviamo a 145 anni e poi rinnoviamo. Vero amore mio? È l’amore eterno questo…”.

In attesa di sposarsi, si fanno compagnia. “Cantiamo e balliamo insieme. “La vie en rose” è la canzone preferita di Lando...”. “Quella donna straordinaria, la Piaf…Era brutta così brutta, ma poi…La musica…le musiche dei film mi commuovono sempre.”, sospira lui. “Si commuove soprattutto quando vede Love story”. E progettano cose insieme. “Abbiamo una nostra sit com nel cassetto con tanto di progetto e puntata pilota. Si chiama “Casa Buzzanca”. Racconta di noi, del nostro amore. Lui è straordinario, fa quello che è diventato oggi, un uomo di casa, spolvera, lucida, controlla i rubinetti.”. Non dormono insieme. “Solo dopo il matrimonio, io sono vecchia guardia…”, fa lei. Non hanno ancora deciso il viaggio di nozze. Lui ha le idee chiare. “Voglio fare una crociera...”. “Lo porterò a Malta, ci tiene tanto Lando a conoscere la mia seconda terra. Non c’è mai stato… Nulla ci divide, solo una cosa. Io amo il cibo giapponese e lui no. Mon dieu! È una tragedia.”

Massimiliano Buzzanca: «Mio padre Lando abbandonato? Meglio tacere. Per me è il giorno del dolore». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.

Dopo la morte dell'attore, il figlio racconta gli ultimi giorni: «Fino a domenica stava bene poi si è spento. Verrà cremato e riposerà per sempre vicino a mamma»

Massimiliano e Lando Buzzanca

«Fino a domenica stava bene. Dopo la caduta di novembre il suo fisico ne aveva risentito, ma pensavamo che a Villa Speranza si riprendesse, che tornasse a casa. Poi è arrivata la febbre, forse un’infezione: da giovedì era affaticato, stanco. Non mangiava. Si stava spegnendo. Se avesse potuto parlare mi avrebbe detto: “È modo de campa’ questo?». Massimiliano Buzzanca ripercorre così gli ultimi giorni di Lando.

Cosa le mancherà di più di suo padre?

«Quello che mi è mancato in questi ultimi due anni, da quando ha cominciato a stare male: i suoi consigli di vita, anche se a 59 anni non gliene chiedevo più tantissimi. E i suoi consigli di mestiere».

Quali «dritte» le dava?

«In realtà ero io che gliele chiedevo. Tante. Lui mi suggeriva come affrontare un personaggio. E poi aggiungeva: “Guarda dentro di te. Scava. E troverai la risposta. E ricordati, in teatro si parla, non si recita. Tutto deve sembrare vero, non artefatto”».

E nella vita di tutti i giorni cosa le mancherà di più?

«Mi mancherà tutto, ma due cose di più. Le sue telefonate il sabato e la domenica mattina, quando avrei potuto dormire, e la sua voce che mi chiede: “Sei sveglio?”. Io rispondevo: “Eh, ora sì”. “Mi prendi il giornale?”. Lui abitava a 50 metri dall’edicola e io a 10 chilometri».

E la seconda?

«Il suo negare che stava invecchiando. Non voleva operarsi alla cataratta, ma poi sbagliava tasto del telecomando della tv e pensava che si fosse rotta. E io lo prendevo in giro».

Come lo saluterà?

«Noi Buzzanca non siamo di tante parole. Ci bastava guardarci negli occhi».

Cosa risponde a chi vi accusa di averlo abbandonato?

«Oggi è il giorno del silenzio, preferisco lasciar correre».

Dove riposerà Lando?

«Papà verrà cremato. E la sua urna tornerà a casa. E sarà per sempre vicino a mamma».

Il medico di Lando Buzzanca: «Oggi è senza denti e pesa 50 kg. Io non riesco a mettermi in contatto con lui dall’aprile 2021». Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.

Fulvio Tomaselli spiega perché ha reso pubbliche le condizioni di Lando Buzzanca, ricoverato al Policlinico Gemelli: «Soffriva di afasia e per un attore non è il massimo. È come per un pianista perdere una mano» 

«Oggi di Lando Buzzanca resta un 10% di quello che era. In tutti i sensi. Era alto 1 metro e 87 centimetri e pesava 83 chili. Fino al 2021 aveva un fisico perfetto, al di là della sua arguzia e della sua simpatia. Oggi è un uomo rattrappito, emaciato, senza denti e peserà sì e no 50 chili. Una sua gamba è quanto il mio braccio»: sono queste le parole che usa Fulvio Tomaselli per descrivere le condizioni di salute del suo assistito, oggi ricoverato al Policlinico Gemelli, dopo una caduta dalla sedia a rotelle nella Rsa (Residenza sanitaria assistenziale, ndr) in cui si trovava da un anno circa. «Quale sia non posso dirlo e comunque ha poca importanza. Le Rsa non sono luoghi di cura».

Perché abbia fatto quel lungo post sui social lo spiega direttamente Tomaselli: «Io non riesco a vedere Lando dal 21 aprile dello scorso anno. Ma lavorando da 50 anni nella sanità riesco ad avere notizie indirette sulle sue condizioni di salute . E quando mi hanno raccontato come è arrivato al Gemelli due settimane fa, non ci potevo credere. Ieri poi Francesca (Della Valle, la compagna, ndr) è riuscita a fargli visita e ne ho avuto conferma: sonnecchiava, ha mangiato a fatica, aveva piaghe da decubito e a lei ha bofonchiato: “Portami via”».

Ma cosa è accaduto il 21 aprile del 2021? « Lando, la notte dopo la somministrazione della seconda dose di vaccino anti Covid all’Auditorium, ha avuto un malore ed è caduto — ricorda Tomaselli —. È stato trovato la mattina seguente in terra dalla cameriera. Non voglio dire che la causa sia il vaccino, magari sarebbe caduto lo stesso. Ma dopo che venne chiamata l’ambulanza, Lando fu portato all’ospedale Santo Spirito di Roma. Io chiamai per mettermi a disposizione dal momento che conoscevo la sua storia clinica, ma da allora non ho più potuto mettermi in contatto con lui».

La conoscenza tra Buzzanca e Tomaselli risale a otto anni fa. «Era il 2014 quando mi cercò per risolvere dei problemi vascolari – spiega ancora il dottore -. Io sono un angiologo e lui voleva fare prevenzione, per questo aveva anche fatto logopedia. Lando soffriva di afasia, ovvero non riusciva a pronunciare le parole. E questo per un attore non è il massimo. È come per un pianista perdere una mano. Ma non ho mai visto in lui segni di demenza senile, come non ho mai visto nessun certificato medico che lo attesti. Tanto che nonostante i tentativi, Buzzanca non è stato interdetto dal giudice tutelare, ma ha un amministratore di sostegno. Che poi la legge che lo istituisce, la 6 del 2004, sia da abolire, anche per salvare Nando, è un altro discorso».

Clarida Salvatori per il “Corriere della Sera” il 25 novembre 2022. 

«La tragica ombra di se stesso, rannicchiato in un letto, scheletrico, sfinito, drammaticamente lucido». 

Quasi impossibile, ricordandolo nei suoi film o mentre calcava un palcoscenico, credere che queste parole siano riferite all'attore Lando Buzzanca, 87 anni. Eppure ne parla in questi termini il suo dottore Fulvio Tomaselli, in un post su Facebook: «Vorrei farvi vedere le immagini di Lando, ricoverato d'urgenza al Policlinico Gemelli dall'8 novembre. Non mi ferma la privacy, ma il rispetto per una icona italiana famosa nel mondo. Le "amorevoli cure" dichiarate nel ricovero in Rsa dal 27 dicembre hanno travolto un uomo che un anno fa camminava e parlava».

A sottolineare il tutto lo sfogo della sua compagna Francesca Della Valle: 36 anni più giovane di Buzzanca, al suo fianco da 6. «La Rsa in 11 mesi ha distrutto Lando. Ora è ricoverato al Gemelli, dove è curato per denutrizione e piaghe da decubito. Spero non sia troppo tardi! - scrive su Facebook -. 

Chi ha "imprigionato" un uomo sano, forte e libero come lui è l'applicazione della legge 6/2004 (la norma che ha introdotto l'amministratore di sostegno, ndr ). Un amministratore in linea con i figli, con il beneplacito di un giudice tutelare, hanno fatto di tutto perché Lando non tornasse a casa. Questa è verità documentata. Il resto è vergogna». 

Riferimento esplicito ai figli di Buzzanca che durante la pandemia si erano rivolti a un giudice tutelare perché assegnasse un amministratore di sostegno per il patrimonio al padre. «Ctu ed esami - aveva spiegato Massimiliano - hanno confermato problemi di capacità comprensiva e mnemonica». Le condizioni di Buzzanca oggi non sono gravi e non è in pericolo di vita. Ma a influire sulla sua salute sono l'età e il suo stato psico-fisico generale. Anche l'infezione che era stata riscontrata al suo ingresso in ospedale è in via di guarigione e le dimissioni sono previste a breve.

Il figlio di Lando Buzzanca: «Papà c’è ancora, ma la sua testa non c’è più. Pagherei perché mi riconoscesse». Storia di Clarida Salvatori su Il Corriere della Sera il 25 novembre 2022.

Dopo il post su Facebook del dottor Fulvio Tomaselli sulle condizioni di salute di Lando Buzzanca, da giorni ricoverato al Policlinico Gemelli dopo la caduta da una sedia a rotelle, parla Massimiliano, attore, 59 anni, figlio del grande interprete cinematografico e teatrale.

Ha avuto modo di vedere il post del dottor Tomaselli, il medico di suo padre? «Il post l’ho visto. Sul fatto che Tomaselli sia il medico di mio padre... Ho sempre accompagnato papà a tutte le visite, specie negli ultimi anni perché non volevo che guidasse. Tomaselli: mai visto né sentito. E in casa non ci sono sue ricette o sue fatture per le prestazioni sanitarie. Ho deciso di presentare una denuncia querela alla procura e all’Ordine dei medici perché esiste il diritto alla privacy per tutti e non è possibile che certa gente parli e sparli della salute di mio padre sui social».

Proviamo a riavvolgere il nastro, a tornare a un anno fa, e a capire come Lando Buzzanca finisce in una Rsa (Residenza sanitaria assistenziale)? «Finisce in una Rsa per decisione dell’amministratore di sostegno, dopo la caduta in casa, dopo le dimissioni prima dall’ospedale Santo Spirito, dove viene portato in ambulanza, e poi dal Santa Lucia, dove era stato trasferito per la riabilitazione. Quello stesso giorno purtroppo io ebbi un incidente stradale piuttosto grave, in cui riportai la frattura di otto costole e un pneumotorace. Quindi riuscii a rivederlo quando era già nella residenza».

Ha avuto sentore che suo padre stesse male nella Rsa? «No, anche perché ci venne consigliata dalla moglie di Carlo Delle Piane: lì era stato ricoverato anche lui. Però quando lo rividi effettivamente mi era apparso dimagrito e chiesi al personale della struttura, ma mi fu detto che era normale per un uomo della sua età e con le sue problematiche cardiache».

Quando ha cominciato a notare un peggioramento delle sue condizioni di salute? «Da anni non era più come prima. Quando nel 2016 aveva partecipato a Ballando con le Stelle, tanti colleghi mi avevano chiamato per chiedermi come stava perché lo vedevano “diverso”. E già da allora lui girava con un bigliettino nella tasca in cui era scritto il suo nome, il cognome, l’indirizzo di casa e il mio numero di cellulare. Ma, da grande attore quale era, riusciva sempre a dissimulare. Poi dopo la caduta del 2021 è peggiorato: ha perso lucidità, ha cominciato a non riconoscere più nessuno, a parlare per lallazioni, proprio come i bambini».

Il medico, e non solo lui, sostiene però che Lando Buzzanca sia ancora lucido. «A papà è stata diagnosticata una demenza senile grave, uno stato che è partito dall’afasia. Papà c’è ancora, ma la sua testa non c’è più. E per questo ho dei sensi di colpa fortissimi: continuo a chiedermi se non avessi potuto accorgermi prima di quello che gli stava accadendo, se non avessi potuto fare di più. E il solo pensiero di essere accusato di fargli del male mi fa una grande rabbia... Anche perché è una persona e una personalità talmente immensa che non si può pensare che dietro ci sia un complotto e che passi inosservato. Il personale dell’Rsa, i medici del Gemelli, se avessero avuto un solo dubbio su eventuali maltrattamenti, per altro ai danni di un personaggio pubblico, ci avrebbero già denunciato ai carabinieri e avremmo i fucili puntati contro».

Da quando è ricoverato al Gemelli ha avuto modo di vederlo? «L’ultima volta 24 ore fa. Quando è arrivato dormiva agitato e si lamentava. Aveva un ematoma sulla fronte. Ieri invece dormiva sereno».

Dopo il ricovero, cosa lo aspetta? «Credo un percorso in una struttura riabilitativa. Poi spero possa tornare a casa, dove ci siamo trasferiti per stare con lui e dove stavamo già preparando la sua stanza per accoglierlo come in una camera di ospedale, con monitor, ossigeno e infermieri ad assisterlo».

Ha avuto modo di capire cosa sia accaduto in Rsa? Come suo padre sia caduto? «Ho avuto modo di vedere come lavorano, quanto sono attenti e mi sono risposto che una distrazione può capitare a chiunque. Certo mi chiedo perché proprio a mio padre. Ma se io faccio causa alla struttura, rovino un lavoratore, perché verrà certamente licenziato, e io con i soldi che ottengo che me ne faccio? Una vacanza? Papà mi ha insegnato che chi lavora va sempre tutelato».

Se Lando potesse parlarle ancora una volta... «Pagherei perché mi riconoscesse e mi chiamasse ancora una volta Massimiliano. Lui non ha mai abbreviato il mio nome, mi ha sempre chiamato Massimiliano. Cosa mi direbbe? Professionalmente mi farebbe i complimenti per il mio percorso. Personalmente mi pregherebbe: “Se mi vedi senza dignità, lasciami andare”».

Lando Buzzanca ricoverato in ospedale. Il figlio: "Denuncerò il medico per violazione della privacy". Redazione Spettacoli su La Repubblica il 25 Novembre 2022.

Malato da tempo, l'attore ha perso trenta chili negli ultimi mesi. Dopo una caduta nella rsa dove era ricoverato si è sottoposto a tre tac

Lando Buzzanca è ricoverato dall'8 novembre al policlinico Gemelli di Roma. L'attore è stato trasportato d'urgenza nell'ospedale dopo essere caduto dalla carrozzina nella rsa dove era ricoverato. Lo ha raccontato il figlio Massimiliano aggiungendo che l’attore, 86 anni, ha battuto la fronte: "Per questo si sono rese necessarie tre tac, anche se non ci sono stati traumi", ha spiegato. Molto più preoccupante il quadro presentato da Fulvio Tomaselli, amico e medico dell'attore. Medico a cui potrebbe arrivare una denuncia proprio da parte del figlio che lo accusa "di aver violato la privacy della famiglia".

Il medico dell'attore: "È sfinito, scheletrico e rannicchiato in un letto"

"Buzzanca dopo le 'amorevoli cure' in una rsa, è sfinito. Un anno fa parlava e camminava, ora è scheletrico e rannicchiato in un letto", ha detto il dottor Tomaselli. "Vorrei farvi vedere le immagini di Lando Buzzanca, ricoverato d'urgenza al Policlinico Agostino Gemelli dall'8 novembre", ha aggiunto. L'attore avrebbe perso 30 chili negli ultimi mesi.

In merito alle dichiarazioni - "Lo hanno sequestrato per annientarlo" - rilasciate da Francesca La Vacca, compagna di Lando Buzzanca, Massimiliano ha invece fatto sapere: “C’è una sentenza in appello che dice che la signora La Vacca non ha diritti nei confronti del signor Buzzanca e che non è neanche da considerare una compagna. Rilasciare dichiarazioni del genere è un comportamento moralmente censurabile, indegno di un essere umano. Evidentemente il cognome ‘Buzzanca’ fa gola a tante persone. Sono una furia, ecco perché ho dato immediatamente mandato agli avvocati di agire, affinché tutta questa storia finisca. Se papà fosse stato lucido avrebbe reagito con violenza di fronte a queste meschinità, per lui la famiglia non si tocca. E se ci fosse vero affetto nei suoi confronti, come qualcuno dice, sarebbe stato protetto e non messo alla mercé di questi leoni da tastiera che si permettono di scrivere falsità sui social”.

La carriera di Lando Buzzanca

Grazie soprattutto ai film girati negli anni Settanta, Lando Buzzanca è stato a lungo visto attraverso lo stereotipo del maschio italiano, attore spesso impegnato nei ruoli del tipico siciliano, amante o marito geloso. Questo nonostante gli inizi promettessero una carriera di diverso spessore dopo che nel 1961 Pietro Germi lo chiamò prima per interpretare il personaggio di Rosario Mulè in Divorzio all’italiana e poi nel 1964 per quello di Antonio in Sedotta e abbandonata.

Nato nel 1935 a Palermo in una famiglia di attori (lo erano sia il padre che lo zio), Buzzanca si è trasferito a Roma quando aveva 17 anni. Nella capitale ha frequentato i corsi di recitazione all’Accademia Sharoff, di cui è poi divenuto presidente onorario, e ha cominciato con il teatro, prima di dedicarsi al cinema.

Proprio per quella caratterizzazione del tipico maschio siciliano, anche un po’ tonto, Buzzanca è stato relegato dalla critica cinematografica tra i caratteristi, anche se dopo l’inizio con Germi nel 1967 lo volle anche Alberto Lattuada per interpretare il suo film Don Giovanni in Sicilia.

Lando Buzzanca, dalla tv alla commedia sexy

Gli anni Settanta si aprono per Buzzanca con il successo in televisione del programma, in coppia con Delia Scala, Signore e signora in cui si ricorda la battuta “mi vien che ridere” che diventerà un tormentone. Poi ecco i film che consolideranno la sua immagine di maschio ruspante, alcuni caratterizzati da una vena comica che incontra il favore del grande pubblico: Homo eroticus di Marco Vicario, la commedia sexy Il merlo maschio (1971) e Quando le donne persero la coda (1972) entrambi per la regia di Pasquale Festa Campanile, e poi i film in cui tratteggia personaggi realmente esistenti come Il sindacalista di Luciano Salce (1972) e All’onorevole piacciono le donne, di Lucio Fulci (1972) e L’arbitro di Luigi Filippo D’Amico (1974).

E ancora, Jus primae noctis, ancora nel 1972 con Pasquale Festa Campanile, L’uccello migratore di Steno (1972), Io e lui di Luciano Salce (1973) e La schiava io ce l'ho e tu no di Giorgio Capitani (1973). In totale, nel decennio girerà 21 film molti al fianco delle attrici più desiderate e famose del momento, da Claudia Cardinale a Catherine Spaak, da Barbara Bouchet a Senta Berger e Joan Collins.

Le commedie sexy negli anni Ottanta divennero una moda, ma Buzzanca a un certo punto si rifiutò di continuare ad alimentare l’immagine del maschio italiano e in particolare siciliano, preferendo al cinema la radio in cui, per alcuni anni, fu conduttore di programmi di grande successo come Gran Varietà  e Buzzanco, proiezione radiofonica del personaggio inventato per la tv a Signore e signora.

Buzzanca e il successo con le fiction

Dopo alcuni anni di attività in teatro, nel 2005 Buzzanca torna alla tv con la fiction Mio figlio, in cui interpreta il padre di un ragazzo omosessuale con enorme successo di pubblico. Nel 2007 lo vuole per I Viceré il regista Roberto Faenza, grazie al quale ha vinto il Globo d’oro come miglior attore. Della serie Mio figlio è stato realizzato il sequel Io e mio figlio – Nuove storie per il commissario Vivaldi, andato in onda nel 2010 stesso anno di Lo scandalo della Banca Romana e Capri 3.

Lando Buzzanca è stato sposato con Lucia Peralta per 57 anni. Dal loro matrimonio sono nati Massimiliano e Mario. Nel 2016 l’attore ha conosciuto la sua nuova compagna, Francesca Della Valle, di 35 anni più giovane.

Lando Buzzanca, il medico replica al figlio dell'attore: "Cerco solo di restituirgli la dignità". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 26 novembre 2022.

Con un lungo post su Facebook Fulvio Tomaselli racconta la sua versione dei fatti dopo le minacce di querela, da parte del familiare, per violazione della privacy

Una nuova puntata si aggiunge alla triste vicenda che da qualche giorno vede protagonista Lando Buzzanca. Fulvio Tomaselli, che si definisce medico di fiducia dell'attore, reagisce alle minacce di querela per violazione della privacy che gli ha mosso Massimiliano, il figlio dell'attore 87enne ricoverato dal 27 dicembre del 2021 in una Rsa romana e di recente al policlinico Gemelli di Roma a causa di una caduta, dopo le notizie pubblicate sulla sua salute. E, scrivendo un lungo post su Facebook racconta la sua versione dei fatti.

"Scusami Lando - scrive Tomaselli - se cerco di ridare dignità alla tua persona, se cerco da mesi di riportarti a casa tua per farti avere cure che non potevano esserti date, perché ricoverato in luogo non idoneo a questo. La tua famiglia dice che cerco pubblicità, forse la calunnia peggiore; e da che pulpito giunge la predica! Scusami - prosegue il medico - se non ci sono riuscito, permettendo un tuo deperimento fisico e del linguaggio terrificante, per averci provato da maggio 2022 la tua famiglia ha fatto di tutto per screditarmi, assistendo alla tua tragica caduta libera. Ho interpellato l'assessorato alla salute, che ha inviato medici Asl a vederti".

"Scusami se non ho avuto la forza di continuare a curarti da vicino, ma non mollerò, le responsabilità verranno a galla. Cercano di girare il tutto in gossip è senz'altro più appetitoso. Ora 'grazie' a una caduta dalla carrozzina sei in una struttura eccezionale che farà di tutto per ridarti parte di quello che hai perduto e ti dimetterà; e poi? Questa atroce domanda ci risuona nelle orecchie".

Lando Buzzanca compie 87 anni: dall’amore per Lucia e Francesca al mistero sulle sue condizioni di salute. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 24 Agosto 2022

E uno dei più grandi attori italiani viventi. Dopo la morte della moglie Lucia, al suo fianco per più di 50 anni, non aveva più la forza di vivere. Poi ha incontrato la sua attuale compagna

Situazione pericolosa

Nato in Sicilia nel 1935, Lando Buzzanca, tra i più grandi attori italiani viventi, compie 87 anni il 24 agosto. All’età di 17 anni un giovanissimo Lando parte per Roma, nella speranza di poter diventare un grande attore. Arrivato nella capitale, si iscrive alla famosa Accademia Sharoff dove studia a capofitto per farcela: a quei tempi per arrivare alla fine del mese Lando svolgeva tante attività, tra questi anche quello del gigolò. A raccontarlo è stato lo stesso Lando: un giorno, dopo essere finito in una situazione molto pericolosa, decise di mollare tutto e dedicarsi esclusivamente al mestiere di attore.

L’amore

Nel 1956 Lando si è sposato con Lucia, donna con cui è rimasto per 57 anni. Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2010, Lando aveva perso la forza e la voglia di vivere tanto che nel 2013 avrebbe provato anche a togliersi la vita, non riuscendoci. A salvarlo dal baratro è stato l’incontro con la sua attuale compagna, di 35 anni più giovane, Francesca Della Valle.

L’incidente

La compagna Francesca Della Valle ha reso pubblico un incidente avvenuto all’attore, ricoverato nell’aprile 2021 all'ospedale Santo Spirito di Roma. Stando al suo racconto, l'attore siciliano sarebbe rimasto vittima di un incidente domestico a causa del quale ha riportato un trauma cranico. "L'incidente domestico si è verificato il giorno dopo il vaccino, il 21 aprile - ha detto in un'intervista rilasciata a Fanpage - era contento di farlo, perché per lui era un grido di libertà. Lando, però, era debilitato ed è caduto, riportando un trauma cranico. Ci tengo a evidenziare che il malore è stato causato dal fatto che fosse debilitato da un punto di vista psicofisico, non dal vaccino".

Lo sfogo del figlio

Il 7 agosto è arrivato uno sfogo lungo e articolato quello che Massimiliano Buzzanca, figlio di Lando, celebre attore palermitano, ha affidato a Facebook per smentire le notizie che vogliono il padre ricoverato in una rsa, "detenuto, segregato, contro la sua volontà". Frasi pubblicate da Dagospia e riferite dalla fidanzata di Buzzanca. "L’unica cosa vera, di quell’articolo, è che Lando Buzzanca, mio padre, è ospite di una rsa, per una serie di complicazioni fisiche e mediche, intervenute successivamente al suo incidente dello scorso 21 aprile 2021”.

Comparsa in Ben Hur

La sua carriera iniziata negli anni ’50 come comparsa per un film importantissimo come Ben Hur. A Roma è riuscito a farsi strada iniziando con un grande maestro come Pietro Germi nel suo Divorzio all’Italiana, datato 1961.

Da tg24.sky.it il 21 dicembre 2022.

Alle 12 a Roma, nella Chiesa degli Artisti, si sono celebrati i funerali dell’attore Lando Buzzanca, morto lo scorso 18 dicembre. Aveva 87 anni e una lunghissima carriera alle spalle: si è spento dopo un anno trascorso in un Rsa, seguito da un ricovero in ospedale e poi in un centro di riabilitazione 

Gerlando Buzzanca, detto Lando, nasce a Palermo il 24 agosto 1935 da una famiglia di attori. Studia recitazione alla celebre Accademia Sharoff tra un lavoro saltuario e l'altro 

A 17 anni si trasferisce a Roma. L'esordio al cinema arriva nel 1959 in un film storico, non solo per l'ambientazione. Si tratta di Ben-Hur, dove l'attore appare nella piccola parte di uno schiavo.

Buzzanca aveva due figli, Massimiliano e Mario. Dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2010, aveva perso la forza e la voglia di vivere tanto che nel 2013 tentò anche di togliersi la vita, non riuscendoci. A salvarlo dal baratro fu l'incontro con la sua nuova compagna Francesca Della Valle di 35 anni più giovane 

L'ultima fase della sua vita è stata segnata da ricoveri e polemiche. Dopo un anno in Rsa, la compagna Francesca Della Valle e il medico Fulvio Tomaselli avevano denunciato lo scorso novembre il declino dell'attore avvenuto nei mesi del ricovero in Rsa. Il figlio Massimiliano aveva quindi detto di voler denunciare entrambi "per tutelare il padre e la sua privacy"

"Papà avrebbe voluto vederci sorridere, non avrebbe voluto vederci troppo tristi”, ha detto il figlio Massimiliano poco prima dei funerali. “Vi avrebbe abbracciato tutti. Avrebbe fatto un selfie con ognuno di voi. Noi siamo fieri di quello che ci ha insegnato papà e di come siamo diventati. Ci ha insegnato a essere delle persone per bene" 

Francesca Della Valle, compagna di Lando Buzzanca, ha disertato il funerale ma ha scritto un duro post su Facebook. "Chi avrebbe potuto salvare Lando, non è intervenuto. Bisogna amare da vivi, non fingere dopo la morte. Ora si che si apre il sipario della #verità. La ricerca della #giustizia sarà la mia forza", ha scritto Della Valle impegnata da tempo in una diatriba col figlio dell'attore Massimiliano

"Ho preferito non partecipare al 'funerale dell'ipocrisia'. Il mio amato Lando non avrebbe gradito -scrive nel post Della Valle- Chi avrebbe potuto salvare Lando, non è intervenuto. Bisogna amare da vivi, non fingere dopo la morte. Ora si che si apre il sipario della #verità. Mi scuso con le Tv e con la Stampa che mi ha cercato ma ho preferito rimandare ogni mia dichiarazione perché il dolore è immenso, mi spezza la voce. La ricerca della #giustizia sarà la mia forza. Per sempre, amor mio" 

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa ha ricordato e "omaggiato con un applauso" l'attore Lando Buzzanca, scomparso pochi giorni fa. Lo ha fatto in occasione degli auguri di Natale con la stampa parlamentare. Ai funerali presente tra gli altri il senatore Maurizio Gasparri

·         E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.

Da corriere.it il 17 dicembre 2022. 

Si è spento oggi improvvisamente il giornalista Mario Sconcerti, 74 anni, storico editorialista del Corriere della Sera. Sconcerti era ricoverato da qualche giorno in ospedale per alcuni accertamenti di routine. Fino a venerdì ha continuato a dare il suo contributo di idee al nostro giornale di cui era una delle firme più prestigiose. Sconcerti è stata una delle firme storiche del giornalismo sportivo italiano, già direttore del Corriere dello Sport e del Secolo XIX. Nel corso della sua carriera è stato anche direttore generale della Fiorentina.

Morto Mario Sconcerti, firma del calcio e del Corriere della Sera. Era ricoverato per accertamenti. Storia di Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022

Si è spento oggi improvvisamente a Roma il giornalista Mario Sconcerti, 74 anni, storico editorialista del Corriere della Sera. Sconcerti era ricoverato da qualche giorno in ospedale per alcuni accertamenti di routine. Fino a venerdì ha continuato a dare il suo contributo di idee al nostro giornale di cui era una delle firme più prestigiose. Sconcerti è stata una delle firme storiche del giornalismo sportivo italiano, già direttore del Corriere dello Sport e del Secolo XIX, nel 1978 ha fondato le pagine sportive del quotidiano La Repubblica, ed ebbe il merito di valorizzare ancor più le firme del giornalismo sportivo italiano che chiamò a lavorare con lui: da Gianni Brera a Gianni Mura, da Mario Fossati a Emanuela Audisio. Vice direttore della Gazzetta dello Sport, è stato a lungo un volto noto di Sky e della Rai e successivamente delle trasmissioni sportive di Mediaset. Nel corso della sua carriera è stato anche amministratore delegato della Fiorentina di Cecchi Gori, una parentesi professionale che Sconcerti ha definito «la più bella della mia vita». Scrittore, studioso, inviato, la notizia della sua scomparsa ha lasciato sconvolti tutti nel mondo del calcio, del giornalismo sportivo e non solo.

Le nostre condoglianze più sentite alla moglie Rosalba, alla figlia Martina e a tutta la sua famiglia. Mario lascia un vuoto incolmabile. Lascia noi del Corriere attoniti e senza parole, le sue chiamate in redazione erano momenti di confronto, di dibattito ma anche di conversazioni affettive. ( Qui il ricordo di Domenico Calcagno: «Addio Mario: eri un gigante, persona gentile e meraviglioso compagno di cene»)

Martina Sconcerti ha diffuso via Twitter un omaggio toccante: «Ciao papà, te ne sei andato con un colpo di scena, proprio come volevi tu. E come volevi tu, ne stanno parlando tutti. E io lo so che faccia stai facendo... ovunque sei, sarai sempre con noi. Ti vogliamo bene»

Persona di grande cultura e spessore umano, Mario era ironico ma sempre puntuale nei suoi interventi. Talvolta divisivo per la estrema lucidità delle sue analisi, senza mai fare sconti e senza spirito di parte. Tifoso della Fiorentina, alla sua squadra non ha mai sottratto critiche quando le ha ritenute opportune. Il suo giornalismo è sempre stato apprezzato dai lettori, anche sul web l’analisi del lunedì era attesa con particolare interesse. Era ricoverato a Roma ma ieri aveva rassicurato molti amici che entro Natale avrebbe fatto rientro a casa. La moglie ha raccontato che un malore lo ha colto in maniera improvvisa e a nulla sono serviti i tentativi dei medici per rianimarlo.

Ha commentato i Mondiali, fino al ricovero, una decina di giorni fa, e l’ultimo suo contributo è stato sugli ottavi di finale del torneo in corso a Doha.

Mario Sconcerti. Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Firenze 24 ottobre 1948. Giornalista. Opinionista del Corriere della Sera e di Sky. Ha diretto Secolo XIX e Corriere dello sport, è stato vice direttore della Gazzetta e amministratore delegato della Fiorentina • «Fiorentino dalla culla e nelle viscere. Talento ruspante, dialettica impetuosa, grande considerazione di sé. Portò lo sport a ”Repubblica”, è stato vice-direttore della ”Gazzetta dello Sport”, direttore del ”Secolo XIX” e del ”Corriere dello Sport-Stadio”. Autore di un libro su Roberto Baggio, cavalca gli eccessi e detesta i compromessi. In lui, è sempre stato difficile isolare il ”netto” dei progetti dal ”lordo” degli slogan: dovunque ha lavorato, ha lasciato tracce e sfondato più di una metaforica vetrata. Gli piace schierarsi. Gli piace, soprattutto, essere contro. Se sceglie un bersaglio, e ne viene ignorato, non ci dorme su.

Di sicuro, Giancarlo Antognoni gli ha dato più soddisfazioni di Candido Cannavò, implacabilmente sordo ai suoi elzeviri, ogni volta che gli eventi dello sport li portavano in rotta di collisione. Antognoni, invece, l’ha onorato di una tele-rissa. Troppa grazia. ”Tu cos’hai dato alla Fiorentina?” ”Tutto”. ”Anch’io ho dato tutto”. [...] Non sarà mai pagliuzza, Sconcerti, ma sempre e comunque trave. Uno che ”ha risanato tutte le aziende in cui ha lavorato”, uno che, per dirla con Previti, ”non ha mai fatto prigionieri”. Uomo di guerra, e non di pace. A patto che sia una guerra all’italiana, con alleati e nemici scambiabili. Il buon Machiavelli si sarebbe mosso, come dire?, con un po’ più di cautela. Mario no: occhio per occhio» (Roberto Beccantini, ”La Stampa” 6/3/2001)

Addio a Mario Sconcerti: gigante, persona gentile e meraviglioso compagno di cene. Storia di Domenico Calcagno su Il Corriere della Sera il 17 Dicembre 2022

Mario Sconcerti era un gigante e una persona gentile. Nell’analisi e nella scrittura giocava un altro campionato, quello riservato ai fuoriclasse. Ma non lo ha mai fatto pesare, anzi. Ha diretto giornali, scritto libri non solo di sport, perché era sì un giornalista sportivo, ma anche molto altro. Aveva mille interessi, mille curiosità. Gli piacevano i numeri e le storie degli uomini che quei numeri realizzano, perché lo sport è quello: il racconto di uomini e della loro evoluzione. Mario studiava quell’evoluzione per capirla e poterla spiegare. Era un meraviglioso compagno di cene, di serate attorno a un tavolo. Sempre brillante, divertente e divertito. Parlare con lui era un piacere, sempre. Anche la semplice telefonata per chiedere un pezzo non era una semplice telefonata: quando lo salutavi ti rendevi conto di aver imparato qualcosa. Ne sapeva più di noi, ma non lo ha mai sottolineato. Era il più bravo ma giocava di squadra. Qualche giorno fa l’ultima telefonata. Ci ha salutati così: «Ciao, ragazzi, vi voglio bene». Tutti gli abbiamo voluto bene. E ci manca già tantissimo.

Mario Sconcerti, addio al fuoriclasse del giornalismo. Daniele Dallera su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.

Giovedì mattina lo avevamo sentito confortato. «Daniele mi spiace stare lontano dal giornale e dal Mondiale, guarda che domani mi portano il computer e ho un’idea, per un pezzo...». L’idea come sempre era vincente e il pezzo sarebbe stato come sempre importante.

Mario Sconcerti sapeva, conosceva, insegnava. E qui nasce il guaio: era inimitabile, uno stile che scorreva veloce, sempre ricco di immagini originali, coraggiose, personali, dove tutta la cultura di Mario emergeva elegante, mai prepotente. La tentazione di copiare è forte, anche nel giornalismo, un errore grave farlo con i fuoriclasse. E quanto a giornalismo, materia complessa, lui era un numero 10, alla Rivera, alla Platini, nel caso di Mario forse è più appropriato citare Giancarlo Antognoni, fiorentino come il «Navarro», così Gianni Brera, il più grande di tutti, aveva battezzato il giovane Mario Sconcerti. Brera aveva capito subito il talento di Sconcerti, capace nella sua generosa carriera di andare oltre calcio e sport, chiamato da Scalfari per guidare le pagine sportive di Repubblica, ha diretto il Corriere dello Sport, il Secolo XIX, vicedirettore alla Gazzetta dello Sport, opinionista televisivo a Sky, alla Rai e a Mediaset, dal 2006 editorialista al Corriere della Sera, dove è stato amico, maestro, compagno di avventura, regista dall’assist facile, fare gol con lui era un gioco da ragazzi.

(Qui il ricordo di Domenico Calcagno: «Addio Mario: eri un gigante, persona gentile e meraviglioso compagno di cene»)

Gli ultimi giorni sono stati faticosi senza la sua firma, noi tutti, al Corriere e nella redazione sportiva, eravamo un po’ in ansia perché a inizio Mondiale lo avevamo sentito stanco, con una voce flebile, sottile, facile capire che non fosse in forma, e il suo ricovero ospedaliero non ci aveva colto di sorpresa. Ma sapevamo che sarebbe stata una tappa di pianura, per sistemare un po’ di cose, in particolare quel rene che faceva i capricci. E con sollievo giovedì mattina lo avevamo sentito confortato, la sua voce era tornata quella di prima, forte e chiara: «Daniele mi spiace stare lontano dal giornale e dal Mondiale, guarda che domani mi portano il computer e ho un’idea, per un pezzo...». L’idea come sempre era vincente e il pezzo sarebbe stato come sempre importante. Lo attendevamo felici quel pezzo, convinti che il direttore ormai si stesse rimettendo. La convinzione diventa sicurezza quando venerdì sera, una donna fantastica, Rosalba, moglie, compagna, assistente, telefonista, amica nostra, ci ha chiamato e, rassicurata dal miglioramento del suo Mario, ci diceva: «Sai Daniele che le cose stanno andando bene, gli esami sono a posto, i parametri sono tornati alla normalità, tra pochi giorni, martedì-mercoledì, Mario sarà dimesso...». Ieri l’irreparabile, quel cuore che si ferma, che non riparte più, i soccorsi inutili, medici e assistenti che scuotono la testa, la disperazione di mamma Rosalba e Martina, la loro figliola.

Mario Sconcerti era cresciuto a bordo ring, seguendo papà Adriano, procuratore di campioni come Sandro Mazzinghi, amava lo sport, lo studiava da sempre, innamorato della Fiorentina, ne era diventato addirittura amministratore delegato, erano i tormentati tempi di Cecchi Gori, ma la sua forza era quella di saper raccontare. Con delicatezza, con garbo, mai col veleno. Naturalmente non temeva la polemica, se era necessaria usava anche quell’arma tattica, era stimato da molti tecnici, con lui si confidavano. Un sottile piacere leggerlo e titolarlo, non accadrà più maledizione, ma la lezione di Sconcerti, umana e professionale, resterà per sempre. Che fortuna aver lavorato con lui.

Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 21 dicembre 2022.

Mario se n'è andato a dicembre, a pochi giorni dall'anniversario di Brera (30 anni, domani) e alla stessa età di Mura, 74. Era la sua squadra, era stato lui a volerli, lui era il ct. Questo giornale deve a Sconcerti l'invenzione dello sport di Repubblica e tanto altro. Era figlio di un manager di boxe, Adriano, che seguiva Mazzinghi, e raccontava della delusione di quando nel match contro Benvenuti chiese «papà si vince stasera?» e l'altro con la testa gli fece segno di no. 

Mario aveva iniziato da giovane al Corriere dello Sport , era sempre a Coverciano e Valcareggi lo chiamava affettuosamente Sconcertino. Era fiorentino, tifava per la Fiorentina (di cui è stato direttore generale con Cecchi Gori), non l'ha mai nascosto, ma era un tifoso non di parte. 

Volle anche Fossati, per il ciclismo. E poi arrivò anche Clerici. Non era geloso delle grandezze altrui, anzi si divertiva a gestirle e ad esaltarle. I suoi confronti erano sempre alti: Attila, Napoleone, le storie dei popoli, Leopardi, Michelangelo, deviava dallo sport per metterci dentro quello che aveva imparato e elaborato dai tanti libri che leggeva di notte.

Era insonne, divorava pagine, rileggeva le grandi battaglie, dagli Orazi a Little Big Horn, trascriveva schemi, studiava il calcio. Diceva cose bellissime, le sue ultime frasi scritte: «Il divertimento del calcio è che c'è sempre un margine di miglioramento imprevisto da aggiungere. Di solito è la parte migliore». 

Ci ha insegnato a non avere paura della cronaca, perché non esistono piccole storie, e anche un raffreddore raccontato bene, fa star male chi legge. Ci ha invitato a partire, sempre, ogni volta, ad andare alla stazione a prendere il primo treno, perché le cose andavano viste, e a non avere paura di esprimere quello che uno sentiva dentro. «Resisti, Niki» era un suo titolo su Lauda. Odiava la banalità, la scontatezza, il politicamente corretto. Amava i moti del cuore, tutto quello che sta per succedere, insegnava che bisogna andare sull'Arno che cresce di notte, perché la paura è un sentimento reale e non aspettare il giorno dopo per scrivere «ieri il fiume è uscito dagli argini ». 

Era divertente lavorare con lui. Si viveva di passioni, di fatiche, di eccessi, di costruzioni. Era autocritico: «Oggi abbiamo giocato per il pareggio». Credeva nelle notizie, nei fatti, che non andavano mai nascosti, ma anzi rilanciati. Non aveva paura della retorica, di essere umano, di dire da che parte stava, quasi sempre sceglieva quella più difficile e impossibile, forse anche per il gusto di sorprendere. Era bello anche dissentire da lui. 

Ai Mondiali dell'82 con la Nazionale di Bearzot in silenzio- stampa lo dovettero separare da Tardelli che l'aveva provocato, ma poi da toscani fecero pace e lui ammise che certe reazioni è meglio non averle. 

Ma lui le aveva, non ci rinunciava. In una Repubblica che ancora non usciva il lunedì e dove lo sport non era considerato cultura andò nella clinica dove lo sciatore Leonardo David, dopo una caduta, viveva in stato vegetativo, e scrisse un grande pezzo che gli valse i complimenti di Miriam Mafai. Finalmente lo sport (e i suoi giornalisti) era stato capito e accettato ai piani alti. Ora si parla di uguaglianza di genere, ma è bene far notare che Sconcerti ovunque ha lavorato ha sempre assunto e valorizzato donne.

Scalfari nell'88 lo mandò a Firenze ad aprire la redazione locale, in via Maggio 35 mancavano le sedie, ci si sedeva sugli elenchi del telefono, le macchine da scrivere erano difettose, come le stampanti. Ma non aveva importanza. Firenze sperimentava la fecondazione assistita. Careggi, 31 marzo '89: il primo bimbo nato in provetta in Toscana. A Mario non parve vero. Il nostro giornale titolò: «Ecco Lorenzo, è Magnifico». Sapeva ragionare, scrivere, commentare, capire, dirigere, ma era anche un eccellente titolista. Ha scritto molti libri, ha fatto la storia del giornalismo: a Roma, Genova ( Secolo XIX ), Milano ( Gazzetta dello Sport e Corsera ), in tv alla Rai, Sky e Mediaset. Forse le sue domande non piacevano ai club, ma chi segue il calcio non vedeva l'ora di avere delle risposte da Sconcerti. I suoi podcast per il sito Calciomercato erano diventati uno spazio di libertà e di riflessioni filosofiche. La sua parola preferita, la più usata, era: diversità. Forse perché lui era il più diverso. Diceva del giorno in cui sarebbe morto: «Piangerai, non ce la farai a scrivere».

«Sconcerti e Ronaldo da panchina nella Juve: vi spiego come andò». Roberto De Ponti su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.

Il ricordo: «Mario ma sei proprio sicuro di dire che Ronaldo nella Juventus farebbe la riserva? È il Pallone d’oro...». «Certo, ma in questa Juve così come è strutturata farebbe la riserva!»

La sera del 2 agosto 2020, poche ore prima di lanciarmi senza rete nell’avventura di dirigere il Corriere Fiorentino, la mia ultima telefonata fu a Mario Sconcerti. «Depo, come stai?» la risposta, immancabilmente disponibile. Mario, lo implorai, devi spiegarmi al volo com’è Firenze. E Mario, con grande pazienza, da fiorentino in esilio innamorato della sua città mi raccontò quello che avrei trovato, mi istruì su come comportarmi, in redazione e fuori, mi diede le dritte necessarie per sopravvivere in un mondo che non conoscevo. Tutte indicazioni che mi sono state preziose, in questi due anni e mezzo. Mi tranquillizzò. E poi concluse quella lunghissima telefonata dicendomi: «Quando vuoi che scriva per te, non hai che da chiedermelo. Per te ci sono sempre». In realtà ha suggerito spesso, ma molto meno spesso ha scritto, perché non voleva, non riusciva, a occuparsi di Fiorentina in modo distaccato: sono troppo coinvolto, diceva, fammi raccontare altro, fammi raccontare come Pinocchio è stato ripudiato da Firenze e raccattato da Collodi, ché Lorenzini a Firenze ci è nato e ci è morto. Lo appassionava, questa storia, perché un po’ ci si rivedeva: incompreso nella sua città, in esilio volontario a Roma, dopo che da dirigente della Fiorentina aveva conquistato l’ultimo trofeo viola, la Coppa Italia del 2001, e si era inventato come allenatore Roberto Mancini, ottenendo per lui una deroga dalla Federcalcio.

In realtà lo appassionava la storia in sé, e amava snocciolare date, dati e racconti sconosciuti ai più, sempre con eloquio affascinante e il sorriso sulle labbra. Quando invece si discuteva di calcio, usciva la sua vis polemica, il suo essere paradossale a tutti i costi. Un giorno di qualche anno fa, per fare un esempio, in un articolo per il Corriere della Sera scrisse che Cristiano Ronaldo nella Juventus al massimo avrebbe potuto fare la riserva. Io, che ero tra gli incaricati a passare i suoi pezzi, lo chiamai. «Depo, che succede?». Mario, gli chiesi sommessamente, ma sei proprio sicuro di dire che Ronaldo nella Juventus farebbe la riserva? È il Pallone d’oro... «Certo, ma in questa Juve così come è strutturata farebbe la riserva!». 

E con il suo modo affabile e convincente in pochi minuti mi spiegò, con un giornale in chiusura, il senso di quella affermazione. Naturalmente il pezzo uscì come aveva in mente lui e altrettanto naturalmente il popolo della rete prese a infamarlo. Credo con grande soddisfazione di Sconcerti, per il quale il motto «molti nemici molto onore» era un vanto. Il gusto tutto fiorentino di andare controcorrente, di provocare, di non essere mai banale, lo spingeva a osare senza paura. Con Paolo Ermini, allora condirettore del Corriere della Sera, durante i Mondiali del 2006 lo avevamo provocato: son tutti buoni a spiegare le partite quando sono finite, dovresti invece fare il pronostico prima che si giochi. E Mario, con il rischio di essere spernacchiato dai lettori, non si tirò indietro: ogni giorno gli preparavamo un paio di pagine in cui lui spiegava per filo e per segno quale sarebbe stato il risultato finale delle partite degli ottavi, e poi dei quarti, delle semifinali e infine della finale. Si divertì un sacco. E pronosticò l’Italia campione del mondo, cosa che poi avvenne. Anche in pronostici di poche righe, riusciva a raccontare, a spiegare con una proprietà di linguaggio e di immagini che ne facevano il numero uno del giornalismo sportivo per distacco. Solo una cosa non ha mai accettato in questi vent’anni: il trattamento che Firenze, la città e i suoi tifosi, gli ha riservato dopo il fallimento della Fiorentina. Ha sempre sostenuto che fare l’amministratore delegato della squadra per la quale faceva il tifo è stata l’esperienza «più bella della mia vita», ma in fondo ha sempre sofferto nel sentirsi incompreso nella sua città, tanto da parlarne spesso con finto distacco. Eppure, Mario, i suggerimenti che mi hai dato quella sera d’agosto sono stati preziosissimi, come ogni volta. Stai attento ai fiorentini, avevi detto, noi possiamo dire le peggio cose sulla città ma non ti permetteremo mai di dirle anche tu: solo noi abbiamo diritto di farlo. Ti studieranno per capire che animale sei, non farti intimorire. Siamo litigiosi, pensa che tra il campanile di Firenze e quello di Prato ci sono appena nove chilometri in linea d’aria, eppure sono due realtà totalmente differenti. Avevi ragione. Del resto, da queste parti avevi messo in piedi dal nulla la redazione di Repubblica, quando ti ho detto che cosa stavo per fare mi hai detto «e che problema c’è?». Buon viaggio maestro.

La scomparsa improvvisa a 74 anni. È morto il giornalista Mario Sconcerti, addio alla firma del calcio e dello sport del “Corriere della Sera”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Dicembre 2022

È morto il giornalista sportivo Mario Sconcerti. Aveva 74 anni. A dare la notizia Il Corriere della Sera, il quotidiano per il quale tutt’oggi Sconcerti scriveva. Da alcuni giorni il giornalista era ricoverato in ospedale per alcuni accertamenti di routine.

“Fino a venerdì ha continuato a dare il suo contributo di idee al nostro giornale di cui era una delle firme più prestigiose”, si legge sul sito del quotidiano. Sconcerti è stato direttore del Corriere dello Sport e del Secolo XIX. È stato vice direttore vicario de La Gazzetta dello Sport.

Sconcerti aveva anche ricoperto il ruolo di direttore generale della Fiorentina. Nel 2008 ha vinto il Premio di giornalismo sportivo Nando Martellini. Ha scritto, tra gli altri diversi titoli, La differenza di Totti (Limina, 2004), Storia delle idee del calcio (Dalai Editore, 2009) e Il calcio dei ricchi (Dalai Editore, 2012).

“La moglie ha raccontato che un malore lo ha colto in maniera improvvisa e a nulla sono serviti i tentativi dei medici per rianimarlo. Ha commentato i Mondiali, fino al ricovero, una decina di giorni fa”, si legge ancora sul sito del Corriere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Andrea Malaguti per “la Stampa” il 18 Dicembre 2022.    

S’e n'è andato Mario Sconcerti, l'uomo più libero che ho conosciuto. […] La prima volta che l'ho visto lui era già lui da un pezzo. Non era solo il Capo. Per me era Dio, per tutti i colleghi del Corriere dello Sport «Il Faraone». Chi vuoi essere? Voglio essere Mariosconcerti, tutto attaccato. In ogni caso. Roma, inverno del 1997, piazza Indipendenza. Forse le undici del mattino. Comunque un'ora del genere.

Si apre l'ascensore. Mario lancia il loden su un attaccapanni, apre la porta del suo ufficio e con voce stentorea annuncia: «La bottega è aperta». E dietro quelle quattro parole c'era un mondo. Il suo. La bottega è la fatica dell'artigiano […] «Voi bolognesi avete una qualità media molto alta, forse persino più dei toscani. Ma quanto a picchi non ci batte nessuno: per caso Leonardo è nato dalle vostre parti?». 

Mi aveva assunto al telefono, quella mattina era la prima volta che lo vedevo di persona.

Credevo fosse più alto, nella mia testa era un gigante. Lo è anche adesso. Rapido, geniale, politicamente scorretto, generosissimo, irascibile e soprattutto pazzo, completamente pazzo, strepitosamente pazzo.

[…] Era come parlare con Omero, con Salgari, con il suo Dante Alighieri. Curioso di tutto. Esplosivo. Partigiano. Sempre schierato. Schifato dalla routine. «Totti parla in conferenza stampa? Dieci righe. Checcifrega della conferenza stampa? Spiegatemi perché Totti vede il calcio prima degli altri, qual è la sua differenza. Noi siamo il Sole 24 ore dello sport. La Cassazione. Il calcio è un'azienda miliardaria. Va trattato con rispetto».

[…] Ristorante vicino a Porta Pia, sera, Mario non è più il direttore del Corriere dello Sport, è il direttore generale della Fiorentina più assurda e instabile di ogni tempo, quella di Vittorio Cecchi Gori. Siamo diventati amici, ci mangiamo una pizza con le mogli, tutto bene fino alle 11 quando arriva un collega che pensando di fare lo spiritoso gli dice: «Il tuo Cecchi Gori ha finito di rubare?». Mario esplode. «Se tu dici che Cecchi Gori ruba io dico che tua moglie è una maiala». È fuori di sé. 

Una tirata di dieci minuti senza tirare il fiato. Il cameriere va dalle nostre vicine di tavolo: «Volete che vi sposti?". E loro: «Assolutamente no, quando ci ricapita uno spettacolo così».

Mario lancia la carta di credito e se ne va indignato. Il proprietario del locale lo insegue per restituirgliela e gli chiede: «Direttore, ma il Bari lo caccia Fascetti?». Risposta indicibile.

Mai visto nessuno con più energia e passione. Duro e tenerissimo. […] 

[…] Scriveva libri (Storia delle idee del calcio è forse il più bello mai scritto sull'universo strano del pallone), soprattutto li leggeva. Si è laureato tardi. Non gli piaceva l'idea che lo chiamassero dottore senza che lo fosse veramente. Amava la storia. La conosceva. La usava. Da Repubblica al Secolo XIX ha inventato giornalisti, modi di fare giornalismo, ha guidato e aperto redazioni, e fatto dire a Gianni Brera (scomparso giusto 30 anni fa): «tu sei il mio miglior tramando». Ha sofferto molto, è stato esiliato, ha ricominciato da zero ed è tornato in cima alla montagna. Ha dato spettacolo in tv, alla radio e sul Corriere della Sera. Quando usi tanto le parole qualcuna ti scappa. A lui è successo. 

È stato oggetto di aggressioni ingiustificate. Succede quando ti esponi molto. E Mario era perennemente petto in fuori. Un fuoriclasse. Inquieto, perennemente alla ricerca del Santo Graal. Nulla, per me, pesava quanto i suoi commenti. Diretti, coraggiosi, profondi. Inevitabilmente, convintamente, meravigliosamente dall'altra parte. Grazie Mario, è stato un onore. Saluta Dante e Leonardo. Non ti scordare di noi.

Da corrieredellosport.it il 19 dicembre 2022.

Domani, dalle 9.30, saluteremo per l’ultima volta Mario Sconcerti. La salma sarà esposta in Campidoglio fino alle 13. Poi, alle 14, al Tempietto del Verano, il funerale in forma laica. Mario è stato giornalista del Corriere dello Sport a inizio anni Settanta prima di prendere il volo per una carriera straordinaria, durante la quale è tornato pure a casa (perché questo giornale è la sua casa) dirigendo il Corriere dello Sport-Stadio per cinque anni fantastici, dal ‘95 al 2000. È stato editorialista del Corriere della Sera nell’ultimo periodo della sua carriera e ha continuato a illuminare il mondo del calcio con le sue idee e il suo originalissimo stile.

Ieri, proprio da queste colonne, è stata lanciata un’idea che renda giustizia alla sua competenza calcistica. La proposta è quella di assegnargli alla memoria il titolo di direttore tecnico a Coverciano (dove s’era iniziata più di mezzo secolo fa la sua storia), come è successo solo per altri due giornalisti, Vittorio Pozzo e Giorgio Tosatti. Il nostro direttore Ivan Zazzaroni ne ha parlato ieri mattina con il presidente della Federcalcio Gravina che gli ha assicurato che la proposta verrà accolta. Mario Sconcerti avrà ciò che merita, un posto accanto ai grandi studiosi e ai grandi allenatori di calcio di tutti i tempi.

Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 19 dicembre 2022.

Di Mario Sconcerti si narrano aneddoti succosi e divertenti nel variegato e polveroso mondo degli inviati del calcio. Per esempio che avesse affrontato, mostrando il petto, un'intera curva di ultrà al grido di «Venite qui, vi aspetto, non ho paura di nessuno!». Che abbia litigato con un azzurro di lì a poco campione del mondo mostrando un'inaspettata grinta da boxeur. E ancora, che abbia chiuso un lungo e fortunato rapporto di lavoro con un editore per il quale stava lavorando con successo, sollevandone la scrivania e urlandogli in faccia: «Caro, non sono certo io che ho bisogno di lei! È lei che ha bisogno di me per mandare avanti il suo giornale per il quale lavoro! Tanti saluti».

Tutto vero, come era tutto vero quello che scriveva nei suoi articoli e negli editoriali sempre arguti, precisi, informati e personalissimi nello stile, perfetto e unico. Come personalissimo era il suo modo di fare giornalismo che l'aveva portato ad essere accostato a un grande mito del nostro mondo: Gianni Brera, fuoriclasse con il quale aveva condiviso una lunga esperienza nella redazione sportiva de La Repubblica di Eugenio Scalfari, giornale per il quale Sconcerti aveva seguito il Mondiale di Spagna 1982. 

Questo era Mario, penna davvero egregia del giornalismo sportivo, espressivo e analitico come pochi, sanguigno e toscanaccio come soltanto l'accezione più nobile di questo termine può descrivere. Il grande giornalista è volato in cielo ieri, bella delle beffe, appena 24 ore prima alla vigilia della finale mondiale qatariota fra Argentina e Francia. E, altro colpo del destino, 24 ore dopo la scomparsa di Sinisa Mihajlovic, uno dei giocatori da lui più amati, forse perché un carattere forte e una forza d'animo unica li accomunava inesorabilmente. 

ARRESTO CARDIACO Sconcerti è stato tradito dal cuore. Un arresto cardiaco lo ha stroncato mentre era ricoverato in ospedale, al Policlinico di Tor Vergata, chiudendo improvvisamente la storia umana e professionale di questo campione della penna, attualmente prima firma sportiva al Corriere della Sera ma con precedenti di notevole spessore professionale.

Sconcerti aveva iniziato la sua brillante carriera giovanissimo a Firenze, al Corriere dello Sport, per poi trasferirsi nella redazione milanese e, in seguito, a vestire i panni singolari dell'inviato al seguito della nazionale di Fulvio Bernardini. Correvano i ruggenti anni '70 e il successivo trasferimento a Roma lo portò a seguire il ciclismo, in particole le gesta di Francesco Moser, campione sanguigno (toh.)... 

Si ricorda, a proposito, il bel libro Con Moser, da Parigi a Roubaix nel quale Mario narrò con stile le imprese sul pavé del campione di Palù di Giovo. In seguito, la sua storia professionale lo portò alla Gazzetta dello Sport, al Secolo XIX di Genova e, di nuovo, al Corriere dello Sport, in questi ultimi due quotidiani nelle vesti di direttore. E fu subito boom di copie vendute per il quotidiano sportivo romano. 

Molti lo ricordano anche opinionista televisivo per Sky, per la Rai e poi su Mediaset, e persino amministratore delegato della sua amatissima Fiorentina, all'inizio del nuovo millennio, sotto la presidenza focosa della famiglia Cecchi Gori. 

RAPPORTO INTENSO Un rapporto lavorativo intenso ma decisamente turbolento, chiuso dopo un litigio feroce con Giancarlo Antognoni, all'epoca bandiera e anche lui dirigente del club viola. Sconcerti era nato a Firenze il 24 ottobre del 1948, anno in cui il suo conterraneo Gino Bartali vinse il Tour de France, secondo taluni storici soffocando un possibile moto rivoluzionario della sinistra in seguito all'attentato a Palmiro Togliatti, segretario del Pci. 

Al terzo bicchiere di vino rosso, questo e altri episodi amava raccontare Sconcerti ai giovani colleghi durante le cene che seguivano puntualmente una partita serale, a pezzo già spedito al giornale. E, magari, anche titolato perché Mario era un professionista a tutto tondo: in qualunque angolo del mondo si trovasse amava suggerire a chi stava in redazione come vergare il titolo da apporre in pagina all'articolo appena dettato.

Il carattere focoso di questo peso massimo del giornalismo aveva segrete radici familiari: papà Adriano, difatti, era stato un noto procuratore nel mondo romantico del pugilato italiano degli anni '50 quando aveva lanciato nel firmamento dello sport nobile Sandro Mazzinghi e altri campioni del ring. Forse per questo Sconcerti ha sempre affrontato il giornalismo a muso duro e a guardia alzata perché soltanto la notizia o l'editoriale mai banale, scritto in perfetto italiano come ci si trovasse su un quadrato di pugilato, potevano colpire il lettore. Anche duramente, se quello messo nero su bianco rappresentava la verità, la preziosa pietra filosofale che questo talento del nostro mestiere ha sempre inseguito.

·         È morto il fotografo Carlo Riccardi.

Da agrpress.it il 13 dicembre 2022.

È morto nella notte il grande fotografo romano Carlo Riccardi. Paparazzo per eccellenza, amico di Fellini e Flaiano, ha raccontato per oltre mezzo secolo il nostro Paese attraverso il suo continuo lavoro di documentazione fotografica. 

Carlo Riccardi è nato il 3 ottobre 1926 a Olevano Romano, cittadina in provincia di Roma, famosa per essere la meta di numerosi pittori europei fin dalla fine del 1800.

Durante l’infanzia la famiglia di Riccardi ospita diversi artisti inglesi e danesi e lui inizia ad appassionarsi all’arte e contemporaneamente apprende diverse lingue straniere 

Il padre di Riccardi trasferisce la famiglia a Roma in piena seconda guerra mondiale, e proprio la fine della guerra e la presenza dei soldati americani a Roma ha formalmente reso possibile avviare il percorso fotografico di Carlo Riccardi: i militari, grazie alla capacità di Riccardi di comunicare e tradurre comunicazioni anche importanti, gli hanno messo a disposizione un piccolo ufficio dove inizia a sviluppare, stampare e colorare a mano le foto che poi venivano vendute agli stessi marines e spedite alle famiglie negli USA.

In quel frangente temporale, un ragazzo che di lì a poco sarebbe divenuto famoso in tutto il mondo, colse l’opportunità di sfruttare il “mercato” offerto dai militari americani proponendo le proprie caricature al posto delle foto. Da quel momento inizia la “concorrenza” che a breve diventerà una grande amicizia con Federico Fellini. 

Contemporaneamente, grazie al padre di Riccardi, Carlo conosce personalmente anche Ennio Flaiano, il quale, prendendolo in simpatia inizia a portarlo con sé agli eventi mondani e nelle uscite a via Veneto dove si iniziava a consumare quella “dolce vita” che lo stesso Flaiano avrebbe descritto nel soggetto del film premio Oscar del 1960. 

Nella pellicola in questione, diretta da Fellini, basata sul soggetto non a caso abbastanza autobiografico di Flaiano, nasce il personaggio “Paparazzo”, cognome del fotografo che Marcello Rubini (Marcello Mastroianni) porta con sè in ogni occasione, divenuto antonomasia del fotografo specializzato nel catturare di nascosto o a sorpresa situazioni particolari che coinvolgono personaggi noti.

La genesi del nome “paparazzo” è molto discussa, per certi versi incerta. La più accreditata è quella che racconta lo stesso Riccardi, che affiancando rispettosamente Flaiano nel lavoro quotidiano, un giorno si trova a chiedergli il significato di un appellativo con il quale era stato da poco apostrofato da Amintore Fanfani: “Riccardi sei come un pappadacio!”. 

Da quel momento iniziano quindi le foto a via Veneto, le dritte dei camerieri e dei portieri d’albergo; iniziano le corse in bici, in “topolino” e perfino a piedi per raggiungere gli attori nostrani e quelli americani da una parte all’altra di Roma; iniziano gli appostamenti e le litigate, inizia la corsa allo scoop scandalistico.

Prende vita quindi un modo di fotografare che Riccardi, per tanti motivi, decide di non portare avanti personalmente. I suoi ragazzi di bottega diventeranno negli anni seguenti tra i personaggi più influenti del glamour romano, divenendo essi stessi protagonisti di quel mondo. 

Riccardi è più concentrato sul fotogiornalismo. Collabora con decine di giornali fino a fondarne uno suo: la rivista VIP, una raccolta di fatti, eventi e personaggi con una guida sofisticata e lontana dalla ricerca dello “scandalo a tutti i costi”.

Le fotografie di Riccardi non si sono limitate a raccontare la vita sociale ed economica del dopoguerra, ma hanno immortalato la nascita di realtà che tutt’ora segnano e influenzano culturalmente, economicamente e politicamente il Paese: dalla Cisl all’Enel, dal Premio Strega ai vari trattati che hanno dato vita all’Europa. 

Nel suo archivio (www.archivioriccardi.it), che la Soprintendenza Archivistica del Lazio stima sia composta da oltre tre milioni di negativi, Riccardi ha raccolto manifestazioni, congressi, personaggi noti e meno noti, grandi eventi sportivi, e dietro le quinte cinematografiche, tutte le elezioni papali da Giovanni XXIII a Francesco, la vita sociale, culturale e rurale – ininterrottamente – dal 1945 al 2001.

Riccardi ha alternato la ritrattistica di grandi attori, scrittori, politici e imprenditori a quella di bambini, contadini, operai, donne e uomini che non facevano notizia, ma che a distanza di anni mostrano il vero volto dell’Italia del secolo scorso. 

Dalle baraccopoli del boom economico, al sangue in bianco e nero degli anni di piombo, la rappresentazione della realtà da parte di Carlo Riccardi sfocia anche nella denuncia costante di abbandono delle opere d’arte e dei monumenti italiani.

Il fotografo e pittore che porta ancora nel cuore i dipinti dei tetti rossi della sua Olevano Romano tanto apprezzati all’estero, sfida più volte le autorità con performance artistiche che hanno come scopo quello di sensibilizzare l’opinione pubblica ma anche e soprattutto le amministrazioni sullo stato di degrado in cui versava il patrimonio culturale italiano: nel 1986 con una delle sue maxi-tele (tele dipinte con vari stili e cucite per formare opere di centinaia di metri) “incravatta” l’obelisco di una Piazza del Popolo abbandonata e assunta ormai a semplice parcheggio nel cuore di Roma.

Carlo Riccardi è morto a 96 anni ricordando tutto. Fino alla fine ricordava la guerra, la ricostruzione, il boom, gli anni di piombo, la guerra fredda, la caduta del comunismo, la seconda Repubblica. Carlo Riccardi non ha solo vissuto tutti questi periodi, ma con la sua passione e la sua perseveranza ha contribuito a che le generazioni a venire potessero godere della grandezza del suo lavoro, impedendo alla Storia di passare inosservata, “fermandola” nelle sue immagini e nel suo immenso archivio volto a diventare esso stesso un monumento culturale da tutelare in quanto patrimonio di tutti.

·         È morto il compositore Angelo Badalamenti.

(ANSA il 13 dicembre 2022) - Angelo Badalamenti, il compositore della musica di 'Twin Peaks' e di 'Mulholland Drive' di David Lynch, è morto a 85 anni. Lo riporta Hollywood Reporter, sottolineando che il pianista statunitense è deceduto nella sua casa in New Jersey. 

Annunciando la scomparsa dello zio, una nipote di Badalamenti ne ha ricordato il lavoro anche su 'Blue Velvet', 'Cabin Fever' e 'Nightmare On Elm Street 3' "e le sue relazioni e collaborazioni di lavoro con David Bowie, Michael Jackson, Paul McCartney, Nina Simone, Julee Cruise, Isabella Rossellini, Dolores O'Riordan, Anthrax, Dokken, Eli Roth", oltre che naturalmente a Lynch. La nipote Frances Badalamenti ha sottolineato che Angelo era sempre rimasto fedele alle sue radici: non aveva mai lasciato il New Jersey per Los Angeles. 

Fin da giovane era considerato un pianista e compositore naturalmente dotato: da insegnante di musica in una scuola media di Brooklyn era diventato il coach di voce che avrebbe dovuto aiutare Isabella Rossellini a cantare una canzone per il film del 1986 di Lynch 'Blue Velvet'. 

Quando però il regista non riuscì ad assicurarsi i diritti per la cover, Badalamenti e Lynch scrissero una nuova canzone assieme e il resto fa parte della storia del cinema, con colonne sonore anche per altri film di Lynch come 'Wild at Heart', 'Lost Highway' e 'The Straight Story'. Versatile e prolifico, Angelo Badalamenti compose temi musicali per le Olimpiadi di Barcellona del 1992, scrisse una canzone country con Norman Mailer e colonne sonore per film di registi come Paul Schrader, Jean-Pierre Jeunet, Jane Campion, Danny Boyle ed Eli Roth. 

La morte dell'autore e musicista a 85 anni. “Angelo, niente musica oggi”: l’addio di David Lynch al “fratello” Badalamenti, il compositore di “Twin Peaks”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Dicembre 2022

Angelo Badalamenti era noto, in tutto il mondo, soprattutto per essere stato il compositore della colonna sonora della serie televisiva I segreti di Twin Peaks diretta dall’iconico regista David Lynch. È morto a 85 anni nel New Jersey. La notizia è stata diffusa nella serata di ieri da giornali e siti dopo che la famiglia e conoscenti hanno confermato il decesso. “Oggi… niente musica. Oh, Angelo… riposa in pace”, il saluto del regista al “fratello” sul sito “Welcome to Twin Peaks”.

Badalamenti era nato a Brooklyn il 22 marzo 1937, in una famiglia italoamericana. Il padre gestiva un mercato del pesce. Aveva cominciato da bambino a suonare e si era dimostrato fin da giovane specialmente dotato. Lynch lo aveva coinvolto nel 1986 per scrivere le musiche del film Velluto Blu. In quel film, altro caposaldo della carriera del regista, il musicista faceva un cameo, compariva mentre suonava il pianoforte. La collaborazione tra i due continuò, nel 1990 fu il turno di Twin Peaks, serie tv entrata nell’immaginario collettivo, un prodotto di grande successo per l’influenza che ha esercitato negli anni su tutto il genere.

La collaborazione con il regista americano proseguì con Cuore selvaggio, Fuoco cammina con me, Strade perdute, Una storia vera e Mulholland Drive. Badalamenti scrisse le musiche e la sigla iniziale: elementi tutt’altro che secondari, diventati dei cult come la stessa serie. Per atmosfera e riconoscibilità. Badalamenti ottenne anche un premio Grammy per la sigla. Il compositore nella sua lunga carriera aveva collaborato anche con star del calibro di David Bowie, Michael Jackson, Paul McCartney, Nina Simone, Julee Cruise, Isabella Rossellini, Dolores O’Riordan, Anthrax, Dokken ed Eli Roth.

Badalamenti ha composto anche i temi musicali per le Olimpiadi di Barcellona del 1992, scrisse una canzone country con lo scrittore americano Norman Mailer e colonne sonore per film di registi come Paul Schrader, Jean-Pierre Jeunet, Jane Campion, Danny Boyle ed Eli Roth. Non aveva mai voluto lasciare il New Jersey per trasferirsi a Los Angeles.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli

·         È morto il cantante Ichiro Mizuki.  

È morto Ichiro Mizuki, voce delle sigle di «Mazinga Z», «Jeeg Robot d’acciaio» e «Capitan Harlock».  Redazione su Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

Il cantante lottava da tempo contro un tumore ai polmoni ma si era esibito l’ultima volta solo il 27 novembre. Era diventato famoso anche fuori dal Giappone

È morto il cantante giapponese Ichiro Mizuki, voce originale delle colonne sonore di Mazinga Z, Tekkaman, Jeeg Robot d’acciaio, Mechander Robot, Capitan Harlock e Voltron. Soprannominato il «re delle canzoni dei cartoni animati», il cantante giapponese è morto il 6 dicembre per un tumore ai polmoni in un ospedale di Tokyo. Aveva 74 anni. L’annuncio della scomparsa è stato dato oggi dal suo agente. Mizuki, che a luglio scorso aveva annunciato di essere in cura per un cancro ai polmoni, ha cantato fino a pochi giorni fa: il 27 novembre si è esibito per l’ultima volta sul palco in sedia a rotelle.

La carriera

Mizuki, il cui vero nome era Toshio Hayakawa, era famoso per aver cantato la sigla della serie di robot Mazinger Z del 1972 e del cartone spaziale Captain Harlock di Leiji Matsumoto, oltre a molti altri successi. Aveva debuttato nel 1968 come cantante di musica pop e aveva iniziato la sua carriera nelle canzoni di «anime» nel 1971. Con oltre 1.200 canzoni all’attivo, tra cui la sigla dell’iconica serie televisiva «Tekkaman - Il Cavaliere dello Spazio», Mizuki aveva guadagnato popolarità anche all’estero, tenendo eventi a Hong Kong e Singapore.

·         È morto Romero Salgari.

(ANSA l’11 Dicembre 2022) È morto Romero Salgari, pronipote dello scrittore Emilio e ultimo discendente a portare il cognome della famiglia. Aveva 63 anni e viveva a Montà d'Alba in provincia di Cuneo, dove si terranno domani i funerali, come da annunci funebri diffusi in paese, che confermano la segnalazione del decesso dell'ufficio stampa di Concita Occhipinti. L'uomo, malato da tempo, è deceduto sabato 10 dicembre all'ospedale di Verduno. Portava lo stesso nome di suo nonno, il terzogenito del celeberrimo autore di romanzi d'avventura, creatore di Sandokan e del Corsaro nero.

Una storia travagliata, quella della famiglia di origini veronesi, fin dal suicidio di Emilio avvenuto a Torino nel 1911. Altre tragedie avrebbero segnato l'esistenza dei suoi cari, alimentando la leggenda nera attorno al nome dei Salgari: la morte della figlia Fatima nel 1914, uccisa dalla tubercolosi a 24 anni, quella della moglie Ida in manicomio nel 1922, infine quelle dei figli Romero (suicida come il padre, nel 1931, dopo aver cercato di assassinare la moglie, il figlio Mimmo e il cognato) e Nadir, vittima di un incidente in moto nel 1957. 

L'ultimo figlio superstite, Omar, si sarebbe a sua volta tolto la vita nel 1963. Sopravvissuto alla follia del genitore, Mimmo Salgari si era trasferito nel paese del Roero e aveva avuto due figli, Romero junior e Patrizia. Nel 1984, ventiquattrenne, il giovane Romero era salito alle cronache per l'omicidio di una postina in pensione, la 72enne Lucia Valsania: un gesto assurdo, seguito anche nel suo caso da un tentativo di suicidio.

Era stato riconosciuto infermo di mente e internato per alcuni anni. Poi era tornato a vivere in paese con la madre Anna, scomparsa un paio d'anni fa. Sia lui che la sorella (venuta a mancare nel 2008 per un male incurabile) avevano continuato a preservare l'eredità letteraria del bisnonno, presenziando a eventi e intitolazioni.

Romero Salgari e il bisnonno Emilio. Il Corriere della Sera il 12 Dicembre 2022.

È morto Romero Salgari, pronipote dello scrittore Emilio e ultimo discendente a portare il cognome della famiglia. Aveva 63 anni e viveva a Montà d’Alba in provincia di Cuneo, dove si terranno domani i funerali, come da annunci funebri diffusi in paese, che confermano la segnalazione del decesso dell’ufficio stampa di Concita Occhipinti. L’uomo, malato da tempo, è deceduto sabato 10 dicembre all’ospedale di Verduno. Portava lo stesso nome di suo nonno, il terzogenito del celeberrimo autore di romanzi d’avventura, creatore di Sandokan e del Corsaro nero.

Una storia travagliata

Una storia travagliata, quella della famiglia di origini veronesi, fin dal suicidio di Emilio avvenuto a Torino nel 1911. Altre tragedie avrebbero segnato l’esistenza dei suoi cari, alimentando la leggenda nera attorno al nome dei Salgari: la morte della figlia Fatima nel 1914, uccisa dalla tubercolosi a 24 anni, quella della moglie Ida in manicomio nel 1922, infine quelle dei figli Romero (suicida come il padre, nel 1931, dopo aver cercato di assassinare la moglie, il figlio Mimmo e il cognato) e Nadir, vittima di un incidente in moto nel 1957. L’ultimo figlio superstite, Omar, si sarebbe a sua volta tolto la vita nel 1963. Sopravvissuto alla follia del genitore, Mimmo Salgari si era trasferito nel paese del Roero e aveva avuto due figli, Romero junior e Patrizia.

L’omicidio e l’infermità

Nel 1984, ventiquattrenne, il giovane Romero era salito alle cronache per l’omicidio di una postina in pensione, la 72enne Lucia Valsania: un gesto assurdo, seguito anche nel suo caso da un tentativo di suicidio. Era stato riconosciuto infermo di mente e internato per alcuni anni. Poi era tornato a vivere in paese con la madre Anna, scomparsa un paio d’anni fa. Sia lui che la sorella (venuta a mancare nel 2008 per un male incurabile) avevano continuato a preservare l’eredità letteraria del bisnonno, presenziando a eventi e intitolazioni.

·         E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.

Marco Giusti per Dagospia il 10 dicembre 2022.

Il cinema di genere, e non solo, perde un personaggio leggendario e per più versi inafferrabile come Franco Gaudenzi, 81 anni, produttore di circa 90 film, ma penso siano anche di più, soggettista, sceneggiatore, scenografo, distributore, legato a registi come Joe D’Amato, Lucio Fulci, Bruno Mattei, Claudio Fragasso, coi quali divide le glorie della prime grandi stagioni dell’exploitation, dai finti sequel, “Terminator 2”, “Alien degli abissi”, “Zombi 3”, “Non aprite quella porta 3” a splatter come “Buio omega”, dai cannibal come “Antropophagus” ai pornonazi come “Casa privata per SS” di Bruno Mattei ai primi porno esotici e non esotici diretti da Joe D’Amato, “La via della prostituzione”, “Eva nera”, passando attraverso le commedie sexy più spinte della fine degli anni ’70, “Il ginecologo della mutua”, e i thriller, “La morte ha sorriso al suo assassino”. 

Grande collezionista, diciamo, di diritti di film, tra quelli che aveva prodotto, quelli comprati e quelli provenienti da fallimenti societari, sembra che la sua vastissima library di film italiani comprendesse qualcosa come 2000 titoli, in grande parte rivenduti recentemente a Mediaset per decine di milioni e passati prima su Cine 34 e poi su tutti i canali Mediaset.

Per i fan del cinema di genere la programmazione di questa incredibile massa di film di genere italiani, e alcuni erano davvero dei film scomparsi e mai visti, è stata una sorta di manna dal cielo in piena pandemia. Franco Gaudenzi nasce a Roma nel 1941. Commercialista, si occupa di cinema attivamente dai primi anni ’70, in un primo tempo alternandosi anche come scenografo o arredatore, “Il ginecologo della mutua”, poi solo come vero e proprio produttore. 

Lo troviamo in tutti i primi film diretti o codiretti da Joe D’Amato, cominciando con gli spaghetti western e i decameroni che coproduce con Oscar Santaniello come Transglobe Italiana, “Sollazzevoli storie di mogli gaudenti e mariti penitenti - Decameron nº 69” e “Un bounty killer a Trinità”. Nel primo, Gaudenzi, ebbe da ridire sul titolo, ricordava Romano Scandariato, perché rimandava al suo nome. Solo un anno prima era uscita una commedia che già ironizzava, probabilmente, sul suo nome, “Le inibizioni del dottor Gaudenzi, vedovo col complesso della buonanima” di Gianni Grimaldi, dove Carlo Giuffré interpreta il dottor Franco Gaudenzi.

Nei primi anni ’70, comunque, il dottor Gaudenzi collabora attivamente con Joe D’Amato. Produce il suo primo film ufficiale da regista, “La morte ha sorriso al suo assassino” con Klaus Kinski, il suo primo war movie, “Eroi all’inferno”, sempre con Kinski, il peplum “La rivolta delle gladiatrice”, coprodotto da Roger Corman e co-diretto da Steve Carver con Pam Grier, il porno “Emmanuelle e Françoise le sorelline”, per poi passare alla saga di Emanuelle Nera con Laura Gemser, “Eva nera”, “La via della prostituzione”, film già molto spinti, con inserti hard per la distribuzione all’estero, che D’amato e Gaudenzi alternano a commedie sexy più tradizionali, come “Il ginecologo della mutua” con Renzo Montagnani, dove troviamo alcune delle attrici dei primi hard italiani. Ma negli anni ’70 inizia pure la lunga e proficua  collaborazione con Bruno Mattei, piccolo maestro del cinema di genere di serie B se non C, pronto a rifare qualsiasi tipo di film girandolo ovunque nel mondo. Danno vita nel 1977 a “Casa privata per SS”, pornonazi dove Gaudenzi firma anche le scenografie, ma il rapporto andrà avanti con “Notti porno nel mondo” 1 e 2, e proseguirà per tutti gli anni ’80. Alla fine degli anni ’70, sempre con Joe D’Amato, darà vita, come responsabile della Kristal Film, ai primi proto-hard italiani, come “Immagini di un convento”, che molto stupì li spettatori del tempo nel 1979, trovandosi una vera e propria scena di sesso dal vero, tra Marina Frajese e Donal O’Brien, in un tonaca movie più o meno tradizionale. 

Mi successe al cinema Filodrammatici di Trieste, che si specializzò poi in hard. Il passo successivo saranno tre porno prodotti ufficialmente ancora come Kristal Film per la regia di Joe D’Amato, “Porno esotic love”, “Porno Holocaust”, “Hard Sensation”, veri e propri hard. Per la regia di Joe D’Amato produce pure i suoi grandi successi splatter, come “Buio omega” e “Antropophagus”, che faranno il giro del mondo. 

Ma tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, la strada di Joe D’Amato e quella di Gaudenzi si dividono, seguendo il primo una massiccia produzione di hard, prodotti assieme a un’altra società e altro soci, e spingendosi il secondo a una produzione di exploitation finto-americani diretti principalmente da Bruno Mattei e Claudio Fragasso. Nascono così “Double Target”, “Copgame”, “Robowar”, “Alien degli abissi”, “Terminator 2”, ma anche “Zombi 3” diretto da Lucio Fulci e terminato poi da Fragasso e Mattei. Una produzione che andrà avanti fino ai primi anni ’90, con titoli come “Non aprite quella porta 3” e “Desideri”, che porta la sirma al soggetto di Frank Godwin alias Franco Gaudenzi.

Ultimo produttore a credere al cinema da esportazione a basso costo, Gaudenzi si è spinto oltre ogni possibile limite del cinema di exploitation col fido Mattei, ma è stato uno dei pochi a puntare astutamente sulla Library, su una quantità di titoli più o meno assurdi del cinema italiano che abbiamo digerito nelle notti più incredibili di questi ultimi due – tre anni su Cine 34 e dintorni. Lunga vita al cinema di genere. 

·         Morto l’attore Gary Friedkin.

Da leggo.it il 9 dicembre 2022.

Morto Gary Friedkin, attore americano noto per aver recitato nei film «L'ospedale più pazzo del mondo», «Blade Runner» e «Star Wars: Il ritorno dello Jedi» e nella serie tv «Happy Days». È deceduto all'età di 70 anni per le complicazioni dovute al Covid in una casa di cura di Youngstown, nello stato dello Ohio. L'annuncio della scomparsa, avvenuta venerdì 2 dicembre, è stato dato dalla famiglia, come riferisce oggi «The Hollywood Reporter». 

Chi era Gary Friedkin

Friedkin aveva interpretato Clarence, un cuoco del ristorante-bar Arnold's, in tre episodi del 1982 del telefilm «Happy Days». In una gag ricorrente, il personaggio era parlato ma mai visto, finché Clarence non è apparso durante la decima stagione della sit-com. Friedkin ha anche combattuto con Harrison Ford come membro di una banda di motociclisti in «Blade Runner» (1982) e ha interpretato un Ewok in «Star Wars: Il ritorno dello Jedi» (1983).

Gary Jay Friedkin, nato a Youngstown il 23 novembre 1952, ha fatto il suo debutto sul grande schermo in «Sotto l'arcobaleno» (1981), una commedia con Chevy Chase, Carrie Fisher e l'attore del Mago di Oz Jerry Maren. Friedkin ha poi interpretato il dottor Milton Chamberlain nel divertente «L'ospedale più pazzo del mondo» (1982) di Garry Marshall, all'interno di un cast che comprendeva Michael McKean, Sean Young, Ted McGinley, Harry Dean Stanton e Dabney Coleman. L'attore è apparso anche in «Mother's Day» (2016), l'ultimo film di Marshall.

·         E’ morta l’attrice Kirstie Alley.

Da rainew.it il 6 dicembre 2022.

Kirstie Alley, due volte vincitrice di un Emmy, che ha recitato nella sitcom degli anni '80 "Cheers" e nel film di successo "Senti chi parla", è morta a 71 anni. Il decesso è stato annunciata dai figli sui social media e confermata dal manager,  Donovan Daughtry, in una e-mail all'Associated Press. 

"Siamo rattristati - hanno comunicato a People - di informarvi che la nostra incredibile, fiera e amorevole mamma ci ha lasciati dopo una battaglia con il cancro, scoperto solo  di recente". "È stata circondata - hanno aggiunto - dai familiari più stretti e ha combattuto con grande forza, lasciandoci la certezza della sua infinita gioia di vivere qualsiasi cosa sarebbe successo. È stata iconica sullo schermo così come è stata una madre e una nonna meravigliosa".

Ha recitato nel ruolo di Rebecca Howe nella sitcom della NBC "Cheers" dal 1987 al 1993, dopo la partenza della star originale Shelley Long. Ha avuto la sua sitcom in rete, "Veronica's Closet", dal 1997 al 2000. 

Nata a Wichita, Kansas, da una famiglia metodista, Alley ha avuto una vita segnata da ferite e rinascite. 

A trent'anni aveva perso la madre, morta in un incidente stradale provocato da un ubriaco, poi il divorzio dal primo marito e le difficoltà a trovare un ruolo televisivo l'avevano spinta alla dipendenza dalla cocaina.

Uscita dal tunnel della droga, Alley aveva cominciato a fare le prime comparsate in alcuni quiz televisivi, fino alla grande occasione: il debutto in "Star Trek II - L'ira di Khan", secondo episodio della saga di Star Trek. Seguiranno alcuni ruoli in film, tra cui "Runaway" con Tom Selleck, ma la vera svolta arriverà con la serie televisiva di successo "Cin Cin", dove interpreta il ruolo di Rebecca Howe, conquistando due Emmy Awards e Golden Globe. 

La serie tv la rilancia nel grande schermo, dove recita con John Travolta in "Senti chi parla" e in "Harry a pezzi" di Woody Allen. Nel '99 interpreta nel film "Bella da morire" il ruolo della madre disposta a tutto pur di far vincere la figlia in un concorso di bellezza.

Ma negli anni duemila Alley ricade nel vortice della depressione e della dipendenza: dopo il secondo divorzio e di nuovo in difficoltà nel trovare lavoro, l'attrice si butta sul cibo in modo bulimico, al punto da ingrassare a vista d'occhio e superare i cento chili. 

Dopo anni di cure, ritroverà la forma fisica e un po' di serenità. Sostenitrice del Partito repubblicano, Alley aveva abbracciato la Chiesa di Scientology e adottato due figli, nel '92 e nel '94. Tra i suoi film figurano "Sulle tracce dell'assassino", "Senti chi parla", "Roba da matti", "Scappatella con il morto" e "Senti chi parla adesso!"

È morta Kirstie Alley, star di "Cin cin" e "Senti chi parla". A cura della redazione Spettacoli su La Repubblica il 6 Dicembre 2022.

L'attrice aveva 71 anni. Per il ruolo di Rebecca Howe nella popolare serie tv aveva vinto un Emmy nel 1991. John Travolta: "So che ci rivedremo ancora"

Kirstie Alley, popolare per le sue interpretazioni nella sitcom Cin cin e nel film Senti chi parla, è morta all'età di 71 anni. La notizia è stata data dai figli True e Lillie Parker: "Siamo rattristati di informarvi che la nostra incredibile, fiera e amorevole mamma ci ha lasciati dopo una battaglia con il cancro, scoperto solo di recente". "È stata circondata - hanno aggiunto - dai familiari più stretti e ha combattuto con grande forza, lasciandoci la certezza della sua infinita gioia di vivere qualsiasi cosa fosse successa. È stata iconica sullo schermo così come è stata una madre e una nonna meravigliosa".

Alley era nata a Wichita, Kansas, il 12 gennaio del 1951. Nel 1980 aveva abbandonato l'università per trasferirsi a Los Angeles, con il sogno di diventare attrice. E c'era riuscita. Le prime apparizioni televisive l'avevano vista concorrente nei quiz The Match Game nel 1979 e Password nel 1980.

Il ricordo di John Travolta

Tra i primi messaggi di cordoglio, quello di John Travolta, che posta la foto di una giovane Alley e la ricorda che "una delle migliori persone che abbia mai conosciuto", "ti voglio bene, so che ci rivedremo ancora" scrive l'attore, suo partner nei tre film della serie Senti chi parla, usciti tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta.

La carriera e la vita privata

In quegli anni la sua vita era stata però sconvolta dal divorzio dal primo marito e dalla perdita della madre in un incidente stradale causato da un uomo in stato di ubriachezza. In crisi profonda, era diventata dipendente dalla cocaina. Quindi si era disintossicata e le cose avevano cominciato ad andare bene anche sul piano professionale.

In tv la svolta era arrivata con il ruolo di Rebecca Howe nella serie di grande successo Cin cin, per cui nel 1991 aveva vinto un Emmy come miglior attrice protagonista di una serie comica. Un secondo Emmy l'aveva conquistato due anni più tardi per l'interpretazione del personaggio centrale di Per amore di David.

Sul grande schermo aveva esordito nel 1982 in Star Trek II - L'ira di Khan. Tra i suoi tanti film, ricordiamo Runaway, Senti chi parla e i sequel Senti chi pala 2 e Senti chi parla adesso!, Sulle tracce dell'assassino, Scappatella con il morto, Bella da morire, Harry a pezzi.

All'inizio del nuovo millennio era entrata di nuovo in crisi a causa del declino della sua carriera e del divorzio dal suo secondo marito, con il quale aveva adottato i due figli. E aveva sviluppato un rapporto patologico con il cibo arrivando a pesare oltre 100 chili. Nel 2005 aveva interpretato se stessa nella serie Fat Actress, in cui metteva in pubblico con autoironia la sua continua battaglia per perdere peso. Dopo anni di cure aveva in ogni caso ritrovato la forma e la serenità. Ed era tornata in tv partecipando a diversi show, compreso Ballando con le stelle.

'Senti chi parla', il film dove nacque la passione di Kirstie Alley per John Travolta (dopo Patrick Swayze). L'attrice qualche anno fa ha confessato il suo amore per il collega: “Avrei voluto scappare con lui e sposarlo". Ma ha anche raccontato di un altro innamoramento di qualche anno prima. su La Repubblica il 6 Dicembre 2022.

È stata una vita travagliata quella di Kirstie Alley, deceduta a 71 anni per un cancro. Ma è stata anche una vita segnata da importanti successi professionali, come la fortunata saga cinematografica di Senti chi parla, con tre film prodotti a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l'inizio degli anni Novanta: il primo film del 1989 diretto da Amy Heckerling, da solo ha incassato oltre 295 milioni di dollari in tutto il mondo.

I tre film hanno creato un legame particolare fra l'attrice e John Travolta, che negli ultimi mesi ha dovuto dire addio anche a Olivia Newton John, ora ha dovuto dare l'ultimo saluto anche alla sua Mollie, così si chiamava il personaggio interpretato da Alley nei film: "Quella con Kirstie è stata una delle storie più belle che abbia mai avuto. Ti amo e sono sicuro che ci rivedremo presto". Queste le parole dell'attore, che rende omaggio alla sua collega con una foto insieme, sorridenti, di qualche anno fa.

L'amore per John Travolta

Le parole di Travolta rievocano quelle pronunciate dall'attrice in passato, quando aveva parlato chiaramente di un rapporto andato ben oltre la sfera professionale. "L'ho amato, lo amo ancora, lo avrei sposato", ha detto Alley nel 2018, durante la sua partecipazione al Grande Fratello americano.

"Avrei voluto scappare e sposare John. L'ho amato, lo amo ancora. Se non fossi stata sposata io, lo avrei fatto". Per poi aggiungere: "Mi ci sono voluti anni per non guardare John con amore. È stato il più grande amore della mia vita!". Una passione che ha portato la moglie dell'attore, Kelly Preston, ad affrontarla per aver flirtato con suo marito.

La trama dei tre film

La storia di Senti chi parla è quella di Mollie (Kirstie Alley), donna in carriera, che rimane incinta di un uomo che poi decide di non proseguire la relazione con lei. È durante i primi mesi di maternità che Mollie conosce James (John Travolta), tassista che diventerà baby sitter di Mickey, suo figlio. I due naturalmente si innamorano, per poi sposarsi. In Senti chi parla 2 si racconta infatti del riflesso della nascita della figlia Julie sul primogenito Mickey. La saga si chiuse con il terzo capitolo, dal titolo Senti chi parla adesso!.

Il bambino protagonista del film nell'originale inglese ha la voce di Bruce Willis mentre in italiano tale ruolo è stato affidato a Paolo Villaggio.

L'altro grande amore: Patrick Swayze

Ma l'attrice ha anche confessato di essersi innamorata del compianto Patrick Swayze, durante le riprese della mini serie North and South del 1985. "Avrei voluto avere una relazione con Swayze ma eravamo entrambi sposati - ha rivelato l'attrice quattro anni fa - ma sono una forte sostenitrice della fedeltà e lui era sposato. Sapete, quando si gira un film diventa molto facile innamorarsi del protagonista con cui stai lavorando. Per un anno sei sempre lì con questa persona accanto e diventa difficile...".

Addio a Kirstie Alley, la mamma di "Senti chi parla". L'attrice si è spenta a 71 anni. Ha perso la sua battaglia contro il cancro che le era stato scoperto solo di recente. Valentina Dardari il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il cinema dice addio a Kirstie Alley, la mamma di Senti chi parla e il volto celebre della serie televisiva Cin cin. La protagonista di Bella da morire è morta a 71 anni a causa di un cancro che era stato scoperto solo di recente. A dare il triste annuncio sui social sono stati i figli dell’attrice, True e Lillie Parker: "Siamo rattristati di informarvi che la nostra incredibile, fiera e amorevole mamma ci ha lasciati dopo una battaglia con il cancro, scoperto solo di recente. È stata circondata dai familiari più stretti e ha combattuto con grande forza, lasciandoci la certezza della sua infinita gioia di vivere qualsiasi cosa sarebbe successo. È stata iconica sullo schermo così come è stata una madre e una nonna meravigliosa".

La droga e la bulimia

La Alley era nata nel 1951 a Wichita, Kansas, da una famiglia metodista, e nella sua vita ha conosciuto ferite e rinascite. Nel 1980 si era trasferita a Los Angeles, dove lavorava come interior designer. A trent'anni aveva perso la madre, deceduta in un incidente stradale provocato da un guidatore ubriaco, poi aveva divorziato dal primo marito e aveva anche avuto notevoli difficoltà a trovare un ruolo televisivo. Tutte queste circostanze avevano portato l’attrice a cadere nella dipendenza della cocaina. Uscita dal tunnel della droga, la Alley aveva cominciato a fare le prime comparsate in alcuni quiz televisivi, fino alla grande occasione: il debutto in Star Trek II - L'ira di Khan, secondo episodio della saga di Star Trek.

A quello sono poi seguiti alcuni ruoli in film, tra cui Runaway con Tom Selleck, ma la vera svolta è arrivata con la serie televisiva di successo Cin Cin, dove ha interpretato il ruolo di Rebecca Howe, conquistando numerosi Emmy Awards e Golden Globe. La serie televisiva ha rilanciato l’attrice sul grande schermo, dove ha recitato accanto a John Travolta in Senti chi parla e in Harry a pezzi di Woody Allen. Nel 1999 ha interpretato nel film Bella da morire il ruolo di una madre disposta a tutto pur di far vincere alla propria figlia un concorso di bellezza.

Il ricordo di Travolta

Negli anni duemila la Alley era caduta nuovamente nel vortice della depressione e della dipendenza: dopo il secondo divorzio e di nuovo in difficoltà nel trovare un lavoro, l'attrice si era buttata sul cibo in modo bulimico, al punto da ingrassare in pochissimo tempo, arrivando a superare i cento chili. Dopo anni di cure, aveva però ritrovato la forma fisica e un po’ di serenità. Sostenitrice del Partito repubblicano, Alley aveva abbracciato la Chiesa di Scientology e adottato due figli, il primo nel 1992 e il secondo nel 1994. Tra i suoi film figurano Sulle tracce dell'assassino, Senti chi parla, Roba da matti, Scappatella con il morto e Senti chi parla adesso!. L’attrice è stata due volte vincitrice dell'Emmy, famosa per aver interpretato Rebecca Howe nella sitcom Cheers. La notizia della sua morte rimbalza sui social e molti la ricordano. Tra questi John Travolta: "Kirstie è stata una delle relazioni più speciali che ho mai auto".

Kirstie Alley, il ricordo struggente di John Travolta: "So che ci rivedremo". L’attore statunitense ha affidato al social media Instagram il suo personale saluto a una donna che è stata molto importante nella sua vita. Ignazio Riccio il 6 Dicembre 2022 su Il Giornale.

“Kirstie è stata una delle relazioni più speciali che abbia mai avuto. Ti amo Kirstie. So che ci rivedremo”. Con questa frase struggente, che manifesta pienamente tutto l’amore provato nei confronti della collega attrice, John Travolta ha voluto ricordare Kirstie Alley, deceduta all’età di 71 anni a causa di un tumore molto aggressivo scoperto solo di recente. L’attore statunitense, partner della Alley nel film Senti chi parla, ha affidato al social media Instagram il suo personale saluto a una donna che è stata molto importante nella sua vita. Un legame indissolubile che neppure la morte prematura di Kirstie è riuscito a spezzare.

Un amore platonico ma profondo

La Alley, alcuni anni fa, aveva confessato di essersi innamorata di John Travolta mentre recitava con lui. Kirstie aveva addirittura pensato di lasciare il marito per il collega. L’attrice si era invaghita di Travolta proprio sul set del film Senti chi parla, venticinque anni fa. Un amore, però, rimasto platonico visto che Kirstie era allora sposata con l’attore Parker Stevenson. “Mi creda – dichiarò la Alley nel corso di un’intervista concessa all’Nbc – c’è voluto tutto quello che avevo, dentro e fuori per resistere e non assecondare la mia volontà di sposare John e stare con lui per il resto della mia esistenza. É stato il più grande amore della mia vita”.

I lutti di John Travolta

Travolta, che oggi ha 68 anni ed è stato sposato con l’attrice Kelly Preston, ha subito gravi lutti nel corso della sua vita. Prima la morte per cause naturali del figlio 16enne Jett, il 2 gennaio 2009, mentre è in vacanza con la famiglia alle Bahamas, e poi il decesso della consorte Preston, avvenuto il 12 luglio del 2020 per un cancro al seno. Nel periodo in cui girò la famosa commedia con la Alley, Travolta era single. Quando ha saputo della rivelazione di Kirstie ha capito che la collega ha preso la sua decisione di restare fedele al marito per il rispetto che aveva dell’istituzione del matrimonio.

·         Morto lo scrittore Dominique Lapierre.

Morto Dominique Lapierre, l’autore de «La città della gioia». DINO MESSINA su Il Corriere della Sera il 4 Dicembre 2022.

Negli anni Cinquanta e Sessanta soggiornò in India: un’esperienza dalla quale trasse l’ispirazione per il suo bestseller

L’India dei poveri piange perché ha perso il suo cantore e paladino. Piangono anche i lettori de La città della gioia , che ebbero la vita sconvolta da questo libro uscito nel 1985 dedicato agli ultimi della terra, gli uomini cavallo di Calcutta. Non pochi ragazzi, anche in Italia, dopo averlo letto decisero di dedicarsi al volontariato o si iscrissero a Medicina con il progetto di aiutare il prossimo.

Metà Hemingway, metà Madre Teresa, Dominique Lapierre, nato il 30 luglio 1931 a Châtelaillon-Plage, ha trascorso gli ultimi dieci anni in una dolorosa condizione di semicoscienza dopo una banale caduta. A dare l’annuncio della scomparsa, avvenuta sabato, è stata la moglie Dominique con un commovente messaggio agli amici più stretti, tra i quali i fratelli Formenton, figli di Cristina Mondadori, che è stata tra le più attive sostenitrici dello scrittore filantropo.

Lapierre era già uno degli autori di bestseller più conosciuti quando alla fine degli anni Settanta andò dal suo editore a proporre il libro che avrebbe venduto oltre dieci milioni di copie: lascia perdere, fu la risposta, a chi vuoi che interessi la vita di un portatore di risciò, di una bambina che raccoglie carbone per la sua famiglia, di un infermiere svizzero e di un venditore di cravatte inglese che hanno deciso di vivere in Bengala? Dominique non ascoltò il consiglio, salutò il suo amico americano Larry Collins, con cui aveva scritto agli inizi degli anni Sessanta Parigi brucia? — il libro inchiesta che rivelò al mondo come fu disatteso dagli ufficiali nazisti l’ordine di Hitler di radere al suolo la capitale francese —, e si lanciò nella nuova avventura. Non fu una scelta facile, perché la collaborazione con Collins (scomparso nel giugno 2005) si era rivelata eccezionale: insieme avevano scritto il racconto della nascita dello Stato di Israele, Gerusalemme! Gerusalemme!, la storia dell’indipendenza dell’India, Stanotte la libertà. Secondo un collaudato metodo di lavoro, i due giornalisti-scrittori, uno ex inviato di «Paris Match», l’altro ex corrispondente da Parigi della United Press e di «Newsweek», si dividevano i compiti, poi ciascuno scriveva un capitolo che l’altro traduceva e correggeva nella propria lingua.

Diventati campioni del bestseller storico, erano al top. Grazie al loro conto corrente milionario potevano godersi le loro ville in Costa Azzurra, le macchine sportive, i cavalli e quant’altro desiderassero. Le strade avevano però cominciato a dividersi quando durante la preparazione di Stanotte la libertà, uscito nel 1975, Dominique Lapierre, da vero cronista che voleva immergersi nella realtà che avrebbe descritto, comprò un biglietto ferroviario di terza classe da New Delhi a Calcutta per capire nella capitale del Bengala ed ex sede del governatorato britannico le ragioni delle tensioni tra musulmani e hindu che avevano portato all’uccisione di Gandhi. A Calcutta qualche anno dopo il quarantenne Dominique, sconvolto dalla condizione dei poveri, in un incontro con Madre Teresa, fondatrice delle Missionarie della Carità, chiese a chi poteva devolvere il primo assegno che sarebbe arrivato con il nuovo libro. Madre Teresa non esitò a indicare George Stevens, l’inglese ex venditore di cravatte che non aveva più soldi per mandare avanti l’asilo dove raccoglieva i figli di lebbrosi.

Con questo gesto di carità Dominique divenne da narratore anche protagonista. E da allora il suo rapporto con l’India cambiò. Nella sua vita, dopo il divorzio dalla prima moglie, da cui era nata Alexandra, che sarebbe diventata anche lei scrittrice, era intanto entrata una nuova compagna, che si chiamava proprio come lui, Dominique. Dominique Conchon, una ragazza che aveva risposto all’annuncio pubblicato dai due scrittori in cerca di una segretaria per il libro sulla nascita della nazione indiana.

Tornati a casa in Rolls-Royce, attraversando il Khyber Pass, dopo la pubblicazione di Stanotte la libertà i due Dominique si avvicinarono sempre più alla difficile realtà indiana e cominciarono a seguire alla lettera i precetti di Madre Teresa: anche un piccolo gesto può essere utile nel gran mare delle sofferenze. Scrivendo il suo capolavoro La città della gioia, Dominique, soprannominato dagli amici indiani Dada, grande fratello, mentre la sua compagna, di corporatura esile, era chiamata Didi, piccola sorella, cominciò a dare vita all’Associazione per i bambini dei lebbrosi di Calcutta e una serie di centri, quattordici in tutto, che negli anni hanno assorbito sempre maggiori risorse. Lapierre, infaticabile lavoratore che aveva continuato a sfornare bestseller, come Mezzanotte e cinque a Bhopal (con il nipote Javier Moro), dedicato al disastro ambientale che nel 1984 causò circa sedicimila vittime, durante un viaggio a Calcutta nel 2010 mi confidò che aveva destinato 65 milioni di dollari alle varie associazioni. Quella dei figli dei lebbrosi, dove assistemmo a una toccante riunione collettiva, ma anche il centro medico per l’assistenza su quattro battelli alle popolazioni dei Sundarbans, nel Golfo del Bengala, o un’altra associazione che si occupa del microprestito alle donne sole, o un’altra ancora dedicata ai bambini disabili. Tutti i soldi guadagnati con i diritti dei libri e di due film, quello tratto dalla La città della gioia, e quello dedicato alla vita di Madre Teresa con Geraldine Chaplin, sono finiti in India.

Ma ancora non bastava. Dominique vendette la sua splendida villa a Ramatuelle, vicino a Saint-Tropez, a Cristina Mondadori, che sostenne anche azioni benefiche in Africa. Lo scrittore negli anni si era trasformato in un perfetto fundraiser per le sue opere di carità. Per questo teneva conferenze in giro per l’Europa. Dopo l’India, il suo Paese preferito era l’Italia, dove aveva trovato grande generosità. Nonostante gli impegni per sostenere le associazioni di carità, Dominique aveva continuato a scrivere (per esempio l’affresco sulla storia del Sudafrica, Un arcobaleno nella notte o India mon amour). Dopo un lungo sodalizio con la Mondadori, l’editore che ha pubblicato le ultime opere di Lapierre in Italia è stato il Saggiatore. Ultimamente, ci dice il presidente del Saggiatore, Luca Formenton, «abbiamo acquisito anche i diritti di Parigi brucia? e di Stanotte la libertà, mentre La città della gioia è rimasto alla Mondadori».

Quand’era a casa, la dépendance della sua ex villa di Ramatuelle, usciva tutte le mattine a cavallo, montando Lunares o Preferida, due destrieri andalusi. Al pomeriggio lavorava. È stato così fino al 10 giugno 2012 quando perse conoscenza dopo una caduta: trauma cranico, rianimazione, un risveglio che aveva illuso tutti e una lunga convalescenza in casa, finché non si è reso necessario trasferirlo in un centro medico. Sulla sua tomba sarà inciso: «Dominique Lapierre, cittadino onorario di Calcutta. Tutto ciò che non è donato è perduto». Proverbio indiano.

Morto Dominique Lapierre, autore de "La città della gioia". A cura di redazione Cultura su La Repubblica il 4 Dicembre 2022.

Il popolarissimo scrittore francese, autore del celebre bestseller, aveva 91 anni

È scomparso a 91 anni lo scrittore Dominque Lapierre, celebre autore de La città della gioia e di altri bestseller, tra cui Parigi brucia? e Gerusalemme! Gerusalemme!, scritti con Larry Collins. A confermarlo, dopo notizie diffuse dall'associazione indiana Asha Bhaban, è la sua storica casa editrice italiana, Mondadori. Nato a Châtelaillon, in Francia, nel 1931 in una famiglia di diplomatici, aveva trascorso a Parigi gli anni della Seconda guerra mondiale. Entrò come reporter a Paris Match nel 1956, e per conto del giornale viaggiò in Unione Sovietica e poi, lungamente, in India.

La città della gioia (1985) è ambientato negli anni Sessanta in uno slum di Calcutta e vede come protagonisti un contadino indiano, Hasari Pal, costretto a emigrare dalla campagna nella megalopoli, e un missionario francese, Paul Lambert, che decide di dedicarsi agli ultimi tra gli ultimi. Come dichiarava lo stesso Lapierre nella prefazione del romanzo, nonostante i personaggi avessero nomi fittizi la trama era ispirata a ciò che lui stesso aveva visto nelle bidonville della città indiana, negli stessi luoghi in cui operò Madre Teresa. Il romanzo ispirò un film con lo stesso titolo, uscito nel 1991 e realizzato dal regista Roland Joffé, con protagonista Patrick Swayze.

Dopo il successo del romanzo, che vendette diversi milioni di copie, Lapierre e la moglie crearono una fondazione con lo stesso nome, a cui devolvere metà dei diritti d'autore, per occuparsi della lotta contro la povertà in India, in particolare dei piccoli malati di lebbra a Calcutta. Il libro ha ricevuto il Premio Verità dalla città di Le Cannet nel 1986. Il 6 maggio 2008 il governo indiano ha conferito a Dominique Lapierre la medaglia Padma Bhushan per le azioni a favore dei più poveri svolte nel Paese. È dedicato all'India, e a uno dei suoi drammi più terribili, anche Mezzanotte e cinque a Bhopal, in cui Lapierre ricostruì, insieme a Javier Moro, la tragedia della località in cui l'esplosione della fabbrica della Union Carbide provocò nel 1984 migliaia di morti e feriti, a causa dell'emissione di gas nocivi.

Sul suo rapporto con il subcontinente indiano Lapierre riflette in India mon amour (Il Saggiatore), un memoir in cui rievoca i suoi soggiorni, dal viaggio di sei mesi su una vecchia Rolls-Royce che ispirò il suo excursus storico sull'India Stanotte la libertà, all'esperienza nella bidonville di Pilkhana raccontata in La città della gioia, e si interroga sul fascino di una nazione di enormi contrasti.

La passione della letteratura è diventata di famiglia: sua figlia, Alexandra Lapierre, è anche lei una scrittrice nota, apprezzata soprattutto per i suoi romanzi storici.

Morto Dominique Lapierre, scrisse "La città della gioia". Storia di Federico Garau su Il Giornale il 5 dicembre 2022.

È scomparso all'età di 91 anni lo scrittore francese Dominique Lapierre, conosciuto per alcuni importanti bestseller internazionali come "La città della gioia", "Più grandi dell'amore" e molti altri. Nato il 30 luglio 1931 a Châtelaillon-Plage, Lapierre è stato una grande firma della rivista periodica francese Paris Match.

La carriera

Diplomatosi al Lafayette College (Pennsylvania), Dominique Lapierre è stato il corrispondente di Paris Match per ben quattordici anni. Entrato nell'esercito francese, dove militò in un reggimento di carri armati per poi essere impiegato come interprete, fece amicizia col caporale statunitense Larry Collins, famoso giornalista e scrittore con il quale portò avanti numerose collaborazioni. Concluso il servizio militare, Collins entrò alla United Press di Parigi per poi diventare inviato in Medio Oriente per il settimanale Newsweek. Lapierre, come abbiamo detto, divenne il reporter di Paris Match.

Autore e filantropo, Dominique Lapierre viene ricordato per le opere "La Città della Gioia" e "L'Arcobaleno nella notte". Altri suoi famosi lavori sono "Mille soli" e "India mon amour". Insieme a Larry Collins scrisse "Parigi brucia?", "Gerusalemme, Gerusalemme" e "New York brucia?". Con Javier Moro, invece, pubblicò "Mezzanotte e cinque a Bhopal".

Tante le sue iniziative a favore dei fragili. Insieme a Maria Teresa di Calcutta, nel 1982 aprì la fondazione Action pour les enfants des lépreux de Calcutta, a cui ha donò la metà dei suoi diritti d'autore.

Una caduta gli creò grandi problemi

Il 10 giugno 2012 a causa di una brutta caduta entrò in coma e le sue condizioni di salute, malgrado le cure, continuarono a peggiorare nel corso degli anni. Ultimamente lo scrittore aveva perduto l'uso della parola, oltre a quello degli arti. Da tempo non era più in grado di scrivere. Oggi la notizia della morte, confermata anche dalla casa editrice Mondadori, che si è occupata della pubblicazione delle opere dell'autore francese in Italia.

L'autore de "La città della gioia" aveva 91 anni. Addio a Dominique Lapierre, una vita spesa per gli ultimi: l’arrivo negli Usa con 30 dollari e l’incontro con Madre Teresa di Calcutta. Giovanni Pisano su Il Riformista il 4 Dicembre 2022

Addio allo scrittore delle battaglie per la libertà di interi popoli che aiutava finanziando dispensari medici, scuole e centri per la lotta alla lebbra e alla tubercolosi. Il mondo piange la scomparsa di Dominique Lapierre, scrittore francese morto all’età di 91 anni in una casa di riposo. Lapierre era entrato in coma dopo una caduta nel giugno 2012 perdendo progressivamente la capacità di scrivere e l’uso della parola. La scomparsa è stata confermata da Mondadori, la sua storica casa editrice in Italia. Lascia la moglie Dominique Cochon e la figlia Alexandra, anche lei scrittrice, che vive tra Italia e Francia, autrice soprattutto di romanzi storici.

Nato nel 1931 scrisse gran parte delle sue opere con Larry Collins, giovane caporale statunitense conosciuto dopo esser entrato nell’esercito francese come militare di leva. Parte dei guadagni ottenuti nel corso della carriera dalla vendita dei libri sono andati in beneficenza all’associazione fondata con la moglie ‘City of Joy‘, che diventerà poi il titolo di uno dei suoi più celebri romanzi, ‘La Città della gioia‘, venduto in oltre 10 milioni di copie e tradotto in quaranta lingue. Best seller che racconta la storia della sopravvivenza della popolazione di uno dei sobborghi più poveri dell’India. Il libro è diventato anche un film del regista Roland Joffé nel 1992.

Celebri anche i suoi romanzi ‘Parigi brucia?’ (1965), ‘Gerusalemme! Gerusalemme!’ (1972) e ‘Un arcobaleno nella notte’ (2008). Il suo ultimo lavoro risale al 2012 con ‘Gli ultimi saranno i primi’. Sempre al fianco degli ultimi, Lapierre nel corso della sua lunga e proficua carriera letterale, ha incontrato Madre Teresa di Calcutta e in India ha fondato con la moglie Dominique l’associazione Action pour les enfants des lépreux de Calcutta, devolvendo metà dei diritti d’autore a sostegno di asili e centri per la lotta alla lebbra e alla tubercolosi.

Il suo primo romanzo, Un dollaro mille chilometri, lo pubblica nel 1949. Pochi mesi prima aveva lasciato, a 17 anni, Parigi con appena 30 dollari in tasca. Si imbarca e lavora su una nave, poi una volta giunto negli Usa viaggia per 30mila miglia lungo il continente americano per realizzare il suo primo lavoro. Successivamente viene assunto dalla rivista francese Paris Match (con la quale collabora 14 anni) che gli consente di viaggiare in tutto il mondo, conoscendo leader come De Gaulle, Ben Gurion, Giovanni Paolo II e Nelson Mandela.

Poi l’incrocio con Larry Collins, conosciuto negli anni della leva militare: un’amicizia e una collaborazione che sfociano nel primo bestseller, Parigi brucia?, pubblicato nel 1965, romanzo-cronaca – da cui verrà tratto l’omonimo film di René Clement – in cui i due autori, attraverso carte segrete ritrovate negli archivi tedeschi, documenti d’epoca, ordinanze, verbali e ricordi dei testimoni ricostruiscono perché l’ordine di bruciare Parigi dato da Hitler non venne poi eseguito e la città fu salva.

Dopo Gerusalemme Gerusalemme!, altro successo internazioonale firmato dalla coppia, Lapierre su consiglio al suo maestro, Raymond Cartier, decide di concentrarsi sull’India. Di qui il lungo viaggio sulle tracce di Gandhi, a bordo di una vecchia Rolls Royce Silver Cloud: è l’inizio di una lunga storia d’amore, da cui nasceranno Stanotte la libertà, racconto epico sulla lotta per l’indipendenza indiana, firmato a quattro mani con Collins.

Nel 1981 fondò con il reverendo James Steven un’associazione umanitaria a favore dei bambini affetti da lebbra nei sobborghi di Calcutta, sostenuta anche dai diritti d’autore dei suoi successi letterari. A Calcutta Lapierre diventò anche un intimo collaboratore di Madre Teresa che gli concesse l’esclusiva per un film sulla sua vita e sul lavoro delle sue consorelle, Le Missionarie della Carità. L’ultimo progetto voluto da Dominique Lapierre è l’Asha Bahvan Center che accoglie più di 300 bambini e adolescenti disabili della periferia di Calcutta.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

·         E’ morto il pilota Patrick Tambay.

Patrick Tambay è morto, fu pilota Ferrari in F1 dopo Villeneuve. Storia di Giorgio Terruzzi su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2022.

Conoscerlo è stato un privilegio. Un campione, una persona di rara umanità. Patrick Tambay se n’è andato, era malato da tempo, aveva 73 anni, era nato a Parigi il 25 giugno 1949. Pilota di F1, pilota Ferrari per quasi due stagioni, chiamato a sostituire il suo amico Gilles Villeneuve, scomparso in Belgio l’8 maggio 1982, dentro un anno tragico. Gilles e poi l’incidente di Pironi alla vigilia del Gp Germania, gara che Tambay vinse, regalando a se stesso e al popolo del Cavallino una consolazione memorabile. Non solo: su quella Ferrari così competitiva, avrebbe potuto persino pensare ad un clamoroso recupero nel Mondiale. Invece, fermato pure lui da una forte infiammazione ai tendini del collo che infranse quel sogno doppio, nato tra mille dolori.

Con la Ferrari vinse anche a Imola, nell’83. Un successo inatteso, ottenuto grazie ad una uscita di pista di Patrese, al comando con una Brabham, caratterizzato da un suo gesto esplicito, diretto al box mentre transitava sul traguardo con qualche problema al motore: le mani aperte, esposte oltre l’abitacolo, come dire non posso fare di più. Invece, una festa, dedicata proprio a Villeneuve che Tambay aveva frequentato e sostenuto per anni a Montecarlo. Un uomo gentile, sempre disponibile.

Un signore del motorismo, disposto come molti piloti in quegli anni, a correre ovunque. Nella serie Can Am ad esempio, campionato americano che vinse due volte, nel 1977 e nel 1980 con vetture Lola. Macchine enormi a ruote coperte, gare pericolosissime, frequentate anche dal giovane Gilles. Era forte sugli sci, scelse tardi, l’automobilismo. La carriera di Tambay in F1 iniziò nel ’77 con Surtees e d Ensign. Sembrò sul punto di decollare un anno più tardi quando venne ingaggiato dalla McLaren dopo un primo approccio con Enzo Ferrari che avrebbe voluto averlo in squadra già allora. Macché, un mezzo disastro tecnico. Quindi anni di fatica con macchine di secondo piano, l’occasione Ferrari, chiusa al termine del 1983 per far posto al giovane Alboreto, non senza qualche dispiacere dentro e attorno alla squadra. Passaggio alla Renault, una serie di piazzamenti per due stagioni, chiusura della carriera in F1 con Lola nell’84 per dedicarsi con successo alla Parigi Dakar e più tardi alla 24 Ore di Le Mans.

Nella seconda parte della sua vita è stato assessore a Le Cannet, Cannes, attivissimo sul fronte della sicurezza stradale, commentatore televisivo. Era sposato, aveva due figli, Esti, nata nell’82 e Adrien, classe 1991, pilota senza fortuna nonostante il supporto di papà Patrick con il quale finì per entrare in contrasto. Una amarezza che Tambay confessava spesso agli amici più cari. Lui che aveva svolto il ruolo tanto importante nella crescita di Jacques Villeneuve dopo la morte di Gilles.

È stato un onore e un piacere conoscerlo, godere di una innata affabilità. Il suo casco blu e bianco ricompare adesso nella memoria, offre una immagine dolente, abbinata a quella di Mauro Forghieri, al suo fianco in pista nelle stagioni Ferrari. Due compagni di viaggio, due protagonisti di un’epoca rossa molto intensa e per nulla fortunata, scomparsi nel giro di poche settimane. Che peccato, che malinconia.

·         E’ morto il sarto Cesare Attolini.

L’eleganza made in Italy piange la scomparsa di Cesare Attolini, “padre” della sartoria napoletana. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Dicembre 2022.

Napoletano, erede di una grande tradizione, aveva 91 anni, è stato salutato per il suo ultimo viaggio con parole toccanti dei figli Massimiliano e Giuseppe affidate sui social.

“Ci ha lasciati l’ultimo gigante della sartoria napoletana”, scriveva a fine novembre il figlio Giuseppe che insieme al fratello Massimiliano, ha raccolto la guida dell’antica sartoria napoletana fondata nel 1930 da Vincenzo Attolini, il papà di Cesare. Una storia di sartoria napoletana con clienti come di Totò, Vittorio De Sica, Marcello Mastroianni i quali amavano la tasca a toppa e l’inconfondibile stile della giacca alla napoletana “perfetta per uomini imperfetti”. Cesare Attolini amava il suo lavoro ed esaudiva il sogno che ogni cliente gli chiedeva, quello di poter avere un abito contraddistinto da un tocco di assoluta classe. Opera che gli è sempre riuscito, senza mai tradire il suo stile.

“Addio Maestro Cesare, sarai sempre con noi, insieme nella nostra amata sartoria. Un uomo visionario generoso appassionato autentico, umile per la sua grandezza”, hanno scritto i figli, parlando anche a nome di tutti coloro che oggi rappresentano da New York a Dubai, la forza di uno stile e di una casa di moda iconica. Cesare Attolini ha saldamente voluto un nuovo, grande stabilimento a Casalnuovo, nell’hinterland napoletano, con l’amaro addio alla sede storica di Chiaia il salotto bene della città partenopea, per coniugare l’investimento sulla tecnologia con la sostenibilità della tradizione sartoriale del territorio.  “Oggi ci lascia non solo un grande sarto, forse il più grande – scrive la sua famiglia – ma soprattutto un grande padre che ha saputo amare i suoi figli, la sua famiglia e tutti i suoi innumerevoli allievi come solo chi ha un cuore grande sa fare” scrivono i figli che lo salutano “Il tuo immenso spirito guida sarà sempre con noi. Ogni giorno, come ieri, per sempre, tutta la famiglia dei sarti Cesare Attolini”. Lascia la moglie Anna, con la quale era legato da oltre 65 anni, e i figli Massimiliano e Giuseppe.

“Mio padre se ne è andato con il sonno dei buoni nella sua casa di Napoli. – ha spiegato Giuseppe Attolini – Stava bene, non aveva malori particolari se non gli inevitabili acciacchi che sempre porta con se la vecchiaia. Fino alla sera prima abbiamo parlato di lavoro. Poi, dopo pranzo, si è addormentato per non svegliarsi mai più. Il suo collaboratore era sceso, se ne è accorta mia madre che avvicinandosi ha scoperto che non respirava più. Io e mio fratello eravamo ad un pranzo di lavoro con dei clienti olandesi, inutile dire che ci siamo subito precipitati”.

Cesare Attolini va considerato l’ ultimo grande padre “fondatore” della sartoria napoletana, ha sempre ricercava l’eccellenza e istruiva i suoi collaboratori per raggiungerla con 25/30 ore di manualità dedicata a ogni singolo capo da realizzare. Puntuale ed ineccepibile la perfetta corrispondenza tra stagione e peso: lino e lana sottile per l’estate, cachemire e tweed per l’inverno. Oltre alle raffinate varianti offerte da un mix di vecchia scuola e innovazione per le fibre naturali. E poi la giacca privata di ogni rigidità, le maniche a “mappina”, quell’equilibrio tra solidità e morbidezza difficile e imprescindibile nei capi maschili più ricercati.

Suoi gli abiti dell’ineffabile Jep Gambardella, protagonista de “La Grande Bellezza” e gli smoking che Toni Servillo portó in valigia a Los Angeles per partecipare alla cerimonia degli Oscar. Tutti con la manica a mappina e rever a lancia per mostrare l’eleganza napoletana al pubblico di tutto il mondo, mentre ritirava la statuina per il migliore film straniero. Attolini ha creato capi su misura anche per attori del calibro e carisma come  Robert De Niro, Dustin Hoffmann, Michael Douglas  Denzel Washington. Redazione CdG 1947

·         E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.

Marco Giusti per Dagospia il 3 dicembre 2022.

«In fondo, quando ci diamo la pena di rifletterci un po', non c'è che l'amore che conta nella vita... il resto non è che vanità ". Se ne va la bellissima Mylene Demongeot, 87 anni, bionda, sexy, rivale di Brigitte Bardot sulla scena del cinema europeo di fine anni '50 inizio anni '60. Il pubblico francese la adorava come la Laurette della serie di "Fantomas" diretta da André Hunnebelle con Jean Marais e Louis De Funes, Dino Risi la volle protagonista del complesso, non fortunato "Un amore a Roma", scritto da Ennio Flaiano, che lo vedeva cime una sorta di anti-dolce vita. Di grande riscatto. E non lo fu. 

Nel peplum del tempo fu la coprotagonista di Steve Reeves in "La battaglia di Maratona" di Mario Bava e Jacques Tourneur, stupenda nel suo completino bianco come Andromeda l'amore del forzuto Filippide armato di giavellotto. Divise la scena con i giovani e belli del cinema francese, Delon e Belmondo in "Fatti bella e taci" di Marc Allegret, Jacques Charrier in "Il diavolo sotto le gonne" di Michel Deville, ancora Delon in "Faibles femmes" di Michel Boisrond ancora Bebel in "Un avventuriero a Tahiti" di Jean Becker.

Stava bene con tutti, anche se questi ruoli di bella ragazza non le piacevano granché. Fece scandalo quando parti' per il Brasile per girare "Copacabana Palace" di Steno con Walter Chiari e si innamoro" pazzamente di Antonio Carlos Jobim e lascio' tutto, anche il marito, il fotografo Henri Coste, sposato nel 1958, per vivere con lui durante la rivoluzione della Bossa Nova. Del resto aveva già avuto un grande amore giovanile con il mitico Gerard Philippe e aveva oltremodo scatenato i paparazzi a Roma con le sue uscite serali. 

Nata a Nizza nel 1935, rampolla di una nobile famiglia francese e di mamma ucraina, si era spostata presto a Parigi, dove aveva studiato piano e aveva fatto la modella per esordire nel cinema nel 1953 adocchiata da Leonid Moguy in "I figli dell'amore" per proseguire poi come modella. La ritroviamo presto nel più forte "Le vergini di Salem" di Raymond Rouleau, tratto da "Il crogiuolo" di Henry Miller. Lo stesso regista la volle a teatro in "Virage dangereux".

Bellissima la ritroviamo in "Bonjour tristesse" di Otto Preminger, che fu il suo lancio americano, dove però la star è Jean Seberg e nel folle western di Roy Ward Baker "Il coraggio e la sfida", girato in Almeria, con Dirk Bogarde pistolero nerovestito francamente molto poco interessato alle donne. Si trova più a suo agio in Italia tra i peplum, "Il ratto delle sabine" di Richard Pottier con Roger Moore, "Oro per i cesari" di André De Toth, e i film d'autore, "La notte brava" di Mauro Bolognini. 

Il Brasile e Jobim le resteranno nel cuore anche se ritornerà in Francia sposando nel 1968 il regista Marc Simenon, figlio del celebre romanziere, un matrimonio che durerà fino alla morte improvvisa di lui nel 1999. Tra film e TV seguitera' a lavorare, per ottenere ben due nomination ai Cesars con "36 Quai des Orfevres" e "La Californie". Ma rivedetevi "Un amore a Roma" di Dino Risi dove è fantastica.

·         E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.

Italo Felici, morto l’ideatore di «Forum». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 3 Dicembre 2022.

Inventò la popolare trasmissione nel 1985: il commosso saluto su Facebook

Ha inventato «Forum», una delle trasmissioni più popolari di Mediaset.

È scomparso a 85 anni Italo Felici, che fu tra i primi a brevettare il programma nel 1985. L’annuncio è arrivato dalla pagina Facebook di Forum: «Il nostro grande Italo stanotte ha deciso di partire — si legge nel messaggio della trasmissione di cui è stato uno dei giudici dal 2011 al 2013 - È stato il papà di Forum, l’amico di tutti, il confidente, il consigliere. Per tanti anni ha guidato il nostro carro e ha posto le basi perché potesse resistere al tempo, ai cambiamenti, agli acciacchi degli anni. Forum è ancora giovane grazie a lui. Ti siamo immensamente grati, la tua bellezza vivrà per sempre dentro di noi».

Come nacque l’idea

In diverse occasioni Felici ha raccontato che l’idea del format gli venne mentre era al mare: due persone litigavano per l’ombra dell’ombrellone: «Mi son chiesto - raccontava l’autore —: se io portassi in televisione questi due che espongono le loro ragioni e ci fosse qualcuno con il martello che dicesse chi ha ragione, faccio contemporaneamente un servizio pubblico e anche un modo di far televisione nuovo. Forum è nato così».

In un primo momento, alcuni media - tra cui il Corriere - avevano dato la notizia della morte non di Italo Felici, ma del giudice Italo Ormanni. Ci scusiamo dell'errore con l'interessato e con i lettori.

 ·         E’ morto l’attore Brad William Henke.

Brad William Henke, morto nel sonno l’attore di «Lost» e «Orange is the New Black». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022.

La famiglia ha fatto sapere solo ora che l’intrprete ed ex giocatore di football è morto il 29 novembre nel sonno. Non sono state rivelate al momento le cause del decesso

È morto Brad William Henke, attore americano, protagonista di «Orange Is the New Black» e «Lost». è morto a 56 anni durante il sonno. L’interprete, ed ex giocatore di football, è mancato il 29 novembre, durante il sonno, anche se la famiglia ha dato la notizia solo nelle ultime ore. Non è stata ancora rivelata la causa del decesso. Henke aveva raggiunto il grande successo per il ruolo interpretato in «Orange Is the New Black», in cui interpretava Desi Piscatella, un addetto del penitenziario di Litchfield. La sua carriera nelle seire tv e al cinema è cominciata nel 1994, per caso: dopo un infortunio che lo aveva costretto a ritirarsi dal football.

Lo spettacolo

Una carriera da sportivo che rea già decisamente avviata: aveva giocato all’Università dell’Arizona prima di essere arruolato nel 1989 dai New York Giants e finire ai Denver Broncos: nel 1990 aveva anche partecipato al Super Bowl XXIV contro i San Francisco 49ers. Poi è arrivato lo spettacolo, una volta archiviata la vita da sportivo. La tv, in particolare, dove è stato protagonista di molte serie, tra cui anche «Law & Order», «Life on Mars», «Shameless», «Criminal Minds», «Bones», e «The Office». Aveva recitato anche al cinema, in film come «Pacific Rim» e «World Trade Center». «Brad era un uomo incredibilmente gentile di una energia gioiosa — ha commentato il suo manager Matt Del Piano —. Un attore di grande talento, amava far parte di questa comunità, lo abbiamo amato tanto. I nostri pensieri sono per sua moglie e la sua famiglia».

·         E’ morto l’attore Frank Vallelonga.

Frank Vallelonga, l’attore di Green Book ritrovato morto su un marciapiede del Bronx. Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022

Trovato lunedì, ma identificato solo giovedì scorso, la prima ipotesi degli agenti è che sia stato scaricato da un’auto dopo un’overdose di eroina

Il corpo trovato su un marciapiede di New York all’inizio di questa settimana è stato identificato come l’attore di «Green Book» Frank Vallelonga Jr. Il 60enne è il figlio dell’ex buttafuori di Copacabana Frank Vallelonga Sr., noto come Tony Lip,

Il film «Green Book» è stato diretto da Peter Farrelly e ha vinto tre premi Oscar 2019, tra cui quello come miglior film dell’anno. Ha come protagonisti Viggo Mortensen e Mahershala Ali e racconta l’amicizia tra un buttafuori italoamericano e un pianista afroamericano nell’America negli anni sessanta. È ispirato alla storia vera di Don Shirley e lo stesso Tony Lip, pseudonimo di Frank Anthony Vallelonga Sr.

Il suo corpo non identificato è stato scoperto lunedì mattina presto nel Bronx dopo una chiamata al 911 che ha riferito di averlo visto vicino a una fabbrica di lamiere. La polizia ha identificato Vallelonga solo giovedì scorso. Secondo le prime ipotesi, sarebbe stato scaricato da un’auto dopo un’overdose di eroina. L’accaduto è riconducibile alle ore 3.50 del mattino. Gli agenti hanno dichiarato a Fox News Digital che «all’arrivo è stato osservato un maschio adulto non identificato, privo di sensi e non cosciente, a terra sul posto, l’uomo non aveva segni evidenti di traumi osservati. L’inchiesta è in corso».

La polizia ha poi arrestato Steven Smith, un uomo di 35 anni, perché accusato di occultamento di cadavere in relazione al decesso dell’attore. «Sono molto triste nel confermare la morte di Frank», ha detto il manager di Frank Vallelonga: «È una terribile tragedia. Era un ragazzo incredibile e un grande attore». Il padre di Vallelonga Jr. è famoso per aver recitato la parte di Carmine Lupertazzi nella serie televisiva I Soprano. Frank ha avuto un piccolo ruolo in un episodio del 2004 della stessa serie.

Da tg24.sky.it il 2 dicembre 2022. Il corpo dell’attore di Green Book, Frank Vallelonga Jr., è stato ritrovato senza vita davanti a un negozio di lamiere nel Bronx (New York) dalla polizia. I sanitari intervenuti hanno constatato la morte, senza trovare segni di trauma: sarà necessario fare un’autopsia per determinare la causa della morte. Inizialmente l'uomo non era stato identificato, non avendo con sé i documenti. Secondo indiscrezioni, nelle ultime ore sarebbe stata arrestata una persona per occultamento di cadavere.

I media statunitensi hanno riportato le generalità dell'uomo arrestato, Steven Smith, con diversi precedenti penali alle spalle. Un video, ora in mano agli inquirenti, mostrerebbe un'auto fermarsi accanto al marciapiede e scaricare il corpo (poi identificato come il corpo di Frank Vallelonga Jr.).

L'auto apparterebbe al fratello di Smith. Che, interrogato dalla polizia, avrebbe detto di aver trovato Vallelonga in preda ad un'overdose e di essere andato nel panico. Smith, poi rilasciato, dovrebbe tornare in tribunale il prossimo gennaio.

Il film del 2018 Green Book si basava sulla storia del padre dell’attore scomparso, un ex buttafuori di Copacabana assunto per proteggere Don Shirley, un pianista nero durante la tournée del 1962. Vallelonga Jr ha interpretato il fratello di suo padre, Rudy, nel film, mentre quest’ultimo aveva il volto di Viggo Mortensen.

Il fratello di Frank, Nick Vallalonga, ha firmato la sceneggiatura di Green Book e Mahershala Ali ha vestito i panni di Mr. Shirley. Tuttavia Frank Vallelonga Jr. ha fatto anche altri piccoli ruoli in tv e al cinema come The Birthday Cake e anche suo padre ha fatto l’attore, per esempio interpretando il boss della mafia Carmine Lupertazzi nella celebre serie I Soprano della HBO.

·         È morto il politico Gerardo Bianco.

Da treccani.it l’1 Dicembre 2022.

Uomo politico italiano (n. Guardia Lombardi 1931). Più volte eletto alla Camera dei deputati, è stato presidente del gruppo parlamentare della Democrazia cristiana, segretario e poi presidente del Partito popolare italiano, parlamentare europeo, direttore del quotidiano Il Popolo e fondatore del Movimento per l'Europa.

Deputato della Democrazia cristiana dal 1968 al 1994, fu presidente del gruppo parlamentare (1979-83), vicepresidente della Camera dei deputati (1987-90) e ministro della Pubblica Istruzione (luglio 1990 - marzo 1991). Dopo aver presieduto nuovamente il gruppo della DC alla Camera (1992-94), in seguito alla frantumazione della stessa DC nel gennaio 1994 aderì al Partito popolare italiano (PPI).

Nel marzo 1995 fu eletto dal Consiglio nazionale segretario del PPI in sostituzione di R. Buttiglione, alla cui proposta di alleanza con le forze di centro-destra si era opposto. Nei mesi successivi B. promosse l'inserimento del partito all'interno dello schieramento di centro-sinistra (l'Ulivo), vincitore nelle elezioni politiche dell'aprile 1996. Nel gennaio 1997 ha lasciato la segreteria del PPI ed è stato nominato presidente del partito, carica che ha ricoperto fino all'ottobre 2000.

Parlamentare europeo dal giugno 1994 al giugno 1999, ha diretto il quotidiano Il Popolo, organo del PPI, nell'agosto 1995 e dall'ottobre 1999 all'aprile 2000. Nel maggio 2001 è stato rieletto deputato. Nel 2002 è stato uno dei principali rappresentanti della corrente contraria alla continuazione dell'attività politica all'interno della Margherita, lista con cui il Partito popolare si è presentato alle elezioni politiche del 2001.

Nel 2004 ha fondato il Movimento per l'Europa, che si proponeva di ridare un'autonoma presenza organizzata ai cattolici democratici in Italia. Dal 2006 al 2008 è stato rieletto deputato nella lista dell'Ulivo. Latinista, è stato condirettore della Enciclopedia oraziana presso l'Istituto della Enciclopedia Italiana.

È morto Gerardo Bianco, storico esponente della Democrazia cristiana. Redazione Online su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022

Bianco, ex ministro della Pubblica istruzione tra i 1990 e il 1991, aveva 91 anni

Gerardo Bianco, esponente storico della Democrazia cristiana ed ex segretario del Partito popolare italiano, è morto oggi a Roma. Aveva 91 anni: a causarne la morte è stato un improvviso peggioramento dopo un intervento che aveva subito.

Bianco, originario di Guardia Lombardi, in provincia di Avellino, nel 1931, è stato ministro della Pubblica istruzione tra il 1990 e il 1991, nel sesto governo Andreotti. Deputato alla Camera per nove legislature (dal 1968 al 2008) ha ricoperto vari incarichi parlamentari, tra cui quello di capogruppo della Dc e vicepresidente dell’aula. Vicino alla corrente della DC «Base», composta prevalentemente da avellinesi e guidata da Fiorentino Sullo prima e Ciriaco De Mita dopo, se ne allontana nel 1978 per avvicinarsi a quella guidata da Carlo Donat-Cattin prima e Franco Marini dopo «Forze Nuove». Nel 1994, in seguito alla fine della DC, aderisce al nuovo Partito Popolare (PPI) di Mino Martinazzoli e viene eletto Europarlamentare a Strasburgo. Nel 1995 si schiera contro la virata a destra di Rocco Buttiglione, divenuto nel frattempo segretario. Così Bianco raccoglie intorno a sé una parte del centro e tutta la sinistra del partito.

«Con grande tristezza apprendo la notizia della scomparsa di Gerardo Bianco. Uomo libero e coraggioso, saggio e di visione. Con le sue scelte e la sua determinazione ha dato un contributo fondamentale alla nascita del centrosinistra. Tanti ricordi, tanta nostalgia, enorme rispetto». Così su Twitter il leader del Pd, Enrico Letta..«Era un uomo libero, colto, coraggioso, buono. Senza di lui non sarebbe nato l’Ulivo e soffriva che questo non gli fosse pienamente riconosciuto. Era antico e moderno insieme, custode della nobiltà della politica ma capace di capire il nuovo. Uno dei Grandi della Democrazia Cristiana», ha scritto il senatore del Pd Dario Franceschini. «Gerardo Bianco è stato un maestro impareggiabile, il migliore dei democristiani, anche nel dissenso. La sua storia è stata quella di un grande uomo di libertà. Per me è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla famiglia e alla comunità di amici che non lo ha mai lasciato solo». ha commentato Gianfranco Rotondi. «La scomparsa di Gerardo Bianco costituisce, non solo per noi democristiani, la perdita di un autentico servitore dello Stato e delle sue Istituzioni. Nel suo lungo percorso politico non è mai mancata la passione per la ricerca del confronto fondato sulle idee e sulla capacità di ascolto, forte della sua formazione umanistica. Mi si permetta di aggiungere un altro aspetto di Gerardo: la proverbiale umiltà, frutto della sua gentilezza d’animo. Rivolgo, insieme a tutta la comunità dell’UDC, le più sentite condoglianze alla sua famiglia a cui siamo vicini con la preghiera. Oggi salutiamo e rendiamo onore a un politico di razza e a un vero galantuomo. Ciao Gerardo», afferma in una nota Lorenzo Cesa, segretario nazionale dell’Udc.

È morto Gerardo Bianco, storico esponente della Dc. Mattarella: "Leale servitore delle istituzioni".  Redazione Politica su La Repubblica l’1 Dicembre 2022

L'ex ministro della Pubblica Istruzione, deputato dal 1968 al 2006 ed ex segretario nazionale del Partito Popolare Italiano, aveva 91 anni. Franceschini: "Senza di lui non sarebbe nato l'Ulivo"

È morto questa mattina a Roma Gerardo Bianco, esponente storico della Democrazia cristiana. Aveva 91 anni. È stato deputato alla Camera per nove legislature, dal 1968 al 2006, ricoprendo vari incarichi parlamentari, tra cui quello di capogruppo della Democrazia cristiana. È stato anche ministro della pubblica istruzione dal 27 luglio 1990 al 13 aprile 1991 nel governo Andreotti VI. "Leale servitore delle istituzioni, politico appassionato, ricco di cultura e umanità", il ricordo del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

Dopo la fine della Dc ha fatto parte del Partito Ppopolare Italiano (di cui è stato segretario e presidente), fino al passaggio nella Margherita di Francesco Rutelli e nella Rosa per l'Italia di Tabacci e Baccini. Ha ricoperto anche l'incarico di presidente dell'Associazione ex parlamentari.

Su Twitter il ricordo del segretario del Pd, Enrico Letta: "Con grande tristezza apprendo la notizia della scomparsa di Gerardo Bianco. Uomo libero e coraggioso, saggio e di visione. Con le sue scelte e la sua determinazione ha dato un contributo fondamentale alla nascita del centrosinistra. Tanti ricordi, tanta nostalgia, enorme rispetto".

"Gerardo Bianco era un uomo libero, colto, coraggioso, buono. Senza di lui non sarebbe nato l'Ulivo e soffriva che questo non gli fosse pienamente riconosciuto. Era antico e moderno insieme, custode della nobiltà della politica ma capace di capire il nuovo. Uno dei Grandi della Democrazia cristiana. Per me un amico e un maestro. Ciao Gerardo", le parole del senatore democratico, Dario Franceschini. Bianco "è stato un maestro impareggiabile, il migliore dei democristiani, anche nel dissenso. La sua storia è stata quella di un grande uomo di libertà. Per me è un momento di dolore assoluto che mi unisce alla famiglia e alla comunità di amici che non lo ha mai lasciato solo", commenta Gianfranco Rotondi.

Sui social anche il messaggio di cordoglio del ministro degli Esteri, Antonio Tajani: "Ci lascia un uomo colto e difensore della libertà, un protagonista della politica italiana. Condoglianze alla sua famiglia. Riposi in pace".

Fu ministro con Andreotti. Chi era Gerardo Bianco, storico esponente della Dc: è morto a 91 anni. Redazione su Il Riformista l’1 Dicembre 2022

Aveva 91 anni, è morto a Roma Gerardo Bianco, storico esponente della Democrazia cristiana, del Partito Popolare Italiano (di cui è stato segretario e presidente), della Margherita e della Rosa per l’Italia. È stato deputato alla Camera per nove legislature ricoprendo vari incarichi tra cui quello di capogruppo della Democrazia cristiana. È stato anche ministro della pubblica istruzione dal 27 luglio 1990 al 13 aprile 1991 nel governo Andreotti VI. È stato anche presidente dell’Associazione ex parlamentari.

Nato a Guardia Lombardi, provincia di Avellino, il 12 settembre 1931 ha dedicato tutta la sua vita all’impegno politico. Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo ha ricordato come "Leale servitore delle istituzioni, politico appassionato, ricco di cultura e umanità". Bianco si laureò in lettere classiche dell’Università degli Studi di Parma, diventando poi docente universitario di storia della lingua latina e letteratura latina presso la facoltà di lettere e filosofia dell’Università di Parma. È sempre stato considerato dagli ambienti parlamentari un uomo di cultura prestato alla politica.

È stato deputato dal 1968 al 2008 in 9 legislature, 7 delle quali dal 1968 al 1994 con la Democrazia Cristiana. Capogruppo a Montecitorio della DC nel corso della VIII legislatura, dal 1979 al 1983. Vicepresidente della Camera dal 1987 fino al 1990, quando divenne Ministro della pubblica istruzione (fino a marzo ’91) nel sesto governo Andreotti. Dal 1992 al 1994 ha presieduto nuovamente il gruppo della DC alla Camera. Nel 1994, con la fine della Dc, aderisce al nuovo Partito Popolare (PPI) di Mino Martinazzoli e viene eletto Europarlamentare a Strasburgo. Nel 1995 si schiera contro la virata a destra di Rocco Buttiglione, divenuto nel frattempo segretario. Bianco concentrò intorno a se una parte del centro e tutta la sinistra del partito, ottenendo la bocciatura della decisione del segretario dall’assemblea nazionale. La frattura tra i due non si ricompose più, finchè fu raggiunta un’intesa tra le due componenti che facevano capo a Buttiglione e Bianco nel PPI: si sarebbero separati, dove quella di Bianco conserva il nome del partito (Partito Popolare Italiano) mentre quella di Buttiglione mantenne il simbolo storico (lo scudo crociato), con il quale a luglio diede vita ai Cristiani Democratici Uniti. Bianco ha guidato il partito per tre anni, contribuendo in maniera determinante alla nascita dell’Ulivo e all’arrivo del cattolico Romano Prodi a Palazzo Chigi. È stato direttore del quotidiano Il Popolo, organo ufficiale della Democrazia Cristiana prima e del Partito Popolare Italiano poi. Alle elezioni politiche del 2006 viene rieletto alla Camera nelle liste dell’Ulivo (La Margherita con i Democratici di Sinistra di Piero Fassino), per poi comunicare alle camere (il 15 febbraio 2008) di non aderire al PD e di passare al gruppo misto. Successivamente, con il suo movimento Italia Popolare, e insieme a Savino Pezzotta e Bruno Tabacci, dà vita al progetto centrista della Rosa per l’Italia, partito svincolato dai poli e di ispirazione cattolica.

In poche ore il cordoglio del mondo della politica per la sua scomparsa. "Con grande tristezza apprendo la notizia della scomparsa di Gerardo Bianco. Uomo libero e coraggioso, saggio e di visione. Con le sue scelte e la sua determinazione ha dato un contributo fondamentale alla nascita del centrosinistra. Tanti ricordi, tanta nostalgia, enorme rispetto", ha scritto Enrico Letta su Twitter. "Gerardo Bianco era un uomo libero, colto, coraggioso, buono. Senza di lui non sarebbe nato l’Ulivo e soffriva che questo non gli fosse pienamente riconosciuto. Era antico e moderno insieme, custode della nobiltà della politica ma capace di capire il nuovo. Uno dei Grandi della Democrazia cristiana. Per me un amico e un maestro. Ciao Gerardo", le parole del senatore democratico, Dario Franceschini. Anche il ministro degli Esteri Antonio Tajani lo ha ricordato dai social: "Ci lascia un uomo colto e difensore della libertà, un protagonista della politica italiana. Condoglianze alla sua famiglia. Riposi in pace".

Gerardo Bianco era un peones ma valeva 10 leader di oggi. David Romoli su Il Riformista il 2 Dicembre 2022

Li chiamavano "Peones" e la definizione è sopravvissuta sino a oggi. Erano quei parlamentari Dc eletti col solo compito di alzare la mano come partito comanda, senza mettere becco nelle scelte dei leader. Nell’ottobre del 1979 i peones si ribellarono all’improvviso e lasciarono l’intero vertice Dc sbigottito, silurando il candidato del segretario Zaccagnini, e del divino Andreotti, alla presidenza del gruppo parlamentare.

Il candidato era Giovanni Galloni, che tutti – scomparso Moro – consideravano lo stratega numero 1. Al suo posto elessero Gerardo Bianco, leader di quegli stessi anonimi peones, sbalzato d’improvviso al centro della scena politica. Era in Parlamento già da 11 anni. Ci sarebbe rimasto sino al 2008, saltando il turno nelle elezioni del 1994, dalle quali uscì una delle legislature più brevi della storia della Repubblica, e in quelle del 1996. La mancata elezione nel 1996 non è un particolare grigio da scheda biografica. Connota invece l’uomo e il politico. Ne illustra lo stile. Spiega senza bisogno di ulteriori discorsi la stima universale dalla quale era circondato. Quelle elezioni infatti le vinse l’Ulivo e Gerardo "Gerry White" Bianco dell’Ulivo era stato tra i padri fondatori.

Era segretario del Ppi, una delle due radici, con il Pds, da cui traeva linfa l’albero di Prodi. Come leader dei popolari avrebbe potuto candidarsi nel più sicuro dei collegi: decise invece di correre solo nel proporzionale. Alzi la mano chi è capace di citare un altro leader che, nella storia repubblicana, abbia scelto di esporsi senza paracadute (forse l’unica eccezione è D’Alema nel 2001). Gli andò male per colpa di quel diabolico meccanismo elettorale che era lo scorporo, restò fuori dal Parlamento e dopo qualche mese abbandonò anche la segreteria del partito, di cui restò tuttavia presidente. Sarebbe rientrato nel 2001, in tempo per aggiungere altre due legislature alle sette che già poteva vantare.

Quando mise al tappeto Galloni, che non era uno qualsiasi ma l’uomo forte della segreteria Zaccagnini, quasi un segretario ombra dello Scudo crociato, Gerry White aveva da un anno abbandonato la corrente "Base", appartenenza quasi obbligatoria per un avellinese come lui (anche Galloni, comunque, che non era campanao, era della Base, corrente fondata da Marcora, erede di Dossetti). Bianco ea stato amico e compagno di studi alla Cattolica di Milano del concittadino Ciriaco De Mita, leader della corrente. Bianco però era contrario alla solidarietà nazionale, l’accordo tra Dc e Pci che segnò la seconda metà degli anni ‘70. Si spostò quindi verso la corrente di Carlo Donat-Cattin, sinistra sociale Dc però rigida nel bocciare ogni intesa col Pci.

Per tutta la vita, sino alla scelta di non aderire al Pd nel 2008, Bianco è sempre rimasto essenzialmente questo: un democristiano autonomista. Di lui, classe 1931, latinista, docente di lingua e letteratura latina, si diceva allora e si è poi tramandato nel tempo – nonostante le tante legislature, la guida dei deputati Dc nel 1979 e poi di nuovo nel ‘92, l’elezione al Parlamento europeo nel 1994, la presidenza del Ppi, la direzione del quotidiano Il Popolo nel 1994 e poi di nuovo nel 1999 – si diceva che era "un intellettuale prestato alla politica". Forse perché, da gentiluomo, quale indiscutibilmente era, evitava gomitate e colpi bassi, strumenti considerati già allora quintessenza dell’agire politico. La questione la risolse lui stesso, in un’intervista del febbraio scorso: "Io metto in dubbio che sia un intellettuale. Ho coltivato gli studi, sono uno che ha moderatamente letto parecchi libri anche del mondo latino ma non mi ritengo un grande intellettuale. Ho fatto politica per tutta la vita, con grande passione soprattutto per la vita parlamentare".

Politico Bianco lo è stato sempre, però anomalo, tanto più per un democristiano convinto quale era. Ricordandolo ieri sull’Huffpost Gianfranco Rotondi, che gli è sempre stato vicinissimo nonostante le opposte scelte di campo lo ha definito "un libero pensatore, cultore ossessivo dell’autonomia propria e degli altri". Avrebbe potuto aggiungere anche "dell’autonomia del partito". Quando il leader peone sbaragliò Galloni, i giornali scrissero che aveva vinto la destra e di destra Bianco fu considerato anche quando, nel luglio 1990, accettò di sostituire Sergio Mattarella, dimessosi dalla Pubblica istruzione con altri 4 ministri della sinistra Dc per protesta contro la legge Mammì che legittimava il duopolio televisivo Rai-Fininvest. Lui per la verità avrebbe preferito evitare anche quell’unica esperienza ministeriale nella sua intera biografia. Per costringerlo il segretario della Dc fece leva sulla moglie: "Non volevo andare a giurare ma mia moglie fu pregata da Forlani".

Quanto poco fosse "di destra" Gerry White lo si capì nel 1995. Nella battaglia all’interno del Ppi, uno dei pochi scontri di partito che hanno davvero cambiato la storia italiana, Bianco non ebbe dubbi di sorta. Il segretario Rocco Buttiglione voleva schierare il Ppi a fianco di Berlusconi alla caduta del cui governo, pochi mesi prima, lo stesso Buttiglione aveva dato un apporto essenziale. Se il Consiglio nazionale avesse approvato la proposta, come tutti davano per certo, Berlusconi sarebbe tornato subito al governo e l’intero corso della seconda Repubblica sarebbe stato diverso.

Gerardo Bianco, con Mattarella, Bindi, Castagnetti e Marini, fu al centro del gruppo che rovesciò l’esito della votazione. Dopo la scissione, a quel punto inevitabile, fu eletto segretario. Bianco fu ulivista convinto, ma sempre contrario a cancellare l’identità e l’autonomia del partito cattolico. Aderì alla Margherita controvoglia e senza nascondere dubbi su una formazione che ammainava la bandiera del Ppi e dunque anche di quanto della Dc restava. Contrario alla nascita del Pd lo abbandonò subito dopo l’ultima elezione alla Camera, nel 2008, per passare al gruppo Misto. David Romoli

L'ultimo saluto a Gerardo Bianco, il capo dei "peones" dc che guidò i Popolari. Storia di Angelo Picariello su Avvenire il 3 dicembre 2022.

Sono stati celebrati stamattina dal vescovo Guerino Di Tora, alla chiesa di San Gaetano al quartiere Tor di Quinto, i funerali di Gerardo Bianco. Presenti al rito anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi. Originario di Guardia dei Lombardi, in provincia di Avellino, è stato un assoluto protagonista nella Democrazia cristiana, ma anche successivamente - una volta chiusa quell’esperienza politica - alla guida del Partito popolare italiano, contribuendo poi alla nascita della Margherita e dell'Ulivo.

Presenti all'ultimo saluto, fra gli altri, l'ex presidente della Camera Pierferdinando Casini, l'ex segretario dell'Udc Marco Follini, molti esponenti della Dc irpina, come Peppino Gargani e Ortensio Zecchino, il deputato Gianfranco Rotondi, e tanti ex parlamentari fra cui l'inseparabile Maurizio Eufemi, Franco De Luca, Renzo Lusetti, Nicodemo Oliverio (al suo fianco come amministratore alla direzione de quotidiano Il Popolo), l'ex presidente della Commissione Difesa della Camera Francesco Saverio Garofani (oggi consigliere di Mattarella al Consiglio supremo di Difesa) e Giampaolo D'andrea che è succeduto di recente a Bianco alla guida della associazione Animi.

Lascia la moglie Tina, docente che - scherzava lui - ultimamente gli faceva anche da autista, nella sua intensa attività di conferenziere, i figli Mariella, Fazio e Andrea e il fratello Lucio, ex presidente del Cnr. Dopo le commoventi parole di due dei suoi sette nipoti è stato Pierluigi Castagnetti a svolgere l'orazione funebre. Mattarella, che aveva appreso «con stato d'animo di tristezza» la notizia lo aveva definito «leale servitore delle istituzioni, politico appassionato, ricco di cultura e umanità». Durante la fase alla guida del Ppi, la sua seconda giovinezza, gli fu affibbiato il soprannome di Gerry White, che gli è rimasto appiccicato addosso. Uomo di cultura, fine latinista, è stato un esponente atipico di quella generazione democristiana. Così lo ha ricordato nell'omelia anche il vescovo di Tora, tratteggiando l'uomo di fede, di carità e di cultura, «approfondito studio di un grande sacerdote come Luigi Sturzo, e amante delle citazioni latine».

Riluttante all'esercizio potere, ministro una sola volta, e anche un po' di malavoglia, lo divenne alla Pubblica Istruzione nel 1990 nel VI governo Andreotti, a seguito delle dimissioni dei 5 ministri della sinistra Dc. Fu deputato per 9 legislature, vicino a "Forze nuove" di Carlo Donat Cattin, ha sempre agito in realtà al di fuori delle correnti, considerando la sua vera dimensione proprio l’attività di parlamentare che gli ha dato le maggiori soddisfazioni. La più importante, storica, nel 1979 quando fu eletto per la prima volta (la seconda sarà nel 1992) alla guida del gruppo alla Camera in dissenso con le indicazioni del partito - che puntavano su Giovanni Galloni, esponente della sinistra di Base - a seguito della cosiddetta "rivolta dei peones". Vicepresidente della Camera dal 1987 al 1990, ha avuto anche una più breve esperienza, dal 1994 al 1999, al Parlamento europeo, eletto per il Ppi, divenendo presidente dell'Assemblea del Consiglio d'Europa. Nel 2001 è stato rieletto deputato per la Margherita, e nel 2008 con l'Ulivo, e diede un decisivo impulso a entrambi i progetti politici. In una fase più recente si era impegnato per promuovere, (per questo fondò il Movimento per l'Europa) una presenza organizzata e autonoma dei cattolici democratici.

Nello scorso agosto, in una delle ultime interviste, resa proprio al nostro giornale, di fronte alla annunciata vittoria del centrodestra a guida Giorgia Meloni aveva parlato del rischio di una «svolta autoritaria» se - a seguito di questa affermazione - fosse stato portato avanti un proposito di riforma presidenziale, da una parte sola dello schieramento che lo aveva inserito nel suo programma, con il rischio che denunciava, così, di stravolgere l’impianto costituzionale di democrazia parlamentare.

In una precedente intervista, sempre ad Avvenire, alla vigilia della riunione del Parlamento a Camere riunite per l’elezione del presidente della Repubblica si era speso perché fosse evitato a Sergio Mattarella l’impegno di un secondo mandato, e si puntasse su Mario Draghi al Quirinale. Era legatissimo al capo dello Stato, dopo che nella Dc si era trovato anche su fronti opposti. La sua nomina a ministro dell’Istruzione avvenne, come detto, proprio a seguito delle dimissioni di 5 ministri della sinistra Dc (fra questi Mattarella) decise in disaccordo con l’approvazione di un piano frequenze tv, ritenuto troppo benevolo verso le reti detenute da Silvio Berlusconi, al tempo vicino al Psi di Bettino Craxi. Poi però quando nel 1995 avvenne la scissione fra i popolari a seguito della rottura con la componente legata a Rocco Buttiglione Bianco e Mattarella si ritrovarono dalla stessa parte, e lo stesso Bianco assunse la guida del Ppi. Anche con Ciriaco De Mita, il suo conterraneo e coetaneo segretario della Dc e presidente del Consiglio, c’è stata una alteranza di rapporti. Formatisi entrambi alla Cattolica, a Milano, entrati in politica insieme seguendo le orme di Fiorentino Sullo, per lungo tempo hanno poi militato su fronti contrapposti, nella Dc, ma negli ultimi anni si erano riavvicinati. Fra gli ultimi impegni di Bianco la guida dell’associazione degli ex parlamentari, nell’ambito della quale si è fortemente battuto per la difesa dei vitalizi e contro il taglio, considerando entrambi un segno della caduta di riconoscimento della centralità del Parlamento.

Proprio al temine dell'intervista resa ad Avvenire sull'elezione del Capo dello Stato, tracciando a microfoni spenti un bilancio della sua vita nelle istituzioni, mentre andava alla fermata del taxi di piazza di Torre Argentina per fare ritorno a casa, fermatosi un attimo, reggendosi sul bastone con la mano destra, affermò con un senso di commozione: «La cosa che mi ha dato più soddisfazione è stata l'attività parlamentare», con il tono con cui si può parlare di un grande amore ricambiato.

Europeista sturziano, appassionato dell'attività parlamentare è stato, come ha ricordato Castagnatti, anche un grande meridionalista. L’ultimo impegno in ordine di tempo è stato la presidenza dell’Animi (l’Associazione nazionale per gli Interessi del Mezzogiorno) che aveva lasciato pochi giorni fa, consapevole del peggioramento delle sue condizioni a seguito di un intervento all’orecchio che gli aveva lasciato degli strascichi.

·         È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.

È morta Christine McVie, tastierista e vocalist dei Fleetwood Mac. A cura della redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2022.

La cantautrice, 79 anni, era entrata a fare parte della band inglese nel 1970. Aveva lasciato i Fleetwood Mac nel 1998 ed era tornata a suonare con il gruppo nel 2014 per un concerto celebrativo

È morta dopo una breve malattia, all'età di 79 anni, Christine Anne McVie, cantautrice e tastierista inglese. Lo annunciano i Fleetwood Mac, la band in cui era entrata nel 1970 e che aveva abbandonato nel 1998 per rientrare poi nel 2014, e la sua famiglia, che era in ospedale al suo capezzale, in un messaggio congiunto diffuso sui social: "Se ne è andata in pace stamattina. Vorremmo che tutti tenessero Christine nei loro cuori e ricordassero la vita di un incredibile essere umano e di una venerata musicista che era amata universalmente", si legge nella dichiarazione che chiede "il rispetto della privacy dei familiari in questi giorni di grande dolore". Il decesso risale al 30 novembre. Nella sua lunga carriera ha vinto due Grammy Award, è entrata come tastierista e vocalist dei Fleetwood Mac nella Rock and Roll Hall of Fame. Inoltre ha realizzato tre album da solista.

"Non ci sono parole per descrivere la nostra tristezza per la morte di Christine McVie. Lei era davvero una persona unica, speciale e con un talento oltre ogni misura. Era la miglior musicista che uno potesse avere nella propria band, e la migliore amica che uno potesse avere nella propria vita. Siamo stati così fortunati a poter condividere la nostra vita con lei. Individualmente e insieme abbiamo apprezzato profondamente Christine e siamo grati per i fantastici ricordi che abbiamo. Ci mancherà", scrive il gruppo.

I Fleetwood Mac, band britannico-americana, sono nati musicalmente a Londra nel 1967 e hanno venduto oltre cento milioni di album in tutto il mondo. I membri superstiti - Peter Green, uno dei co-fondatori, è morto due anni fa a 73 anni - hanno reso omaggio alla McVie: "Non ci sono parole per descrivere la nostra tristezza. Christine è stata una persona unica, speciale e piena di talento".

Nata Christine Perfect, McVie aveva sposato il bassista della band John McVie e nell'agosto 1970 si era unita al gruppo. I Fleetwood Mac sono stati una delle formazioni rock più amate e influenti degli anni Settanta e Ottanta (Bill Clinton, che era cresciuto con la loro musica, aveva fatto di Don't stop l'inno della sua prima campagna elettorale). Nel 1977 il loro album Rumours, ispirato dalle separazioni dei McVie (lei si era innamorata del responsabile delle luci di palco) e dell'altra coppia della band, Buckingham e Stevie Nicks, è diventato uno dei più grandi successi di tutti i tempi vendendo oltre 40 milioni di copie in tutto il mondo. Nella sua carriera McVie ha ricevuto un Brit Award per il suo contributo alla musica nel 1998 e nel 2014 le è stato assegnato un premio Ivor Novello alla carriera dall'Accademia britannica dei cantautori e compositori.

I Fleetwood Mac 

L'anno scorso, seguendo l'esempio di altri musicisti come Bob Dylan, Neil Young e Paul Simon, Christine aveva venduto il suo catalogo musicale a Hipgnosis. Questo significa che 48 delle 68 canzoni negli album più di successo del gruppo sono passati di mano, tra questi brani come Don't stop e Little lies.

Addio a Christine McVie, pioniera del blues e prima donna dei Fleetwood Mac.  Gabriele Antonucci su Panorama l’01 Dicembre 2022.

L'artista si è spenta a 79 anni, dopo una breve malattia. Dopo l'esperienza con i Chicken Shack, la musicista è stata voce, tastierista e autrice di alcuni dei brani più famosi dei Fleetwood Mac, con i quali è entrata nella Rock and Roll Hall of Fame

Il mondo della musica piange la scomparsa di Christine McVie, cantante, cantautrice e tastierista dei Fleetwood Mac, morta ieri, all'età di 79 anni, dopo una breve malattia. L'annuncio ufficiale è stato dato sulle pagine social della leggendaria band angloamericana, in cui l'artista era entrata nel 1970 per poi abbandonarlo nel 1998 (con una breve e fortunata reunion nel 2014): «Non ci sono parole per descrivere la nostra tristezza per la morte di Christine McVie. Era davvero una persona unica, speciale e con un talento oltre ogni misura. Era la migliore musicista che uno potesse avere nella propria band, e la migliore amica che uno potesse avere nella propria vita. Siamo stati così fortunati a poter condividere la nostra vita con lei. Individualmente e insieme abbiamo apprezzato profondamente Christine e siamo grati per i fantastici ricordi che abbiamo. Ci blues e prima donna dei Fleetwood Mac mancherà così tanto», aggiungendo alcune ore dopo un messaggio personale del fondatore del gruppo: «A nome di Fleetwood Mac, i nostri cuori, il nostro amore e le nostre condoglianze vanno alla famiglia e agli amici di Christine. Amore, Mick Fleetwood». Sulla pagina personale di Christine McVie è stato postato il comunicato ufficiale della famiglia dell'artista: «A nome della famiglia di Christine McVie, è con il cuore pesante che vi informiamo della morte di Christine. Si è spenta serenamente in ospedale questa mattina, mercoledì 30 novembre 2022, a seguito di una breve malattia. Era in compagnia della sua famiglia. Chiediamo gentilmente di rispettare la privacy della famiglia in questo momento estremamente doloroso e vorremmo che tutti conservassero Christine nei loro cuori e ricordassero la vita di un incredibile essere umano e di un musicista venerato che era amato universalmente. RIP Christine McVie». Christine Perfect (questo il suo nome da nubile), nata il 12 luglio del 1943 a Bouth, un piccolo villaggio nel Nord-Ovest dell'Inghilterra, è stata negli anni Sessanta una pioniera femminile del blues, un mondo tradizionalmente maschile, come originale tastierista dei Chicken Shack, una band formata insieme ai suoi ex compagni di band Andy Silvester e Stan Webb, con i quali suonava nei pub prima di trasferirsi a Londra, dove lavorava come vetrinista in un negozio. L'arte del blues, un mondo di passione e dolore racchiuso in dodici battute, l'aveva imparata da Spencer Davis, fondatore della celebre band rock a suo nome, con il quale cantava spesso. Curioso che un'artista dall'anima blues come lei provenisse da una formazione classica, iniziando a suonare il pianoforte a soli 4 anni. La piccola Christine aveva iniziato a respirare la musica fin dalla tenera età: suo padre, Cyril Percy Absell Perfect, era un violinista e insegnante di musica al St Peter's College of Education, a Birmingham, mentre suo nonno era organista presso l'Abbazia di Westminster. A quindici anni suo fratello le fece ascoltare un album di Fats Domino e da lì nacque il suo amore, folgorante, per il rock and roll, che le fece abbandonare il piano classico in favore delle tastiere. Il singolo di debutto dei Chicken Shack, It's ok with me, composto dalla stessa tastierista, mette subito in luce l'ispirazione con il Chicago Blues, reso più contemporaneo da sonorità rock. Christine Perfect resta con la band per due album, ma, dopo il matrimonio con John McVie, lascia i Chicken Shack per dedicarsi alla carriera solista, pur partecipando ogni tanto, come corista e tastierista, alle registrazioni della band del marito, i Fleetwood Mac. Solo dopo la pubblicazione dell'omonimo album di debutto Christine Perfect nel 1970, la tastierista entra in pianta stabile nel gruppo, che nel frattempo aveva perso il geniale e sfortunato chitarrista Peter Green (vittima delle droghe e dei suoi demoni mentali), dando il suo tocco inconfondibile agli album Future Games (1971), Bare Trees (1972) e Mystery to Me (1974). Il trasferimento della band in America e l'ingresso della coppia Stevie Nicks e Lindsey Buckingham alla metà degli anni Settanta ha portato la band al successo con il disco Fleetwood Mac del 1975 ma, soprattutto, con un album epocale come Rumours (in italiano "Pettegolezzi, Voci"), uno dei più venduti nella storia del pop-rock con oltre 40 milioni di copie, che raccontava proprio la crisi del suo matrimonio con John McVie (la tastierista si era innamorata del responsabile delle luci del gruppo) e quello di Stevie Nicks e Lindsey Buckingham. L'album, celebre anche per la copertina con l'iconica foto di Herbert Worthington scattata a Mick Fleetwood e Stevie Nicks (che indossava il suo abito di scena da Rhiannon), contiene una serie impressionante di singoli, nonché molte canzoni composte e cantate da Christine: Don't stop, Songbird, You make loving fun e Oh daddy. È curioso come il maggior successo commerciale della band sia coinciso esattamente con il periodo più burrascoso dal punto di vista personale dei suoi membri, ma, si sa, i veri artisti sono in grado di trasformare il dolore in ispirazione e in canzoni destinate a rimanere negli anni, come quelle, ancora oggi attualissime, di Rumours, che nel 1978 si aggiudica meritatamente il Grammy come migliore album dell'anno. L'artista ha continuato ad attraversare gli alti e bassi della band (pubblicando nel 1984 il suo secondo album solista Christine McVie) fino al 1998, anno in cui è stata inserita nella Rock and Roll Hall of Fame come membro dei Fleetwood, oltre a ricevere il Brit Award per il suo fondamentale contributo alla musica inglese. Uno dei motivi principali dell'abbandono del gruppo che le ha dato fama e successo, oltre ai rapporti sempre più tesi con gli altri componenti, era stata la sua fobia dell'aereo: poiché i tour avevano ritmi molto serrati, per lei, che si muoveva quasi esclusivamente via terra tramite treno e navi, era sempre più difficile rispettare i tempi. L'artista ha confessato, in un'intervista a Rolling Stone del 2014, che ha superato la sua fobia del volo grazie all'aiuto della psicoterapia: una buona notizia per chi ha potuto vederla dal vivo nella trionfale reunion del 2013 all'arena O2 Londra, e poi nel successivo tour. Nel 2004 la tastierista e cantante aveva pubblicato il suo terzo e ultimo album solista, In the Meantime, nel quale raccontava la fine del suo sodalizio con i Fleetwood Mac e quella del suo secondo matrimonio con il tastierista Eddy Quintela, sposato nel 1986. Nel 2017 Lindsey Buckingham e Christine McVie hanno pubblicato un nuovo album congiunto, intitolato semplicemente Lindsey Buckingham Christine McVie, a cui hanno partecipato anche Mick Fleetwood e John McVie: in pratica, un album dei Fleetwood Mac a tutti gli effetti, promosso poi attraverso un lungo tour all'insegna del sold out. Nel 2021, sulla scia di altri grandi cantautori come Bob Dylan, Neil Young e Paul Simon, Christine McVie ha venduto il suo catalogo musicale, con 48 tra le canzoni di maggior successo dei Fleetwood Mac, al fondo Hipgnosis. Canzoni indimenticabili, che hanno raccontato, attraverso arrangiamenti raffinati e armonie vocali emozionanti, gli alti e i bassi della vita di ciascuno.

·         È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.

Da ilgiorno.it il 29 novembre 2022.

È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri. Aveva 83 anni. Originario di Orta san Giulio, dove era nato il 22 marzo del 1939, Cerri si è laureato al Politecnico di Milano, dove ha insegnato con Umberto Eco. 

È stato partner fondatore della Gregotti Associati, con cui ha vinto numerosi concorsi d'architettura. Membro della Alliance Graphique Internationale, nel 1976 ha diretto l'immagine della Biennale di Venezia; è stato responsabile dell'immagine della Kunst- und Ausstellungshalle di Bonn e di Palazzo Grassi a Venezia. 

A ricordarlo Stefano Boeri. "Ci ha lasciato Pierluigi Cerri. Aveva il dono rarissimo dell’eleganza, che nella grafica significa tradurre i concetti e le idee in segni limpidi, composti; dotati di una grazia che sembra innata- ha scritto l'archstar su Instagram -.

Pierluigi, con un misto di ritrosia, scanzonatura e un’acuta e sensibile intelligenza, non sbagliava mai. Semplicemente, non sbagliava mai. Con lui se ne vanno mille ricordi, anche personali, di una Milano che non c’è più: quella vera e propria Scuola Milanese che per tre decenni almeno, nel mondo, ha fatto la storia del design, dell’architettura, della grafica, della scenografia

·         E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.

La scomparsa del poeta. Chi era Hans Magnus Enzensberger, il poeta che odiava il consumismo e amava le barricate. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 26 Novembre 2022

Chi era Hans Magnus Enzensberger che è morto ieri mattina a Monaco a 93 anni? Certamente era un poeta paradossale che scriveva poesie per chi odia la poesia ed era un eccellente produttore di paradossi, ma non è questo un motivo sufficiente per la celebrazione che merita. Probabilmente la sua miglior qualità – un poi come “l’uomo senza qualità ” di Musil – è che aveva, ha avuto, molte e grandiose caratteristiche, ma quasi tutte fuori tempo. Essendo nato nel 1929 ha detto di “esser vissuto nel fascismo” ma senza sapere che stava vivendo nel fascismo, detestava la Repubblica Federale Tedesca per il suo consumismo all’americana, ma al tempo stesso si rendeva conto che non esisteva una vera alternativa.

La gloria maggiore, per un vero intellettuale letterato e poeta come Hans Magnus fu la matematica e la commistione delle arti come la commistione delle rivoluzioni e delle utopie per provare davanti al suo stesso specchio di intellettuale cangiante la prova di quel che esiste e di quel che potrebbe esistere: aver scritto bellissimi libri per bambini allo scopo di insegnare sia a loro che ai genitori quanto sia impossibile oltre che deprecabile, essere ignoranti in matematica e ripetere di non poter sopportare le equazioni e persino le tabelline. Era, è stato, un uomo di sinistra ed era curiosissimo di tutto ciò che appariva di sinistra, salvo saturarsene presto e poi detestare ciò di cui si erta innamorato. Gli accadde a Cuba dove andò a vivere nel biennio folgorante 1968-1969 che segnò l’uscita di Che Guevara dalla Cuba castrista per andare ad esportare le rivoluzioni che fallirono e da cui fu sepolto. Il regime castrista non era benevolente, ma era proprio un regime: rivoluzionario, anti libertario, sordo alle richieste delle libertà civili comprese quelle di orientamento sessuale e in questo paradossalmente più vicino al franchismo fascista spagnolo.

Hans disse di non essersi mai fatto incantare dalla retorica di Fidel, dal suo straripante verbosismo con cui ammanniva attraverso la flebo degli altoparlanti e dalle radio un pensiero privato nazionalista e trasudante retorica e si dedicò a difendere un poeta cubano perseguitato dal regime. Ciò lo fece entrare in conflitto frontale con Gunter Grass che apparteneva alla stessa generazione di tedeschi che ebbero un’infanzia sotto la svastica, scelsero poi il socialismo o il comunismo come Bertold Brecht che, assaggiata Hollywood con l’Opera da Tre Soldi, fece marcia indietro scelse Berlino Est. E insomma lo scontro sul socialismo cubano tra Grass ed Enzensberger segnò un’epoca di malintesi ideologici, speranze promettenti e fallite, negazioni della realtà, sostituzioni della realtà con sogni che avevano il difetto di non attecchire sulla realtà. Scrisse molto sui fallimenti intellettuali ma lui stesso riuscì a sfuggire al comune destino di una generazione nata di contropiede fra la catastrofe nazista, la voglia di socialismo dialogante col mondo sovietico e il rifiuto dall’americanismo che aveva invaso la Germania sconfitta in un tentativo di clonazione di cui oggi abbiamo smarrito le tracce. La Repubblica Federale Tedesca non era minimamente simile all’attuale Germania unificata.

La Rft era una terra di guerra fredda, di fedeltà atlantica molto armata, era un Paese che perdeva i contatti con la tradizione linguistica tedesca che invece era curata e coltivata nella Repubblica Democratica Tedesca, cosa di cui ti accorgevi quando in metropolitana attraversavi Berlino da Ovest ad Est ed entravi in una Prussia tradizionalista, dai grandi baffuti a manubrio e le uniformi antiche che marciavano al passo dell’oca come ai tempi di Hindenburg. Le Germanie erano veramente due con due diverse poetiche, le vite degli altri nelle mani di una Stasi stagnante e una accettazione convinta degli slogan sovietici. Hans Magnus era uno dei tanti apolidi in patria, come Gunter Grass e Bertold Brecht e tanti altri intellettuali come Herbert Marcuse e come loro e insieme a loro scatenò la grande offensiva intellettuale nata con la Scuola di Francoforte e con l’Adorno dei “Minima Moralia”, un testo abbondantemente purgato anche in Italia da un’editoria poco incline allo scandalo in casa.

Enzensberger però aveva una marcia in più: sapeva resistere al fallimento delle sue stesse ideologie attraverso la commistione, il rifiuto fecondo e la libertà di ritrarsi. In un’epoca in cui gli intellettuali non erano molto inclini a sopportare le disfatte della memoria e della prova storica. Lui sì: odiava il consumismo e alla fine non lo amò ma si depurò dall’ostentazione antiamericana. Amò ogni tentativo rivoluzionario e si dette anima e corpo alla grande rivoluzione culturale del 1968 gettandosi con ardore e sarcasmo in una guerra collettiva contro l’autoritarismo occidentale che però non poteva non investire con le stesse armi del disprezzo e della libertà anche l’autoritarismo del mondo sovietico. Ricordo sempre un giorno di quell’anno fatato in cui, nella redazione spoglia de l’Avanti di cui ero redattore, tutte le telescriventi mitragliavano notizie di manifestazioni che si svolgevano contemperamenti nella Parigi gollista, nella Spagna franchista, nella Praga comunista, a Berlino in entrambe le parti del muro, a Berkley California e naturalmente a Milano, Roma e persino nella Lisbona salazariana.

Le polizie erano impotenti, ma anche le rivoluzioni erano impotenti, eravamo su tutte le barricate e un vento di insofferenza e di delirio soffiava da tutti punti cardinali senza poter far altro che far fremere l’albero del potere e mettere alla gogna i governi e tutti i loro fantocci. Che cosa è rimasto di quella memoria? Nulla. L’invasione dell’agosto a Praga, le bastonature di tutte le polizie. Una manciata di morti, una manciata di versi, una manciata di ricordi che non reggono l’astio e la noncuranza del tempo, tutto è svanito come la sabbia su cui l’onda cancella i passi degli amanti che la vita e la rivoluzione separa, come nelle foglie morte di Prévert. Ed ora è chiusa anche la partita di questo amabile e presuntuoso testimone dell’umanità in rivolta ma anche onesto e sarcastico combattente quasi ormai ignoto, che è stato Hans Magnus Enzensberger, che ricordavamo come un maturo giovanotto splendente sulle barricate delle parole.

Fra le sue frasi celebri segnalo questa: “Le arti non sono concepite come attività storicamente invariabili del genere umano e neppure come un arsenale di “beni culturali” che vivono un’esistenza senza tempo, ma piuttosto come un processo che avanza senza sosta, come work in progress di cui ogni opera è partecipe”. Hans Magnus è stato un eroe di questa visione dell’arte così diacronica e così permanente al tempo stesso. È stato un combattente di tutte le barricate di una sinistra ancora in cerca di se stessa e adorava gli anarchici baschi di cui diceva che avevano un solo limite: non riuscivano a vedere più in là dell’ultima barricata perdendo di vista sia il presente che il futuro.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

·         E’ morta la cantante e attrice Irene Cara. 

Da open.online il 26 novembre 2022.

La cantante e attrice statunitense Irene Cara, pseudonimo di Irene Cara Escalera, è morta all’età di 63 anni. Si è spenta nella sua casa in Florida. L’annuncio è stato dato sui social dalla sua agente Judith A. Moose: «È con profonda tristezza che a nome della sua famiglia annuncio la scomparsa di Irene Cara. La famiglia di Irene ha chiesto privacy mentre elaborano il loro dolore. Era un’anima meravigliosamente dotata, la cui eredità vivrà per sempre attraverso la sua musica e i suoi film». 

Irene Cara è diventata famosa a livello internazionale con hit come “Fame” e “Flashdance… What a Feeling“, grazie alle quali vinse per due volte l’Oscar per la migliore canzone. Era nata a New York nel 1959, e nelle sue vene scorreva sangue africano, cubano e portoricano.

Aveva iniziato a cantare in trasmissioni televisive di lingua spagnola sin da piccolissima. L’esordio ufficiale arriva sfiorati i vent’anni, quando entra nel cast della serie tv Radici – Le nuove generazioni, ideata e prodotta da Marlon Brando. Ma l’anno della svolta è il 1980, grazie al film Saranno famosi che conferisce il successo planetario al suo personaggio: Coco Hernandez, aspirante ballerina e cantante. Il tema della pellicola, Fame, cantato da lei, vincerà l’Oscar per la migliore canzone. 

L’enorme successo di Saranno famosi procura a Cara anche una nomination al Grammy Award nel 1980 come migliore nuova cantante femminile e migliore nuova artista pop. Tre anni dopo viene incisa Flashdance… What a Feeling, scritta in collaborazione con Giorgio Moroder, tema portante del film Flashdance di Adrian Lyne. Un altro colpo andato a segno, che le farà conquistare l’Oscar per la migliore canzone nel 1984: Irene Cara fu la prima cantante ispanica a riceverlo come autrice.

Vette altissime nella sua carriera, mai più raggiunte: l’artista rifiutò di tornare nei panni di Coco Hernandez quando Saranno Famosi divenne una serie tv. Preferì realizzare una sitcom semi autobiografica incentrata sulla sua personalità dal titolo “Irene“, con scarsi risultati in termini di ascolti. Tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta continua a recitare al cinema, in teatro ed in televisione, dandosi anche al doppiaggio: niente di equiparabile al successo raggiunto nei primi anni della sua carriera. Che tuttavia le è bastato per lasciare un ricordo indelebile.

Caterina Soffici per “La Stampa” il 27 novembre 2022.

Quando hai tutte le strade davanti e quando il tuo futuro di teenager incontra il futuro del mondo. Erano i fantastici anni Ottanta, vituperati e maledetti, ma a guardarli adesso com' erano belli. E lei, Irene Cara, è stata un pilastro degli anni Ottanta, di quei sogni, di quelle possibilità, di quel futuro. Li ha cantati e ballati in «Fame» e in «Flashdance», e noi con lei. Se ne va giovanissima, a 63 anni, e noi rimaniamo attoniti, perché sembrava immortale come i sogni che ci ha fatto sognare. 

Diventa regina partendo Cenerentola senza neppure passare per principessa.

Nata nel Bronx, a New York, il 18 marzo 1959. Il suo nome per intero era Irene Cara Escalera, ed è stata la prima a mostrare con il suo esempio che i sogni erano possibili. Aveva studiato musica, ballo e recitazione fin da bambina. Era apparsa in varie produzioni teatrali e programmi tv fin dagli anni Settanta.

Appena ventenne esordisce in una serie («Radici», le nuove generazioni), ideata e prodotta da Marlon Brando. Poi l'esplosione di popolarità con «Fame», («Saranno famosi») nel 1980. Lei era Coco, e tutte volevamo essere lei. La scuola di ballo e di artisti, la New York dei loft, quando ancora non si chiamavano loft. Loro andavano a scuola con la felpa e in canottiera, e noi dovevamo lottare per un paio di «trasgressivi» leggings e per gli scaldamuscoli.

 Io li comprai di nascosto - i miei genitori non volevano - al mercato di San Lorenzo, a Firenze. C'erano banchetti pieni di scaldamuscoli stile «Flashdance». Li tenevo nello zainetto Invicta con cui andavo a scuola, perché non li trovassero e quindi sequestrassero. A noi il latino e seduti ai banchi, a loro i salti e le capriole e la musica. E c'erano Leroy e Lee, ed eravamo tutte un po' innamorate di quei due ragazzi, mentre a scuola c'erano compagni di classe che volevamo assomigliassero a quei due, invece erano sfigati e per niente svalvolati come i due ragazzi ballerini e canterini del film. «I' m gonna live forever, I' m gonna learn how to fly», cantava Irene. 

«Vivrò per sempre/Imparerò a volare», la cantavamo a squarciagola anche noi e non c'era Google per trovare le parole delle canzoni. Le dovevamo ascoltare e riascoltare sul mangianastri, per capirle.

In «Fame» Irene Cara canta il tema della pellicola e con quella canzone vincerà l'Oscar per la miglior canzone. Nello stesso anno, il 1980, ottiene anche due nomination al Grammy Award nel 1980 come migliore nuova cantante femminile e migliore nuova artista pop. 

Quando poi hanno fatto la serie televisiva (e non ci siamo persi una puntata neppure di quella) Irene non c'era più, aveva detto di no e non si è mai capito perché.

Fame ha dato l'avvio agli anni Ottanta, un calcione per lasciarsi alle spalle i tetri anni Settanta, pieni di piombo e rapimenti. 

Era la porta aperta sul benessere e la modernità, che per forza veniva dall'America.

«Fame» sembrava insuperabile, ma poi nel 1983 è arrivato «Flashdance» di Adrian Lynch e l'ha superato. «Flashdance What a Feeling», brano scritto in collaborazione con Giorgio Moroder, tema portante del film, è stato l'apice della sua carriera. 

Di nuovo Oscar per la miglior canzone (e Irene Cara è stata la prima cantante ispanica a riceverlo anche come autrice), Golden Globe e anche il Grammy alla miglior interpretazione vocale femminile pop. 

È in cima a tutte le classifiche, e nei nostri mangianastri lo consumiamo fino a fondere le cassette. «What a feeling/Being' s believin'/ I can have it all, now I' m dancing for my life. Che sensazione /Essere è credere/ Posso avere tutto, ora sto ballando per la mia vita». 

Potevamo avere tutto, o almeno lo credevamo. Quando hai ancora tutte le strade davanti, quando il futuro sembra non finire mai, quando non ci sono strade segnate e pensavamo di poter davvero seguire una passione e fare in modo che accadesse. («Take your passion and make it happen», cantava Irene).

Ieri, alla notizia della morte di Irene Cara sono andata su Youtube per riascoltare quella canzoni e tutto è tornato a galla, come fosse ieri. L'amarcord di un mondo senza influencer e niente telefonini e niente social. Solo telefoni a gettoni per dire che arrivavi tardi o non arrivavi proprio a cena (poi cadeva la linea e non eri più rintracciabile e sapevi che l'avresti pagata, ma intanto te la godevi). 

E telefono fisso da litigarsi, perché c'era sempre qualcuno in casa che aspettava una telefonata e il telefono era sempre occupato. Era libertà. Era la possibilità di vivere sicuri che era meglio un rimorso che un rimpianto. Potevamo sbagliare e riprovare, non avevamo gli occhi degli altri sempre puntati addosso a spiarci tramite gli account.

Irene Cara è stata anche un po' questo. Ci ha insegnato a ballare per la nostra vita, a imparare a volare. Forse hanno davvero ragione le generazioni Z e i Millennials e tutti quelli che sono venuti dopo di noi nati alla fine degli anni Sessanta (che non siamo Boomers ma non so se abbiamo un nome), a rimproverarci di avergli rubato il futuro. Non so se davvero glielo abbiamo rubato, ma se così fosse, potremmo togliergli le cuffiette piene di rapper sempre così arrabbiati e dargli indietro qualche pezzetto di libertà facendogli vedere quei film e ascoltare quelle canzoni.

Irene Cara, l'indimenticabile voce di Flashdance e Fame. Gabriele Antonucci su Panorama il 26 novembre 2022.

La cantante e attrice americana è morta a 63 anni nella sua casa in Florida. Ha vinto due meritati Oscar grazie alle sue canzoni più famose, veri pilastri degli anni Ottanta

Quello che resta di una band o di un artista sono le canzoni, non gli esercizi di stile fini a se stessi che, magari, strappano l’applauso ma che non scaldano il cuore e di cui, nella memoria collettiva, non resta traccia. Chi non si è emozionato, almeno una volta, nell’ ascoltare a tutto volume le epiche note di Flashdance e Fame, che hanno dato fama mondiale a Irene Cara? La cantante, il cui vero nome è Cara Escalera, si è spenta a 63 anni nella sua casa in Florida. La triste notizia è stata confermata sui social dalla sua agente Judith A. Moose: «È con profonda tristezza che a nome della sua famiglia annuncio la scomparsa di Irene Cara. La famiglia di Irene ha chiesto privacy mentre elaborano il loro dolore. Era un’anima meravigliosamente dotata, la cui eredità vivrà per sempre attraverso la sua musica e i suoi film». Originaria del Bronx, Irene Cara è stata una bambina prodigio, che a soli tre anni ha partecipato al concorso di Little Miss America (reso famoso anni dopo dal film Little Miss Sunshine) arrivando tra le cinque finaliste. A soli cinque anni inizia a prendere lezioni di piano, canto e ballo, guadagnando per il suo talento precoce la partecipazione a trasmissioni come The Tonight Show e l’Original Amateur Hour, mentre a nove anni pubblica il suo primo album, Esta es Irene, in lingua spagnola. Dopo aver partecipato nel 1976 al film Sparkle, sulla storia delle Supremes, arriva nel 1980 la grande occasione con Fame (in Italia Saranno Famosi), un telefilm di grande successo grazie anche al suo ruolo di Coco Hernandez e, ancor più, alla sua canzone Fame, tema della serie tv, che diventa uno dei brani-simbolo di inizio anni Ottanta. Per Fame la cantante vince l'Oscar come Migliore canzone originale, un premio che riesce a bissare nel 1984 grazie all'iconica e trascinante Flashdance… What a Feeling, il brano principale della colonna sonora del film Flashdance, prodotto dalle sapienti mani del nostro Giorgio Moroder. La carriera di Irene Cara si ferma di fatto nel 1987, quando esce l'album Carasmatic, che non ottiene grandi riscontri. Negli anni Novanta prova a rientrare nelle charts con brani eurodance, ma senza successo. Gli anni Duemila l'hanno vista dividersi tra un'intensa attività live ed esperienze televisive, senza mai scrollarsi di dosso, però, la pesante eredità dei suoi exploit degli anni Ottanta.

Icona degli anni '80. Chi è Irene Cara, la cantante attrice di ‘Fame’ e ‘Flashdance’ morta a 63 anni: l’Oscar con “What a Feeling”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 26 Novembre 2022.

Cantante e attrice, Irene Cara, è diventata il simbolo intramontabile degli anni ’80. Si è spenta a 63 anni nella sua casa in Florida. Con il body nero e gli scaldamuscoli, salti acrobatici sulle note indimenticabili di Flashdance…What a Feeling resta icona pop di un’epoca. Proprio con quel brano vinse l’Oscar nel 1984 come autrice e interprete.

L’annuncio è stato dato sul profilo social dell’artista dalla sua agente Judith A. Moose, che ha dichiarato: “È con profonda tristezza che a nome della sua famiglia annuncio la scomparsa di Irene Cara. La famiglia di Irene ha chiesto privacy mentre elaborano il loro dolore. Era un’anima meravigliosamente dotata, la cui eredità vivrà per sempre attraverso la sua musica e i suoi film”. E aggiunge: “Non riesco a credere di doverlo scrivere, per non parlare della notizia. Vi prego di condividere i vostri pensieri e ricordi di Irene. Leggerò ognuno di essi e so che lei sorriderà dal cielo. Adorava i suoi fan”. Non è stato reso noto quali siano le cause della sua morte.

Nata a New York, nel quartiere del Bronx, il 18 marzo 1959, diceva di avere origini africane, cubane e portoricane. La sua carriera inizia sin da bambina nelle trasmissioni televisive in lingua spagnola. È entrata anche a far parte delle cinque finaliste di Little Miss America. Appena ventenne nel 1979 esordisce nel cast della serie tv Radici – Le nuove generazioni, ideata e prodotta da Marlon Brando, ma è nel 1980 grazie al film Fame – Saranno famosi di Alan Parker che diventa popolare in tutto il mondo: il suo personaggio è l’aspirante ballerina e cantante Coco Hernandez che nel film canta Fame e Out here on my own (brano poi portato al successo anche da Nikka Costa), stabilendo un record agli Oscar dove il film ebbe sei candidature e vinse due statuette, per miglior canzone e colonna sonora: per la prima volta vennero nominate due canzoni estratte dallo stesso film nella stessa categoria e incise dallo stesso artista, per la prima volta una donna. L’enorme successo di del film e del brano le procura anche una nomination al Grammy Award nel 1980 come migliore nuova cantante femminile e migliore nuova artista pop.

La carriera di Irene Cara, sposata dal 1986 al 1991 con lo stuntman e regista Conrad Palmisano, è proseguita tra musica e recitazione anche negli anni successivi, ma non ha più raggiunto i picchi degli anni 80.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Chi è Irene Cara, la cantante attrice di ‘Fame’ e ‘Flashda. Torna la Lega Nord, Salvini snobbato ai funerali di Maroni: il vento post sovranista e l’assenza della famiglia Bossi. Claudia Fusani su Il Riformista il  26 Novembre 2022

Dicono che all’arrivo in piazza San Vittore, a Varese, della delegazione con le massime cariche di governo sia stata applaudita più Giorgia Meloni che Matteo Salvini. Ha fatto sobbalzare il cuore di qualche leghista dell’ultima ora quel gonfalone della Regione Campania che il governatore Vincenzo De Luca ha voluto che fosse presente lassù al nord per salutare l’amico Bobo. Si è notato il passo indietro del ministro Giorgetti – che mai ha smesso il confronto con il suo vecchio segretario – rispetto allo stesso Salvini in prima fila con Meloni, il governatore Fontana, il presidente della Camera Lorenzo Fontana, il presidente del Senato Ignazio La Russa e il vicepresidente Gianmarco Centinaio.

Posti assegnati dal rigido cerimoniale, si dirà. E poi le lacrime discrete di Giorgia Meloni, “siamo stati fortunati ad avere uno come lui nelle istituzioni, sapeva mettere insieme visione e concretezza e sapeva fare gioco di squadra”. Quelle di Salvini: “È stato un orgoglio per la Lega e per l’Italia. La sua eredità politica è risolvere i problemi e non crearli. Siamo qua per questo. Per me sarà ancora più impegnativo ed emozionante guadagnarmi la fiducia giorno per giorno”. C’erano tutti ieri mattina a Varese, in piazza del Podestà dove nacque la Lega, dove c’è ancora la sede storica e dove ieri mattina c’era uno striscione “Grazie Bobo”. E in piazza San Vittore dove affaccia la basilica che ha ospitato le esequie di Stato. “C’era la vecchia e la nuova Lega – racconta con mestizia un membro del governo – un partito che in 35 anni di vita, siamo il partito più antico in Parlamento, è cambiato molto. Ci siamo ritrovati tutti (notata l’assenza della famiglia Bossi, “neppure uno dei figli” ndr), quello che siamo e che siamo stati. Stamani a Varese si respirava lo spirito della Lega. Anche per questo non è stata affatto una cerimonia triste”. Certo, continua il big leghista, “osservando la scena stamani è stato evidente una volta di più che occorre ridefinire il perimetro. Così come siamo, siamo troppo simili a Fratelli d’Italia ed è chiaro che in questo momento sono loro ad avere il vento in poppa”.

Come direbbe Bobo, quindi, occorre cambiare vento. Cercarne di nuovo e diverso. Maroni si era chiesto il 26 settembre se potesse essere Salvini a guidare questa nuova vita della Lega. E la risposta probabilmente è stata negativa. Non è mai elegante cercare messaggi politici in un momento così privato come il funerale. Se però le esequie sono quelle di un leader politico come Roberto Maroni, è inevitabile cercare di leggere nella cerimonia di Stato che ieri mattina lo ha salutato con passione ed emozione quella che viene definita “la nuova geografia della Lega post sovranista”.

Una geografia dove la leadership di Salvini è in bilico e il nuovo che avanza è soprattutto il nuovo che ritorna: la Lega del Nord, quel nord che proprio Salvini ritenne utile togliere dal simbolo nel 2018 per dare vita al suo partito personale “Lega Salvini premier”.

La famiglia Maroni ha rifiutato la sede della prefettura per la camera ardente (“grazie, facciamo da soli” avrebbe risposto la vedova al ministro dell’Interno) e ha fatto mettere per scritto di “provvedere autonomamente alle spese del funerale di Stato”. Un altro big leghista spiega che “Maroni si era messo nei fatti da solo fuori dalla Lega quando nel 2018 decise all’improvviso di non candidarsi alla guida della Lombardia”. Motivi personali, quei maledetti processi finiti poi nel nulla. Ma anche divergenze politiche. Che soprattutto adesso Salvini deve affrontare e risolvere se vuole conservare una leadership in bilico.

Dopo la cerimonia il segretario ha riunito il Consiglio Federale. È stato dato il via libera all’election day regionale (Lazio e Lombadia al voto insieme il 12-13 febbraio). È stata blindata la candidatura di Fontana. Ed è stato fatto il punto sui congressi provinciali che sono in corso. A maggio ci saranno i regionali. Poi verrà il tempo del congresso finale. Si parla di autunno prossimo. Ma potrebbe essere anche prima. Dipende da tanti fattori. Da come vanno le elezioni regionali. E da come vanno i congressi locali (si celebrano in pratica ogni domenica) dove si stanno facendo largo candidati non indicati da Salvini. È successo anche a Bergamo domenica scorsa. Il partito non è più blindato. È diventato, tornato, scalabile. Salvini lo sa.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

·         Addio allo stilista Renato Balestra.

Da rainews.it il 27 novembre 2022.

Addio a Renato Balestra. Il decano dei couturier dell'alta moda romana si è spento ieri nella clinica romana Mater Dei. Aveva 98 anni. I funerali si terranno martedì 29 novembre nella Chiesa di Santa Maria del Popolo nella Capitale. Saranno le figlie Federica e Fabiana, assieme alla nipote Sofia, a gestire il marchio e l'atelier. 

Nato a Trieste nel 1924 in una famiglia di ingeneri e architetti, sin da subito ha manifestato l'amore per l'arte e nel tempo libero si dedica alla pittura, alla musica e alla scenografia. La sua carriera nella moda inizia per caso, quando gli amici inviano uno dei suoi bozzetti al Centro Italiano della Moda (CMI): notato subito per il suo talento, partecipa a una sfilata di Alta Moda.

Nel 1953 ha già un tale successo che abbandona gli studi di ingegneria e completa il suo apprendistato nell'atelier di Jole Veneziani. Considerato il "pittore della moda", grazie al suo spirito artistico riesce a creare una sinergia unica con l'Alta Moda italiana, che trasforma profondamente nel corso dei decenni. 

Diventa famoso negli anni Settanta per la "Pittura Ricamo", sperimentando con i materiali e dipingendo su ogni tipo di tessuto. I suoi giochi di trasparenza attraverso l'innovazione e la libertà di espressione caratterizzano una donna moderna, forte e sensuale.

Nel sito della maison che porta il suo nome è ripercorsa in maniera dettagliata la sua carriera: nel 1954 si trasferisce a Roma per lavorare per le più prestigiose case di Alta Moda, come Emilio Schubert, Maria Antonelli e Sorelle Fontana. Poi arriva il cinema, con i disegni dei costumi di Ava Gardner, Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Nel 1958 'debutta' a Hollywood vestendo, tra le tante, Zsa Zsa Gabor e Liz Taylor. 

Nel 1970 Renato Balestra ha l'innovativa intuizione di includere l'abbigliamento maschile in una sfilata femminile, ottenendo grande successo. È uno dei primi stilisti a creare collezioni unisex. 

Vasto anche il suo lavoro per il teatro. Oltre ai vestiti per 'Cosi è (se vi pare)' diretto da Franco Zeffirelli nel 1985, più tardi disegna i costumi del musical Cinderella, prodotto da Broadway-Asia Entertainment, che tocca le maggiori città asiatiche e arriva fino in America in un tour mondiale tra il 2009 e il 2011. Nel 2009 il Presidente Giorgio Napolitano gli conferisce l'onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana, mentre nel 2013 con Altaroma lancia 'Be Blu Be Balestra', un concorso per giovani talenti che reinterpretano l'iconico Blu Balestra sotto la sua guida.

Ho sempre amato questo colore! - raccontò Balestra in una intervista - Adoravo molto dipingere e mescolare le nuance. In seguito ho trovato un singolare tono di blu che ho fatto mio. Inserivo sempre in collezione qualche modello di quella tonalità, così i giornalisti hanno cominciato ad identificarlo e a chiamarlo “Blu Balestra”. 

Balestra divenne anche un amato personaggio televisivo. A partire dal  2001 aveva partecipato allo show "Chiambretti C'è" su Rai2, collegandosi da casa sua, a cena con i suoi ospiti celebri. Nel 2010 era nel cast del programma Cuore di mamma, sempre su Rai2. Più tardi aveva preso parte come

inviato speciale a "I Raccomandati" in onda su Rai1. 

Nel 2018 AltaRoma gli rende omaggio con un evento unico: oltre 100 dei suoi abiti d'archivio sfilano a Cinecittà, davanti a un pubblico di 2.500 persone. 

L'anno dopo l'Archivio Renato Balestra - oltre 40.000 bozzetti e disegni, centinaia di abiti, video e articoli di giornale - viene dichiarato di interesse storico da parte del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. 

Numerosi i messaggi di cordoglio. Meloni: “Con stilista 98enne perdiamo eccellenza di stile” 

"Con la scomparsa di Renato Balestra la nostra Nazione perde un’eccellenza di stile, decano dell’alta moda e simbolo del genio italiano nel mondo. Sincere e sentite condoglianze alla sua famiglia e a tutti i suoi cari". Lo ha scritto sui social il presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. 

"Renato Balestra è stato un grande della moda: un innovatore e un creativo, il Blu Balestra è una sua invenzione. Riposi in pace questo orgoglio italiano nel mondo". Lo scrive su Twitter la ministra del Turismo Daniela Santanchè.

"La notizia è giunta poco dopo l'inizio di Ballando con le Stelle. Ha colto tutti di sorpresa. Siamo sconvolti e devastati''. È la prima reazione di Stefano Dominella, presidente onorario della maison Gattinoni e presidente della sezione moda di Unindustria- Lazio, alla scomparsa di Renato Balestra. "Renato era un amico, un maestro, un grande stilista e un creativo. Un vero uomo di spettacolo e palcoscenico''.

È morto Renato Balestra, decano dell’alta moda: aveva 98 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 26 novembre 2022.

È scomparso a Roma: l’annuncio dato dalle figlie. I funerali si terranno martedì 29 novembre nella Capitale, nella Chiesa di Santa Maria del Popolo

È morto questa sera a Roma lo stilista Renato Balestra, decano dell’alta moda. Aveva 98 anni. Lo annunciano all’Ansa le figlie Fabiana e Federica assieme alla nipote Sofia, alle quali andrà la gestione del marchio. I funerali si terranno martedì 29 novembre nella Capitale nella Chiesa di Santa Maria del Popolo.

Nato a Trieste, nel 1954 Balestra si trasferisce a Roma. La passione per il cinema lo porta a disegnare i costumi per Ava Gardner in La contessa scalza e Il sole sorge ancora, per Gina Lollobrigida in La donna più bella del mondo, per Sophia Loren in La fortuna di essere donna, per Candice Bergen in L’ultimo avventuriero, per Shirley Jones, Micheline Presle e Giorgia Moll in L’intrigo.

Nel 1958 inizia a presentare le sue collezioni negli Stati Uniti, da Los Angeles a New York. Debutta a Hollywood con grandi attrici come Zsa Zsa Gabor, Tina Louise, Joan Bennett, Natalie Wood, Ann Miller, Arlene Dahl e Linda Christian e diventando così il designer preferito di star del cinema come Liz Taylor, Claudia Cardinale, Marina Cicogna, Lydia Alfonsi, Daniela Rocca, Yvonne Furneaux, Carroll Baker, Candice Bergen e Cyd Charisse.

BIOGRAFIA DI RENATO BALESTRA

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti” 

• Trieste 3 maggio 1924. Stilista. «Arrivai dalla regina di Thailandia con due aerei privati del presidente delle Filippine. Il secondo jet mi seguiva perché avevo dimenticato il passaporto...». 

• Noto al grande pubblico per la partecipazione al programma tv Chiambretti c’è (nel 2001): «Renato Balestra mercoledì, giovedì e venerdì riunisce nella sua casa, tutta ori, incensi, mirra e specchi, un drappello di nobili ai confini della realtà.

“La folla mi cerca, mi vuole, desidera un mio autografo”, se la gode lo stilista Renato, popolare grazie a nonna tv. Si trucca: ombretti e neretti, crema e cerone. La contessa Patrizia de Blanck ripete: “Sono pronta per sbranare Chiambretti...”. 

Sua figlia Giada canta per stemprare la tensione, la duchessa Silvana Augero, la rossa, prova i sorrisi davanti allo specchio e don Santino Spartà sussurra: “Dio ci guarda”. Quando si accendono le luci il viso levigato di René sembra la maschera di un faraone... Finito il collegamento, lo stilista si rivolge alle nobildonne e ripete: “Vi sono piaciuto? Come sono andato?”. Tutti in coro, tecnici Rai compresi: “Alla grandissimaaaaa!”. E lui, pavoneggiante, si strucca tra una stretta di mano e un cin cin... Balestra è la prova vivente che la televisione logora solo chi non la fa» (Salvatore Taverna). 

• Nel 2002 una breve e sfortunata collaborazione con Domenica In: «Mi hanno chiesto di presentarmi tutto fasciato come una mummia, portato in studio dai carabinieri, poi mi avrebbero tolto le garze e sotto i reperti archeologici sarei spuntato io». 

• Nel 2011 ha interpretato se stesso nel cinepanettone Vacanze di Natale a Cortina di Neri Parenti. 

• A Pechino è stato insignito del titolo di Professore onorario dell’Accademia della Moda.

• «Blu Balestra». Nel 2013, a Roma, la mostra Be Blue Be Balestra: «18 designer all’esordio hanno reinterpretato altrettanti capi e accessori nel colore icona di Renato Balestra, noto per le sue frequentazioni nei salotti romani ma anche autore di alcuni degli abiti da sera più belli della moda italiana. Visti attraverso gli occhi di una nuova generazione, diventano simbolo di contemporaneità e di una continuità ideale» (Giusi Ferré) [CdS 25/2/2013]. 

• È stato il primo stilista a disegnare le divise delle hostess Alitalia («cappottoni dalle spalle imbottite», Giovanna Favro).

• Nel 2007 lasciò l’atelier di via Ludovisi a Roma per trasferirsi in uno spazio di 600 metri quadri in via Abruzzi, a sua volta abbandonato nel 2013 per un villino con giardino in stile liberty in Via Cola di Rienzo. 

• Berlusconiano. 

Da liberoquotidiano.it il 27 novembre 2022. 

Non c'è solo il fronte Carolyn Smith. Intervistata da Davidemaggio.it, Selvaggia Lucarelli bombarda la collega giudice di Ballando con le stelle, da cui la dividono sia questioni tecniche sull'approccio al ruolo sia giudizi nel merito su Enrico Montesano ("Lo rivuole a Ballando? Meglio che studi la storia oltre che la lingua italiana"). Ma se la prende anche con Francesca Fagnani, che avrebbe voluto intervistarla a Belve, fortunato e irriverente programma di faccia a faccia di Rai2.

Secondo la Lucarelli, che non nutre grandi simpatie per la Fagnani, sostiene che la giornalista "vuole vincere, non conoscere l’intervistatore". "Vuole vincere nel senso che sono interviste che illuminano più lei che l’intervistato, tutto qui". Anche per questo motivo la Lucarelli ha declinato l'invito e rinunciato a farsi intervistare. 

"Mi sono giustificata più volte per non essere andata da lei che per non aver battezzato mio figlio, non ho ben capito perché! Non ho voluto farmi intervistare anche dal bravo Cattelan e da molti altri, ma nessuno me ne chiede conto, comincio a pensare che Belve sia una specie di leva obbligatoria. Sono obiettore di coscienza!".

E ancora: "Se dai potenziali intervistati è vissuto come un atto di coraggio è un problema, perché vuol dire che l’intervista è percepita come una imboscata. Funziona per chi intervista, meno per chi viene intervistato perché non c’è ascolto, ma provocazione".

Chi era Renato Balestra: la vita privata, la carriera partita per caso, il suo «Blu Balestra». Maria Teresa Veneziani su Il Corriere della Sera il 27 Novembre 2022.

Era diventato anche un personaggio televisivo, da «Chiambretti c’è» a «Vacanze di Natale a Cortina». Il ricordo commosso delle amiche Patrizia e Giada de Blanck: «Un uomo di grande garbo ed eleganza estrema»

«La cosa che mi gratifica di più è che ho scoperto di essere simpatico: uno come me, che a 11 anni leggeva Dostoevskij e suonava Beethoven al pianoforte... E poi mi sembrava di essere tanto brutto con questi labbroni», aveva raccontato vent’anni fa . Con Renato Balestra la moda perde il suo decano. Lo stilista è morto sabato sera, 26 novembre in una clinica romana, dopo un breve ricovero. A darne notizia sono state le figlie, Federica e Fabiana alle quali, insieme alla nipote Sofia, andrà la gestione del marchio e dell’atelier di piazza Barberini a Roma, con un comunicato: «Addolorate per questa terribile scomparsa, resta il ricordo di un uomo straordinario. Unico per la sua passione e curiosità che gli hanno permesso di essere protagonista dell’alta moda italiana nel modo».

Nato a Trieste nel 1924 in una famiglia di architetti e ingegneri, alla moda non pensava. In giovane età si dedicava alla pittura, alla musica e alla scenografia. Studiava pianoforte e frequentava la facoltà di ingegneria quando un bozzetto di un abito disegnato per scommessa con alcuni amici, gli cambiò la vita. «Venne spedito a mia insaputa al Centro Italiano per la Moda di Milano per un concorso - si divertiva a raccontare - Quel disegno ebbe un successo incredibile, tanto che venni invitato a collaborare per una collezione di alta moda che avrebbe sfilato a Firenze». Fu così che l’apprendistato di Balestra avvenne nelle più importanti sartorie italiane dell’epoca. Nel 1954 si trasferì a Roma e iniziò a lavorare per Emilio Schubert, Maria Antonelli e le Sorelle Fontana. Nel 1958 cominciò a presentare le sue collezioni negli Stati Uniti, da Los Angeles a New York. Fino al debutto a Hollywood, diventando il designer preferito di star del cinema, da Liz Taylor a Claudia Cardinale o Candice Bergen.

Nel 1959 aprì il suo primo Atelier a Roma in via Gregoriana 36 e nel 1961 presentò la sua prima Collezione di Haute Couture Primavera-Estate alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna.

È in questi anni che nacque il celeberrimo «Blu Balestra», su un abito corto in raso: un blu brillante, magico e senza tempo, un colore unico che ancora oggi è simbolo indiscutibile della sua maison.

Creativo ma anche pragmatico: fu tra i primi designer a credere nelle licenze, lanciando il profumo Balestra nel 1978 ed esplorando con successo, nel corso degli anni, varie categorie di prodotti: oltre alle fragranze anche trucco, valigie, occhiali e articoli per la casa.

Con le sue creazioni, di taglio tradizionale, raffinate e romantiche che sapevano esaltare le culture conquistò regine e principesse. Ma Balestra era apprezzato anche per la sua classe. Il suo senso della convivialità e dello spettacolo lo avevano portato a stringere amicizie con personaggi del jet set internazionale, da Natalie Wood a Linda Christian, da Liz Taylor a Claudia Cardinale, da Candice Bergen e Cyd Charisse.

Anche per le sue frequentazioni Balestra era infatti diventato un personaggio televisivo. A partire dal 2001 aveva partecipato allo show «Chiambretti C’è» su Rai2, collegandosi da casa sua, a cena con i suoi ospiti celebri. Nel 2010 era nel cast del programma «Cuore di mamma», sempre su Rai2. Più tardi aveva preso parte come inviato speciale a «I Raccomandati» (Rai1). Al cinema ha interpretato sé stesso in un cameo nel cine-panettone di «Vanzina Vacanze di Natale a Cortina».

Amante del bel mondo, invitava la bella nobiltà romana nella sua bellissima casa in Via XX Settembre con vista sulla Città Eterna, come ricordano oggi commosse Patrizia de Blanck con la figlia Giada Drommi de Blanck, che Renato Balestra volle come sua modella vestita da piratessa nel 2003 per Sotto le stelle, spettacolo internazionali della moda e della musica in Trinità dei Monti. «Mi fece sfilare la prima volta quando avevo 17 anni, poi diventai la sua testimonial e con mamma divenni parte della sua grande famiglia. Renato aveva l’atelier sopra Piazza di Spagna, indossavo una camicia di pizzo nero ricamata e un a gonna in tulle nera. Renato era un uomo di grande garbo, eleganza ed educazione. E amava promuovere i giovani».

Tanti i riconoscimenti ottenuti nella sua lunga carriera caratterizzata anche dalla passione per il teatro, che lo aveva portato a disegnare i costumi per diverse opere liriche. Tra le collaborazioni, il Teatro dell’Opera di Belgrado per La Cenerentola di Rossini, il Teatro Verdi di Trieste dove ha firmato i costumi per Il Cavaliere della Rosa di Strauss, fino a quelli del musical Cinderella prodotto dalla Broadway-Asia Entertainment con un tour mondiale che ha toccato le maggiori città asiatiche per arrivare in Usa. Nella primavera del 2011 è stato celebrato a Los Angeles nell’Istituto Italiano di Cultura con la mostra «Fashion is culture». E nel maggio 2019 è stata la volta della mostra antologica nella Certosa Museo di San Martino a Napoli.

«Con la scomparsa di Renato Balestra la nostra nazione perde un’eccellenza di stile, decano dell’alta moda e simbolo del genio italiano nel mondo». Giorgia Meloni ricorda così Renato Balestra.

I funerali si terranno martedì 29 novembre alle ore 12 nella Chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.

Selene Oliva per vogue.it il 28 novembre 2022.

Oggi Trieste e anche la sua città adottiva, Roma, piange uno degli stilisti che ha segnato l'Alta Moda italiana: a 98 anni Renato Balestra è morto, notizia rilasciata dalle eredi, le figlie Fabiana e Federica assieme alla nipote Sofia. L'atelier verrà ora seguito esclusivamente da mani femminili, che si prenderanno cura di un nome che ha affascinato attrici, first lady e persino principesse. 

L'identità del marchio è sempre stata molto forte, legata profondamente al Made in Italy nonché ai suoi valori, come l'attenzione per la qualità e i tagli impeccabili, l'uso unico dei tessuti e dei colori, in particolare modo del blu. E se ora l'etichetta è in una fase di cambiamento, pronta ad accogliere nuove sfide che vedono il passaggio dall'haute couture al prêt-à-porter senza perdere, l’artigianalità, per conquistare un pubblico giovane e sempre più ampio, rimane l'inesauribile l'archivio da cui attinge. Lo stilista triestino classe 1924, amante della pittura, porta con sé una lunga storia intrecciata a quel lungo percorso che ha permesso di tessere il glamour della moda italiana nel mondo.

Un po' per caso e un po' per scherzo, arriva Roma

Come spesso capita, il proprio destino è segnato dal caso. Renato Balestra proviene da una famiglia di architetti che hanno in serbo per lui un futuro nell'ingegneria. Mai interessato alla moda, è per una scommessa che disegna il suo primo bozzetto: a sua insaputa viene spedito al Centro Italiano della Moda di Milano che viene subito apprezzato. I primi passi li muove in una città meneghina ancora acerba per il settore moda e così, in breve tempo, si trasferisce a Roma, la città dell'Alta Moda che lavora a stretto contatto con le star italiane e internazionali che arrivano a Cinecittà. Roma lo ha adottato e non la dimenticherà mai “Renato Balestra, come Piranesi, fu catturato da Roma e ne divenne ambasciatore nel mondo. Citare la città è il nostro invito a sognare, a lasciarci scorrere i sentimenti, a immaginare luoghi fisici e ideali”, racconta Sofia Bertolli Balestra. 

La sua carriera inizia all'interno degli atelier più rinomati della Città Eterna, le Sorelle Fontana e Schubert. Siamo nel secondo dopoguerra, un decennio che segue i dettami stilistici impartiti da Christian Dior, con silhouette a corolla tra lunghi metraggi di tessuto e modellistica impeccabile. Le sartorie romane seguono le linee dettate da Parigi ma lo fanno con un gusto tutto italiano: non troppo nostalgico e sontuoso. Le ambasciatrici della moda italiana sono donne che trionfano ai concorsi di bellezza per poi diventare protagoniste dei capolavori del neorealismo italiano, come Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Negli anni diventa lo stilista preferito anche di star di Hollywood del calibro di Liz Taylor e Natalie Wood, arrivate a Roma per girare nuove pellicole cinematografiche. È qui che si plasma l'Eterno fascino della moda Made in Italy, tra un set cinematografico e i piccoli vicoli che accolgono le eleganti sartorie. E così, nel 1959 inaugura il suo primo atelier in via Gregoriana 36, per poi trasferirsi in via Sistina.

Il Blu Balestra

È proprio in questi anni che Renato Balestra inizia a lavorare sul colore: nell'ampia varietà ben presto inizia a trovare un particolare piacere nell'usare una tonalità di blu brillante, tanto da essere utilizzato stagione dopo stagione, fino a diventare il “Blu Balestra”. In uno dei suoi tanti ricordi condivisi con la stampa ricorderà che tra tutti gli abiti della mamma, quelli blu erano proprio i suoi preferiti: forse perché, gli fa notare qualcuno, "il fiordaliso è il colore dei tuoi occhi". 

Ma è attraverso quel colore che arriva il supporto alle nuove generazioni, Renato Balestra è sempre stato legato all’Accademia Costume & Moda di Roma, tanto da diventare un mentore e istituire il premio Be Blue, Be Balestra. Oggi quel colore è segno indelebile dell'Alta Moda romana, pronto a diventare simbolo di una nuova femminilità grazie alle sue eredi. È questo il suo lascito più grande.

Selene Oliva per vogue.it il 28 novembre 2022.

Non è mai facile entrare nelle vite di chi sta vivendo un lutto in famiglia, ancor di più se quel momento diventa una notizia da raccontare e l'intimità viene pubblicata nelle ultime pagine web. Il dolore segna profondamente le nostre vite, colma quel vuoto interiore dato da una perdita, ma l'unico atto d'amore che possiamo fare è ricordare. Ricordare le gestualità di chi ci ha tenuto per mano, di chi ci ha portato in macchina con un particolare senso di protezione, di chi ha da sempre fatto parte delle nostre vite, vedendoci crescere e diventare adulti. Ed è infatti il ricordo di Sofia Bertolli Balestra a riportare in vita, almeno per un momento, l'immagine di uomo che è stato (per lei) prima un nonno e poi uno stilista di fama internazionale. 

Renato Balestra è noto per aver portato un certo glamour e fascino nel mondo, soprattutto in America, ma è stato anche un padre di famiglia, pronto a tramandare il suo sapere alle generazioni future. Il “Blu Balestra” è solo un piccolo lascito, perché immenso è stato il suo lavoro al servizio delle star di Hollywood e di Cinecittà, così come la creazione dell'abito da sposa per il giorno più bello di sua nipote.

Renato Balestra non ha avuto sin da subito la vocazione per la moda, ma è la moda ad aver trovato lui. Una volta incontrati non si sono più lasciati. La sua carriera è nata un po' per caso e un po' per scherzo, con un disegno inviato al Centro Italiano della Moda di Milano, dopo una scommessa tra amici. La nota stilista Jole Veneziani lo chiama e la sua prospettiva cambia radicalmente: lascia la carriera come ingegnere per diventare stilista. I suoi bozzetti rispecchiano il suo amore per la pittura e per l'arte, sono dei piccoli quadri con pennellate colorate che mostrano il nuovo stile italiano ancora prima di arrivare sulle riviste patinate dell'epoca. La Veneziani, dal suo atelier di abiti in via Montenapoleone a Milano, un grande salone settecentesco decorato in oro e pannelli dipinti, lo richiamerà nei primi mesi romani per ricordargli di mandarle “la polvere d'oro indispensabile per il suo albero di Natale”. Quella “polvere” sono, di fatto, i suoi bozzetti: così belli che la madrina dell'alta moda italiana immaginava di utilizzare come elementi décor per le festività di fine anno. 

Spinto da una estenuante curiosità, Renato si trasferisce a Roma: diventa uno dei principali collaboratori delle Sorelle Fontana. È qui che incontra le grandi dive di Hollywood con cui si instaurerà una profonda amicizia, intessuta di stima. “Ha vestito le bellissime Gina Lollobrigida e Sophia Loren, e quando ha lasciato le sartorie più note per aprire un suo atelier, molte attrici americane lo hanno seguito, già legate con una sincera amicizia” - mi racconta Sofia Bertolli Balestra, la nipote di Renato - “Spesso mi raccontava un fatto alquanto curioso: Anita Ekberg, dopo un giro sul litorale italiano, ha portato a mio nonno degli scampi per renderlo felice. All'epoca era un vero lusso”.

L'America ha amato subito la sua moda disegnata e poi creata: Renato Balestra in poco tempo è diventato simbolo del glamour italiano del dopoguerra, grazie alle mise costruite per esaltare il lato più femminile e seducente di chi indossa i suoi abiti 

“In alcuni casi è stato persino audace, soprattutto se lo guardiamo nel contesto degli anni ‘50 e ’60: ha saputo interpretare un fermento culturale, giovani donne che si ribellavano alle loro madri nel segno di una libertà mentale ed estetica". Dentro le collezioni dello stilista triestino, adottato da Roma, c'è tutto questo: “ricordo ancora i bellissimi quadri che portava in passerella: 5 o 6 abiti fedeli al tema mostrato, spesso immagine di quella cultura che lo ha sempre contraddistinto. Mio nonno non era solo un abile disegnatore, tanto che venne soprannominato "pittore della moda", ma era un profondo conoscitore dell'arte e della cultura". Un uomo che non sapeva nemmeno cosa fosse la moda ma, spinto dalla curiosità, ne è diventato protagonista “entra in questo mondo in cui rimane affascinato e innamorato per tutta la vita” - continua commossa - “Un mondo fatto di bellezza”.

Ma come ogni creativo è la sua immaginazione a cavalcare seguendo il proprio intuito “è sempre stato un po' caparbio, pronto a portare avanti con convinzione ogni sua idea, questo gli ha permesso di rimanere fedele sempre a se stesso, fino all'ultima collezione del 2018. Un po' un outsider della moda, ma privo di arroganza: una delle virtù che sicuramente mi ha insegnato è la gentilezza”. Persino per l'abito da sposa che Renato Balestra ha disegnato per sua nipote Sofia ha voluto dare il suo contributo “forse è stata l'unica volta che è sceso a un compromesso: ha esaudito il desiderio di creare un capo per mano sua e sapeva che volevo un preciso taglio. E così è stato. Il modello ha unito il mikado classico con le trasparenze dell'organza”.

Ma i ricordi non si esauriscono al matrimonio, Sofia Bertolli Balestra ripercorre con la mente i primi passi mossi al suo fianco in America, "il Paese che lo ha consacrato come stilista dell'Alta Moda italiana tra le celebrità. Di quei giorni porto nel cuore i lunghi viaggi in auto - nonostante l'età era sempre lui a guidare nonostante l'età e questo dice molto del suo spirito temerario - e le serate con un bicchiere di vino”. Occasione per scoprire l'evoluzione della moda italiana dal secondo dopoguerra a oggi, di come la società è cambiata e della visione di un uomo che ha visto scorrere davanti a sé diverse epoche storiche. “La curiosità è stata il suo motore, ma è la passione per questo mestiere ad aver segnato ogni sua scelta” - conclude Sofia - “Il suo lavoro si è intrecciato alla nostra vita familiare, con profonda dolcezza: mi ricordo ancora quando mia sorella Marta disegnò un vestito per la sua bambola e lui lo realizzò in atelier”. Questo era Renato Balestra.

Renato Balestra, lo stilista che inventò il "blu" e vestì le icone Sophia Loren e Lollobrigida. Morto a 98 anni il fondatore della maison. Condusse anche uno show Rai. Paola Fucilieri il 27 novembre 2022 su Il Giornale.

Come segno distintivo un sorriso disarmante, un'eleganza sartoriale, una sobrietà lussuosa ma essenziale. Ha vestito dive e divine, first lady, principesse e imperatrici, donne leggendarie destinate a restare nella storia del cinema e del jet set internazionale Renato Balestra, lo stilista di origini triestine ma da sempre residente a Roma dove è scomparso ieri sera all'età di 98 anni. Ad annunciarlo, come ha riportato online il quotidiano Il Messaggero, sono state le figlie Fabiana e Federica, assieme alla nipote Sofia alle quali andrà la gestione del marchio. I funerali si terranno martedì nella capitale nella Chiesa di Santa Maria del Popolo.

Lui, che proveniva da una famiglia di architetti, da giovane aveva deciso di seguire le orme del padre e di studiare ingegneria. Fino all'ultimo anno di frequentazione della facoltà non si era mai occupato di moda e soltanto una scommessa tra amici lo portò a disegnare un modello; il disegno fu così apprezzato che, spedito a sua insaputa a Milano, lo lanciò nell'empireo del fashion. E da quel momento furono solo successi.

Artista, prima ancora che creatore di moda (sin da ragazzo si era dedicato alla scenografia, alla pittura e alla musica) e con una profonda passione per il teatro e il cinema, dal 1954 si trasferì a Roma e iniziò a lavorare per il «gotha» dell'alta sartoria italiana: da Emilio Schubert, a Maria Antonelli, alle Sorelle Fontana. Sempre nella città eterna, nel 1959 aprirà il suo primo atelier in via Gregoriana 36, quindi trasferitosi successivamente in via Sistina. È in questi anni che nasce il «Blu Balestra», su un abito corto in raso: un blu brillante, magico e senza tempo, un colore unico che ancora oggi è simbolo indiscutibile della Maison.

Grazie all'amore per il grande schermo, e solo quattro anni dopo essere giunto nella Capitale, Renato Balestra presenta le sue collezioni negli Stati Uniti dove il suo nome era già noto e osannato dopo che aveva disegnato i costumi per Ava Gardner nei film La contessa scalza e Il sole sorge ancora, per Gina Lollobrigida ne La donna più bella del mondo, per Sophia Loren in La fortuna di essere donna.

Nel gennaio del 1963 sfila per la prima volta nella Sala Bianca di Palazzo Pitti, proponendo una moda completamente nuova che si distingue per semplicità, accuratezza e spontaneità. Sviluppa questo nuovo approccio con collezioni esclusive per i department store Saks Fifth Avenue, Bergdorf Goodman,, Neiman Marcus negli Usa.

Alla fine degli anni Sessanta il brand Renato Balestra è distribuito in oltre 70 grandi magazzini americani e sfila nelle Filippine, a Singapore, in Thailandia, Giappone, Malesia, Indonesia e in Medio ed Estremo Oriente.

Tra i primi designer a credere nel licensing, lancia il profumo Balestra nel 1978 e nel corso degli anni esplora e sviluppa con successo varie categorie di prodotti: oltre alle fragranze anche trucco, valigie, occhiali e articoli per la casa. Nel 1988 presenta «Rosa & Chic» su Rai 2: è la prima volta che un programma televisivo viene assegnato a uno stilista. La sua compostezza e disinvoltura nell'esprimersi e l' indubbia conoscenza del mondo del fashion hanno fatto di lui uno degli ospiti più capaci e graditi del panorama televisivo italiano degli ultimi cinquant'anni. Ci mancherà.

Morto Renato Balestra, perché è una grave perdita per l'Italia. Libero Quotidiano  il 27 novembre 2022

È morto sabato sera a Roma lo stilista Renato Balestra, indiscusso stilista dell'alta moda. Aveva 98 anni. Ad annunciarlo sono state le figlie Fabiana e Federica assieme alla nipote Sofia alle quali andrà la gestione del marchio. I funerali si terranno martedì 29 novembre nella Chiesa di Santa Maria del Popolo nella Capitale.

Nel corso della sua lunga carriera ha vestito modelle, attrici, personalità e teste coronate di tutto il mondo. Nato a Trieste nel 1924 in una famiglia di ingeneri e architetti si dedica alla pittura, alla musica e alla scenografia. La sua carriera nella moda inizia per caso, quando gli amici inviano uno dei suoi bozzetti al Centro Italiano della Moda (CMI): notato subito per il suo talento, partecipa a una sfilata di Alta Moda. Nel 1953 è già uno stilista di successo e abbandona gli studi di ingegneria e completa il suo apprendistato nell'atelier di Jole Veneziani. Considerato il "pittore della moda", grazie al suo spirito artistico riesce a creare una sinergia unica con l'Alta Moda italiana, che trasforma profondamente nel corso degli anni. Balestra divenne anche un amato personaggio televisivo. A partire dal  2001 aveva partecipato allo show "Chiambretti C'è" su Rai2, collegandosi da casa sua, a cena con i suoi ospiti celebri. Nel 2010 era nel cast del programma Cuore di mamma, sempre su Rai2. Più tardi aveva preso parte come inviato speciale a "I Raccomandati" in onda su Rai1.

Decano degli stilisti, aveva 98 anni. Addio a Renato Blu Balestra, moda italiana in lutto: “Il mio colore sta bene a bionde e more”. Redazione su Il Riformista il 27 Novembre 2022

Addio a Renato Balestra, decano degli stilisti italiani morto a Roma nella serata di sabato 26 novembre all’età di 98 anni. L’annuncio arriva delle figlie Fabiana e Federica assieme alla nipote Sofia, alle quali andrà la gestione del marchio. Nel corso della sua lunga carriera ha vestito modelle, attrici, personalità e teste coronate di tutto il mondo. E’ stato uno dei riferimenti della moda del Bel Paese. I funerali si terranno martedì 29 novembre nella chiesa di Santa Maria del Popolo a Roma.

Nato a Trieste nel 1924 da una famiglia di architetti e ingegneri, Balestra fin da piccolo coltiva la sua passione per l’arte e la musica. Entra nel mondo della moda quasi per caso. I compagni della facoltà di Ingegneria gli chiedono per scommessa di disegnare un abito da donna e poi inviano a sua insaputa il bozzetto alla maison di Alta Moda di Jole Veneziani a Milano. E subito Balestra viene invitato a collaborare con lei. È così che la sua carriera è decollata. Nel 1954 Balestra si trasferisce da Milano a Roma dove lavora, tra l’altro, con le sorelle Fontana.

La sua passione per il cinema lo porta a disegnare abiti per grandi star del calibro di Ava Gardner, Sophia Loren e Gina Lollobrigida. Negli anni diventa lo stilista preferito anche di star di Hollywood del calibro di Liz Taylor e Natalie Wood. Ma la lista di celebrità che veste nel suo atelier romano di via Gregoriana prima e di via Sistina poi è lunghissima. Negli anni ’60 il suo nome si afferma definitivamente grazie al Blu Balestra, una tonalità di blu brillante, un colore unico che ancora oggi è simbolo indiscutibile della maison, abbinato ad un abito corto di raso. “Sta bene a bionde e more” diceva.

Nel 1962 Renato Balestra diventa membro della Camera della Moda Italiana e viene scelto dall’Istituto di commercio estero come ambasciatore del Made in Italy nel mondo. Le creazioni dello stilista diventano celebri anche negli Stati Uniti e in Giappone, dove vengono vendute in negozi eslòusivi come Saks Fith Avenue o Bergdorf Goodman.

Balestra, però, non si ferma qui. Già alla fine degli anni ’70, sviluppa varie categorie di prodotti, che vanno dai profumi, al trucco, alle valigie, agli occhiali fino agli articoli per la casa. Amante del teatro, del balletto, per il quale ha spesso disegnato i costumi, Balestra è stato anche il primo stilista ad affacciarsi al mondo della tv: nel 1998 il programma Rosa&Chic su Rai2. Il suo archivio è stato dichiarato dal Mibac “di interesse storico particolarmente importante” nel 2019. Comprende documentazione prodotta dalla metà degli anni Cinquanta fino ai giorni nostri, ed è composto da oltre 40.000 bozzetti e disegni, abiti e lavorazioni sartoriali, rassegna stampa e fotografie. 

Ai funerali di Renato Balestra la commozione per l’addio allo stilista che portò Roma nel mondo. Flavia Fiorentino su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022

Milly Carlucci tra le lacrime mentre legge la preghiera degli artisti. Tante affezionate clienti del maestro dell’haute couture ma anche giovani fan a cui il designer ha sempre cercato di trasmettere la sua passione

Le lacrime di Milly Carlucci mentre dal pulpito della chiesa di Santa Maria in Montesanto a piazza del Popolo, dedica la preghiera degli artisti a Renato Balestra, scomparso sabato scorso mentre gli amici e i familiari si sono stretti a Fabiana e Federica, figlie del couturier, e alle nipoti Sofia e Marta. Sul pulpito assieme a monsignor Insero, erano presenti Monsignor Simeone, rettore della chiesa di Costantinopoli a Roma, e don Emiliano, che ha seguito il couturier negli ultimi giorni di vita durante il ricovero in una clinica romana. «Renato era un uomo speciale - ha detto la conduttrice Rai finita la cerimonia religiosa - . Conoscevo lui e le figlie Fabiana e Federica da quando ero ragazzina. Eravamo una famiglia. Renato ha rappresentato una generazione di uomini di una statura intellettuale, morale, creativa, pazzesca, unica».

Tra le sue affezionate clienti anche molti giovani fan a cui aveva anche insegnato in diverse accademie, l’omaggio di Guillermo Mariotto, designer di Gattinoni e noto personaggio televisivo accanto ad Anna Fendi, alla scenografa Francesca Lo Schiavo, Beppe Convertini, Patrizia e Giada De Blanck, Adriano Aragozzini, Amedeo Goria, Marisela Federici e Adriano Spadafora.Tanta commozione per l’ultimo addio allo stilista nato 98anni fa a Trieste e stabilitosi a Roma nei primi anni Sessanta dove aveva aperto il suo atelier alla vigilia della Dolce Vita e della Hollywood sul Tevere quando Liz Taylor, Audrey Hepburn o Ava Gardner si vedevano passeggiare tra le scintillanti boutique di via Veneto.

Dalle prime collaborazioni con le Sorelle Fontana alla conquista di Stati Uniti, Asia e Medio Oriente, dove Balestra ha sempre portato Roma nel mondo e invitato il mondo a Roma. Il naturale talento per il disegno ne fece «il pittore della moda» capace d’integrare diverse tecniche artistiche per esaltare la bellezza delle sue creazioni. Il suo iconico Blu Balestra è ormai un segno indelebile non solo nel mondo della moda e dagli Anni Settanta il suo nome venne associato ai «ricami pittura» utilizzando diversi tessuti e trasparenze, che rappresentano la sua continua ricerca di innovazione e libertà espressiva che ha tenuto sempre vive nel suo originale percorso creativo

·         Addio al sarto Cesare Attolini.

Aveva 91 anni, i figli: "Oggi ci lascia un grande sarto". Addio a Cesare Attolini, il maestro dell’eleganza della Grande Bellezza e della giacca che "zompa arreto". Redazione su Il Riformista il 25 Novembre 2022 

"Oggi ci lascia non solo un grande sarto, forse il più grande ma soprattutto un grande padre che ha saputo amare i suoi figli, la sua famiglia e tutti i suoi innumerevoli allievi come solo chi ha un cuore grande sa fare". La famiglia ricorda così Cesare Attolini, 91 anni, scomparso nelle scorse ore "nel sonno" nella sua casa a Napoli. Lascia la moglie Anna, con la quale era legato da oltre 65 anni, e i figli Massimiliano e Giuseppe.

Maestro dell’arte sartoriale e dell’eleganza, Attolini è stato il re dell’eleganza con i suoi abiti che hanno anche vestito Tony Servillo e il personaggio da lui interpretato, Jep Gambardella, ne "La Grande Bellezza", premiata anche agli Oscar, del regista napoletano Paolo Sorrentino. Celebre sa sua giacca "che zompa arreto" (ovvero più corta nella parte posteriore), indossata da Servillo nel film.

Un visionario Attolini capace di trasformare la bottega aperta da papà Vincenzo negli anni ’30 nel quartiere Chiaia in un marchio internazionale e apprezzato in tutto il mondo, con oltre 130 sarti e negozio a Mosca, Dubai, New York e con il primo laboratorio aperto nel 1987 a Casalnuovo, in provincia di Napoli. Nel corso della sua lunga carriera sartoriale, Attolini ha creato capi su misura anche per altri attori come Robert De Niro, Dustin Hoffmann, Totò, i fratelli De Filippo, Vittorio De Sica e Marcello Mastroianni. 

"Mio padre – ha spiegato a Il Mattino Giuseppe Attolini – se ne è andato con il sonno dei buoni nella sua casa di Napoli. Stava bene, non aveva malori particolari se non gli inevitabili acciacchi che sempre porta con se la vecchiaia. Fino alla sera prima abbiamo parlato di lavoro. Poi, dopo pranzo, si è addormentato per non svegliarsi mai più. Il suo collaboratore era sceso, se ne è accorta mia madre che avvicinandosi ha scoperto che non respirava più. Io e mio fratello eravamo ad un pranzo di lavoro con dei clienti olandesi, inutile dire che ci siamo subito precipitati".

Toccante il ricordo dei figli sulla pagina social dell’azienda di famiglia: "Addio Maestro Cesare, sarai sempre con noi, insieme nella nostra amata sartoria. Un uomo visionario generoso appassionato autentico, umile per la sua grandezza".

"Oggi ci lascia non solo un grande sarto, forse il più grande – scrive la sua famiglia – ma soprattutto un grande padre che ha saputo amare i suoi figli, la sua famiglia e tutti i suoi innumerevoli allievi come solo chi ha un cuore grande sa fare". "Il tuo immenso spirito guida sarà sempre con noi. Ogni giorno, come ieri, per sempre», lo salutano ancora, accanto ai figli, "tutta la famiglia dei sarti Cesare Attolini".

·         Morto l’attore Mickey Kuhn.

Morto Mickey Kuhn, baby attore di 'Via col vento'. Era l'ultimo rimasto del cast originale. Redazione Spettacolo su La Repubblica il 22 Novembre 2022.

Aveva sei anni quando prese parte al kolossal nel ruolo di Beau Wilkes, figlio di Olivia de Havilland e Leslie Howard. Vivien Leigh lo considerava un portafortuna. Il suo ultimo lavoro fu in tv nel 1957, poi ha poi lavorato nella gestione degli aeroporti

È morto Mickey Kuhn, il bambino prodigio degli anni 30 e 40 che interpretò Beau Wilkes, il figlio di Olivia de Havilland e Leslie Howard, nel leggendario film del 1939 Via col vento. L'attore statunitense è morto domenica scorsa in una casa di riposo all'età di 90 anni a Naples, in Florida, come ha dichiarato la moglie Barbara Traci a The Hollywood reporter. "Fino a poco tempo fa godeva di ottima salute", ha detto la quinta moglie di Kuhn, sposata nel 1984.

L'ultimo sopravvissuto del cast

Dopo la scomparsa nel 2020 di Olivia de Havilland, che fu la celebre Melania, Kuhn era rimasto l'unico sopravvissuto del cast del kolossal Gone with the wind (questo il titolo originale) diretto da Victor Fleming con Clark Gable e Vivien Leigh (Rossella O'Hara).

Gli altri film

Il giovane Kuhn ha anche recitato in Dick Tracy (1945) ed è stato la versione giovane di Kirk Douglas e Montgomery Clift rispettivamente in Lo strano amore di Martha Ivers (1946) e Il fiume rosso di John Wayne (1948).

Portafortuna di Vivien Leigh

In Un tram chiamato desiderio (1951), Kuhn tornò a recitare con Vivien Leigh per interpretare un marinaio che dà indicazioni a Blanche DuBois. Per Leigh il giovane attore era un portafortuna: lei vinse i suoi due Oscar come miglior attrice con lui nel cast.

Gli aneddoti su 'Via col vento'

Theodore Matthew Michael Kuhn Jr., questo il suo nome per esteso, era nato il 21 settembre 1932 a Waukegan, nell'Illinois. Con la famiglia si trasferì a Los Angeles, dove il padre lavorava come tagliatore di carne. All'età di 2 anni apparve come bambino adottato in Primo amore (1934), con Janet Gaynor. Kuhn aveva 6 anni quando girò Via col vento e, in un'intervista del 2014 al Washington post, ha ricordato come continuasse a sbagliare una scena con Clark Gable. "La mia battuta era: 'Ciao, zio Rhett'. E io continuavo a dire: 'Ciao, zio Clark'". Gli ci sono voluti alcuni ciak per riuscire a farla bene.

In un'altra scena, Kuhn appare tra le braccia di suo padre, Ashley (Howard), fuori dalla camera da letto dove sua madre, Melanie (de Havilland) è gravemente malata. "Dove sta andando mia madre? E perché non posso venire con lei, per favore?", chiede Kuhn. Non è mai apparso sullo schermo con de Havilland e ha raccontato di averla incontrata solo quando lei ha festeggiato il suo 90esimo compleanno in California nel 2006. Dopo di allora, l'ha chiamata ogni anno per il suo compleanno.

Sei film nel '39

In tutto, Kuhn ha lavorato in sei film usciti nel 1939, tra cui King of the underworld, con Humphrey Bogart; Il conquistatore del Messico, con Bette Davis e Paul Muni (ha detto di aver guadagnato 100 dollari a settimana per interpretare un giovanissimo principe ereditario messicano); Vigilia d'amore, con Irene Dunne e Charles Boyer.

Fine della carriera nel 1957

Il suo curriculum sul grande schermo comprendeva anche due film di James Stewart, La città magica (1947) e L'amante indiana (1950), oltre a Voglio il divorzio (1940), Un piede in paradiso (1941), Un albero cresce a Brooklyn (1945), Quel fenomeno di mio figlio (1951). Dopo essere apparso nella serie tv Alfred Hitchcock presenta nel 1957 si concluse la sua carriera di attore. Ha poi lavorato nella gestione degli aeroporti per l'American Airlines e nei terminal di Washington e Boston prima di andare in pensione nel 1995.

·         È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.

È morta Hebe de Bonafini, la leader delle Madri di Plaza de Mayo. Virginia Nesi su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022

Alle 9.20 di questa mattina è morta a 93 anni la presidente e storica leader delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione di donne che ha sfidato la dittatura argentina per ritrovare i figli desaparecidos

Alle 9.20 di questa mattina è morta a 93 anni Hebe de Bonafini, la presidente delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione di donne che con un fazzoletto bianco in testa ha sfidato la dittatura militare argentina (1976-1983) per ritrovare le figlie e i figli catturati e torturati nei campi clandestini di detenzione. Giovani che non erano né vivi, né morti: ma desaparecidos. Fra gli scomparsi , sequestrati dai militari del regime, c’erano anche due figli di Bonafini: Jorge Omar e Raúl Alfredo, e sua nuora, María Elena Bugnone. Di loro non ha saputo più niente.

Secondo un comunicato diffuso dalla famiglia, la storica leader era stata ricoverata all’ Hospital Italiano della città di La Plata per degli accertamenti medici e dimessa poi il 13 ottobre. Il prossimo 4 dicembre avrebbe compiuto 94 anni. In Argentina sono stati proclamati tre giorni di lutto nazionale.

«La nostra presidente Hebe de Bonafini ha cambiato casa, come diceva lei delle compagne che l’hanno preceduta. Rimarrà per sempre nella Plaza de Mayo», ha dichiarato l’Associazione Madri di Plaza de Mayo. «Perdiamo una lottatrice instancabile. Rivendicando verità e giustizia insieme alle Madri e alle Nonne, affrontò i genocidi quando il senso comune collettivo andava in un’altra direzione. Con enorme affetto e sincero dispiacere, le dico addio. Hasta siempre Hebe», ha scritto su Twitter il presidente argentino Alberto Fernández.

Su Twitter anche il cordoglio delle Nonne di Plaza de Mayo: «Piangiamo la perdita di Hebe de Bonafini, Madre de Plaza de Mayo, sorella in questa lotta per la scomparsa di nostr* figl*. Abbracciamo le sue compagne e i suoi familiari. Hasta siempre!». Le due organizzazioni si sono separate nel 1986. In quell’anno de Bonafini ha preso le redini dell’Associazione delle Madri de Plaza de Mayo, mentre altre madri si sono unite sotto l’organizzazione Madri di Plaza de Mayo Linea Fundadora.

«Il fazzoletto bianco non andrà mai in un cimitero, ha a che vedere con la vita non con la morte », aveva dichiarato de Bonafini a BBC Mundo. Lei, come le altre madri, non cercava i resti dei figli. Voleva che riapparissero tutti e vivi, poi chiedeva che i colpevoli fossero puniti. La loro associazione ha rifiutato la ricompensa economica offerta dal governo a chi aveva un familiare scomparso. Il motivo era chiaro per la presidente delle Madri de Plaza de Mayo:«Se firmi la riparazione economica, devi mettere quando credi sia morto tuo figlio. Io non posso farlo perché non lo so. Devono dirmelo le persone che se lo sono portato via».

Simbolo della lotta per i diritti umani, de Bonafini ha guidato le manifestazioni delle madri, ogni giovedì, dal 1977 a oggi, davanti al palazzo del governo. Ai primi raduni sono poche le donne coraggiose che partecipano. Il governo proibiva riunirsi. Così per riconoscersi scelgono di usare un simbolo: il fazzoletto bianco. Insieme decidono di circolare intorno all’obelisco. Circolare non marciare, la loro camminata ha sempre avuto una direzione, un obiettivo: sapere la verità. Ed Hebe de Bonafini l’ha difesa e inseguita fino alla fine.

Era rivoluzionaria, amata e detestata, ma anche polemica e controversa la leader delle Madri di Plaza de Mayo (il suo gruppo è stato coinvolto anche in uno scandalo di corruzione). Lei definiva la sua associazione «un’organizzazione politica, con un progetto nazionale e popolare di liberazione». Tra le due fazioni, era la sua, quella più radicale.

Appoggiava Che Guevara (gli aveva dedicato una poesia: Padre Nuestro del Che Guevara), Fidel Castro e Hugo Chavez . Nel 2000 disse che la Spagna era uno Stato terrorista che torturava i prigionieri dell’Eta. Un anno dopo, sugli attentati alle Torre Gemelle commentò:«Sono stata molto contenta quando ho ascoltato la notizia. Non sarò ipocrita: non mi ha fatto male affatto».

Controcorrente, Hebe de Bonafini come le altri madri di Plaza de Mayo è riuscita a trasformare il dolore individuale in una battaglia collettiva. Non ha lottato per sé stessa, ma per i figli di tutte. E adesso, diceva a maggio del 2022 a El País, «la nostra lotta la continuerà il popolo argentino».

In memoria di Hebe de Bonafini, volto delle madri di Plaza de Mayo. Valeria Casolaro su L'Indipendente  il 22 novembre 2022.

Si è spenta a quasi 94 anni Hebe de Bonafini, storica fondatrice delle Madri di Plaza de Mayo, il movimento composto dalle mamme dei giovani argentini desaparecidos durante il regime militare di Videla. Personaggio complesso e controverso, Hebe rappresenta uno dei simboli della resistenza contro la ferocia della dittatura militare e che, per la testarda tenacia della sua lotta, fu conosciuta in tutto il mondo.

«Prima che fosse sequestrato mio figlio ero una donna come tante, una casalinga come tante. Non sapevo tante cose. Non mi interessavano. La questione economica, la situazione politica mi erano del tutto estranee, indifferenti». Così, nel 1982, Hebe de Bonafini descriveva la sua vita fino al giorno in cui suo figlio, Jorge Omar, scomparve nella giornata dell’8 febbraio 1977, dopo essere stato picchiato, torturato e incappucciato dagli uomini di Videla. Qualche mese dopo, il 6 dicembre, toccherà la medesima sorte all’altro figlio di Hebe, Raùl Alfredo, e il 25 maggio 1978 alla nuora, la moglie di Jorge Omar, Maria Elena Bugnone Cepeda. La terza figlia di Hebe, Maria Alejandra, non sparì, ma fu ugualmente torturata dagli uomini di Videla all’interno della casa di famiglia. «Da quando è scomparso mio figlio, tuttavia, l’amore che sentivo per lui, il desiderio di cercarlo fino a trovarlo, pregando, chiedendo, esigendo che me lo consegnassero, l’incontro e l’ansia condivisa con altre madri che sentivano lo stesso desiderio che sentivo io, mi hanno messo in un mondo nuovo, mi hanno fatto conoscere e dare valore a molte cose che non sapevo e che prima non mi interessava sapere».

Il primo incontro delle Madri di Plaza de Mayo, allora note come “las locas de la Plaza” (“le matte della Piazza”), si svolse il 30 aprile 1977. Numerose tra le madri dei desaparecidos vittime del regime militare si incontrarono nella Plaza de Mayo, di fronte alla Casa Rosada, sede della presidenza, con una lettera diretta al dittatore Jorge Videla. La settimana successiva, grazie ad Azucena Villaflor – anch’essa madre di un desaparecido – vi prese parte anche Hebe. Le donne presero l’abitudine di girare intorno all’obelisco posto al centro della piazza, dopo che la polizia cercò con la violenza di disperderle. Nel 1979 Hebe aveva già abbandonato la propria vita da casalinga per presiedere il movimento delle Madri di Plaza de Mayo. Nel 1986 il movimento si divise per via di alcune polemiche interne, dando così vita al movimento Madres de Plaza de Mayo (il segmento più nutrito, del quale Hebe era a capo) e Madres de Plaza de Mayo – Linea Fundadora. Ma nemmeno questo impedì alle donne di continuare a incontrarsi di fronte alla Casa Rosada per 45 anni. L’appuntamento non si arrestò nemmeno quando il Covid rese impossibile camminare per le strade, dal momento che Hebe si mise a trasmettere via radio dalla propria casa. Il gesto di quelle donne, sole nella loro battaglia di fronte alla ferocia della repressione militare, era noto in tutto il mondo e sollevò un’ondata di solidarietà internazionale, ma a lungo rimase sconosciuto all’interno dell’Argentina, per via del silenzio imposto dalla sanguinosa repressione.

Simbolo della strenua lotta per la verità e la giustizia, Hebe è stata tuttavia un personaggio controverso e complesso, il cui carattere polemico, provocatorio e viscerale le ha col tempo attirato le antipatie di molti. Celebri furono alcune delle sue affermazioni piuttosto forti, rilasciate in occasione di episodi quali l’attentato alle Torri Gemelle, quando dichiarò «Non sarò ipocrita su questo argomento. Non mi ha fatto per niente male», o dell’attentato alla rivista francese Charlie Hebdo, quando condannò l’attacco ma aggiunse che «la Francia colonialista che lasciò migliaia di piccoli Paesi in rovina non ha autorità morale per parlare di terrorismo criminale». Accusò inoltre la rappresentante di Abuelas de Plaza de Mayo (le Nonne di Plaza de Mayo, movimento composto da coloro che contavano tra i desaparecidos i propri nipoti), Estela de Carlotto, di aver trattato con gli assassini dei suoi figli, nonostante abbiano poi condiviso a lungo la lotta politica. Fervente sostenitrice del kirchnerismo, animata da un forte sentimento antioccidentale e antimperialista, fu ricevuta con entusiasmo da tutti i principali leader della sinistra latinoamericana, da Fidel Catro a Hugo Chavez a Evo Morales.

In occasione della scomparsa di Hebe, proprio Estela de Carlotto ha ricordato come vi fossero «momenti nei quali era davvero impossibile comprenderla o ragionarci, perché aveva un carattere forte, ma quello che interessa è ciò che ha fatto e ciò che ha lasciato». E ciò che Hebe de Bonafini ha lasciato è l’importanza della memoria storica e della strenua lotta per la giustizia e per la verità, in un continente dove la storia dei desaparecidos è tutt’altro che seppellita nel passato. Si attende infatti ancora di scoprire la verità sui 43 studenti scomparsi nel 2014 in Messico, nella cui sparizione sono coinvolti alcuni tra i più alti organi dello Stato.

Il presidente argentino Fernandez ha dichiarato tre giorni di lutto nazionale per la morte di Hebe. “Il governo e il popolo argentino riconoscono in lei un simbolo internazionale della ricerca della memoria, della verità e della giustizia per i trentamila desaparecidos. Come fondatrice di Madri di Plaza de Mayo portò luce nel mezzo dell’oscura notte della dittatura militare” ha scritto il governo in un comunicato, con il quale intende “rendere omaggio a Hebe, alla sua memoria e alla sua lotta, che saranno sempre presenti come guida nei momenti difficili”. Le bandiere nazionali sono a mezz’asta negli edifici pubblici di tutto il Paese e la tv pubblica esibisce sullo schermo uno stemma nero in segno di lutto. [di Valeria Casolaro]

·         E’ morto il cantautore Pablo Milanés.

Pablo Milanés è morto, il cantautore voce e cuore di Cuba aveva 79 anni. Redazione Spettacoli La Repubblica il 22 Novembre 2022.

Vincitore di due Latin Grammy (2006) e di una statuetta per Musical Excellence (2015) ha composto brani come 'Yolanda', 'El amor de mi vida'. Sua figlia è stata legata al figlio di Che Guevara

Il cantautore cubano Pablo Milanés è morto ieri a Madrid all'età di 79 anni. Era malato da tempo. Nato a Bayamo, Milanés è stato una delle voci più note della canzone cubana, fondatore del Gruppo di sperimentazione sonora dell'Icaic dell'Avana e del movimento Nueva Trova insieme a Silvio Rodríguez e Noel Nicola. Il 13 novembre scorso il cantautore era stato ricoverato a Madrid, dove viveva dal 2017, e stava ricevendo cure mediche per la malattia di cui soffriva da qualche anno, che si era aggravata negli ultimi mesi. Nel 2014 era stato sottoposto a un trapianto di rene.

Negli ultimi mesi, l'interprete di brani classici come Yolanda, El breve espacio que no estas o El amor de mi vida, aveva dovuto cancellare diverse tappe del suo tour Días de Luz. Il 21 giugno scorso si era esibito per l'ultima volta nello stadio dell'Avana, davanti a migliaia di persone che avevano intonato insieme a lui i brani delle sue più celebri canzoni. Brani che sono stati ripresi e diffusi da personaggi come Chico Buarque, Milton Nascimento, Mercedes Sosa, Silvio Rodriguez. È vincitore di due Latin Grammy (2006) e di una statuetta per Musical Excellence (2015).

In Italia è stato insignito del Premio Tenco nel 1994, quando - tra gli altri - Roberto Vecchioni, Gino Paoli, Eugenio Finardi, Edoardo Bennato, Cristiano De Andrè - gli dedicarono un album tributo: Un suo brano, intitolato Cancion, è stato scelto da Gabriele Salvatores per la colonna sonora del film Puerto Escondido. "Per il lungo viaggio intrapreso in direzione di un nuovo canto popolare – si leggeva nella motivazione del Premio Tenco - che, da Cuba, lo ha portato a tutta l'America Latina e in Europa, raccogliendo per strada, oltre alle tradizioni e alle sperimentazioni musicali, la poesia quotidiana di una civile convivenza dove la dignità dei rapporto assurge, sempre e comunque, al valore assoluto".

Il musicista era legato alla famiglia di Che Guevara, il figlio Camilo infatti era stato legato a Suylén Milanés, figlia del cantautore; insieme hanno avuto una figlia che si chiama Camila.

·         E’ morta l’attrice Nicki Aycox.

Il dramma dell'attrice Nicki Aycox: stroncata dalla leucemia a 47 anni. Dal 2021 la star di Supernatural lottava contro una grave forma di leucemia. Nonostante le chemio e un trapianto è deceduta il 16 novembre. Novella Toloni su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

La leucemia non ha dato scampo all'attrice americana Nicki Aycox, celebre per essere stata una delle protagoniste della serie tv "Supernatural". La Aycox aveva solo 47 anni e combatteva contro una forma particolarmente aggressiva di leucemia da un anno e mezzo. Nonostante le cure iniziate nel 2021, l'attrice non è riuscita a vincere la sua battaglia contro la malattia e la notizia della morte è arrivata dai social. È stata la moglie del fratello di Nicki Aycox, Susan, a annunciare la sua scomparsa con parole toccanti: "La mia bella, intelligente, incredibilmente talentuosa e amorevole cognata, Nicki Aycox Raab è morta con mio fratello, Matt Raab, al suo fianco. Era una combattente e tutti quelli che la conoscevano l'amavano".

La carriera tra cinema e tv

Dopo alcune comparsate nelle serie "Providence" e "Ed" tra il 1999 e il 2004, Nicki Aycox aveva conquistato un ruolo di rilievo in "Cold Case - Delitti irrisolti" che la vide co-protagonista della serie dal 2004 al 2010. La popolarità era arrivata, però, con il ruolo di Meg Master in "Supernatural" che le aveva aperto le porte del cinema, dove aveva recitato in numerose pellicole thriller e horror. Dal 2011, però, l'attrice aveva abbandonato il mondo dello spettacolo dedicandosi alla sua passione per la cucina e la pittura.

L'annuncio della malattia

Il 5 marzo 2021 l'attrice aveva annunciato di avere la leucemia attraverso un post Instagram. "Non riesco a credere ai miei ultimi tre mesi. Mi sono ammalata gravemente pensando di avere il Covid poi le cose sono precipitate. Sono finita in un ospedale con diagnosi di leucemia", aveva confessato Nicki Aycox, mostrandosi con i capelli cortissimi a causa della chemioterapia. L'artista aveva detto di essere positiva e essere pronta a lottare per tornare "migliore, più forte e più saggio". Nicki aveva intrapreso un lungo percorso di cure e lo scorso gennaio sembrava poter superare la fase critica della malattia. "Nuova chemio, possibile terapia con cellule T e nuovo trapianto. Spero che entro le vacanze del 2022 sarò fuori da questo incubo di leucemia", aveva scritto ancora sui social.

L'ultimo post

Poco prima della primavera di quest'anno, però, l'attrice si era mostrata provata e visibilmente stanca su Instagram, ma aveva detto con forza di voler sconfiggere la leucemia in ogni modo. L'ultimo post, un video dove si vedeva distesa in un letto ma sempre con il sorriso sul volto, risale al 25 marzo. Da quel giorno la protagonista di Supernatural non ha più avuto contatti con i suoi follower, che oggi la piangono sotto quell'ultimo video-ricordo.

·         Morto il filosofo Fulvio Papi.

Morto il filosofo Fulvio Papi, aveva 92 anni. Poco tempo fa aveva chiesto la tessera Anpi: "Il tempo è troppo breve". La Repubblica il 21 Novembre 2022.

Per 35 anni ha insegnato Filosofia teoretica all'università di Pavia, presidente onorario della Casa della Cultura di Milano. Con Vegetti e Fabietti aveva curato i manuali di filosofia per i licei molto diffusi negli anni '70 e '80

Il filosofo Fulvio Papi, professore emerito di Filosofia teoretica all'Università di Pavia, dove ha insegnato dal 1965 al pensionamento, è morto nella sua casa di Milano all'età di 92 anni. Papi ha interpretato i classici della filosofia (Bruno, Kant, Hegel, Marx) e ha percorso le linee essenziali della filosofia contemporanea, elaborando negli ultimi trent'anni un disegno interno al 'fare filosofico' come scrittura che configura "spazi di mondo e orizzonti di senso". Con Mario Vegetti, Franco Alessio e Renato Fabietti, Papi ha curato, per l'editore Zanichelli, il manuale di filosofia per i licei, in tre volumi, "Filosofie e società", assai diffuso negli anni '70 e '80.

Nato a Trieste il 16 agosto 1930, Papi si laureò in filosofia all'Università Statale di Milano con Antonio Banfi. Dal 1951, data della sua fondazione, seguì la rivista fondata dal filosofo Enzo Paci, "Aut-Aut". Dal 1952 lavorò come redattore al giornale socialista "Avanti!", prima per la pagina culturale, poi per la politica estera, infine nel 1963-4 come vice-direttore del giornale con la direzione politica di Riccardo Lombardi. Papi contribuì all'elaborazione teorica dell'autonomia socialista con la concezione delle grandi riforme sociali per via democratica e parlamentare (le riforme '''rivoluzionariè) propria della linea politica di Riccardo Lombardi. Fallita politicamente questa prospettica, Papi tornò interamente agli studi filosofici e al lavoro universitario. Dopo cinque anni di assistentato all'Università Statale di Milano, ha insegnato per 35 anni Filosofia teoretica all'Università di Pavia.

Tra i suoi libri figurano: "Il pensiero di Antonio Banfi" (Parenti, 1961); "Antropologia e civiltà nel pensiero di Giordano Bruno" (La Nuova Italia, 1968); "Cosmologia e civiltà. Due momenti del Kant precritico" (Argalia Editore, 1969); "Capire la filosofia" (Ibis, 1993); "Il sogno filosofico della storia. Interpretazioni sull'opera di Marx" (Guerini e Associati 1994); "La passione della realtà. Saggio sul fare filosofico" (Guerini e Associati, 1998); "Racconti della ragione. Saggi filosofici sul pensiero e la vita" (Thélema Edizioni, 1998); "Lezioni sulla Scienza della logica di Hegel" (Ghibli, 2000); "Giordano Bruno. La costruzione delle verità" (Mimesis, 2010). Presidente del Comitato scientifico della Fondazione Corrente, Papi è stato vicepresidente e poi presidente onorario della Casa della cultura di Milano e dirigeva la rivista filosofica "Oltrecorrente".

Ancora a maggio Papi, che è stato anche insignito dell'Ambrogino d'oro come cittadino benemerito della città di Milano, aveva partecipato all'inaugurazione dei giardini dedicati a Renato Boeri davanti al Politecnico. A ricordarlo c'è anche Roberto Cenati, presidente dell'Anpi provinciale: "La notizia mi ha profondamente addolorato. Con Fulvio perdiamo un protagonista della vita culturale del nostro Paese, un riferimento indispensabile per tutti noi. Un paio di anni fa Fulvio ha chiesto l'iscrizione all'Anpi con una lettera che conserverò sempre tra i miei documenti più preziosi. Nella lettera, avente come oggetto "Domanda di iscrizione all'Anpi", Fulvio scrive: "Nel periodo 1942-45 ero studente presso il collegio Rosmini di Stresa, appartenevo a una famiglia di tradizione antifascista, politicamente socialista. Ho fiancheggiato idealmente (data l'età) la formazione partigiana 7a Brigata Stefanoni che dal marzo 1944 si andava costituendo nella zona tra Signese e il Mottarone. Il suo ultimo comandante fu lo studente di Medicina Renato Boeri, poi celebre neurologo, che dal dopoguerra divenne un amico carissimo che ho seguito sino all'ultimo giorno e commemorato come direttore dell'Istituto Besta. Divenni anche amico fraterno di Aldo Aniasi, allora comandante Iso. Iso, con grande generosità, mi associava alle riunioni partigiane che un tempo si tenevano in occasione del premio Omegna." La lettera si conclude così: "Una comprensibile ragione di pudore - dato che Fulvio, giovanissimo, non aveva partecipato alla Resistenza - mi consigliava di non chiedere l'iscrizione all'Anpi. Ma ora il tempo è troppo breve." Non avevo perso un minuto di tempo, dopo avere ricevuto la lettera di Papi. Mi ero subito precipitato nella sua abitazione e da allora sono iniziati, in modo costante, colloqui e incontri, per me estremamente importanti e formativi. Ho incontrato Fulvio il 22 luglio scorso. In quell'occasione Fulvio mi ha raccontato degli anni dell'occupazione nazifascista a Stresa e di avere avuto più paura delle Brigate nere fasciste che degli stessi tedeschi. Ci eravamo sentiti qualche giorno fa. In quell'occasione Fulvio mi aveva espresso, come sempre, con grande lucidità e chiarezza, le sue preoccupazioni per l'escalation del conflitto in Ucraina e per il minacciato ricorso all'uso di armi nucleari, che segnerebbero la distruzione della vita sul nostro pianeta. Ai familiari esprimo anche a nome dell'Anpi Provinciale di Milano commossa e affettuosa vicinanza".

·         E’ morto il regista Jean-Marie Straub.

Marco Giusti per Dagospia il 21 novembre 2022.

“Fare la rivoluzione è anche rimettere a posto cose molto antiche ma dimenticate”. Con questa frase di Charles Péguy iniziava il film più famoso di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, “Cronaca di Anna Magdalena Bach”, il film che alla fine degli anni ’60 tutti i bravi ragazzi che si occupavano di cinema e di politica dovevano aver visto. Adesso che a 89 anni anche Jean-Marie Straub ci lascia, dopo la morte della sua compagna nel 2006, si erano conosciuti nel 1954, lei a 18 anni lui a 21, e non si erano mai divisi, e a pochi mesi da quella del suo ultimo fraterno amico, Jean-Luc Godard, non per caso morto nella sua stessa città dove da qualche anno si era trasferito, a Rolle in Svizzera, l’idea di rimettere a posto cose molto antiche come l’opera degli Straub ci pare davvero un’impresa rivoluzionaria.

Anche se il cinema degli Straub, a differenza di quello di Bertolucci o di Rocha o di Godard, non ha mai subito alcun tipo di involuzione. Quello era e quello è rimasto. Impossibile da scalfire, E fortuna vuole che molti festival, come Locarno, ma anche il Torino Film Festival, hanno provveduto in questi ultimi anni a far vedere i loro film più famosi. E che la Cinémathèque Suisse dopo aver dato la notizia della morte di Straub ha detto pure che si occuperà delle sue opere e del suo archivio. E’ quello che evidentemente voleva di più. 

Ma va detto che non era facile trattare con Jean-Marie Straub. Il pubblico romano più cinéphile se lo ricorda bene per le strade del Trullo, della Magliana, di Trastevere, con l’adorata compagna Daniéle Huillet, col sigaro in bocca, il loro cane al guinzaglio. Straub e Huillet hanno abitato per anni a Roma. E non hanno solo sognato di fare la rivoluzione col cinema, parlandone quando aveva davvero senso con Glauber Rocha, Bernardo Bertolucci, Miklos Jancso in un periodo meraviglioso del secolo scorso, l’hanno proprio fatta, girando grandi film politici e durissimi, “Fortini/Cani”, “Dalla nube alla resistenza”, “Troppo presto, troppo tardi”, “Rapporti di classe”, “Sicilia!”. 

Ma credo che non fosse facile trattare con Jean-Marie Straub. Non esisteva un regista più rigoroso di lui. Anzi, l’aggettivo rigoroso, assieme a non compromesso e radicale, sembrava che fosse stato inventato proprio per lui e la sua ossessione per i particolari, per gli schermi perfetti, e quindi per il meraviglioso cinema che tutti amavamo, cioè da John Ford e Kenji Mizoguchi…

Del resto si era trattato bene in gioventù. Era cresciuto come assistente di campioni come Jean Renoir, Robert Bresson, Jacques Rivette. Aveva scritto di cinema assieme a Truffaut e a Godard. Ma l’attenzione massima era per le proiezioni dei suoi film. Ricordo che quando passavano a Fuori Orario su Rai Tre, Straub voleva controllare personalmente il telecinema, cioè il passaggio da pellicola a nastro. Si piazzava davanti al teleschermo, col sigaro e il cappotto. Nessuno poteva disturbarlo. Aveva una venerazione assoluta per l’immagine. E non si fidava dei proiezionisti. E ancor meno dei ministri della cultura e dei direttori di festival. 

Nel 1999 Giovanna Melandri, allora ministro del   governo D’Alema, ricorda Roberto Silvestri, negò a “Sicilia!” il premio qualità, erano soldi, perché “troppo letterario”. Troppo letterario proprio a Straub, che a Gianni Manzella in una intervista per il manifesto rispose, malgrado avesse tratto film da molti letterati, da Pavese a Kafka, da Hölderlin a Vittorini: "La letteratura non mi interessa. La letteratura al cinema è noiosa. Mi interessa il peso delle parole. Situazioni che mettono a confronto due o tre personaggi, le parole sono i rapporti fra le persone”. 

Quanto ai festival… Quando nel 2006 Marco Muller, allora direttore della Mostra del Cinema di Venezia li invitò a ricevere il Leone d’Oro alla Carriera e a presentare il loro ultimo film, “Quei loro incontri”, scrissero questi tre messaggi, che riprendo sempre dalla pagina facebook di Roberto Silvestri.

Primo messaggio. “È venuto troppo presto per la nostra morte - troppo tardi nella nostra vita. Comunque ringrazio Marco Müller per il suo coraggio. Ma cosa me ne aspetto? Niente. Nulla? Sì, una piccola vendetta. Una vendetta «contre les intrigues de la cour», come si dice nella Carrozza d'oro. Contro tanti ruffiani. Perché Pavese? Perché ha scritto: "comunista non è chi vuole. Siamo troppo ignoranti in questo paese. Ci vorrebbero dei comunisti non ignoranti, che non guasterebbero il nome".  

E ancora, citando Pavese: "Se una volta bastava un falò per far piovere, bruciarci sopra un vagabondo per salvare un raccolto, quante case di padroni bisogna incendiare, quanti ammazzarne per le strade e per le piazze, prima che il mondo torni giusto e noi si possa dir la nostra?" Pavese fa dire al bastardo: «L'altro giorno sono passato sotto la Mora. Non c'è più il pino del cancello». Risponde Nuto: «L'ha fatto tagliare il ragioniere, Nicoletto, quell' ignorante. L'ha fatto tagliare perché i pezzenti si fermavano all'ombra e chiedevano. Capisci ... ». 

Ancora Nuto, altrove: «Con la vita che fa, non gli posso dare del tapino. Servisse. Bisogna prima che il governo bruci il soldo e chi lo difende». Auguri

Secondo messaggio. “D'altronde non potrei festeggiare in un festival dove c'è tanta polizia pubblica e privata alla ricerca di un terrorista - il terrorista sono io, e vi dico, parafrasando Franco Fortini: finché ci sarà il capitalismo imperialistico americano, non ci saranno mai abbastanza terroristi nel mondo.”

Terzo messaggio. “Sono stato: 

1. alla Mostra di Venezia (come giornalista) nel 1954, ho scelto di scrivere su tre film: Sancho Dayu [Mizoguchi] - El Rio y la Muerte [Bunuel] - Rear Window [Hitchcock]. Niente premi! 

2. Alla mostra (cortometraggi) nel 1963 col mio primo film Machorka-Muff (62): niente premio. 

3. Alla Mostra nel '66 con Nichtversöhnt (Non Riconciliati, 1965). Proiezione pagata da Godard! 

4. Alla Mostra con Cronaca di Anna Magdalena Bach! 

5. A Venezia per una Personale nel 1975 (voluta da Gambetti) di tutti i nostri film fino a Mosé ed Arone (incluso), 1974”. 

Non me ne ricordavo più. Ma leggo su un vecchio numero di “Cinema e Film” dedicato al loro capolavoro, “La cronaca di Anna Magdalena Bach” che già allora, nel giugno del 1968, Jean-Marie Straub aveva risposto all’invito del direttore del Festival di Berlino, un messaggio dello stesso tono. Vendicativo-rivoluzionario-anticapitalistico. 

“Caro Doktor Bauer,

grazie per il suo invito, ma non verrò a Berlino, 

- Perché non ho alcuna voglia di presentarmi a un tribunale che qui stesso tre anni fa condannò a morte (a porte chiuse) il mio film precedente “Non riconciliati o solo violenza aiuta dove violenza regna” 

- E perché non mi piacciono i cani poliziotto né gli ispettori di polizia di polizia (anche se in borghese) e neppure le puttane (la maggior parte delle volte, ahimé, pubbliciste), parassiti e protettori (che brulicano attorno a festival del genere) di un’industria che fa prova di sempre minore immaginazione (anche soltanto capitalistica) e di sempre maggiore cinismo, 

- E tuttavia mi rallegro (malgrado l’assurdità di qualsiasi competizione) che “Cronaca di Anna Magdalena Bach” venga mostrato nel quadro del festival. Per i berlinesi, che possono così vederlo su un grande schermo. E perché credo che questo film sia(anche) una protesta, perfino uno sciopero contro la legge di aiuto di Bonn al cinema e le leggi d’eccezione, e un appello a strutture sociali ed economiche che rendano ogni film accessibile a ognuno”.

·         E' morto il giornalista Gianni Bisiach.

(ANSA il 20 Novembre 2022) - E' morto questa mattina all'alba a Roma, all'età di 95 anni, Gianni Bisiach, giornalista, scrittore, autore di importanti inchieste e speciali di storia per la Rai, in particolare per Tv7 e per il Tg1 per cui ha curato per anni la rubrica di grande successo Un minuto di storia. Bisiach era ricoverato da tempo in una Rsa. A confermare la notizia, interpellato dall'ANSA, è l'avvocato Giorgio Assumma, suo amico di lunga data. Il giornalista sarà seppellito a Gorizia, dove era nato il 7 maggio 1927.

Giornalismo in lutto: a 95 anni muore Gianni Bisiach. «Ero legato a lui da sincera amicizia in un rapporto personale al quale devo molto»: così il ministro della Cultura Sangiuliano. Redazione online D'Alò su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Novembre 2022.

E’morto questa mattina all’alba a Roma, all’età di 95 anni, Gianni Bisiach, giornalista,scrittore, autore di importanti inchieste e speciali di storia per la Rai, in particolare per Tv7 e per il Tg1 per cui ha curato per anni la rubrica di grande successo Un minuto di storia.

Bisiach era ricoverato da tempo in una Rsa. A confermare la notizia è l’avvocato Giorgio Assumma, suo amico di lunga data. Il giornalista sarà seppellito a Gorizia, dove era nato il 7 maggio 1927.

“Sono profondamente rattristato per la scomparsa di Gianni Bisiach, uno dei protagonisti della storia del giornalismo italiano del secondo Novecento che ha dato molto alla RAI e più in generale alla televisione nazionale. Ero legato a lui da sincera amicizia in un rapporto personale al quale devo molto. Esprimo sincero cordoglio a nome mio e del governo per questo grave lutto che colpisce il mondo della cultura”. Così il Ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, dopo aver appreso dalle agenzie della morte di Gianni Bisiach.

E' morto il giornalista e scrittore Gianni Bisiach. Antonio Dipollina su La Repubblica il 20 Novembre 2022.

Pioniere della divulgazione storica in televisione, aveva 95 anni

Un pezzo di storia della televisione italiana, lo dicono tutti ed è incontestabile. Ma è difficile per Gianni Bisiach non individuare anche e soprattutto nella radio il mezzo espressivo più a contatto con il pubblico e in un periodo cruciale, dal 1980 al 1992: ogni mattina con Radio Anch'io, monumentale appuntamento fisso del mattino che era al tempo stesso approfondimento, notizie, opinioni, diretta sul mondo intero, pubblico che partecipava, mentre le cose accadevano e si potevano e dovevano raccontare. Programma che resiste oggi, come c'è ancora il suo Tv7 televisivo, e anche qui siano nel campo del racconto tra cronaca e storia in diretta, producendo sintesi spesso assai efficaci.

Bisiach se n'è andato a Roma all'età di 95 anni: la dedizione alla vita lavorativa, sessant'anni di carriera nei decenni decisivi della storia contemporanea, era talmente insistita da avvolgere la sua vita privata e personale in una sorta di mistero, non ne parlò mai, ne sanno solo gli amici intimi: per il pubblico, quello di un'epoca - dai '60 in avanti - nei quali il monopolio Rai dell'informazione e la consistenza dell'audience, che nessuno chiamava ancora così, erano tali da rendere i protagonisti narratori della situazione degli autentici storici live, nel formarsi degli eventi, nella creazione di miti storico-politici e personaggi da leggenda: nella possibilità, riservata ai migliori, di avvicinarli e renderne le testimonianze. Grandissima presa sul pubblico, equilibrio nel racconto e popolarità assoluta: Bisiach era goriziano, era stato medico - anche a contatto dell'altrettanto mitico Franco Basaglia nel team di lavoro - due lauree, in medicina e chirurgia: e una passione fin lì inespressa per la divulgazione e il racconto della realtà, purché fosse quella costituita dai passaggi fondamentali di una storia, quella del secondo Novecento, in frenetica evoluzione e decisiva per un futuro aperto alla speranza e alla crescita collettiva.

L'approdo in Rai lo trova subito a suo agio, quindi: anche nel cercare e trovare subito uno stile che era quello necessario. L'essenziale sempre, l'importante sempre. Nel 1962 realizza con il giudice Cesare Terranova, poi ucciso dalle cosche, una poderosa inchiesta tv, Rapporto da Corleone, punto più alto per l'epoca del racconto e descrizione del fenomeno mafioso. Di inchieste, documentari, speciali per tv e radio ne collezionerà nel tempo diverse migliaia. Negli ultimi anni furono quattromila le pillole chiamate Un minuto di storia, in onda quotidianamente e che rievocavano in sintesi estrema, ne era un maestro, un evento accaduto nel giorno della messa in onda.

Ma la sua prospettiva fu soprattutto internazionale. I due Kennedy, anno 1969, è uno speciale in due parti che lo porta a conoscere Bob e che verrà usato nelle scuole di giornalismo, non solo italiane, come esempio da seguire. Se i grandi del mondo, incontestabilmente, furono anche i Beatles, nessun problema: Bisiach va e li incontra, raccontando di un colloquio non proprio esaltante, complice una giornata inglese di pioggia fittissima e quasi malinconie diffuse. Ma il senso era quello, i grandi - da Hailé Selassié allo Scià di Persia - da incontrare e raccontare come protagonisti massimi della famosa storia da rendere in diretta a milioni di spettatori. Nel 1960 prepara il lavoro sulle Olimpiadi di Roma e va a incontrare Jesse Owens, eroe nero di Berlino 1936 con il suo schiaffo lungo cento metri in faccia ad Adolf Hitler. E si potrebbe continuare a lungo.

Ovvio, rievocare oggi Bisiach è questione per chi c'era e misurerà ulteriormente lo scorrere del tempo con la scomparsa di un protagonista d'epoca che è facile ricordare se si ha l'età giusta: ma non è solo una questione generazionale, anche qui è storia nel suo compiersi. Le parole di maniera usate ieri da varie istituzioni, in primis il ministero della Cultura, non riusciranno mai, e nessuna rievocazione lo potrà, rendere l'autentica rilevanza e caratura di un modo unico e assoluto in vigore allora. Bisiach se ne va pochi mesi dopo Piero Angela, l'inverno dei patriarchi di quella che fu l'informazione più rilevante per la nostra storia si compie, implacabile.

·         E’ morto il cantante anni Nico Fidenco. 

Marco Giusti per Dagospia il 19 novembre 2022.

 Se ne va a 89 anni Nico Fidenco, autore di incredibile successi anni ’60 come “Legata a un granello di sabbia” (un milione e mezzo di copie nel 1961…) o “Come nasce un amore” o “Se mi perderai” o “Con te sulla spiaggia”, voce storica della RCA e delle nostri meravigliose estati al mare con i 45 giri. Sempre in competizione con Edoardo Vianello, Little Tony, Gianni Meccia e gli altri cantanti big del tempo. 

Ma anche, più segretamente, prolificissimo compositore di musica da film che non si è fatto mancare proprio niente, dai Franco e Ciccio Movies come “2 samurai per cento gheishe”, per il quale incide il “Judo Twist”, agli spaghetti western, “Per il gusto di uccidere” di Tonino Valerii, dagli eurospy più folli, “2+5: Missione Ypotron” di Giorgio Stegani, al biopic su Che Guevara, “El Che Guevara” con Francisco Rabal di Paolo Heusch prodotto da Ferlaino, dalle commedie sexy italo-spagnole, “La strana legge del dottor Menga” di Ferdinando Merino con Sylva Koscina e Ira von Furstenberg, ai film di supereroi “Crash! Che botte… strippo, strappo, stroppio” di Bitto Albertini.

Per non parlare di capolavori di Lucio Fulci come “La pretora” o della serie “Emanuelle nera” di Joe D’Amato con Laura Gemser, “Zombi Holocaust” di Marino Girolami e “Porno Holocausr” di D’Amato. La sua è già una filmografia impressionante, quando grazie a Joe D’Amato, diventa col nome di Dominak, il musicista di tutti i primi film hard o mezzo hard (e mezzo soft) italiani. E lì parte un altro elenco sterminato di titoli, “Super climax”, “Stretta e bagnata”, "Labbra bagnate”, fino a tornare al cinema, diciamo, normale, con i sotto Pierini. 

Nato a Roma nel 1933 come Domenico Colarossi, si trasferisce con la famiglia all’Asmara nel 1939, dove rimane fino al 1949. Quando torna a Roma, alla fine degli anni ’50 inizia a occuparsi di cinema e di musica, quasi indistintamente. Lo troviamo assistente alla regia (col suo nome di Colarossi) nel 1955 di “Il padrone sono me”di Franco Brusati , per poi spaziare nel cinema da attore a compositore a cantante. Per “I delfini” di Francesco Maselli incide sia in italiano che in inglese “What a Sky” di Giovanni Fusco, visto che i diritti per una canzone di Paul Anka erano troppo cari.

 E compare come cantante e attore in “Pesci d’oro, bikini d’argento”, “Un marito in condominio” di Angelo Dorigo, “I maniaci” di Lucio Fulci, “Appuntamento a Dallas” di Piero Regnoli, ma anche nel più ricercato “Trio” di Gianfranco Mingozzi. Incide le versioni italiani di canzoni tratte da film celebri. Ricordo che avevo il 45 giri di “Exodus” di Otto Preminger, ma incide anche in italiano “Moon River”, la canzone di “Colazione da Tiffany”. E’ una delle vie, italiane, al cinema americano.

Ma si legge sul Corriere della Sera (agosto 1962) di un suo esordio come attore a fianco di Nancy Sinatra nel film di guerra "Trenta baionette contro la morte" di Gino Mangini, che non verrà mai girato. La prima colonna sonora originale che firma dovrebbe essere quella di “Due samurai per cento geishe" di Giorgio Simonelli con Franchi e Ingrassia, ma poco dopo appaiono anche quelle per “Ringo il texano”, “Appuntamento a Dallas”, “Agente Logan-Missione Ypotron”. Nei primi anni ’80 si divide tra le musiche per il cinema hard italiane e le colonne sonore dei cartoni animato giapponese, “Don Chuck castoro” (vende quattrocentomila copie!), “Bem”. Fonda anche un nuovo gruppo, I Super 4, con vecchi colleghi ancora in forma come Riccardo Del Turco, Jimmy Fontana e Gianni Meccia, che spaziano dal 1984 al 1994. Una decina d’anni.

È morto Nico Fidenco, il cantante di «Legata a un granello di sabbia». Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

Il cantautore e compositore Nico Fidenco, noto per la canzone «Legata a un granello di sabbia», è morto a Roma. Aveva 89 anni

Autore e interprete dalle molte vite musicali, è morto a Roma, all’età di 89 anni, Nico Fidenco, alla cui voce è associato il primo «tormentone» estivo italiano, «Legata a un granello di sabbia», canzone divenuta colonna sonora dell’estate 1961, gettonatissima ai juxe-box, che nell’Italia del «boom» vende oltre un milione di copie.

Nato a Roma il 24 gennaio 1933 da genitori abruzzesi, Domenico Colarossi, questo il vero nome del musicista e cantautore, cresce tra l’Asmara, in Eritrea, e la capitale italiana. Chitarrista autodidatta, nel 1960 entra come autore, presentato dal paroliere e produttore Franco Migliacci, nella scuderia della Rca Italiana a Roma. Caso vuole che in quel momento il regista Francesco Maselli sia alla ricerca di una canzone da inserire nella colonna sonora del suo film I Delfini (1960). Ha dovuto rinunciare a «Crazy Love» di Paul Anka per via delle royalties, così il direttore artistico di Rca Enzo Micocci gli propone un brano inedito composto da Giovanni Fusco, «What a Sky». La produzione, dopo aver «provinato» Little Tony e il figlio dello stesso Fusco, Kiko, sceglie Fidenco. La Rca non prevede l’uscita su 45 giri, ma il successo del film, presentato a Venezia, e il pressing del pubblico su negozianti e grossisti, spingono l’etichetta a riportare di corsa il cantante in sala d’incisione.

Il brano balza in testa alle classifiche negli ultimi giorni del 1960, seguito pochi mesi dopo, da «Legata a un granello di sabbia», hit che nel giugno 1961 si installa in vetta alla classifica e ci resta per 14 settimane. L’anno è lo stesso di un altro brano di Fidenco, realizzato per lanciare Il mondo di Suzie Wong, di Richard Quine. È così che il nome del cantante si lega a doppio filo con le «soundtrack», le colonne sonore. Arriveranno poi infatti «Just That Same Old Line» (La ragazza con la valigia), «Trust Me» (L’avventura), «Exodus» (dal film omonimo di Otto Preminger), «Moon River» (Colazione da Tiffany). E altri temi ancora come: «La donna nel mondo», «Cleopatra», «Hud il selvaggio», «L’uomo che non sapeva amare», «Celestina», «Lord Jim», «Jean Harlow la donna che non sapeva amare», «E venne la notte»».

Tutto questo nell’arco del decennio che va dal 1961 al 1971, durante cui Fidenco scrive anche alcune colonne sonore, da quella per lo «spaghetti western» All’ombra di una colt fino alla saga erotica di Emmanuelle nera (1975-76). Dal 1965 la sua popolarità comincia a sfumare, malgrado la partecipazione — l’unica — al Festival di Sanremo del 1967, un’edizione ricordata soprattutto per il suicidio di Luigi Tenco. Fidenco si presenta in coppia con la 21enne Cher, ma la loro «Ma piano (per non svegliarti)» non riesce ad arrivare in finale.

Gli anni Settanta passano tra concerti all’estero, la scrittura di nuove colonne sonore e il ruolo di sindacalista della musica (con Teddy Reno Fidenco ha infatti dato vita al «Sindacato dei cantanti italiani»). Torna in auge all’inizio degli Ottanta con una serie di sigle incise per i cartoon giapponesi, da «Fantasupermega» a «Don Chuck il castoro» e «Sam il ragazzo del West». Nel 1984 fonda con Gianni Meccia, Jimmy Fontana e Riccardo Del Turco «I Super 4», band con cui pubblica tre album. Nel 2007 l’ultima esibizione dal vivo, al Lucca Comics&Games, dove canta le sigle dei cartoon che lo hanno reso famoso anche tra i ragazzi.

Morto Nico Fidenco, il papà del primo tormentone estivo. Il Tempo il 19 novembre 2022

È morto a 89 anni Nico Fidenco, cantautore e compositore, di grande successo negli anni ’60 e poi in grado di riciclarsi negli anni ’80 con famose sigle dei cartoni animati. Domenico Colarossi, questo il suo vero nome, era nato a Roma nel 1933, e a 6 anni con la famiglia si era trasferito ad Asmara, dove è rimasto per dieci anni, fino al 1949.

Nel 1960 l’inizio della carriera, introdotto dallo storico promoter Franco Migliacci alla RCA italiana, a Roma. Dopo il grande successo del film "I delfini" di Citto Maselli, con una canzone cantata da Fidenco (What a Sky), il cantante incise altri brani in inglese e in italiano tratti da colonne sonore di grandi film come: "Just That Same Old Line" dal film "La ragazza con la valigia" con Claudia Cardinale, Il mondo di Suzie Wong dal film omonimo con William Holden che raggiunge la prima posizione in classifica per cinque settimane nel 1961, "Exodus", dal film omonimo con Paul Newman, Mo89 annion River dal film "Colazione da Tiffany" con Audrey Hepburn, "L’uomo che non sapeva amare" dal film omonimo con George Peppard e "Una donna nel mondo" dal film "La donna nel mondo". E poi i grandi successi da classifica: "Con te sulla spiaggia" (seconda classificata a Un disco per l’estate 1964), "Se mi perderai", "Come nasce un amore", "A casa di Irene", "La voglia di ballare" (finalista a Un disco per l’estate 1965), "Goccia di Mare", "Non è vero", "Tutta la gente", ma soprattutto "Legata a un granello di sabbia" (1961), considerata il primo esempio di tormentone estivo italiano della storia, prima in classifica per 14 settimane e il primo 45 giri a superare in Italia il milione di copie vendute (ne raggiunse addirittura il milione e mezzo), tutti incisi per l’etichetta RCA Italiana. Poi, anche per il carattere schivo, la fama di Fidenco si dirada, con l’unica partecipazione al Festival di Sanremo nel 1967, edizione però segnata dal tragico suicidio di Tenco, in coppia con una giovane Cher.

Negli anni successivi si dedica soprattutto alle colonne sonore, con una varietà incredibile di generi: dallo spaghetti-western (la prima colonna sonora fu per "All’ombra di una colt") ai film della cosiddetta sexploitation come "La strana legge del dott. Menga" (1971), "La ragazzina" (1975) e la serie di culto "Emanuelle nera", frequentando anche l’horror per il film "Zombi Holocaust" del 1980 e il crossover "Porno Holocaust" di Joe D’Amato. E poi una nuova stagione di successo, stavolta grazie ai più piccoli: le numerose sigle di cartoni animati giapponesi diventano un culti dalla fine degli anni ’70, e molte sono firmate proprio Fidenco. A partire da quella di "Don Chuck Castoro" infatti riuscì a vendere oltre quattrocentomila copie, riportandolo in classifica. Altre sigle di successo furono "Hela Supergirl" che vendette 180 000 copie, "Cyborg", i nove supermagnifici, "Don Chuck story", "Sam il ragazzo del west", "Godzilla" e in particolare "Bem", forte anch’essa di oltre duecentomila copie vendute. Il brano era la sigla della prima serie dell’anime Bem, primo vero cartone animato dell’orrore. Anche il brano di Fidenco non si discosta molto dalle atmosfere cupe della serie, sottolineandole con un coro di bambini, effetti sonori inquietanti e un testo giudicato all’epoca troppo forte per un pubblico infantile. Ha inciso anche due sigle per telefilm come "Boys and Girls", per la serie omonima e "Arnold" per la serie "Harlem contro Manhattan". In questo decennio torna anche a incidere album pop come "La mia mania" del 1981 e "Direzione vietata" del 1989 e nel 1992 una raccolta di successi riarrangiati dal titolo "Ieri e oggi". Dal 1984 al 1994 con i colleghi Riccardo Del Turco, Jimmy Fontana e Gianni Meccia diede vita a "I Super 4", quartetto con il quale ripropose successi tratti dai rispettivi repertori degli anni Sessanta riarrangiati in chiave moderna, con cui pubblicò tre album di discreto successo commerciale. Sulla scia del revival degli anni 2000 per i cartoon giapponesi (e le loro colonne sonore, composte e eseguite in Italia senza riprendere quelle originali), l’etichetta Siglandia ha stampato nel 2019 una raccolta di tutte le sigle dei cartoni animati di Fidenco in edizione rimasterizzata, per sopperire all’assenza di quest’ultime dal mercato discografico ufficiale, anche digitale.

Morto Nico Fidenco, il cantante di "Legata ad un granello di sabbia". È scomparso all'età di 89 annni l'inimenticabile cantautore Nico Fidenco, che con la sua "Legata ad un granello di sabbia", diede vita al primo tormentone estivo italiano della storia, che rimase nella top ten della classifica per 14 settimane. Roberta Damiata il 19 Novembre 2022 su Il Giornale.

È morto venerdì notte a Roma, all’età di 89 anni, il cantautore Domenico Colarossi ma conosciuto da tutti come Nico Fidenco. Nato a Roma il 24 gennaio 1933, cantautore brillante fin dagli esordi, Fidenco raggiunse il successo negli anni ‘60. La sua Legata a un granello di sabbia del 1961, è considerata il primo esempio di tormentone estivo italiano della storia, con 14 settimane di permanenza al top della hit parade e fu il primo 45 giri a superare in Italia il milione di copie vendute. Sono comunque tanti i brani indimenticabili legati al cantautore.

Fidenco si era trasferito all'età di sei anni nel 1939, con la famiglia ad Asmara, dove rimase fino al 1949. Nel 1960 era già nella scuderia della casa discografica Rca Italia a Roma, dove era stato presentato da Franco Migliacci, come autore. Ma il direttore artistico Enzo Micocci capì subito la potenzialità della sua voce, così quando il regista Francesco Maselli cercava un brano per il suo film I Delfini, Micocci, gli propose il brano inedito, What a Sky, composto dal maestro Giovanni Fusco, ma decise di farlo incidere oltre che ad un giovane Little Tony, anche da Fidenco. È fu proprio lui ad essere preferito dalla produzione.

La casa discografica inizialmente non prevedeva la pubblicazione del pezzo su 45 giri, ma le pressioni da parte dei negozianti e dei grossisti, dovute alle richieste del pubblico visto il successo del film, spinsero l'etichetta non solo a pubblicare la versione inglese, ma a riportare Fidenco in sala d'incisione per registrare sulla stessa base orchestrale la versione in italiano Su nel cielo, da inserire sul lato B del 45 giri, che dal 31 dicembre 1960, rimase primo in classifica per quattro settimane.

Non fu però l'unico brano che incise in inglese tratto da colonne sonore di grandi film. A quello si aggiunsero anche, Just that same old line dal film La ragazza con la valigia con Claudia Cardinale, Il mondo di Suzie Wong dal film omonimo con William Holden, che nel 1961 raggiunge la prima posizione in classifica per cinque settimane. E ancora Exodus, dal film omonimo con Paul Newman, Moon River dal film Colazione da Tiffany con Audrey Hepburn, L'uomo che non sapeva amare dal film omonimo con George Peppard e Una donna nel mondo dal film La donna nel mondo.

I suoi successi non si fermarono comunque alle colonne sonore. Negli anni '60 le sue canzoni furono un successo dopo l'altro: Con te sulla spiaggia, seconda classificata a 'Un disco per l'estate' nel 1964, Se mi perderai, Come nasce un amore, A casa di Irene, La voglia di ballare, finalista a 'Un disco per l'estate' 1965, Goccia di Mare, Non è vero, Tutta la gente, ma soprattutto Legata a un granello di sabbia.

Nel 1966 lasciò la Rca per passare alla casa discografica Parade ma, da qui in poi la sua popolarità subì una flessione, nonostante una partecipazione, la sua unica, al Festival di Sanremo nell'edizione del 1967 ricordata soprattutto per la morte di Luigi Tenco. Fidenco, che presentava il brano firmato da Gianni Meccia Ma piano (per non svegliarti) in coppia con Cher, non riuscì a portare il brano in finale. Dopo aver ridotto le incisioni pop, tornò a occuparsi nuovamente di colonne sonore, componendo per il cosiddetto Cinema di genere per tutti gli anni settanta e ottanta, spaziando dallo spaghetti-western ai film della cosiddetta sexploitation come La strana legge del dott. Menga del 1971, la serie cult Emanuelle o l'horror Zombi Holocaust del 1980. L'unico album pop inciso in questo decennio fu La mia estate con Cinzia, pubblicato nel 1970.

Diventò l'idolo dei bambini

Sul finire degli anni settanta e i primi anni ottanta ritrovò un'inaspettata popolarità, grazie al pubblico dei più piccoli, per le numerose sigle incise per gli anime giapponesi, vero e proprio fenomeno di costume televisivo di quel periodo. Con Don Chuck Castoro riuscì a vendere oltre quattrocentomila copie, riportandolo in classifica. In questo decennio tornò anche a incidere album pop come La mia mania del 1981 e Direzione vietata del 1989. Nel 1992 pubblicò una raccolta di successi riarrangiati dal titolo Ieri e oggi.

Dal 1984 al 1994 con i colleghi Riccardo Del Turco, Jimmy Fontana e Gianni Meccia formò il gruppo de I Super 4, quartetto con il quale ripropose successi tratti dai rispettivi repertori degli anni sessanta riarrangiati in chiave moderna. Con loro pubblicò tre album che ebbero un discreto successo. Nel 2007 si esibì dal vivo al Lucca Comics & Games, cantando dal vivo alcune delle colonne sonore e delle sigle dei cartoni animati, condiderate dei veri cult. Sulla scia di questo revival, l'etichetta Siglandia ha stampato nel 2019 una raccolta di tutte le sigle dei cartoni animati di Fidenco in edizione rimasterizzata e limitata.

Da liberoquotidiano.it il 19 novembre 2022.

È morto questa notte a Roma, all'età di 89 anni, il cantautore e compositore Nico Fidenco. La notizia è stata confermata all'agenzia Adnkronos dalla moglie Annamaria e dalla figlia Guendalina. Fidenco, all'anagrafe Domenico Colarossi, era nato a Roma il 24 gennaio 1933 e raggiunse il successo negli anni '60, con brani tratti da colonne sonore, primo fra tutti What a Sky (in italiano 'Su nel cielo'), dal film di Francesco Maselli I delfini, ma soprattutto con la canzone Legata a un granello di sabbia, considerata il primo tormentone estivo della storia della musica italiana. 

Nel 1960 era già nella scuderia della Rca Italiana a Roma, dove era stato presentato da Franco Migliacci, soprattutto come autore. Ma il direttore artistico Enzo Micocci giudicò interessante anche la sua voce. E infatti, quando Maselli cercava un brano per il suo film I Delfini, Micocci, gli propose un brano inedito, What a Sky, composto dal maestro Giovanni Fusco. Il provino fu inciso da un giovane Little Tony, dal figlio di Fusco e da Fidenco.

Ma fu proprio quest'ultimo a essere preferito dalla produzione. La casa discografica inizialmente non prevedeva la pubblicazione del pezzo su 45 giri, ma le pressioni da parte dei negozianti e dei grossisti, dovute alle richieste del pubblico (il film fu accolto molto favorevolmente nelle sale), spinsero l'etichetta non solo a pubblicare la versione inglese, ma a riportare di corsa Fidenco in sala d'incisione per registrare sulla stessa base orchestrale la versione in italiano 'Su nel cielo' da mettere sul lato B del 45 giri che dal 31 dicembre 1960 rimase primo in classifica per quattro settimane.

Dopo What a sky Fidenco incise altri brani in inglese e in italiano tratti da colonne sonore di grandi film di successo come: Just that same old line dal film La ragazza con la valigia con Claudia Cardinale, Il mondo di Suzie Wong dal film omonimo con William Holden che raggiunge la prima posizione in classifica per cinque settimane nel 1961, Exodus, dal film omonimo con Paul Newman, Moon River dal film Colazione da Tiffany con Audrey Hepburn, L'uomo che non sapeva amare dal film omonimo con George Peppard e Una donna nel mondo dal film La donna nel mondo. 

Ma i suoi successi non si fermarono alle colonne sonore. A metà degli anni '60, Fidenco inanellò diversi grandi successi in classifica: Con te sulla spiaggia (seconda classificata a Un disco per l'estate 1964), Se mi perderai, Come nasce un amore, A casa di Irene, La voglia di ballare (finalista a Un disco per l'estate 1965), Goccia di Mare, Non è vero, Tutta la gente, ma soprattutto Legata a un granello di sabbia (1961), che rimase prima in classifica per 14 settimane e fu il primo 45 giri a superare in Italia il milione di copie vendute (ne raggiunse addirittura il milione e mezzo).

Nel 1966 lasciò la Rca per passare alla Parade ma, da qui in poi la sua popolarità subì una flessione, nonostante una partecipazione, la sua unica, al Festival di Sanremo nell'edizione del 1967 ricordata soprattutto per la morte di Luigi Tenco. Fidenco, che presentava il brano firmato da Gianni Meccia Ma piano (per non svegliarti) in coppia con la cantante statunitense Cher, non riuscì a portare il brano in finale. 

Dopo aver ridotto le proprie incisioni pop, Fidenco tornò a occuparsi nuovamente di colonne sonore, componendo per il cosiddetto Cinema di genere per tutti gli anni settanta e ottanta, spaziando dallo spaghetti-western (la prima colonna sonora fu per All'ombra di una colt) ai film della cosiddetta sexploitation come La strana legge del dott. Menga (1971), La ragazzina (1975) e la serie di culto Emanuelle, frequentando anche l'horror per il film Zombi Holocaust del 1980 e il crossover Porno Holocaust di Joe D'Amato.  Sul finire degli anni settanta e i primi anni ottanta ritrovò una inaspettata popolarità presso il pubblico dei più piccoli, anche in termini di vendite, grazie alle numerose sigle incise per gli anime giapponesi, vero e proprio fenomeno di costume televisivo di quel periodo.

La sigla Don Chuck Castoro infatti riuscì a vendere oltre quattrocentomila copie, riportandolo in classifica. In questo decennio tornò anche a incidere album pop come La mia mania del 1981 e Direzione vietata del 1989. Dal 1984 al 1994 con i colleghi Riccardo Del Turco, Jimmy Fontana e Gianni Meccia diede vita a I Super 4, quartetto con il quale ripropose successi tratti dai rispettivi repertori degli anni sessanta riarrangiati in chiave moderna, con cui pubblicò tre album di discreto successo commerciale.

·         E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.

Nonna Rosetta di Casa Surace è morta: l'annuncio del gruppo e i messaggi sui social. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 Novembre 2022.

Rosetta Rinaldi era la vera nonna di Beppe Polito, uno dei componenti di Casa Surace. A dare la notizia su Instagram è stato l’account del gruppo: «Addio nonna. Ti chiamiamo nonna, perché per tutti noi sei stata veramente una nonna» 

È morta nonna Rosetta di Casa Surace , aveva 89 anni. A dare la notizia su Instagram è stato l’account di Casa Surace, che ha condiviso uno scatto dell’amata nonnina: «Addio nonna. Ti chiamiamo nonna, perché per tutti noi sei stata veramente una nonna, oltre che la nostra migliore amica. E oggi ci fa sorridere tra le lacrime chi ci fa le condoglianze, come fossimo tutti tuoi nipoti». La signora Rosetta Rinaldi era la vera nonna di uno dei componenti del gruppo Casa Surace, Beppe Polito. 

Nonna Rosetta era ormai conosciutissima, sia sul web ma anche sul piccolo schermo, grazie alle pubblicità in cui appariva come testimonial di alcuni brand. Era nata a San Giorgio a Cremano, ma da tempo viveva a Sala Consilina, in provincia di Salerno, dove la factory di produzione video (e non solo) Casa Surace ha la sede.

«Siamo sicuri che ora sei da qualche parte a preparare un ragù che pippitierà per tutte le ore che vorrai, e ti salutiamo con le ultime parole che hai detto per la nostra grande famiglia: “Stattaccort”. Ci stiamo accorti, tranquilla Addio nonna Rosetta». In pochi minuti migliaia di persone hanno commentato, esprimendo tristezza e condoglianze per la scomparsa di nonna Rosetta, che in breve tempo era diventata una dei personaggi più amati del gruppo diventato famoso per i video sui social.

Il cordoglio sul web e sui social

Sul web e sui social in poche ore i follower di Casa Surace hanno inondato il post di commenti di cordoglio: oltre 25mila. Anche Alessio Strazzullo, uno dei fondatori di Casa Surace, ha pubblicato una foto in bianco e nero insieme a Rosetta, accompagnata da queste parole: «In questa assurda, pazza, imprevedibile vita di Casa Surace tu sei stata la scoperta più assurda, pazza e imprevedibile. Di sicuro la più vera. Quante risate che ci hai fatto fa’ signò, non puoi capire». Ma a ricordare nonna Rosetta sono stati anche altri personaggi diventati celebri sui social come the Jackal («Un abbraccio da tutti noi»), Clio make up («che tristezza, ciao nonna Rosetta»), il Milanese Imbruttito. E ancora Francesca Michielin, Francesca Barra, I Sansoni, Aurora Leone, Un terrone a Milano. Insieme a loro, anche migliaia di persone che hanno imparato a conoscere nonna Rosetta grazie ai lavori di Casa Surace: «Era anche un po’ la nostra nonna, è come se l’avessimo persa anche noi. Mi dispiace tantissimo. Grazie per tutte le risate e consigli che mi hai regalato nonna Rosetta!». E ancora «Non ero pronta a questo. Sono tremendamente dispiaciuta! La nonna di tutti! Un abbraccio a tutti voi», «Buon viaggio nonna Rosetta».

Casa Surace

I componenti storici del gruppo di videomaker di Casa Surace sono Daniele Pugliese, Simone Petrella, Alessio Strazzullo, Andrea Di Maria, Bruno Galasso, Riccardo Betteghella, Luca Andresano, ma fin dai primi video la signora Rosetta era entrata nei cuori dei fan ed era rimasta, come un personaggio fisso. Casa Surace è una factory e casa di produzione nata del 2015 da un gruppo di amici e coinquilini. Di cosa parlano? Le radici e i valori del Sud Italia, insieme agli stereotipi da smontare, la vita dei piccoli paesi, il rapporto tra studenti fuorisede, gli usi e i costumi culinari e non. Il tutto raccontato tramite sketch e video ironici.

·         E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.

(ANSA il 18 novembre 2022) - Lutto nel mondo dell'imprenditoria vicentina e mondiale per la scomparsa del "re delle giostre" Alberto Zamperla, 71 anni, che si è spento ieri sera in ospedale a causa di una breve malattia, che non gli ha dato scampo. Zamperla era a capo dell'omonima industria di Altavilla Vicentina (Vicenza), fondata dal padre Antonio, che costruisce giostre e attrazioni in tutto il mondo. Proprio ieri la società veneta aveva annunciato con una nota la realizzazione del coaster più veloce del Canada, una montagna russa che raggiunge i 72 km/h, costruita per Playland at the Pne", parco di divertimenti di Vancouver, che sarà pronta nel 2024.

I funerali di Alberto Zamperla si terranno nei prossimi giorni a Vicenza. La scomparsa di Alberto Zamperla si è verificata in maniera repentina e improvvisa anche per la famiglia dell'imprenditore. La notizia ha infatti raggiunto i figli, Alessandro e Antonio, che rappresentano la terza generazione della Zamperla Spa, mentre si trovavano ad Orlando, in Florida (Usa) per una fiera del settore dove ieri, contemporaneamente all'Italia, sono stati annunciati i nuovi progetti dell'industria vicentina.

In queste ore entrambi stanno rientrando in Italia per ricongiungersi con gli altri familiari, tra cui la madre. Da poco Antonio Zamperla, 40 anni, è stato nominato Ceo e Chief Innovation Officer del gruppo. La fiera di Orlando a cui sono intervenuti i fratelli Zamperla in questi giorni, IAAPA Expo, aveva inserito di recente gli Zamperla - Antonio senior, capostipite e storico fondatore dell'industria e Alberto - nella Hall of Fame del settore, che vede nomi eccellenti come Walt Disney e George Ferris, l'inventore della ruota panoramica.

·         E’ morta la scienziata Alma Dal Co.

Si è tuffata nel mare che amava e non è più risalita. Il dramma di Alma Dal Co: a 33 anni perde la vita durante immersione a Pantelleria. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Novembre 2022

Non c’era nulla che amasse più del mare. Alma Dal Co, scienziata veneziana di 33 anni, esperta di biologia molecolare e genetica, è morta durante un’immersione nel mare di Pantelleria. Una tragedia enorme. Si era tuffata nella zona di Scauri e non è più riemersa. Per chiarire le cause della morte la Procura di Marsala ha disposto l’autopsia sul corpo della vittima.

Sub esperta, Alma trascorreva molto tempo nell’isola siciliana. La sua famiglia aveva una casa lì, e lei poteva fare le sue amate immersioni e andare a pesca subacquea. Secondo quanto ricostruito dal Corriere della Sera, il 15 novembre era uscita in barca per andare a pesca con il fucile nella zona di Scauri insieme a un amico, un fiorentino trapiantato a Pantelleria. I due si sono tuffati sotto costa per esplorare gli scogli in apnea. Sono scesi insieme dalla barca, poi si sono separati. Quando l’amico è risalito in barca, lei non c’era. L’ha cercata ovunque e l’ha trovata distesa sul fondale. È stato lui a riportarla in superficie: ha provato a rianimarla ma per lei non c’era più nulla da fare, era già morta.

Alma era nipote di Francesco Dal Co, storico docente e già direttore del settore Architettura della Biennale di Venezia. La scienziata 33enne dirigeva il DelcoLab a Losanna in Svizzera, dove era assistente universitaria, un laboratorio specializzato nei sistemi biologici. “Se non sono in ufficio, sono al pianoforte. Se non sono al pianoforte, sono sott’acqua a pescare in apnea”, scriveva sul sito del laboratorio.

“Sono un fisico in microbi, ecologia, comportamento collettivo – scriveva la 33enne – Sono uno scienziato con interessi scientifici orizzontali, piuttosto che verticali. Sono generalmente interessato alla dinamica di sistemi biologici complessi, come organismi multicellulari e comunità microbiche. La mia domanda principale è come la funzionalità di questi sistemi derivi dalle interazioni tra i loro membri. Il mio lavoro combina esperimenti con la modellazione”.

Alma si era laureata in Fisica all’Università di Padova nel 2011 e portava avanti al sua passione per il pianoforte. Si era anche diplomata al Conservatorio di Venezia. Specializzatasi a Torino, aveva ottenuto un Dottorato in Biologia dei sistemi al Politecnico federale di Zurigo, e un “Postdoctoral Fellow” ad Harvard. Il cordoglio è grande in tutta la comunità scientifica e universitaria.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

·         Addio all’industriale Vallarino Gancia.

Da corriere.it il 13 novembre 2022.

Addio al re degli spumanti. È morto a 90 anni Vittorio Vallarino Gancia, l'erede di Carlo Gancia, suo bisnonno, fondatore a metà dell''800 dell'omonima azienda vitivinicola e inventore dello spumante.  

Vallarino Gancia fu protagonista nel 1975 di un sequestro lampo da parte delle Brigate Rosse che per la sua liberazione chiesero un miliardo di lire. Gancia fu liberato il giorno dopo nel corso di un'operazione dei carabinieri in cui morirono l'appuntato dell'Arma, Giovanni D'Alfonso e la brigatista Margherita Cagol, moglie di Renato Curcio. Vittorio Vallarino Gancia per decenni ha guidato l'azienda di famiglia con sede ad Asti, in Piemonte. La data dei funerali non è ancora stata resa nota.

Lamberto Vallarino Gancia: «Una vita larga più che lunga, questo insegnava papà Vittorio». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 14 Novembre 2022.

L'imprenditore ricorda il padre morto a 90 anni: era il re degli spumanti

«Ripeteva sempre “l’importante era avere una vita larga più che lunga”. E con larga intendeva dire piena di esperienze. Ho seguito questa massima e lo ha fatto anche mio fratello Massimiliano. E continueremo a seguirla. Papà era solito dispensare pillole di saggezza di cui ancora oggi facciamo tesoro. È stato un grande maestro di vita». Lamberto Vallarino Gancia ricorda così il padre Vittorio, scomparso all’età di 90 anni. Il re dello spumante, così come è stato definito nel corso della carriera, si è spento nella notte tra sabato e domenica nella sua casa astigiana. Accanto a lui c’era la moglie Rosalba.

 «Mio padre ha avuto una vita piena di soddisfazioni e ci ha lasciato un bagaglio di ricordi e insegnamenti che sono la traccia del percorso professionale che sto portando avanti. Ci mancherà tantissimo», sottolinea Lamberto. Vittorio era un uomo colto, dalla personalità spessa spigolosa: «Aveva un carattere energico ed era molto determinato. A tratti con noi ragazzi era molto severo, ma con il tempo abbiamo capito che aveva ragione lui. Quel suo modo di fare è stato sempre di grande stimolo. Sapeva come spronare le persone per spingerle a dare sempre il meglio». 

Nato il 28 ottobre 1932 a Canelli, nell’Astigiano, Vittorio rappresentava la quarta generazione della dinastia Gancia a dirigere l’azienda fondata nel 1850 dal bisnonno Carlo. Dopo la laurea in Scienze politiche all’università di Torino, iniziò a lavorare nell’impresa di famiglia nel 1957, quando ebbe un primo incarico all’ufficio esportazione. Nel 1967 è stato nominato direttore generale della F.lli Gancia & C., mentre nel 1973 è arrivato a ricoprire la carica di amministratore delegato. Nel 1984 assunse il ruolo di presidente. Erede del padre e del nonno — che creò lo spumante con «metodo classico», adattando la tecnica francese dello champagne al moscato prodotto nelle vigne di Canelli —, Vittorio da industriale illuminato ha saputo dare forma e sostanza a diverse intuizioni. Nasce dal suo genio «Pinot di Pinot», uno spumante secco che ha conquistato i mercati stranieri e, agli occhi del mondo, è diventato un altro simbolo delle «bollicine» tricolori. 

L’obiettivo strategico di Vittorio è stata l’internazionalizzazione della casa vinicola, che con il passare del tempo si è accreditata non solo in Europa ma anche in Paesi come Cina e Stati Uniti. Visionario, capace di guardare al futuro, aveva la consapevolezza del valore della famiglia. Negli anni Novanta fu artefice di un format pubblicitario, in compagnia del figlio, in cui impersonava se stesso: «Mio bisnonno brindava con mio nonno, mio nonno brindava con mio padre, mio padre con me e io brindo con i miei figli e con tutti voi». «È stato il primo, altri poi lo hanno imitato», racconta il figlio.

Scorrendo la vita di Vittorio, impossibile non tornare al 1975. Al 4 giugno, quando venne rapito dalle Brigate Rosse, che chiedevano un riscatto di un miliardo di lire. L’imprenditore venne incarcerato nella Cascina Spiotta, vicino ad Acqui Terme, e liberato il giorno dopo. Quella mattina ci fu un conflitto a fuoco in cui persero la vita Mara Cagol (moglie di Renato Curcio) e il carabiniere Giovanni D’Alfonso. «Avevo 15 anni — ricorda Lamberto —. Furono momenti drammatici. Anche negli anni successivi continuammo ad avere paura. Papà ci raccontò tutto, lo affliggeva il fatto che un carabiniere era morto per salvare lui». La data dei funerali non è ancora stata resa nota.

Chi era Vittorio Vallarino Gancia, il re degli spumanti tra battute di caccia e il tifo per la Juve. Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 13 novembre 2022.

A Vittorio Vallarino Gancia, morto ieri a 90 anni, piaceva viaggiare per portare nel mondo il suo spumante. Organizzava battute di caccia per far divertire importatori e distributori. E alla fine firmava contratti per carichi delle bottiglie come quella che servì per il varo del mitico transatlantico Rex. Partiva da Canelli, uno dei paesi che «anche quando non ci sei resta ad aspettarti», come scrisse Cesare Pavese nella Luna e i falò, il romanzo in cui parla del vermouth Gancia. I Gancia sono stati così forti e moderni da finanziare Walt Disney e il suo Biancaneve e i sette nani. Vittorio, imprenditore tenace che rappresentava la quarta generazione della dinastia, puntò molto sull’export, Cina compresa. «Mio padre dette vita in particolare a due spumanti molto interessanti — ha raccontato il figlio Lamberto a Civiltà del bere —. Il primo era il Gran Spumante, diventato poi Gran Dessert e quindi Gran Reale, accessibile a tutti i palati; il secondo, nato negli anni Ottanta, il Pinot di Pinot, selezione dei tre vitigni Pinot (bianco, grigio e nero), che ha insegnato agli italiani a bere lo spumante come aperitivo».

Quando, nel giugno del 1975, venne rapito da un commando delle Brigate Rosse, Vittorio Vallarino Gancia era il capo dell’azienda che per 125 anni era stata saldamente in mano alla famiglia. L’esordio con il vermouth, che aveva come testimonial i Savoia e Giuseppe Garibaldi. Poi l’intuizione di Carlo Gancia, bisnonno di Vittorio, commerciante di vini di Chivasso: creare qualcosa di simile allo Champagne, di cui si era innamorato dopo aver lavorato nella maison Piper-Heidsieck. Così è nato il primo Metodo classico italiano, con regole che ancora oggi vengono seguite. Scelse le uve Moscato, Carlo Gancia. Uno spumante dal sapore morbido e dolce, che per decine di anni tutte o quasi le famiglie italiane stappavano soprattutto durante le feste natalizie, accompagnandolo a panettone e pandoro. Un successo straordinario. Vittorio, dal castello di Villanuova, alto su Canelli, scrutava una cantina con 350 dipendenti. Restò al timone dell’azienda in cui era entrato con il primo incarico all’Ufficio Esportazione, fino al 1996, ma già sotto la sua guida il dominio famigliare cominciò a dare qualche segno di cedimento. Dall’entrata di Martini&Rossi, proprio nell’anno del rapimento. Fino alla cessione definitiva, 11 anni fa, alla Russian Standard Corporation, società russa leader nella produzione di vodka, con a capo Roustam Tariko.

I ruoli istituzionali e il tifo per la Juve

Dopo che i carabinieri lo liberarono dai sequestratori (nell’operazione morirono l’appuntato dell’Arma, Giovanni D’Alfonso e la brigatista Margherita Cagol, moglie di Renato Curcio), Vittorio si rimise a lavorare con sempre nuove idee, puntando anche sulla trasformazione tecnologica della cantina e sulle nuove aperture, come la cantina in Puglia con vitigni bianchi internazionali. È stato presidente di Federvini, di Unione italiana vini e della Camera di commercio di Asti. Con il padre Lamberto si è impegnato nel lancio del primo spumante secco, Rocca de Giorgi, con il nome della tenuta nell’Oltrepò pavese che forniva le uve. Laureato in Scienze politiche e grande tifoso della Juve (a un pranzo troppo lento alla fiera del tartufo d’Alba, si alzò e disse: sbrigatevi, alle 3 c’è la partita), il «dottor Vittorio» era conosciuto e riverito in paese per la sua semplicità. Fino a quando le condizioni di salute e il Covid lo hanno costretto a ritirarsi in casa. Con la moglie Rosalba, che gli è stata vicina fino all’ultimo giorno.

Pierangelo Sapegno per “La Stampa” il 14 novembre 2022.

Il suo sequestro durò solo un giorno. Ma cambiò la storia degli Anni di piombo, e anche quella dell'Italia. Il 5 giugno del 1975, i carabinieri liberarono Vittorio Vallarino Gancia dopo un'irruzione nella cascina Spiotta d'Arzello, lasciando sul terreno i corpi senza vita dell'appuntato Giovanni D'Alfonso e di Margherita Cagol, nome di battaglia Mara, la moglie di Renato Curcio. 

Colpito da una bomba a mano, il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio: disse che all'improvviso vide tutto rosso davanti a sé, mentre continuava a far fuoco con l'unica mano che gli restava, fermo sullo spiazzo di fronte alla porta della casa. 

Un altro carabiniere, il maresciallo Rosario Cattafi, fu ferito gravemente. Alla fine riuscirono a entrare. Nella grande cucina c'erano una branda, due magliette e una bombola di gas, e nell'altra stanza accanto alla finestra che si affacciava sul prato, una porticina angusta. Lì dentro c'era la prigione di Vittorio Vallarino Gancia. Li aspettava in piedi con le mani legate dietro la schiena, il volto tirato e gli occhi spalancati: «Ho sentito tutti quegli spari e ho temuto uno scontro fra bande», disse.

Aveva la cravatta allentata sul colletto aperto e la barba incolta. Fuori c'erano un mucchio di macchine e del sangue per terra. Un anno dopo, l'8 giugno 1976, le Br uccisero in un agguato nella salita Santa Brigida di Genova il magistrato Francesco Coco e due uomini della scorta. L'imboscata era stata programmata per il 5 giugno, anniversario della morte di Mara Cagol. Il terrorismo alzava il tiro, come dicevano loro. Cominciavano gli anni più bui. 

Vallarino Gancia aveva 42 anni e si era separato dalla moglie, da cui aveva avuto due figli. Era amministratore delegato e direttore generale della ditta vinicola Gancia, di cui aveva assunto la guida dopo il ritiro del padre Lamberto, avendo cominciato a lavorarci quasi da ragazzino, nel 1957. Viveva in una lussuosa villa con piscina e campi da tennis, a un km dalla sede dell'azienda. Alle 15 del 4 giugno lasciò la casa per andare al lavoro.

Il giardiniere, Giuseppe Medina, disse che a 100 metri dal cancello c'erano 4 uomini che sembravano discutere come per un incidente vicino a una Fiat 124 verde e a un furgone. Era stata Mara Cagol a decidere questo rapimento. Il 18 febbraio del 1975 aveva guidato un gruppo di brigatisti nel blitz per far evadere Renato Curcio dal carcere di Casale. Da quel giorno le Br avevano deciso di ampliare le loro strutture e crescere il numero di militanti. Servivano più soldi e per questo, raccontò Mario Moretti, erano state organizzate molte rapine per autofinanziarsi.

Ma non bastavano. In una riunione a Torino, con Curcio, Cagol e Moretti, fu approvato il sequestro Gancia. La Cagol disse che era perfetto: loro conoscevano bene la zona e lui era un simbolo del capitalismo. E' così che Gancia entra in questa storia. Quel giorno quando passò l'Alfetta di Vallarino, i 4 che fingevano di litigare salirono sulle loro macchine e lo seguirono. Poco più avanti, fu fermato da 4 uomini con tute da operai e tamponato dal furgone. Aprirono la sua macchina e lo presero. 

Destinazione Spiotta d'Arzello. Nessuno degli inquirenti pensava alle Br. Ma quello stesso giorno, un giovane a bordo di una 124 ebbe un incidente con una 500 e si propose un po' troppo sbrigativamente di risarcire in proprio e subito il guidatore senza stare lì a fare denuncia. L'autista della 500 lo disse ai carabinieri, che si misero a cercare la 124. Quando la trovarono, il giovane si dichiarò prigioniero politico. 

Così arrivò il generale Dalla Chiesa e le indagini presero una accelerata.

La mattina del 5 giugno, una pattuglia con 4 carabinieri arrancava per una stradina impervia su una salita che vedeva in cima una costruzione formata da due blocchi.

Davanti a una casa c'erano due macchine: voleva dire che c'era qualcuno, fino a quel momento, invece, le cascine che avevano trovato erano tutte vuote. Il tenente Rocca scorse alla finestra una donna che si nascondeva dietro le persiane. Il maresciallo Cattafi bussò alla porta. Venne ad aprire un tipo distinto, che sembrava molto scocciato per questa visita.

Quando gli intimarono di uscire, lui lanciò una bomba a mano contro di loro. Rocca alzò il braccio istintivamente e fu colpito al gomito. Vide rosso e il braccio non ce l'aveva più. Il brigatista e Mara Cagol uscirono di corsa dalla casa per raggiungere le macchine e fecero fuoco contro l'appuntato D'Alfonso che cercava di fermarli, uccidendolo. 

Più avanti era rimasto l'altro appuntato, Barberis, accanto alla vettura dell'Arma che ostruiva il passaggio. Altra sparatoria, poi i due finsero di arrendersi. L'uomo nascosto dietro Mara Cagol tirò ancora una bomba a mano. Barberis la schivò e riprese a sparare. Lei restò a terra senza più vita. Era stata colpita al braccio, alla schiena e al torace.

Lui riuscì a correre verso il bosco e a far perdere le tracce. Davanti all'ingresso della cascina, Cattafi, benché ferito dalle schegge, soccorse il tenente e lo trascinò verso la strada, dove stava passando il postino: lo caricò sulla sua macchina e gli disse di portarlo all'ospedale. Quando arrivarono i rinforzi, chiamati da Barberis, fecero irruzione nella villa per liberare Vallarino Gancia. Rocca raccontò che prima della sparatoria aveva incrociato una macchina scendere e a ripensarci gli era parso che dentro ci fosse Curcio. Non si è mai saputo se fosse vero. Dal canto suo, il capo delle Br inneggiò a Mara Cagol e disse che era stata uccisa dopo che si era arresa. Anche se non era vero, era quello che credevano. Ormai era guerra aperta, Curcio fu arrestato il 18 gennaio 1976. E sostituito al comando da Mario Moretti. Per un anno le Br stentarono a riorganizzarsi. Poi fecero l'imboscata di Santa Brigida. Cominciava così la storia più tragica degli anni di piombo.

Addio a Vallarino Gancia. Era il "re" degli spumanti. L'imprenditore, noto per essere stato alla guida dell'omonima azienda di spumanti di Canelli (Piemonte), è morto all'età di 90 anni. Rosa Scognamiglio il 13 Novembre 2022 su Il Giornale.

È morto all'età di 90 anni l'imprenditore vitivinicolo Vittorio Vallarino Gancia, per anni alla guida dell'omonima azienda di spumanti di Canelli, nell'Astigiano. Si è spento sabato notte, 12 novembre, nella sua casa di Asti con accanto la moglie Rosalba. Nella sua lunga vita, ha ricoperto incarichi importanti diventando presidente del Consorzio di Asti e della Federvini. Nel 1994 l'allora Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, lo nominò Cavaliere del Lavoro.

Chi è Vallarino Gancia

Nato a Canelli, il 28 ottobre del 1932, Vallarino Gancia dimostrò sin da giovanissimo di avere uno spiccato talento imprenditoriale. Il suo impegno all'interno dell'azienda fondata dal bisnonno, Carlo Gancia, è iniziato nel 1957, con un primo incarico all'ufficio esportazione, dopo aver conseguito la laurea in scienze politiche all'università di Torino. Nel 1967 è stato nominato direttore generale della F.lli Gancia & C. mentre nel 1973 è arrivato a ricoprire la carica di amministratore delegato e, nel 1984, di presidente. Nella sua lunga e lungimirante carriera ha ricoperto incarichi importanti diventando presidente dell’Ospedale di Canelli dal 1967 al 1970 e della Camera di Commercio di Asti dal 1984 al 1991. Ha guidato l’Unione industriale di Asti e il Consorzio dell’Asti dal 1992 al 1994. Tra il 1990 e il 1993 è stato presidente della Federvini e dell’Unione italiana vini dal 1999 al 2001, membro del comitato nazionale per le denominazioni di origine dei vini. Commendatore dal 1974, grand’ufficiale nell’82. Ha due figli, Massimiliano e Lamberto, entrambi dirigenti nell'attività di famiglia.

Il sequestro

Vallarino Gancia fu vittima di un sequestro da parte delle Brigate Rosse che costò la vita l'appuntato dell'Arma dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Il rapimento-lampo, durato 24 ore, si consumò il 4 giugno del 1975. I sequestratori reclusero l'imprenditore nella Cascina Spiotta, un casolare di Arzello, chiedendo un riscatto di un miliardo di lire alla famiglia. Gancia fu liberato il giorno dopo ma il sequestro sfociò in un sanguinario conflitto a fuoco tra brigatisti e forze dell'Ordine. Nella sparatoria fu uccisa anche la terrorista Margherita Cagol, capo del nucleo brigatista e moglie di Renato Curcio. Due carabinieri rimasero gravemente feriti e il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio. Il drammatico accadimento ebbe forti ripercussioni sociali esacerbando le violenze da parte dei gruppi di Brigatisti negli Anni di Piombo.

Il cordoglio

"Con la morte di Vittorio Vallarino Gancia perdiamo un imprenditore che ha porta il Piemonte nel mondo. Erede della famiglia che di fatto ha inventato lo spumante italiano, per decenni è stato tra i protagonisti dell'industria italiana. Mi unisco al cordoglio dei piemontesi ed esprimo sentimenti di vicinanza alla famiglia". Così in una nota il ministro per la Pubblica Amministrazione, Paolo Zangrillo sulla scomparsa dell'imprenditore astigiano deceduto nelle scorse ore. "Il suo nome è fortemente legato alla storia di Canelli. Era un visionario, un imprenditore che ha rivoluzionato il settore vitivinicolo italiano. Siamo conosciuti in tutto il mondo grazie alla famiglia Gancia, che ha creato il primo spumante italiano con metodo classico: la loro cantina è una delle quattro case vinicole che hanno portato al riconoscimento della nostra città come patrimonio Unesco", ha ricordato il sindaco di Canelli Paolo Lanzavecchia

La rivoluzione dello spumante e il rapimento Br: addio Gancia. Ha sviluppato il mercato delle bollicine "brut" della storica azienda fondata dal nonno. Nel '75 il sequestro brigatista. Stefano Zurlo il 14 Novembre 2022 su Il Giornale.

Per un capriccio del tempo, si era tornato a parlare di lui nelle scorse settimane. Con l'aiuto delle nuove tecniche d'indagine, gli investigatori avevano rispolverato i vecchi fascicoli sulla forsennata sparatoria che aveva scandito la sua liberazione: Vittorio Vallarino Gancia era stato liberato dalle forze dell'ordine, Mara Cagol, una delle fondatrici delle Brigate rosse e moglie di Renato Curcio, era rimasta uccisa insieme a un giovane carabiniere; un secondo terrorista era scappato e proprio nei giorni scorsi, quasi mezzo secolo dopo quel lontano episodio degli anni di piombo, il suo nome è trapelato: potrebbe trattarsi di Lauro Azzolini, altro nome storico delle Br.

Vittorio Vallarino Gancia è morto a novant'anni nella sua casa di Canelli, dove era nato il 28 ottobre 1932.

La sua biografia tocca la parabola dell'eversione a cinque punte ma il suo cognome è di quelli che hanno fatto la storia dell'enologia italiana sulle colline raccontate da Cesare Pavese in quel romanzo struggente che è La luna e i faló. Canelli è una delle capitali del vino italiano con sfoggio di grandi marchi - dai Riccadonna ai Contratto - e una parte del merito va ai Gancia e a Carlo, il bisnonno di Vittorio, che nel 1850 fondò l'azienda e nel 1865 inventò lo spumante tricolore, quello che utilizza il metodo classico, aprendo un'infinità contesa con i francesi e lo champagne.

Ecco, già nel decennio di Cavour e poi agli albori dell'unità del Paese, i Gancia utilizzavano le tecnologie più avanzate in una realtà che era indietro anni luce e pensavano in grande. Un destino che a Canelli non hanno mai tradito e Vittorio, al timone dell'azienda per lunghi decenni prima di diventarne presidente onorario, ha fatto la sua parte. In particolare, si deve a lui lo sviluppo del mercato degli spumanti secchi, in una terra votata allo spumante dolce e ai brindisi del Natale, e fu sempre lui a sbarcare in Puglia, a Rutigliano, nel 1984, puntando su Cabernet, Pinot, Sauvignon e trascinando l'imprenditoria locale sulla strada della modernizzazione.

Nel corso di una lunghissima carriera ha collezionato anche molte cariche: è stato presidente di Federvini, di Unione Vini e della Camera di commercio di Asti. «Era un uomo visionario - spiega il sindaco di Canelli Marco Lanzavecchia - e Canelli è conosciuta in tutto il mondo grazie alla famiglia Gancia. La loro cantina è una delle quattro case vinicole che hanno portato al riconoscimento di Canelli come patrimonio Unesco».

I filari. Le botti. La saga di famiglia. E poi quella pagina inquietante di cronaca nera che taglia gli anni Settanta e segna l'avvio di una stagione di sangue. Le Br, che l'anno prima a Padova hanno ammazzato per la prima volta due militanti missini, hanno bisogno di soldi. Organizzano quindi il sequestro dell'industriale, il re dello spumante, che viene portato via il 5 giugno 1975, poco dopo aver lasciato la sua abitazione a Canelli, ai confini di Langhe e Monferrato. L'ostaggio viene portato alla Cascina Spiotta, non lontano da Acqui Terme, e qui i carabinieri che stanno setacciando il territorio arrivano il giorno dopo, quando è già stato chiesto il riscatto: un miliardo di lire. I militari non sanno che hanno raggiunto l'obiettivo delle loro ricerche e vengono colti di sorpresa dalla reazione furibonda dei brigatisti che aprono il fuoco con armi automatiche e lanciano bombe a mano.

Nella sparatoria muore il brigadiere Giovanni D'Alfonso e due militari che erano con lui restano gravemente feriti. Ma cade anche Mara Cagol, mentre un altro militante si dilegua nelle campagne. Quarantasette anni dopo, gli specialisti del Ris sono sulle sue tracce e con ogni probabilità, come ha raccontato Luca Fazzo sul Giornale, hanno ricostruito la sua identità: si tratterebbe di Lauro Azzolini, uno dei protagonisti della storia del partito armato in Italia, membro del commando che gambizzó Indro Montanelli, poi arrestato e condannato all'ergastolo.

Azzolini, oggi settantanovenne, ha risposto in modo enigmatico al Giornale: «Dico solo che di quell'azione si assunsero la responsabilità le Brigate rosse».

 

·         È morto il musicista Keith Leven.

 Keith Levene, morto il fondatore dei Clash e dei Public Image Ltd. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2022.

Keith Levene, uno dei più innovativi, audaci e influenti chitarristi della sua generazione, fondatore dei Clash e successivamente dei Public Image Ltd., è morto venerdì di cancro al fegato nella sua casa di Norfolk, nel Regno Unito. Aveva 65 anni. La sua morte è stata annunciata sui social dagli ex compagni di band Martin Atkins e Jah Wobble. Dopo aver esordito nel mondo musicale come roadie per gli Yes, Levene fonda con Mick Jones nel 1976 i Clash, convincendo Joe Strummer a unirsi alla band. Nel gruppo, però, Levene resta solo per pochi mesi, il tempo di comporre una canzone — «What’s My Name» — e di essere allontanato dalla band sia perché tre chitarre erano un eccesso barocco che nessun gruppo punk poteva permettersi, sia per divergenze sulla direzione stilistica del gruppo.

Nel 1978 la fondazione dei Public Image con John Lydon (alias l’ex Sex Pistols Johnny Rotten), che Levene incontra proprio durante un concerto dei Clash e dei Pistols in un pub di Sheffield nel 1976. Il loro primo album, «Public Image: First Issue» raggiunge il numero 22 delle classifiche nel 1978, preceduto dal singolo «Public Image», che arriva fino alla Top 10. Il loro secondo album, «Metal Box» del 1979 , è considerato un classico post-punk . Levene lascia il gruppo nel 1983.

È morto Keith Levene, fondatore dei Clash e dei Public Image Limited. Carmine Saviano su La Repubblica il 12 Novembre 2022.

Rivoluzionario della chitarra rock, aveva 65 anni. Una carriera sotto il segno della sperimentazione

È stato uno degli anti eroi del punk che alla fine degli anni settanta ha rivoluzionato il ruolo, la funzione e l'essenza della chitarra rock. È morto a 65 anni Keith Levene, fondatore dei Public Image Ltd e dei Clash. La notizia è stata data da Adam Hammond, scrittore, che ha rivelato che Levene è morto venerdì 11 novembre. "È con grande tristezza che comunico che il mio caro amico e leggendario chitarrista dei Public Image Limited Keith Levene è morto venerdì 11 novembre", ha scritto Hammond.

Dopo aver esordito nel mondo musicale come roadie per gli Yes, Levene stringe un sodalizio artistico con Mick Jones: sono loro i fondatori dei Clash, nel 1976, loro che convincono Joe Strummer ad unirsi alla band. Nel gruppo, però, Levene resta solo per pochi mesi, il tempo di comporre una canzone - What's My Name - e di essere allontanato dalla band sia perché tre chitarre erano un eccesso barocco che nessun gruppo punk poteva consentirsi, sia per divergenze sulla direzione stilistica del gruppo. Nel 1978 la fondazione dei Public Image con l'ex Sex Pistols Johnny Rotten, che Levene incontra proprio durante un concerto dei Clash e dei Pistols in un pub di Sheffield nel 1976.

Ed è proprio in questa band che Levene si fa architetto della nuova funzione della chitarra. Basta ascoltare la prima canzone del primo album dei PiL: Theme. Niente più tecnicismi, addio agli assoli che avevano saturato gli anni '70 fino a quel momento. Ma spigoli, frenesia, timbri metallici e note in levare. Il disinteresse verso armonie risolte. Macerie di cristallo. Una radicalizzazione del suono che prima di allora era semplicemente sconosciuta. Una decostruzione della chitarra rock che per Levene è qualcosa di programmatico: sceglie quella strada, disimpara a suonare dopo anni trascorsi cercando di emulare Hendrix, Page e i chitarristi della band del progressive rock.

La sua strategia era quella degli "errori volontari": quando qualcosa veniva fuori come "sbagliato", dissonante, Levene coglieva l'occasione per entrare i territori musicali sconosciuti. "L'idea era quella di sfondare il muro del condizionamento: di entrare in uno spazio nuovo". L'avventura nei PiL si interrompe nel 1983. Da allora e fino a ieri una carriera che non è mai andata al di là del terreno della sperimentazione.

"Tutti possono suonare la chitarra ma io non voglio farlo come nessun altro", il passaggio di un'intervista del 2017 che potrebbe essere la sintesi di tutta la sua carriera. Se una cosa è certa è che Keith Levene non lo ha mai fatto. Ma migliaia di musicisti hanno provato a suonare la chitarra come lui.

·         Morto il manager Luca Panerai.

Morto Luca Panerai, manager del gruppo Class e fondatore di Horse Tv. Lucia Landoni su La Repubblica il 9 Novembre 2022.

Il padre Paolo Panerai è presidente della casa editrice Class, attiva nel campo dell'informazione finanziaria e dei beni di lusso.

Il domestico filippino che l'ha trovato in fin di vita, nella notte tra martedì 8 e mercoledì 9 novembre, ha subito allertato i soccorsi, ma purtroppo non c'era più nulla da fare: il noto imprenditore Luca Panerai, 47enne, è morto alla Cascina Secondina di Zerbolò (nel Pavese), nonostante i ripetuti tentativi di rianimazione messi in atto dagli operatori del 118.

Sul posto sono poi intervenuti i carabinieri della compagnia di Vigevano, che hanno eseguito i rilevi del caso, e il magistrato ha restituito la salma ai familiari per lo svolgimento dei funerali. Panerai, figura di spicco nel mondo della finanza milanese, era manager del gruppo Class, oltre che fondatore e amministratore delegato di Horse Tv, emittente televisiva dedicata al mondo dei cavalli.

Il padre Paolo Panerai è presidente della casa editrice Class, attiva nel campo dell'informazione finanziaria e dei beni di lusso. Nel suo ultimo post su Instagram, risalente al suo compleanno celebrato il 28 ottobre, Luca Panerai aveva pubblicato la foto di un bigliettino ricevuto dalla figlia Sofia: "Le persone che ami sono quelle da ascoltare anche nei giorni più grigi, quelli dove non c'è neanche una speranza di luce - aveva scritto la bambina - Sono quelle che ti fanno fare la cosa giusta, sempre".

Per accompagnare l'immagine, l'imprenditore aveva scelto questa frase: "Sarebbe, anzi è privato, ma è talmente vero e bello e lo ha scritto Sofia, ed è così pieno di forza, dolcezza e maturità che condivido con il cuore la prima pagina".

Luca Panerai, morto a 47 anni il manager del gruppo Class: ad di Horse Tt, lascia due figlie. Andrea Rinaldi Landoni su La Repubblica il 10 Novembre 2022.

È mancato nella notte tra martedì e mercoledì a 47 anni Luca Panerai, manager del gruppo Class e appassionato di equitazione. Secondo le prime informazioni il domestico lo ha trovato esanime nella sua abitazione, la Cascina Secondina di Zerbolò, in provincia di Pavia. Era figlio del giornalista, editore e vicepresidente e ceo del Gruppo Class Paolo Panerai; della società era consigliere di amministrazione oltre che managing director della divisione digital e ad di Horse Tv.

Gli studi e la carriera

Anche lui cronista, era entrato in Panorama subito dopo la laurea in Filosofia all’Università di Siena per poi passare a lavorare nelle testate del gruppo di famiglia. È stato amministratore delegato di Radio Classica Milano Finanza, che alternava notizie di Borsa a musica lirica e sinfonica e nel 2010 aveva avuto l’intuizione di creare un canale tv dedicato al settore degli sport equestri di cui era un grande appassionato: con «Class Horse Tv» ha fatto conoscere il mondo dei cavalli grazie alle telecronache in diretta dei principali trofei e gare di equitazione. Nel palinsesto un’altra creazione di Panerai: il talent-show «Horse Academy», ospitato nel 2014 proprio alla Cascina Secondina di Zerbolò.

Gli incarichi e le attività immobiliari e digitali

Panerai era inoltre consigliere d’amministrazione della Compagnia Immobiliare Azionaria, nata nel 2002 dalla scissione con Class Editori e specializzata nella locazione e nella compravendita di immobili. Tra le altre avventure pure quella di Netesi (Network in sintesi), di cui è stato socio fondatore: la società, poi finita nell’orbita di Telecom, forniva servizi e prodotti legati alla banda larga Adsl fino a Mbds, dall’Asp all’Internet mail, dal web hosting al Voip. Panerai lascia due figlie piccole.

Luca Panerai, trovato senza vita il manager del gruppo Class. È scomparso all'età di 47 anni Luca Panerai, trovato senza vita nella tenuta di famiglia. Molto conosciuto nel mondo della finanza e dell'equitazione, nel 2010 aveva fondato Class HorseTv. Roberta Damiata il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Un malore improvviso non ha lasciato scampo a Luca Panerai, manager molto noto del mondo della finanza. A trovarlo senza vita nella notte fra martedì e mercoledì, è stato un domestico. Panerai, 47 anni, imprenditore e manager del gruppo Class, discendente di una famiglia di produttori di orologi di lusso, è morto mentre si trovava alla Cascina Secondina, a Zerbolò (Pavia). Qui la famiglia possiede una tenuta, il Castellare Equestrian Club, dove nel 2014 era stato organizzato il talent show Horse Academy, ideato proprio da Panerai. Le cause del decesso sarebbero attribuibili a un malore.

Sul posto sono intervenuti subito i carabinieri della compagnia di Vigevano, che hanno eseguito i rilevi del caso. L’autorità giudiziaria ha già concesso l’autorizzazione per la restituzione della salma ai familiari per il funerale. Figura di spicco nel mondo della finanza milanese, era manager del gruppo Class. Molto conosciuto nel mondo dell'equitazione: nel 2010 aveva fondato Class HorseTv, un canale specializzato che trasmetteva in diretta le più importanti competizioni nazionali e internazionali. Laureato in filosofia, aveva maturato un'esperienza in campo editoriale lavorando anche in radio e nella redazione di Milano Finanza, prima di assumere ruoli dirigenziali all'interno dell'azienda di famiglia.

Il padre, Paolo Panerai, è il presidente della casa editrice Class, attiva nel campo dell'informazione finanziaria e dei beni di lusso. Nel suo ultimo post su Instagram, che risale al giorno del suo compleanno, celebrato il 28 ottobre, Panerai aveva pubblicato la foto di un bigliettino ricevuto dalla figlia Sofia: "Le persone che ami sono quelle da ascoltare anche nei giorni più grigi, quelli dove non c'è neanche una speranza di luce sono quelle che ti fanno fare la cosa giusta, sempre". L'imprenditore aveva scelto una frase molto toccante commentarlo: "Sarebbe, anzi è privato, ma è talmente vero e bello e lo ha scritto Sofia, ed è così pieno di forza, dolcezza e maturità che condivido con il cuore la prima pagina".

·         E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.

(ANSA l’8 novembre 2022.) - "L'Italia piange la scomparsa di Giuseppe Bono, storica guida di Fincantieri e figura di riferimento dell'industria italiana. Una dolorosa perdita per tutta la Nazione. Rivolgo ai suoi familiari le più sincere condoglianze da parte mia e del Governo italiano". Lo scrive su Twitter la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

 Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha inviato ai familiari di Giuseppe Bono, un messaggio nel quale esprime il cordoglio della Repubblica e la sua solidarietà e personale vicinanza.

"Con grande dispiacere ho appreso la notizia della morte di Giuseppe Bono. "Maiora premunt" mi aveva scritto appena qualche giorno fa, in un veloce scambio di messaggi". 

Così il ministro dell'Economia Giancarlo Giorgetti in una nota. "Le sue ultime parole, per quanto mi riguarda: anche in quel motto ho letto ancora una volta tutta la sua passione e amore per l'industria italiana. Una passione che ha coltivato negli anni in maniera concreta fino all'ultima lunghissima esperienza come amministratore delegato in Fincantieri. Un percorso, un modo di agire disinteressato e competente che è di esempio per tutti noi.

(ANSA l’8 novembre 2022.) - "Ci lascia un grande condottiero. Per due decenni alla guida di Fincantieri, Giuseppe Bono ha dato un contributo fondamentale per il rilancio della navalmeccanica italiana che oggi può vantare indiscusse leadership mondiali". Con queste parole i vertici di Fincantieri, il Presidente Claudio Graziano e l'Amministratore delegato Pierroberto Folgiero, ricordano la figura di Giuseppe Bono.

"A nome di tutti i nostri colleghi vogliamo ricordare colui che ha rappresentato una figura di riferimento per l'industria nazionale - prosegue la nota firmata da Graziano e Folgiero - Giuseppe Bono ha sviluppato e portato avanti una visione coraggiosa e lungimirante, con un'attenzione costante alle persone, raccogliendo sempre le sfide più difficili e perseguendo sempre l'interesse del Paese. Il fermo rispetto del lavoro come valore primario è stata la cifra distintiva e il faro della sua azione. La sua morte addolora profondamente tutta la comunità di Fincantieri che, in un momento così triste, vuol far sentire la sua vicinanza alla famiglia", conclude il comunicato.

(ANSA l’8 novembre 2022.) - "E' con grande dispiacere che ho appreso la notizia della morte di Giuseppe Bono. Con la sua scomparsa l'Italia perde un manager molto competente che ha saputo portare la nostra cantieristica ai vertici mondiali. Ovunque abbia lavorato, Giuseppe Bono ha sempre dimostrato le sue capacità rendendo un servizio importante per la nostra Nazione. Alla sua famiglia e ai suoi cari giungano le mie sentite condoglianze". Così il Presidente del Senato, Ignazio La Russa. 

Il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti esprime, a nome della Giunta regionale, il più profondo cordoglio per la scomparsa di Giuseppe Bono. "Bono è stata una figura di grande rilevanza per l'industria nautica del nostro Paese, come guida di Fincantieri, - dice Toti - e in particolare per la Liguria, che ospita i poli di Sestri Ponente, Riva Trigoso e Muggiano. Non possiamo dimenticare poi il suo ruolo, sempre in quanto guida di Fincantieri, nella costruzione del nuovo Ponte di Genova, dopo la tragedia del Morandi. Regione Liguria è vicino

"Un uomo che con caparbietà ha rivoluzionato Fincantieri e con cui ho avuto il piacere di collaborare anche per la ricostruzione del ponte San Giorgio. Anche grazie a lui e alla sua visione, Genova ha saputo rialzarsi in fretta dopo la tragedia del 14 agosto 2018". Così il sindaco di Genova Marco Bucci. ricorda Giuseppe Bono.

"Giuseppe Bono - aggiunge il sindaco Bucci - poco più di un anno fa, aveva ricevuto la cittadinanza onoraria di Genova per le sue capacità professionali e manageriali e per l'impegno profuso nella ricostruzione del viadotto. In questo momento di dolore sono vicino ai familiari: l'Italia perde un grande dirigente che ha dato tanto al proprio Paese".

"Il mio cordoglio per la scomparsa di Giuseppe Bono, figura di spessore umano e professionale. Ha rivoluzionato un'azienda strategica come Fincantieri e si è impegnato a fondo per la ricostruzione del Ponte San Giorgio di Genova a seguito della tragedia di ponte Morandi. Un abbraccio ai familiari, la nazione perde un manager capace e determinato". Lo dice in una nota il vice ministro al Mit Edoardo Rixi.

"Lavorare per tanti anni a fianco di Giuseppe Bono in Fincantieri è stato per me un onore e un'esperienza straordinaria. L'Italia e la sua industria manifatturiera perdono un grande protagonista e un eccezionale uomo del fare. L'interesse nazionale, la tutela dei territori, la crescita dell'Italia erano i suoi fari. 

 Il suo contributo al consolidamento e sviluppo della base produttiva italiana e alla promozione del nostro know how nel mondo sono stati eminenti. Piango un grande amico, un grande industriale, un grande uomo". Così il presidente di Atlantia, Giampiero Massolo, che è stato presidente di Fincantieri dal 2016 al 2022.

"Oltre 20 anni fa ho conosciuto Giuseppe Bono e ne ho sempre apprezzato l'impegno e la passione. Un uomo che ha legato la sua vita a Fincantieri, che ha salvato grazie al suo lavoro, rendendola un'eccellenza del sistema Italia e del made in Italy. Un grande esempio di manager e capitano d'impresa". Così il ministro delle Imprese e Made in Italy Adolfo Urso commenta la scomparsa di Giuseppe Bono. (ANSA)

Francesco Ferrari per ilsecoloxix.it l’8 novembre 2022.

E’ morto a 78 anni Giuseppe Bono, ex amministratore delegato di Fincantieri e figura storica dell’industria italiana. Pochi mesi fa era stato sostituito al vertice del gruppo con sede a Trieste da Pierroberto Folgiero.

Lo chiamavano l’ultimo “boiardo” di Stato, e lui faceva finta di indignarsi: “Boiardo a me? Ma per favore... Io nell’industria ci sono nato, le mani me le sono sporcate davvero. Mica come quelli che non sono mai usciti dal salotto e un cantiere lo hanno visto solo al telegiornale”.

Faceva finta, perché l’ironia di Giuseppe Bono era una di quelle autentiche, taglienti, e lui la usava abilmente come un’arma per difendersi o attaccare, senza pesare troppo l’interlocutore: poteva essere il delegato sindacale o il presidente del Consiglio, poco importava. “E’ davvero intrattabile”, disse una volta un giovane capo del governo. “Meglio che impari a trattare con lui, perché in Italia è l’unico che mastica di industria”, gli suggerì un autorevole ministro.

“In fabbrica sono entrato quando avevo 18 anni – raccontava di sé - Da operaio, a Torino, a 1.300 chilometri da casa. Non avevo molta scelta: papà morì quando ero piccolo, e al nostro paese lavoro non ce n’era”. 

Calabrese di Pizzoni, classe 1944, una vocazione sopita anch’essa per necessità («da bambino volevo farmi prete, ma ero l’unico maschio in famiglia e servivano soldi»), tifosissimo della Juventus, socialista capace di sopravvivere a governi di destra, centro, sinistra, grillini e tecnici, Bono è morto oggi, pochi mesi dopo avere lasciato Fincantieri dove ha lavorato per 20 anni nel corso dei quali ha letteralmente rivoluzionato l’azienda avuta in dote da Silvio Berlusconi.

Un’ascesa nata da uno sgarbo. Perché è tutto fuorché un regalo, quello del Cavaliere, che nel 2002 sottrae a Bono la poltrona di capo azienda di Finmeccanica (affidatagli appena due anni prima da Giuliano Amato) per consegnarla a Pier Francesco Guarguaglini. La contropartita si chiama Fincantieri, e ha tutta l’aria di una punizione, più che di un premio. 

Ma Bono non si abbatte. Con l’ostinazione tutta italiana di un personaggio di John Fante, studia l’azienda, la riorganizza, va a caccia di nuovi clienti, cerca di decifrare un mercato complesso e tempestato di incognite.

E dove sa di non potere intervenire in prima persona, si affida a quelli che diventeranno i suoi fedelissimi. Come il suo predecessore Corrado Antonini, uomo di straordinarie relazioni internazionali che negli anni Novanta ha deciso di legare il destino di Fincantieri a quello di Carnival Corporation. 

Bono, che ai salotti preferisce la vita in cantiere, gli cede volentieri il ruolo di ambasciatore dell’azienda. E insieme formano una coppia vincente: Fincantieri incassa in pochi anni ordini miliardari, fino a diventare leader al mondo nel settore crociere. Una crescita che si estende presto al settore militare.

È il 2009 quando Bono porta a casa un risultato storico: l’acquisizione dei cantieri navali americani Marinette. Fincantieri potrà costruire navi militari per gli Stati Uniti, mettendo un piede nel più ambìto dei mercati. «Siete un patrimonio del Paese, forgerete il futuro della Navy», dirà molti anni più tardi Donald Trump, il presidente della svolta autarchica, in un simbolico tributo al made in Italy.

L’esperienza americana rafforza un’idea che Bono coltiva da tempo: la necessità di creare un polo europeo della cantieristica capace di imporsi a livello mondiale. «È una questione di sopravvivenza: se non lo facciamo noi, lo faranno gli asiatici», avverte il manager. 

I destinatari del messaggio sono Francia e Germania, che però fanno spallucce. I francesi, in particolare, non vogliono rinunciare all’autonomia dei cantieri di Saint-Nazaire, poi miseramente falliti. Per Parigi la proposta di Bono è semplicemente «irricevibile»: meglio trattare con i coreani di Daewoo, piuttosto che con les italiens.

Bono, dopo avere portato l’azienda in Borsa nel 2014, si prenderà la sua rivincita solo nel 2019, con la joint-venture siglata proprio con il francese Naval Group. Un sogno coronato a metà: l’altra e ben più importante alleanza, quella nel settore crociere, si fermerà due anni dopo per l’opposizione dell’Antitrust di Bruxelles. «Ma che Europa è, quella che impedisce a una sua eccellenza di crescere, affermarsi, creare lavoro?».

Nel frattempo, Bono continua la sua caparbia opera di diversificazione: bisogna essere capaci di costruire non solo navi, ma anche infrastrutture. Fincantieri si presenta al mondo nella sua rinnovata veste ricostruendo il ponte di Genova, al fianco di WeBuild. È l’inizio di una nuova era, suggellata da un altro momento simbolico: la realizzazione, a Miami, del nuovo terminal crociere di Msc. 

Un percorso interrotto dalla scelta del governo Draghi di cambiare rotta e affidare la collaudata nave allestita da Bono al nuovo a.d., Pierroberto Folgiero.

Teodoro Chiarelli per “La Stampa” il 9 novembre 2022.

«Maiora premunt», urgono cose di maggiore importanza. In questa battuta, fatta qualche giorno fa al ministro dell'Economia, Giancarlo Giorgetti, c'è molto di Giuseppe Bono, scomparso ieri all'età di 78 anni, pochi mesi dopo essere stato sostituito al vertice di Fincantieri. Un regno durato 20 anni, ininterrottamente dal 2002: l'ultimo dei Boiardi di Stato. Un manager che, fra luci e ombre, ha avuto il merito di trasformare un'azienda agonizzante in una realtà multinazionale, con stabilimenti in Europa e negli Usa, emblema del made in Italy nelle crociere e costruttore di navi militari apprezzate nel mondo. Aveva una vera passione per l'industria: «Ci sono nato, le mani me le sono sporcate davvero.

Mica come quelli che non sono mai usciti dal salotto e un cantiere lo hanno visto solo al telegiornale. In fabbrica sono entrato a 18 anni. Da operaio, a Torino, a 1.300 chilometri da casa. Non avevo scelta: papà morì quando ero piccolo, e al nostro paese lavoro non ce n'era». Uomo concreto, Bono era poco interessato alla finanza. Ironico, tagliente, modi spicci, ma anche abile navigatore dei mari della politica, mai praticata, ma frequentata.

Dai tempi del suo mentore, il socialista calabrese Gaetano Mancini, cugino di Francesco Mancini, segretario del Psi prima di Bettino Craxi, senatore e poi a capo dell'Efim, dove Bono ottiene i primi incarichi di vertice nell'industria di Stato.

Un imprinting, quello socialista, che Bono non rinnegherà mai, pur essendo capace, nella sua carriera, di sopravvivere a governi di destra, centro, sinistra, grillini, rosso-verdi e tecnici, uscendo indenne da tangentopoli e saltando con disinvoltura dalla prima alla seconda Repubblica. 

Con il fallimento dell'Efim, il terzo degli enti a Partecipazione Statale dopo Iri ed Eni, le sue attività industriali passano a Finmeccanica e Bono è nominato direttore generale. Poi diventa ad, ma in coabitazione con il presidente e ad Alberto Lina che ha quasi tutte le deleghe.

Morde il freno, si scontra con Lina, i contrasti fra i due diventano insanabili. Il premier Silvio Berlusconi caccia Lina, mette al vertice di Finmeccanica Pier Francesco Guarguaglini, ad di Fincantieri, e spedisce Bono a Trieste. Lui non la prende bene, pensa a un siluramento e forse ha ragione: Fincantieri va male. 

Invece è la sua fortuna. Nato nel 1944 in Calabria a Pizzoni, quando Vibo Valentia non era ancora provincia, sposato, due figli, grande tifoso della Juventus («Come tanti terroni»), in tribuna a Cardiff a imprecare per l'ennesima Champions perduta, Bono nel 2002 inizia a studiare l'azienda e un mercato complicato. Riorganizza Fincantieri, ridefinisce le strategie e va a caccia di nuovi clienti. Stringe un patto di ferro con il presidente Corrado Antonini, amico di famiglia di Giulio Andreotti e della moglie Livia, ma soprattutto di Micky Arison, proprietario del colosso delle crociere Carnival, che controlla Costa Crociere.

 Il legame del gruppo di Miami con Fincantieri diventa strettissimo e l'azienda italiana diventa la numero uno al mondo nelle crociere. Una crescita che si estende al settore militare. Nel 2009 Bono mette piede negli States e acquisisce i cantieri Marinette. Nel 2014 porta l'azienda in Borsa, ma il suo sogno di creare un grande gruppo delle costruzioni navali europee andrà a cozzare con i protezionismi tedesco e francese e il veto della Ue. L'acquisizione dei cantieri di Saint-Nazaire viene stoppata. Resta la joint-venture militare con Naval Group.

Bono però non si ferma. Con WeBuild costruisce il ponte di Genova dopo il crollo del Morandi: un successo mondiale. E sempre con il gruppo Salini partecipa alla gara per la nuova diga di Genova. Poi pensa alla costruzione di ospedali. Una visione un po' troppo faraonica, tanto che il suo successore, Pierroberto Folgiero, si affretterà a dichiarare di voler riportare il gruppo al core business.

Quando il governo Draghi gli dà il benservito, non è contento, nonostante i 78 anni avrebbe voluto continuare. Si sfoga con L'Espresso: «Mi hanno chiamato e comunicato che il governo preferisce la discontinuità. Non ci sono cose che non vanno, o cose che vanno raddrizzate: la mia carriera era il problema. Non la posso cedere ad altri, purtroppo. Anzi ne vado fiero. Quando sono arrivato l'azienda era un disastro, era in vendita. Il governo non sapeva che farsene. Oggi ha un ottimo bilancio e 36 miliardi di ordini. Lascio questa dote e i miei migliori auguri».

E’ morto Giuseppe Bono, ex ad di Fincantieri. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l’8 Novembre 2022.

Giuseppe Bono aveva affiancato alla carriera dirigenziale anche quella da docente universitario alla Luiss di Roma. A maggio 2014 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Nel gennaio 2017 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Legion d’Onore

A darne notizia su Twitter è stato il ministro della Difesa Guido Crosetto: “Un amico fraterno, grande uomo, straordinario capitano d’industria” – ha scritto il ministro. “Ha dedicato tutta la sua vita a costruire ricchezza per l’Italia. Lo conobbi appena arrivato a Fincantieri, che era in grave difficoltà. Ora ha i migliori prodotti al mondo” Giuseppe Bono è scomparso all’età di 78 anni. Bono è stato per vent’anni alla guida di Fincantieri, dove era stato nominato il 29 aprile 2002 amministratore delegato della società di cantieristica a controllo pubblico, restando in carica fino al 15 maggio di quest’anno, quando al suo posto era subentrato Pierroberto Folgiero.

Bono era nato nel 1944 nel profondo sud a Pizzoni, in provincia di Vibo Valentia, che era sposato e padre di due figli, si era laureato nel 1970 in Economia all’Università di Messina con una tesi su “Budget e Piani Pluriennali in una grande”. Dopo i primi passi nel gruppo Fiat-Finmeccanica, era stato nominato amministratore delegato della società finanziaria Aviofer. Dal 1991 al 1993 era stato direttore generale di Efim e nel 1997 era diventato direttore generale di Finmeccanica. Successivamente nel 2000, ne era diventato l’amministratore delegato, incarico ricoperto per due anni prima del passaggio in Fincantieri, di cui diventa ad nel 2002 al posto di Pier Francesco Guarguaglini, carica che ha lasciato nella primavera scorsa.

Giuseppe Bono aveva affiancato alla carriera dirigenziale anche quella da docente universitario. Fino al 2010, infatti, è stato titolare della cattedra di “Sistemi di Controllo di Gestione (Programmazione e Controllo)” all’ Università Luiss. Il 23 maggio 2014 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere del Lavoro. Il 25 gennaio 2017 è stato insignito dell’onorificenza di Cavaliere della Legion d’Onore. Dal 2013 è anche Presidente di Confindustria Friuli Venezia Giulia. Il 20 aprile 2022 lascia la guida di Fincantieri

Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti con una nota lo ha ricordato “Con grande dispiacere ho appreso la notizia della morte di Giuseppe Bono. “Maiora premunt” mi aveva scritto appena qualche giorno fa, in un veloce scambio di messaggi. Le sue ultime parole, per quanto mi riguarda: anche in quel motto ho letto ancora una volta tutta la sua passione e amore per l’industria italiana. Una passione che ha coltivato negli anni in maniera concreta fino all’ultima lunghissima esperienza come amministratore delegato in Fincantieri. Un percorso, un modo di agire disinteressato e competente che è di esempio per tutti noi“. Redazione CdG 1947

Addio a Bono, fece grande Fincantieri.  Vent'anni al timone del colosso navale. Meloni: "Perdita dolorosa". Redazione il 9 Novembre 2022 su Il Giornale.

Fincantieri nel ricordarne la figura l'ha definito «un grande condottiero». Giuseppe Bono, roccioso calabrese di Pizzoni (Vibo Valentia), morto ieri all'età di 78 anni, è stato a lungo un grande manager dell' industria pubblica, alla guida per venti anni (aprile 2002-aprile 2022) di Fincantieri.

Inizia la carriera nel gruppo Fiat-Finmeccanica. È poi amministratore delegato di Aviofer e quindi inizia il suo percorso da manager pubblico entrando in una delle tre grandi finanziarie di Stato, l'Efim, della quale per tre anni è direttore generale. Passa poi a Finmeccanica con lo stesso ruolo, per poi diventarne amministratore delegato. L'ingresso in Fincantieri arriva nel 2002, come ad. E nei 20 anni di guida ha trasformato radicalmente la società, rendendola un colosso internazionale. Una delle poche realtà in grado di competere con i potentissimi cantieri asiatici del settore navalmeccanico.

Al rilancio della compagnia Bono ha fatto seguire un percorso di internazionalizzazione acquisendo per primo nel 2009 un gruppo che a tutti sembrava decotto - l'americano Marinette, fornitore di riferimento della U.S. Navy e della U.S. Coast Guard - ma che nel tempo si sarebbe rivelato un successo: oggi è il primo cantiere non statunitense ad essersi aggiudicato commesse per la Us Navy. Nel 2013 fu la volta di Stx Osv, oggi Vard, leader nella costruzione di mezzi di supporto alle attività di estrazione e produzione di petrolio e gas natural. Su queste basi Bono ha spinto la Fincantieri verso l'export di navi militari (Qatar, Algeria, Egitto, India). Infine, nel comparto crocieristico ha saputo arricchire il parco clienti passando da un mono committente, a praticamente tutti gli armatori del comparto. Tanto che oggi una nave da crociera su tre è uscita da uno degli 8 cantieri italiani (o degli altri nel mondo).

Bono aveva anche tentato una campagna di Francia: intendeva acquisire gli storici Chantiers Saint-Nazaire (poi Stx, poi Chantiers de l'Atlantique) per costituire un polo europeo, convinto che in epoca di globalizzazione l'unica soluzione per sopravvivere è quella accorpare le forze. La Francia di Hollande reagì bene, poi però con l'ascesa al potere di Macron, lo spirito nazionalistico prese il sopravvento. Convincenti furono altre due tappe di Bono, in Italia: lo sbarco in Borsa e la ricostruzione del Ponte di Genova. Tantissime le espressioni di cordoglio, dal presidente Mattarella, che lo aveva insignito Cavaliere del Lavoro, alla premier Giorgia Meloni: «l'Italia lo piange, è una perdita dolorosa».

·         E’ morta la musicista Mimi Parker.

Mimi Parker, morta la batterista, cantante e autrice dei Low. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 6 novembre 2022.

Mimi Parker, batterista, cantante e cantautrice della band indie Low, è morta: le era stato diagnosticato un cancro alle ovaie nel dicembre 2020. Aveva 55 anni. A darne notizia è stato il marito e compagno di band Alan Sparhawk con un tweet. «Amici, è difficile esprimere l’universo in un linguaggio e in un breve messaggio, ma Mimi è morta la scorsa notte, circondata da famiglia e amore, compreso il vostro. Mantenete il suo nome vicino e sacro. Condividete questo momento con qualcuno che ha bisogno di voi. L’amore è davvero la cosa più importante». La notizia segue la cancellazione di una serie di date dal vivo, legata alle preoccupazioni circa la salute di Parker. Dopo una diagnosi alla fine del 2020, la musicista aveva iniziato le cure per il trattamento per il cancro nel 2021 e aveva rivelato pubblicamente il suo stato di salute in un’intervista podcast all’inizio del 2022.

Mimi Parker era nata nel 1967 ed era cresciuta in una piccola città fuori Bemidji, nel Minnesota. Aveva iniziato a sperimentare con la musica sin dalla giovane età. Raccontava di aver trovato nella musica «un conforto, un luogo di fuga». Aveva incontrato il futuro compagno di band e marito Alan Sparhawk alla scuola elementare, prima che formassero i Low nel 1993, con il bassista John Nichols. Creatori dello slowcore, i Low sono considerati indiscutibilmente come una delle band più influenti del rock alternativo degli ultimi 30 anni. Il primo disco, «I Could Live in Hope», 1994, rappresenta una pietra miliare della storia del rock. Nel corso degli anni il gruppo ha lavorato con Kramer, Dave Friedman e Steve Albini, che ha salutato Parker con un post su Twitter.

·         È morto il musicista Carmelo La Bionda.

È morto Carmelo La Bionda, con il fratello fece la hit «One For You, One For Me». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2022.

È morto nella sua casa a San Donato, a Milano, Carmelo La Bionda che con il fratello Michelangelo formava il duo musicale La Bionda, conosciuto anche col nome artistico D. D. Sound e considerato tra gli inventori della disco music italiana. Nato il 2 febbraio 1949 a Ramacca, in provincia di Catania, milanese d’adozione dal 1954, Carmelo La Bionda aveva 73 anni ed era malato di tumore da un anno. I fratelli La Bionda hanno fatto ballare intere generazioni, il loro grande cavallo di battaglia e ancora oggi successo mondiale è «One For You, One For Me», pubblicato tra il 1977 e il 1978. Il singolo, uscito su etichetta discografica Baby Records, raggiunse, tra gli altri, il primo posto delle classifiche in Belgio, il secondo in Germania e il terzo in Svizzera. Altro grande successo fu l’innovativa e ormai cult «I Wanna Be Your Lover» (campionata da Caparezza nel suo brano Titoli).

I due fratelli La Bionda sono stati attivi soprattutto tra gli anni Settanta e Ottanta, quando hanno pubblicato sette dischi, dal loro debutto del 1972 «Fratelli La Bionda s.r.l.» a «I Wanna Be Your Lover» del 1980. Solo 18 anni dopo, nel 1998, sarebbe arrivato il loro nuovo e ultimo album, «InBeatween». Negli anni Ottanta, inoltre, i due musicisti fondarono gli studi di registrazione Logic Studios di Milano: qui negli anni successivi ospitarono artisti di fama mondiale come Ray Charles, Robert Palmer, Paul Young. I Depeche Mode vi registrano «Violator» (forse uno degli album più importanti della loro carriera, che contiene «Personal Jesus»), e tra i più recenti artisti che hanno inciso ai Logic Studios figurano Laura Pausini, Nek, Alessandra Amoroso, Rihanna, Pooh, Simona Molinari, Peter Cincotti, Simple Plan e l’amico e dichiarato ammiratore Paolo Nutini.

 Morto Carmelo La Bionda, padre della disco music italiana. Tra le sue scoperte Amanda Lear e i Righeira. Redazione Spettacoli su La Repubblica il 5 Novembre 2022.

Il suo nome d'arte era D.D. Sound. Una lunga carriera tra De André e Mia Martini

E' morto stamattina nella sua casa a San Donato, a Milano, Carmelo La Bionda  che con il fratello Michelangelo formava il duo musicale 'La Bionda', conosciuto anche col nome artistico D. D. Sound e considerato tra gli inventori della disco music italiana. Nato il 2 febbraio 1949 a Ramacca, in provincia di Catania, milanese d'adozione dal 1954, Carmelo La Bionda aveva 73 anni ed era malato da un anno. Aveva un tumore che ha molto combattuto. Lo annunciano il figlio Francesco Paolo e i familiari. I funerali si terranno martedì 8 novembre alle 14.30 alla chiesa di Santa Barbara a San Donato milanese.

Le collaborazioni con De André e Mia Martini

I fratelli La Bionda hanno fatto ballare intere generazioni, il loro grande cavallo di battaglia e ancora oggi successo mondiale è "One For You, One For Me". Cresciuto in un quartiere popolare di Milano, San Luigi, dove si era trasferita la famiglia nel 1954, Carmelo aveva preso il diploma di perito elettrotecnico e con Michelangelo, il più giovane dei due fratelli, nato nel 1952, aveva cominciato a scrivere canzoni nel 1970, spronato dalla casa discografica Ricordi. Il debutto come autori dei due visionari fratelli, il cui percorso artistico e di vita è indissolubilmente legato,  è con 'Primo sole, primo fiorè interpretata al Festival della canzone di Venezia dai Ricchi e Poveri, freschi della vittoria a Sanremo. I fratelli La Bionda  collaborano poi con Mia Martini - per la quale Michelangelo scrive con Dario Baldan Bembo e Bruno Lauzi  'Piccolo Uomo'.

Nel giro di pochi anni riescono a imporsi come compositori, artisti, produttori discografici ed editori, sulla scena musicale internazionale.  Nel 1972 pubblicano il loro primo album, Fratelli La Bionda Srl. Nel 1974 suonano le chitarre acustiche dell'album di De Andrè (Volume Ottavo), e con il secondo album Tutto va Bene approdano a Londra nei mitici nuovi studi della Apple e lavorano con Phil McDonald e il pianista Nicky Hopkins, section player dei Rolling Stones. E'  poi il momento di Monaco di Baviera, capitale della dance, dove portano Amanda Lear di cui sono produttori, e dove i Fratelli La Bionda  sono fra i primi a proporre la disco music in tutta Europa. Il primo disco album è del 1977 ma esce col nome d'arte D.D.Sound.  Da qui  la canzone Disco Bass che diventa la sigla di una delle trasmissioni più seguite della tv italiana, La Domenica Sportiva e 1-2-3-4 Gimme Some More, singolo che furoreggerà nelle discoteche e che mescola vari stili.

Il successo e i Righeira

Nel 1978  il singolo  One For You One For Me diventa un successo mondiale e nel 1980 arriva una nuova svolta con I wanna be your lover, considerata la prima canzone di pop elettronico e con la scoperta dei Righeira e il lancio nel 1983 di Vamos A La Playa. Produttori, pionieri del videoclip, i Fratelli La Bionda entrano anche nel mondo delle colonne sonore per film (Bud Spencer e Terence Hill) e nel 1985 iniziamo a fare musiche per la pubblicità. Nello stesso anno costruiscono i Logic Studios, gli studi di registrazione dove tra l'altro si incidono decine di jingles per spot di brand importanti. Come editori musicali hanno rappresentato per tanti anni autori americani di canzoni quali Stand By Me e Thriller.

Lutto nella musica italiana. È morto Carmelo dei La Bionda, con il fratello Michelangelo inventore della disco music italiana. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Novembre 2022

Carmelo La Bionda con il fratello Michelangelo era considerato tra gli inventori della disco music italiana. Le loro hit segnarono un’epoca: da One for you, one form me a Disco Bass, fino a tutte le collaborazioni con altri artisti. Carmelo La Bionda è morto sabato mattina a San Donato a Milano, aveva 73 anni. A dare la notizia il figlio Francesco Paolo e i familiari. I funerali si terranno martedì prossimo, 8 novembre, alle 14:30 alla chiesa di Santa Barbara e San Donato milanese.

La Bionda era nato a Ramacca, in provincia di Catania, aveva tre anni in più del fratello. Era cresciuto però nel quartiere popolare di San Luigi a Milano dove la famiglia si era trasferita nel 1954. Si era diplomato come perito elettrotecnico e aveva cominciato a scrivere canzoni nel 1970 con il fratello, spronati dalla casa discografica Ricordi. Il primo album venne pubblicato nel 1972: Fratelli La Bionda Srl. Il primo disco album è del 1977 e uscì con il nome d’arte D. D. Sound.

Il duo ebbe il suo periodo di maggior successo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. La loro Disco Bass divenne la sigla di una delle trasmissioni più seguite della televisione italiana, La Domenica Sportiva. One for you, One for me è ancora oggi la loro canzone più famosa, fu un tormentone mondiale. Fu proprio la loro produzione di musica disco da ballare a renderli noti.

I La Bionda però furono anche ottimi produttori e collaboratori e autori di altri cantanti come Mia Martini, Ornella Vanoni e i Ricchi e Poveri. Con Fabrizio De André collaborarono alla registrazione dell’album Volume 8, realizzato con Francesco De Gregori, in cui i fratelli suonavano le chitarre. Hanno prodotto Amanda Lear, hanno scoperto i Righeira, hanno realizzato colonne sonore – tra gli altri per film di Bud Spencer e Terence Hill – e musiche per pubblicità.

Carmelo La Bionda era malato da circa un anno, combatteva contro un tumore.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·         È morto il musicista Aaron Carter.

È morto Aaron Carter: il rapper aveva 34 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 5 novembre 2022.  

Aaron Carter era nella sua vasca da bagno quando le forze dell'ordine hanno fatto irruzione nella sua casa di Lancaster, in California. Per il rapper e attore 34enne non c'era però più nulla da fare. I soccorsi sono stati allertati verso le 11 di questa mattina con una chiamata che riferiva di un uomo morto per annegamento.

L'uomo era il fratello minore di Nick Carter, 42 anni, membro della celebre boyband Backstreet Boys. L'artista è diventato famoso alla fine degli anni '90 come cantante pop quando aveva solo 9 anni, pubblicando poi quattro album nel corso della sua carriera. Negli anni aveva avuto diversi problemi legali, oltre ad essere stato diverse volte in riabilitazione per abuso di droghe. Al momento non è ancora nota la causa del decesso. Lascia il figlio Prince di un anno.

 Trovato morto in casa il rapper Aaron Carter. Il corpo senza vita dell'attore e cantante statunitense è stato rinvenuto nella vasca da bagno della sua abitazione a Lancaster in California. Novella Toloni su Il Giornale il 05 novembre 2022 

Aaron Carter è morto. L'attore e cantante aveva 34 anni e da anni combatteva con l'abuso di sostanze e medicinali. Il suo corpo privo di vita è stato rinvenuto da un amico nella vasca da bagno della sua abitazione a Lancaster, in California. La dinamica dell'accaduto non è chiara e sul caso, come da prassi, stanno indagando gli investigatori della omicidi. Ma secondo una prima ricostruzione Carter sarebbe morto annegato.

Il cadavere di Aaron Carter è stato trovato sabato mattina, dopo che al 911 è arrivata una chiamata di richiesta di soccorsi per un maschio bianco annegato nella vasca. Il sito Tmz, il primo a riportare la notizia del decesso del cantante, riferisce che non ci sarebbero elementi per ipotizzare un omicidio ma piuttosto una fatalità. Solo l'esito dell'autopsia, però, potrà fornire elementi sufficienti a capire cosa ha causato la morte dell'artista.

Aaron Carter era arrivato al successo alla fine degli anni '90 con il singolo "Crush On You" quando aveva solo 10 anni. Il suo album di debutto - "Aaron Carter" - lo proiettò nell'olimpo dei divi della musica americana e nel 2000 il suo successo si rafforzò con il secondo album in studio "Aaron's Party (Come Get It)". Il fratello, Nick Carter, componente della band dei Backstreet Boys lo volle sul palco del gruppo per aprire numerosi concerti in giro per il mondo. La carriera di cantante andò di pari passo con quella di attore con le apparizioni in serie di successo come Lizzie McGuire, Sabrina Vita da strega e Settimo cielo.

Nonostante la fama e il successo, la sua vita privata è stata costellata di episodi negativi: dai problemi con la giustizia all'abuso di sostanze stupefacenti fino alla dipendenza da farmaci. Tre anni fa Aaron Carter partecipò al programma televisivo americano The Doctors dove gli venne diagnosticata una schizofrenia e fece rivelazioni sconcertanti sugli abusi subiti dalla sorella. Entrato e uscito da alcune cliniche di riabilitazione, nel 2019 il fratello Nick ottenne un ordine restrittivo nei suoi confronti per minacce a sua moglie. Recentemente aveva fatto sapere di essere in cura per tornare a avere una vita regolare e potere così riottenere la custodia del figlio piccolo, Princeton, avuto da una recente relazione. Su Twitter, TikTok e Instagram era molto attivo e Carter ha scritto e condiviso foto e video fino a poche ore fa.

 Morto il cantante Aaron Carter, era il fratello di Nick dei Backstreet Boys. Aveva 34 anni. Redazione Spettacoli su La Repubblica il 5 Novembre 2022. 

Il decesso è avvenuto nella sua casa di Lancaster, in California, in circostanze non chiare. Dieci anni fa la sorella Leslie era morta a soli 25 anni

 Aaron Carter, rapper, attore e personaggio televisivo, fratello minore della star dei Backstreet Boys Nick Carter, è stato trovato morto nella sua casa di Lancaster, in California, in circostanze non chiare. Aveva 34 anni. Una fonte ha confermato il decesso a The Hollywood Reporter, dopo che la notizia è stata riportata dal sito TMZ. Un portavoce del Dipartimento di Polizia di Los Angeles ha dichiarato che una morte sospetta è avvenuta all'indirizzo di Carter, ma non ha potuto confermare l'identità.

Secondo TMZ, il corpo di Aaron sarebbe stato trovato nella sua vasca da bagno, dove sarebbe morto annegato.

Gli inizi con i Backstreet Boys e i dischi d'oro

Aaron Carter ha iniziato ad aprire i concerti dei Backstreet Boys a 9 anni durante un tour del 1997 e il suo album di debutto, Aaron Carter, è stato pubblicato nel corso di quell'anno, raggiungendo lo status di disco d'oro. Il suo album successivo, Aaron's Party (Come and Get It), è stato pubblicato nel settembre 2000 ed è diventato triplo disco di platino. Il disco contiene i singoli I Want Candy, Aaron's Party (Come Get It) e That's How I Beat Shaq. In seguito ha pubblicato gli album Oh Aaron (2001), Another Earthquake (2002), Most Requested Hits (2003), Come Get It: The Very Best of Aaron Carter (2006). Nel 2016 ha pubblicato il singolo Fool's Gold.

La carriera da attore

Aaron Carter era stato anche un attore. Le sue apparizioni in televisione includono i telefilm come Lizzie McGuire, Sabrina, vita da strega e Settimo cielo. Nel 2001 debuttò a Broadway in Seussical the Musical di Lynn Ahrens e Stephen Flaherty, con la parte di JoJo the Who. Aaron ottenne nel 2004 una piccola parte nella commedia Il lmio grasso grosso amico Albert. Il suo primo vero ruolo importante fu però nel film Popstar (2005), storia ispirata alla sua vera vita. Ha inoltre interpretato il ruolo di un pilota di motocross nel film Supercross (2005).

Il reality di famiglia e la tragedia della sorella

Aaron e i fratelli Nick, B.J. Leslie e Angel Carter hanno creato un reality show House of Carters, trasmesso negli Stati Uniti per la prima volta nell'autunno 2006. Ma sei anni più tardi, la sorella Leslie, nel gennaio 2012 all'età di 25 anni morì anche lei, in circostanze non chiare. 

Chi era Leslie Carter, la sorella dei cantanti Aaron e Nick morta nel 2012. Alberto Muraro il 06/11/2022 su Notizie.it.

Ecco tutto quello che c'è da sapere su Leslie Carter, morta nel 2012 

Nella serata di ieri, 5 novembre, un’immane tragedia ha sconvolto il mondo dello spettacolo internazionale: Aaron Carter, giovanissimo cantante e vip statunitense, è stato trovato morto nella vasca da bagno della sua residenza a Lancaster, in California, a soli 34 anni.

A riportare la tragica notizia è stato il magazine TMZ, che non si è però permesso di fare illazioni di sorta sulle cause della morte, ancora sconosciute.

Aaron Carter lascia così per sempre l’adorato fratello Nick, uno dei membri storici dei Backstreet Boys che già nel 2012 aveva dovuto dire addio all’altra adorata sorella, Leslie.

Chi era Leslie Carter

Quella dei Carter è una doppia tragedia familiare, a dieci anni di distanza.

Leslie, nata a Tampa il 6 luglio del 1986 era la terza di 6 figli e, come i fratelli, aveva intrapreso una carriera artistica, firmando nel 1999 un contratto discografico con la Dreamworks Records.

Tra le sue opere, per esempio, vale la pena ricordare il singolo Like Wow!, incluso nella colonna sonora del primo capitolo del film d’animazione Shrek. Leslie avrebbe anche dovuto pubblicare un album omonimo al singolo che però non vide mai la luce.

Leslie fu inoltre uno dei volti del reality show House of Carters, sulla storia della sua famiglia, trasmesso a partire dal 2006.

Il 31 gennaio del 2012 la donna, all’epoca appena 25enne, venne ritrovata priva di sensi nella casa del padre Robert e della matrigna Ginger Elrod Carter. Una volta giunte sul posto le forze dell’ordine non poterono fare altro che dichiararne la morte: in base a quanto riportò ABC News, sembra che il decesso fosse da collegare ad un abuso di farmaci.

·         E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.

E' morto Fabrizio Sciannameo, bassista di Alex Britti e amico di Webnotte. Ernesto Assante su La Repubblica il 5 Novembre 2022.

Musicista, compositore, autore di musica per il cinema e la tv, aveva 54 anni. Sua la "colonna sonora" della Ghigliottina a 'L'eredità'. Con la band di Mark Hanna aveva animato tutte le stagioni dello show online di Repubblica

E’ sempre difficile scrivere qualcosa che abbia davvero un senso quando scompare un amico. Così per me, per noi di Repubblica, per tutta la squadra che ha realizzato per tanti anni Webnotte, il dolore della scomparsa di Fabrizio Sciannameo, 54 anni, il bassista della band di Mark Hanna che ha animato le innumerevoli serate del nostro show online, è grandissimo e impossibile da racchiudere in parole.

Perché Fabrizio oltre a essere un bravissimo musicista, era prima di tutto un bellissimo essere umano. Definirlo simpatico è assai riduttivo: Fabrizio aveva le doti naturali del comico, di quelli in grado di dire una battuta senza ridere, di prendere ogni situazione, anche quella più complicata e caotica, dal verso dell’ironia e della risata, perché trasmetteva la sua allegria, contagiosa, a tutti quelli che aveva intorno. E sapeva tradurre tanto entusiasmo, e la sua gioia di vivere, in musica.

Webnotte, tutte le stagioni: la musica e i grandi ospiti

Fabrizio era un magnifico musicista, una bassista, un compositore, un autore di musiche per il cinema e la televisione, un bluesman dotato di notevolissima tecnica ma anche e soprattutto di una personalissima inventiva. Con la band di Mark Hanna ha suonato centinaia e centinaia di concerti e della band era il cuore pulsante, a Webnotte era sempre disponibile e attento, faceva show e arte, sapeva stare in scena e seguire ogni artista che arrivava al meglio delle sue possibilità. Possibilità che erano molto grandi, come sa bene Alex Britti, con il quale "Scianna" ha suonato moltissimo, collaborando a tutti i dischi del chitarrista romano e nella maggior parte dei tour.

«Quante ne abbiamo passate insieme», ha scritto Britti in un post, «Dal ‘96 al 2016 giornate in studio, chilometri, concerti, mangiate e bevute, risate e cazzate. Grazie Fabrizio». Sono stati tantissimi i musicisti con i quali ha collaborato, da Alex Baroni a Gino Paoli, molte le colonne sonore che portano la sua firma, tanti i dischi in cui compare il suono del suo basso e, tanto per spiegare la sua versatilità, tutto il pubblico televisivo italiano conosce a memoria un brano musicale da lui scritto, quello che fa da colonna sonora alla "Ghigliottina", momento clou de L’Eredità - game show di Rai 1 e di  massimo successo, condotto da Flavio Insinna - composto assieme a Tommaso Casigliani.

Cinquantaquattro anni sono veramente troppo pochi per lasciare questo mondo, la famiglia, gli amici, la musica, la vita. Sono troppo pochi per un ragazzo di mezza età che aveva fatto della musica la sua ragione di vita, non solo il suo mestiere. Sono troppo pochi per un amico vero, un musicista notevolissimo, un simpatico compagno d’avventura per me e per Gino Castaldo a Webnotte e in mille altre serate e spettacoli in giro per l’Italia. Ci mancherà, davvero, tantissimo.

·         E’ morto il batterista Marino Rebeschini.

Addio a Marino Rebeschini, il batterista e cofondatore de Le Orme è morto a 75 anni. Ilaria Minucci il 03/11/2022 su notizie.it.

Il batterista e cofondatore de Le Orme, Marino Rebeschini, è morto all’età di 75 anni dopo aver lottato a lungo contro un tumore. 

Il mondo della musica è in lutto dopo aver appreso dell’improvvisa scomparsa di Marino Rebeschini, ex batterista e cofondatore della band Le Orme. Il musicista aveva 75 anni.

Addio a Marino Rebeschini, il batterista e cofondatore de Le Orme è morto a 75 anni

Si è spento nella giornata di mercoledì 2 novembre l’ex batterista e cofondatore della band Le Orme Marino Rebeschini. Alla luce delle informazioni sinora diffuse, il musicista era malato di cancro e aveva lottato a lungo contro la malattia prima di morire all’età di 75 anni.

Rebeshini, nato a Marghera nel 1947, aveva debuttato nel mondo della musica appena ventenne quando ha registrato il suo primo singolo Fiori e Colori, distribuito nel 1967, insieme al gruppo di matrice veneta.

Origine e fondazione della band veneta

Le Orme è stato fondato a Marghera, periferia industriale di Venezia, sulla spinta del chitarrista veneziano Nino Smeraldie del muranese Aldo Tagliapietra, reduce dalla vittoria di un concorso per giovani cantautori e stanco della cover band di stampo anni ’60 con la quale si esibiva. Insieme ai due artisti, c’era anche il bassista Claudio Galieti e il batterista Marino Rebeschini.

In un primo momento, la band aveva deciso di chiamarsi Le Ombre per omaggiare gli inglesi Shadows ma poi avevano ripiegato per Le Orme dato che, in Veneto, era già presente una band con il medesimo nome.

·         Morto il manager Franco Tatò.

Morto Franco Tatò: addio all'ex manager. Da ilgiorno.it il 2 novembre 2022. 

E' morto a 90 anni il dirigente d'aziende Franco Tatò. L'ex manager era ricoverato a San Giovanni Rotondo, in Puglia, dove si sarebbe dovuto sottoporre a un intervento al cuore. Accanto a lui c'erano la moglie Sonia Raule e la figlia Carolina.  A darne notizia - riportata dall'agenzia Agi - la sua assistente. Era soprannominato 'Kaiser Franz' per il piglio impiegato nel risanamento economico dei gruppi che ha guidato nel corso della sua carriera.

Tatò era nato il 12 luglio 1930 a Lodi. Laureato in Filosofia a Pavia, ha proseguito il suo percorso di studi in Germania e ad Harvard. Ha iniziato la sua lunga carriera lavorativa all'Olivetti, quando aveva 24 anni. Successivamente ha lavorato vertice di grandi aziende come Enel e Fininvest. 

Morto il manager Franco Tatò, autore del libro «Perché la Puglia non è la California». Franco Tatò. Aveva 90 anni. Ha avuto un ictus prima di una operazione a San Giovanni Rotondo. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 02 Novembre 2022

Il manager Franco Tatò è morto per un ictus all’età di 90 anni. Era ricoverato a San Giovanni Rotondo (Foggia), all’Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza. Era alla vigilia di un intervento endocardico. Accanto a lui la moglie Sonia e la figlia Carolina. Lo rendono noto fonti vicine al manager.

A quanto si apprende, Tatò era giunto oggi stesso nell’ospedale Casa Sollievo della Sofferenza ed è morto poco dopo il ricovero. Era già in Puglia nella sua masseria a Fasano, nel Brindisino. Due anni fa, nel settembre 2020, in seguito ad una caduta nella masseria, aveva battuto la testa ed era stato ricoverato in gravi condizioni per qualche tempo, per poi essere dimesso. Tatò è nato a Lodi, ma la sua famiglia è originaria di Barletta. Autore del celebre volume «Perché la Puglia non è la California», aveva studi filosofici alle spalle, ma la sua vita lavorativa ebbe inizio in Olivetti, dove scalò tutte le posizioni. Intensa la permanenza nel gruppo Fininvest, ("Quando lo incontro in corridoio ho paura che mi guardi come un costo da abbattere", dichiarò il proprietario del gruppo, Silvio Berlusconi). Nel 1996 il Governo presieduto da Romano Prodi lo porta alla guida di Enel dove rimarrà fino al 2002. Dal 2003 al 2014 è stato amministratore delegato dell'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani.

BIOGRAFIA DI FRANCESCO TATÒ. Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Francesco Tatò (detto Franco) Lodi 12 agosto 1932. Manager. Dal marzo 2013 vicepresidente del colosso metalmeccanico Berco (gruppo Thyssen Krupp). Ex presidente del consiglio di amministrazione di Parmalat (2011-2014) ed ex amministratore delegato della Treccani (Istituto della enciclopedia italiana, 2003-2014). «Non ho mai lasciato un’azienda con un bilancio peggiore di quello che ho trovato». 

• Laureato in Filosofia all’Università di Pavia, «entrato all’Olivetti nel 1956, a partire dal 1970 è stato amministratore delegato di diverse società del gruppo informatico di Ivrea. Un’esperienza che è durata fino al 1982, quando è diventato presidente della tedesca Mannesmann. Passato nel 1984 alla Mondadori come amministratore delegato, cinque anni dopo è rientrato alla Olivetti.

E, solo due anni più tardi, un altro rientro: questa volta in Mondadori, per poi passare alla Fininvest. A metà degli anni Novanta l’incarico alla guida dell’Enel, dove è rimasto fino al 2001. Poi, di nuovo, un’esperienza nell’editoria, con l’ingresso ai vertici di Hdp, il gruppo (oggi Rcs Mediagroup) che pubblica il Corriere della Sera. Infine, il passaggio all’Istituto Treccani» (Giovanni Stringa). 

• «Quando da Lodi la mia famiglia si trasferì a Torino, alla fine degli anni Trenta, andavo a Porta Palazzo a giocare a “paligia”. Allora non si avevano giocattoli, i bambini giocavano per strada. Disegnavamo un cerchio per terra e ci mettevamo dentro tutti i nostri tesori, soprattutto figurine di calciatori. Poi vi lanciavamo a turno un piattino di metallo.

Tutto ciò che usciva dal cerchio veniva “guadagnato” da chi tirava: una forma di ridistribuzione del reddito. A me piaceva molto, soprattutto perché mi permetteva di imparare il piemontese. A scuola un compagno mi aveva apostrofato in dialetto. Io, non capendo, gli avevo risposto in milanese. Così lui mi bollò come “terùn”. Poi vennero i bombardamenti e non potei più andare a giocare» (Costanza Rizzacasa D’Orsogna) [Pan 8/11/2012].

• «Già gli elementi-base della sua biografia sono abbastanza straordinari. Quello che viene considerato uno dei manager più bravi d’Italia è in realtà un laureato in Filosofia presso il collegio universitario Ghislieri di Pavia. Lo stesso, peraltro, del ministro dell’Economia Giulio Tremonti, suo grande nemico e artefice della fine della sua carriera. 

Dopo l’università continuerà a occuparsi di filosofia, ma solo a titolo personale, come persona colta, alla sera dopo qualche lunga giornata come manager o sul Concorde, quando per un certo tempo fa il pendolare fra l’Italia e la Olivetti America. La sorte lo porterà poi a essere uno dei manager a cui Silvio Berlusconi deve di più.

E a essere uno dei primi manager la cui carriera viene troncata proprio dal governo di Berlusconi, e questo nonostante il suo lavoro all’Enel sia stato impeccabile e abbia portato a risultati di bilancio, e di crescita, assolutamente straordinari. Unico neo in un personaggio del genere: un carattere non facile (Kaiser Tatò o Kaiser Franz sono i due soprannomi che si porta dietro), un’abitudine a fare solo di testa propria e una certa vocazione a non curarsi dell’opinione della gente.

A un certo punto, quando è già all’Enel, si innamora di una bellissima ragazza molto più giovane di lui, Sonia Raule (che lo renderà padre, a settant’anni). E non la nasconde, va a vivere con lei e la presenta ovunque come la sua compagna. Un uomo così è ovvio che, alla fine, mette insieme pochi amici» (Giuseppe Turani). 

• «“Guardando Tatò, anche io mi sento un costo da abbattere”. Era il 1994 quando Silvio Berlusconi pronunciò la famosa battuta su quello che allora era il suo plenipotenziario alla Fininvest, l’amministratore delegato che, dopo aver risanato la Mondadori, era stato chiamato a fare la stessa cosa nella holding al vertice di tutta la galassia messa in piedi dal Cavaliere con una serie straordinaria di intuizioni imprenditoriali ma anche senza badare troppo ai conti.

E che proprio per questo si trovava in una situazione finanziaria delicata: a fine 1993, quando fu chiamato in Fininvest, i debiti viaggiavano sui 4 mila miliardi di lire. Oggi chi conosce bene i due protagonisti dice che in quella battuta è racchiusa l’essenza dei rapporti tra i due uomini. Perché le battute di Berlusconi non sono quasi mai casuali, ma spesso rappresentano una specie di “precipitato verbale” dei suoi sentimenti più profondi. 

Sentimenti che verso Tatò erano un misto di amore e odio, di ammirazione e timore (...) È un battitore libero, si muove da solo, con spregiudicatezza e incisività, arriva fino, si dice, a portare a Berlusconi i registri aziendali minacciando di farli proseguire per il tribunale. E presto viene accusato, soprattutto da Dell’Utri, di sacrificare lo sviluppo in favore del riequilibrio. E Berlusconi in mezzo, a comporre, con l’aiuto di Confalonieri, dissidi senza fine. Con grande ammirazione per le capacità gestionali di Tatò ma anche sconcerto per l’incapacità del manager di fare squadra, di piacere, di farsi amare» (Paolo Rastelli).

• Sotto la sua guida l’Enel è diventata una «multiutility» attiva in tutti i servizi, primi fra tutti quelli delle telecomunicazioni. A lui si deve la nascita di Wind, divenuto il terzo operatore di telefonia mobile italiano, e l’operazione Infostrada. Per proseguire nel gas e nell’espansione all’estero, con grosse operazioni (come l’acquisto della spagnola Viesgo). A lui è inoltre legata la privatizzazione dell’Enel e la quotazione in Borsa, avvenuta nel novembre 1999. 

• Tra il 2005 e il 2006 fu amministratore delegato delle Cartiere Paolo Pigna. Nel 2007 per qualche mese ad di Gemina.

• «L’addio alla Treccani, un addio non dei più armoniosi è finito perfino sulle pagine della Frankfurter Allgemeine Zeitung, detta Faz, uno dei più importanti quotidiani tedeschi. Tutto quello che riguarda Kaiser Franz, al secolo Franco Tatò, tagliatore di costi dal Meno al Po fino al Tevere, boia di sprechi aziendali, fa notizia nella Germania dove ha lavorato per molto tempo. Nell’articolo di Faz dove è definito “innovatore e leader economico” (…) dichiara di voler lasciare l’Italia e che la sua nuova patria potrebbe essere la Germania. 

(…) “Le rispondo sinceramente: se ricaverò abbastanza dalla vendita di quello che ho, penso di farlo. Non ho idea di quale sarà la meta: l’unico dubbio che ho sulla Germania è rappresentato dal fatto che mia moglie Sonia non conosca bene il tedesco. C’è pure la possibilità di scegliere la Francia, vedremo. È sicuro che non andrò in Libano, anche se ultimamente va molto di moda”. (…)» (Denise Pardo) [Esp 23/5/2014]. 

• Libri: Autunno tedesco – Cronaca di una ristrutturazione impossibile (Sperling & Kupfer 1992), A scopo di lucro. Conversazioni con Giancarlo Bosetti sull’industria editoriale (Donzelli 1995), Perché la Puglia non è la California (Baldini Castoldi Dalai 2000), Diario tedesco. La Germania prima e dopo il Muro (Baldini Castoldi Dalai 2004) ecc.

• «Non sono mai stato di sinistra. Io sono anche di sinistra, nel senso che sostengo le persone che stimo indipendentemente dal loro schieramento» (da un’intervista di Paolo Madron). 

• Sposato in prime nozze (1958) con Rosanna. Tre figli, tra cui Carolina, avuta nel luglio 2002 dalla Raule (nozze nel dicembre di quell’anno).

Addio a Tatò, il supermanager. Quando Berlusconi disse di lui: «Mi vede come un costo da tagliare». Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 2 novembre 2022.

Su Franco Tatò, scomparso mercoledì 2 novembre per un ictus a 90 anni mentre attendeva una delicata operazione al cuore in quella Puglia che aveva preso il posto della natia Lodi, non si può dimenticare un aneddoto legato agli anni passati alla guida di Fininvest. «Quando lo incontro in corridoio — disse di lui Silvio Berlusconi nel ‘93 — ho paura che mi guardi come un costo da abbattere». Una battuta, ma nemmeno troppo. Era detto «Kaiser Franz» non solo per gli anni passati a studiare in Germania, dove con la caduta del Muro di Berlino lo chiamarono a risanare alcune aziende dell’Est, ma anche per la rudezza con cui tagliava costi e personale. Arrivato nella società del Cavaliere su indicazione di Enrico Cuccia e di Mediobanca per sistemare i conti della società negli anni precedenti alla discesa in campo di Berlusconi, Tatò obiettò subito sull’acquisizione da oltre 10 miliardi di lire di un giocatore per il Milan, il francese Marcel Desailly. Lamentandosene con Berlusconi si sentì quasi appoggiato e si sentì dire: è Galliani che lo vuole! Finito da Galliani scoprì invece che era una prima scelta del Cavaliere.

Fu anche uno dei primi maestri di Marina Berlusconi che, giovanissima, lo seguiva con il blocchetto degli appunti in quell’azienda che qualche anno dopo avrebbe guidato. Nel ‘96 con il governo di Romano Prodi venne chiamato all’Enel con la missione di privatizzarla. «Fu il vero padre dell’Enel moderna» ricorda Chicco Testa che da presidente lo affiancò in quella missione non certo facile: far digerire alla Borsa e ai mercati l’azienda di Stato che aveva quasi 100 mila dipendenti. Ne tagliò circa 18 mila: come ricorda Pier Luigi Celli, chiamato a fare il capo del personale in Enel proprio da Tatò, per convincere la vecchia prima linea ad andarsene prepararono un ordine di servizio il lunedì mattina con l’abolizione di tutti i titoli ai direttori centrali. «Entro mezzogiorno — ricorda Celli — eravamo pieni di lettere con cui i vecchi dirigenti di oltre 65 anni accettavano di andare in pensione in cambio del mantenimento dei titoli. Riuscimmo così ad alimentare il ricambio con persone più giovani». Soprattutto con persone scelte sul mercato. L’Enel era una società dove si entrava per non uscire più, dove si saliva gradino per gradino. Non c’erano vasi comunicanti con il settore privato.

«Io fui il primo dirigente a venire assunto dall’esterno dalla nascita stessa dell’Enel» ricorda sempre Celli che con Tatò aveva anche un legame personale legato alle figlie: «Lui aveva perso i contatti con sua figlia, io con la mia. Scoprimmo poi che erano entrambe legate alla Madonna di Medjugorje. Poi mia figlia divenne una monaca di clausura, sua figlia andò a vivere in un Kibbutz». «Era molto ruvido ma dava grande libertà» riconosce Celli. Tra le altre cose nacque sempre in quel periodo la società di telecomunicazioni Wind. «Costruimmo il mercato dell’energia che non esisteva» conclude Chicco Testa. Grande amante di Capalbio («il venerdì facevamo sempre una riunione ma poi ci ritrovavamo a Capalbio per il fine settimana» ricorda Celli) e soprattutto della Puglia dove aveva acquistato delle tradizionali masserie che erano diventate il suo buen retiro con gli amici. La stessa regione difesa con un libro-atto di amore: «Perché la Puglia non è la California». La tesi: Internet avrebbe favorito la californizzazione della Puglia. Una previsione che in parte si è realizzata con la nascita di tante start up.

Le potenzialità delle tecnologie lo attrassero sempre. Ricorda Francesco Caio: «Quando andai a guidare la Merloni fu il primo a capire subito quello che stavamo facendo mettendo l’intelligenza dentro gli elettrodomestici, con la possibilità anche di gestire i picchi di energia». Un tema ancora oggi in agenda. Dei tanti anni passati in Olivetti si portò sempre dietro le scrivanie, letteralmente. Una volta in Enel fece mettere i mobili di ufficio Olivetti. E della sua scrivania aveva quello che è stato definito un «culto»: sempre in ordine, mai una carta sopra («le carte sono da buttare oppure rappresentano un lavoro che non hai ancora portato a termine», diceva). Sembra che l’attenzione per la scrivania fosse un’eredità degli anni passati con Carlo De Benedetti alla guida della Arnoldo Mondadori. Guai a toccargli anche una penna, lui la rimetteva a posto.

D’altra parte fu proprio la Olivetti la sua vera palestra. Vi era entrato nel 1956 a 24 anni, lavorando per i primi sei mesi alla linea di montaggio dello stabilimento di Ivrea. Racconterà: «Personalmente ritengo quel periodo uno tra i più utili per me dal punto di vista formativo, perché operare in catena di montaggio mi ha aiutato a comprendere le priorità e i valori di coloro che vi lavoravano». Ha fatto parte di innumerevoli consigli di amministrazione e ha guidato come presidente anche la Parmalat ormai passata alla famiglia Besnier dopo il risanamento di Enrico Bondi. Ma sono gli anni alla guida di Enel a rappresentarlo fino in fondo nella sua evoluzione di manager risanatore senza troppa pietà. Come quella volta in cui andò a Potenza come ricordato sempre da Celli: «Avevamo un piccolo aereo per girare e raccontare ai dipendenti il progetto che dovevamo affrontare. Potenza doveva essere chiusa e fusa con il centro di Bari. Chiaramente i dipendenti non erano per niente contenti di questo, ma io riuscii a trattare in un bar con i sindacati. Trovato l’accordo ci apprestavamo a bere quando vidi Tatò entrare inseguito da delle persone inferocite. Rimanemmo sotto assedio nel bar. Aveva detto ai politici che lui non avrebbe più assunto raccomandati e che ognuno doveva fare il proprio lavoro. Ci salvò la polizia che ci scortò direttamente all’aeroporto di Bari. Ecco chi era Tatò» 

E' morto Franco Tatò. Addio a "Kaiser Franz", il manager laureato in Filosofia. La Repubblica il 2 Novembre 2022 

Nato a Lodi nel 1932, è deceduto oggi in Puglia: aveva 90 anni. Ha lavorato e risanato alcune tra le più importanti aziende del nostro Paese

E' morto a 90 anni, a San Giovanni Rotondo in Puglia, Franco Tatò. Nella sua lunga carriera, il manager si guadagna due appellativi. Molti lo chiamano "il filosofo" per i suoi studi al Collegio Universitario Ghislieri di Pavia, la tesi in Filosofia teoretica su Max Weber, le specializzazioni in Germania e ad Harvard, negli Stati Uniti.

Molto più popolare è il sopranome di "Kaiser Franz" che gli viene attribuito per la durezza che mette in campo nelle ristrutturazioni industriali di cui è protagonista. Nella sua vita, Tatò è impegnato a guidare e, a volte, a risanare numerosi gruppi: da alcune società della Olivetti all'Enel, fino alle imprese della famiglia Berlusconi come Fininvest.

Tatò lavora in Olivetti dal 1956 al 1990 (sia pure con alcune pause in altre imprese). Arriva in azienda giovanissimo e, per sei mesi, è impegnato alla catena di montaggio dello stabilimento di Ivrea, "il periodo più utile e formativo della mia carriera", dirà più avanti.

Poco alla volta, scala le posizioni interne diventando amministratore delegato di Austro Olivetti (dal 1970 al 1973) e di British Olivetti, dal 1974 al 1976.

La sua fama di manager severo e inflessibile prende forma soprattutto quando, nel 1986, la Olivetti gli chiede di ristrutturare la Triumph Adler (9.000 dipendenti), che produce e vende macchine da ufficio e computer, appena acquistata dalla Volkswagen. In due anni, il taglio ai costi superflui e un nuovo modello produttivo permettono di salvare l'impresa.

Il lungo periodo in Olivetti è interrotto tra il 1984 e il 1986, quindi prima dell'esperienza in Triumph Adler, quando viene chiamato alla Arnoldo Mondadori Editore, di cui diventa vicepresidente e amministratore delegato.

Nel 1993, è amministratore delegato della Fininvest. Ma i rapporti difficili con i più stretti collaboratori di Silvio Berlusconi lo inducono ad accettare l'invito del governo a guidare l'Enel come ad, nel 1996.

In Enel diventa uno degli artefici delle privatizzazioni italiane. L'azienda elettrica viene quotata a Milano e New York (dopo un taglio al personale forte e doloroso). Tatò fonda Enel Green Power, leader delle energie rinnovabili, compra la spagnola Viesgo, fonda Wind, terzo operatore di telefonia mobile italiano.

Dall'agosto 2003 al 2014, è amministratore delegato dell'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, che accompagna verso una solida presenza in Rete. Tatò realizza il portale Treccani.it, sul quale tutto il sapere dell'Istituto è consultabile gratuitamente, così come il grande dizionario della lingua italiana e il dizionario biografico degli Italiani.

Al momento della morte accanto a lui la moglie, l'ex attrice e presentatrice televisiva Sonia Raule, e la figlia Carolina.

Addio a "Kaiser Franz" il manager filosofo. È stato numero uno di Mondadori, Fininvest ed Enel. Era noto per le sue capacità di "risanatore". Angelo Allegri il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

«Quando lo incontro in corridoio ho paura che veda anche me come un costo da tagliare». Così scherzava Silvio Berlusconi, e la sua frase è rimasta tra quelle che hanno segnato la carriera professionale di Franco Tatò, morto ieri sera all'Ospedale di San Giovanni Rotondo, dove avrebbe dovuto sottoporsi a un intervento al cuore. I cronisti economici lo avevano soprannominato «Kaiser Franz», e il nomignolo coglieva due tra le sue caratteristiche principali di manager. Per prima la severità, per così dire teutonica, con cui affrontava le situazioni aziendali più difficili, quelle in cui tagliare i costi diventava un'arma fondamentale. A pesare, poi, era la sua passione per la Germania, Paese in cui aveva colto alcuni tra i maggiori successi professionali e a cui ha dedicato più di un libro.

Tatò, lodigiano, classe 1932, era tutt'altro che un semplice «mani di forbice». Allievo del prestigioso Collegio Ghisleri di Pavia, laureato in filosofia con Enzo Paci con una tesi su Max Weber, si forma come executive in una delle scuole manageriali dell'Italia del secondo dopoguerra, l'Olivetti. Per il gruppo di Ivrea gira l'Europa: Londra, Vienna, la Germania, poi diventa numero uno internazionale del settore commerciale. In Germania torna per gestire la Triumph Adler, azienda appena acquistata dall'Olivetti che ha più di un problema di costi ed efficienza. In due anni il risanamento è completato e Tatò è pronto per incarichi ancora più ambiziosi. All'inizio degli anni Novanta Silvio Berlusconi lo chiama alla guida della Mondadori, appena strappata dopo un lungo braccio di ferro all'arci-rivale Carlo De Benedetti. A Segrate la sua immagine pubblica si consolida. Le cronache dell'epoca lo descrivono mentre ogni sera lascia l'elegante sede dell'architetto Niemeyer con la mazzetta degli amati giornali tedeschi sottobraccio; i retroscena raccontano della vicinanza a Marina Berlusconi, che accompagna nei primi passi della carriera manageriale.

All'incarico in Mondadori affianca per poco meno di due anni quello di numero uno operativo del gruppo Fininvest, impegnato in una delicata fase di riorganizzazione e consolidamento. Ma anche questa per il manager lombardo è solo una tappa. Romano Prodi lo chiama alla guida dell'Enel, mastodonte da 100mila dipendenti, viziato dal suo ruolo di eterno monopolista e non da molto trasformato in società per azioni. Tatò guida la quotazione in Borsa e il faticoso adattamento alla nuova realtà di mercato. Con lui il gruppo (che perde più di 20mila dipendenti), entra nel settore delle telecomunicazioni con Wind e nel futuro delle energie verdi. Nel 2002, ormai 20 anni fa, l'addio alla società elettrica. Tatò continua la sua attività professionale con una serie di incarichi di primo piano in diverse aziende. Fino al 2014, ricopre l'incarico di presidente della Parmalat ormai diventata francese e quello di amministratore delegato della Treccani.

Da anni ormai viveva in Puglia, in uno splendido casale a Fasano nel brindisino, con la moglie, l'ex attrice presentatrice tv Sonia Raule e la loro figlia Carolina. Alla regione in cui viveva (e di cui la sua famiglia era originaria) aveva dedicato uno dei suoi ultimi libri: «Perchè la Puglia non è la California».

·         Morto il manager Mauro Forghieri.

Da ansa.it il 2 novembre 2022. 

È morto questa mattina il modenese Mauro Forghieri, volto storico dell'automobilismo mondiale e della Ferrari in particolare. 

Ingegnere e stretto collaboratore di Enzo Ferrari, Forghieri era nato a Modena nel 1935, aveva 87 anni. 

È stato direttore tecnico della scuderia Ferrari dal 1962 al 1984, proprio con Forghieri la scuderia di F1 della casa automobilistica di Maranello ha vinto sette titoli costruttori

 Addio a Forghieri, la "Furia" che fece la storia del Cavallino. Morto a 87 anni il papà della serie "312 T" di Lauda, grazie a lui la Rossa in F1 ha vinto 7 titoli costruttori. Umberto Zapelloni il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

Come Mauro Forghieri non ne sono nati più. Per uomini capaci di progettare il telaio e il motore, scegliere i piloti e poi dirigere la squadra in pista, non c'è più spazio nella Formula 1 moderna dove domina l'iperspecializzazione. Se Adrian Newey è il genio della Formula 1 moderna, Mauro Forghieri, spentosi nel sonno a 87 anni nella sua Modena, è stato il mago della Formula 1 romantica, quella in cui il responsabile della Gestione sportiva ferrarista doveva fare quasi tutto da solo, anche far bollire l'acqua per la pasta con il saldatore, rischiando di farsi poi trovare addormentato sotto la doccia tanto era sfinito. La Ferrari ci ha messo un po' a onorare un uomo che è stato una parte importante della sua storia. Il messaggio social è arrivato a tempo quasi scaduto, ma con le parole giuste: «Le leggende durano per sempre. È stato un onore fare la storia insieme». Perché Mauro Forghieri è stato davvero leggendario anche se a lui piaceva raccontare che alla fine più della macchina contava il pilota: «Per me, la cosa che conta più di tutto è la sensibilità che il pilota sfodera quando porta la macchina al limite cosa che non è una cosa facile, soprattutto perché, appena appena vai un po' oltre, rischi di uscire di strada».

Eppure con le auto uscite dalla sua matita la Ferrari ha vinto dovunque, dalle gare in salita con Ludovico Scarfiotti, all'endurance negli anni Settanta. In Formula 1 con lui la Ferrari ha conquistato 54 gran premi, 7 mondiali costruttori e 4 mondiali piloti con Surtees, Lauda (2) e Scheckter. Avrebbero potuto essere molti di più senza il fuoco del Nurburgring che incrinò il rapporto tra Lauda e il Commendatore. La sua serie 312 T degli anni Settanta era una macchina imbattibile, almeno fino alla T4 campione del mondo con Jody Scheckter nel 1979. Poi venne l'era del Turbo che senza il tragico 1982 avrebbe portato altri mondiali piloti a Maranello. Se solo Forghieri fosse stato ai box quella domenica a Imola (era in permesso per la comunione del figlio) Gilles e Pironi non avrebbero mai litigato perché lui non avrebbe mai permesso un cartello tanto ambiguo. Anche se Mauro raccontava sempre che, secondo lui, Gilles non sarebbe mai diventato campione: «Lui era un puro. Non pensava al campionato. Pensava solo alla corsa e ci ha portato tanto affetto». Con Villeneuve, Forghieri andava su tutte le furie quando a Fiorano, Gilles, per evitare di completare il giro di raffreddamento e rientrare subito ai box, faceva un bel testa coda in pieno rettilineo e ogni tanto spaccava un semiasse. Allora ecco che Furia, come lo hanno sempre chiamato, tornava in azione. Epiche anche le sue litigate con Enzo Ferrari che lo rispettava molto, ma spesso arrivava allo scontro.

«Io diventavo più rosso di lui e urlavo più di lui», raccontava. Tra i due c'è sempre stato un rapporto complicato, ma pieno d'affetto. Enzo Ferrari gli aveva dato fiducia quando era poco più di un neo laureato arrivato in azienda per uno stage visto che era figlio di Reclus, uno dei tecnici motoristi più apprezzati dall'ingegnere («Il primo motore dell'Alfetta è nato a Modena a casa di Enzo Ferrari e gli uomini che lo hanno fatto erano quattro, tra cui mio padre», raccontava). Laureatosi con una tesi sul motore bicilindrico, Forghieri poi ha progettato ogni tipo di propulsore: 8 cilindri a 90 gradi, 12 cilindri da 60 a 180 gradi, 6 cilindri e 12 cilindri sovralimentati e ha firmato soluzioni che hanno fatto la storia introducendo gli alettoni (nel 1968 in Belgio) e il cambio al volante (bocciato da Gilles e poi riproposto a fine anni Ottanta da Barnard). Ferrari gli affidò il reparto corse quando aveva 26 anni dopo la fuga di Carlo Chiti e altri sei tecnici in lite con il Commendatore per colpa della moglie.

«Quando Enzo Ferrari mi chiamò per mettermi al mio posto, ho pensato che fosse pazzo perché mi mancava totalmente l'esperienza necessaria raccontava -. Avevo solo 26 anni ed ero appena uscito dall'università. Lui mi disse: Tu pensa a fare il tecnico e non ti occupare d'altro. Io ti starò vicino. E così ha fatto. Mi ha seguito sempre, nei momenti buoni e in quelli brutti, spesso anche quando sapeva che ero nel torto, perché si rendeva conto che quando hai un capo e gli mostri che ha sbagliato, il capo automaticamente perde di autorevolezza. È per questo che mi sosteneva». E Forghieri la sua autorevolezza ha continuato a portarla in giro fino all'ultimo. Sedersi a chiacchierare con lui era come aprire un'enciclopedia con la differenza che non ti annoiava mai.

Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2022.

«Furia» non c'è più. Mauro Forghieri ha spento il suo motore. Aveva 87 anni, è stato il tecnico più rilevante della storia Ferrari, assunto nel 1959, laurea fresca in Ingegneria meccanica. Enzo aveva dato retta a suo padre, Reclus, motorista del Cavallino. Fiducia a quel ragazzo sveglio, il cui carattere avrebbe segnato un sodalizio epocale. 

«Mi sgridava e quando urlava troppo, urlavo anch' io per difendermi. Gli dicevo: ma lei non è un ingegnere, è un ingegnere fatto con la matita». 

«Furia», appunto, il soprannome come una foto impregnata di energia, di Emilia; il dialetto per parlare con gente da grasso e olio, stessa terra, stessa passione. Genio in impennata permanente. Leggeva di tutto, arte e corse. Commentava le pagine del Corriere con una arguzia intatta. Un uomo carico di storia, di incontri memorabili, di gioie terribili: 54 vittorie nei Gp, 4 titoli mondiali piloti, 7 costruttori. Dimissioni datate 1984, in contrasto con gli interventi Fiat in casa Ferrari. Rapporto prolungato sino all'87. Progettava macchine intere, monoposto e prototipi. Un lavoratore indefesso e frenetico.

Maniche di camicia, gesti perentori, l'invidia per la libertà progettuale di Colin Chapman, il signor Lotus. Un lungo periodo d'oro iniziato negli anni 70 dopo aver sperimentato gli strumenti cardine dell'aerodinamica. È sua quella magnifica 312B che vinse con Regazzoni a Monza nel 1970. Quindi la serie che abbinava alla sigla 312 (tremila la cilindrata, 12 i cilindri) la lettera T, cambio trasversale. Macchine per il viaggio magnifico e drammatico di Lauda: «Se gli davi una monoposto in grado di vincere, Niki vinceva. Tutto qui». 

Entrambi dotati di personalità extrastrong, una stima più resistente di ogni contrasto. Lauda: «Mi disse: in quella curva non guidi al massimo. Risposi: come fai a saperlo, è dall'altra parte della pista. Lui: me l'ha detto un mio amico. L'amico era il suo medico. Mauro, che fatica. Ma è stato il più straordinario tecnico mai incontrato».

Anni «meravigliosi», come ha ricordato Luca di Montezemolo, direttore sportivo di quelle rosse: «Era un uomo geniale, con la Ferrari del cuore, ce lo invidiava tutto il mondo». Affetto e liti anche con Villeneuve che distruggeva telai e motori in rapide sequenze: «Mi raccomando, serve fare chilometri. Gilles: certo, lo so. E si schiantava dopo 500 metri». 

Con un rimpianto mai stinto perché a Imola, nel giorno dello sgarbo di Pironi, 1982, era assente. «Forse le cose sarebbero andate in modo diverso». Per Lamborghini realizzò un 12 cilindri testato da Senna con la McLaren, scartato causa accordo con Peugeot. Altro rimpianto. Una sfortunata Lambo F1, una quantità di progetti per la propria azienda, Oral. «Voglio ricordare con gratitudine Forghieri» ha commentato Benedetto Vigna, ad del Cavallino. Certo, perché Mauro resterà sempre legato a Enzo Ferrari, ai piloti della Ferrari. Amon, il più sensibile nei collaudi; Andretti il più ammirato, l'amicizia con Bandini, stesso anno di nascita, 1935, simili e umili le origini. La cui morte, Monaco '67, è rimasta una cicatrice sensibile. Incontrarlo, un piacere.

E ora le sue mani sul motore della 312B restaurata per l'amico Paolo Barilla riprendono forma in un abisso di malinconia. Mago Merlino che ripristina i suoi poteri. Disse: «Per Ferrari la fabbrica era tutto. Non esistevano domeniche, vigilie di Natale. Andai in vacanza a Portofino senza avvisarlo. Mandò la polizia a rintracciarmi». Il grande vecchio gli diceva: «Fai una macchina cla' vens ». «Furia», disegnando, sbraitando, la faceva. Macchine cla' vens . Ferrari vincenti. Buona continuazione caro Mauro, dovunque tu sia.

·         È morta la scrittrice Julie Powell.

È morta Julie Powell, l’autrice del libro (e film) «Julie & Julia». Aveva 49 anni. Chiara Amati su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2022.  

Stanca del suo lavoro in un call center newyorkese, s’era data alla scrittura di un blog in cui raccontava la sua impresa: cucinare, in un anno, le 524 ricette francesi di un libro di Julia Child. La sua storia è diventata un film interpretato da Maryl Streep 

Aveva solo 49 anni. È morta per un arresto cardiocircolatorio Julie Powell, scrittrice statunitense, autrice del best seller «Julie & Julia» da cui, nel 2009, una visionaria Nora Ephron trasse e diresse l’omonimo film, interpretato da Meryl Streep nel ruolo di Julia Child e da Amy Adams nella parte di Julie Powell, appunto. È morta il 26 ottobre scorso nella sua casa di Olivebridge, stato di New York. A dare l’annuncio il marito. Diventata famosa per aver dettagliato, in un blog, il suo mal de vivre, soffocata da un impiego noioso che, a 30 anni, aveva dovuto accettare per questioni economiche, Powell nel 2002 dall’asfissiante call center nel cuore di Manhattan comincia a pensare seriamente alla cucina. La sua fonte di ispirazione? Un vecchio libro di 524 ricette lasciatole dalla mamma — «Mastering the Art of French Cooking» — che, nel giro di un anno, studia, cucina, ripropone con un linguaggio dissacrante e autoironico. Perfettamente in linea con la personalità dell’autrice di quello stesso volume, Julia Child, che da spia per i servizi segreti statunitensi durante la minaccia nazista era passata, con una certa nonchalance, ai fornelli, insegnando agli americani degli anni Sessanta e Settanta i segreti della cucina francese. Due donne, Powell-Child, mille punti in comune. E un solo desiderio: vivere il proprio sogno, sì, anche in cucina «perché dopo una giornata in cui niente, e quando dico niente voglio dire n-i-e-n-t-e, una torna a casa e sa con certezza che aggiungendo al cioccolato rossi d’uovo, zucchero e latte, l’impasto si addensa: è un tale conforto!».

·         È morto lo stuntman Holer Togni.

È MORTO A 76 ANNI HOLER TOGNI, IL RE DEGLI STUNTMAN 

(ANSA il 31 ottobre 2022) - È morto ieri sera a Milano a 76 anni Holer Togni, esponente della nota famiglia circense. Dopo il classico percorso di trapezista e cavallerizzo Holer divenne celebre negli anni '70 e '80 per aver introdotto dagli Usa gli spettacoli acrobatici con auto e moto, gli show itineranti degli Stunt Cars che girarono per gli stadi e i palazzetti d'Italia e d'Europa.  

Nel 1995 entrò nel Guinness dei Primati per aver guidato un tir inclinato su tre ruote. Proprio per le sue capacità di stuntman, fu chiamato più volte a esibirsi nel mondo del cinema e della tv.

 (ANSA il 31 ottobre 2022) - Il 30 ottobre è scomparso a Milano Holer Togni, il leggendario stuntman sinonimo delle acrobazie su quattro ruote entrato nel cuore e nell'immaginario collettivo degli italiani per le sue straordinarie evoluzioni e per la sagoma inconfondibile dal cranio rasato riprodotta su milioni di manifesti. 

Nato nel 1946 nella celebre famiglia circense, dopo il classico percorso di trapezista e cavallerizzo nei primi anni '70 Holer lascia il circo e diffonde in Italia la novità assoluta degli spettacoli con automobili. Crea nel 1971 lo show itinerante "Stunt Cars", che girerà la penisola e l'Europa per oltre tre decenni, attirando fino ad un milione di spettatori all'anno, dai grandi stadi all'autodromo di Monza, e riproducendo dal vivo le spericolate imprese possibili solo al cinema. 

Holer Togni, dotato di carisma e comunicativa, diventa rapidamente lo stuntman più famoso d'Italia, e uno dei più temerari al mondo, chiamato con frequenza dal mondo del cinema e della tv, e formando numerosi allievi. Icona popolare, i suoi show riempiono gli stadi e diventano il momento più atteso di grandi appuntamenti come il Motor Show di Bologna.

In uno dei suoi spettacoli coinvolse perfino Gianni Agnelli in un'evoluzione a bordo di una Fiat 131 convincendo l'imprenditore a diventare sponsor dei suoi show. Senza limiti a rischi e creatività, Togni nel 1995 entra nel Guinness dei Primati per aver guidato un tir inclinato su tre ruote. Oltre all'attività artistica, fu importante il suo ruolo a fianco al fratello Divier nella diffusione italiana dei teatri tenda, in particolare con la creazione del Palatrussardi di Milano. 

È morto Holer Togni, addio al re degli stuntman. Il Tempo il 31 ottobre 2022

E'scomparso a Milano Holer Togni, lo stuntman noto per le sue acrobazie su quattro ruote. Lo rende noto la famiglia attraverso un comunicato stampa. Nato nel 1946 nella celebre famiglia circense, dopo il classico percorso di trapezista e cavallerizzo nei primi anni ’70 Holer lasciò il circo e diffuse in Italia la novità degli spettacoli con automobili. Nel 1971 creò lo show itinerante "Stunt Cars", che ha girato la penisola e l’Europa per oltre tre decenni.

Holer Togni nel corso della sua carriera, è stato chiamato con frequenza dal mondo del cinema e della tv e ha formato numerosi allievi. Icona popolare, i suoi show hanno riempito gli stadi, diventando il momento più atteso di grandi appuntamenti come il Motor Show di Bologna. In uno dei suoi spettacoli - ricorda la nota - coinvolse perfino Gianni Agnelli in un’evoluzione a bordo di una Fiat 131 convincendo l’imprenditore a diventare sponsor dei suoi show. Togni nel 1995 entrò nel Guinness dei Primati per aver guidato un tir inclinato su tre ruote. Oltre all’attività artistica, fu importante il suo ruolo a fianco del fratello Divier nella diffusione italiana dei teatri tenda, in particolare con la creazione del Palatrussardi di Milano.

·         È morto il senatore Domenico Contestabile.

È morto Domenico Contestabile, l’avvocato e senatore aveva 85 anni. Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2022. 

È morto a 85 anni l’ex senatore Domenico Contestabile. Lo ha comunicato il figlio, Giordano Bruno Contestabile, con un post su Facebook: «Mio padre è morto stamane, dopo una vita lunga, piena di amici, di avventure e di successo. Una vita piena, il che mi è confermato dai molti messaggi che sto ricevendo dai suoi amici di una vita, dai compagni di partito, dagli avvocati e politici con cui ha lavorato, dalle persone che lo conoscevano e lo stimavano».

Nato a Teano nel 1937, laureato in Giurisprudenza, avvocato, Domenico Contestabile era entrato in politica iscrivendosi al Partito socialista italiano. Nel 1994 aderisce a Forza Italia e viene eletto senatore, riconfermato nelle due successive legislature. È stato sottosegretario di Stato al ministero di Grazia e Giustizia nel primo governo Berlusconi, restando in carica fino alla caduta dell’esecutivo con il ribaltone di Umberto Bossi, il 17 gennaio 1995. Dal 1996 al 2001 è stato vicepresidente del Senato.

È morto Memmo Contestabile, compagno di lotte garantiste. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 29 Ottobre 2022 

Eravamo il primo “gruppo giustizia” di Forza Italia quando Silvio Berlusconi vinse le elezioni nel 1994, Alfredo, Memmo e io. Ministro della giustizia, sottosegretario e presidente della commissione alla Camera. Da ieri, dopo Biondi, anche Memmo Contestabile non c’è più. Se ne va una storia, e anche un po’ di quel che è stata la Forza Italia del sogno, del progetto di cambiamento nel cunicolo stretto dell’amministrazione della giustizia e della sua riforma.

Con una visione del processo, delle sue regole, ma anche dell’esecuzione della pena e dell’inutilità del carcere che aveva riunito con facilità la cultura liberale di Biondi e quella del vecchio socialista Contestabile, insieme alla ribelle radicale. Memmo era il più colto, ma quanto a ironia era una sfida continua tra lui e Alfredo. E tutti e tre riuscimmo persino a ridere su noi stessi dopo la prima bruciante sconfitta per esser stati costretti a ritirare, dopo solo sei giorni di vita, il famoso “decreto Biondi”. Quello che i talebani amici di Travaglio ancora oggi chiamano “salvaladri”, ma che nulla era se non una modifica della custodia cautelare che oggi non scandalizzerebbe più nessuno.

Ma in quei giorni, dopo la sortita televisiva degli uomini del pool e il famoso “disconoscimento di paternità” del ministro Bobo Maroni che aveva ritirato la firma, quella sosta forzata sulla via delle riforme fu il segnale della fine del sogno di giustizia e contribuì alla successiva caduta del primo governo Berlusconi. Memmo teneva banco, in quei giorni, raccontando come, mentre lui e Biondi correvano dal ministero alla Camera e poi al Senato, bande di cittadini inferociti li ricoprivano di sputi. Naturalmente non era vero, ma la sua fantasia descriveva il clima.

Il che mi riporta a un altro ricordo, e anche questo fa parte della storia della sconfitta delle prime battaglie garantiste degli anni novanta. Siamo a Napoli per la Conferenza internazionale sulla sicurezza, presieduta dal capo del governo. Che si chiama Silvio Berlusconi, e che viene raggiunto, mentre la sua figura è sotto i riflettori del mondo intero, da un invito a comparire degli uomini del pool, comunicato per via gogna mediatica dal Corriere della sera. Anche quella volta eravamo noi tre, a testa alta, al fianco del nostro Presidente, ma soprattutto della sfida sulle garanzie per ogni cittadino. Tutto quel che viene dopo ha poca importanza. La nostra battaglia l’abbiamo persa allora e quel tempo, quel sogno di giustizia difficilmente potranno tornare. Ciao Memmo, amico mio. Grande uomo, grande avvocato, grande garantista. Oggi mi sento più sola.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

·         E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.

Le mille vite di Jerry Lee Lewis. Gabriele Antonucci su Panorama il 27 Ottobre 2022.

La scorsa notte TMZ aveva annunciato la morte del padrino del rock and roll, una notizia poi smentita dallo stesso sito americano. L'artista è vivo, com'è viva la sua musica

Chi conosce da vicino il mondo dei media, sa bene che l'animale preferito dai giornalisti sia il "coccodrillo". Con esso non si intende, però, il grande rettile, né una celebre polo sportiva, ma un articolo preconfezionato sulla morte di un cantante, di un attore o di un politico in là con gli anni o con una grave malattia in stato avanzato. Un modo per portarsi avanti con il lavoro e non farsi cogliere alla sprovvista nel momento in cui si dovesse effettivamente verificare il lutto. Un trucco del mestiere a cui ciascuno di noi ha fatto ricorso, a patto, però, che la morte sia stata confermata ufficialmente dai familiari o da chi cura la comunicazione del "de cuius".

Ieri sera, poco prima della mezzanotte, si sono sprecati sul web i coccodrilli su Jerry Lee Lewis, uno dei padrini del rock and roll, dopo che la testata americana TMZ (la stessa che ha dato per prima la morte di Michael Jackson nel 2009) ne aveva annunciato la morte a 87 anni. Chi era andato a dormire ieri notte con l'amarezza per la morte del grande cantautore, stamattina ha assistito alla sua improvvisa resurrezione, la quale, oltre a prolungarne l'esistenza, ha confermato indirettamente l'immortalità delle icone del rock. «Jerry Lee Lewis non è morto. Ci hanno detto che è vivo ed è a Memphis. Qualcuno che si era detto il rappresentante di Lewis ci aveva prima detto che era morto. Ma non è così. Tmz si rammarica dell'errore», ha rettificato poco dopo il noto sito di show biz, ma ormai la notizia della morte di Lewis aveva già fatto il giro del mondo. Non è certo la prima volta, né sarà l'ultima, che sul web si annuncia o si vocifera di una morte illustre che, per fortuna, non c'è stata: qualche anno fa, uno noto rocker italiano veniva dato ormai per spacciato in numerose chat di giornalisti, eppure è ancora vivo e vegeto e continua a riempire gli stadi (eh già). Purtroppo la velocità, anzi, la frenesia nel dover dare celermente le notizie sul web provoca spesso passi falsi e gaffe evitabili con un pizzico di attenzione in più: per questo, da più parti, si auspica uno "slow journalism" , basato maggiormente sulla qualità e sulla riflessione rispetto alla velocità e alla contingenza delle "breaking news" a ciclo continuo. Lewis, noto soprattutto per due inni immortali come Whole Lotta Shakin' Goin' On e Great Balls of Fire (che fa parte della colonna sonora di Top Gun e del suo recente sequel Maverick) , ha vinto quattro Grammy, tra cui un Grammy alla carriera e due Grammy Hall of Fame Awards. È stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1986 e recentemente è entrato nella Country Hall of Fame, ma non è stato in grado di partecipare alla cerimonia perché influenzato. Il suo modo "fisico" di suonare il pianoforte, la sua esuberanza vocale e la sua proverbiale energia sono ancora oggi un faro per tutti i giovani artisti che vogliono custodire e tramandare il sacro fuoco del rock anche nel terzo millennio. 

Chiara Ugolini per repubblica.it il 24 maggio 2022.

Uno dei momenti più nostalgici e strappacuore di Top Gun: Maverick è il giovane Rooster, figlio di Goose, il miglior amico di Tom Cruise morto in un incidente nel film del 1986, che picchia forte i tasti del pianoforte nel locale dove tutti i piloti vanno a rilassarsi dopo l’addestramento. Lo stesso piglio scanzonato, la stessa voglia di fare casino, intorno a lui gli amici e la propria donna (allora era la moglie Meg Ryan, oggi probabilmente qualcosa di più di una collega Monica Barbaro) e soprattutto la stessa canzone: Great balls of fire di Jerry Lee Lewis. Tom Cruise – Pete Maverick la sente suonata da Miles Teller - Rooster e scatta il flashback.

È una pura coincidenza che a Cannes a pochi giorni di distanza arrivino il kolossal d’aviazione di Cruise con sequenze adrenaliniche, ma anche tanti momenti di pura nostalgia e un documentario dedicato al 'Killer', al primo e il più selvaggio praticante di un nuovo culto: il rock and roll. Così lo definisce Ethan Coen che firma il documentario Jerry Lee Lewis: Trouble in mind, 73 minuti di puro lavoro di montaggio e regia (nessuna voce fuori campo, nessuna intervista realizzata postuma) solo archivio, archivio e archivio cucito a piccolo punto dalla montatrice Tricia Cooke, moglie del regista.

Mentre il fratello Joel ha già consegnato agli spettatori il suo Macbeth in solitaria, Ethan Coen firma così il suo primo film da solista, prova generale per un film di finzione sempre a quattro mani, le sue e quelle della moglie Tricia Cooke, un film che dovrebbe essere girato questa estate e di cui si sa solo che è una commedia sexy, lesbica e on the road. 

Intanto il film su Jerry Lee Lewis, a Cannes in una proiezione speciale, è una full immersion nella sua musica, nel suo mondo, nel suo percorso unico. Quando in uno dei tantissimi show tv a cui partecipava il giornalista gli chiede: "Perché Elvis è diventato Elvis?", candido risponde: "Perché aveva il Colonnello Tom Parker che lo ha trasformato in una scimmia in gabbia". "Con Parker cosa saresti diventato tu?". "Non credo che saremmo mai andati d’accordo".

Jerry Lee Lewis ha cominciato a suonare il piano a otto anni, i genitori hanno impegnato la casa per comprarglielo, trascorreva quattro o cinque ora al giorno ad allenarsi, il suo diversivo era intrufolarsi nella Haney's Big House, il club di blues e soul dove poteva capitare di sentire suonare B.B. King. Dopo la parentesi da "session musician" e quella del Million Dollar Quartet, dove oltre a Lewis c'erano Elvis Presley, Carl Perkins e Johnny Cash, esplode la sua carriera solista. Whole Lotta Shakin' Goin' On è la prima hit, seguita poi dall'intramontabile Great balls of fire, i concerti diventano follie collettive, se Elvis dimena il bacino, Jerry Lee salta sul pianoforte, calcia lo scabello e picchia quei tasti così forte che la platea esplode... soprattutto le ragazze. Alla giornalista che nel video d'archivio gli chiede: "Cosa dicevano le madri di tutte quelle giovani?" "Con le madri non ho mai parlato".

Il documentario – come anche il biopic di fine anni Ottanta con Dennis Quaid e Winona Ryder – racconta poi la grande crisi del musicista che nel pieno del successo compie quello che – per lo stuolo di fan innamorate e per la società perbenista dell'epoca – non è solo un passo falso, ma un suicidio mediatico: sposa sua cugina di tredici anni, Myra Gale Brown, affermando: "Avevo talmente tanti cugini che ne ho dovuta sposare una". 

Jerry Lee Lewis passerà da guadagnare 10.000 dollari a sera a duecento, come ricorda la sorella nel documentario. Dovrà reinventarsi varie volte, tornando in cima alla classifica grazie a una nuova carriera country, ma anche alla musica religiosa. A quella sposa bambina ne sono seguite altre sei, molti successi ma anche molte cadute di alcol e droghe (nel film è la stessa Myra, molti anni dopo il loro matrimonio, a raccontare dei suoi demoni ma senza rabbia, senza risentimento). Oggi ha 86 anni e se qualcuno ancora gli chiede chi è il più grande musicista di rock and roll non ha dubbi: Jerry Lee Lewis. "Quello di Elvis era rockabilly". 

M. Mar. per “il Messaggero” il 29 ottobre 2022.  

«Sono in studio a incidere una nuova canzone. Che succede?», dice al telefono Bobby Solo. È appena uscita la notizia della morte di Jerry Lee Lewis. […] 

«Era il mio dio sulla terra. Sono dispiaciuto», dice. […] «Da ragazzino rimasi affascinato da quello stile. Non sapevo come definirlo. Crescendo cominciai a pensare che probabilmente la grandezza di Jerry Lee Lewis fu quella di unire due stili pianistici diversi.

Da un lato quello barocco del leggendario Liberace, che si esibiva con un incantevole piano bianco a coda. Dall'altro quello di Professor Longhair, partito da New Orleans alla conquista degli Stati Uniti con quel mix di blues e boogie-woogie e quello stile saltellante […] 

«Purtroppo non lo incontrai mai, però una quindicina d'anni fa mi capitò di condividere il palco e il microfono con sua sorella, Linda Gail Lewis, in un festival a Montecarlo. Dopo l'esibizione mi fece i complimenti: Che bella voce hai. Fu un onore».

[…] «Jerry Lee Lewis era l'ultimo delle star del rock' n'roll lanciate da quel genio di Sam Phillips. Un rivoluzionario vero che definì il concetto di rock. Non ce ne sono più come lui. Con la sua morte se ne va un'epoca che non tornerà più. La musica di Jerry Lee Lewis e la sua vita, a pensarci bene, abbracciavano alcune delle grandi dicotomie degli Stati Uniti: su tutte l'interazione tra l'America bianca e quella nera, incarnata dalla sua musica. I suoi dischi erano uno specchio di quei tempi».

Stefano Giani per “il Giornale” il 29 maggio 2022.

Lo chiamarono il «Killer» ma non ha ucciso nessuno. Il suo compleanno numero 41 lo festeggiò con un gesto estremo. Puntò la pistola contro il bassista Butch Owens, credendola scarica. E sparò. Seppur colpita al torace, la vittima sopravvisse. Era il 1976 e fu un miracolo. Tuttavia Jerry Lee Lewis non si è ritrovato quel soprannome per l'omicidio sfiorato ma per la carica rivoluzionaria, un po' selvaggia e anticonformista con cui suonava. Era del '35, coscritto di Elvis Presley, che un anno dopo quella festa di fuoco se ne era già andato.

Come lui, il «Killer» non era tipo da risparmiarsi e sul palcoscenico dava fondo a tutte le sue intemperanze, buttando via gli sgabelli del suo pianoforte, suonando con le scarpe, concludendo canzoni e concerti seduto sulla tastiera. «Il pubblico paga un biglietto per godersi uno spettacolo, non solo per qualche ora di buona musica», commentava. Già. Buona musica, però, era un concetto.

Un'opinione. E per i pionieri del rock non fu tutto in discesa. Le volte che la chiesa, di cui era parrocchiano, lo reclutò per suonare, si scoprì a gestire un bizzarro figlio di Dio che, quei canti, li aveva adattati in chiave rock. Fu chiaro a tutti che Jerry Lee Lewis non si sarebbe esibito per Gesù, come era convinta sua madre, ma sarebbe stato un profeta in ben altra chiave.

E avrebbe accompagnato con la sua colonna sonora vita, sogni e svago dei giovani anni Cinquanta e Sessanta, stregati da quel nuovo modo di cantare e ballare di cui «the Pelvis», Chuck Berry, Little Richard, Bo Diddley e naturalmente lui furono anticipatori. Ad aiutarlo pensò il destino e il «Killer» indovinò due successi planetari. 

Di Whole lotta shakin'going on faticò perfino a ricordare i testi e più di una volta dovette improvvisare, inventandoseli sul momento. L'altra, Great balls of fire, si era perfino rifiutato di cantarla. Almeno sulle prime. Erano troppo numerosi i riferimenti al sesso e al fuoco che non rispecchiavano il suo credo religioso. Invece divenne la hit di un'intera generazione. E non solo. Lui fu subito un mito.

Vendette centinaia di migliaia di dischi. Finì in cima alle classifiche. Fece ballare milioni di ragazzi. E si ritrovò ospite di ogni genere di show televisivi nell'America che usciva dalla guerra con tanta voglia di sfogarsi. 

Ed è su un attento lavoro di archivio, sui filmati originali dell'epoca e su spezzoni - anche ampi - dei suoi concerti che ha lavorato Ethan Coen nel film Jerry Lee Lewis: Trouble in mind, presentato a Cannes tra le proiezioni speciali e subito affollatissimo. Non è un docufilm, non è nemmeno un biopic, è una carrellata di canzoni, volti notissimi e testimonianze personali del protagonista che racconta se stesso senza essere intervistato. E spiega perché il leggendario Elvis sia diventato più famoso di lui.

«Tom Parker era un manager eccezionale, unico a scovare talenti e a imporli alla ribalta». Gli incroci con il festival di Cannes 2022 si moltiplicano perché proprio Elvis dell'australiano Baz Luhrmann è tra le opere fuori concorso di questa edizione e verrà presentato giovedì. Tom Hanks interpreta proprio i panni di Tom Parker che racconterà l'affermazione e il declino dell'artista di Memphis dalla propria particolare prospettiva dell'uomo che lo ha valorizzato.

Alle origini del rock, dunque, in un doppio ritratto che ricostruisce un pezzo di America chiuso in un fazzoletto. Dalla Louisiana di Lewis al Tennessee di Presley dove tutto ha avuto inizio ma non fine. 

E oggi Graceland è il santuario musicale di un personaggio scandagliato in ogni aspetto della sua vita pubblica e privata come non è accaduto per il film di Coen. L'abilità narrativa del regista di Fargo e Non è un paese per vecchi sta proprio nella capacità di sintesi - ottanta minuti scarsi di durata contro i 150 di Elvis - che non pregiudica esaustività e non indulge nel didascalismo.

Così, Jerry Lee Lewis viene messo a fuoco anche nel suo lato debole, i sette matrimoni tra i quali spicca il terzo con Myra Gale Brown, figlia di un cugino e sposata il giorno prima che compisse tredici anni. L'America puritana, buonista e benpensante fece fatica a mandarla giù e si sforzò di riderci sopra. La battuta più gettonata era che «il Killer avesse adottato sua moglie» ma, se gli Stati Uniti ironizzarono, l'Inghilterra non fu altrettanto remissiva. 

Ombre di incesto si mescolavano a un'età giudicata davvero prematura e, nel 1958, quando l'opinione pubblica scoprì che quella ragazzina al seguito del cantante non aveva i 15 anni da lui denunciati come paravento, l'intera tournée fu cancellata dopo i primi tre concerti, ai quali non seguirono i 34 previsti.

Alla fine degli anni Settanta il declino prese il colore delle malattie, per lo più dovute agli abusi di alcol più che di droga. Un'ulcera perforante fu scongiurata in tempo mentre un infarto gli impedì di suonare quel piano con cui aveva stregato il mondo. Lui, da bravo autodidatta quale fu in giovane età, tale si confermò anche in una fase meno verde. E, sempre da insegnante di se stesso, escogitò un sistema per non rinunciare alla tastiera.

Oggi, a 86 anni suonati, dopo aver visto morire tre figli e due mogli, è rimasto l'unico ancora in vita di una generazione mitica che non esiste più. Perché il suo destino è sopravvivere. Forse anche a se stesso

(Adnkronos il 28 ottobre 2022) - Il cantante e pianista statunitense Jerry Lee Lewis, leggenda del rock 'n' roll i cui dischi esplosivi, le esibizioni infuocate e gli scandali della vita reale lo hanno reso una figura affascinante e temibile, è morto oggi all'età di 87 anni nella sua casa di Memphis. 

Famoso per successi come "Whole Lotta Shakin' Goin' On" e "Great Balls of Fire", ha vinto quattro Grammy, tra cui un Grammy alla carriera e due Grammy Hall of Fame Awards. Era stato inserito nella Rock and Roll Hall of Fame nel 1986. 

L'agente di Lewis ha annunciato la morte del cantante in una dichiarazione, dopo che la notizia prematura della sua scomparsa era stata diffusa dal sito Tmz all'inizio della settimana. La causa della morte non è stata rivelata. Lewis era stato ricoverato in ospedale all'inizio del 2019 dopo aver subito un ictus, costringendolo a cancellare i suoi concerti primaverili ed estivi programmati per quell'anno. 

Sfacciato anticonformista con un ciuffo biondo ondulato e un ghigno arrogante, Lewis ha portato un tratto nervoso e un'impronta personale al suo mix di country, gospel e rhythm and blues. I primi due successi del cantante-pianista, "Whole Lotta Shakin' Goin' On" e "Great Balls of Fire", furono incarnazioni definitive del fascino primordiale del rock 'n' roll.

Matteo Sacchi per “il Giornale” il 29 ottobre 2022.

All'inizio della sua carriera, una vera palla di fuoco che ha attraversato il cielo del Rock&Roll, avevano cercato di dirgli che una chitarra sicuramente sul palco rendeva più di un pianoforte. Ma era solo perché non avevano capito cosa Jerry Lee Lewis era in grado di fare con quegli ottantotto tasti che lui sapeva divinamente percuotere con ogni parte del corpo. Sì, quella che è morta ieri a ottantasette anni è stata una vera leggenda della musica, una di quelle leggende nate in un'epoca in cui tutto non era ancora stato sterilizzato dallo star system e il talento sul palco era spesso accompagnato da trasgressione vera.

Nato a Ferriday, Louisiana, nel 1935, Jerry Lee Lewis aveva imparato da solo, a nove anni, a suonare il pianoforte. Una città minuscola che conta poco più di 3mila abitanti dove il modo migliore per mettere le mani su un piano era sgaiattolare all'interno della chiesa con i suoi cugini. Oppure andare alla Haney's Big House dove si riuniva ad ascoltare il blues la maggioranza nera degli abitanti della città. Così è nata l'impronta pianistica di Lewis, una fusione primigenia di rhythm and blues, boogie woogie, gospel e country music.

A 14 anni si esibiva per la prima volta in pubblico in un concessionario di auto. Dopo la madre lo iscrisse nella Southwestern Assemblies of God University, un college cristiano a Waxahachie, in Texas, convinta che suo figlio avrebbe cantato per il Signore... E la questione della religione, del peccato e la pressione della famiglia avrebbero perseguitato il pianista molto a lungo nella sua vita, anche quando la musica lo aveva già portato molto lontano dall'esibirsi nelle chiese.

Lewis pubblicò il suo primo disco nel 1954 e poi, un paio d'anni più tardi venne notato da Jack Henderson Clement, un signore che sporgendo l'orecchio da sotto il suo cappello da cowboy ha scoperto anche Johnny Cash. Lo scritturò per l'etichetta Sun, cercando di staccarlo dal pianoforte, dimostrazione che nessuno è perfetto. Jerry Lee si distinse subito come «session musician», suonando il pianoforte per accompagnare gli altri artisti della Sun, tra cui Billy Lee Riley e Carl Perkins. Diede vita anche ad una jam session nota come il Million Dollar Quartet. Per capirci, oltre a Lewis: Elvis Presley, Carl Perkins e Johnny Cash.

Lui ed Elvis duettarono in famosi brani gospel, dando vita ad una registrazione di 70 minuti che è rimasta nella storia. Nel 1957 il pianoforte indiavolato e il distillato di rock&roll che caratterizzano il suono di Whole Lotta Shakin' Goin' On gli diedero fama internazionale. Il gruppo che accompagnò Lewis nell'incisione del singolo era composto dal cugino J.W. Brown al basso, Jimmy Van Eaton alla batteria e Roland Janes alla chitarra; il pezzo fu registrato al primo tentativo. 

Ma non fu l'incisione a fare la differenza, la differenza era veder suonare Lewis dal vivo, basta guardare qualche filmato dell'epoca per rendersene conto. Un ciclone che investe la tastiera e di riflesso il pubblico. Il piano non sembra nemmeno essere fermo sul palco, rispetto a Lewis e al suo pianoforte che vorticano era tutto il resto a sembrare rallentato.

Subito dopo arrivò Great Balls of Fire, registrata nei Sun Studios a Memphis l'8 ottobre 1957, e pubblicata su disco singolo per la Sun Records nel novembre dello stesso anno. Il singolo raggiunge la seconda posizione della Billboard Hot 100, la terza della classifica R&B e la prima nella classifica country. Inoltre il singolo arrivò in vetta anche alla classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito. 

Non fu una genesi facile quella di Great Balls of Fire, la canzone sembrava a Lewis troppo blasfema. Ma non fu la canzone a scandalizzare il mondo, fu il disastro della vita privata di Jerry Lee. Il pianista si è sposato sette volte e ha avuto sei figli di cui uno è morto in un tragico incidente. Non è possibile ricostruire nello spazio contenuto di un articolo di giornale l'entità e la complessità di questo gigantesco garbuglio emotivo, condito anche di alcol e droghe. Basti dire che il suo primo matrimonio, con Dorothy Barton, durò 20 mesi, da febbraio 1952 a ottobre 1953.

In un'intervista del 1978 per People, Jerry Lee ammise candidamente: «Avevo 14 anni quando ho sposato mia moglie, lei era troppo grande per me. Aveva 17 anni». La validità del suo secondo matrimonio, con Jane Mitchum, rimase sempre dubbia, in quanto fu celebrato 23 giorni prima che il divorzio dalla prima moglie fosse effettivo. Durò solo quattro anni. La coppia ebbe due figli: Jerry Lee Lewis Jr. (1954-1973) e Ronnie Guy Lewis (nato nel 1956). 

 Il terzo matrimonio, con la cugina di secondo grado, Myra Gale Brown, è durato 13 anni. Quando i due si sposarono lei aveva solo 13 anni. La coppia fece due cerimonie di nozze, perché quando si svolse la prima (alla chetichella a Las Vegas), lui tanto per cambiare non aveva ancora completato il divorzio dalla seconda moglie. Quando nel 1958, durante un suo tour in Inghilterra, la stampa scoprì la vera identità di quella ragazzina che, insieme alla sorella minore del cantante, lo aveva accompagnato, scoppiò il finimondo. Il tour fu cancellato dopo appena tre concerti, annullando i restanti 34.

Lo scandalo seguì Jerry Lee Lewis in America, e comportò la sua uscita dalla scena musicale. Furono anni difficili, la sua popolarità tornò ad aumentare solo a metà degli anni Sessanta. Il suo live-album del 1964, intitolato Live at the Star Club e registrato ad Amburgo insieme ai Nashville Teens, è considerato uno dei più grandi album di rock and roll dal vivo. 

Ma intanto la vita di privata di Jerry continuava ad essere un disastro: il figlio Jerry Lee Lewis Jr. rimase ucciso in un incidente stradale nel 1973.

Solo nel 1989 Lewis fu riportato alla ribalta da un film basato sulla sua vita, intitolato Great Balls of Fire! - Vampate di fuoco, di cui riarrangiò personalmente tutte le canzoni. Fu la consacrazione del killer del pianoforte. E sino al 2019, quando un ictus lo ha fermato, Lewis è rimasto un pianista da esibizioni mozzafiato. I tasti del pianoforte sono 88, sono finiti, ma quello che Lewis ci riusciva a fare era infinito. E anche ora nel morire «per cause naturali», come ha dichiarato il suo manager, si è permesso un colpo di teatro. Il sito Tmz, sbagliando, lo aveva dato per morto già all'inizio della settimana. Lewis è riuscito a sparigliare le carte anche alla nera signora.

Jerry Lee Lewis, morto a 87 anni il pioniere del rock and roll. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 28 ottobre 2022. 

Chissà se l’altro giorno è stato il diavolo o nostro Signore ad averlo, per finta, chiamato a sé. Chiunque sia stato dei due gli ha dato altre 48 ore prima di portarselo via definitivamente: già, Jerry Lee Lewis, uno dei padri fondatori del rock and roll, è morto per davvero, a 87 anni, nella sua casa di Memphis, Tennessee. Dopo che mercoledì notte il celebre sito di gossip negli Usa, Tmz, l’aveva dato per scomparso, salvo poi rimangiarsi la notizia pochi minuti dopo. Scatenando subito enorme commozione in tutto il mondo, come ieri, perché se il rock è diventato, nonostante tutti i suoi de profundis, il linguaggio globale del pianeta, lo deve a gente come lui, come Elvis, come Little Richards, come Chuck Berry, oramai tutti in paradiso. O, appunto, forse all’inferno.

Mai però come nel caso di Jerry Lee, il dubbio della destinazione finale è sommo: perché la vita di questo geniale pianista, nato poverissimo, figlio di contadini, a Ferryday, nella Louisiana profonda, ha sempre corso lungo il sottile crinale che separa la redenzione mistica dal peccato assoluto. Figlio di cristiani militanti, iscritto alla Southwestern Assemblies of God University, proprio in chiesa, da bambino, avrebbe iniziato a suonare il pianoforte che sarebbe diventata una sorta di appendice della sua esistenza, minotauro musicale, con dei tasti e bianchi neri al posto delle gambe. La via del successo sarebbe dovuta passare per la leggendaria Memphis, la culla del nascente rock’n’roll e per gli altrettanto leggendari studi della Sun Records, l’Elicona del genere, visto che anche un camionista di Tupelo, un certo Elvis Presley, avrebbe preso il via proprio da quei dintorni. Ma se il Re, come gli altri, avrebbe prediletto la chitarra come compagna di strada, Jerry Lee, presto diventato il suo antagonista, per stampa e deliranti fan, avrebbe imbracciato appunto il più avventuroso piano.

Diventando però, come Elvis, un rivoluzionario: Jerry Lee, presto soprannominato il Killer, è un bianco che suona la musica dei neri in mezzo ai neri, con canzoni che parlano di movimenti erotici nei fienili e di baci e vampate di fuoco, mentre ingaggia una sorta di amplesso con il suo strumento d’elezione che alla fine dà alle fiamme. Mettendo così a soqquadro la morale dell’America beghina e perbenista degli anni’50. Sì, sono Great Balls of Fire e Whole Lotta Shakin’, l’ambo vincente di Jerry Lee Lewis con cui avrebbe sbancato il pianeta. Ma da cui sarebbe iniziata subito la discesa agli inferi. Perché quell’America bianca e beghina, se tollera con disgusto che i suoi figli ballino questa musica da neri, gliela fa subito pagare quando si viene a sapere che il pianista ha sposato una cugina 13enne, mentre ancora non era divorziato dalla prima moglie. Successo globale e rovina immediata dunque, ecco l’inferno di Jerry Lee. Lo star system lo ripudia, lui cerca di virare, nel decennio successivo, verso i più rassicuranti country e gospel, ridicendosi cristiano convinto. Mentre, in realtà, gli succede di tutto, perde due figli, una moglie muore annegata (alla fine saranno sette) si distrugge tra droghe e alcol, arrivando quasi a uccidere per sbaglio il suo bassista con un colpo di pistola, ha incidenti stradali in serie.

E dagli anni’70 diventa in pratica un museo vivente, esibendosi spesso dal vivo, più volte anche da noi in Italia, e ammettendo di essere «stato all’inferno e ritornato più volte». Sarà un film non eccelso, ma molto visto, del 1989, Great Balls of Fire! - Vampate di fuoco, con Dennis Quaid e Wynona Rider a restituirlo alle nuove generazioni. Per diventare, scomparsi uno a uno gli altri dei dell’Olimpo del rock, il decano assoluto del genere. E dove ora sia finito, il buon Jerry, dunque non sappiamo. Quel che è certo è che, senza di lui, il rock and roll non sarebbe diventato quel che è diventato.

Una grande palla di fuoco brilla fra le stelle del rock. Morto a 87 anni un simbolo della musica: mago del pianoforte, incontenibile nella vita e sul palco. Matteo Sacchi il 29 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È morto Jerry Lee Lewis, leggenda del rock ’n’ roll. Aveva 87 anni. Nato a Ferriday, Louisiana, aveva imparato da solo a nove anni a suonare il pianoforte. E a 14 anni si era esibito per la prima volta in pubblico in un concessionario di auto locale. Fra i suoi maggiori successi c’è Great Balls of Fire, canzone divenuta uno dei simboli della cultura pop e parte della colonna sonora anche del film Top Gun. Jerry Lee Lewis di recente era entrato nella Country Hall of Fame.

All'inizio della sua carriera, una vera palla di fuoco che ha attraversato il cielo del Rock&Roll, avevano cercato di dirgli che una chitarra sicuramente sul palco rendeva più di un pianoforte. Ma era solo perché non avevano capito cosa Jerry Lee Lewis era in grado di fare con quegli ottantotto tasti che lui sapeva divinamente percuotere con ogni parte del corpo. Sì, quella che è morta ieri a ottantasette anni è stata una vera leggenda della musica, una di quelle leggende nate in un'epoca in cui tutto non era ancora stato sterilizzato dallo star system e il talento sul palco era spesso accompagnato da trasgressione vera.

Nato a Ferriday, Louisiana, nel 1935, Jerry Lee Lewis aveva imparato da solo, a nove anni, a suonare il pianoforte. Una città minuscola che conta poco più di 3mila abitanti dove il modo migliore per mettere le mani su un piano era sgaiattolare all'interno della chiesa con i suoi cugini. Oppure andare alla Haney's Big House dove si riuniva ad ascoltare il blues la maggioranza nera degli abitanti della città. Così è nata l'impronta pianistica di Lewis, una fusione primigenia di rhythm and blues, boogie woogie, gospel e country music.

A 14 anni si esibiva per la prima volta in pubblico in un concessionario di auto. Dopo la madre lo iscrisse nella Southwestern Assemblies of God University, un college cristiano a Waxahachie, in Texas, convinta che suo figlio avrebbe cantato per il Signore... E la questione della religione, del peccato e la pressione della famiglia avrebbero perseguitato il pianista molto a lungo nella sua vita, anche quando la musica lo aveva già portato molto lontano dall'esibirsi nelle chiese. Lewis pubblicò il suo primo disco nel 1954 e poi, un paio d'anni più tardi venne notato da Jack Henderson Clement, un signore che sporgendo l'orecchio da sotto il suo cappello da cowboy ha scoperto anche Johnny Cash. Lo scritturò per l'etichetta Sun, cercando di staccarlo dal pianoforte, dimostrazione che nessuno è perfetto. Jerry Lee si distinse subito come «session musician», suonando il pianoforte per accompagnare gli altri artisti della Sun, tra cui Billy Lee Riley e Carl Perkins. Diede vita anche ad una jam session nota come il Million Dollar Quartet. Per capirci, oltre a Lewis: Elvis Presley, Carl Perkins e Johnny Cash. Lui ed Elvis duettarono in famosi brani gospel, dando vita ad una registrazione di 70 minuti che è rimasta nella storia. Nel 1957 il pianoforte indiavolato e il distillato di rock&roll che caratterizzano il suono di Whole Lotta Shakin' Goin' On gli diedero fama internazionale. Il gruppo che accompagnò Lewis nell'incisione del singolo era composto dal cugino J.W. Brown al basso, Jimmy Van Eaton alla batteria e Roland Janes alla chitarra; il pezzo fu registrato al primo tentativo.

Ma non fu l'incisione a fare la differenza, la differenza era veder suonare Lewis dal vivo, basta guardare qualche filmato dell'epoca per rendersene conto. Un ciclone che investe la tastiera e di riflesso il pubblico. Il piano non sembra nemmeno essere fermo sul palco, rispetto a Lewis e al suo pianoforte che vorticano era tutto il resto a sembrare rallentato. Subito dopo arrivò Great Balls of Fire, registrata nei Sun Studios a Memphis l'8 ottobre 1957, e pubblicata su disco singolo per la Sun Records nel novembre dello stesso anno. Il singolo raggiunge la seconda posizione della Billboard Hot 100, la terza della classifica R&B e la prima nella classifica country. Inoltre il singolo arrivò in vetta anche alla classifica dei singoli più venduti nel Regno Unito.

Non fu una genesi facile quella di Great Balls of Fire, la canzone sembrava a Lewis troppo blasfema. Ma non fu la canzone a scandalizzare il mondo, fu il disastro della vita privata di Jerry Lee. Il pianista si è sposato sette volte e ha avuto sei figli di cui uno è morto in un tragico incidente. Non è possibile ricostruire nello spazio contenuto di un articolo di giornale l'entità e la complessità di questo gigantesco garbuglio emotivo, condito anche di alcol e droghe. Basti dire che il suo primo matrimonio, con Dorothy Barton, durò 20 mesi, da febbraio 1952 a ottobre 1953. In un'intervista del 1978 per People, Jerry Lee ammise candidamente: «Avevo 14 anni quando ho sposato mia moglie, lei era troppo grande per me. Aveva 17 anni». La validità del suo secondo matrimonio, con Jane Mitchum, rimase sempre dubbia, in quanto fu celebrato 23 giorni prima che il divorzio dalla prima moglie fosse effettivo. Durò solo quattro anni. La coppia ebbe due figli: Jerry Lee Lewis Jr. (1954-1973) e Ronnie Guy Lewis (nato nel 1956). Il terzo matrimonio, con la cugina di secondo grado, Myra Gale Brown, è durato 13 anni. Quando i due si sposarono lei aveva solo 13 anni. La coppia fece due cerimonie di nozze, perché quando si svolse la prima (alla chetichella a Las Vegas), lui tanto per cambiare non aveva ancora completato il divorzio dalla seconda moglie. Quando nel 1958, durante un suo tour in Inghilterra, la stampa scoprì la vera identità di quella ragazzina che, insieme alla sorella minore del cantante, lo aveva accompagnato, scoppiò il finimondo. Il tour fu cancellato dopo appena tre concerti, annullando i restanti 34. Lo scandalo seguì Jerry Lee Lewis in America, e comportò la sua uscita dalla scena musicale. Furono anni difficili, la sua popolarità tornò ad aumentare solo a metà degli anni Sessanta. Il suo live-album del 1964, intitolato Live at the Star Club e registrato ad Amburgo insieme ai Nashville Teens, è considerato uno dei più grandi album di rock and roll dal vivo. Ma intanto la vita di privata di Jerry continuava ad essere un disastro: il figlio Jerry Lee Lewis Jr. rimase ucciso in un incidente stradale nel 1973. Solo nel 1989 Lewis fu riportato alla ribalta da un film basato sulla sua vita, intitolato Great Balls of Fire! - Vampate di fuoco, di cui riarrangiò personalmente tutte le canzoni. Fu la consacrazione del killer del pianoforte. E sino al 2019, quando un ictus lo ha fermato, Lewis è rimasto un pianista da esibizioni mozzafiato. I tasti del pianoforte sono 88, sono finiti, ma quello che Lewis ci riusciva a fare era infinito. E anche ora nel morire «per cause naturali», come ha dichiarato il suo manager, si è permesso un colpo di teatro. Il sito Tmz, sbagliando, lo aveva dato per morto già all'inizio della settimana. Lewis è riuscito a sparigliare le carte anche alla nera signora.

 La notizia ufficiale dopo la 'fake' di ieri. Jerry Lee Lewis è morto, addio (vero) alla leggenda del rock ‘n’ roll: aveva 87 anni. Fabio Calcagni su Il Riformista il 28 Ottobre 2022 

Questa volta non ci sarà una smentita a rassicurare i fan. Jerry Lee Lewis, leggenda del rock ‘n’ roll, è morto all’età di 87 anni nella sua casa di Memphis, negli Stati Uniti.

Soltanto nella giornata di giovedì il sito di gossip Tmz aveva dato la prematura notizia della sua scomparsa, salvo poi chiedere scusa alcune ore dopo per la notizia falsa.

Oggi invece arriva la conferma ufficiale del decesso con una dichiarazione dell’agente di Lewis, Zach Farnum, che ha reso noto come l’87enne è morto per cause naturali.

Soprannominato “Il Killer” per la sua voce grintosa e il suo stile al pianoforte, JLL è considerato uno dei padri fondatori del rock’n’roll, come Elvis Presley, Chuck Berry, Bo Diddley e Little Richard, ispirazione e modello per tanti artisti. È stato incluso nella Rock and Roll of Fame, nella Rockabilly Hall of Fame e nella Caountry Music Hall of Fame.

Famoso per successi come “Whole Lotta Shakin’ Goin’ On” e “Great Balls of Fire“, ha vinto quattro Grammy, tra cui uno alla carriera e due Grammy Hall of Fame Awards. JLL raggiunge un successo planetario grazie ad un sapiente mix di country, gospel e rhythm and blues ad uno stile sfacciato e anticonformista, con un ciuffo biondo ondulato e un ghigno arrogante e l’innata capacità di scatenarsi sul palco.

A una carriera musicale che lo ha lanciato nella leggenda, Jerry Lee Lewis ha affiancato una vita privata altrettanto ‘esagerata’. È stato sposato sette volte e ha avuto sei figli: ha avuto noti problemi con alcol e droghe e la sua vita è stata segnata da lutti drammatici.

Suo figlio Steve Allen Lewis, nato nel 1959 dal matrimonio con Myra Gale Brown (figlia di suo cugino) morì annegato a soli tre anni. La sua quarta moglie Jaren Elisabeth Gunn Petem, sposata nell’ottobre 1971, morì annegata nella piscina a casa di un suo amico. Anche il figlio diciannovenne Jerry Lee Lewis Jr. rimase ucciso in un incidente stradale nel 1973. Il suo quinto matrimonio con Shawn Stephens durò 77 giorni, da giugno ad agosto 1983, fino alla morte di lei per overdose di metadone.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

·         E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.

Estratto dell'articolo di Laura Larcan per “il Messaggero – Cronaca di Roma” il 27 Ottobre 2022.

Il cappello un po' cow-boy un po' borsalino non lo toglieva mai sui lunghi capelli. Un segno distintivo, il suo, insieme ai baffi neri che disegnavano sempre quei larghi sorrisi con cui accoglieva e sapeva intrattenere i suoi ospiti vip. Una vita passata di notte, nottambulo tra le stelle, quella di Angelo Nizzo, soprattutto Ciccio, come lo chiamavano tutti in quelle serate romane, morto ieri, nella sua Todi, il borgo umbro dove era ritornato negli ultimi anni, aggravato dalla malattia. Aveva 72 anni. E proprio a Todi si celebreranno i funerali sabato. 

Ma Roma e le sue notti bianche da movida, lo hanno visto protagonista. 

Animatore, gran cerimoniere, di più, principe. In una parola, pierre, quando quello delle pubbliche relazioni era un lavoro diverso da oggi, senza le potenzialità dei social, senza i virtuosismi del web, ma fatto di amicizie strategiche, di telefonate, di messaggi, di incontri, di appuntamenti al bar, chiacchierate e aperitivi, anche di fiducia. Un talento. (..)

Ma il tocco d'oro di Angelo Nizzo passa anche per il Much More e il Bar della Pace. Lui era l'amico dei vip, il deus ex machina delle feste. Fu lui a coniare il termine «vippaio». E sceglieva lui chi poteva varcare la soglia dei suoi illustri privé. «Ciccio sapeva fare il suo lavoro - racconta il paparazzo Rino Barillari - cercava un pubblico diverso, accoglieva tutti ma sapeva selezionarli, nei locali non voleva rissosi. 

Era amico di tutto il mondo del cinema, e per i vip si faceva anche coreografo: li accoglieva nella sala giusta, con la musica adatta, la gente giusta intorno. Ci sapeva fare. E tutti si fidavano di lui. E pensare che quando è arrivato a Roma Suhaim Al Thani il nipote del principe del Qatar, è stato Ciccio ad accoglierlo, e lui voleva che Ciccio gli curasse l'immagine».

E vippate? «Beh, Mickey Rourke... un'estate calda degli anni 90, era il periodo delle triangolo delle bevute tra Campo de' Fiori, Pantheon e via della Pace. Quella notte Mickey Rourke stava con l'attrice Roberta Pandolfi e decidono di andare al Gilda di Fregene. Ciccio li accoglie, e avvisa anche me, con l'accordo che non dovevo rompere le scatole. Ma quando Rourke mi vede mi comincia a rincorrere, scappo e lui dietro fino alla spiaggia... era il servizio più importante di quell'estate». 

Ancora, Eva Henger, Milly Carlucci, Valeria Marini... solo alcuni dei nomi infiniti. «Una notte arrivò Daniel Ducret al Gilda, l'ex marito di Stefania di Monaco, all'epoca doveva essere una serata top secret. Ciccio voleva garantire la privacy, ma la guerra è guerra... alla fine per scherzare mi ha preso la macchina e s' è messo a fare lui le foto».

·         E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.

Estratto dell’articolo di R.I. per “il Messaggero” il 27 Ottobre 2022.

Si è spento all'età di 68 anni Fabio Carapezza, l'unico erede legittimo di Renato Guttuso, al centro di una lunga vicenda giudiziaria che lo aveva visto contrapposto a Marta Marzotto, l'amante del pittore di Bagheria, e ad altri parenti dell'artista. Quest' ultimo lo aveva adottato un paio di mesi prima di morire, nell'ottobre del 1986. All'epoca Carapezza aveva 32 anni. Insignito di questo ruolo, ha dedicato alla tutela del patrimonio artistico la missione di una vita. Carapezza è deceduto a Roma, dove abitava, dopo una lunga malattia.

Durante la sfida a colpi di carta bollata, si era fatto avanti nella contesa dell'eredità anche un presunto figlio di Guttuso, Antonello Cuzzaniti, che, dopo battaglie a tutto campo, esami del Dna compresi, alla fine aveva ammesso: «Non sono io il vero figlio di Renato». Il caso era esploso nel febbraio dell'87 quando si vociferò che il pittore aveva un figlio nascosto al mondo per 35 anni, l'età appunto di Antonello, lui stesso ignaro dell'illustre padre. 

Mentre Carapezza, figlio di uno scienziato siciliano, era stato adottato da Guttuso dopo la scomparsa di sua moglie Mimise Dotti e venne nominato dall'artista suo erede universale. L'adozione, con tutti i suoi risvolti, diede origine a una forte contrapposizione con i nipoti di Mimise Dotti e con Marta Marzotto che rivendicava una parte dell'eredità dell'artista. Il caso diede origine a una lunga vicenda giudiziaria conclusa solo il 16 aprile 2002 in Cassazione con una sentenza che ha riconosciuto Fabio Carapezza unico erede legittimo del pittore.

Come dirigente del ministero dell'Interno aveva raggiunto il grado di prefetto (...) 

Molte delle opere di Guttuso sono state donate al museo di villa Cattolica, a Bagheria, dove è sepolto in una tomba realizzata dal suo amico Giacomo Manzù. Carapezza ha curato non solo il trasferimento dei quadri, ma anche importanti esposizioni, l'ultima in occasione della riapertura della villa. R.I.

·         Morto il critico Marco Vallora.

Angelo Mistrangelo per “La Stampa” il 26 ottobre 2022.

Marco Vallora è scomparso a 69 anni. Personalità eclettica, è stato un appassionato esploratore dell'arte, dal Rinascimento al Novecento, fino al XXI secolo. 

Nato a Torino, il 1° gennaio 1953, Vallora sarà ricordato come una personalità poliedrica: critico cinematografico, curatore di mostre, professore universitario, si è ritagliato anche uno spazio prestigioso in qualità di consulente per la casa editrice Einaudi. Collezionista di libri, bibliofilo da sempre, grande amico di Vittorio Sgarbi, di recente aveva avuto un incidente domestico proprio a causa della sua passione: si era fatto male nella foga di spostare alcuni pesanti volumi d'arte da uno scaffale all'altro.

Critico d'arte de «La Stampa» da decenni, firma del quotidiano, ha percorso un lungo cammino all'insegna della cultura visiva, di cui è stato al tempo stesso storico e cronista, intrecciando con precisione i fili del passato e del presente. 

La sua passione è stata tutt' uno con la sua vita: si laurea con dignità di stampa alla facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Torino nel 1976, con Gianni Vattimo come relatore e con correlatori nomi del calibro di Claudio Magris, Gianni Rondolino e Lionello Sozzi.

Da allora il suo percorso intellettuale ha percorso tante strade, tutte interconnesse, segnate dall'interesse per la fenomenologia degli stili e per i temi e i rapporti - evidenti e più sotterranei - tra le discipline artistiche. Non a caso, nelle sue «incursioni», dalla pittura alla musica, spingendosi fino all'architettura, ha dato vita a una lunga serie di mostre. Mentre scriveva cataloghi e biografie, ha indagato l'opera di personaggi come Giorgio De Chirico, Carlo Carrà, Felice Casorati, Alberto Burri, Carol Rama. 

A riprova del suo eclettismo, ha curato con Gae Aulenti un volume sul rapporto tra architettura, scenografia, drammaturgia, in relazione alle strutture del melodramma. Ha scritto la voce «Arte ed estetica del Novecento» per l'Enciclopedia Utet diretta da Vattimo e non si può dimenticare un altro intervento decisivo, quale quello intitolato «La scenografia degli artisti» per la «Storia del Teatro», a cura di Guido Davico Bonino.

Insegnante di storia dell'arte all'Università di Urbino e di estetico al Politecnico di Milano, il suo ultimo commento è stato quello dedicato alla mostra a Capodimonte dedicato a Battistello Caracciolo (1578-1635): «Un caravaggesco verace, ma infedele, a scadenza».

Marco Vallora per la Stampa il 26 ottobre 2022.

Beh, di brutto c' è molto, troppo. Anzi, di inutile, di pletorico, di noiosamente impiegatizio. Come se l' arte fosse un decotto mestiere bancario, nei due sensi del termine. Estetica da bazar, polvere, buchi neri, fili di lana, «gutta caveat testicula». 

Artisti perplessi sotto la tenda da circo, per disturbare il Kluge abbigliato Prada. Ma il peggio viene dalla prosopopea critica e da dida abborracciate, che fan nascere la Pop Art negli Anni 30!

Abusando sempre delle stesse formulette interscambiabili, sprecando innocenti nomi-passepartout, Pasolini, Borges, Foucault (persino Serres, new-entry!).

Con le solite stanche saette spuntate: abbasso petrolio, dollari & colonialismo. In termini copiati da Weekendpedia , tra usurate filastrocche «utopia-distopia-alterità-empatia-entropia». E beceri ricattini sociali, magari invischiando migranti in carne ed ossa.  

·         Addio al critico Franco Fayenz.

Addio Franco Fayenz, maestro dei critici jazz. La firma del "Giornale" è stato decisivo nel far conoscere quei suoni in Italia. Antonio Lodetti il 27 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Il jazz è volubile come una donna, devi viverlo, amarlo od odiarlo ma viverlo se lo vuoi comprendere». Così mi diceva oltre quarant'anni fa Franco Fayenz, re della critica musicale jazzistica (ma non solo) scomparso l'altro ieri alla veneranda età di 92 anni, quasi tutti dedicati alla musica. Da allora ho fatto mio quell'insegnamento di Franco, che conobbi da ragazzino negli anni Settanta e che presi a frequentare il decennio successivo quando firmò (e lo ringrazierò sempre) la prefazione di un mio libro.

Lui ne aveva scritti tanti, come I grandi del jazz (1961) dove raccontava la storia e soprattutto la musica dei giganti del genere, aveva curato la versione italiana dell'autobiografia di Duke Ellington La musica è la mia donna e più recente aveva revisionato il classico Jazz di Arrigo Polillo aggiungendo decine di schede di jazzmen. Fayenz era un uomo elegante (si narra discendente da Emilio Salgari), affabile e simpatico anche se un pochino permaloso, dalla battuta sempre pronta e con un debole per le belle donne, con cui era di una galanteria estrema. Nato a Padova nel 1930 si laureò quasi forzatamente in Giurisprudenza, ma il fuoco sacro della musica lo colpì subito e si mise ad organizzare concerti per la società «Amici della musica». I musicisti li conosceva bene e li frequentava, addirittura nel 1965 portò da Milano nella sua Padova il «problematico» pianista Lennie Tristano, instaurando con lui un rapporto che sarebbe durato per tutta la breve vita del pianista. Visse la scena a cavallo tra il bebop e il cool e a Milano - dove oramai viveva e visse tutta la vita - era di casa al mitico Capolinea frequentando personaggi come Chet Baker.

Le sue critiche acute non prescindevano mai dai giudizi sul lato umano dei personaggi che incontrava e intervistò più volte boppers come Charlie Parker e Dizzy Gillespie.

Fayenz ha scritto molti anni per il Giornale, passando poi al Foglio e al Sole 24 ore e per il mensile Amadeus. Il suo ultimo articolo, quando era già gravemente malato, uscì l'anno scorso su Musica Jazz ed era un lungo e ponderoso ritratto del Modern Jazz Quartet.

I meno giovani lo ricorderanno popolare conduttore radiofonico che - nel cuore della notte - dispensava jazz quando questa musica veniva abiurata da tutti i media. Arrivò anche in tv (in bianco e nero) con un programma insieme a Franco Cerri.

Vero professionista, amava la musica per la musica e tante sere attraversava la città, a 80 anni suonati, per venire al Blue Note come quella notte che trascorremmo con Chick Corea, che del Blue Note di Milano fu uno storico protagonista. Molto considerato dall'establishment, dal 1998 al 2002 fu consulente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e membro della Società Italiana di Musicologia e della Società Italiana di Musica Afroamericana.

Ci mancherà molto, e quando ascolteremo un brano jazz non potremo fare a meno di pensare a lui, al suo giudizio e alla sua libertà di pensiero.

·         E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.

Simona Marchetti per corriere.it il 26 ottobre 2022.

È morto nel sonno nella sua villa in Spagna, pare per un aneurisma aortico. Ha lasciato tutti sconcertati l’improvvisa scomparsa del dj Mighty Mouse (vero nome Matthew Ward), figura di culto della scena house e disco britannica a partire dagli anni 2000. In realtà il decesso del produttore risale a giovedì scorso, ma la notizia è stata confermata solo martedì 25 ottobre dalla sua etichetta Defected Records con un post su Facebook.

«Siamo devastati nel confermare che Matthew Ward, alias Mighty Mouse, è morto improvvisamente giovedì scorso nella sua casa in Spagna. Siamo tutti persi senza la sua presenza e il suo enorme talento. I nostri pensieri vanno alla compagna Ellen e alla madre Judy, nonché a tutta la sua famiglia e ai suoi moltissimi amici e fan», si legge nell’annuncio, che si conclude con la richiesta di rispettare la privacy della famiglia per il terribile lutto.

Pochi giorni prima della morte Ward aveva pubblicato una traccia musicale su Instagram, rivelando l’imminente uscita di un nuovo remix e il prossimo sabato avrebbe dovuto esibirsi a un party di Halloween a Newcastle. 

«Un essere umano molto gentile e talentuoso. Abbiamo fatto una meravigliosa chiacchierata pochi mesi fa nel Regno Unito. Riposa in pace», ha scritto il produttore Little Louie Vega. «Che notizia triste. Un talento musicale straordinario. RIP Mighty Mouse», gli ha fatto eco il musicista Lee Mortimer, altrimenti conosciuto come Friend Within. «Amore e condoglianze alla famiglia e agli amici di Matthew. RIP Mighty Mouse», ha commentato il collega dj Simon Dunmore.

·         E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.

BIOGRAFIA DI SFORZA MARESCOTTO RUSPOLI. Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Sforza Ruspoli. Roma 23 gennaio 1927. Meglio noto come Lillìo • «Il Principe-contadino. Un estroso e fantastico “evergreen” della micropolitica, un classico “old boy”, un veterano cioè dell’impegno velleitario contro la degenerazione pubblica, con sortite ormai cicliche, sempre in nome di una pervicace utopia anti-modernista. Quindi no alle oligarchie finanziarie, no alla mondializzazione, no agli Ogm, “l’operaio riprenda la vanga” e via di seguito, su posizioni che per la verità Ruspoli propaga da anni alla destra estrema, per lo più inascoltato se non irriso» (Filippo Ceccarelli). Nel 2006 si candidò alle politiche con Alternativa sociale (la lista di Alessandra Mussolini).

• Sposato con Maria Pia Giancaro (Palermo 12 marzo 1950), «la bella mugliera dai bei capelli biondi che si è preso in seconde nozze un po’ di anni fa e ha plasmato, parola dopo parola, sorriso dopo sorriso, gambe di taglio dopo gambe di taglio, come Rex Harrison plasmò Audrey Hepburn in My Fair Lady. Ai tempi in cui faceva l’attrice, girando film leggendari come L’amantide o Quando i califfi avevano le corna» (Gian Antonio Stella). Ne ha avuto la figlia Giacinta (Île de France, Francia, 3 marzo 1988). 

• In prime nozze sposò Flavia Domitilla Salviati (1925-2007), da cui ebbe le figlie Claudia (San Paolo, Brasile, 30 agosto 1947) e Giada (Roma 8 marzo 1949).

• Il suo motto è: «Meglio nobili che ignobili» (Grazia Maria Coletti)

Lillio Sforza Ruspoli, una vita tra la destra e la Dolce Vita. Addio all’ultimo principe dell’aristocrazia romana. Edoardo Sassi su Il Corriere della Sera il 25 Ottobre 2022.

Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio, aveva 95 anni, sposato in seconde nozze con l’ex attrice Pia Giancaro. Ha vissuto per anni nel palazzo affacciato su via del Corso che da secoli porta il nome della sua famiglia

È morto a Roma, dopo una lunga malattia, Sforza Marescotto Ruspoli detto Lillio, principe romano erede di una delle più antiche dinastie della nobiltà nera papalina, aveva 95 anni. Nato nel 1927, lo stesso anno della regina Elisabetta II d’Inghilterra, ne era divertito e lo ricordava orgogliosamente. «Sono nato pochi mesi prima di queen Elizabeth - aveva confidato alla figlia Claudia- siamo come due fratelli siamesi». E non dimenticava di aver danzato con lei nei saloni di Palazzo Colonna quando ancora non era regina, ma erede al trono di Albione.

Figlio secondogenito di Francesco Ruspoli, VIII principe di Cerveteri e di Claudia Matarazzo. Due mogli, primo matrimonio di stampo aristocratico con una Borghese Salviati, l’ultimo con l’ex attrice Pia Giancaro (all’anagrafe Maria Pia Giamporcaro).

Cattolico intransigente (la famiglia Ruspoli, da secoli, ha sempre rappresentato l’impegno e la fedeltà assoluta alla Chiesa e al Pontefice in carica), era noto anche per le sue simpatie politiche e per la lunga militanza nella destra. Nel 2017 si era candidato a sindaco di Cerveteri (non eletto, a capo di una lista civica intitolata «Nessun dorma…»). In passato era stato eletto (per la Destra Nazionale) anche nel Consiglio comunale della sua città, la stessa dove la sua famiglia visse per quasi un millennio, allocata dall’inizio del XVIII secolo nel grande palazzo di via del Corso, che i Ruspoli acquistarono dai Caetani.

Fratello minore dell’eccentrico Dado, gran protagonista della mondanità negli anni della Dolce vita, Lillio, principe di Cerveteri, era stato ambasciatore dell’Ordine di Malta che lasciò, causa divergenze d’intenti, nel 2019. «Una decisione molto sofferta dopo ben 70 anni di servizio nell’Ordine, sono entrato nel 1949 ed è veramente doloroso lasciare il campo che per me è sempre stato quello della battaglia a difesa di papa Francesco e di Santa Romana Chiesa», spiegò in una intervista al Corriere della Sera.

Tra le «cariche» di cui andava particolarmente orgoglioso, l’elezione a membro dell’Accademia Pontificia di Belle Arti e Lettere, la «delega» per Roma e il Lazio dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio. Nel 2006, il ministro dell’Economia del governo Berlusconi Giulio Tremonti, fece il nome di Sforza Ruspoli per guidare la vicepresidenza della Banca del Sud.

Estratto dell'articolo di Lucilla Quaglia e Raffaella Troili per “il Messaggero” il 25 ottobre 2022.

Addio al principe guerriero. «Quando si entra nella Città Eterna lo si dovrebbe fare in ginocchio», soleva dire il principe Sforza Ruspoli, noto con il nome di Lillio, sottolineando la santità della Capitale. Ieri alle 17, il celebre aristocratico romano si è spento dopo una lunga malattia, all'età di 95 anni, nella sua casa capitolina, Palazzo Sforza Marescotto. Circondato dall'affetto dei cari, tra cui la moglie Maria Pia e la figlia Giacinta. «Sono nato pochi mesi prima di queen Elizabeth - aveva confidato divertito alla figlia Claudia - siamo come due fratelli siamesi. E abbiamo danzato insieme nei saloni di Palazzo Colonna quando ancora non era regina, ma erede al trono di Albione».

Il principe romano era nato a Roma il 23 gennaio 1927, figlio secondogenito di Francesco Ruspoli, VIII principe di Cerveteri, e di Claudia Matarazzo, ha avuto un fratello maggiore molto noto: l'attore Dado Ruspoli. E di fatto è stato uno degli ultimi rappresentati di una delle più antiche famiglie capitoline risalenti al XIII secolo, imparentate con i Farnese, i Salviati, gli Orsini, i Dampierre. 

Rimasto orfano della madre a soli 8 anni, si trasferì in Brasile col nonno materno Francesco Matarazzo. Lì rimase poco tempo, per poi rientrare a Roma dove vivrà per il resto della vita nell'imponente palazzo Ruspoli, tra via del Corso e piazza San Lorenzo in Lucina, frequentando intellettuali, registi, attori, scrittori e giornalisti, da Leo Longanesi a Roberto Rossellini, da Carlo Pesenti a Renato Angiolillo. Indimenticabili le sue passeggiate quotidiane nel cuore di Roma, sempre elegantissimo e sorridente [...]

Intrapresi gli studi bancari, entra nel direttivo della Banca Romana a fianco di Arturo Osio (poi fondatore della Banca Nazionale del Lavoro), legandosi a personaggi come Ernesto Fassio, Franco Marinotti, Mino Maccari, conoscendo personalmente don Luigi Sturzo. Cattolico intransigente, Sforza Ruspoli è uno dei nobili romani più vicini alla Chiesa e al Vaticano. Vanta l'amicizia con diversi Papi tra cui Paolo VI, Giovanni Paolo II e anche Papa Francesco che appoggiò apertamente quando il pontefice decise di non nominare più Gentiluomini di sua maestà. Molto attivo anche in campo sociale e politico.

Lunga la lista delle sue scese in campo. Nel dopoguerra entra a far parte del Movimento Sociale Italiano grazie alla vicinanza col principe Junio Valerio Borghese, autore del tentato colpo di Stato avvenuto in Italia nel dicembre 1970. Nel 1956 fonda i Centri d'Azione Agraria: movimento formalmente apartitico (ma in realtà di estrema destra) in difesa della civiltà contadina, su posizioni liberiste in politica economica e antipartitocratiche, lanciato sia come alternativa a Confagricoltura e Coldiretti, sia come strumento per un'azione politica diretta. 

Nel 1989 si presenta come candidato capolista per il Movimento Sociale Italiano-Destra Nazionale alle elezioni comunali di Roma, ed è eletto consigliere con 37.240 voti. Nel 99 è commissario magistrale dell'Associazione dei cavalieri italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta, successivamente, sino al 2001, ambasciatore dello Smom.

Nel 2006 viene proposto, dall'allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti, come vicepresidente della Banca del Sud, per i suoi numerosi interventi politici a favore della questione meridionale. Nel 2010 è nominato membro dell'Accademia Pontificia di Belle Arti e Lettere. Non disdegna la scrittura, i titoli dei libri parlano da soli: La terra trema, invito alla rivolta, Vite la leoni. La fortuna di averli conosciuti. 

Sforza sposa nel 1946, la duchessa Flavia Domitilla Borghese-Salviati dalla quale si separerà nel 1983 dopo aver avuto due figlie, Claudia e Giada. Si risposa a Vignanello, nella residenza di famiglia, il 15 ottobre 1983, con l'attrice Maria Pia Giancaro, dalla quale avrà una terza figlia: Giacinta Ortensia Rosa Maria in ricordo di un'antenata, Giacinta Marescotti, proclamata santa. […]

I funerali si terranno nella Basilica di San Lorenzo in Lucina, a due passi da Palazzo Ruspoli, venerdì 28 ottobre alle ore 11.

Dagoreport il 27 Ottobre 2022.

Un bel giorno di tanti, tanti anni fa ebbi l’onore di essere invitato con mia moglie Anna a un ricevimento in casa Ruspoli. All’epoca la nostra abitazione era in un austero palazzo di via Condotti che squadernava all’ingresso un portiere originario dello Sri Lanka dotato di una postura e personalità alla Cary Grant. 

Giunti a largo Goldoni, salite le monumentali scale, una volta entrati nella dimora di Lilio, ci siamo incolonnati dietro altri invitati per fare l’ingresso nel salone delle feste, dove una parete era occupata da un enorme quadro che raffigurava l’esercito papalino contro gli usurpatori garibaldini. 

Quando finalmente è arrivato il nostro turno per fare il debutto tra la nobiltà de’ noantri, ci aspettava un gran ciambellano adeguatamente in livrea e polpe per annunciare il nostro ingresso. Gran colpo di mazza: “Donna Anna Federici e Roberto D’Agostino…”. Mah, questa voce non mi è nuova… Mi giro per vedere il volto e scopro che il gran ciambellano era nient’altro che il nostro portiere di via Condotti noleggiato da casa Ruspoli! “Ma che stai a fa’? Hai abbandonato il palazzo? Torna in guardiola…”. 

A palazzo Ruspoli si festeggia il matrimonio tra Francine e il pierre Massimo Gargia, detto Mozzarella. Inguainata in un vestito alla Gilda, rosso fuoco, fa il suo ingresso tra i presenti imbalsamati per la circostanza (tra le altre, la marziale Maria Pia Fanfani, generale delle crocerossine), una euforica e pimpante Marina Lante della Rovere. E quando i Los Paraguayos attaccano il loro repertorio l’ex ‘’contessa scarsa” salta a ballare sul lungo tavolo nel salone delle feste rompendo la noia calata sullo sposalizio.

Una vera tragedia per il padrone di casa, il principe di Santa Romana Chiesa, Sforza ‘’Lilio’’ Ruspoli, quello che ha nel suo studio la gigantografia di Zapata, che ama farsi chiamare principe contadino e che ogni anno dice messa per i caduti papalini a Porta Pia. Eccolo che rincorre la Marina saltellante sul tavolo del banchetto tentando di fermare la sua esibizione: ”Marina, ti scongiuro, scendi. Per rientrare tra le Guardie nobili del Papa ci ho messo oltre vent’anni e non posso dare un altro dolore al Santo Padre”. Fino a supplicare:” Dai Marina mettiti le mutande e torna a casa, ti prego!”

Gianfranco Ferroni per veritaeaffari.it il 29 ottobre 2022.  

Diego della Valle ne sta azzeccando assai poche: in borsa e anche nei suoi negozi, dove giovedì sera il suo gruppo ha organizzato una festa con musica a palla sotto la camera ardente del principe Lillio Sforza Ruspoli. È stata infatti un flop la sua offerta pubblica di acquisto del titolo Tod’s, che non è riuscita ad arrivare alla quota minima necessaria prevista nel lancio, così addio delisting da piazza Affari. 

Giovedì sera invece incidente diplomatico e anche sotto il profilo del buon gusto a Roma, dove era in calendario una grande festa nel negozio Fay dell’imprenditore marchigiano.

Musica a palla e tanti vip

Decine gli invitati presenti e ammassati sul marciapiede dentro il negozio per festeggiare la collaborazione con la rivista Icon che aveva in copertina l’attore Paul Wesley ovviamente vestito dal brand di Della Valle. Come capita a Roma non pochi anche gli imbucati all’evento. 

Però c’erano tutti i vip previsti, fra cui le attrici Vittoria Puccini e Anna Foglietta e gli attori Francesco Scianna ed Edoardo Purgatori. Tutti dentro il negozio Fay in via della Fontanella di Borghese dove festeggiare con un brindisi e poi con la musica a palla di un famoso dj reclutato per l’occasione. 

C’era la camera ardente del principe

Particolare evidentemente ignorato dai Della Valle boys: il negozio della festa era al piano terra di palazzo Ruspoli, e subito sopra in quel momento c’era la camera ardente del principe Lillio Sforza Ruspoli, scomparso il giorno prima in attesa dei funerali che sarebbero stati celebrati la mattina successiva nella vicina chiesa di San Lorenzo in Lucina.

La preghiera disturbata

La vedova Maria Pia Giancaro e l’ultima figlia, Giacinta, stavano accogliendo per l’estremo saluto parenti e nobiltà romana che si era raccolta in preghiera per il tradizionale rosario (il principe era un fedelissimo servitore di santa romana Chiesa). Certo il gran chiasso che veniva dal piano terra con la musica a tutto volume e gli schiamazzi non sono stati particolarmente apprezzati in casa Ruspoli.

La vedova di “Lillio” Sforza Ruspoli: «Io, figlia di un casellante ho sposato il principe. Con lui la vita era una festa». Paolo Conti su Corriere della Sera il 26 ottobre 2022.

La vita accanto a lui era come una «festa della vita, ancorata a valori profondi». Maria Pia Giancaro Ruspoli è la vedova del principe Sforza Marescotti Ruspoli, per molti «Lillio» (ma negli ultimi anni lui non amava questo vezzeggiativo giovanile), decano dell’aristocrazia romana, scomparso martedì nella Capitale. Ruspoli aveva 95 anni e apparteneva a una delle più antiche famiglie romane vicine storicamente al papato, con radici che arrivano al 799. Legatissimo alla Chiesa cattolica, era stato a lungo ambasciatore dell’Ordine di Malta.

Provi a dare una definizione di suo marito, che ha avuto una vita lunga e articolata… «Una persona lineare, corretta, onesta. Riassumeva un insieme di valori che oggi non esistono più. Si dice spesso di qualcuno che era un uomo di altri tempi, ma lui era davvero così. Una persona bellissima».

Nel 1983 lei era una nota attrice, giovane e bella, «Lillio» aveva 56 anni e un già lungo matrimonio alle spalle. Cosa la attirò in lui? «La personalità prorompente. Stargli accanto era come partecipare a una festa continua. Non a un party, ma a una festa della vita, ancorata a quei valori profondi di cui parlavo. Si è sempre prodigato per gli altri. A partire dalla famiglia»

Lei ha radici molto diverse. Il suo vero cognome è Giamporcaro: origini siciliane, un padre ferroviere. Un universo lontano anni luce da palazzo Ruspoli. «Lui non ha mai visto le mie origini sociali come un ostacolo. Anzi, questa enorme differenza quasi lo inebriava. Mio padre era un casellante ferroviario e mio marito era felice di avere accanto una persona semplice come me. Per lui era quasi un vanto. Lo chiamavano il principe dei contadini, conosceva le sofferenze e i dolori altrui. Era una persona umile. I miei genitori erano letteralmente innamorati di lui».

Lei è cambiata, dopo questo matrimonio non metaforicamente principesco?«Sono nata come una persona del popolo e desidero rimanere così dentro di me. Non mi piacciono gli orpelli, non sono sofisticata. Certo, il matrimonio ha oggettivamente cambiato il mio status sociale ma non mi ha modificato come persona».

Il suo passato da attrice? «Non ne abbiamo mai parlato. Ha sempre avuto rispetto ma credo fosse orgoglioso anche di quello. In quanto a me, non ho mai rinnegato nulla. È stata la prima parte della mia vita e la vita non si rinnega mai…».

Lei parlava di conoscenza del dolore altrui. A cosa si riferisce? «Quando era consigliere comunale, riuscì a realizzare il Centro Caritas sulla Casilina. Collaborò a lungo con monsignor Lugi Di Liegro che veniva spesso a casa nostra, qui a palazzo Ruspoli. Una persona eccezionale, ho letto che potrebbero in futuro farlo Santo. Mio marito lo raggiungeva alle 6 del mattino tra i poveri al Centro Astalli, solo per parlare con lui, prendere un caffè, progettare iniziative…»

Come viveva suo marito la propria nascita, la condizione aristocratica? «Non come un privilegio ma come una responsabilità. Quella di portare avanti un nome carico di storia. Diciamo che il suo era un servizio alla famiglia e a ciò che ha rappresentato per secoli».

Avete avuto insieme Giacinta. Che padre è stato? «Non è retorica: un ottimo padre. Come è stato un ottimo marito. Era un uomo raro».

Possiamo dire che il vostro è stato un grande amore? «Tutte le coppie che durano nel tempo non sono mai esenti da nulla. Abbiamo avuto i nostri momenti complicati. Ma ciò che ci ha unito in tutti questi anni è stato di gran lunga più importante e soprattutto più forte di tutto quanto il resto. Per cui sì, direi proprio di sì, posso dire oggi che il nostro è stato un grande amore»

·         Addio all’attore Ron Masak.

Addio a Ron Masak, lo sceriffo della "Signora in giallo". L'attore statunitense si è spento a 86 anni in California, a soli dieci giorni dalla scomparsa di Angela Lansbury, sua storica collega. Nella "Signora in giallo" era lo sceriffo di Cabot Cove. Marco Leardi il 21 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Come accadeva nei telefilm, lontano dalla "Signora in giallo" non è riuscito a stare. A soli dieci giorni dalla scomparsa dell'attrice Angela Lansbury (per tutti, la mitica Jessica Fletcher della tv), si è spento anche l'interprete statunitense Ron Masak, il noto caratterista che nel popolare serie di genere investigativo indossava i panni dello sceriffo di Cabot Cove. L'uomo, che aveva 86 anni, è morto giovedì 20 ottobre per cause naturali in un ospedale di Thousand Oaks, in California. A darne notizia è stata la nipote, Kaylie Defilippis, sulle pagine dell'Hollywood Reporter.

Addio a Ron Masak: chi era

Ronald Alan Masak - così recitava l'anagrafe - era nato Chicago il 1º luglio 1936. Dopo gli inizi come attore teatrale passò alla televisione debuttando nel 1960 in un episodio della serie "Ai confini della realtà". Poi, le interpretazioni in telefilm di grande successo come "Vita da strega", "Get Smart", "Strega per amore", che lo consacrarono davanti al grande pubblico. Tra il 1973 e il 1978 è stato tra i personaggi principali del telefilm "Sulle strade della California" ed è poi apparso in episodi di "Il mio amico Arnold". Il debutto di Masak ne "La signora in giallo" avvenne invece nel 1988, nel corso della quinta stagione della serie, dopo che il precedente inetto sceriffo di Cabot Cove, Amos Tupper (Tom Bosley), aveva lasciato il Maine per andare a vivere con la sorella in Kentucky.

Lo sceriffo di Cabot Cove

Subito il nuovo sceriffo era entrato nel cuore dei telespettatori, con quel suo sguardo bonario e spesso corrucciato che sembrava perfetto per il ruolo. Il funzionario di polizia, infatti, beneficiava sempre dell'aiuto di Jessica Fletcher, la quale con le sue intuizioni dava puntualmente un contributo alla risoluzione dei gialli più intricati. Il suo personaggio - che aveva lasciato il Dipartimento di Polizia di New York in cerca di una vita lavorativa solo in apparenza più tranquilla al nord - girava per la città con una Cadillac Eldorado rossa del 1976. Il popolare attore interpretò quele ruolo fino al 1996.

La fine di un'epoca televisiva

Dopo essere apparso sporadicamente in alcuni episodi televisivi di "Webster", "Colombo" e "Cold Case", aveva anche lavorato come doppiatore, prestando anche la propria voce al personaggio del veterano Holt nella versione originale del videogioco "Medal of Honor: European Assault". Era sposato dal 1961 con Kay Knebes, lascia sei figli. Per gli appassionati de "La Signora in Giallo", la sua scomparsa chiude davvero un'epoca. Solo dieci giorni fa, infatti, l'addio ad Angela Lansbury aveva idealmente spezzato il cuore a generazioni di spettatatori cresciuti con le avventure ambientate a Cabot Cove.

·         E’ morto il cantante Franco Gatti.

Addio al "Baffo" sfortunato, voce doc dei Ricchi e Poveri. Il celebre "basso" aveva lasciato il quartetto vocale dopo la morte del figlio. Il ritorno a Sanremo 2020. Paolo Giordano il 19 ottobre 2022 su Il Giornale.  

Ma lui non è mai cambiato di una virgola. Il Franco Gatti che se ne è andato ieri mattina a 80 anni appena compiuti era tale e quale al Franco Gatti che nel 1967 fondò i futuri Ricchi e Poveri con Angela, Marina e Angelo. Magro, baffi, nasone, malinconia tipicamente «seneisa», ossia genovese. Prima li scoprì Fabrizio De Andrè portandoli da un discografico milanese troppo «beat» per innamorarsi di quattro voci così calibrate da diventare una sola.

Ci fu bisogno della generosa follia di Franco Califano che, al quinto pranzo insieme, trovò un nome al quartetto («Siete ricchi di spirito e poveri di tasca») diventando pure il loro stylist. Fece cambiare la tinta dei capelli ad Angelo e Marina (più biondi) e il taglio ad Angela (si diceva «alla umberta») ma a Franco niente, lui andava bene così com'era, e com'è rimasto fino alla fine. Era il «basso» del gruppo, quello che approfondiva i cori e che aveva una bella gavetta alle spalle con i Jets di Gianni Belleno che poi li lasciò per i New Trolls. Ma soprattutto Franco Gatti, che a 11 anni era rimasto così affascinato da un trio di camalli famosi nei ristoranti del porto da innamorarsi per sempre della musica, era il contrappunto indispensabile nell'iconografia dei Ricchi e Poveri. Marina la sexy. Angela il peperino. Angelo il latin lover. E Franco l'amico dalla battuta pronta ma sempre riservato. «Se ne va un pezzo della nostra vita» ha detto la band senza un filo di retorica.

Era uscito dal gruppo dopo che il destino gli aveva fatto il torto peggiore obbligandolo a sopravvivere al figlio Alessio, morto a 22 anni schiacciato da alcol ed eroina. «È contro natura che un figlio di 22 anni sia morto quando un padre di 70, pieno di acciacchi, è ancora vivo», aveva detto lui. La notizia gli arrivò a Sanremo, poco prima che il gruppo ritirasse il premio alla carriera al Festival del 2013. Partì in macchina, senza guardarsi neanche indietro. Nel 2016 lasciò ufficialmente i Ricchi e Poveri. Troppo pesante andare avanti e rimettersi ogni sera i panni del cantante che trasmette allegria quando l'allegria non ce l'hai più, si è spenta e non l'accendi neanche per finta. Anche nel 2019, al concerto «Ballata per Genova» vicino al mare, il ricco e povero Franco era tra parentesi, frastornato nonostante sul palco fosse trascinante, persino commovente.

L'anno dopo ha chiuso la propria strada artistica esattamente come voleva: «Abbiamo iniziato in quattro, giusto che finiamo in quattro». Settantesimo Festival di Sanremo: i Ricchi e Poveri di nuovo tutti insieme. «Ho rivisto nei suoi occhi la gioia di una persona molto attaccata alla storia dei Ricchi e Poveri», ha ricordato ieri Amadeus.

Insomma ecco la reunion che scatenò la standing ovation dell'Ariston e eccitò lo share tv come ai bei tempi. Era la prova del nove che i Ricchi e Poveri avevano fatto il passo successivo, superando le generazioni e diventando patrimonio collettivo ben al di là delle vendite.

Sì, avevano partecipato a dodici Festival (vittoria nell'85 con Se mi innamoro), avevano fatto tour persino in Russia (nell'86 tra i primi ad andarci) e avevano attraversato i decenni concedendosi chi li venerava come gli Abba italiani, chi li ascoltava controvoglia perché erano dappertutto e i comici che li prendevano in giro perché era un successo garantito (da Alighiero Noschese al Trio Marchesini Solenghi Lopez fino ad Aldo Giovanni e Giacomo).

Ma il loro successo era che tutti li sentivano propri, anche chi li detestava. C'era, nei Ricchi e Poveri, un antidoto naturale che annullava l'inevitabile kitsch dei loro primi anni ma pure degli ultimi, quel folclore un po' inesperto e persino provinciale che era in strepitosa controtendenza rispetto all'impegno cantautorale degli anni Settanta, anche quello spesso provinciale ma comunque benedetto dalla critica più schierata di sempre.

Eppure passo dopo passo, i Ricchi e Poveri sono entrati nel dizionario sentimentale di un popolo, diventando sinonimo di una canzone gioiosa, di voci pastose e di messaggi d'amore che erano sereni anche quando ne cantavano la perdita. La prima cosa bella. Che sarà. Voulez vous danser. Sarà perché ti amo. Inutile negare che le conosco tutti e moltissimi le cantano quasi a memoria. Basta vedere ieri i social, che sono la pancia emotiva più immediata: la commozione non aveva età, proprio come quando se ne va un simbolo multigenerazionale che non aveva zone d'ombra, niente gossip, zero complottismi. Franco Gatti era il baffo dei Ricchi e Poveri, il nasone, quello brutto ma pure quello bravo, quello che quando gli altri decollavano con gli acuti, lui li ancorava subito. Ora è volato via pure lui e, belìn Franco, se ne è andato via pure un pezzo di ricordi del nostro pop.

È morto Franco Gatti, lo storico membro dei Ricchi e Poveri aveva 80 anni. Ilaria Costabile per fanpage.it il 18 ottobre 2022.

È morto all'età di 80 anni Franco Gatti, storico membro dei Ricchi e Poveri, si è spento a Genova, come annunciato in una nota dall'Ansa. Da diversi anni ormai lontano dal gruppo, a seguito di un tragico evento che lo aveva travolto nel 2013, la morte di suo figlio Alessio.

Articolo del 6 febbraio 2020 di Paolo Giordano per “il Giornale” pubblicato da Dagospia 

Avercene di Ricchi e Poveri. Non avranno cambiato la musica ma neppure idee e anche oggi, mezzo secolo dopo il successo della Prima cosa bella, sono rimasti quella roba lì: spensierati e positivi. «Belin, qui a Sanremo abbiamo fatto dell' arredamento per decenni» hanno detto arrivando in sala stampa più fotografati di un divo da fiction. La critica li ha spernacchiati per anni mentre loro vendevano dischi e biglietti. Ora quella critica è morta e sepolta, i Ricchi e Poveri no. 

Piaccia o no, sono un simbolo. E la memoria ha bisogno di simboli per rivivere. E si è visto pure ieri sera all' Ariston con il pubblico che cantava a squarciagola Sarà perché ti amo mentre Angelo Sotgiu (qui di seguito, il bello), Angela Brambati (la brunetta), Marina Occhiena (la bionda) e Franco Gatti (il «nasone») ridevano con gli occhi.

Si sono ritrovati sul palco tutti e quattro insieme dopo 39 anni, dopo quel litigio che diventò un tormentone da rotocalco. Secondo la vulgata, la bionda avrebbe «rubato» l' uomo della moretta, ma è roba passata, come conferma il più genovese di tutti, ossia Gatti: «Non è stata cacciata e non ha rubato niente perché i rapporti di Angela con il suo compagno erano già a pezzi». 

«Avevo solo voglia di lasciare il gruppo», spiega la bionda che è bionda come sempre. D' accordo, sarà stata una storia di cuori e orgogli spezzati ma ormai chissenefrega. «Abbiamo iniziato in quattro ed è giusto finire in quattro» dice Gatti. E così il manager Danilo Mancuso è andato a casa di Marina Occhiena, l' ha convinta «a ricucire uno strappo che c' era da troppo tempo». Ora esce un Greatest Hits e di sicuro pioveranno richieste di concerti perché «può succedere di tutto».

In poche parole, i Ricchi e Poveri sono la tomba dei pregiudizi e la conferma che la musica popolare magari non intercetta temi di impegno civile o politico ma si intreccia con le vite di una o più generazioni molto più profondamente di quasi tutte le altre forme espressive. Loro manco ci pensavano: erano quattro ragazzi «sgangherati» che a fine anni Sessanta volevano campare con il loro gruppo polifonico.

«Ci ha scoperti Fabrizio De André, poi ci ha messi sotto contratto Franco Califano, che ha fatto la rivoluzione. Ha fatto tagliare i capelli ad Angela, ha fatto tingere di biondo Marina e Angelo e a Franco ha detto di non fare niente perché era già perfetto così», ridacchiano. Ha pure trovato il nome quando ha capito che non avevano una lira e quindi erano «ricchi di spirito ma poveri in tasca». Facevano musica popolare quando era impopolare. Quando bisognava per forza essere impegnati, meglio se politicamente schierati, meglissimo politicamente schierati a sinistra. E avevano trovato il giusto equilibrio tra le voci.

Anche ieri, mentre improvvisavano una Se m' innamoro in quattro e quattr' otto, erano quattro strumenti che sapevano intrecciarsi con una sincronia spettacolare in questi tempi di digitalizzazione assoluta e di musica costruita con i beat e non con la chitarra o il pianoforte. «Di certo le critiche ci hanno ferito per tanti anni - parola del bello - anche se spesso capivamo che erano frutto di linee editoriali e non di giudizi spontanei. Una volta, nel 1986, alla fine di uno dei nostri concerti a Mosca c' era un critico che si era commosso con la nostra musica (Mario Luzzatto Fegiz del Corriere della Sera, ndr).

E di certo lui non aveva scritto tanto bene di noi». Il tempo passa, le belle canzoni restano. «Ormai siamo entrati così tanto nelle famiglie degli italiani che siamo percepiti come parenti, come zii o fratelli di ciascuno dei nostri ascoltatori» dice la brunetta che, quando parla, sembra sempre che inizi «mammamà mammamariamà» e, invece che con il tablet in mano, ti ritrovi sul divano in tinello davanti a una tv grossa come una lavatrice.

Alessio, il figlio di Franco Gatti, morì a 23 anni per un mix di eroina e alcol. Il padre disse in tv: «Ci rincontreremo». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 18 Ottobre 2022.

Il figlio dello storico componente della band I Ricchi e Poveri, morto il 18 ottobre 2022 a 80 anni, fu vittima di un mix letale di sostanze all’età di 23 anni: il padre ha raccontato che dopo la sua perdita non riusciva più a salire sul palco 

Aveva solo 23 anni Alessio, il figlio di Franco Gatti dei Ricchi e Poveri, quando morì in casa per un mix letale di alcol ed eroina. Era il 2013, fu trovato senza vita nella sua abitazione di Nervi, a Genova. 

Franco e gli altri della band stava per salire sul palco del teatro Ariston, per ritirare il Premio alla carriera a Sanremo, ma una telefonata lo informò che il figlio era scomparso. Fu poi Fabio Fazio ad annunciare in sala stampa l’improvvisa defezione dei Ricchi e Poveri, a causa del grave lutto improvviso. Un dolore che lo avrebbe distrutto, tanto da spingerlo nel 2016 a lasciare la band. 

Alessio Gatti morì sì per un mix letale di alcol e droga, ma era la prima volta che faceva uso di eroina. A cinque mesi dall’autopsia i periti confermarono le parole del padre: non era tossicomane, ma purtroppo beveva e beveva. Così i consulenti incaricati dal pm Cristina Camaiori della procura di Genova (Francesco Ventura e Cristina Stramesi) dopo mesi di lavoro spiegarono così quella morte per infarto, consumatasi a «Villa Novascone», la notte del 12 febbraio 2013. Alessio Gatti era solo in casa, era stramazzato al suolo davanti al tavolo del soggiorno. Davanti a lui psicofarmaci, una bottiglia di vodka, resti di polvere bianca che è risultata essere eroina. Nella relazione i tecnici parlano di una «prima assunzione». Una magra consolazione per il padre, che però in quei mesi si era battuto come un leone ed aveva sostenuto ovunque che suo figlio non avesse mai fatto uso di droghe in vita sua. Il giorno della sentenza fu per lui un sollievo. Dichiarò: «Ero certo che non avremmo scoperto nostro figlio tossicodipendente. Non c’è niente che mi consoli, se non che in tanti ci sono rimasti vicini per mesi senza trarre conclusioni affrettate».

Un dolore che devastò la vita di Franco. Lo storico volto del gruppo aveva raccontato in televisione, parlando insieme alla moglie Stefania, del dolore che li aveva travolti a seguito della perdita tragica e improvvisa del figlio, in un momento particolarmente delicato della sua vita. «Mio figlio beveva, beveva e beveva. Ed è stata anche un po’ la sua disgrazia». Spiegò, quasi a voler trovare un briciolo di pace: «Ha fatto una cazzata, la prima della sua vita con gli stupefacenti e in un momento in cui non stava bene. E l’ha pagata così». E ancora: «Credo che ci rincontreremo, lo spero. Io mio figlio lo sento vicino. Era incredibile, dotato di una grande genialità. Io ho sempre giocato nei titoli borsistici, gli feci vedere come facevo, dopo sei mesi era migliore di me. Di studiare non se ne parlava, però era un tipo così».

Ospite di Eleonora Daniele, a Storie Italiane su Rai1 dichiarò: «I miei colleghi e amici continuano a lavorare. Io mi sono fermato perché non salivo più con gioia sul palco». Gatti aveva detto «di essere stanco» e «che dopo la scomparsa di Alessio» per lui «era cambiato tutto», aggiungendo: «Penso che Alessio sia il mio angelo, che mi venga dietro e mi aiuti. Credo che ci rincontreremo, lo spero».

Alessandra Comazzi per “la Stampa” il 19 ottobre 2022. 

È triste, Pippo Baudo, e certo non è un'espressione di circostanza.

Ne sta vedendo tanti, vecchi compagni, vecchi amici, vecchi talenti genere «questo l'ho scoperto io», che se ne vanno, sempre troppo presto. 

Come ricorda Franco Gatti?

«Era simpatico, riservato, non espansivo, ma generoso. Ha avuto una vita tribolata». 

I Ricchi e Poveri vinsero uno dei tanti Festival condotti da lei nell'85 con Se mi innamoro. Com' era il brano?

«Come tutti i loro: orecchiabile, meno facile di quanto si sarebbe detto a un primo ascolto. E di grandissimo impatto. Non a caso sono tra gli artisti italiani più venduti al mondo di tutti i tempi».

I precursori dei Måneskin?

«Più che altro i seguaci del Quartetto Cetra. Io li vedo molto simili. Anche se i Cetra erano formati da una donna e tre uomini, si possono ugualmente notare dei parallelismi. Di sicuro, Gatti era Felice Chiusano, il pelato. Loro non scrivevano né musica né testi, ma interpretavano quelli che Mogol, Minellono, Nicola Di Bari, Bardotti, Cutugno, Balsamo, scrivevano per loro. Tutti i migliori». 

E come interpretavano?

«Con forza, vivacità, eccezionale capacità di armonizzazione. Anche per questo ricordavano il Quartetto Cetra». 

Che Italia era quella dei Ricchi e Poveri?

«L'Italia che si poteva girare per due anni con uno spettacolo di teatro tenda, Alle nove sotto casa, si intitolava. Era il 1975, il nostro lavoro era ancora raccontato dai Cinegiornali Luce. E noi viveva praticamente insieme». 

Un teatro tenda alla Gassman? Portare lo spettacolo al pubblico, invece che il pubblico allo spettacolo?

«È stato anche quello. Era un varietà. Con le ballerine, le primedonne, le soubrette, i cantanti, ricordo Gianni Nazzaro con Solvy Stubing. Teatro vero come la vita, alla portata di tutti, un bell'esperimento. Quella era l'Italia. Contraddittoria. Periodo cupo, ma anche pieno di voglia di sperimentare, cambiamenti, nuove leggi, foriero di una nuova idea di spettacolo». 

Come si spartivano i ruoli, i quattro?

«Sembravano i protagonisti della commedia dell'arte. Angela Brambati era la soubrette divertente, una Ninì Tirabusciò, per intenderci. Angelo Sotgiu era il bello, il cavaliere goldoniano. Marina Occhiena la maliarda conquistatrice e Franco il simpatico. Lui aveva una faccia sempre seria, ma con quella faccia riusciva anche a essere comico. Sa Buster Keaton, l'uomo che non sorrideva mai? Franco era un po' così. Ma come tutte le persone che sanno far ridere, era anche molto triste. La morte del figlio l'aveva distrutto, e prima l'aveva distrutto la sua vita. Ma, poi, cosa c'è di peggio che sopravvivere a un figlio?».

Massimo Iondini per “Avvenire” il 19 ottobre 2022.

Se ne va un pezzo d'Italia canora. Quello del tradizionale cantar leggero sanremese, dei cantagiri e delle canzonissime che i Ricchi e Poveri hanno incarnato. Il loro stesso nome evocava del resto qualcosa di simpaticamente "provinciale" e semplice. Alla "poveri ma belli", da commedia e televisivo bianco e nero. 

Un nome affibbiatogli da altri, oltretutto. Il quartetto ora non c'è più, per davvero, definitivamente. Il secondo gruppo italiano per vendite di dischi dopo i Pooh (oltre 22 milioni) ha perso ieri il più anziano del quartetto, Franco Gatti. La critica, snob per definizione, aveva sempre storto il naso di fronte a quegli Abba nostrani. Ma la gente li amava. 

E ora piange quello con i baffi e la voce più bassa, colui che sul palco sorrideva meno perché apparissero ancora di più la simpatia effervescente di Angela Brambati e il biondume della "rivale" Marina Occhiena con il "bello" Angelo Sotgiu che, nei primi anni 60, con Gatti faceva parte dei Jets. 

Tre anni dopo ecco nascere i Ricchi e Poveri, quasi subito vincenti con quel perfetto assortimento estetico e vocale. Il trampolino di lancio, per loro tutti liguri, di Genova, non poteva che essere Sanremo. Con due titoli (c'erano ancora gli abbinamenti con altri artisti) a dir poco "profetici": La prima cosa bella nel 1970 (cantata anche da Nicola di Bari) e Che sarà l'anno dopo (in abbinamento con Josè Feliciano). Entrambe le volte un secondo posto.

Ma per Franco Gatti, ottant' anni appena compiuti (lo scorso 4 ottobre), la prima cosa bella della vita, più ancora della carriera artistica, era la famiglia. Quella che gli ha anche inferto il più atroce dei dolori, la perdita di un figlio. Quella che gli consentiva sempre e comunque di «andare avanti e vivere la vita nel miglior modo possibile, cercando di rallegrare se stessi e gli altri, senza dare mai fastidio ma cercando l'amicizia delle persone che lo meritano». Si raccontava così Franco nel 2020, anno della trionfale reunion dei Ricchi e Poveri a Sanremo. 

Affranto dalla morte improvvisa del figlio Alessio, il 13 settembre 2013, proprio mentre i Ricchi e Poveri erano al Festival per ricevere un Premio alla Carriera, non ritirato, Franco aveva abbandonato il gruppo nel 2016 per dedicarsi solo alla famiglia, sua moglie e sua figlia. Si era poi fatto convincere a tornare a cantare, proprio ripartendo dal Teatro Ariston sette anni dopo, quasi per tentare di esorcizzare quel dolore esploso proprio lì, nella città dei fiori che tanto aveva rappresentato per lui e per il gruppo, dopo quella tragica telefonata.

«Credo che Ballata per Genova nel 2019 e il Festival di Sanremo nel 2020 siano stati tra i momenti più belli degli ultimi dieci anni della sua vita. Il mio pensiero - ricorda con commozione Amadeus - va innanzitutto alla sua famiglia ma anche agli stessi Ricchi e Poveri e a tutte le persone che hanno lavorato con lui. Mi piace ricordarlo proprio sul palco dell'Ariston: ho rivisto nei suoi occhi la gioia di una persona molto attaccata alla storia dei Ricchi e Poveri, sempre e comunque sorridente, ironico e simpatico». 

Quello che emerge da chi lo ha conosciuto è il ritratto di una persona timida, riservata e buona. I Ricchi e Poveri sono stati la famiglia artistica di Franco Gatti dal giorno in cui, nel 1967, vennero ribattezzati così da Franco Califano perché, diceva, erano «ricchi di idee, ma poveri di soldi». Un giorno, dopo essere stati invitati per la quinta volta a pranzo da Califano, suggerisce loro, dopo aver scoperto che i quattro ragazzi non avevano molti soldi, di adottare il nome che li ha poi resi celebri. Decide di diventare il loro produttore, li fa restare a Milano, pagando loro albergo e vestiti, e crea un nuovo look per ognuno, che comprende un taglio maschile per i capelli di Angela e un'ossigenata a quelli di Angelo e Marina.

«È andato via un pezzo della nostra vita. Ciao Franco», dicono ora commossi i suoi compagni di viaggio, quelli con cui ha calcato i palchi di mezzo mondo, con hit immortali come Sarà perché ti amo, Che sarà, Se m' innamoro, La prima cosa bella, Mamma Maria e Voulez vous danser. Tutti successi dalla melodia accattivante e testi all'insegna della spensieratezza e dell'allegria, cantati a memoria e amati da più generazioni. 

Considerati, come detto, gli Abba italiani, i Ricchi e Poveri hanno un posto tutto loro nella storia della musica: un quartetto polifonico, formato da due voci maschili, il "baffo" Franco Gatti e il "biondo" Angelo Sotgiu, e due voci femminili, la "brunetta" Angela Brambati e la "bionda" Marina Occhiena. Quest' ultima aveva lasciato per prima il gruppo, nel 1981. 

Da quel momento i Ricchi e Poveri si imposero come trio, fino al giorno dell'uscita di Franco che portò ad una pausa di riflessione e ad una breve parentesi in duo Angela e Angelo. Infine la reunion del quartetto, rimesso insieme con grande sensibilità dal manager Danilo Mancuso, che convinse Marina e Franco a tornare nel gruppo.

Dopo l'esibizione a Sanremo, con la standing ovation in teatro e un picco di ascolti in tv, e dopo un nuovo album insieme, i Ricchi e Poveri sarebbero dovuti ripartire per un tour anche all'estero, toccando Paesi in cui sono celebri come la Russia, ma l'esplosione della pandemia da Covid, poi la guerra e la morte inattesa di Franco hanno interrotto il sogno. 

L'ultima esibizione dei Ricchi e Poveri al completo è stata in una serata evento di Rai 1 lo scorso anno, condotta da Carlo Conti. «Per fortuna siamo riusciti a fare la reunion, lui voleva rivedere il gruppo riunito prima che succedesse qualcosa », ha raccontato Marina Occhiena ieri a Storie italiane, il programma condotto da Eleonora Daniele su Rai 1. «È stata una cosa bellissima, un grande dono anche per i fan che ci hanno seguito per così tanto tempo. Dopo Ballando con le stelle, nel settembre del 2020, non ci siamo più visti tutti insieme. Il Covid ci ha portato via due anni e all'età di Franco non sono pochi». 

Domani a Genova, alle 11.30 nella chiesa di San Siro nel quartiere Nervi, l'ultimo saluto all'artista, omaggiato sui social da tanti colleghi, amici e politici, in primis la premier in pectore Giorgia Meloni.

Da ansa.it il 20 ottobre 2022.

Un lungo applauso ha accompagnato questa mattina, nella Chiesa di San Siro a Genova Nervi, Franco Gatti, il baffo dei Ricchi e Poveri, scomparso martedì scorso. Sulle note di "Can't help falling in love" di Elvis risuonate in chiesa, suo cantante preferito, a centinaia si sono ritrovati per salutare il musicista, tanta gente comune. Per lui rose bianche e gialle e le corone di tanti colleghi tra queste quella di Toto Cotugno. 

Tra i presenti anche Pupo che ha definito i Ricchi e Poveri "gli Abba" italiani e che per loro aveva scritto "Sarà perché ti amo". "Il suo regalo più grande sono state le ultime parole che mi ha detto: ti amo e ti amerò sempre" ha confessato la moglie Stefania "e adesso ha raggiunto Alessio" il figlio scomparso tragicamente nel 2013.

A salutare Gatti c'erano tutti i Ricchi e Poveri, Angelo Sotgiu, Angela Brambati e Marina Occhiena, i musicisti che in tanti anni hanno lavorato con lui. Durante l'omelia padre Mauro ha detto: "Le farfalle non hanno voce, ma quando volano fino al cielo sussurrano libere e tu Franco lo avrai fatto con Gesù chiedendo di portarti da Alessio. Ci mancherà la sua modestia e la sua disponibilità, era una grande persona, ma ci sarai ogni volta che ascolteremo una canzone dei Ricchi e Poveri". 

La nipote Vittoria, a nome della famiglia, ha letto un messaggio: "Per noi parenti era famiglia, era lo zio, l'essere un cantante famoso veniva dopo - ha detto-. Ogni volta che tornava a casa da una tournée quando gli chiedevamo come va rispondeva sempre 'andante con brio'". "La stessa cosa che mi ha risposto l'ultima volta che l'ho sentito, era un uomo molto saggio" ha ricordato sorridendo Marina Occhiena. 

"Non ci son parole per raccontare il nostro dispiacere - hanno ammesso Angelo Sotgiu e Angela Brambati -. Lo ricordiamo e lo porteremo sempre nel nostro cuore, una persona elegante, serena e onesta, era soprattutto un uomo onesto. Siamo molto commossi".

Franco Gatti, al funerale il commosso saluto dei Ricchi e Poveri e di Pupo. La moglie: «Hai raggiunto tuo figlio». Redazione online su Il Corriere della Sera il 20 Ottobre 2022

Nutrita presenza alle esequie del componente della band, scomparso a 80 anni martedi scorso. La moglie: «Adesso ha raggiunto il figlio Alessio» 

Un lungo applauso ha accompagnato questa mattina, nella Chiesa di San Siro a Genova Nervi, Franco Gatti, il baffo dei Ricchi e Poveri, scomparso martedì scorso. Sulle note di «Can’t help falling in love» di Elvis risuonate in chiesa, suo cantante preferito, a centinaia si sono ritrovati per salutare il musicista, tanta gente comune. Per lui rose bianche e gialle e le corone di tanti colleghi tra queste quella di Toto Cotugno. Tra i presenti anche Pupo che ha definito i Ricchi e Poveri «gli Abba» italiani e che per loro aveva scritto «Sarà perché ti amo». «Il suo regalo più grande sono state le ultime parole che mi ha detto: ti amo e ti amerò sempre» ha confessato la moglie Stefania «e adesso ha raggiunto Alessio» il figlio scomparso tragicamente nel 2013.

Ricchi e Poveri al completo

A salutare Gatti c’erano tutti i Ricchi e Poveri, Angelo Sotgiu, Angela Brambati e Marina Occhiena, i musicisti che in tanti anni hanno lavorato con lui. Durante l’omelia padre Mauro ha detto: «Le farfalle non hanno voce, ma quando volano fino al cielo sussurrano libere e tu Franco lo avrai fatto con Gesù chiedendo di portarti da Alessio. Ci mancherà la sua modestia e la sua disponibilità, era una grande persona, ma ci sarai ogni volta che ascolteremo una canzone dei Ricchi e Poveri» . La nipote Vittoria, a nome della famiglia, ha letto un messaggi: «Per noi parenti era famiglia, era lo zio, l’essere un cantante famoso veniva dopo - ha detto-. Ogni volta che tornava a casa da una tourne’e quando gli chiedevamo come va rispondeva sempre `andante con brio´». «La stessa cosa che mi ha risposto l’ultima volta che l’ho sentito, era un uomo molto saggio» ha ricordato sorridendo Marina Occhiena. «Non ci son parole per raccontare il nostro dispiacere - hanno ammesso Angelo Sotgiu e Angela Brambati -. Lo ricordiamo e lo porteremo sempre nel nostro cuore, una persona elegante, serena e onesta, era soprattutto un uomo onesto. Siamo molto commossi».

Ricchi e Poveri, nessuna pace nella band. Pupo: "Divisi e lontani ai funerali di 'Baffo' Franco Gatti". La Repubblica il 24 Ottobre 2022.

Secondo il cantante, amico del gruppo e autore di 'Sarà perché ti amo', "Marina Occhiena ha inutilmente cercato di sedersi accanto ad Angela e Angelo"

Nessuna pace tra i Ricchi e Poveri. Non sembrano risolti i dissapori a 41 anni dalla lite tra Angela Brambati e Marina Occhiena che portò all’uscita dal gruppo di quest’ultima. Neanche la reunion del 5 febbraio 2020 al Festival di Sanremo condotto da Amadeus è servita dunque per superare le divisioni. Almeno a voler dar credito a quanto scrive Pupo, amico della band, autore di molte loro canzoni tra le quali anche Sarà perché ti amo che cantarono in quella travagliata edizione del Festival, nella sua rubrica intitolata Dolce e un po’ salato pubblicata oggi su QN. Lo scorso 20 ottobre Pupo ha partecipato al funerale di Franco Gatti, il “Baffo” del gruppo morto il 18 ottobre.

“Non erano presenti, a parte gli altri tre componenti del gruppo, personaggi importanti del mondo dello spettacolo ma, almeno io, non ne ho proprio sentito la mancanza”, scrive Pupo sotto il titolo L’addio a “Baffo” e quella stonatura dei Ricchi e Poveri. “Nella chiesa del quartiere Nervi di Genova si respirava l’amore puro e genuino che l’intera comunità del luogo e la famiglia di Franco portavano dentro di loro e diffondevano”.

E più avanti: “Solo una piccola ‘stonatura’. “Angelo ed Angela, gli attuali componenti della storica formazione musicale, non si sono seduti sulla panca in prima fila accanto a Marina (la ex del gruppo) anche se lei, essendo arrivata in chiesa prima di loro ed essendosi premurata di lasciare due posti liberi, li aveva ripetutamente invitati”.

·         E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.

Da rainews.it il 17 ottobre 2022.

Il musicista haitiano “Mikaben”, al secolo Michael Benjamin, è morto sul palco durante un concerto “reunion” a Parigi. Mika ha avuto un arresto cardiaco. È morto subito nonostante i soccorsi. Quarantuno anni, 20 anni di carriera, l'haitiano era diventato famoso in patria e all'estero nei primi anni 2000 con il brano “Ou Pati”. Benjamin era figlio d'arte, suo padre Lionel Benjamin è affettuosamente conosciuto come il “Babbo Natale haitiano” per la sua popolare canzone di Natale, Abdenwèlm.

Il malore e poi la morte: così il cantante si è accasciato sul palco. Francesca Galici su Il Giornale il 18 ottobre 2022.

È morto sul palco, all'improvviso, il cantante e musicista haitiano Mikaben, nome d'arte di Michael Benjamin. Aveva 40 anni ed era uno degli artisti più noti del suo Paese anche a livello internazionale. Aveva 41 anni, di cui 20 trascorsi sul palco: erano i primi anni Duemila quando il suo nome esplose all'improvviso nel mondo della musica con la canzone Ou Pati, diventata una vera e propria hit internazionale. Difficile capire cosa sia successo sul palco di Parigi, dove Mikaben si trovava per un concerto reunion.

Durante il concerto, infatti, i presenti l'hanno visto accasciarsi all'improvviso al suolo, senza avvisaglie precedenti e senza che abbia manifestato alcun malore nei minuti antecedenti. Soccorso immediatamente dal suo staff e dai presenti, Mikaben non ce l'ha comunque fatta e, in attesa di avere risposte certe dall'autopsia, si ipotizza un infarto. "È morto dopo aver subito un attacco sul palco e nonostante gli sforzi dei servizi di emergenza", hanno fatto sapere gli organizzatori della Accor Arena nella zona est di Parigi, il palazzetto in cui si stava svolgendo il concerto che vedeva la partecipazione di migliaia di persone.

Numerosi i video che riprendono la scena, che probabilmente saranno acquisiti dalle autorità per raccogliere quante più informazioni possibili sulla morte di Mikaben. Alcuni video sono stati già postati in rete e si vede il cantante che cerca di tornare dietro le quinte, probabilmente perché si è reso conto che qualcosa non va, ma non riesce a uscire di scena e collassa sulle assi del palcoscenico. Grande lo choc dei fan che l'hanno visto morire in diretta sotto i loro occhi, ancora increduli per quanto accaduto.

Dolore per la morte di "un artista giovane e di grande talento". Così si è espresso, tra gli altri, il premier haitiano Ariel Henry. Per il rapper Wyclef Jean, Mikaben era "uno dei giovani artisti più influenti e di ispirazione della nostra generazione". In patria era noto anche per essere il figlio di un altro artista famoso, Lionel Benjamin, che è conosciuto come il "Babbo Natale haitiano" per la sua popolare canzone di Natale, Abdenwèlm. 

·         È morta la cantante Christina Moser.

È morta Christina Moser, l’altra metà dei Krisma: il duo leggendario che fondò l’elettropop in Italia. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2022.

Si era ritirata in Svizzera, dopo la scomparsa del marito e compagno di band

Maurizio Arcieri: con lui un sodalizio umano-artistico durato oltre mezzo secolo

Da quando il suo Maurizio se ne era andato, sette anni fa, si era praticamente ritirata dalle scene, ma il culto di lei, insieme a lui, rimaneva inalterato: parliamo di Christina Moser, l’altra metà dei Krisma (lui è l’indimenticato Maurizio Arcieri), la band italiana che di fatto ha inventato l’elettropop nei lontani ’70. Christina è morta a 71 anni nella sua Lugano, lei svizzera-milanese, dopo una lunga malattia: lì si era stabilita dunque dopo la scomparsa dell’inseparabile marito con cui aveva formato un sodalizio umano-artistico lungo quasi 50 anni.

Quando lei, ragazzina, si era innamorata del cantante belloccio dei New Dada, una delle tante band che predicavano il beat all’italiana, una di quelle che erano arrivate ad aprire ai Fab Four, al leggendario concerto milanese al Vigorelli del 1965. Ma Maurizio, estroso per natura, si stufò in fretta di quel rock d’importazione e si diresse, un decennio dopo, verso tutt’altri lidi, quelli dell’elettronica, fondando i Krisma. Se Maurizio era il motore alle avveniristiche (per allora) macchine , lei ne era il volto e la voce, con quelle pettinature spaziali e mise altrettanto postmoderne: dischi come Chinese Restaurant, Hibernation, Cathode Mama, Clandestine Anticipation trasformaronosubito i Krisma in un marchio di culto.

Forse troppo per le latitudini un po’ provinciali del nostro paese, tant’è che i due si trasferirono nella Factory di Andy Warhol all’inizio degli Ottanta. E mentre il mito cresceva ad altre latitudini(in Giappone come in Sudamerica), da noi venivano progressivamente dimenticati, se non per una meteorica apparizione televisiva da Chiambretti nel 2009, dove, su un trono, giudicavano le alterne fortune dei protagonisti del programma. Nel 2015 la morte di Maurizio spinse dunque Christine a ritirarsi nella sua Svizzera. Ora non c’è più neanche lei. Ma il culto, eccome, rimarrà.

Morta Christina Moser, pioniera del punk elettronico con i Krisma. La Repubblica il 13 ottobre 2022.

Aveva 70 anni. Con il marito Maurizio Arcieri aveva dato vita a un progetto che ha segnato la new wave italiana

Insieme al marito Maurizio Arcieri era stata una delle grandi innovatrici del rock italiano con i Krisma. Christina Moser è morta a 70 anni a Lugano dopo una lunga malattia. Di famiglia svizzera ma nata e cresciuta a Milano, Christina Moser conobbe Maurizio Arcieri giovanissima, quando lui era un idolo del pop italiano degli anni Sessanta. Assieme, verso la fine degli anni Settanta, diedero vita a un progetto (chiamato inizialmente Chrisma e in seguito Krisma) estremamente contemporaneo: uno dei primi esempi italiani di new wave elettronica di derivazione punk che divenne poi uno stile imperante nel rock europeo di quegli anni.

Il loro primo singolo dal titolo Amore, prodotto da Niko Papathanassiou – fratello di Vangelis – venne presentato al Festivalbar 1976. Il primo album Chinese Restaurant venne pubblicato invece nel 1977, ancora stotto la sigla Chrisma. Il cambio di nome in Krisma arrivò con il terzo album Cathode mamma, del 1980, dove Christina Moser rivestiva un ruolo di primo piano con i suoi interventi vocali. In quell'occasione, il brano Many Kisses entrò in classifica.

I Krisma divennero celebri anche per i loro show dal vivo, spettacolari e provocatori: rimase celebre l'esibizione in un locale di Reggiolo nel corso della quale Arcieri si rese protagonista di una automutilazione di una falange, sollevando uno scandalo mediatico.

Negli anni novanta col partner Arcieri realizzò programmi televisivi e fondò la KrismaTv. A partire dal 2009 fece parte del cast fisso del programma di seconda serata Chiambretti Night, sempre al fianco del marito.  

CHRISTINA MOSER (1952-2022)

Da “Anteprima. La spremuta di giornali di Giorgio Dell’Arti”.  

Cantante e compositrice svizzera-milanese. Cofondatrice, assieme al marito Maurizio Arcieri, del duo musicale Krisma, la band italiana che di fatto ha inventato l'elettropop negli anni 70. «Ragazzina, si era innamorata del bel cantante dei New Dada, una delle tante band del beat all'italiana. 

Di cui Maurizio si stufò per dirigersi, un decennio dopo, verso tutt'altri lidi, quelli appunto dell'elettronica. Lui motore, lei volto e voce, i Krisma diventarono subito un marchio di culto.

Forse troppo per il nostro provincialismo, tanto che i due volarono a New York nella Factory di Andy Warhol all'inizio degli ‘80. E se il mito cresceva fino in Giappone, da noi venivano pian piano dimenticati, se non per un'incursione tv da Chiambretti nel 2009, Ma il culto, eccome, rimarrà» [Cruccu, CdS]. È scomparsa a 71 anni nella sua Lugano, dopo una lunga malattia.

Dagospia il 14 ottobre 2022. Dalla pagina Facebook di Carlo Massarini 

Sette anni dopo Maurizio se n’è andata anche Cristina. I Kris-Ma rimarranno nei nostri ricordi come artisti innovatori, provocatori, sfacciatamente originali (in tutto e per tutto, dalla musica alla loro televisione satellitare), ostinatamente personali. Karis-Matici.

Nel loro momento di splendore tanto belli, sexy e innamorati quanto vulcanici, sempre in movimento fra le capitali del mondo, sempre pronti a stare sulla frontiera in attesa di segnali da raccogliere. 

Paolo Giaccio li mandò a Bali (truccando il foglio trasferta Rai con ‘Bari’) a girare i loro video ‘acquatici’ da ‘Clandestine Anticipations’ per Mister Fantasy, e dopo mille traversie finirono alla Maldive, Piccio Raffanini regista e Mario Convertino art-director. Sapete quelle cose, quei periodi in cui funziona tutto anche se un inciampo tira l’altro? Quando c’è la classe…tutto si può fare. Ciao Cristina, buon viaggio: di nuovo insieme, e non c’era cosa che desideraste di più.

Dalla pagina Facebook di Carlo Massarini 

L'anno scorso, quando pubblicavo ogni sabato la rubrica de Linkiesta sui grandi album, avevo sfruttato un best dei Krisma per tracciare il loro percorso, così avanti nei loro tempi, così moderni ancora adesso. In direzione ostinata e contraria per vocazione. Pionieri della new wave italiana dannatamente originali, così uniti da essere davvero un nome solo. Gente libera di pensare e fare quello che gli pareva, non esattamente quello che succede adesso. Ciao Cris, e salutaci Maurizio, che ti aspettava da sempre. 

Il fascino alternativo e incompreso dei Krisma. Carlo Massarini per linkiesta.it il 14 ottobre 2022.

I Krisma sono una delle coppie più singolari, creative, innovative mai apparse sulla scena artistica italiana. Belli, irresistibilmente cool e sfrontati, anticonvenzionali fino all’estremo, pesci fuor d’acqua in una scena italiana che non li ha mai capiti, figurarsi accettati, quindi inevitabilmente costretti (e ben volentieri, peraltro) a cercare le loro strade al di fuori dei nostri confini. Eclettici abbastanza per bruciare tutte le loro carte musicali in un lustro, forse due, e riconvertirsi poi a un mondo mediatico d’avanguardia fra programmi di culto e tv satellitari quali la loro Krisma.tv.

Seguire i Krisma voleva dire entrare in una bizzarra dimensione parallela fatta di sonorità inedite e sessualità esuberante ed esplicita, molto ammiccante e parecchio fetish, stilosità a la page nel vestire, nel farsi fotografare e nei videoclip, globalizzazione antelitteram e contatti ai massimi livelli con musicisti e produttori americani ed europei sulla loro lunghezza d’onda. 

Lontani dalle sonorità italiane degli anni 70 e primi 80, e non a caso riscoperti o integrati anni dopo da coloro che quelle ricerche le avevano condivise (Battiato, insieme su “10 Stratagemmi”) o che le avevano apprezzate successivamente (Subsonica su ’Nuova Ossessione’). 

La loro vocazione alternative ogni tanto ha incrociato le hit parade, e quello che rimane in eredità, ora che Maurizio Arcieri non c’è più, è una manciata di album nel periodo punk/new wave/techno pioneristici per l’Italia e perfettamente allineati ai tempi stranieri della sperimentazione elettronica prima e digitale poi, che i Krisma hanno cavalcato con fantasia fuori del comune: la sperimentazione di Maurizio nel mondo delle tecnologie applicate alla musica è stata davvero extra-ordinaria.

Visto che quasi tutti questi album (i migliori, quantomeno, cioè i primi quattro) sono fuori catalogo, scelgo per raccontare la loro traiettoria un “Best” che, con parecchie scelte discutibili (valga per tutte la mancanza della strepitosa ‘Black Silk Stocking’, ma come si fa…), assembla alcuni momenti memorabili. I primi tre album, e ne vale la pena, li potete trovare per intero su Spotify. (Chinese Restaurant del 1977, Hibernation del 1979 e Cathode Mamma del 1980). 

Ma questo momento sulla frontiera dell’esplorazione sonora è una seconda fase di Maurizio Arcieri e Christina Moser, milanese teen idol lui, cresciuto nel beat degli anni 60, lussuriosa bellezza bionda lei, ricca ereditiera svizzera decisamente non votata alla vita borghese e di società. Arcieri, prima con i New Dada, uno dei tanti complessi beat che inondano la penisola sulla scia della British Invasion, e poi da solo, arriva fino a metà anni 70 vivendo un po’ di rendita sulla sua bella faccia, un superclassico (’5 Minuti e poi’), e una serie di cover: Hit Parade, Cantagiro, copertine dei magazine giovanili, fotoromanzi, musicarelli, insomma tutta la trafila pop di quegli anni.

Un giorno del ’66, al party di compleanno della figlia di Leo Wechter, l’impresario che aveva chiamato i New Dada ad aprire i concerti dei Beatles al Vigorelli a Milano, arriva lei, 14enne di quelle che non diresti mai che, e su quel 24enne dal capello mechato biondo e lo sguardo birichino colpo lo fa eccome. 

Cristina ricorda l’incontro: «Ha lasciato quattro palle del flipper per starmi dietro. A 14 anni sono cose estremamente romantiche». Fu l’istantaneo decollo di una di quelle storie ai confini della realtà, 46 anni tutti i giorni insieme, casa e bottega, «eravamo una sorta di due mezza mela. E quando litigavamo era rigorosamente in inglese».

Il matrimonio arriva nel ’72, e il takeoff insieme come Chrisma nel 1976 è una sorta di disco-sexy-pop, canzoni languide e spacchi di gonna da eccitazione istantanea, singoli con l’inequivocabile titolo di ’Amore’ prima (comunque con una base percussiva mica male, cortesia degli Osibisa, pionieri dell’afro-funk), e ’U’ l’anno dopo. Sorta di concept alla ’Love To Love You Baby’, per chi c’era basta la parola. 

Però occhio a chi sta dietro a questi due singoli: la musica del primo e la prima versione del secondo sono di Vangelis Papathanassiou, ex Aphrodite’s Child, pochi anni prima sensazione pop greca con ’Rain And Tears’, e destinato alla gloria come compositore da Oscar a Hollywood. La produzione è del fratello Niko, ed entrambi rimarranno con loro in tutta la prima fase elettronica. E non va dimenticato il supporto di Alain Trossat, discografico italo-francese a capo della Polygram, loro mentore e supporter, non la più scontata delle intuizioni.

Poi arriva il punk, e nel giro di tre mesi (!) nulla sarà come prima. Cambia l’estetica, e cambia la musica. Perché se da una parte, nel periodo iconoclasta dei Pistols e discepoli, cominciano a frequentare e a vestirsi alla londinese, la musica non ha nulla a che vedere col punk due-accordi-sulla chitarra-e-spacco-tutto. 

Tutt’altro. Neanche con i Velvet Underground, per la verità, a cui li paragona un giornalista inglese. La matrice è dichiaratamente teutonica, scuola Neu! e Bowie berlinese, un paragone possibile con i Suicide di Alan Vega e gli Ultravox prima maniera, quelli con John Foxx, o forse Siouxsie and the Banshees: il trash dell’amore-sound gettato via, si inoltrano in un’elettronica dark e atmosferica, sintetica e poco giocosa (almeno all’inizio), europea più che americana. Hanno una loro visione e, va detto, non sono epigoni o derivativi, quanto contemporanei dei nomi più innovativi sulla scena.

“Chinese Restaraunt” esce alla fine del ’77, ed è magnifico, oltreché sorprendente: aperto da ’Thank You’, un lento incedere di funk ammantato di synth che in chiusura, stesso titolo, diventa un lunghissimo elenco di ringraziamenti, voce trattata ovviamente, che partono dal proprietario del ristorante cinese e attraversano la storia del r’n’r, del glam e dell’elettronica. 

Le radici, insomma, anche se di Buddy Holly e degli Sha-Na-Na, per dire, ci si può chiedere il grado di parentela, più comprensibili Hendrix, Neu! e Roxy Music. Cristina: «Per me una cosa da bambini, tutto stupendo, come il primo tramonto, la sensazione che sarebbe stato un successo».

È la porta d’ingresso a un mondo esplosivo quanto quella ’Black Silk Stocking’, ritmo ossessivo new wave e una chitarra distorta e cattiva, che un pomeriggio della domenica di Rai1 portano nel ’78 nel Piccolo Slam di Stefania Rotolo e Sammy Barbot. 

Luca Frazzi, nelle note di “CHyberNation’, booklet esaustivo + disco tributo di vari giovani artisti, racconta di come abbia potuto stravolgere la vita di 12enne impreparato alla apparizione: «Lei vestita come un trans molesto (sul canale democristiano), lui con uno sguardo alieno che è il segnale definitivo: azzeriamo tutto, si riparte. Punk! Il 12enne esce turbato da quell’esperienza, non pensava che la tv potesse essere così pericolosa». Più o meno, mutatis mutandis, Elvis alla tv americana nel ’56 o i Pistols alla tv inglese l’anno prima. A quell’età, la folgorazione è sempre dietro l’angolo. 

Ma ci sono molti altri brani che hanno quel tiro new wavish che puoi trovare alla fine dei ’70 nei club delle metropoli occidentali: ’Wanderlust’, ’What For’, e la irresistibile ’C.Rock’, un giro di Do (C, in inglese, appunto) con twang di chitarra trattata come linea melodica, gran giro di basso e batteria sui 150 bpm, ottimo per un training di aerobica, sopra un mantra ripetuto all’infinito «let’s rocking! go back rocking!».

È uno dei tre brani dell’album (troppo pochi!) inseriti nel “Best”, dove c’è naturalmente anche quello che doveva essere il loro pezzo per Sanremo, se solo lo avessero tradotto in italiano, il tango elettronico ’Lola’. 

«Forse l’unico errore che abbiamo fatto, anche se il concetto di Saremo non era per noi. Ma avremmo avuto molto più successo, che ci avrebbe consentito di fare molte più cose». Fascinoso davvero, con i synth che disegnano atmosfere notturne mittleuropee, una chitarra flamenco che aggiunge una carezza calda, Cristina che nel suo stile un po’ cantato un po’ parlato racconta la storia di questa donna misteriosa e sfuggente, «occhi a mandorla e fascino profondo», una prostituta? Una spia? O meglio, solo una detective privata, che ogni notte al ristorante cinese seduce e finge, «agisce per una causa e cerca informazioni». L come La Vendetta:

«Al Cinese, Lola

Ha ucciso tutti coloro che le hanno fatto del male

La sua anima è in fiamme,

Una bramosia di sangue

Senza che nessuno si ribelli…». 

’Mandoia’ è un’altra tentazione, orientale di gusto, forse da qualche parte in Indonesia, morbida e avvolgente, synth che circolano intorno, sempre batteria veloce e chitarra acustica con quel «so schön you can komm», così bello che puoi venire, significhi quel che si vuole, che viene ripetuto come ad attirarti dentro nel mondo esotico dell’Hotel Chrisma. 

E infine, ’Lycee’, fuori dalla compilation ma notevole nel suo alone onirico e oppiaceo, drammatico e struggente, una morte per eroina:

«Guardavo attraverso il vetro, lacrime di pioggia colavano giù

Una vista sfocata così brutta, in qualche modo mi fa paura

L’ho sentita urlare, echi di follia

È caduta al suolo, la mano protesa inutilmente.

Giovane, Lycee era giovane

Ma eccola lì per terra, chi chiamerà il suo nome?

Vittima di una fiammata rossa

Lei, un sole vivente, non tornerà più indietro». 

Maurizio ricorda che collaborando con Vangelis spesso i punti di vista non coincidevano, «non capiva perché volessimo essere così sintetici e rifiutassimo suoni più pomposi ed orchestrali. 

Ma su ’Lycee’, a un brano che avevo composto con una semplice tastiera Roland CR-5000, ha voluto aggiungere quei suoni ad accordo pieno, ed aveva ragione lui».

Cristina ricorda le serate a mangiare nel bistrot sotto lo studio Nemo, Maurizio e il grande tastierista greco a scrivere sulla carta del tavolo il brano ’Suffocation’ (nel solo di Vangelis “See You Later” e poi nei primi 15’ della colonna sonora -firmata da Vangelis- di Blade Runner), ispirata dalla tragedia di Seveso, annunci drammatici di Maurizio in sottofondo, prima dell’arrivo della voce celestiale di Jon Anderson degli Yes: «Non erano due da conservatorio, anche se uno suonava dieci tastiere e l’altro due computer, ma si divertivano a disegnare, invece che un pentagramma, delle linee diverse, in tutte le direzioni, che per loro era la musica del brano». 

Siamo nel 1978, il tour promozionale parte in un contesto che è proibitivo per le band estere, ma pericoloso anche per quelle italiane. 

Chi non è allineato politicamente rischia contestazioni. In una delle prime date, a Reggiolo, gli autonomi/autoriduttori irrompono in sala. In una lunga, approfondita intervista di Joyello pubblicata sempre in “ChyberNation”, Cristina ricorda: «A noi non andava di cantare di fabbriche e problemi sociali ma a quei tempi se non dimostravi impegno politico nelle canzoni venivi immediatamente escluso da certi ambienti».

Maurizio continua: «Noi avevamo un’iconografica punk, vestivamo spesso di nero e gli autonomi, che non capivano l’estetica e nemmeno i nostri testi, ci prendevano per filo-nazisti. A Reggiolo arrivarono in massa lanciando sassi e molotov con slogan inviperiti. In quel momento, decisi di usare il coltello con cui scenograficamente tagliavo i bottoni della giacca per tagliarmi un dito e poi, come gesto di sfida, lo infilai in bocca a uno del pubblico». 

Devo dire mica male come coup de theatre, chissà che ricordo ne ha l’inditato. Aldilà della corsa in ospedale e dei due punti di sutura, Maurizio si prende una denuncia di autolesionismo, una quintalata di stampa non proprio a favore, il tour salta e i Chrisma si riparano nella più accogliente Inghilterra.

Con lo stesso team, incluso Vangelis che non appare «perché voleva fare il compositore, puntava alla Dutsche Grammophone, ed era meglio non essere identificato con gruppi pop», non a caso avrebbe raccolto Oscar col le sue musiche da film, cominciano a lavorare al successivo “Hybernation”, 1979, sicuramente più evoluto nei suoni e negli arrangiamenti. «Più pensato», ricorda Cristina, «l’idea delle ibernazione bellissima, dalla copertina argentea alla musica glaciale». 

Si apre con ’Calling’, acida e distorta, incalzante e dissonante, segue la magnifica ’Aurora B.’, seduttiva nella sua melodia al pianoforte che anticipa qualcosa di bowiano (’Ashes To Ashes’), le melodie e gli arrangiamenti che richiamano il Battiato che verrà; condotta da una fisarmonica (o è un synth che la replica? Vai a sapere), ma l’effetto è molto romantico:

«Al buio sediamo vicini, un caldo tremolante dentro di me

Pareti di cuscini di plastica lucida

La notte è giovane e così siamo noi

Le mie labbra calde e assetate

Vorrei bere del vino rosso freddo

Sento le sue dita sulla mia schiena nuda

Il mio nome è Aurora B., lui lo chiamano Jimmy Afterglow

E manda scintille giù per la mia spina dorsale…» 

’Gott Gott Electron’, dio dio elettrone, è il primo assaggio di quel tecno-pop che arriverà con ’Many Kisses’, il duetto fra Maurizio e Cristina e i coretti ’My life! My life!’ deliziosi, cugini di Blondie e B-52’s, con quel riff sotto che pulsa e non smette mai. La quarta presente sul “Best” è ’Lover’, rimane fuori ’Hybernated Nazi’, che ricorda come le cose si ripetano, e che quello che è stato ibernato, «rimandato alla casella di partenza», rimosso dalla coscienza, si possa risvegliare, e ’Vetra Plaz’, pop apocalittico, dedicata a quella piazza di Milano (Piazza Vetra) pervasa di gente normale di giorno, dark e disperata di emarginazione la notte.

Il successivo “Chathode Mamma”, 1980, riflessione estetica-concettuale sulla sempre più invadente presenza della televisione nella nostra vita (e quel ’mamma’ sa tanto di Rai, a quei tempi ancora l’unica emittente nazionale), è il passo decisivo verso l’accessibilità: «Il successo, all over the world. Big cartoons with our faces». 

Cambia il look, dal nome mutato in Krisma ai capelli corti punkish di Cristina, e come collaboratore arriva quel giovane genietto, tecnico dei Trident Studios londinesi, Hans Zimmer, che un giorno farà vela per Hollywood e i suoi Oscar (’Re Leone’, notare quanti premi Oscar sian passati attraverso i Krisma, non sarà un caso).

Meno influenza elettronica e più tecno-pop, in pieno accordo con i suoni che trovi nelle discoteche new wave, a partire dalla introduttiva title-track, a seguire con quello che è uno strepitoso singolo, col quale Krisma e Hit Parade coincidono in tutta Europa. Giro di basso strepitoso, ritmica pompata e sbaciucchiamento con quel triplo smack! di Cristina campionato, una circolarità che riparte sempre daccapo e non ti molla più, ’Many Kisses’ è la sintesi perfetta fra ricerca e classifica.

Incomprensibile come il Direttore Artistico della Polydor di allora, Claudio Fabi, sia scettico sul possibile successo, bastano dieci secondi per capire che quei baci asfalteranno qualsiasi cosa e persona troveranno sulla loro strada, dalla radio alla pista da ballo.

 Ma, a posteriori, è interessante notare come Claudio, musicista colto e che ha prodotto cantautori e il prog della PFM, rappresenti un mondo intuitivamente lontano dalla musica digitale che negli anni 80 diventerà onnipervasiva: si sta aprendo un mondo nuovo, destinato a spaccarsi fra 70 e 80, a livello musicale, culturale, estetico.

Nel “Best” oltre a queste due c’è anche ’Rien Va Plus’, sorta di canzone punk suonata con strumenti d’altro tipo, ma rimangono fuori la fascinosa ’Peggy Guggenheim’ e ’White Knife’ con una ritmica e struttura fra i Talking Heads e il pop-elettronico inglese alla Human League.  

Chiuso il contratto alla Polygram e ormai andato via Trossat, passano alla CGD dove trovano un direttore artistico intrigato dal loro progetto, Alfredo Cerruti (attività cazzeggiona parallela con gli Squallor), che purtroppo se ne andrà quasi subito. Prima, però, gli mette a disposizione durante le vacanze estive un 24 piste che viene installato nel loro chalet di legno, «casa che suonava», e che sfortunatamente brucerà poi fino al suolo cancellando molto della loro storia e archivi.

L’album in arrivo non è esattamente quello che una etichetta si aspetta, dopo il promettente successo in tutta Europa di ’Many Kisses’: l’album “Clandestine Anticipations”, 1982, (la copertina di Mario Convertino un piccolo capolavoro post-moderno), «Il mio amore, il più bello» (sempre Cristina), è il più sperimentale di tutta la carriera, un album costruito sulle ritmiche sintetiche, per niente pop, non un singolo a pagarlo, solo sonorità acide, estreme, giusto ’Water’ ad avere una orecchiabilità tutta sua. 

Ci lavorano sopra con un banco Solid State da 78 piste, nell’orario notturno in cui glielo mette a disposizione la CGD, pochissimi tecnici che sanno usarlo, i due musicisti Sol Nastase e Peter Maben entusiasti delle possibilità sonore, e viene terminato in olanda negli studi Hilversum. 

Siamo ai tempi di Mister Fantasy e Paolo Giaccio, che li amava, decide di girare tre clip per il programma. È nverno, e dove si può registrare dei video per un album dedicato all’acqua? I Krisma pensano a Bali, alla Rai viene comunicato un più consono Bari (che tocca fà…grande Paolo), le spese extra e di viaggio a carico della CGD e del duo («Avevamo ricevuto un’eredità da una cara zia svizzera nostra fan, quale maniera migliore per spenderla?»). Poi, alla fine, non fu neanche Bali, problemi di permessi e si atterra alle Maldive.

La piccola task-force – Convertino, Edo (fotografo top), Sergio Attardo e Piccio Raffanini, futuro regista di MrF – realizza, con più idee che mezzi, una video-trilogia spettacolare. Sul “Best” di brani ce ne sono tre, ’Water’, ’Miami’ e ’Melonarpo’, quest’ultima quasi un puro esercizio ritmico, assurdo che manchi ’Samora’, il terzo video. 

Le altre due, ’Water’ in particolare, col suo grande riff, e la anfetaminica ’Miami’ sono invece molto interessanti, sorta di Kraftwerk in acido, e avranno un successo clamoroso in pista. Perché nel frattempo le discoteche più trendy, soprattutto a Londra e New York, hanno mollato gli ultimi rimasugli della Disco e sono virate sull’elettronico spinto, e questi ritmi, veloci e decontestualizzati, frenetici e astratti, funzionano, anche come base per intervenirci sopra con altri strumenti, altri suoni.

Se ne accorgono quando il loro segretario Anthony Fawcett gli combina un viaggio a New York con presentazione diretta ad Ahmet Ertegun, il patron della Atlantic Records, col loro mega-catalogo di soul anni ’60, CSN&Y e Zeppelin, in quel momento in auge con gli Chic. La prima volta si vedono e lui fa il difficile: «Io sono il Signor No», e Cristina gli ribatte «Perché un no abbia valore, è necessario saper dire qualche sì». Il sì arriva con un assegno di 500K, stentano a crederci anche quando vedono il bonifico alla Chemical Bank. Ah, gli Americani!

Rimarranno a New York alcuni anni, i loro remix pompati nelle migliori discoteche, il Paradise Garage, il Roxy (dove Africa Bambaataa, in veste di dj, spara i loro pezzi accompagnati da drum machine e scratching), l’all black New Berlin, col paradosso di avere sempre copertine bianche, per non svelare che quel suono, «amato dagli afro-americani» proviene da due bianchi europei, che però si mischiano senza difficoltà in mezzo alla folla di party e disco-goers della New York by night. 

Nel frattempo Cerruti se ne è andato e con la nuova direttrice Caterina Caselli c’è palese imcomprensione, non ci crede e ci sono anche beghe e vendette per la loro distribuzione, e i due dischi finali ne soffriranno: “Fido (Nothing To Do With The Dog)”, inciso in collaborazione con Arto Lindsay e realizzato da Maurizio negli USA solo con la tastierina Casiotone MT-65 modificata viene scartato dalla CGD e pubblicato in Italia dalla piccola Franton. Il successivo “Iceberg”, 1986, (presente sul “Best” con tre pezzi meno rilevanti), uscirà per la Carosello.

Fine corsa – anche se Maurizio avrà una lunga coda come dj, serate sonore molto avanguardistiche, in particolare al Cocoricò di Riccione, usando software sofisticati come il Rebirth per creare musica in tempo reale – ma solo della corsa musicale. 

Perché i due compiono uno switch molto interessante e fra gli anni 80 e 90 lanciano un progetto ancora una volta avanti sui tempi: attraverso i contatti con Eutelsat si fanno costruire una parabola di cinque metri con rotore, con la quale catturano programmi da tutte le tv del mondo, dal Sudamerica al Giappone. 

Per alcuni anni la krisma.tv sarà la tv satellitare più vista al mondo. È il prototipo di mondo-globale-attraverso-la-tv che diventerà la nostra programmazione quasi normale negli anni a seguire. La loro però ha ancora quel sapore pirata e underground, capace di intercettare anche i fuorionda, alcuni dei quali, ritrasmessi a Sat Sat e Blob sulla Rai creeranno anche begli incidenti politici.

Rimane in retrospettiva un percorso anticipatore, pieno sempre di novità non solo musicali ma anche tecnologiche, come quel Krismino, un sequencer inventato da Maurizio e migliorato da Cristina con i sensori del frigorifero, per salire e scendere non di 4 gradi ma di tono, che gli ispettori doganali newyorkesi gli sequestreranno, vedendo cavi e schede e immaginando chissà cosa. Ma la storia delle applicazioni e modifiche alle varie tastiere e tecnologie del tempo da parte di questo inventore di suoni è lunga, e negli anni ha appassionato più di un addetto ai lavori. 

«L’Italia non è un paese per ricercatori», chiosa al telefono dalla sua casa sulle Prealpi Cristina, affiancando involontariamente ai suoi rimpianti anche una considerazione di fondo molto attuale sullo stato della ricerca scientifica in Italia. Geniali lo siamo, ma spesso necessariamente in direzione ostinata e contraria rispetto alla mancanza di visione di coloro che governano i processi.

Ma, diciamola tutta, almeno per i Krisma il tempo è stato gentiluomo, e una menzione d’onore nella musica italiana più singolare, creativa e innovativa non gliela leva nessuno. E molti baci a tutti, miscredenti compresi.

·         E' morto l'attore Robbie Coltrane.

Da ansa.it il 15 ottobre 2022.

E' morto l'attore scozzese Robbie Coltrane, noto al grande pubblico per il ruolo del mezzogigante Rubeus Hagrid in Harry Potter. "Robbie sarà probabilmente ricordato per i decenni a venire come Hagrid... un ruolo che ha portato gioia a bambini e adulti, provocando un flusso di lettere di fan ogni settimana per oltre 20 anni", ha detto il suo agente. 

E' stato Hagrid in Harry Potter e la pietra filosofale (2001), Harry Potter e la camera dei segreti (2002), Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), Harry Potter e il calice di fuoco (2005), Harry Potter e l'Ordine della Fenice (2007) e Harry Potter e il principe mezzosangue, Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 1 e Harry Potter e i Doni della Morte - Parte 2. 

All'anagrafe si chiamava Anthony Robert McMillan ed era nato a Rutherglen, una cittadina della Scozia centro-occidentale, ed aveva 72 anni. Figlio di un medico e di una pianista, si dedicò alla recitazione all'età di venti anni, prendendo il nome d'arte di Coltrane (in tributo al sassofonista jazz John Coltrane) e lavorando in teatro e nelle stand-up comedy.

All'inizio della carriera ebbe piccoli ruoli in numerosi film come La morte in diretta (1980), Scrubbers (1983), Absolute Beginners (1986) e Mona Lisa (1986). In televisione apparve inoltre in Tutti Frutti (1987) e in Blackadder (1987). Fu co-protagonista con Eric Idle in Suore in fuga (1990) e interpretò il Papa in Mio papà è il Papa (1991). Negli anni novanta la sua carriera ebbe una forte crescita. Prese parte alla serie televisiva Cracker (1993-1996) con cui conquistò tre premi British Academy Television Award per il miglior attore consecutivi.

Poi a film di successo come i due di James Bond GoldenEye (1995) e Il mondo non basta (1999). Degna di nota è anche la sua partecipazione nei panni del sergente Peter Godley nel film La vera storia di Jack lo squartatore - From Hell (2001) dei fratelli Hughes.  

Morto Robbie Coltrane, era Hagrid nei film di Harry Potter. Il saluto dei fan e del cast della saga. La Repubblica il 14 Ottobre 2022 

L’attore scozzese aveva 72 anni. Era malato da tempo. Daniel Radcliffe: "Era una delle persone più divertenti che abbia mai incontrato". J.K. Rowling: "Non conoscerò mai più nessuno lontanamente come lui"

L'attore scozzese Robbie Coltrane, celebre per aver interpretato Rubeus Hagrid nei film di Harry Potter, è morto all'età di 72 anni. Era malato da circa due anni. L'attore è deceduto in un ospedale vicino alla sua casa a Larbert, in Scozia.

"Robbie sarà probabilmente ricordato per i decenni a venire come Hagrid, un ruolo che ha portato gioia a bambini e adulti, provocando un flusso di lettere di fan ogni settimana per oltre 20 anni", ha detto la sua agente Belinda Wright. "Oltre a essere un attore meraviglioso, era intelligente, brillantemente spiritoso - ha aggiunto - e dopo 40 anni in cui sono stata la sua agente mi mancherà". 

La carriera

Robbie Coltrane è stato Hagrid in tutti gli otto film della saga cinematografica: Harry Potter e la pietra filosofale (2001), Harry Potter e la camera dei segreti (2002), Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), Harry Potter e il calice di fuoco (2005), Harry Potter e l'Ordine della Fenice (2007) e Harry Potter e il principe mezzosangue (2009), Harry Potter e i doni della Morte - Parte 1 (2010) e Harry Potter e i doni della Morte - Parte 2 (2011).

Le reazioni

Tantissime le reazioni sui social, da parte dei fan e di chi ha condiviso con lui l'avventura di Harry Potter, a partire dalla creatrice della saga, J.K. Rowling. "Non conoscerò mai più nessuno lontanamente come Robbie - è il post della scrittrice - Era un talento incredibile, unico, e sono stato fortunato a conoscerlo, lavorare con lui e ridere a crepapelle con lui. Mando il mio affetto e le più sentite condoglianze alla sua famiglia, soprattutto ai suoi figli".

Daniel Radcliffe, diventato famoso proprio per il ruolo di Harry Potter, ha reso omaggio all'amico e collega: "Robbie era una delle persone più divertenti che abbia mai incontrato e ci faceva ridere costantemente da bambini sul set - dice l'attore in una dichiarazione - Ho ricordi particolarmente affettuosi di lui che teneva alto il morale sul set del Prigioniero di Azkaban, quando ci nascondevamo tutti dalla pioggia torrenziale per ore nella capanna di Hagrid e lui raccontava storie e scherzava per tenere alto il morale. Mi sento incredibilmente fortunato ad aver avuto modo di incontrarlo e lavorare con lui e sono molto triste per la sua morte. Era un attore incredibile e un uomo adorabile".

Gli inizi

All'anagrafe si chiamava Anthony Robert McMillan ed era nato a Rutherglen, una cittadina della Scozia centro-occidentale, il 30 marzo 1950. Figlio di un medico e di una pianista, si dedicò alla recitazione all'età di venti anni, prendendo il nome d'arte di Coltrane (in tributo al sassofonista jazz John Coltrane) e lavorando in teatro e nelle stand-up comedy.

All'inizio della carriera ebbe piccoli ruoli in numerosi film come La morte in diretta (1980), Scrubbers (1983), Absolute beginners (1986) e Mona Lisa (1986). In televisione apparve inoltre in Tutti frutti (1987) e in Blackadder (1987). Fu co-protagonista con Eric Idle in Suore in fuga (1990) e interpretò il Papa in Mio papà è il Papa (1991).

James Bond prima di Harry Potter

Negli anni novanta la sua carriera ebbe una forte crescita. Prese parte alla serie televisiva Cracker (1993-1996) con cui conquistò tre premi consecutivi British Academy Television Award per il miglior attore. Poi a film di successo come i due di James Bond GoldenEye (1995) e Il mondo non basta (1999).

Degna di nota è anche la sua partecipazione nei panni del sergente Peter Godley nel film La vera storia di Jack lo squartatore - From Hell (2001) dei fratelli Hughes.

L'autobiografia e una serie tv

Nel 2019, tra le sue interpretazioni più recenti, Coltrane ha ripreso il ruolo di Hagrid nel cortometraggio fantasy Hagrid's magical creatures motorcycle adventure. Coltrane ha anche scritto un'autobiografia, Coltrane in a Cadillac e ha recitato nella serie tv con lo stesso nome nel 1993, dove ha attraversato l'America da Los Angeles a New York in una classica Cadillac del 1951.

Coltrane lascia la sorella Annie Rae, l'ex moglie Rhona Gemmell e i due figli Spencer e Alice.

L'artista scozzese aveva 72 anni. Addio all’attore Robbie Coltrane, il mezzogigante Hagrid di Harry Potter: “Ha portato gioia a bimbi e adulti”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 14 Ottobre 2022 

Addio all’attore scozzese Robbie Coltrane, famoso al grande pubblico per il ruolo del mezzogigante Rubeus Hagrid nella saga di Harry Potter creata dalla penna di J.K.Rowling. Ad annunciare la scomparsa dell’artista, che aveva 72 anni, è il network britannico BBC. “Robbie sarà probabilmente ricordato per i decenni a venire come Hagrid… un ruolo che ha portato gioia a bambini e adulti, provocando un flusso di lettere di fan ogni settimana per oltre 20 anni”, ha dichiarato il suo agente. Coltrane era ricoverato in un ospedale vicino a Falkirk in Scozia.

All’anagrafe si chiamava Anthony Robert McMillan ed era nato a Rutherglen, una cittadina della Scozia centro-occidentale. Figlio di un medico e di una pianista, iniziò a recitare all’età di 20 anni, prendendo il nome d’arte di Coltrane (in tributo al sassofonista jazz John Coltrane) e lavorando in teatro e nelle stand-up comedy.

Coltrane ha recitato in Harry Potter e la pietra filosofale (2001), Harry Potter e la camera dei segreti (2002), Harry Potter e il prigioniero di Azkaban (2004), Harry Potter e il calice di fuoco (2005), Harry Potter e l’Ordine della Fenice (2007) e Harry Potter e il principe mezzosangue, Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 1 e Harry Potter e i Doni della Morte – Parte 2.

All’inizio della carriera ebbe piccoli ruoli in numerosi film come La morte in diretta (1980), Scrubbers (1983), Absolute Beginners (1986) e Mona Lisa (1986). In televisione apparve inoltre in Tutti Frutti (1987) e in Blackadder (1987). Fu co-protagonista con Eric Idle in Suore in fuga (1990) e interpretò il Papa in Mio papà è il Papa (1991). Negli anni novanta la sua carriera ebbe una forte crescita. Prese parte alla serie televisiva Cracker (1993-1996) con cui conquistò tre premi British Academy Television Award per il miglior attore consecutivi. Poi a film di successo come i due di James Bond GoldenEye (1995) e Il mondo non basta (1999). Degna di nota è anche la sua partecipazione nei panni del sergente Peter Godley nel film La vera storia di Jack lo squartatore – From Hell (2001) dei fratelli Hughes.

“Non conoscerò mai più nessuno come Robbie. Era un talento incredibile, unico, e sono stata fortunata a conoscerlo, a lavorare con lui e ridere a crepapelle con lui. Mando il mio affetto e le più sentite condoglianze alla sua famiglia, soprattutto ai suoi figli” scrive sui social la scrittrice Rowling.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

·         E’ morta Jessica Fletcher.

Angela Lansbury è morta: addio alla mitica "Signora in giallo". Francesco Canino il 12 Ottobre 2022 su Panorama.

Alla vigilia del suo 97esimo compleanno, si è spenta l'attrice che ha surfato sul successo per più di mezzo secolo. Da giovane star di Broadway alla prima nomination agli Oscar (a 18 anni), è diventata un'icona globale con la serie tv che ha sbancato gli ascolti. In un mondo in cui la parola icona è un'etichetta iper abusata, è indispensabile saper distinguere tra personaggi di successo e artisti veri (e immortali). Angela Lansbury appartiene di diritto alla seconda categoria e lo dimostrano le clamorose reazioni alla sua morte, annunciata poche ore fa dalla famiglia: «I figli di Dame Angela Lansbury sono tristi di annunciare che la loro madre madre è morta pacificamente a casa a Los Angeles all’1:30 di oggi, martedì 11 ottobre 2022, a soli cinque giorni dal suo 97esimo compleanno», si legge nella nota diffusa dai media americani. Insomma, il 2022 si porta via un altro tassello fondamentale della storia dello spettacolo e della televisione, uno di quelli monumentali visto il successo globale della mitologica Signora in giallo, diventato un vero e proprio fenomeno cult inaspettatamente capace di resistere alle mode, ai tempi e alle rivoluzioni mediatiche.

Nessuno, nemmeno i capataz della Cbs che lanciarono la serie nel 1984, si sarebbero mai immaginati di avere tra le mani un tesoretto di quelle proporzioni: serviva una nuova serie dopo la cancellazione di Ellery Queen, magari una nuova versione di Miss Marple, ma gli eredi di Agatha Christie non acconsentirono e così furono costretti ad inventarsi un personaggio tutto nuovo. Nacque così, quasi per caso, Jessica Fletcher, una signora di mezz’età del Maine che scrive gialli per diletto: quando uno di quelli sbanca in poche settimane le classifiche di vendita, la carriera della donna decolla e la polizia locale si affiderà sempre più spesso a lei per risolvere casi apparentemente inestricabili. Un plot tutto sommato semplicissimo e forse, proprio per questo, destinato ad una gloria ultra decennale: il risultato sono state 12 serie da 22 episodio l'uno, per un totale di 263 puntate (e quattro film tv) replicate così tante volte che gli episodi - basati sempre sullo stesso schema - sembrano in realtà infiniti. Solo in Italia, vanno in onda ininterrottamente dal 1988, prima su Rai1 e poi su Rete4, che ne ha fatto un pilastro del palinsesto del mezzogiorno, con ascolti inscalfibili stagione dopo stagione. Ovviamente il merito di questo fenomenologica serie è quasi tutto della Lansbury, perfetta nel ruolo, con i suoi tailleur color pastello, il filo di perle e quell'aria imperturbabile da signora di provincia che non si lascia impressionare da niente e da nessuno. Angela Lansbury è riuscita ad essere intergenerazionale, una professionista amata dagli addetti ai lavori ma soprattutto dal pubblico e un'attrice a suo modo unica. «Non c'è palcoscenico a New York dove non abbia recitato», raccontava spesso l'attrice, che soli 17 anni era già una star del musical e a 19 firmò un contratto con la Mgm, a Hollywood. Un anno prima aveva già conquistato la sua prima nomination agli Oscar per il film Angoscia di George Cukor (ne collezionerà altre due e poi le verrà assegnato quello alla carriera, cui si sommano sei Golden Globes), da quel momento la sua carriera è decollata e ha recitato anche con Spencer Tracy, KatherineHepburn, Vincent Minelli e Frank Sinatra. E ancora con Ingrid Bergman (era la tremenda domestica in Angoscia tormenta) e con Liz Taylor (in Gran Premio) mentre nel suo curriculum ci sono Sansone e Dalila, Và e uccidi e un culto assoluto come Pomi d’ottone e manici di scopa (era l'indimenticabile apprendista strega). Insomma, ha saputo coltivare il suo talento e scegliere registi e progetti giusti con cui crescere e diventare una star e quando il cinema si è "dimenticato" di lei, in maniera intelligente ha ripiegato sulle serie tv imponendosi a livello globale. Senza mai sgomitare o puntare sul gossip, ha surfato sul successo per più di cinquant'anni, interpretando alcuni personaggi memorabili al cinema e a Broadway: resterà nell'immaginario collettivo e continuerà ad essere una fonte di ispirazione per diverse generazioni di attori.

«La signora in giallo», Angela Lansbury e la serie cult: 7 curiosità sul telefilm che ha fatto la storia. Barbara Visentin  su Il Corriere della Sera il 12 ottobre 2022.

Dalla «vera» Cabot Cove a George Clooney guest star di una puntata, ecco quello che non sapete del mondo di Jessica Fletcher

Una presenza di famiglia

Grazie a «La signora in giallo», il volto di Angela Lansbury - scomparsa a 96 anni - è entrato in tutte le case diventando una presenza famigliare insostituibile. Nei panni di Jessica Fletcher, insegnante in pensione che si dedica alla scrittura di gialli e diventa soprattutto abilissima nel risolvere delitti, l’attrice ha attraversato oltre un decennio di televisione, con 264 episodi andati in onda negli Usa per 12 stagioni, dal 1984 al 1996, e poi con quattro film per la tv. In Italia il telefilm arrivò su Rai1 a partire dal 1988

«Murder, she wrote»

«La signora in giallo» in originale si intitola «Murder, she wrote». È uno dei telefilm più longevi e di successo della storia, prodotto dalla Cbs sullo stampo delle opere di Agatha Christie, ma con un taglio più americano. La scrittrice-detective Jessica Fletcher ha un fiuto infallibile e uno stile inconfondibile, fra tailleur, borsette e modi gentili che non le impediscono però di risolvere i casi sistematicamente prima dello sceriffo di Cabot Cove. Ogni puntata ha lo stesso schema e si conclude con il volto sorridente di Jessica Fletcher che ha fatto arrestare il colpevole ed è stata ringraziata dalla polizia

Un ruolo accettato per soldi

Angela Lansbury, premio Oscar alla carriera nel 2014, era innamorata del teatro più che di cinema o televisione. E fu lei stessa a raccontare qualche anno fa che aveva accettato il ruolo così riuscito de «La signora in giallo» soprattutto per motivi economici: «L’ho fatto per i soldi. Arriva un momento nella vita teatrale in cui dici: “Beh, non posso guadagnare con il teatro”. Così, ho preso la decisione di lavorare in televisione in modo molto specifico», aveva dichiarato.

Dov’è Cabot Cove

«La signora in giallo» vive nel paesino americano di Cabot Cove: si tratta di un luogo immaginario della East Coast, collocato nello Stato del Maine in New England, in un porticciolo che dà sull’Atlantico. In realtà, le riprese della serie vengono girate per la maggior parte in California, a Mendocino, dove si trova la villetta in cui abita Jessica Fletcher. Anche se la scrittrice-detective nel corso delle stagioni ogni tanto si sposta, gran parte degli omicidi avviene proprio a Cabot Cove, tanto che il tasso di delitti di un paesino così piccolo schizza alle stelle: nel telefilm si contano 274 vittime che, stando ai calcoli fatti negli anni, portano la cittadina ad avere una criminalità più elevata dell’Honduras, con il 2 per cento della popolazione che viene ucciso

La doppiatrice italiana

In Italia, «La signora in giallo» non sarebbe la stessa senza la voce inconfondibile della doppiatrice italiana, Alina Moradei: dopo una lunga carriera in Rai, Moradei si è spenta nel 2016, non senza avere incontrato di persona Angela Lansbury e averne ricevuto i complimenti, durante i Telegatti del 1999.

Le guest star

Nel corso delle 12 stagioni, «La signora in giallo» potè contare su numerose guest star (o future star) che parteciparono agli episodi con dei cammei, aggiungendosi ai personaggi ricorrenti: tra le tante, un giovanissimo George Clooney, Brian Cranston, Joaquin Phoenix appena bambino, Courtney Cox e Sonny Bono

La sigla

Anche la sigla de «La signora in giallo» è entrata ormai nella storia: il tema musicale che apre il telefilm è stato scritto dal compositore britannico John Addison, conosciuto per le sue colonne sonore (ha lavorato anche con Hitchcock). Grazie alla musica di «Murder, she wrote», si aggiudicò un Emmy Award

DAGONEWS il 19 ottobre 2022.

John Waters, il regista di “Cry-Baby”, ha rivelato di aver visto Angela Lansbury in un sex club chiamato Hellfire a New York negli anni Ottanta. 

Nel libro del 2019 “Mr. Know-It-All: The Tarnished Wisdom of a Filth Elder,” Waters raccontava di aver visto la “signora in giallo” aggirarsi nel locale, dare un’occhiata alla scena del club, descritto come una prigione di un castello frequentato da "pervertiti gay e etero". 

Waters è stato un grande fan della Lansbury e ha detto a Page Six: «Angela era pura classe anche quarant'anni fa, quando questo tipo di club era di gran moda. Potrebbe essere stata l'unica notte in cui è stata lì, ma solo la sua presenza ha reso Hellfire un po' più accogliente».

«Hellfire era un bar gay etero dove le persone facevano sesso – ha aggiunto Waters – Stavi lì a parlare del nuovo romanzo di Alain Robbe-Grillet e un pene faceva capolino in un buco e non ti restava altro che spostarti. Oppure eri seduto a parlare e ti ritrovati qualcuno che ti leccava le scarpe. Ho visto molte celebrità lì. Qualche volta ci ho visto passare anche Andy Warhol e Truman Capote».

Angela Lansbury è morta: addio alla «Signora in giallo». Renato Franco  su Il Corriere della Sera l'11 ottobre 2022.

L’attrice aveva 96 anni, l’annuncio è stato divulgato dalla famiglia. Dopo tre nomination senza vittoria, nel 2014 le era stato conferito l’Oscar alla carriera. 

Bisognava stare lontani da Cabot Cove perché pur essendo un paese piccolo aveva il più alto tasso di omicidi di tutto il globo. Poi però a trovare il colpevole ci pensava lei, La signora in giallo , ovvero Jessica Fletcher, che con quell’aria da insegnante in pensione non pareva particolarmente furba, ma invece alla fine ti incastrava sempre.

Angela Lansbury è morta ieri un attimo prima di compiere 97 anni. Famosa più per il suo finto cognome, Fletcher, con cui la conoscevano tutti, protagonista della serie che andava in onda una volta alla settimana sulla Cbs dal 1984 al 1996 e ripresa in diversi film per la televisione fino al 2003. Un superclassico che ha tappezzato anche i nostri schermi, riproposto ciclicamente e stordente come una di quelle favole che sai come va a finire ma ti fai comunque raccontare lo stesso. «La signora in giallo? So benissimo che sarà nella prima riga del mio necrologio, quando morirò — aveva detto Angela Lansbury tempo fa in un’intervista a Vanity Fair —. A Londra, ogni sera, quando uscivo da teatro per andare a casa, c’erano decine di persone ad aspettarmi. Italiani, spagnoli, francesi, turchi... Erano tutti lì per Jessica. Mi sentivo una rockstar. Preferirei essere conosciuta per il mio lavoro a teatro o al cinema? Forse. Ma così è la vita». Aveva capito tutto...

Angela Lansbury era nata a Londra il 16 ottobre 1925, figlia di un’attrice irlandese e di un politico del partito comunista di Gran Bretagna morto quando lei aveva solo 9 anni. Trasferitasi negli Stati Uniti in seguito ai bombardamenti di Londra, Lansbury coltivò fin da bambina la sua passione per la recitazione e nel 1942, dopo un’audizione a Broadway, venne scelta per esibirsi come cantante e cabarettista in un night club di Montréal. Nel frattempo aveva passato i primi provini per la Mgm, le porte del cinema la accolgono. Ottenne una prima candidatura agli Oscar con Angoscia (1944) di George Cukor, protagonisti Charles Boyer e Ingrid Bergman, in cui interpretava il ruolo di una sfacciata cameriera. «Avevo 19 anni, loro erano due star ma furono gentilissimi. E, del resto, io avevo molto talento, adesso lo posso dire! Il cinema allora si faceva provando ogni scena, a volte per giorni interi». Una seconda nomination agli Oscar arriva l’anno successivo per Il ritratto di Dorian Gray dove era la dolce e ingenua Sybil Vane, che si suicida per amore di Dorian. La terza invece è del 1962 per Va’ e uccidi dove impersona una madre maligna e manipolatrice che trasforma suo figlio in assassino. Tre nomination, mai una vittoria; ogni volta veniva scelta un’altra. Il risarcimento arriva solo parecchi anni più tardi, nel 2014, quando finalmente le viene assegnata la statuetta più ambita come Oscar alla carriera.

Tanto cinema, tanta televisione, ma la sua comfort zone era il teatro: «Io amo il teatro, il mio cuore è lì. Ogni volta che, nella mia vita, qualcosa non andava bene, ci sono sempre tornata. Dopo la morte di mio marito sono stata ferma tre anni per il dolore ma poi il teatro mi ha riportato un po’ di gioia».

Si era sposata due volte. La prima fu un fiasco: l’attore Richard Cromwell era gay e la lasciò dopo nove mesi con un biglietto che diceva: «Non posso andare avanti così». Nel 1949 si risposò con l’attore e produttore Peter Shaw da cui ebbe i figli Anthony Pullen e Deirdre Angela. Sono stati proprio loro a comunicarne la morte: «I figli di Dame Angela Lansbury sono tristi di annunciare che la loro madre è morta pacificamente nel sonno a casa a Los Angeles, a soli cinque giorni dal suo 97° compleanno». Nessun giallo. 

·         E’ morto il filosofo Bruno Latour.

Morto Bruno Latour filosofo francese della scienza e dell’ecologia politica. ADRIANO FAVOLE su Il Riformista il 9 Ottobre 2022 

Pensatore eclettico, nato nel 1947, aveva messo in discussione il concetto di modernità e si era caratterizzato come una delle voci più originali in capo ambientalista 

Bruno Latour è morto a 75 anni, la notte tra l’8 e il 9 ottobre, in questo 2022, lo stesso anno in cui ci ha lasciati uno dei suoi grandi ispiratori, James Lovelock. Se, di questi tempi, la parola «Antropocene», ovvero l’epoca in cui gli esseri umani sono divenuti una forza geologica che domina il mondo, ha acquisito una qualche popolarità, una parte importante del merito va riconosciuta proprio a questi due autori. Latour, al pari di Lovelock, è stato con la sua ricca produzione di saggi uno dei grandi ispiratori di una nuova ecologia (si veda il suo manifesto Facciamoci sentire, in uscita a marzo prossimo per Einaudi Stile libero), a partire da un percorso di ricerca molto originale.

Nato nel 1947, dopo la laurea in Filosofia, Latour si dedicò a un’indagine antropologica piuttosto inconsueta per l’epoca. Ad Abidjan, in Costa d’Avorio, fece infatti una ricerca di campo nel Laboratorio dell’Orstom, lo storico istituto di ricerca francese dei territori d’Oltremare. Come si formano le verità scientifiche? La scienza è davvero quel terreno libero da valori, scelte politiche, orientamenti cosmologici quale si è presentata nel pensiero moderno? Parrebbe l’inizio di un percorso scettico e relativista, e in effetti Latour ha dovuto spesso difendersi da queste accuse. In realtà, come mostrano lavori come La scienza in azione (Edizioni di Comunità, 1998) e, molto più tardi, La sfida di Gaia (Meltemi, 2020), l’obiettivo di questo eclettico intellettuale francese va molto oltre e ha poco a che vedere con le posizioni scettiche, divenute oggi così alla moda nel cosiddetto populismo antiscientifico.

Lo scopo di Latour filosofo, antropologo e sociologo della scienza è piuttosto quello di risalire a ritroso verso le sorgenti del pensiero della modernità, soprattutto di quella tranquillizzante e fuorviante divisione tra natura e cultura, tra un mondo umano fatto di affetti, intenzioni, scelte consapevoli e un mondo naturale pensato come se fosse privo di quella che gli inglesi chiamano agency, ovvero la capacità di volontà e di azione.

La modernità, ribadiva ancora Latour in una delle sue ultime interviste (Entretiens avec Bruno Latour, Arté, 2022), è stata una parola d’ordine più che una conquista sociale e politica. Evocare la modernità ha significato per lo più l’ordine di «modernizzarsi», un invito alla crescita senza limiti, allo sviluppo tecnologico senza riflessione rispetto alle condizioni di abitabilità del pianeta, un’esaltazione prometeica del progresso inteso in termini puramente umani.

In realtà, per citare uno dei suoi libri più celebri, Non siamo mai stati moderni (elèuthera 2009), perché in fondo l’ideologia della modernità come dominio del mondo si è accompagnata alla negazione dei diritti degli altri (altre popolazioni e altre forme di vita); e soprattutto all’esaltazione dell’autonomia e della forza dell’individuo occidentale che ha accuratamente nascosto la sua dipendenza e relazione con gli altri esseri viventi, umani e non umani. Ecco, se la nozione di «non umani» è diventata oggi comune tra gli studiosi, un grande merito è proprio di Latour che, sulla scia di Lovelock e con un costante lavorìo di filosofia e critica della scienza, ha mostrato che l’idea di un mondo della natura inteso come una sorta di cieco insieme di esseri oggettuali sottoposti a leggi inviolabili è uno degli esiti più discutibili della cosiddetta modernità scientifica.

Il mondo che abitiamo con gli animali, i vegetali, i virus e i batteri, l’ossigeno e il metano, è un mondo co-costruito, di cui l’essere umano è solo uno degli innumerevoli anelli. Proprio la pandemia, a cui Latour ha dedicato uno dei libri che lo hanno reso più popolare (Dove sono?, Einaudi Stile libero, 2022), ci ha ricordato che questi esseri invisibili che stanno tra il vivente e il non vivente, ovvero virus e batteri, hanno costruito il nostro corpo e l’atmosfera in cui viviamo, quella ristretta «zona critica» della Terra in cui umani e non umani convivono e che sa reagire alle nostre azioni, come mostra il nuovo regime climatico in cui siamo finiti.

Latour ha scritto saggi impegnativi e quasi inaccessibili a un pubblico profano; ha firmato importanti articoli scientifici per le comunità accademiche di cui era parte; è stato capace tuttavia anche di una efficace comunicazione pubblica, attraverso libri divulgativi (per esempio Tracciare la rotta, Cortina 2017), pièces teatrali, allestimenti artistici, partecipazione a mille festival ed eventi culturali. Con Latour, la scienza (che si tratti di fisica o di sociologia) diviene inevitabilmente politica, la scienza è azione ed è soprattutto responsabilità. L’ecologia di Latour è un invito a superare definitivamente la modernità e il suo braccio armato rappresentato dal liberismo arrogante e distruttivo, con un’azione responsabile di nuova «composizione» del nostro mondo. «Comporre» il mondo, una metafora musicale se vogliamo, è l’invito a compiere ogni passo, che si tratti di nuove energie o di relazioni internazionali, scelte rispettose degli altri umani e non umani, degli altri presenti con noi su Gaia e degli altri esseri a venire.

Verso la «de-modernità»: è così che potremmo definire l’approdo ultimo di Latour. La pandemia e le guerre in atto per l’energia ci impongono di lavorare nella direzione di un nuovo paradigma insieme scientifico e politico, fondato sulle nozioni di interdipendenza e di relazione, piuttosto che sull’autonomia dell’umano.

È una rivoluzione che coinvolge anche le scienze sociali, chiamate a estendere la nozione di «società» ai non umani. Certo, è un mondo nuovo e in gran parte ignoto quello verso cui ci stiamo dirigendo e su cui non sappiamo bene come atterrare. E tuttavia, già l’idea di «tornare con i piedi per terra», per citare una celebre espressione di Latour, è un programma di azione che potrebbe in futuro portarci da qualche parte, lontano almeno da quella modernità che rischia di farci scomparire una volta per tutte.

·         E’ morta la cantante Jody Miller.

Jody Miller, morta la cantante di "È l'uomo per me". Morta all'età di 80 anni la nota cantante folk Jody Miller. La sua canzone più nota He Walks Like a Man, venne ripresa e interpretata in Italia da Mina. Roberta Damiata il 7 Ottobre 2022 su Il Giornale.

È scomparsa all'età di 80 anni a causa di complicazioni dovute al morbo di Parkinson Jody Miller, interprete folk nota per il successo del 1965 Queen of the House. Il suo vero nome era Myrna Joy Miller cambiato poi in Jody quando iniziò la carriera come cantante folk, firmando nel 1962 per la Capitol Records. Un anno dopo, nel 1963, esce il suo primo album Wednesday's Child is Full of Woe che conteneva il brano He Walks Like a Man, che ottenne l'ingresso nella Billboard Hot 100.

In Italia la canzone venne ripresa e lanciata da Mina con il titolo È l'uomo per me. Un anno dopo, Queen of the House, una risposta a King of the Road di Roger Miller, divenne un enorme successo che travalicò il genere folk con cui la cantante aveva esordito, attraversando le classifiche sia country che pop, raggiungendo la top five della Hot Country Singles chart e il n. 12 della Hot 100 di Billboard.

Il brano valse alla Miller a vittoria di un Grammy Award nella categoria miglior performance vocale femminile country & western nel 1966. L'anno prima la cantante fu invitata in Italia al Festival di Sanremo al quale partecipò con i brani Io che non vivo senza te, cantata in coppia con Pino Donaggio, e Devi essere tu, non ammesso però alla finale. Nei dieci anni tra il '60 e i '70 piazzò ben 27 canzoni nella classifica Hot Country Songs di Billboard, tra cui cinque top 5 come Baby I'm Yours, Therès a Party Goin' On e Darling, You Can Always Come Back Home.

Passò poi alla casa discografica Epic Records di Nashville, lavorando con il famoso produttore Billy Sherrill. La Miller ottenne anche un altro successo con la cover di Hès So Fine dei The Chiffons, che le valse una nomination ai Grammy per la migliore performance vocale country femminile. Negli anni '80 decise di abbandonare la carriera di cantante per dedicarsi alla famiglia, e gestire un allevamento di cavalli di razza del marito Monty Brooks, nella loro fattoria di Blanchard, in Oklahoma.

Non riuscì però a stare troppo lontana dalla musica, tanto che negli anni '90 registrò diversi album gospel. Dopo la scomparsa del marito nel 2014, insieme alla figlia Robin e ai nipoti, si esibì con il gruppo Jody Miller & Three Generations pubblicando nel 2018 il singolo Where My Picture Hangs on the Wall. Nello stesso anno venne inserita nella Oklahoma Music Hall of Fame, all'interno di una vittoria tutta al femminile che vedeva anche Susie McEntire e Gayla Peevey. Nel 2020 ha registrato il suo ultimo progetto, l'album Wayfaring Stranger.

·         E’ morta la stilista Franca Fendi.

Da ilmessaggero.it il 5 ottobre 2022.

Si è spenta questa notte nella sua casa, a Roma, Franca Fendi. Era la terza delle cinque sorelle Fendi della storica maison di moda italiana. 

Franca Fendi, chi era

Con Paola, Anna, Carla (scomparsa nel 2017) e Alda, fin dal dopoguerra aveva gestito la casa di moda fondata dai loro genitori Edoardo e Adele trasformandola in uno dei marchi italiani più prestigiosi al mondo, grazie alla straordinaria qualità e design della sua pelletteria e pellicceria e alla lunghissima collaborazione con Karl Lagerfeld.

Franca Fendi si è sentita male nella notte nella sua casa alla Camilluccia: a nulla sono valsi i soccorsi.

Le cinque sorelle hanno fatto la storia della moda in Italia insieme ai genitori, un successo che testimonia quanto siano importanti i legami familiari: «Sono sempre stati fondamentali per settantacinque anni, - aveva ricordato proprio Franca Fendi alla presentazione del suo libro nel 2018 - sia con i nostri genitori, che tra noi cinque che poi con i nostri figli, abbiamo sempre preso le decisioni importanti insieme. Ciascuna di noi aveva un ambito di lavoro in cui esprimere la propria creatività. Questo ha fatto sì che l'azienda fosse diversificata, ma sempre orientata ad un obiettivo comune: la voglia e la passione di portare il Made in Italy nel mondo».

1935-2022. Moda, è morta Franca Fendi, una delle sorelle della storica maison. Il Domani il 5 ottobre 2022

Aveva 87 anni. Con le sorelle Paola, Anna, Carla e Alda, aveva raccolto l'eredità dei genitori nella conduzione aziendale

È morta nella notte a Roma Franca Fendi, la terza delle cinque sorelle alla guida della storica maison della moda made in Italy. Aveva 87 anni. Con le sorelle Paola, Anna, Carla e Alda, aveva raccolto l'eredità dei genitori nella conduzione aziendale.

Ormai lontana da anni dall'attività della maison, divenuta parte del supergruppo del lusso Lvmh, Franca Fendi negli scorsi anni ha pubblicato il libro Sei con me, per Rizzoli, nel quale rivolgendosi al marito Luigi Formilli ha ripercorso la storia della sua vita. Nel volume la stilista ha ripercorso l'infanzia, raccondando il rapporto stretto con le quattro sorelle, il matrimonio, i figli e i nipoti sullo sfondo dell'Italia che cambia.

Sin dal Dopoguerra si era occupata della gestione della maison fondata a Roma nel 1925 dai genitori Edoardo Fendi e Adele Casagrande, rendendola celebre in tutto il mondo. Ognuna delle sorelle ha gestito un ambito diverso della maison (dal marketing al design, agli accessori). È stata loro la decisione di coinvolgere un emergente Karl Lagerfeld.

Nel 1964 viene aperta una boutique e un atelier in via Borgognona, tra le più esclusive dello shopping romano mentre nel 1968 Bloomingdale, grande magazzino americano, compra l'intera collezione di borse Fendi decretandone il successo anche oltreoceano.

Addio a Franca Fendi ricordata dai nove nipoti e tanti amici, da Malagò, a Vanzina e Fiorello. Corriere della Sera il 7 ottobre 2022. 

I suoi nove amati nipoti sono saliti tutti insieme sull’altare della Chiesa degli artisti in piazza del Popolo per salutare e ringraziare la nonna Franca Fendi, 87 anni, morta martedì notte a Roma. Una cerimonia che ha destato molta commozione tra i tanti amici e maestranze della nota casa di moda della capitale che proprio Franca, insieme alle sorelle ha contribuito a far crescere e a rendere famosa in tutto il mondo. A dare l’ultimo addio alla signora Fendi, anche Pierpaolo Piccioli, oggi alla guida della maison Valentino ma che nel gruppo Fendi aveva cominciato ad affermarsi, il presidente del Coni Giovanni Malagò, Rosario Fiorello con la moglie, Enrico Vanzina, Maddalena Letta, Marisela Federici e tanti altri.

L’addio a Franca Fendi nella Chiesa degli artisti

A ricordare, evidentemente commossa, Franca Fendi, anche una première del laboratorio sartoriale per testimoniare l’importanza di aver avuto una guida, una figura di riferimento così autorevole e carismatica come lei, per la sua formazione professionale . Ma ciò su cui anche il sacerdote che ha officiato la cerimonia, che si è conclusa con i canti del coro gospel «So Spirit», si è maggiormente soffermato, è stato l’amore di Franca per il marito Luigi Formilli, scomparso nel 2001, di cui la terza delle cinque sorelle del marchio dalla doppia F (ceduto nel 2003 al colosso del lusso Lvmh), parla anche in un libro «Sei con me»,dove scriveva: «I n un mondo mutevole di faville e privilegi, come la realtà che ho potuto abitare, il vero e unico privilegio è stato quello di averti incontrato». Una storia d’amore vissuta con ostinazione e tenerezza raccontata in un dialogo il più delle volte quotidiano e continuo, perché nemmeno la morte è riuscita a interromperlo. 

La vita di famiglia, con la nascita di quattro figli: Guido, Federica, Andrea e Luca, si intreccia a doppio filo con quella dell’atelier che nel 1963, da via del Plebiscito si sposta a via Borgognona. Sono gli anni in cui entra in scena Karl Lagerfeld, artista poliedrico e geniale che lancerà il marchio a livello internazionale: «Abbiamo creato quadri-pelliccia ispirati a Pollock e trasformato giacche in sculture filiformi come omaggio a Giacometti».,sottolinea Franca nel libro. Dalle minigonne ai caftani etnici, dai colori acidi alle stampe psichedeliche, dalle zeppe vertiginose ai sandali rasoterra: tutto si mischiava a una velocità impressionante fino a raggiungere le vette degli anni Novanta e Duemila. Ma proprio mentre le star di tutto il mondo erano in lista d’attesa per assicurarsi una creazione della griffe romana, Franca deve affrontare la malattia di Luigi. Un percorso di sofferenza, comprensione e amore, che la porterà a donare un rene al marito: «Eri furioso all’idea di potermi privare di qualcosa». Ma alla fine, la voglia di conoscere i nipoti in arrivo lo spinge ad accettare. «E anche dopo il tuo volo in cielo come un gabbiano — sussurra Franca — “Sei con me”, per sempre».

·         E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.

Giulia Zonca per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

L'uomo che ha fatto l'amore con Marilyn Monroe senza neanche toccarla è morto, a 88 anni e con lui si è spento pure l'obiettivo della macchina fotografica che ormai non usava più. Douglas Kirkland ha ritratto ogni personaggio tanto famoso da diventare immagine, ha trovato il modo di chiedere intimità ai divi senza cancellare la dimensione da sogno, ha amato una donna per 50 anni, la seconda moglie e partner di lavoro, Françoise e ne ha consegnata un'altra al mito, Marilyn.

Kirkland se ne va proprio nei giorni in cui tanto si parla di Blonde, biografia romanzata dell'attrice più chiacchierata, venerata, mistificata e reinventata della storia del cinema, film in programma su Netflix. Blonde vuole raccontare una Monroe privata, vuole partire dal suo letto per ripercorrerne la vita e Kirkland nel suo letto ci era praticamente entrato. O meglio ci si è sdraiato accanto e poi ci si è messo sopra e poi al fondo, sdraiato, scalzo: un ventisettenne con il ciuffo scombinato e una camicia a righine, fascinoso come non è mai più stato fuori da quella camera da letto inventata in un set interamente bianco.

Siamo a Los Angeles nel 1961. Luce e lenzuola di seta candide, di un chiarore abbagliante. C'è la donna più sexy del mondo che non vuole essere ricordata così, che riesce solo a essere così, e c'è un fotografo destinato al successo che ha già tirato fuori sguardi inediti da Elizabeth Taylor, è già stato assistente di Irving Penn, è il nome di punta della rivista Look decisa a commissionargli le copertine più importanti, quelle che reggeranno il tempo.

Kirkland incontra Marilyn qualche giorno prima della sessione fotografica e la trova «affabile, gentile, divertente». Lui propone il letto, lei sceglie la seta, il Dom Pérignon da bere tra uno scatto e l'altro e le canzoni di Frank Sinatra da ascoltare per creare l'atmosfera. Nessuno dei due definisce i limiti e le zone d'ombra, nessuno dei due propone un accenno di nudo. 

Si rivedono, lei si sveste mentre lui si arrampica e il gioco della seduzione parte e li invischia. Lui vede solo desiderio, lei vede solo lui dietro la sua inseparabile macchina fotografica. Si fida. Gli consegna vero piacere perché sa che lui ne avrà rispetto e non ha altro da chiedere.

Quando, la settimana successiva, lui fissa un terzo appuntamento per mostrarle i provini, lei li sbircia distratta, disinteressata, ormai lontana. Così come in tanti l'hanno ricordata, persa in un abisso di nostalgia a cui Kirkland non è interessato. Non gli piace la confusione, scarta il capriccio, le bugie che intuisce senza capirle e quella snervante capacità di cambiare strada, idee, proposito a ogni incrocio. Si scioglie l'incantesimo, resta la storia di un'impalpabile e irripetibile notte e restano le foto, ancora oggi.

Sensualità pura e sincera che non conosce volgarità, nemmeno malizia, è intesa totale. Abbandono. Per questo la sequenza resiste al passare degli anni, conquista generazioni che non hanno alcun riferimento comune e continua a nutrire l'essenza di una diva imperscrutabile. C'era bisogno di portarla a letto? Ancora? Kirkland non ha usato la sua bellezza per bullarsene, non l'ha sfruttata, l'ha seguita. 

Lo ha fatto anche con Liz Taylor, con primi piani struggenti a cui oggi photoshop toglierebbe dettagli essenziali: quella leggerissima peluria sotto il naso, quelle minime imperfezioni che la rendono tanto reale da essere irresistibile. Stesso effetto per Brigitte Bardot, con le ciglia intrise di mascara che sembrano sbucare direttamente dalla frangetta mentre lei sta sdraiata a terra, il seno schiacciato sul pavimento, le braccia in avanti.

La posa non avrebbe senso e invece trova proprio un movimento evidente che esce dall'inquadratura: la si immagina mentre striscia, in avanti, verso di te che stai guardando. Sconvolge. Kirkland faceva questo, strappava un'intesa violenta. Anche con gli uomini, con Jack Nicholson, con John Lennon, ma il suo nome resta in quella stanza bianca. Sotto le lenzuola.

·         E’ morto l’industriale Armando Cimolai.

Addio ad Armando Cimolai, il re dell’acciaio: «In 70 anni mai un’ora di cassa integrazione, né un licenziamento». Redazione Online su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2022.

È morto a Pordenone all’età di 94 anni l’imprenditore Armando Cimolai, fondatore dell’omonimo gruppo specializzato nella progettazione, fornitura e montaggio di strutture complesse in acciaio. Aveva creato il gruppo a Pordenone nel 1949 insieme alla moglie Albina come laboratorio per la produzione di cancelli e infissi metallici e lo ha accompagnato negli oltre 70 anni di storia, in cui ha vinto commesse in tutto il mondo arrivando a un fatturato di 500 milioni di euro. Cimolai inizia come fabbro ma ben presto intuisce che le prospettive per il futuro sono interessanti e nel 1954 avvia lo sviluppo della sua azienda con la costruzione di strutture di acciaio per edifici industriali e militari e costruisce 3.000 mq di officina. «Ho lavorato molto e in oltre 70 anni, in azienda, non abbiamo mai fatto un’ora di cassa integrazione — raccontò Cimolai due anni fa quando il presidente della Repubblica Sergio Mattarella lo nominò Cavaliere di Gran croce —, né abbiamo mai licenziato nessuno».

Poi la sua intraprendenza lo porta ad assumere impegni a livello nazionale. Nel 1968 avvia la costruzione di un nuovo stabilimento a Polcenigo (Pordenone), dotandolo dei più moderni impianti anche per la costruzione di travi saldate. Da lì comincia una notevole crescita delle quote di mercato estero e già nel 1976 la produzione viene esportata per il 60%. Dopo aver più volte ampliato gli stabilimenti di Pordenone e Polcenigo, in seguito realizza il terzo stabilimento a Roveredo in Piano in cui debuttano i robot.

Nel 1998 se ne aggiunge un quarto a San Giorgio di Nogaro. Nel 2005 gli era stato conferito dall’Università di Trieste il titolo d’ingegnere a Honoris Causa. Fino ai suoi ultimi giorni era rimasto in attività con la società Armando Cimolai Centro Servizi. «Con Armando Cimolai scompare un autentico pioniere dell’industria nazionale», ha commentato la presidente del gruppo Pd alla Camera Debora Serracchiani. «Partito dalla ricchezza del suo lavoro, dalla passione per progredire e dall’ingegno ha raggiunto i massimi traguardi, portando la sua impresa tra le poche a poter affermare a livello mondiale primati tecnologicamente significativi nel campo delle grandi costruzioni», ha aggiunto.

·         E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz. 

Piccola Piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 03 ottobre 2022.

Il 17 settembre scorso aveva preso parte a un evento in suo sostegno, organizzato dopo la lettera ufficiale di scuse firmata dall'ex presidente di Academy David Rubin 

Piccola Piuma, l'attivista per i nativi americani che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando per «Il Padrino» alla cerimonia del 1973, è morta ieri, domenica 2 ottobre, a 75 anni. Era stata colpita da un cancro al seno. A giugno, l'Academy of Motion Pictures Arts and Sciences si era scusata con lei per il trattamento riservatole la notte della premiazione: le erano stati concessi solo 60 secondi per leggere il suo discorso sui diritti dei nativi americani. Poi l'attivista, allora 26enne, era stata scortata fuori dal palco tra fischi e insulti razzisti del pubblico presente in sala. Il 17 settembre scorso, Piccola Piuma aveva preso parte a un evento speciale in suo sostegno all'Academy Museum durante cui le erano state presentate le scuse (tardive) di Hollywood .

«Con grande rammarico, Brando non può accettare questo premio molto generoso — aveva detto rivolta al pubblico della Notte degli Oscar —. E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee». Le era stato permesso di leggere il suo discorso completo in una conferenza stampa successiva, discorso poi stampato sul «New York Times». Raquel Welch, Clint Eastwood e il co-conduttore della serata degli Oscar Michael Caine erano stati tra coloro che l'avevano criticata davanti alle telecamere per aver interrotto la cerimonia.

Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz a Salinas, in California, aveva cominciato a interessarsi alle questioni dei nativi americani al college, partecipando poi all'occupazione dell'isola di Alcatraz nel 1970, e adottando il suo nome proprio in quel periodo. Dopo il college, era entrata a far parte dell'associazione Screen Actors Guild Award dove, secondo quanto riferito, aveva incontrato Brando, interessato alle vicende degli indiani d'America tramite il regista Francis Ford Coppola che, come Piccola Piuma, viveva a San Francisco. In una recente intervista, l'attivista aveva raccontato a «Variety» com'era stato partecipare agli Oscar per conto di Brando.

«Era la mia prima volta agli Academy Awards. Ho superato il mio primo ostacolo, promettendo a Marlon Brando che non avrei toccato quell'Oscar. Ma, mentre uscivo da quel palco, l'ho fatto nei modi del coraggio, dell'onore, della grazia, della dignità e della sincerità. L'ho fatto nei modi dei miei antenati e nei modi delle donne indigene». E ancora: «Ho continuato a camminare dritto con un paio di guardie armate al mio fianco, e ho tenuto la testa alta ed ero orgogliosa di essere la prima donna indigena nella storia degli Academy Awards a fare quella dichiarazione politica».

A quel tempo, nel 1973 «c'era un blackout mediatico su Wounded Knee e contro l'American Indian Movement che lo stava occupando. Marlon li aveva chiamati in anticipo e aveva chiesto loro di assistere agli Academy Awards, cosa che hanno fatto. Quando mi hanno visto, sul palco, rifiutare quell'Oscar per gli stereotipi all'interno dell'industria cinematografica e menzionare Wounded Knee in South Dakota, hanno capito che si sarebbe interrotto il boicottaggio dei media».

Di recente, Piccola Piuma aveva condiviso, sempre con «Variety», alcune riflessioni sulla morte: «Quando moriamo, sappiamo che i nostri antenati stanno venendo a prenderci. Sappiamo che andremo in quel mondo spirituale da dove siamo venuti. Accettiamo ciò come un guerriero, con orgoglio e non con un senso di sconfitta, non vediamo l'ora di unirci ai nostri antenati che saranno lì con noi al nostro ultimo respiro e ci accoglieranno in quel mondo dall'altra parte e faranno una grande festa per noi».

Dagospia il 4 ottobre 2022. IL DISCORSO DI MARLON BRANDON PUBBLICATO DAL NEW YORK TIMES.

Da 200 anni diciamo al popolo indiano che lotta per la sua terra, la sua vita, le sue famiglie e il suo diritto alla libertà: «Deponete le armi, amici miei, e poi rimarremo uniti. Solo se deponete le armi, amici miei, possiamo parlare di pace e raggiungere un accordo che vi farà bene». 

Quando hanno deposto le armi, li abbiamo uccisi. Gli abbiamo mentito. Li abbiamo derubati delle loro terre. Li abbiamo costretti a firmare accordi fraudolenti che abbiamo chiamato trattati che non abbiamo mai rispettato. Li abbiamo trasformati in mendicanti. E da qualsiasi interpretazione della storia, per quanto contorta, non abbiamo fatto bene. Non eravamo nella legalità né eravamo giusti in quello che facevamo. Non dobbiamo restaurare queste persone, non dobbiamo essere all'altezza di alcun accordo, perché ci è dato in virtù del nostro potere di attaccare i diritti degli altri, di prendere le loro proprietà, di togliere loro la vita quando cercano di difendere la loro terra e libertà, e di fare delle loro virtù un crimine e dei nostri vizi virtù.

Ma c'è una cosa che è al di là della portata di questa perversione ed è il tremendo verdetto della storia. E la storia ci giudicherà sicuramente. Ma ci interessa? Che tipo di schizofrenia morale è quella che ci permette di gridare affinché tutto il mondo senta che siamo all'altezza del nostro impegno quando ogni pagina della storia e quando tutti i giorni e le notti degli ultimi 100 anni nella vita degli indiani d'America contraddicono quella voce?

Sembrerebbe che il rispetto dei principi e l'amore verso il prossimo siano diventati disfunzionali in questo nostro paese, e che tutto ciò che abbiamo fatto, tutto ciò che siamo riusciti a realizzare con il nostro potere sia semplicemente annientare le speranze dei paesi appena nati, così come amici e nemici allo stesso modo, non siamo umani e non rispettiamo i nostri accordi. 

Forse in questo momento ti stai chiedendo che diavolo ha a che fare tutto questo con gli Academy Awards? Perché questa donna è qui in piedi, a rovinarci la serata, a invadere le nostre vite con cose che non ci riguardano e di cui non ci interessa? Sprecare tempo e denaro e intromettersi nelle nostre case.

Penso che la risposta a queste domande inespresse sia che la comunità cinematografica è stata responsabile quanto qualsiasi altra di aver degradato gli indiani e di averli presi in giro, descrivendoli come selvaggi, ostili e malvagi. È già abbastanza difficile per i bambini crescere in questo mondo. Quando i bambini indiani guardano la televisione e guardano i film, e quando vedono la loro razza rappresentata nei film, le loro menti vengono ferite in modi che non possiamo mai sapere. 

Di recente ci sono stati alcuni passi vacillanti per correggere questa situazione, ma troppo vacillanti e troppo pochi, quindi io, come membro di questa professione, non sento di poter, come cittadino degli Stati Uniti, accettare un premio qui stasera. Penso che i premi in questo paese in questo momento non siano appropriati per essere ricevuti o assegnati fino a quando le condizioni degli indiani d'America non saranno drasticamente modificate. Se non siamo i custodi del nostro fratello, facciamo almeno in modo di non essere il loro carnefice.

Sarei stato qui stasera per parlarvi direttamente, ma ho sentito che forse avrei potuto essere più utile se fossi andato a Wounded Knee. 

Mi auguro che coloro che stanno ascoltando non considerino questo come un'intrusione rude, ma come uno sforzo serio per concentrare l'attenzione su una questione che potrebbe benissimo determinare se questo paese ha o meno il diritto di dire da questo punto in poi crediamo nei diritti inalienabili di tutte le persone a rimanere libere e indipendenti su terre che hanno sostenuto la loro vita oltre la memoria vivente. 

Grazie per la vostra gentilezza e cortesia a Miss Littlefeather. Grazie e buona notte. 

La morte di Piccola Piuma, che disse no a Hollywood nel nome di Brando. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 3 ottobre 2022. 

Il 27 marzo 1973, alla cerimonia degli Oscar, tutti aspettavano il più grande attore del mondo, Marlon Brando, favoritissimo per l’interpretazione di don Vito Corleone nel Padrino. I presentatori, Liv Ullmann e Roger Moore, elencarono i candidati. Poi Ullmann aprì la busta e disse: «Il vincitore è Marlon Brando». Il quale, però, era rimasto a casa. Allergico alle regole di Hollywood, alleato di Martin Luther King negli anni ’60 (alla famosa marcia del 1963 a Washington c’era anche lui), aveva deciso di boicottare la cerimonia per protestare contro il modo in cui i nativi americani venivano rappresentati sullo schermo e per attirare l’attenzione dell’America sull’occupazione allora in corso nella cittadina di Wounded Knee (200 attivisti nativi americani, due dei quali finirono uccisi, affrontarono per 71 giorni gli agenti federali in South Dakota).

Il discorso

Fu così che il mondo conobbe Sacheen Littlefeather, scomparsa l’altro giorno all’età di 75 anni per un tumore che l’aveva colpita nel 2018. Littlefeather, in abito tradizionale Apache, attraversò quella platea di dame di Beverly Hills vestite da sera e di signori in smoking salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion, rifiutò educatamente la statuetta (che rimase nelle mani di Moore) e disse agli ospiti e al pubblico di 85 milioni di telespettatori che Brando «con grande rammarico non può accettare questo premio così generoso». L’attore le aveva affidato un discorso da leggere, ma gli organizzatori le dissero che aveva solo sessanta secondi. Improvvisò, spiegando tra i fischi i motivi del rifiuto e concludendo così: «Spero di non aver rovinato questa serata e che in futuro i nostri cuori e la nostra compassione si incontreranno con amore e generosità». John Wayne, tra il pubblico, s’imbizzarrì — proprio lui che aveva ucciso sullo schermo più indiani del generale Custer — e secondo la leggenda — falsa, ma fa sorridere — fu trattenuto a fatica dalla security. Hollywood tagliò fuori Brando, e il suo genio, dal cinema che contava, per aver detto una verità poco gradevole in anticipo di qualche decennio sui tempi.

Bandita dall’’Academy

La ragazza timida che aveva osato rovinare la festa nella quale ogni anno Hollywood celebra golosamente sé stessa venne portata davanti ai giornalisti e protetta fisicamente da Moore — ignoto eroe di quella sera — con uno stratagemma, eludendo le guardie che volevano cacciarla perché tecnicamente non era una vincitrice e non aveva diritto di fare una conferenza stampa. Littlefeather riuscì infine a leggere la lettera di Brando — molto pacata, il New York Times la pubblicò integralmente — in difesa dei nativi americani, e fu per questo bandita dall’Academy. Academy che, poche settimane fa, si scusò, versò qualche lacrima di coccodrillo dedicandole un evento antirazzista. «È un sogno che si avvera — commentò lei —. Noi indiani siamo persone molto pazienti: sono passati solo 50 anni… Ma dobbiamo mantenere il nostro senso dell’umorismo, in ogni momento. È il nostro metodo per sopravvivere». 

Piccola piuma, morta l'attivista che rifiutò l'Oscar per conto di Marlon Brando e scosse l'America. La Repubblica il 3 ottobre 2022.

È stata la prima nativa a salire sul palco del prestigioso premio. Il suo discorso di condanna per i maltrattamento subiti dagli indiani d'America fu una doccia fredda. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata per l'atteggiamento ostile dei vertici dell'Academy

Pinterest

È morta all'età di 75 anni Sacheen Littlefeather (Piccola Piuma), l'attrice e attivista nativa americana che ha fatto la storia degli Oscar nel 1973, rifiutando il premio per conto di Marlon Brando come miglior attore per il film Il Padrino (dove vestiva i panni del boss mafioso Don Vito Corleone), scuotendo l'Academy - e circa 85 milioni di telespettatori - con il suo discorso che condannò il maltrattamento degli indiani d'America.

Nata come Marie Louise Cruz, soprannominata Piccola Piuma, a Salinas, in California, il 14 novembre 1946, è morta domenica 2 ottobre nella sua casa di Novato, nella contea di Marin, in California, in seguito ad un tumore al seno e al polmone destro che le era stato diagnosticato nel 2018.

Il discorso sul palco degli Oscar

Il 23 marzo 1973 salì sul palco del Dorothy Chandler Pavilion di Los Angeles a nome di Brando rifiutando di ritirare il premio. Per l'occasione il grande attore scrisse un discorso di otto pagine, ma il produttore Howard Koch impedì di leggerlo per intero, informando che Littlefeather avrebbe avuto solamente un minuto. Nel suo discorso si presentò come Apache, criticando la rappresentazione dei nativi americani da parte di Hollywood.

In abiti tradizionali

Con un abito di pelle di cervo, mocassini e lunghi capelli neri raccolti in due codini, la 26enne sconosciuta, si rivolse così al pubblico dell'Academy of Motion Picture Arts and Sciences: "Buonasera. Mi chiamo Sacheen Littlefeather. Sono Apache e presiedo il Comitato Nazionale per l'Immagine Affermativa dei Nativi Americani. Rappresento Marlon Brando a questo evento. È con rammarico che Marlon Brando non può accettare questo premio così generoso, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dagli Stati Uniti. È con rammarico che non può accettare questo generosissimo premio, a causa del modo in cui i nativi americani sono trattati oggi dall'industria cinematografica, in televisione e nelle repliche dei film, e a causa di Wounded Knee".

L'ostracismo dell'Academy

Il suo discorso fu accolto da un mix di applausi, fischi ed anche insulti e privò l'attrice di una carriera cinematografica e le valse l'ira dei vertici dell'Academy Awards. Quasi 50 anni dopo l'istituzione di Hollywood si è scusata con Sacheen Littlefather, organizzando in onore della cultura dei nativi americani il 17 settembre scorso un evento che ha celebrato il contributo delle popolazioni indigene alla Settima Arte.

Prima di acquisire la controversa notorietà durante la notte degli Oscar, Littlefather aveva posato come modella per la rivista Playboy. Negli anni 80 ha partecipato a campagne per la lotta all'Aids, causa di morte del fratello e ha lavorato in un ospizio fondato da Madre Teresa in California. Riscoprendo la fede cattolica della sua infanzia, ha anche guidato un circolo di preghiera di San Francisco intitolato alla religiosa Kateri Tekakwitha, una donna Algonquin e Mohawk del XVII secolo, prima nativa nordamericana ad essere proclamata santa da papa Benedetto XVI.

Da movieplayer.it il 3 ottobre 2022.

Sacheen Littlefeather, l'attrice e attivista nativa americana che è salita sul palco agli Academy Awards nel 1973 per rivelare che Marlon Brando non avrebbe accettato il suo Oscar per Il Padrino, è morta il 2 ottobre 2022 in California. Aveva 75 anni. 

Sacheen Littlefeather è morta domenica a mezzogiorno nella sua casa nella città di Novato, nel nord della California, circondata dai suoi cari, secondo una dichiarazione inviata dalla sua badante. L'Academy of Motion Picture Arts and Sciences, che si è riconciliata con Littlefeather a giugno e ha tenuto una celebrazione in suo onore solo due settimane fa, ha rivelato la notizia sui social media domenica sera. Littlefeather aveva rivelato nel marzo 2018 di essere stata colpita da un tumore al seno.

Nel marzo 1973 Marlon Brando decise di boicottare la cerimonia degli Oscar per protestare contro il trattamento riservato ai nativi americani e contro la loro rappresentazione fornita sul grande schermo e per onorare l'occupazione di Wounded Knee, in cui 200 membri dell'American Indian Movement (AIM) affrontarono migliaia di poliziotti statunitensi e agenti federali nella città del South Dakota.

Dopo che i presentatori Liv Ullmann e Roger Moore elencarono i candidati come miglior attore e Ullmann annunciò Marlon Brando come vincitore, la trasmissione televisiva staccò su Littlefeather, allora 26enne e con indosso un abito tradizionale Apache, che salì sul palco mentre veniva annunciato, "A ritirare il premio per conto di Marlon Brando e de Il padrino, Miss Sacheen Littlefeather". 

Littlefeather, tuttavia, alzò la mano destra per rifiutare la statuetta offerta da Moore quando raggiunse il podio e annunciò al pubblico in sala e agli 85 milioni di telespettatori che seguivano da casa che Brando "con grande rammarico non può accettare questo premio molto generoso". Parlando con toni misurati, ma a braccio - Brando, che le aveva detto di non toccare la statuetta, le aveva preparato un discorso dattiloscritto di otto pagine, ma il produttore televisivo Howard Koch l'ha informata che non aveva più di 60 secondi - spiegò, "E le ragioni di questo sono il trattamento riservato agli indiani d'America oggi dall'industria cinematografica... e in televisione nelle repliche di film, e anche con i recenti avvenimenti a Wounded Knee".

Durante l'intervento di Littlefeather, John Wayne, che si trovava tra il pubblico, minacciò di alzarsi per tirarla giù dal palco e venne fermato dalle guardie presenti in sala. Quasi 50 anni dopo, l'Academy ha presentato ufficialmente le sue scuse alla nativa. 

"L'abuso che hai subito a causa del tuo discorso era ingiustificato", le ha scritto l'allora presidente dell'AMPAS David Rubin in una lettera del 18 giugno. "Il carico emotivo che hai vissuto e il costo per la tua carriera nel nostro settore sono irreparabili. Per troppo tempo il coraggio che hai mostrato è stato ignorato. Per questo, porgiamo le nostre più profonde scuse e la nostra sincera ammirazione". 

"Sono rimasta sbalordita. Non avrei mai pensato che sarei sopravvissuta tanto da poter vedere il giorno in cui avrei sentito queste parole", ha detto Littlefeather a The Hollywood Reporter. "Quando ero sul palco nel 1973, ero lì da sola".

E' morta a 76 anni l'apache ribelle. Chi era Sacheen Littlefeather, l’apache ribelle che John Wayne voleva picchiare. David Romoli su Il Riformista il 4 Ottobre 2022 

Dicono (ma alcuni biografi lo negano) che ci siano voluti sei ragazzoni ben piantati per impedire all’imbufalito John Wayne di lanciarsi sul palco per trascinare via Sacheen Littlefeather, giovane apache allora di 27 anni, dal palco del Dorothy Chandler Pavillon di Los Angeles. Era la Notte degli Oscar, 27 marzo 1973, e quella ragazza nata da padre apache e madre bianca la stava rovinando. Il vero guastafeste era in realtà un intoccabile assente sia dal palco che dalla sala: Marlon Brando, considerato il più grade attore della sua generazione, vincitore dell’Oscar per Il Padrino. Non si presentò per ricevere l’ambita statuetta. Al suo posto mandò quella ragazza bellissima in costume tradizionale dei nativi americani.

Sacheen Littlefeather, ovvero Piccola Piuma, avrebbe dovuto leggere una lunga dichiarazione firmata da Brando. L’organizzazione non lo permise. Potè pronunciare solo poche parole coperte dal rumore dei fischi, ma per la verità anche da qualche sonoro applauso. Disse che Brando non poteva accettare “il molto generoso premio” per via di come l’industria del cinema trattava gli indiani d’America in film che continuavano a essere trasmessi a ripetizione in tv. Lo shock fu immenso, difficilmente comprensibile oggi, dopo che il palco degli Academy Awards è stato usato più volte per comizi e dichiarazioni politiche. Allora però non era mai successo.

Per trovare un precedente bisogna tornare indietro di 5 anni, a quella premiazione per la gara dei 200 metri piani alle Olimpiadi di Città del Messico nel corso della quale senza una parola Tommy Smith e John Carlos, neri, vincitori rispettivamente dell’oro e del bronzo, alzarono il pugno chiuso guantato di nero. Quell’immagine fu di una potenza incredibile, fece il giro del mondo, è rimasta scolpita nel tempo. Da allora nulla del genere si era più ripetuto. Marlon e Sacheen osarono e aprirono la strada. Erano molti, in quegli anni, i nomi d’oro della cultura e dello spettacolo americani che fiancheggiavano i movimenti rivoluzionari, in particolare il Black Panther Party. Feroce e sarcastico, il principe del new journalism Tom Wolfe li inchiodò con un articolo che li scuoiava vivi raccontando il party pieno di bellissima gente organizzato in casa Bernstein nel 1970 per raccogliere fondi a favore del Bpp.

La definizione coniata allora da Wolfe è ancora merce corrente: Radical Chic. Però nessuno ha mai sospettato Marlon Brando di sciccheria radical. Il grande attore si faceva vedere poco, evitava di esporsi non per viltà ma per evitare di rendere il suo impegno, anche involontariamente, materiale da pubblicità facile. Oggi sappiamo che i suoi finanziamenti ai movimenti delle minoranze sono stati silenziosi ma continui e molto corposi. Marlon Brando aveva trasgredito a quella regola di discrezione una sola volta, partecipando in silenzio al funerale di Bobby Hutton, uno dei primi militanti delle Pantere Nere ucciso a dalla polizia a 18 anni. Al termine della cerimonia aveva anche preso la parola al raduno in onore di Lil’ Bobby ma anche in quell’occasione aveva parlato poco: «Non farò un discorso: i bianchi li ascoltate già da 400 anni».

Michael Caine, uno dei presentatori della cerimonia fu molto duro con il collega. Lo accusò di “aver lasciato che una povera ragazza indiana si prendesse i fischi invece di farlo lui stesso”. Aveva torto. Se su quel palco ci fosse stato il grande Marlon, fresco di trionfo nella parte di don Vito Corleone, l’attenzione, gli articoli, il gossip sarebbero stati tutti per lui. I nativi sarebbero stati considerati un particolare secondario. Più tardi, partecipando al Dick Cavett Show, Brando non si dichiarò pentito. C’era una opportunità e andava colta. Il pubblico invece di fischiare e battere i piedi, “avrebbe dovuto avere almeno la cortesia di ascoltare Sacheen”.

Non ci furono solo critiche. Coretta King, moglie del leader dei diritti civili ucciso cinque anni prima, elogiò l’attore. Molti anni dopo Jada Pinkett Smith, al termine di un discorso molto critico nella Notte degli oscar 2016, ammise che era stata ispirata proprio da Piccola Piuma. Hollywood non perdonò. Quella notte degli Oscar non era una delle tante. La crescita dei movimenti aveva messo in crisi Hollywood, incalzata da registi ribelli e indipendenti come il Peter Fonda di Easy Rider. Stretta d’assedio dall’ingordigia del piccolo schermo da un lato e dalla rivolta di una generazione di autori e attori che rifiutava in toto le regole dello studio system, Hollywood se l’era vista brutta. Nel 1973, con il trionfo del Padrino, celebrava la sua rinascita.

Il giorno dopo la protesta Saacheen andò a trovare Brando e qualcuno, da una macchina in corsa, sparò qualche colpo contro l’appartamento. Una fiammata: l’ostracismo dell’industria del cinema fu molto più longevo e fatale. Littlefeather, nata Marie Louise Cruz, era un’attrice. Nel 1969 aveva partecipato all’occupazione dell’isola di Alcatraz da parte dei Nativi Americani e in quell’occasione aveva cambiato il suo nome. Da quel momento, e per tutta la vita, avrebbe cercato di coniugare l’impegno per i diritti degli Indiani d’America e delle minoranze con la carriera d’attrice.

Solo che non ebbe più nessuna carriera. Sull’onda del clamore fu chiamata a ripetizione per interviste, spot pubblicitari, servizi fotografici. Poi fu soffocata col silenzio. Nel giugno scorso Hollywood ha chiesto formalmente e pubblicamente scusa con una lettera firmata dal presidente dell’Academy Award di allora David Rubin: «Gli abusi che hai subito per quella dichiarazione erano ingiusti e ingiustificati. Il peso emotivo che hai dovuto sopportare negli anni e il prezzo pagato dalla tua carriera nella nostra industria sono irreparabili. Troppo a lungo il coraggio di cui hai dato prova non è stato riconosciuto. Per questo presentiamo le nostre scuse più profonde insieme alla nostra più sincera ammirazione». «È come un sogno diventato realtà», commentò Sacheen Littlefeather: «Ci sono voluti appena 50 anni ma noi indiani siamo molto pazienti e dobbiamo mantenere il nostro senso dell’humour. È il nostro modo di sopravvivere». Sacheen è morta ieri a 75 anni. Almeno alcuni dei sogni per cui ha sempre combattuto li ha visti realizzati. David Romoli

·         Morto lo storico Paul Veyne. 

Morto Paul Veyne, storico francese indagatore del mondo classico. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2022.

Amico e collega di Michel Foucault, ostile a ogni fanatismo, aveva dedicato gran parte della sua opera allo scopo di avvicinare i lettori di oggi alle vicende dell’antichità

Per un amante dell’antichità come lui, che sin da ragazzo era rimasto stregato dai reperti romani esposti nel museo archeologico di Nîmes, dove passava lunghe ore divertendosi a decifrare le iscrizioni latine, il calvario di Palmira era stato uno spettacolo tremendo. Così lo storico francese Paul Veyne, scomparso all’età di 92 anni, aveva aggiunto ai suoi precedenti lavori scientifici sulla città siriana il libro divulgativo Palmira (Garzanti, 2016), omaggio non solo ai tesori d’arte distrutti dai miliziani dell’Isis, ma anche a una civiltà aperta e tollerante, che di quel cieco fanatismo era stata la più patente negazione.

Spirito curioso, scettico e indagatore, Veyne aveva dedicato le sue enormi energie intellettuali allo scopo di rendere comprensibile il mondo classico ai lettori di oggi, nonostante la distanza immensa, temporale ma soprattutto mentale, che ci separa dai secoli di Pericle, Augusto, Marco Aurelio. E ovviamente non poteva sopportare l’accanimento degli invasati musulmani contro testimonianze preziose dell’epoca cui aveva consacrato i suoi studi, sempre originali e innovativi. In un libro profondo e per molti versi spiazzante, intitolato I Greci hanno creduto ai loro miti? (il Mulino, 1984), Veyne aveva esaltato il ruolo dell’immaginazione come motore della cultura, concludendo che «siamo noi a costruire le nostre verità»: si può ben intuire quanto orrore gli facesse la furia omicida nutrita dal convincimento di possedere l’unica Verità.

Nato nel 1930 nella città di Aix-en-Provence, fondata da Romani con il nome di Aquae Sextiae nel 122 a.C., aveva manifestato molto presto la sua inclinazione per gli studi classici e l’archeologia, che lo aveva portato a laurearsi nel 1955 presso la prestigiosa École normale supérieure e poi a trasferirsi in Italia, all’École française de Rome, dove era rimasto fino al 1957, girando in lungo e in largo tra le vestigia dell’antichità nel nostro Paese e nell’Africa settentrionale. Di quel periodo è anche la sua militanza comunista, cui aveva detto addio dopo il soffocamento della rivoluzione ungherese nel 1956.

Le prime opere importanti di Veyne risalgono agli anni Settanta, che lo videro anche entrare nel 1975, grazie all’appoggio di Raymond Aron, al prestigioso Collège de France di Parigi. Nel 1970 pubblicò Come si scrive la storia (Laterza, 1973), in cui sottolineava l’aspetto narrativo del lavoro storiografico, e nel 1976 il suo capolavoro Il pane e il circo (il Mulino, 1984): una ricerca a largo raggio sui meccanismi del potere nel mondo antico a partire dal fenomeno dell’«evergetismo», cioè la pratica per cui i notabili ellenistici, poi i magnati romani di epoca repubblicana e ancor più in seguito gli imperatori donavano abitualmente consistenti somme di denaro tratte dal loro patrimonio per scopi d’interesse pubblico, come la costruzione di edifici, l’organizzazione di spettacoli, la distribuzione di viveri alle classi più umili. Era una ricognizione di notevole spessore anche sotto il profilo antropologico, destinata a proiettare la notorietà dell’autore oltre il circuito degli studi antichistici.

Si coglie con chiarezza nelle riflessioni di Veyne l’influenza del filosofo Michel Foucault. Tra i due, che si conoscevano già negli anni Cinquanta, si era creato al Collège de France un saldo sodalizio umano e intellettuale. Li univano, tra l’altro, l’esercizio sistematico del dubbio e l’interesse spiccato verso le relazioni sociali, il tema della conoscenza, la sessualità. All’amico precocemente ucciso dall’Aids Veyne attribuiva il merito di aver rivoluzionato anche gli studi storici: gli dedicò un ritratto affettuoso quanto acuto, utile antidoto a molti fraintendimenti, nel saggio Foucault. Il pensiero e l’uomo (Garzanti, 2010).

Entusiasta della vita, Veyne non era stato in alcun modo condizionato dalla malattia rara che gli aveva sfigurato il viso. Anzi brillava in compagnia e si era sposato tre volte. Colpisce anche la varietà delle sue passioni: la filosofia stoica, l’arte italiana, l’alpinismo, l’elegia latina come la poesia novecentesca di René Char. Aveva significativamente intitolato la sua autobiografia del 2014, non tradotta in italiano, Et dans l’eternité je ne m’ennuierai pas («E nell’eternità non mi annoierò»). Una dichiarazione autoironica, come buona parte del libro, anche perché Veyne era apertamente ateo e anzi non nascondeva di trovarsi in difficoltà a comprendere il sentimento religioso.

Critico verso ogni retorica identitaria, giudicava infondato il richiamo alle «radici cristiane» del nostro continente, su cui tanto aveva insistito il Vaticano. Tuttavia era distante dall’anticlericalismo pregiudiziale: nel libro Quando l’Europa è diventata cristiana (Garzanti, 2008) aveva sottolineato la novità sconvolgente rappresentata dal messaggio evangelico, sostenendo che la conversione di Costantino il Grande era stata onesta e sincera. L’imperatore, da molti raffigurato come un cinico manipolatore assetato di potere, a suo avviso poteva invece «essere considerato un idealista».

·         E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.

Mirella Serri per lastampa.it il 3 ottobre 2022.

La scrittrice Rosetta Loy è scomparsa sabato sera nella sua casa di Roma immersa nel verde sulla via Flaminia, che amava moltissimo. La narratrice romana, novantunenne, aveva esordito nel 1974 con «La bicicletta». La Loy era stata un caso eclatante nella letteratura italiana alla fine degli anni Ottanta. Il suo suggestivo romanzo storico «Le strade di polvere» (Einaudi) nel 1987 aveva fatto l’en plein: si era conquistato il premio Viareggio, il Campiello, il Rapallo e anche altri allori letterari. 

Mai una scrittrice aveva avuto nella stessa stagione narrativa e in contemporanea così numerosi riconoscimenti, la sua opera così celebrata apriva la strada a tante altre autrici quasi sempre tenute fuori dall’agone dei premi. Rosetta Provera, che aveva sposato il fratello del regista Nanni Loy, era l’ultima di quattro figli. Il padre era un ingegnere piemontese e la madre lavorava nella capitale. La vocazione letteraria della Loy era stata assai precoce. Scrisse il suo primo racconto all’età di 9 anni. Dovette aspettare il 1974 per fare la sua apparizione sulla scena del romanzo italiano: «La bicicletta» si conquistò il premio Viareggio opera prima e fu molto celebrato dalla critica.

Successivamente i suoi racconti saranno tradotti in francese e in altre lingue. La Loy amava molto l’idioma di Molière e aveva curato per la collana einaudiana «Scrittori tradotti da scrittori» la versione del «Dominique» di Fromentin (1990) e de «La principessa di Clèves» di Madame de La Fayette (1999).

Tra i suoi libri di gran successo vi sono inoltre i romanzi dedicati all’Olocausto, come «Cioccolata da Hanselmann» (Rizzoli) e «La parola ebreo» (Einaudi). Sono opere segnate dal senso di colpa di chi negli anni delle deportazioni e delle razzie non ha voluto sapere o prendere posizione. Ne «La parola ebreo» si intrecciano documenti storici e ricordi familiari: l’autrice, che abitava in un prestigioso palazzo, aveva frequentato gli istituti religiosi gestiti da suore francesi e in casa aveva un’istitutrice tedesca, Anne-Marie. 

La famiglia non aderì al fascismo. Il padre leggeva l’Osservatore romano, era osservante, ma quando nel 1938 vengono emanate le leggi razziali nessuno dei suoi ebbe il coraggio di chiedersi dove fossero finiti i vicini di casa o la bambina con cui Rosetta giocava al parco, tutti ebrei. Con la sua scrittura raffinata e con i suoi libri di denuncia ha segnato profondamente il panorama letterario.

Pluripremiata, se ne va a 91 anni. Addio a Rosetta Loy, la scrittrice di “Le strade di polvere”: raccontò l’indifferenza della borghesia durante il fascismo. Giovanni Pisano su Il Riformista il 2 Ottobre 2022 

Addio alla scrittrice Rosella Loy, morta a 91 anni nella sua casa a Roma, circondata dall’affetto dei suoi familiari, così come riferito alle agenzie dalla figlia e scrittrice Margherita Loy. I funerali si terranno martedì 4 ottobre, alle ore 10.30, nella chiesa di Santa Maria Immacolata di Grottaferrata “per suo espresso desiderio”.

Rosetta Provera, questo il suo cognome alla nascita, era diventata “Loy” dopo aver spostato nel 1955 Beppe Loy, fratello del regista Nanni Loy. La pluripremiata scrittrice sarà tumulata in Piemonte (dove era nato il papà) nel cimitero di Mirabello Monferrato, il paese dove è ambientato il suo romanzo più noto, “Le strade di polvere“, che l’ha portata a vincere il premio Campiello nel 1988.

Rosetta Loy ha amato sin da piccola la scrittura spinta da argomenti come l’amore, la guerra, i bambini, la morte. All’età di nove anni ha ultimato il suo primo racconto. Poi dopo l’esordio ufficiale con “La bicicletta” (Einaudi, 1974, Premio Viareggio Opera Prima), ha scritto vari romanzi (“La porta dell’acqua”, Einaudi, 1976; “L’estate di Letuche”, Rizzoli, 1982; “All’insaputa della notte”, Garzanti, 1984), il più noto dei quali è “Le strade di polvere”, pubblicato per la prima volta da Einaudi nel 1987. Grazie a questo libro ha vinto numerosi premi letterari, come il Premio Campiello nell’anno della sua pubblicazione, il Premio Supercampiello, il Premio Viareggio, il Premio Città di Catanzaro e il Premio Rapallo nell’anno successivo, e infine il Premio Montalcino due anni dopo. Il romanzo narra la storia di una famiglia monferrina dalla fine dell’età napoleonica ai primi anni dell’Italia unita.

Ne “La parola ebreo” (Einaudi, 1997; Premio Fregene e Premio Rapallo-Carige) racconta la storia della sua famiglia, cattolica, e di una certa borghesia italiana (compresa la sua famiglia) che, anche se non apertamente schierate con il fascismo, accettarono le leggi razziali senza avere coscienza della tragedia che si stava compiendo: memoria individuale e memoria collettiva si sovrappongono, sottolineando il peso di una responsabilità storica e morale.

In “Cuori infranti” (Nottetempo, 2010), nelle due favole nere che compongono il volume, la scrittrice racconta gli omicidi di Novi Ligure e di Erba. Poi nel 2017 Rosetta Loy è stata insignita del Premio Campiello alla carriera.

IL MATRIMONIO CON BEPPE LOY

Nel 1955, dopo una lunga frequentazione iniziata quando lei aveva 17 anni, ROSETTA Provera sposò Beppe Loy, fratello del regista Nanni. La loro l’unione (da cui sono nati un figlio e tre figlie) è durata fino alla morte del marito nel 1981, stroncato a 53 anni da un infarto. A proposito della sua relazione con Cesare Garboli, in anni recenti la scrittrice ha detto in un’intervista: “Fu molto buono con me dopo la morte improvvisa di Beppe. Uno shock terribile, con molti sensi di colpa. Come se una montagna mi fosse caduta addosso. Cesare a quel punto mi scelse”. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

·         Morto il regista Franco Dragone.

Morto il regista Franco Dragone per un infarto: il mondo dello spettacolo è in lutto. Ilaria Minucci il 30/09/2022 su Notizie.it.

Il famoso regista belga Franco Dragone è morto per un infarto a Il Cairo. Nel corso della sua carriera, è stato direttore del Napoli Teatro Festival. 

Il noto regista belga Franco Dragone è morto d’infarto a Il Cairo, città presso la quale si era recato per allestire uno dei suoi ultimi lavori teatrali. A confermare la notizia al sito Le Vif è stata Claudine Cornet, portavoce del gruppo Dragone.

Morto il regista Franco Dragone per un infarto: il mondo dello spettacolo è in lutto

Nella giornata di venerdì 30 settembre, è stata annunciata ufficialmente la morte per arresto cardiaco del regista belga Franco Dragone. Il decesso è stato confermato dalla portavoce del gruppo Dragone Claudine Cornet al sito Le Vif. Il regista si è spento a Il Cairo dove si trovava per allestire uno dei suoi spettacoli teatrali.

Nato nel 1952 a Cairano, in provincia di Avellino, Dragone è stato uno dei più grandi registi teatrali viventi.

A 7 anni, si è trasferito in Belgio con la famiglia vivendo a La Louvière in Vallonia.

Nel corso della sua carriera, ha fondato e diretto la compagnia Dragone con sede in Belgio e ha ricevuto tre Obie Award e un Los Angeles Critics’ Award. Inoltre, è stato insignito della laurea honori causa dall’Università del Quebec.

Negli anni ’80 del secolo scorso ci è cimentato con il teatro in Quebec ed è entrato in contatto con il Cirque du Soleil, scrivendo tutti gli spettacoli tra il 1995 e il 1998.

Nel nuovo millennio, ha realizzato spettacoli come A new day di Céline Dion, Le Reve a Las Vegas, The Han Show. È stato, poi, direttore del Napoli Teatro Festival, incarico dal quale si è dimesso nel 2016 dopo aver accettato l’offerta del presidente della regione Campania Vincenzo De Luca. Il regista rassegnò le dimissioni a causa di un diverbio con il cda presieduto da Luigi Grispello.

·         E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.

Antonio Inoki, morto la leggenda del wresting: l'Uomo Tigre che sfido Mohamed Alì. Libero Quotidiano l'01 ottobre 2022

All'età di 79 anni è morto Antonio Inoki, all'anagrafe Kanji Inoki, noto wrestler e politico giapponese con cittadinanza brasiliana. Secondo i media nipponici, gli è stato fatale un attacco di cuore. Alto 1,90 metri, Antonio Inoki è stato uno dei pionieri delle arti marziali miste nel suo paese. Divenuto famoso nel 1976 dopo un incontro con il pugile Mohamed Ali a Tokyo, è stato senatore dal 1989 al 1995. Ha smesso di combattere nel 1998. Rieletto parlamentare nel 2013, instaurò un forte rapporto personale con la Corea del Nord, dove si era recato decine di volte nel tentativo di contribuire a risolvere la questione dei rapimenti di cittadini giapponesi da parte di Pyongyang durante la Guerra Fredda. Nel 2013, al ritorno da un viaggio a Pyongyang, venne sospeso per un mese per essersi recato in Corea del Nord senza autorizzazione parlamentare. Inoki era talmente famoso nella cultura pop da ispirare anche il famoso manga nipponico L'uomo tigre, diventato poi cartone animato di successo mondiale negli anni 70 e 80, Italia compresa.

Antonio Inoki, morto a 79 anni il celebre wrestler giapponese. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera l'1 Ottobre 2022.

Tra i pionieri della moderna Mixed Martial Art, affrontò anche il celebre pugile Muhammad Ali. 

Il mondo del wrestling è in lacrime per la morte di Antonio Inoki all’età di 79 anni. Un simbolo, di più, una leggenda di questa disciplina. Se il wrestling moderno ha avuto successo, lo si deve a questo giapponese alto 190 centimetri e dal peso di poco più di 100 chili (102). A dare la triste notizia sono stati i media nipponici, che hanno citato fonti vicino al campione. Un eroe moderno del Sol Levante. In un Paese nel quale le arti marziali e il sumo la fanno da padrone, Inoki è andato controcorrente, sfruttando il suo fisico e portando in giro per il mondo la bandiera giapponese in mezzo a wrestler statunitensi, inglesi o francesi. In primis, è per questo che il nome di Inoki sarà indimenticabile.

Nato a Yokohama, Inoki si trasferì da studente in Brasile. Ed è in Sudamerica che questo giovane ragazzo, appena 17enne, decide di intraprendere la carriera del wrestling e diventare così un lottatore professionista. Merito, si è sempre detto, con un suo connazionale, un impresario giapponese. Famoso per il fisico statuario e il mento straordinariamente prolungato, insieme all’altro wrestler giapponese, Shohei «Giant» Baba, Inoki è considerato l’artefice del successo del wrestling moderno, con la fondazione della lega professionistica a partire nel 1972 e l’avvento della televisione a bordo ring. A metà degli anni ‘70 la sua popolarità viene cementata ancora di più dall’incontro che decide di fare addirittura con il Re della boxe, uno dei più grandi atleti di sempre: Muhammad Ali. Accade nel 1976 al Nippon Budokan di Tokyo e naturalmente è un evento meravigliosamente globale. Ben 12 anni dopo, nel 1988, Inoki decide di ritirarsi dal ring. Ma lontano dal wrestling la luce non si spegne. Anzi, è sempre più luminosa. Perché già nel 1989 Inoki viene eletto al Parlamento giapponese tra le file del partito «Sport e Pace», mostrando tutte le sue qualità e il suo impegno in un’intensa attività diplomatica. Prima in Iraq nel 1990 – per il rilascio di ostaggi giapponesi all’inizio della Guerra del Golfo –, poi nel corso degli anni in Corea del Nord, per trattare con il regime di Pyongyang, tramite canali non ufficiali, la questione dei tanti ostaggi nipponici del regime. Le sue condizioni di salute si aggravano nel luglio 2020, quando questo gigante capace di fare tutto, ammette di avere problemi di cuore. E adesso che non c’è più, non lo piange solo il Giappone.

La morte di Antonio Inoki, quando il wrestler prendeva a schiaffi i tifosi (e loro erano tutti sorridenti e felici). Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera l'1 ottobre 2022.

Ma chi era davvero Antonio Inoki, il leggendario lottatore morto in Giappone a 79 anni? «Per me è stato una delle poche vere figure iconiche del mondo delle arti marziali e degli sport da ring, insieme a Muhammed Ali e Bruce Lee, il primo sportivo vero, il secondo attore. Inoki stava nel mezzo... Appunto: un po’ sportivo e un po’ attore». A tracciare il ritratto di questo campione — indimenticabile per moltissimi, in gran parte oltre la cinquantina — è Alex Dandi, 49 anni, tra i massimi conoscitori dei segreti delle arti marziali e, su Dazn, telecronista ufficiale degli incontri della Ultimate Fighting Championship, la Lega più celebre.

Inoki il lottatore, Inoki il politico, Inoki il pacifista...

«Inoki tante cose, certo. È stato una vera figura iconica del professional wrestling, che in Giappone chiamano puroresu (pronunciato prores, ovvero come i giapponesi percepiscono la pronunica americana di pro wrestling) ma anche un vero divulgatore di una sana e sportiva cultura marziale e anche un ottimo politico, vero pacifista, come giustamente molti stanno sottolineando in queste ore».

Un volto che non si dimentica...

« Tutti quelli della mia generazione, i nati negli anni Settanta e 70 e Ottanta, qui in Italia sono cresciuti guardando sulle tv private gli incontri del puroresu giapponese che chiamavamo impropriamente “catch”, da catch wrestling, perché lo stile giapponese del “finto” pro wrestling era particolarmente verosimile utilizzando tecniche di catch wrestling, judo e jiu jitsu. Involontariamente, grazie al suo stile e alla sua popolarità, Inoki però è stato anche un pioniere delle mixed martial arts...».

Racconti.

«La data cult, spartiacque, è quella del 27 luglio 1976 quando Inoki incontrò Muhammed Ali nel primo combattimento interstile tra un lottatore e un pugile. Fu in quel periodo che i giornalisti di tutto il mondo iniziarono a parlare di mixed martial arts, sebbene non fossero definite come sport a sè stante, cosa che avverrà molto più tardi».

Lei ha un ricordo personale di Inoki?

«Personalmente non ero presente agli eventi in cui Inoki si esibì in Italia a fine ‘80 e primi ‘90, sempre poco pubblicizzati. Ma nel 2009 andai in Giappone, a Tokyo, ad un evento organizzato dalle sua IGF, Inoki Genome Federation, e c’era lui in persona, vestito di bianco, con la sua simbolica sciarpa rossa. Solo in quell’occasione capii quanto era importante per i giapponesi. Nella pausa dell’evento c’era una fila ordinatissima e infinita di persone che volevano salutarlo e farsi colpire da un coreografico, ma anche portentoso, schiaffone al volto! E tutti erano felici e festanti mentre tornavano a sedersi con il volto arrossato o con lo stampo delle dita sulla faccia».

E lei?...

«Io personalmente, in quella arena, gremita di soli giapponesi e nessun turista, non me la sono sentita di mettermi in fila, mi sembrava una cosa un po’ folle ed estrema. Ma ora, ripensandoci, forse avrei dovuto, perché quello era un modo marziale, sebbene un po’ brutale, per mostrare profonda stima e rispetto verso Antonio Inoki, che è stato tra le poche vere icone del mondo marziale, anche se i suoi combattimento sono sempre stati coreografati, probabilmente compreso quello con Muhammed Ali».

Torniamo a quel match: una «farsa» e una «buffonata», per i giornali dell’epoca, oppure un combattimento vero?

«I diretti interessanti hanno sempre sostenuto che il match fu reale ma una verità storica e definitiva non si saprà mai.. Non c’era una vera commissione atletica e si possono solo fare ipotesi. Ripeto: probabilmente non sapremo mai la verità soprattutto ora che sia Inoki, sia Ali e sia l’arbitro di quel match, il leggendario judoka e stuntman Gene LeBell, scomparso ad Agosto all’età di 89 anni, non ci sono più».

Morto Antonio Inoki, star del wrestling e del cartone animato 'L'Uomo Tigre'. Il lottatore nipponico aveva 79 anni. Una lunga carriera sul ring, era stato uno dei pionieri della lotta-spettacolo, celebre anche in Italia grazie ai programmi tv commentati da Dan Peterson. La Repubblica l'1 Ottobre 2022.

E' morto a 79 anni uno dei protagonisti della grande stagione del wrestling anni Ottanta, Antonio Inoki, conosciuto dagli appassionati degli incontri di wrestling in tv. Aveva 79 anni. Vero nome Kanji Inoki, lottatore nipponico, il suo personaggio era stato anche tra i protagonisti dell'Uomo Tigre, cartone animato seguito da adolescenti di diverse generazioni.

Inoki era nato a Yokohama, poco più che adolescente si era trasferito in Brasile e a soli 17 anni aveva intrapreso la carriera da professionista grazie all'incontro con un manager giapponese. Tra i pionieri del wrestling moderno, era diventato celebre anche presso il pubblico televisivo grazie alla messa in onda, tra gli anni Settanta e inizio Novanta, degli incontri di lotta attraverso i quali anche il pubblico italiano potè conoscere personaggi come André the Giant, Tiger Mask, Shosei Baba e Hulk Hogan con programmi come Catch the Catch trasmesso da Euro Tv.

Un successo che conquistò anche un pubblico più largo con la messa in onda, su Italia 1, di Superstars of wrestling, il programma in onda il sabato sera con il ruolo di telecronista affidato al leggendario Dan Peterson. La popolarità di questo sport, e soprattutto dei personaggi che lo animavano, raggiunse il culmine negli anni 90 grazie anche al cartoon Hulk Hogan's Rock 'n' Wrestling, in onda su Italia 7 con il titolo I campioni del wrestling, ma è soprattutto grazie a WWF Superstars, sempre con il commento di Dan Peterson, di nuovo su Italia 1 ma con la messa in onda spostata alla domenica mattina e al sabato pomeriggio, che atleti come Jake the Snake, Hulk Hogan, Macho Man e lo stesso Inoki diventaranno popolari al pari di star del cinema. All'ombra dello slogan "Don't try it at home!", non provateci a casa.

Hulk Hogan, uno dei campioni più amati dal pubblico e star del cinema a partire da 'Rocky III' 

La popolarità di Inoki è dovuta anche all'incontro con Muhammad Ali, svoltosi nel 1976 presso il Nippon Budokan di Tokyo. Inoki si ritirò ufficialmente nel 1988 e iniziò a prestare la propria fama a campagne politiche e umanitarie. Nel 1989 venne eletto nel partito Sport e Pace e si cimentò in una intensa attività diplomatica facendosi parte attiva per il rilascio di ostaggi giapponesi in Iraq durante la Guerra del Golfo, nel 1990, partecipando in seguito, in fasi diverse, a trattative con il regime della Corea del Nordsempre per vicende legate al rilascio di ostaggi nipponici.

La sua fama era tale che oltre a comparire nella serie L'Uomo Tigre - all'inizio in un ruolo secondario, poi trasformato in quello di coprotagonista - Inoki compare anche in altri contesti legati al mondo del pop: viene citato alla fine della canzone Sempre noi di Max Pezzali, appare in un episodio della serie Doraemon, viene spesso citato nel manga 20th Century Boys, e la sua figura ha ispirato il personaggio di Igari Kanji nella serie Baki the Grappler.

Le mille vite di Inoki, il wrestler dei due mondi (diventato anche cartoon). Il lottatore giapponese noto col nome di "Antonio" conquistò gli Usa. Fu politico, attore e diplomatico. Matteo Basile il 2 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Con quel mascellone così marcato e quel fisico tanto imponente era perfetto per bucare il piccolo schermo. Tanto in televisione quanto nei cartoni animati. Sì perché i boomer cresciuti a pane a cartoon negli anni '80 o giù di lì, lo hanno conosciuto soprattutto grazie al nipponico uomo tigre e alle trasmissioni dedicate al wrestling. Tanto basterebbe per proiettare Antonio Inoki in quella poco abitata dimensione che balla tra mito e leggenda. Ma Kanji «Antonio» Muhammad Hussain Inoki è stato molto, molto di più per meritarsi un'etichetta riservata a pochissimi. Ed è per questo che la sua scomparsa a 79 anni è diventato un evento mondiale.

Una, tre, cento, mille vite quelle di Inoki. Sempre al massimo, sempre sotto i riflettori. Quanti del resto possono raccontare di aver combattuto con Muhammed Alì, di aver trattato con Saddam Hussein, di aver promosso il dialogo tra Corea del Nord e del Sud e anche di aver sconfitto l'uomo tigre? Un metro e 90 centimetri per 110 chili di peso. Un gigante buono con un infanzia difficile e tanta voglia di emergere. Lo sport la strada migliore. Prima in Brasile, dove si trasferì con la famiglia dopo la morte del padre, poi in Giappone dove diventò nel giro di breve star di primo piano della New Japan Pro-Wrestling, che contribuì a rendere celebre. Nato Kanji, scelse il nome di Antonio in omaggio ad Antonio Rocca, pseudonimo di Antonino «Argentina» Biasetton, lottatore italiano naturalizzato argentino mito degli anni '60. Ma il Giappone stava stretto a Inoki che diventò famoso anche negli Usa grazie a trasmissioni tv dedicate al wrestling. Diventate popolari pure in Italia dove quello sport a metà tra le botte vere e lo spettacolo divenne molto apprezzato nei ruggenti '80. Lui, Andrè the Giant, Tiger Mask, Shosei Baba, Macho Man e Hulk Hogan raccontati da Dan Peterson su Italia Uno e imitati da schiere di ragazzini su ring improvvisati.

Ma lui era di più. Forte, carismatico, positivo, iconico. Tanto che nel 1976 affrontò Muhammed Alì in un incontro storico a Tokyo. Un'esibizione, che segnò la nascita delle arti marziali miste e, per la cronaca, costrinse Alì al ricovero in ospedale per i tanti calci subiti. Poi i due miti divennero amici, uniti anche alla lotta alle discriminazioni. La popolarità travolgente portò Inoki a diventare coprotagonista nel cartoon l'uomo tigre, interpretando l'amico buono e saggio dell'eroe mascherato, unico capace di sconfiggerlo. Come sul ring, vero, dove riuscì a battere tutti quanti, arrivando a portare (Pyongyang, 1995) oltre 190mila spettatori per un incontro di wrestling.

Ma non si fermò al ring e allo spettacolo. Nel 1989, quando era ancora in attività, fondò il «Partito dello Sport e della Pace» e divenne senatore. Nel 1990 si convertì all'Islam e divenne così anche Muhammad Hussain, pur restando anche buddista. Forte della sua conversione, durante la prima guerra del golfo andò in missione in Irak dove incontrò Saddam Hussein e trattò, con successo, il rilascio di alcuni prigionieri giapponesi. Si ritirò dai combattimenti e dalla politica, poi tornò in Senato e continuò l'attività diplomatica, promuovendo la pace tra l'altro il Giappone e le due Coree, anche grazie a missioni non ufficiali.

Mille vite in una sola vita. Ma da film, da cartoon. Un'icona che la morte non cancella. Ma che da mito trasforma in leggenda.

·         Morto lo scrittore Jim Nisbet.

Morto l’autore americano Jim Nisbet. Maestro misconosciuto del noir. SANDRO VERONESI su Il Corriere della Sera il 29 settembre 2022.  

Specializzato nell’hard boiled, ma anche poeta, raccontò la California degli eroi che non sanno vivere. Qui il premio Strega Sandro Veronesi ricorda l’amico e il grande scrittore 

Se n’è andato Jim Nisbet, uno dei migliori. Stiamo parlando di letteratura, e in particolare di quella specialità tipicamente americana, anzi, tipicamente californiana, che in origine si chiamava hard boiled, e successivamente crime fiction, detective story, thriller, noir, mystery, eccetera. «La scuola dei duri», come l’ha battezzata Oreste Del Buono. E Jim Nisbet, morto il 28 settembre fa a San Francisco all’età di 75 anni, di questa scuola era un maestro — uno dei migliori. Ma per saperlo bisogna essere indirizzati a lui, come si viene indirizzati verso certi giardini nascosti, appena schermati da un muro nemmeno troppo alto ma sufficiente a tenerli fuori dalla vista dei più: ci passi vicino e non li vedi, non sai che sono lì, di là dal muro, e se nessuno te li indica è come se non ci fossero. 

Il suo pedigree è purissimo. Ha esordito nel 1981 con la Black Lizard di Berkeley fondata l’anno prima da Barry Gifford allo scopo di ripubblicare gli autori classici della noir fiction americana, e cioè Jim Thompson, Charles Willeford, David Goodis, Harry Whittington, Charles Williams, Dan J. Marlowe, tutti già passati a miglior vita, insieme ai libri di due soli autori viventi, Barry Gifford stesso e, appunto, Nisbet. Ma anche questo bisogna che qualcuno ce lo dica, perché a differenza degli autori ristampati, e di Gifford stesso, Hollywood non lo ha reso famoso: lo ha tormentato per tutta la vita giocando con i diritti sui suoi libri come il gatto col gomitolo, senza mai realizzarne un film, nemmeno uno, malgrado fossero tutte storie perfette.

Per questo, nello scarto enorme che si è prodotto tra l’alta considerazione in cui è sempre stata tenuta la sua opera e la modesta movimentazione economica che essa ha prodotto, Jim Nisbet è stato il campione degli americani. Per questo era un giardino nascosto, un orto segreto.

Nato nel 1947 a Shenectady, nello Stato di New York, ma cresciuto in North Carolina, dove ha studiato lettere alla Chapel Hill University, si è spostato a San Francisco alla fine degli Anni 60, a Height Ashbury, il quartiere dove la psichedelia, i movimenti di liberazione e la controcultura in quegli anni toccavano l’apice. Ha cominciato a scrivere lì, alla fine degli Anni 70, poesia — perché, come tutti a quel tempo, era un poeta. Dal 1981 al 2013 ha pubblicato sette libri di poesia e tredici romanzi, alcuni dei quali acclamati come capolavori, nel segreto del giardino segreto. In Italia se ne trovano cinque, tutti pubblicati da Fanucci: Iniezione letale, Prima di un urlo, I dannati non muoiono, Cattive abitudini, Il burattino. Comprateli, leggeteli tutti e cinque: oggi sono io quel qualcuno che bisogna incontrare per incontrare Jim Nisbet. Conoscerete la disincantata, incoercibile Weltanschauung dei suoi eroi-che-non-sanno-vivere, basata su due capisaldi: mai sorprendersi di nulla, mai lamentarsi di nulla. Su questi due plinti Nisbet appoggia pesi enormi, che le sue storie sempre sostengono con grazia: la violenza, il sadomasochismo, il traffico di organi, la pedofilia, ma anche la tensione di vestiti fascianti su strepitosi corpi di donna, l’accecante bellezza di una scarrozzata al tramonto sulla Divisadero, le notti d’amore sulla spiaggia, il fruscio dei dollari che straripano dalle tasche. La California, in altre parole.

Ma Jim Nisbet non era solo uno scrittore. In quanto baciato da unremunerative success, doveva guadagnarsi da vivere, e perciò è stato anche un carpentiere: alta carpenteria di precisione, consolle da incasso, roba fina, ellittica, algebrica, architetture di legno per gli studi di registrazione o per i primi host del web. Anche come carpentiere era uno dei migliori, e anche questo bisognava che qualcuno te lo dicesse.

Era anche un mio amico, Jim Nisbet. Uno dei migliori.

Ma soprattutto, e ra tra i migliori padroni di cani del mondo. Dal vecchio pH degli Anni 70 fino a quello che ha lasciato alle cure di sua moglie Carol, di nome Dexter Brown junior, la vita di Jim Nisbet è stata veramente filtrata dal dialogo imperscrutabile che sapeva tenere con i suoi cani — ed è questo che l’ha resa così tersa malgrado la melma nella quale, come scrittore, ficcava le braccia. Per questo sono tranquillo, pensandolo alle prese con i suoi ultimi respiri: proprio il suo primo cane gli aveva insegnato ad affrontarli, il 18 agosto 1984, come indicato dalla data che sta alla fine di uno dei racconti più belli che io abbia mai letto, intitolato Mind Entiree pubblicato sul N. 3 della «City Light Review» nel 1989, in cui racconta la morte del suo adorato pH. (E di nuovo, direttori di riviste, di blog letterari, di giornali, oggi io sono quel qualcuno che dovevate incontrare per incontrare la sua bellezza nascosta: prendetelo, traducetelo, pubblicatelo, e se non trovate il numero della rivista chiedete a me, io ce l’ho, vi mando le fotocopie). Un racconto che oggi mi ha fatto bene rileggere, perché lo sguardo di pH che scivola via insegna a morire a chi muore, ma anche a sopravvivere a chi sopravvive: «Persevera, capo, mi diceva. Persevera. Continua».

·         È morto il rapper Coolio.

È morto Coolio, il rapper di «Gangsta’s Paradise». Aveva 59 anni. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022

La notizia è stata data da Tmz: Pseudonimo di Artis Leon Ivey Jr, aveva intrapreso anche la carriera di attore 

È morto all’età di 59 anni il rapper Coolio, pseudonimo di Artis Leon Ivey Jr. Lo riporta Tmz. Nato l’1 agosto 1963 a Monssen, in Pennsylvania, a sud di Pittsburgh, Coolio si era poi trasferito a Compton, in California: era celebre soprattutto per la hit del 1995 «Gangsta’s Paradise», colonna sonora del film «Dangerous Minds» con Michelle Pfeiffer. Con il brano ha vinto un Grammy per la migliore performance rap da solista. Aveva anche intrapreso la strada del cinema: aveva debuttato come attore nel 1996 nella commedia Phat Beach.

Fonti di polizia hanno riferito alla testata che il musicista si trovava a casa di un amico a Los Angeles e aveva chiesto di andare in bagno. Non vedendolo tornare, l’amico era quindi entrato nel bagno, trovandolo a terra privo di vita. I paramedici intervenuti sospettano che Artis Leon Ivey Jr., sia deceduto p er arresto cardiaco - si legge su Tmz - ma non è stata ancora comunicata una causa di morte ufficiale.

Coolio, la morte misteriosa in un bagno proprio mentre si stava riconciliando col passato. Matteo Cruccu su Il Corriere della Sera il 29 Settembre 2022.

Il rapper icona degli anni’90 era in tour e aveva ritrovato i vecchi amici, finalmente a suo agio con «Gangsta’s Paradise», il brano che lo rese famosissimo. 

Era stato un bel periodo, l’ultimo, per lui: tour incessanti, arene piene da una parte all’altra degli Stati Uniti, ritrovati compagni di strada della prima ora come Vanilla Ice e Young M.C. Per questi motivi, almeno dall’altra parte dell’Oceano, ha lasciato attoniti l’improvvisa scomparsa di Coolio, uno dei giganti del rap americano, almeno negli anni’90. Trovato riverso nel bagno, in casa di un amico, nella sua Los Angeles, per un probabile arresto cardiaco, a 59 anni. Non si sa se per abusi vari o per l’asma che l’aveva perseguitato fin da bambino, questo lo stabiliranno le indagini: quel che è sicuro è che appunto Coolio si era riconciliato con il suo passato. Accettando di essere diventato un’icona vivente, non necessariamente costretto a cimentarsi col presente. Ma pronto a celebrare quello che fu il suo più grande successo, quel «Gangsta’s Paradise» che nel 1996 scalò le classifiche di tutto il mondo. E nell’era di Youtube, arrivò ad essere visualizzato un miliardo (un miliardo...) di volte.

Già, quella cantilena scura, rancorosa, segnante, di pura denuncia, paradossalmente ispirata (nei suoni) da uno dei più gioiosi, lo Stevie Wonder di «Pastime Paradise», fu l’Everest di questo ragazzo, nato Artis Leon Ivey Jr e cresciuto nella turbolenta Compton, culla del rap americano tra Tupac, Ice Cube, Dr Dre, Snoop Dogg. E con il consueto, drammatico, curriculum, di vita da gang e carcere prematuro. Coolio , con quella canzone, esorcizzò quel curriculum e scartò dai percorsi obbligati del maledettismo, tra riferimenti biblici e tragici destini annunciati («Oggi ho 23 anni, ma vivrò per vedere i 24?»). E fu trionfo assoluto. Mai più però ripetuto, nonostante una manciata di altri album, spesso patito (entrò e usci dalle rehab in questo secolo, Coolio), infine, appunto, accettato. Fino a ieri.

Trovato morto a Los Angeles il rapper americano Coolio: aveva 59 anni. La Repubblica il 29 Settembre 2022.

Con 'Gangsta's Paradise' vinse un Grammy nel 1995. Per ora non si conoscono le cause del decesso

È morto Artis Leon Ivey Jr., in arte Coolio. Il rapper americano aveva 59 anni.

Fonti di polizia hanno riferito a Tmz che il musicista si trovava a casa di un amico a Los Angeles e aveva chiesto di andare in bagno. Non vedendolo tornare, l'amico era quindi entrato nel bagno, trovandolo a terra privo di vita. I paramedici intervenuti sospettano che sia deceduto per arresto cardiaco, ma non è stata ancora comunicata una causa di morte ufficiale.

Anche Jarez Posey, suo amico e manager, alla Cnn non ha specificato la causa del decesso. La polizia non avrebbe trovato trovato farmaci o oggetti vicino al corpo che possano far pensare all'uso di droga. Verrà effettuata l'autopsia e i test tossicologici per determinare la causa ufficiale della morte.

Coolio è stato tra i nomi più importanti della scena hip-hop degli anni 90. Con uno dei suoi successi, Gangsta's Paradise, vinse un Grammy per la migliore performance rap da solista nel 1995, colonna sonora del film di John N. Smith Dangerous minds, con Michelle Pfeiffer. La canzone è rimasta per tre settimane in vetta alle classifiche.

L'artista ha poi avuto molti altri successi, come Fantastic Voyage del 1994 - che ha raggiunto il terzo posto nella classifica Hot 100 di Billboard - 1,2,3,4 (Sumpin' New) e It's All the Way Live (Now) entrambe del 1996. Coolio ha anche preso parte ad oltre venti film. È stato molto attivo anche nel mondo della moda.   

·         Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.

Bruno Bolchi morto: prima figurina Panini, capitano dell’Inter a 21 anni, era il «Maciste» del calcio. Redazione Sport su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.

Centrocampista milanese, ha giocato anche con Atalanta e Torino. Da allenatore, è stato protagonista del Bari dei miracoli. «Ma la mia figurina l’ho solo su Whatsapp» 

Il calcio dice addio a Bruno Bolchi. È morto nella tarda serata di ieri, martedì 27 settembre 2022, a 82 anni in un ospedale di Firenze dopo una lunga lotta con un tumore che aveva domato anni fa. Nato a Milano il 21 febbraio 1940, viveva da tempo a Pieve a Nievole (Pistoia).

Esordì in Serie A con l’Inter, a 18 anni, diventandone poi capitano — era la squadra di Herrera — tre anni dopo. Giocò poi col Verona, l’Atalanta e il Torino. La sua carriera di calciatore si concluse nel campionato 1970/71, a 30 anni e iniziò quella di allenatore, tecnico dei miracoli con il Bari 1983, quello che centrò due promozioni consecutive dalla C alla A e la semifinale di Coppa Italia battendo Juventus e Fiorentina. Poi, guidò anche una dozzina di altre squadre tra cui Cesena, Lecce e Reggina (centrando altre promozioni) e tra le altre Pistoiese, Catanzaro e Genoa.

Soprannominato «Maciste» per il fisico possente, era un personaggio carismatico leale e generoso ed era famoso anche per essere stato la prima figurina Panini, di cui però con rammarico raccontava al Corriere di non avere copie cartacee. Il suo scatto divenne poi introvabile come la mitica figurina di Pizzaballa, che tra l’altro fu suo compagno di squadra a Bergamo.

Bolchi da allenatore ha raccontato di avere odiato la regola delle cinque sostituzioni, ricordando quando non se ne faceva nemmeno una («in 11 contro 11 se uno si faceva male si rimaneva in 10. Iniziavi la partita cosciente che avresti dovuto arrivare alla fine, saper dosare le energie era una qualità»).

Il calcio piange la scomparsa di Bruno Bolchi, ex allenatore di Bari e Lecce. In carriera Maciste, così ricordato per la prestanza fisica, aveva conquistato due promozioni coi biancorossi (dalla C alla B e dalla B alla A) ed una col club salentino dalla B alla A. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Settembre 2022.

È morto a 82 anni Bruno Bolchi, ex allenatore di Bari (1983-1986) e Lecce (1992/93) e ex calciatore di Inter, Verona, Atalanta e Torino. In carriera Maciste, così ricordato per la prestanza fisica, aveva conquistato due promozioni coi biancorossi (dalla C alla B e dalla B alla A) ed una col club salentino dalla B alla A. 

Calcio in lutto, è morto Bruno "Maciste" Bolchi. E' stata la prima figurina Panini della storia. La Repubblica il 27 Settembre 2022.

Si è spento all'età di 82 anni l'ex giocatore di Inter, Verona, Atalanta, Torino e Pro Patria. Da allenatore ha portato in A Bari, Cesena, Lecce e Reggina

Il mondo del calcio è in lutto. E' morto ieri sera in una clinica a Firenze, all'età di 82 anni, Bruno Bolchi, soprannominato "Maciste" (nomignolo che gli diede Gianni Brera) per la sua stazza fisica. Nato a Milano il 21 febbraio 1940, viveva da tempo a Pieve a Nievole (Pistoia). Quella di Bolchi, nel 1961, è stata la prima figurina calciatori stampata dalla Panini.

Uno scudetto con l'Inter

Da calciatore esordisce in serie A nella stagione 1957-1958 con la maglia dell'Inter a 18 anni. Sono sei le stagioni in nerazzurro, impreziosite da uno scudetto e dalla fascia di capitano a 21 anni. Successivamente, nel novembre del 1963 passa al Verona, in serie B, e, l'anno successivo, all'Atalanta, in A. Si trasferisce poi al Torino, dove termina la sua esperienza nella massima serie dopo oltre 200 presenze e 12 reti. Bolchi, che totalizza quattro presenze in Nazionale, chiude la sua carriera da calciatore nella Pro Patria, in serie C, nella staione 1970-71.

Il doppio salto con il Bari

Con la Pro Patria, nella stagione successiva, sempre in serie C, inizia la sua carriera di tecnico, inizialmente con il doppio ruolo di allenatore-giocatore. Nel 1983 viene ingaggiato dal Bari del presidente Vincenzo Matarrese guidando i biancorossi a due storiche promozioni consecutive dalla C1 alla serie A. Nella Coppa Italia 1983-1984, con il Bari in C1, raggiunge la semifinale dopo aver eliminato agli ottavi di finale la Juventus con una storica vittoria in trasferta e ai quarti la Fiorentina; un record nazionale eguagliato solo 32 anni dopo dall'Alessandria nel 2015-2016. Come tecnico può vantare 4 promozioni in Serie A con Bari (1984-1985), Cesena (1986-1987), Lecce (1992-1993) e Reggina (1998-1999), più 2 in B con Bari (1983-1984) e Pistoiese (1976-1977).

Bolchi, il Maciste che conosceva le promozioni. PIERO MEI su Il Quotidiano del Sud il 17 Ottobre 2022. 

Questo Maciste era milanese: aveva solo il nome, anzi per lui era un soprannome, del personaggio di fantasia mitologica creato da uno degli italiani più fantasiosi, Gabriele D’Annunzio, per il film muto “Cabiria” del 1914, un kolossal muto costato un milione di lire-oro al tempo in cui una produzione “normale” costava cinquantamila e che fu la prima pellicola proiettata nel cinema della Casa Bianca. Il Maciste nostro all’anagrafe si chiamava Bruno Bolchi e faceva di mestiere il calciatore. “Sì, va bene, gioca a pallone, ma di lavoro che fa?” chiedevano sospettosi i genitori della sua fidanzata e poi moglie per sempre.

Diventò Maciste per il fisico (era 183×80, misure che nell’Italia affamata del dopoguerra giganteggiavano o quasi), perché era di buon carattere, come il Maciste del Vate, e perché qualcuno (Gianni Brera) lo vide sedicenne nel 1957 fra i ragazzi dell’Inter e gli sembrò somigliasse (come il “parente misterioso”) all’attore Gordon Scott, che aveva 123 centimetri di torace e che, alla fine degli Anni Cinquanta era stato sei volte Tarzan ma poi era venuto in Italia partecipando da protagonista a molte pellicole del filone “peplum”, che raccontava, americanizzando ogni vicenda, la Roma antica e che era molto trendy all’epoca. Maciste era il gigante buono che Gordon Scott rappresentò più e meglio.

Il Maciste con il pallone venne una volta fotografato, tipo foto tessera, in maglia nerazzurra ma l’immagine risultava in bianco e nero come accadeva per la maggior parte delle foto d’epoca. Era la vigilia del campionato e con quell’immagine piccola piccola due dei fratelli Panini bussavano alle serrande degli stampatori in quel di Modena e di Parma, esibivano il “santino” e chiedevano “riuscireste a farne un’immagine a colori?”. Il photoshop e i filtri non erano ancora prassi a portata di clic. Uno ci riuscì e Bruno Bolchi fu la prima figurina stampata per l’album del 1961, la colorazione si Faceva a mano. In copertina era un colpo di testa di Nils Liedholm, maglia rossonera, fondo giallo.

Il photoshop d’antan era piuttosto casareccio: è stato raccontato che si operassero veri e propri “trapianti” sostituendo la testa del fotografato in maglia d’ordinanza con quella del fresco arrivato del quale non si disponeva dell’immagine un po’ da casellario giudiziario. Un celebre caso è quello del decapitato Trapattoni milanista costretto a perdere la testa a favore del tedesco Schnellinger, arrivato all’ultimo momento mentre le figurine già giravano in tipografia.

Bolchi fu la prova di stampa e dette il calcio d’inizio al grande gioco del “cielo manca” (celo sta per ce l’ho, in una grafia che anticipava quella fantasiosa del web e del messaggino) che ha affascinato generazioni di bambini. Bolchi non poté mai dire “cielo” della sua, perché non riuscì a trovarla nelle bustine del desiderio, anche se qualcuno gliene fornì un’immagine tanto che Maciste ne fece quella del suo profilo whatsapp.

Il gioco in campo Bruno Bolchi lo cominciò da ragazzino nella “Garibaldina”, gloriosa società milanese, la squadra di Dergano e della Bovisa, ma presto passò alle giovanili dell’Inter, squadra nella quale divenne poi professionista ed anche capitano e con la quale vinse uno scudetto ai tempi d’inizio Sessanta, i tempi di Helenio Herrera, il mago allenatore che, diceva Maciste, “tutto sommato è stato un grandissimo. Ha dato una svolta alla preparazione e di conseguenza al modo di giocare. Faceva gli allenamenti concentrando tante cose in poco tempo, puntando tutto sulla velocità. Prima di lui, gli allenamenti erano giri di campo, saltelli, partitine. Il potenziamento muscolare e la resistenza non si sapeva cosa fossero, dalla panchina non è che fosse un’aquila, ma almeno tre doti su cinque come ogni allenatore dovrebbe avere lui le aveva sviluppatissime: preparazione atletica, tecnica, propaganda di se stesso. Come tattico e psicologo invece lasciamo perdere”.

Emanava forza bruta Maciste, ma non era mai brutale, pure se le cronache lo accompagnavano spesso con gli aggettivi “arcigno” e “coriaceo” che facevano parte del linguaggio comune dei cronisti sportivi del tempo. All’Inter restò sette stagioni, fino al 1963. Nel frattempo andò militare, e, non avendolo a tempo pieno, Herrera s’infatuò di Tagnin e glielo preferì.

Così Bruno Bolchi lasciò l’amore nerazzurro e, dopo una stagione al Verona ed una all’Atalanta, incontrò un nuovo calcistico amore: il Torino. Restò in granata dal 1965 al 1970, in campo per una vittoriosa Coppa Italia. Due anni dopo, era alla Pro Patria, un infortunio pose fine alla sua carriera di calciatore: aveva 32 anni e si spostò in panchina.

Fu gavetta, fu Giro d’Italia: fu il primo anno con la Pro Patria tormentoso, fra licenziamento, riassunzione, dimissioni obbligate. Le tappe di questo Giro durato 26 anni furono Busto Arsizio (la Pro Patria, appunto), Pistoia, la Valdinievole, Sorrento, Messina, Pistoia ancora, Novara, Bergamo, Cesena, Bari, Arezzo, Pisa, Reggio Calabria, Brescia, Avellino, Lecce, Lucca, Monza, Genova (il Genoa), Terni, Catanzaro, ancora Messina: dall’Alpi alle Piramidi si direbbe.

Furono quattro promozioni dalla serie B alla serie A, con il Bari un salto doppio salendo dalla C, con il Cesena, il Lecce e la Reggina. Un “mago” a modo suo: il “mago” Maciste, che un giorno del 1984, il 22 febbraio, con il suo Bari di serie C, riuscì ad eliminare agli ottavi di Coppa Italia la Juve di Trapattoni che schierava Platini, Boniek e i campioni del mondo del 1982, Gentile, Cabrini, Scirea, Paolo Rossi e Tardelli.

·         Morto il comico Bruno Arena.

Morto Bruno Arena, dei Fichi d’India. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 28 Settembre 2022.

Bruno Arena, comico e cabarettista, è morto oggi: a darne la notizia è stato il figlio Gianluca. Nel 2013 Arena era stato vittima di un aneurisma dopo la registrazione di una puntata di Zelig: la malattia l'aveva costretto al ritiro dalle scene 

Bruno Arena, comico e cabarettista del duo Fichi d’India, è morto oggi, 28 settembre. Aveva 65 anni. 

A darne la notizia è stato il figlio Gianluca, anche lui cabarettista, sui social. «Non ero pronto... ma tanto non lo sarei mai stato», ha scritto. «Buon viaggio papà... lasci un vuoto immenso». 

Tra i primi a commentare, sui social, anche Paolo Belli, a lungo amico di Arena. 

Nel 2013 Arena era stato colpito da un aneurisma dopo la registrazione di una puntata di Zelig, il programma che aveva lanciato i «Fichi d'India», il duo comico composto proprio da Arena e da Max Cavallari. 

I due avevano preso parte poi ad altri programmi e a molti film comici. 

Arena, nato a Milano il 12 gennaio 1957, era stato docente di educazione fisica in diverse scuole della provincia di Varese, ma aveva intrapreso la via dello spettacolo e della comicità già all'età di 26 anni. 

Nel 1984 era stato vittima di un incidente automobilistico, che lo aveva costretto a subire diversi interventi e ne aveva compromesso parzialmente la vista. 

Nel 1988 l'incontro con Cavallari, destinato a cambiare la sua vita. 

La carriera di Arena, dopo il successo dei «Fichi d'India», venne interrotta a causa della malattia il 17 gennaio 2013, all'età di 56 anni. 

Operato d'urgenza all'ospedale San Raffaele di Milano, Arena lasciò l'ospedale dopo alcune settimane, e un periodo di coma. 

Poche settimane fa Cavallari aveva postato su Facebook uno scatto con Arena: «Buonasera a tutti! Buon sabato sera! Un abbraccio fico a tutti!», aveva scritto.

È morto Bruno Arena dei Fichi d'India. La Repubblica il 27 Settembre 2022. 

L'attore comico aveva 65 anni. Nel 2013 era stato colpito da aneurisma cerebrale

È morto Bruno Arena dei Fichi d'India. Aveva 65 anni. L'attore comico era stato colpito nel 2013 da aneurisma cerebrale ma recentemente era riapparso in una foto insieme a Max Cavallari, al suo fianco per anni sulle scene, che dopo la malattia non lo aveva mai lasciato solo. 

A darne notizia, su Instagram, il cantante Paolo Belli, amico dell'attore da lunga data. La voce dei Ladri di bicilette ha scritto: "R.I.P.  Grande amico mio". 

Morte Bruno Arena, chi è la moglie Rosy Marrone e l'addio del figlio d'arte, il comico Gianluca. La Repubblica il 28 Settembre 2022.

Il comico lascia la moglie, con la quale ha avuto due figli, Gianluca e Lorenzo

Bruno Arena, scomparso oggi a 65 anni , lascia la moglie Rosy Marrone e i due figli Gianluca, che ha seguito le orme del padre nella carriera di comico, e Lorenzo.

Il figlio d'arte

Gianluca Arena è uno dei due figli che Arena, del duo Fichi d'India ha avuto con la moglie, Rosy Marrone (ha un fratello minore di nome Lorenzo). Anche lui comico e cabarettista, è nato a Varese e dopo il diploma in grafica pubblicitaria ha cominciato a recitare: ha prima realizzato alcune web serie e numerosi sketch comici e quindi partecipato a Colorado. E’ cofondatore di That’s Radio, un programma in onda su Twitch. Dopo che suo padre ha avuto un aneurisma celebrale nel 2013, è stato lui ad aggiornare i fan del padre sulle sue condizioni di salute.

La moglie Rosy Marrone

Bruno Arena era legato a Rosy Marrone da 35 anni. Due anni dopo l’aneurisma la coppia ha deciso di risposarsi, rinnovando le promesse del matrimonio nella chiesetta della clinica in cui il comico era ricoverato. 

“Le nozze d’argento sono state l’anno scorso, ma non abbiamo potuto festeggiare perché Bruno era in ospedale”, spiegò la donna. “Stavo organizzando una grande festa, ma ho dovuto rimandare. Rimandare, però, non cancellare. E per l’occasione ho indossato il mio abito da sposa”.

Adriana Marmiroli per “la Stampa” il 4 ottobre 2022.

È commosso Max, la voce è rotta, ma a tratti affiora il sorriso dei tanti bei ricordi insieme. Il sorriso dolente di quel «cretino» che solo un amico vero che si sente tradito dal destino può dire. «Ora sarà nell'Arena dei cieli, come dice il suo cognome, insieme a Tognazzi e Vianello, Chiari e Bramieri. Impegnati a chi la spara più grossa».

Chi era Bruno Arena?

«Uno con la testa sul comodino e i piedi nell'armadio. Un clown senza regole. Rompeva ogni schema, sul palcoscenico e nella vita reale. Per questo ci siamo subito trovati. In tour, mentre gli altri aprivano il sipario, noi aprivamo la valigia piena di parrucche e oggetti e iniziavamo a improvvisare. Aveva tempi comici innati, di quelli che non si studiano.

Gli piaceva fare il matto e mica solo sul palco. Tra noi l'intesa era totale. Ci divertivamo da matti a farci i dispetti, non ci davamo le chiuse, e ci rubavamo le battute. Una cosa che puoi fare solo se hai grande affiatamento. Il pubblico lo sentiva e ci amava. Gli autori invece ci odiavano: ai tempi di Colorado e di Zelig, scrivevano per ore, poi arrivavamo in scena e buttavamo tutto. E alla fine nessuno voleva lavorare per noi».

Com' è stato lavorare con Roberto Benigni in Pinocchio? Anche lui è famoso per le improvvisate.

«Eravamo molto orgogliosi che ci avesse scelti per fare il Gatto e la Volpe: lavorare con dei premi Oscar... Benigni si era innamorato di Ahrarara e ci aveva voluti per questo. Ci faceva fare sempre due ciak: uno da copione e uno a modo nostro. È finito che sceglieva quasi sempre il nostro».

Vi somigliavate o no, lei e Bruno?

«Alla fine eravamo molto simili. Lui arrivava dai villaggi e dal contatto diretto con il pubblico. Io ero più attore, facevo le commedie di Govi. È lui ad avermi insegnato tutto del lavoro del comico, dopo il nostro incontro in quel famoso villaggio Touring di Palinuro. Ci compensavamo: eravamo il più e il meno della batteria» 

Colleghi certo, ma anche amici. Bruno, milanese, lasciò la città per vivere sul lago Maggiore poco lontano da lei.

«Eravamo quasi parenti, anche: mezzi cognati, mia figlia è sua nipote, e io sono il padrino di suo nipote. Abbiamo fatto vita comune, per 34 anni ci siamo visti tutti i giorni, Natali compresi... Anche in questi anni che stava combattendo con la malattia. Ricordo nel periodo della riabilitazione alla Villa Beretta di Costa Masnaga le gare in sedia a rotelle che faceva con Lamberto Sposini, anche lui ricoverato. Sono stato più con lui che con mia moglie, e io lo conoscevo meglio della sua. Era più di un gemello. E ora è una parte di me che mi manca. Per questo chiudo sempre ogni mio spettacolo con la canzone Da soli mai. È in suo ricordo. La vita continua ma sarà sempre con me».

Ora che farà lei, Max?

«Mi manca una parte di me ma vado avanti. Il 18 ottobre esce un libro, Non spegnere la luna, che è quello che gli ripetevo quando era in coma. Dentro ci sarà tutto della mia vita e ovviamente tutto lui. Era un paio d'anni che lo stavo scrivendo. Anche su questo mi ha spiazzato: lui non ci sarà quando uscirà. Che scherzo morire senza avvisare... Non si farà invece il progetto che avevamo insieme: un viaggio in Italia mio e di Bruno in carrozzina... Sarebbe stato bello, ma qualcuno si è mangiato i soldi che erano stati raccolti per produrlo. E poi ci sono le serate in giro, con molti dei nostri sketch classici e tante cose nuove. Anche la sera che è morto Bruno ero a teatro, a Novara. Ho dovuto metterci tutta la mia forza...».

Lei lavora con molti giovani, come sono le nuove generazioni di comici?

«Mi piace lavorare con i giovani, anche perché non hanno più tante possibilità di esibirsi, spariti quasi tutti i cabaret dove ci esibivamo noi. Fanno tanti laboratori ma non è la stessa cosa. E poi gli mancano gli autori. I pochi che ci sono lavorano solo per i grandi, Fiorello, Panariello. Così per i giovani è doppiamente difficile. Manca la cultura delle scenette, ora sono tutti solo stand up. In più youtube li ha massacrati: noi tenevamo la piazza per due ore, i ragazzi oggi non superano i 15 minuti. Però i social hanno anche il loro lato buono: grazie a loro mi sono fidanzato, grazie a loro mantengo il rapporto con il pubblico».

E Bruno dove va a trovarlo?

«Sul lago Maggiore, vicino a Laveno. Dove abitiamo tutti: io e lui, Iachetti e Pozzetto, Salvi. È la terra di Piero Chiara, spira un'aria buona per noi comici».

Bruno Arena, il Fico sul palco e nella vita. Una carriera tra teatro e tv, non si era arreso alla malattia. Il figlio: lasci un vuoto immenso. Laura Rio il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

E chi non ricorda il tormentone «Amici Ahrarara». Un aneurisma si è portato via a soli 65 anni Bruno Arena, la metà dei Fichi d'India. L'attore insieme al sodale Max Cavallari ha fatto ridere generazioni di spettatori con quella leggerezza e ironia che entrano nel cuore dei fan. E, infatti, il dispiacere e il cordoglio per la sua scomparsa hanno attraversato come un fulmine la rete. A dare notizia del decesso è stato per primo Paolo Belli, grande amico del cabarettista.

Poi è arrivata la conferma da parte del figlio Gianluca, che ha scritto: «Non ero pronto, ma tanto non lo sarei mai stato. Buon viaggio papà... lasci un vuoto immenso». Max, il compagno di show e di carriera, gli ha scritto invece: «Ciao Pagliaccio mio. Prendi la valigia con le parrucche. È ora di far ridere lassù. Ti aspettano i grandi. Ti amerò per sempre». Nel 2013 Arena era stato colpito da un aneurisma cerebrale mentre era impegnato nella registrazione di una puntata di Zelig, il programma di Canale 5 di cui era una colonna insieme a Cavallari. La sua è stata una vita sul e per il palco. Dopo l'emorragia aveva ridotto le apparizioni pubbliche ed era stato ricoverato in una clinica riabilitativa: era riuscito a fare progressi ma senza recuperare completamente le funzioni. Ma l'attore non si voleva arrendere, era uno che non stava mai fermo, e già vent'anni fa era stato in grado di affrontare una dura prova dopo un incidente stradale. Nel 2014 aveva fatto un primo ritorno in pubblico a San Siro durante una partita dell'Inter di cui era gran tifoso. L'ultima volta che si è fatto vedere è stato un mese fa, quando ha trascorso una serata con Cavallari. Nato a Milano il 12 gennaio 1957, il comico abitava a Varese. Di origine messinese da parte di padre, Arena aveva frequentato il liceo artistico, per poi iscriversi all'ISEF e diventare insegnante di educazione fisica. Nel 1984 fu coinvolto in quell'incidente automobilistico che gli lasciò segni sul volto. Ne parlava spesso nei suoi spettacoli scherzando sulla propria «bruttezza». Nel 1988, durante una passeggiata sulle spiagge di Palinuro, con Cavallari progettò il duo comico che lo rese famoso. Decisero di chiamarsi Fichi d'India in omaggio alla vegetazione di quella zona. Vicini di casa, Bruno e Max hanno vissuto in simbiosi, dal debutto in un locale di Varese, alla Milano del cabaret all'approdo in tv nel 1994 su Italia 1 nella trasmissione Yogurt a Radio Deejay. La loro carriera prese il volo su Canale 5 grazie alla partecipazione a La sai l'ultima? e poi a Zelig dove coltivò l'amicizia con Bisio e i comici della banda.

Tra il 1999 e il 2008 il duo partecipò ad una serie di film comici: sono stati il Gatto e la Volpe nel Pinocchio di Benigni. Il celebre tormentone «Amici Ahrarara» era una parodia del folcloristico televenditore Sergio Baracco. Nella carriera dei Fichi d'India ci sono state anche polemiche, in particolare per la partecipazione a qualche edizione di Miss Padania in cui due prendevano in giro scherzosamente i «terroni». Tanti gli amici che hanno salutato Bruno via social. «Fai buon viaggio amico mio!», gli ha scritto Simona Ventura. E portati «le parrucche», come dice il tuo amico Max.

Quei "due" diventati "uno" (e chi resta si scopre vedovo). Ci sono un sacco di modi per sentirsi dimezzati. Perché "due non è il doppio, ma il contrario di uno", come insegna Erri De Luca. Valeria Braghieri il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

Ci sono un sacco di modi per sentirsi dimezzati. Perché «due non è il doppio, ma il contrario di uno», come insegna Erri De Luca. Certi connubi artistici diventano un completamento di sé, un modo di plasmarsi avendo i bordi dell'altro come confine. E come sostegno. E la fine, di certi connubi artistici, diventa una vedovanza. Ieri si è spento Bruno Arena, la metà dei Fichi d'India e non a caso, per salutarlo, l'altra metà dei Fichi, il suo compare artistico, Max Cavallari, ha usato parole d'amore: «Hai preso la valigia e le parrucche?... Adesso farai ridere i grandi lassù... È solo un arrivederci. Ti amerò per sempre». Tocca reinventarsi dopo scomparse così, capire di nuovo chi si è. Bruno e Max avevano finito perfino con l'essere vicini di casa. Perché spesso si inizia ad essere sodali sul palco, o davanti alle telecamere, e si finisce con l'esserlo anche nella vita. Migliori amici, fratelli, parenti. Però scelti.

Parenti veri lo erano diventati Andrea Brambilla (in arte Zuzzurro) e Nino Formicola (in arte Gaspare). Oltre ad aver condiviso quasi quarant'anni di carriera, Brambilla aveva sposato Francesca, la sorella di Formicola. Dopo la morte di Andrea, Nino, che non ha mai più voluto essere chiamato Gaspare («Lui è morto il 24 ottobre del 2013, assieme ad Andrea Brambilla e Zuzzurro»), partecipò, nel 2018, ad un'edizione de L'Isola dei Famosi e durante una puntata scoppiò in un pianto a dirotto ricordando l'amico e spiegando che riprendersi dopo la sua morte fu tutt'altro che semplice. Andare avanti fu per un tratto impensabile e doloroso. In quell'occasione decretò anche la fine del suo personaggio: «Non esiste Stanlio senza Ollio, così come non esiste Gaspare senza Zuzzurro».

Carlo Pedersoli (Bud Spencer) e Mario Girotti (Terence Hill), si erano divisi professionalmente già da tempo, prima della morte di Pedersoli, nel 2016. Si separarono con naturalezza e delicatezza per il semplice fatto che entrambi erano diventati troppo maturi per interpretare i ruoli che li avevano resi celebri come duo. Diciotto film insieme, l'ultimo, nel 1994 diretto proprio da Girotti. Ma gli incassi e il successo di pubblico non furono paragonabili ai loro standard. Avrebbero voluto inventare un nuovo modo di lavorare fianco a fianco ma non ci fu maniera. E tempo. Girotti trovò una sua nuova vita artistica nelle fiction ma alla morte di Pedersoli disse: «Noi siamo l'unica coppia cinematografica al mondo a non aver mai litigato».

Anche Ezio Greggio ha raccontato che l'ultima volta che sentì Gianfranco D'Angelo, (scomparso nel 2021 quando le loro strade professionali si erano già divise da anni), il tema dell'ultima, emozionante telefonata fu il sogno di inventarsi un modo per tornare due. Non c'è stato tempo. Ma anche qui, restano parole che assomigliano alle parole d'amore: «Abbiamo avuto il nostro modo di stare insieme: l'ho fatto ridere e lui mi ha fatto ridere tanto».

Marco Giusti per Dagospia il 28 settembre 2022.

Se ne va Bruno Arena, 65 anni, metà del celebre duo comico lombardo I Fichi d’India, attore, assieme al suo socio Max Cavallari in una serie di spettacoli tv di successo, “La sai l’ultima?”, “Colorado”, “Zelig”, e di film di successo, “Natale in India”, “merry Christmas”, Natale sul Nilo”, “La fidanzata di papà”, animatore turistico, ma anche allenatore sportivo e insegnante di educazione fisica.

Persona assolutamente gentile, di gran cuore, già colpito nel 1984 da un terribile incidente d’auto che, dopo una serie di operazioni, lo aveva stravolto nel viso, poi nel 2015 da un pesante aneurisma cerebrale durante le riprese di una puntata di “Zelig” che lo aveva portato prima al coma e poi, una volta che si era ripreso, a una lentissima riabilitazione sulla sedia a rotelle. Nato nel 1957 a Milano, ma di famiglia messinese, Bruno si era dedicato allo sport e all’insegnamento di educazione fisica nelle scuole, prima di esibirsi come comico intrattenitore nei locali nella prima metà degli anni ’80.

Il brutto incidente d’auto del 1984 non ne bloccò la verve e la voglia di esibirsi, tanto che nel 1988 iniziò a formare coppia con Max Cavallari, prendendo il nome di Fichi d’India. Un po’ per ricordarsi il luogo dove l’idea era nata, a Palinuro, vicino a Salerno, in un posto pieno, appunto, di fichi d’india, un per il buffo aspetto puntuto di Bruno. Iniziano a esibirsi in tv negli anni ’90 nei programmi comici di Mediaset. La loro è una complicità molto semplice e molto classica, piena di gag e di buffe trovate da clown, non a caso erano molto amati dai bambini. Ricordo che li incontrai la prima volta al Maurizio Costanzo Show e le loro imitazioni degli animali facevano molto ridere.

Grazie ai programmi televisivi e ai loro tormentoni diventano estremamente popolari, soprattutto al Nord, dove si esibiranno anche in un’edizione di Miss Padania dei tempi di Bossi. Ma da Roma in giù non vengono mai davvero capiti. Anche se Bruno gira un paio di film in piccoli ruoli alle fine degli anni ’90, “lucignolo” di Massimo Ceccherini e “Amore a prima vista” di Vincenzo Salemme, sarà Aurelio De Laurentiis a prenderli sotto contratto pensando di lanciarli come comici soliti con un film tutto loro.

Sarà lo stracult “Amici Ahrarara”, scritto e diretto da Franco Amurri, appena ritornato da Hollywood, prodotto appunto dalla Filmauro. Ma il film riesce a tradire quel tipo di comicità sempliciotta e lombarda dei Fichi d’India e si rivelerà un disastro per tutti. Solo quando si travestono da donne e tirano fuori un po’ di repertorio la cosa fa un po’ ridere, ma tutte le gag visive tentate da Amurri con un’ambizione degna di migliori risultati franano miseramente.

I Fichi sono simpatici, è vero, potrebbero anche funzionare, ma rimarranno un po’ sul groppone a De Laurentiis, che magari ha pure le sue colpe nel disastro del loro primo film. Avrà l’idea, però, alla fine vincente, di trapiantarli nei suoi film natalizi a tanti personaggi diretti da Neri Parenti. Sarà proprio Neri a usarli come puri comici da slapstick con trovate magari un po’ trash, come quando Bruno esce dal culo del tacchino gigante in ”Merry Christmas”, ma di sicuro impatto comico.

Girano così anche “Natale sul Nilo”, dove sentiamo questo dialogo tra Bruno e Max, “Anche il grande Piero Angelo dice che non ci si può perdere nelle piramidi”. “Allora andiamo di Quark!”. Ma funzionano meglio come clown da gag visiva. Girano così anche “Natale in India” di Parenti, il curioso esperimento “Le barzellette” dei Vanzina con Gigi Proietti, Carlo Buccirosso, Enzo Salvi, film dove hanno un loro spazio un po’ limitato ma tutto loro. Sono anche i nuovi Gatto e Volpe collodiani per la versione di “Pinocchio” diretta e interpretata da Roberto Benigni. Con la crisi del cinepanettone di De Laurentiis e la divisione di Boldi e De Sica, i Fichi finiranno nelle produzioni pre-natalizie, “Matrimonio alle Bahamas”, “La fidanzata di papà”. Per poi tornare alla tv, tra “Colorado” (2007-2012) e “Zelig”, dove si trovano sicuramente più a loro agio.

Nel 2013 fu colpito da aneurisma. Morto Bruno Arena dei ‘Fichi d’India’, il comico scomparso all’età di 65 anni. Redazione su Il Riformista il 28 Settembre 2022. 

È morto all’età di 65 anni il comico e cabarettista Bruno Arena, membro del duo ‘Fichi d’India’. A darne notizia è stato sui social il figlio Gianluca: “Non ero pronto… ma tanto non lo sarei mai stato. Buon viaggio papà… lasci un vuoto immenso”, ha scritto il figlio.

Arena nel 2013 era stato colpito da un aneurisma dopo la registrazione di una puntata di Zelig, il programma di Mediaset che aveva lanciato Arena e Max Cavallari, l’altro membro del duo ‘Fichi d’India’, al grande pubblico. Operato d’urgenza all’ospedale San Raffaele di Milano, Arena lasciò l’ospedale dopo alcune settimane, e un periodo di coma: aveva poi recuperato parzialmente diverse funzionalità dopo il ricovero in una clinica di riabilitazione, ma la malattia aveva ormai lasciato dei segni indelebili.

Proprio la malattia aveva di fatto interrotto la carriera di Arena, a causa della compromissione delle sue capacità motorie.

Tanti i commenti sui social in ricordo di Arena, tra cui quello dell’amico Paolo Belli: “RIP grande amico mio”.

Soltanto poche settimane fa Cavallari su Facebook aveva postato uno scatto in cui era accanto proprio ad Arena, da tempo costretto su una sedia a rotelle: “Buonasera a tutti! Buon sabato sera! Un abbraccio fico a tutti!”, aveva scritto l’amico e collega. 

Nato il 12 gennaio 1957 a Milano, Arena era stato docente di educazione fisica in diverse scuole della provincia di Varese prima di intraprendere la carriera dello spettacolo e soprattutto della comicità all’età di 26 anni.  Nel 1984 era stato vittima di un incidente automobilistico, che lo aveva costretto a subire diversi interventi e ne aveva compromesso parzialmente la vista. Quindi quattro anni dopo l’incontro che professionalmente risulterà decisivo, quello con Max Cavallari, con cui darà il vi al duo comico ‘Fichi d’India’.

Aveva 65 anni. Com’è morto Bruno Arena dei Fichi d’India: l’incidente, l’aneurisma e il coma del comico. Vito Califano su Il Riformista il 28 Settembre 2022 

Bruno Arena non ce l’ha fatta. È morto, a 65 anni, il comico del duo “I Fichi d’India”, cabarettista e umorista per anni sulla cresta dell’onda con il collega e amico sodale Max Cavallari. A dare la notizia il figlio del comico, Gianluca, che sui social ha pubblicato una storia: “Non ero pronto … Ma tanto non lo sarei mai stato … Buon viaggio papà … lasci un vuoto immenso”.

Arena era nato a gennaio 1957 a Milano. Aveva origini messinesi. Era stato animatore turistico, poi professore di educazione fisica. Era riuscito però a esaudire il suo sogno, quello di entrare nel mondo dello spettacolo e dell’intrattenimento. Con Cavallari si erano conosciuti nel 1988 e avevano fondato il duo – il nome era nato durante una vacanza in Sicilia – che aveva sfondato in alcuni programmi Mediaset come “La sai l’ultima?”, “Zelig” e “Colorado”. Anche teatro, cinema, radio e tv nella sua carriera.

A neanche trent’anni Arena era stato coinvolto in un gravissimo incidente automobilistico che lo aveva costretto a diverse operazioni chirurgiche. Aveva anche perso parte della vista da un occhio. Il malore che aveva ridotto Arena in gravi condizioni negli ultimi anni lo aveva colpito nel gennaio del 2013: la rottura di un aneurisma gli aveva causato un’emorragia cerebrale durante la registrazione di una puntata del programma Zelig. Il comico era stato operato d’urgenza e a febbraio aveva lasciato l’ospedale San Raffaele di Milano per un centro di riabilitazione.

Dopo le cure era uscito dal coma. La sua prima apparizione in pubblico il 5 aprile 2014, allo Stadio San Siro per la partita dell’Inter contro il Bologna. Solo poche settimane fa Cavallari aveva postato su Facebook uno scatto con Arena: “Buonasera a tutti! Buon sabato sera! Un abbraccio fico a tutti!”, si leggeva nel post. Già dai primi minuti dalla diffusione della notizia, tantissimi i messaggi di cordoglio e solidarietà dal mondo dello spettacolo e dai telespettatori.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·         E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.

Morto Gabriello Montemagno, uomo di teatro e giornalista. Redazione Cultura su Il Corriere della Sera il 26 Settembre 2022.

Per 25 anni redattore del giornale «L’Ora», collaborò ai programmi culturali della Rai siciliana e fu autore di opere teatrali in cui raccontò l’attualità e la mafia. Aveva 84 anni

Una vita tra teatro e giornalismo. Gabriello Montemagno, giornalista, autore di opere di teatro, attore e regista, è morto all’età di 84 anni. Raffinato intellettuale, figura brillante della cultura siciliana, Montemagno era stato per oltre venticinque anni redattore del giornale palermitano «L’Ora» dove era approdato durante la direzione di Vittorio Nisticò e fu inoltre a lungo collaboratore dei programmi culturali della Rai siciliana. La sua formazione artistica era cominciata a fianco di Michele Perriera e non si era fermata durante l’attività giornalistica.

Nato a Caltagirone (Catania) nel 1938, aveva scritto diversi testi per il teatro, tra cui un dramma sulla mafia (Fango) e un’opera su Rita Atria (Il sogno spezzato di Rita Atria), la ragazza testimone di giustizia, collaboratrice del giudice Paolo Borsellino, che si uccise dopo la strage di via D’Amelio. Suoi anche lavori teatrali su Alfieri e Bertolt Brecht. Gabriello Montemagno aveva anche firmato diversi libri. Gli ultimi due erano stati pubblicati da Sellerio: Il babbio (2013), storia della stampa satirica palermitana, e L’uomo che inventò i Beati Paoli (2017), ritratto appassionato dello scrittore Luigi Natoli acuto narratore della storia della Sicilia.

·         E’ morta l’attrice Anna Gael.

Marco Giusti per Dagospoa il 25 settembre 2022.

Se ne va un’altra star del cinema erotico a cavallo degli anni ’60 e ’70. La bellissima Anna Gael, 79 anni, che, grazie al matrimonio con il nobile inglese Alexander Thynne nel 1969, divenne Lady Weymouth nonché Marchesa di Bath.  

Ma, malgrado i suoi film siano piuttosto sbarazzini, non possiamo dire porno, si va dal primissimo cult lesbo “Therese and Isabelle” diretto nel 1968 da Radley Maetzger dove assieme a Essy Persson formavano la coppia di studentesse amanti, al folle eurospy pop “Zeta Uno” o “The Love Factory” di Michael Cort, dove interpreta la protagonista, Clotho, dallo svedese “Nanà 70” di Marc Ahlberg, rilettura erotica dell’eroina di Zola, a “Dracula padre e figlio” di Edouard Molinaro con Christopher Lee, anche Anna Gael vantava origini nobiliari. 

Nata come Anna Abigail Gyarmathy nel 1948 a Budapest con origini sia ungheresi che inglesi, si sposta in Francia con la famiglia fin da bambina e inizia a recitare fin da giovanissima. La troviamo in molti film degli anni ’60, sia francesi, tedeschi, ma anche italiani, in ruoli più o meno importanti, ma sempre di bella giovane ragazza. Inizia nel 1962 proprio in Italia in “Una storia milanese” di Eriprando Visconti assieme a Danielle Gaubert e Romolo Valli, scelta, probabilmente di coproduzioni. 

La troviamo poi in Francia in film come “Beatrice” di Jean-Louis Richer, “Pelle di spia” del curiosissima Max Pecas, maestro del sexy-thriller a basso costo, nello spionistica “Via Macau” di Jean Leduc con Françoise Prevost e Roger Hanin, dove è protagonista. Bella, con lunghi capelli biondi, poliglotta, si sposta facilmente da un paese all’altro indifferentemente. Fa parte di un esercito di belle ragazze molto disinvolte e molto in mostro a quel tempo.  La roviamo così in “Congiura di spie” di Edouard Molinaro con Senta Berger, Louis Jourdan, nel franco-tedesco “Pension Clausewitz” di Ralph Habib con Wolfgang Kieling, nell’inglese “Senza di loro l’inferno è vuoto” di John Ainsworth con Anthony Steele e Martine Carol.

 E’ un film più popolare la commedia erotica di Michelle Deville “Benjamin ovvero Le avventure di un adolescente” dove è una delle conquiste di Pierre Clementi assieme a Catherine Deneuve. Recita poi da assoluta protagonista in “Bérénice” di Piera Alain Jolivet da Jean Racine. “Therese and Isabelle” di Radley Metzger, maestro del cinema erotico, tratto dal romanzo di Violette Leduc, che la vede protagonista di scene hot per il tempo assieme a Essy Persson, la mette particolarmente in luce nel 1968.

 Avrà così un ruolo interessante nel kolossal bellico “Il ponte di Remagen” di John Guillermin in un cast di soli uomini nel 1969, dopo essere stata protagonista di “Traffico eritico” di Jean-François Davy. Proprio nel 1969 sposa Alexander Thynne, marchese di Bath, col quale avrà due figli, una è una celebre fashion model inglese Lenka Thynne, e girerà molti film in Inghilterra, come il bizzarro “Zeta Uno” di Michael Cort, fantasia pop con Robin Hawdon, Brigitte Skay, Dawn Addams.

 Malgrado il matrimonio, e il tentativo di fare il reporter di guerra fra Vietnam, Su Africa e Irlanda del Nord nei primi anni ’70, non lascerà subito il cinema. La troviamo così protagonista di “Nana 70” dello svedese Marc Ahlberg, di “Dracula padre e figlio”, di “Sbirri bastardi” di Tom Clegg, di “I diavoli 2”.  

·         E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.

Marco Giusti per Dagospia il 25 settembre 2022.

Perdiamo a 96 anni quella che fu una delle prime e più importanti star drammatiche della TV italiana, Lydia Alfonsi, attrice anche di teatro e cinema, ma che i primi sceneggiati della RAI, "Jane Eyre", "Giallo Club" "La Pisana", "Mastro Don Gesualdo", "Luisa Sanfelice" resero popolarissima tra la fine degli anni 50 e la prima metà dei 60. Anche troppo. Al punto che, ancor giovane, non riuscirà, penso nel cinema, a ottenere lo stesso rilievo che aveva avuto in tv. 

La sua, inoltre, era una recitazione molto teatrale, molto sopra le righe, fu sul palco del Piccolo di Milano una celebre Medea, Elettra, Ecuba, che il cinema vide come un po' eccessiva da riproporre tra commedie e film leggeri e le limitò di molto la carriera. Nata a Parma nel 1928 iniziò lì a interessarsi di teatro. A scoprirla fu Anton Giulio Bragaglia che ne farà la protagonista nel 1946 di "Anna Christie" di Eugene O'Neill. 

Poco dopo la troviamo al cinema, nel 1950 in "Vita da cani" di Steno e Monicelli e nel più drammatico "Lebbra bianca" di Enzo Trapani. Alla fine degli anni 50, si divide tra teatro, prima con Federico Zardi, "Emma", poi con Giorgio Strehler, "Il servitore di due padroni", TV nei grandi sceneggiati dei primi anni della RAI, e cinema, dove appare in film forti e popolari, come "Le fatiche di Ercole" di Pietro Francisci  "La legge" di Jules Dassin, "Gli amori di Ercole" di Carlo Ludovico Bragaglia  "I Delfini" di Francesco Maselli. 

Ma ne "La guerra di Troia" di Giorgio Ferroni con Steve Reeves come Enea ha il ruolo più drammatico, quello di Cassandra, mentre Paride è interpretato da un'altra star della tv, Warner Bentivegna.  

Per tutti gli anni 60 al cinema la troviamo divisa fra film di forte presa realistica, "Un uomo da bruciare" dei Taviani, "Il peccato" di Jorge Grau, horror come "I tre volti della paura" di Mario Bava, dove la sua teatralità può funzionare di più, avventurosi come "Morgan il pirata" di Primo Zeglio e addirittura western come "Faccia a faccia" di Sergio Sollima, dove incontra Gian Maria Volonte', col quale aveva recitato in tv nella celebre "Vita di Michelangelo", perfino un erotico, "Love Birds" di Mario Caiano.

Ma negli anni 70 è già un'attrice di un'altra epoca, chiamata per il curioso "La padrina" di Giuseppe Vari da protagonista, ma poco adatta al cinema del tempo. Saranno rare le sue apparizioni negli anni successivi, "Una lepre dalla faccia di bambina" in tv nel 1989, "Porte aperte" di Gianni Amelio, sempre con Volontè al cinema nel 1990, fino alla chiamata di Roberto Benigni per  La vita è bella", che sarà il ultimo film.  

·         E’ morta l’attrice Kitten Natividad.

Marco Giusti per Dagospia il 25 settembre 2022.

Il mondo del porno è in lutto. Se ne va Kitten Natividad, 74 anni, una cult-icon del cinema americano dalle tette enormi resa celebre dai film di Russ Meyer alla fine degli anni ’70, “Up!”, “Beneath the Valley of Ultra Vixens”, da apparizioni in grandi film popolari, “L’aereo più pazzo del mondo”, “Ancora 48 ore”, da decine e decine di ruoli da guest star in hard tra gli anni 80 e 90 dove si limitava a apparire come se stessa.  

Non è che Kitten Natividad abbia mai davvero recitato, ma, dopo una storia artistica e sentimentale di 15 anni con Russ Meyer, re del B-movie erotico e delle tettone alla Tura Satana, completamente ricostruita nel fisico, è diventata una star intoccabile del mondo del porno americano. Anche, proprio a causa della ricostruzione delle sue tette, dovette subire un doppio intervento al seno per un brutto cancro nel 1999.

Nata nel 1948 come Francesca Isabel Natividad a Wattichiquaqua, in Messico, città di confine attaccata a El Paso, cresce tra Messico e America in una grande famiglia allargata con tanti fratelli e sorelle. “Era una bella vita”, dirà in una celebre intervista (in “Invasion of the B-Girls” di Jewel Shepard), “ma appena compiuti i 18 anni, desiderai vivere in una grande città”. Così parte per la California dove fece da cuoca e cameriera a Stella Stevens alla fine degli anni ’60 e inizia a fare la go-go dancer in giro per i locali, pagata 17 dollari all’ora, e 100 se andava oltre le due ore. 

E’ lì che cambia il suo nome da Francesca, troppo verginale, a Kitten, per girare nei locali della California. Dopo aver girato come go-go dancer per tre anni vince per due volte nel 1970 e nel 1971 il titolo di Miss Nude Universe. Un beauty contest che le permise di fare il suo proprio numero da stripper per i locali, nuda in una grande coppa di vetro e poi di apparire nel suo primo film, “I nuovi centurioni” di Richard Fleischer, in un ruolo, ovviamente, di strip dancer. E’ allora, mentre lavora come stripper al Classic Cat, che incontra Russ Meyer, invitato da una delle sue attrici, la Shari Eubanks di “Supervixens!”. 

 Il suo numero funziona, Meyer la nota e la scrittura in un ruolo minore ma importante, il Coro Greco, il narratore, in “Up!”, 1976, con Raven De La Croix e Candy Samples, ribattezzato da noi “Le deliranti avventure erotiche dell’agente segreto Margo”. Ma è protagonista nel successivo “Beneath the Valley of Ultra-Vixens”, ultima sceneggiatura scritta dal celebre critico americano Roger Ebert, che ruota attorno a una giovane coppia, la Lavona di Kitten Natividad e il Lamar di Ken Kerr, che andrebbero perfettamente d’accordo se lui non fosse ossessionato dall’averla da dietro. 

E’ su questo set che Kitten e Russ Meyer si innamorano e lei lascia il marito, che non le concederà però per anni il divorzio. E’ la svolta per Kitten. E la nascita di un grande amore, anche se Meyer è un bel po’ più vecchio di lei e lei ancora una ragazza. “Russ fu un grande aiuto. Io non lo scorderò mai e imparai un sacco da lui. Per me sarà sempre Kitten e Russ”.  

Negli anni ’80 seguita a apparire nei locali, gira un po’ di tutto, ma sempre in piccole apparizioni di solita nuda o come se stessa in tanti hard o come strip dancer per “The Lady in Red”, “Wild Life”, “L’aereo più pazzo del mondo”, “Ancora 48 ore”. Ma decide di non girare hard. Preferisce prendere 2000 dollari a film per apparire in un hard e mettere il suo nome, ma niente sesso. Quando il primo marito le concederà il divorzio, divorzierà e si risposerà tre volte.

·         È morta la scrittrice Hilary Mantel.

Addio alla scrittrice Hilary Mantel. ANNACHIARA SACCHI  su Il Corriere della Sera il 23 settembre 2022.

Autrice di romanzi storici dal successo internazionale, aveva 70 anni. Tra i suoi titoli, «Wolf Hall», titolo d’apertura di una triade sui Tudor, e «La storia segreta della rivoluzione»

Chissà se adesso incontrerà i suoi fantasmi, Hilary Mantel. Quelli dei suoi romanzi: l’amatissimo Thomas Cromwell, Anna Bolena, Enrico VIII. E quelli della sua vicenda personale: gli spettri — diceva lei — della donna che avrebbe potuto essere, della madre che sarebbe potuta diventare se i medici non le avessero devastato il fisico, tra atroci dolori e privazioni. Gli spiriti di una vita che si è conclusa giovedì 22 settembre, «all’improvviso ma serenamente», come ha avvertito il suo editore. «Dame Hillary», due volte Booker Prize, indagatrice dei Tudor e dell’animo umano, aveva settant’anni ed era talentuosa, sagace, spesso polemica anche con il suo Paese, pungente e brillante come i suoi libri, che parlasse di sé o della storia inglese. Con lei la Gran Bretagna dice addio a un’altra regina. Della letteratura.

Scrittura sopraffina, rigore scientifico, profondità, capacità di introspezione ai limiti della crudeltà, un’ironia fuori dal comune che le è servita ad affrontare dolori personali e perdite devastanti (l’assenza del padre, la morte del patrigno): Hilary Mantel, nata a Glossop, nel Derbyshire, il 6 luglio 1952, laureata in Giurisprudenza, afflitta fin da quando aveva 19 anni da un’endometriosi che l’ha perseguitata per tutta la vita — tra incomprensioni, cure sbagliate, fino a toglierle ogni possibilità di avere figli — ha sempre detto che non sapeva se il dolore l’avesse portata a scrivere. Sicuramente l’aveva aiutata a capire gli altri. Lo dimostrano i suoi libri, saggi, racconti, i tredici romanzi (in Italia è edita da Fazi), in cui spiccano quelli storici, che non sono mai noiose biografie e nemmeno improbabili opere di finzione, ma scavano nelle anime dei personaggi facendo sbocciare testi e fonti. «Quando scrivi un romanzo storico racconti il presente, perché l’autore sa cosa è successo, il lettore pure, ma il protagonista no». Ecco, forse il segreto è questo.

È così fin dal suo primo romanzo, concluso nel 1979 (e all’inizio rifiutato): un affresco sulla Rivoluzione francese, pubblicato nel Regno Unito solo nel 1992 con il titolo A Place of Greater Safety (La storia segreta della rivoluzione, in Italia uscito nel 2014, seguito da Un posto più sicuro, del 2014, e I giorni del terrore del 2015). Di quegli anni giovanili la scrittrice — che nel 1973 aveva sposato il geologo Gerald McEwen, da cui poi ha divorziato e con cui si è risposata — diceva: «Ero povera e malata, come potevo farmi conoscere? L’unica cosa che mi veniva in mente era la scrittura, perché servono solo carta e matita e puoi lavorare sdraiato. Ma non era un ripiego, era la mia sorgente di forza».

Strada non semplice. Ancora di più se si parte con Robespierre, visto che ai tempi in Gran Bretagna il romanzo storico era considerato commerciale: «Per farmi pubblicare dovetti puntare su un romanzo contemporaneo» (era il 1985, scrisse Every Day is Mother’s Day). Ma alla fine l’ha avuta vinta lei. E non solo perché La storia segreta della rivoluzione diventò un successo. Ma perché Hilary Mantel è riuscita a restituire dignità al romanzo storico, dando forma (perfetta) e luce (abbagliante) al passato. Lo ha fatto con la celebre saga dei Tudor. Tradotta in 41 lingue e venduta in 5 milioni di copie. Thomas Cromwell, braccio destro di Enrico VIII: ecco il grande protagonista di Hilary Mantel. Il potente ministro del re più famoso e crudele, figlio di un fabbro, stella di una trilogia ambientata nel XVI secolo e iniziata col romanzo Wolf Hall (Booker nel 2009), proseguita con Anna Bolena, una questione di famiglia (Booker nel 2012) e conclusa nel 2020 con Lo specchio e la luce (dai primi due volumi la Bbc ha tratto la serie tv Wolf Hall, che ha vinto il Golden Globe 2016). Ed è come averlo davanti agli occhi: l’autrice ne segue azioni e pensieri, lo trasforma in un eroe («volevo alleggerirlo da secoli di pregiudizi»), lo illumina nel momento della disfatta, lo eleva a figura tragica ed epica. Amore, potere, ambizione, invidia. Temi senza tempo, anche se Hilary Mantel non ha mai ceduto alla tentazione di proiettare i suoi romanzi nel presente, di farne una facile lezione per l’oggi. Nemmeno con Anna Bolena ha ceduto. Il suo femminismo traspare piuttosto in un altro romanzo, Un esperimento d’amore (Fazi, 2021), storia di barriere sociali, aspirazioni e delusioni nell’Inghilterra degli anni Sessanta, che Mantel descrive con una lucidità mostruosa, feroce fino all’ultima riga. Stesso approccio per il memoir I fantasmi di una vita (Fazi, 2021): «Sono stata così massacrata dalle procedure mediche che certe volte ho la sensazione di dovermi materializzare per iscritto ogni mattina».

Caustica, tagliente. Libera. Anche quando bisognava criticare la Brexit, la monarchia («è ingiusta»; «durerà ancora poco») , la famiglia reale e la «artificiale» Kate, la cancel culture, il razzismo British, anche quando diceva di volere andare a vivere in Irlanda per tornare europea. Aveva carattere, questa grande autrice (nominata dame da Elisabetta II) che condivide il vertice della letteratura femminile inglese con Jane Austen, Virginia Woolf e A. S. Byatt. Abitava sul mare, nel Devonshire (terra di Agatha Christie), e qui, a Exeter, si è spenta. Nicholas Pearson, suo editor, ricorda: «Ci siamo visti il mese scorso in un pomeriggio assolato, abbiamo parlato del nuovo libro».

L'altra regina inglese che aveva lo scettro del romanzo storico. Morta la scrittrice dei bestseller sui Tudor: vinse il Booker due volte (unica donna). Eleonora Barbieri il 24 Settembre 2022 su Il Giornale.

È morta a 70 anni l'altro ieri per un ictus la scrittrice inglese Hilary Mantel. Era nata a Glossop, nel Derbyshire, nel 1952. Da molti anni era affetta da malattia cronica. In seguito a una grave forma di endometriosi non aveva potuto avere figli. HarperCollins, suo editore inglese, ha detto che è morta «improvvisamente ma serenamente». Cordoglio dal mondo letterario internazionale e dal suo editore italiano, Fazi.

Nelle ore che passava alla scrivania, nella sua casa in Cornovaglia, nella testa di Hilary Mantel - osiamo immaginare, come del resto faceva lei, dei suoi celeberrimi personaggi, tutti protagonisti della Grande Storia - si affollavano cortigiani, sovrani, amanti, duchi, prelati, ribelli, militari, stallieri, cuochi, cameriere. Libri, documenti, cronache, romanzi: era una lettrice «feroce», per sua stessa ammissione, fin da bambina. E così entrava nella testa imprevedibile di Camille Desmoulins, nel corpo immenso dell'avvocato Danton, nell'animo incorruttibile di Robespierre; o, ancora, nella mente machiavellica di Thomas Cromwell, nelle passioni turbolente di Enrico VIII, nel cuore di Anna Bolena, nella fede di Tommaso Moro, nello spirito poetico di Thomas Wyatt, negli intrighi dei Pole, o dell'ambasciatore di Carlo V...

Due settimane dopo Elisabetta II, se ne va un'altra regina inglese: quella del romanzo storico. Hilary Mantel è morta a 70 anni l'altro ieri, per un ictus. Famosa e amata in tutto il mondo grazie alla trilogia sui Tudor, nominata Dama da Sua Maestà, la scrittrice non era però una grande estimatrice della monarchia britannica: aveva ipotizzato che il figlio del principe William non sarebbe mai diventato re, perché i Windsor sarebbero stati detronizzati prima. Chissà. Faceva parte di un suo animo politicamente «contro» (la Brexit, la Thatcher), un contrappeso, forse, di una vita spesa nel passato grandioso della Nazione. È nei tre romanzi, di circa mille pagine ciascuno, dedicati a Thomas Cromwell, mente e braccio esecutivo dei desideri politico/nuziali di Enrico VIII, che questo passato viene portato a realtà viva, per il piacere dei suoi lettori (cinque milioni di copie e una serie della Bbc che ha vinto il Golden Globe nel 2016) che, stranamente, nel suo caso coincideva anche con quello della critica: Wolf Hall, il primo volume (pubblicato come tutti gli altri da Fazi, il suo editore italiano), uscito nel 2009, vinse il Man Booker Prize, seguito da Anna Bolena, una questione di famiglia nel 2012, un altro Booker, e un caso, poiché Hilary Mantel è stata l'unica donna a conquistare il premio due volte. Il terzo romanzo, Lo specchio e la luce, è arrivato dopo dieci anni di lavoro e la sua pubblicazione, nel 2020, è stata l'evento editoriale dell'anno in Gran Bretagna; la fine ingloriosa di Cromwell (anche se poi Enrico VIII si pentì di avergli fatto tagliare la testa) si è guadagnata però «solo» la finale del Booker. A rendere unica la sua narrazione storica era l'uso eccezionale del dialogo, oltre al fatto che il Cinquecento inglese sembrava non avere segreti per lei: vita quotidiana, strade, abiti, paramenti, titoli, case, palazzi, incarichi, diplomazia, tribunali, leggi... In effetti, quando era ancora una ragazza del Derbyshire (era nata a Glossop nel 1952) Hilary Mantel aveva proprio studiato Legge, alla London School of Economics e a Sheffield; poi era stata assistente sociale in geriatria, e si era sposata, nel 1972, con Gerald McEwan. Lui era geologo e, a parte essersi separati nell'81 e poi risposati l'anno successivo, i due hanno viaggiato molto, trascorrendo anni in Botswana (di cui vi è eco in A Change of Climate) e in Arabia Saudita (che riaffiorano in Otto mesi a Ghazzah Street), per poi tornare in Gran Bretagna a metà degli anni Ottanta.

Nel frattempo, la scrittrice Mantel è già nata: è il 1974 quando inizia La storia segreta della rivoluzione, prima parte di una trilogia sulla Rivoluzione francese che viene poi pubblicata interamente nel '92 (con Un posto più sicuro e I giorni del terrore). Vale la pena chiarire: a 22 anni, quando molti sono ancora indecisi se abbiano scelto il giusto corso di laurea, Hilary Mantel si mette ad affrontare il colosso della Storia europea, il 1789, e lo fa con un capolavoro. In seguito ha sempre raccontato di essere «ancora affascinata» dalla Rivoluzione; del resto, già nella «Nota» al primo volume diceva di aver tralasciato volutamente Marat, e che sperava di scrivere di lui «in futuro». E questo perché un Marat protagonista avrebbe rovesciato «la visione della storia» proposta nella trilogia; perché, confessava Hilary Mantel: «Durante la stesura del libro ho discusso molto con me stessa su cosa sia realmente la storia».

E dire che aveva cominciato, a dodici anni, con le previsioni del tempo, come aveva raccontato qualche anno fa a chi scrive, su queste pagine: «Ogni giorno, camminando per andare a scuola, facevo una descrizione delle condizioni meteorologiche nella mia testa; la facevo e la rifacevo, fino a che mi sembrava corretta. Credo che sia stato allora che sono diventata una scrittrice, anche se non lo sapevo». Diceva, anche, che «il conflitto è ciò che guida la narrazione»: che sia una rivoluzione, una regina decapitata, una donna prigioniera a causa della sharia, una medium dalla vita terribile (come in Al di là del nero). O che siano I fantasmi di una vita, che lei stessa ha avuto il coraggio di mettere per iscritto, dalla scomparsa del padre alla morte improvvisa del patrigno al dolore fisico e ai trattamenti subiti, che le impedirono di avere figli. J.K. Rowling ha detto: «Abbiamo perso un genio». Ed è vero.

·         È morta l’attrice Louise Fletcher.

Marco Giusti per Dagospia il 24 settembre 2022.

Se ne va Louise Fletcher, 88 anni, che fu, nel ruolo della terribile, durissima Mildred Ratched di "Qualcuno volo' sul nido del cuculo" di Milos Forman, la più celebre infermiera del cinema americano, non solo premiata con un Oscar come miglior attrice nel 1976, ma talmente popolare da vedersi omaggiata recentemente da una folle serie di Ryan Murphy, che porta il suo nome, "Ratched", che ne narra la vita in una sorta di prequel piuttosto horror. 

Alta, con un fisico imponente, Louise Fletcher si impose poi in ruoli alquanto simili in film e serie TV, dall'infermiera di "L'esorcista II - L'eretico" di John Boorman a fianco di Richard Burton al guru religioso Kai Winn di provenienza bajoriana per ben tre stagioni di "Star Trek: Deep Space Nine" dal 1997 al 1999. Ma fu molto apprezzata anche da Robert Altman, che la volle in "Gang" nel 1973 e ne "I protagonisti" nel 1992 e da Kathryn Bigelow che la volle in "Blue Steel". 

Meno fortunata, nella scelta dei film, di una Kathy Bates o di una Ellen Burstyn, meno rigide di lei, si ritaglio' però un ruolo di rilievo nel cinema americano degli anni 70 e 80. Nata in Alabama, a Birmingham nel 1934, figlia di due genitori non udenti, imparò a parlare grazie alle cure di una zia. 

Dopo gli esordi nelle serie TV, arrivo' al cinema nel 1963 con il film di guerra "La veglia delle aquile" di Delbert Mann, ma è solo negli anni 70 che ebbe buoni ruoli grazie a  Robert Altman, che la diresse in "Gang" con Keith Carradine e Shelley Duvall e la inserì in "Russian Roulette" diretto dal suo montatore Lou Lombardo e da lui prodotto, che trovò la sua strada già quarantenne.  

L'Oscar del 1976 per il ruolo di Ratched in "Qualcuno volo' sul nido del cuculo" di Forman la indirizzò verso ruoli da dura. La troviamo così in "A proposito di omicidi..." di Robert Moore, "L'esorcista II" di John Boorman, "Lady in Red" di Lewis Teague prodotto da Roger Corman, "Mama Dracula" di Boris Szulzinger, "Brainstorm" di Douglas Trumbull, "Firestarter" di Mark L. Lester. 

Ebbe anche un ruolo, quella della direttrice del cimitero, poi tagliato nella prima versione del film e reinserito nella directory cut in "C'era una volta in America" di Sergio Leone. Nel 1978 aveva sposato il produttore Jerry Bick, col quale avrà due figli. Fino al 2005 non smise mai di lavorare tra piccoli film di genere e serie TV. È morta nella sua casa di Montdurasse in Francia.

·         E’ morto il tronista Manuel Vallicella.

La tragica morte di Manuel Vallicella, la depressione e il rapporto con la madre: «Era la mia regina». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 22 Settembre 2022.

Le contraddizioni del tronista di Uomini e Donne: «Non mi è mai interessato piacere alle persone». Ludovica Valli, che lo aveva conosciuto come corteggiatore nel programma: «Sono senza parole» 

Chiudeva gli occhi e sulle palpebre apparivano due parole tatuate, presentimento di ombre fosche: «game over». Si era presentato così Manuel Vallicella, all’epoca tronista di Uomini e donne, il programma di Maria De Filippi dove l’estetica sembra prevalere sulla fragilità, dove la forma sembra contare più del contenuto. Ma poi quello che passa davvero dentro la testa delle persone, la geometria emotiva dell’altro, non la conosciamo mai. È morto per sua scelta a 35 anni Manuel Vallicella, il tatuatore che aveva preso parte alla trasmissione di Canale 5 nel 2016, prima come corteggiatore di Ludovica Valli e poi come tronista, abbandonando però la ribalta televisiva dopo quell’esperienza e rifugiandosi nel suo studio pieno di aghi e pigmenti. «Non si drogava ed era sano come un pesce — ha raccontato a Fanpage, Enrico Ciriaci, amico di Manuel —. Soffriva di depressione da quando, tre anni fa, era morta sua madre ma mai avremmo pensato che si sarebbe tolto la vita. Non era il tipo di persona che esterna i suoi problemi, teneva tutto dentro».

Operaio metalmeccanico da quando aveva 15 anni, Vallicella raccontava che sarebbe potuto diventare un calciatore professionista, ma poi la sua strada era diventata un’altra. A un certo punto aveva anche incrociato la tv, Uomini e donne, pilastro del palinsesto pomeridiano di Canale 5, ogni giorno milioni di spettatori. Aveva cominciato come corteggiatore di Ludovica Valli, oggi influencer da 1,8 milioni di follower, che lo ha ricordato così: «Sono senza parole, davvero sconvolta. Non dimenticherò mai la tua timidezza e i tuoi occhi dolci. Ora puoi riposare, che la terra ti sia lieve Manuel. Rimarrai per sempre nel mio cuore. Ti mando e continuerò a mandarti, lassù, sempre, i nostri abbracci».

Da corteggiatore Manuel Vallicella era stato promosso tronista. Il video in cui si presentava al pubblico assomigliava a una seduta di autoanalisi. Sempre severo con se stesso: «Troppe volte nella mia via ho lasciato a metà per il mio carattere tante situazioni, soprattutto le persone belle. Non sono un ragazzo perfetto, per certi aspetti sono da evitare e non è facile starmi vicino». Taciturno e silenzioso: «Non parlo molto ma parlare poco non vuol dire non avere carattere; il carattere lo dimostri quando cadi e ti rialzi e a me nella vita purtroppo è successo molte volte». Più istintivo che cerebrale: «Credo in tutto quello che il mio cuore sceglie prima della mia testa». Sconfitto ma pronto a ripartire: «Nella mia vita ho più perso che trovato ma ho capito che non bisogna mai smettere di trovare». La passione per i tatuaggi («è uno sfogo») e l’ammissione forse di aver esagerato («chi è si è tatuato sul volto nasconde sempre una storia strana») fino alle contraddizioni del tronista: «Non mi è mai interessato piacere alle persone». Poi le parole sulla madre, che rilette oggi sanno di presagio: «La mia mamma è la mia regina, la mia forza e il mio punto debole».

Estratto dell'articolo di Ilaria Ravarino per il Messaggero il 22 settembre 2022.

Morto a 35 anni, lontano anni luce da quella poltrona rossa da tronista che l'aveva lanciato nel 2016, come una meteora, nel mondo dello spettacolo. Sarebbe stato un gesto volontario quello che ieri ha messo fine alla vita del veneto Manuel Achille Vallicella, tatuatore di Verona con un passato da corteggiatore prima, e tronista poi, nel programma di Maria De Filippi Uomini e Donne. 

Secondo quanto affermato ieri dall'amico dj Enrico Ciriaci, in un'intervista sul sito di gossip Biccy, Vallicella sarebbe morto «togliendosi volontariamente la vita», ma la dinamica del decesso non è ancora chiara. L'uomo, sempre secondo Ciriaci, avrebbe compiuto il gesto estremo all'interno del suo negozio di tatuaggi, il Deep Black Tatoo Studio, dove ieri il telefono squillava a vuoto. «Me lo hanno detto i nostri amici, hanno visto i soccorsi fuori dal suo negozio ha riferito Ciriaci - ma adesso girano tante voci.Ci eravamo sentiti quattro giorni fa, lo avevo chiamato per invitarlo a giocare a calcetto ma aveva rifiutato. Diceva che a 35 anni non era più in grado di giocare a calcio». 

Da tempo depresso e «inadeguato», come diceva lui stesso, all'ambiente televisivo, Vallicella aveva abbandonato il trono di Uomini e donne dopo aver corteggiato a vuoto la modella emiliana Ludovica Valli, che aveva scelto al suo posto il broker finanziario Fabio Ferrara. 

«Quando mi piace una ragazza non riesco mai ad averla aveva detto al termine della sua avventura - Ne posso avere altre duecento, ma mai quella che mi piace davvero. Ci sto male, ma non darò la soddisfazione di vedermi piangere a chi mi vuole male. Mi vivrò questa delusione da solo». Il suo viso decorato dai tatuaggi, e la sua indole sensibile, aveva tuttavia conquistato il pubblico del programma, tanto da spingere De Filippi che lui definiva «la mia seconda madre» a richiamarlo nel ruolo non di corteggiatore ma di tronista. 

L'esperienza durò poco, e si concluse con il ritiro precoce, dopo appena un paio di settimane, del ragazzo: «Ogni giorno che passa mi rende sempre più convinto: io cerco la serenità e qui vivo l'angoscia disse, appendendo il trono al chiodo la vivo come una sconfitta personale, ma per la prima volta ho deciso di fare del bene a me stesso e non agli altri».

Tornato alla vita di tutti i giorni, Manuel aveva avuto a che fare con la popolarità di ritorno solo una volta, nel 2020, vittima di body shaming sul web per qualche chilo in più accumulato negli anni: «Alcune persone non vedono l'ora di dirti Sei ingrassato, stavi meglio tempo fa scriveva - A me personalmente la cosa non tocca, anzi mi fa sorridere. A chi critica dico: migliorate la vostra vita invece di criticare quelle degli altri». (...)

Non è la prima volta che la popolarità guadagnata in tv diventa un fardello che complica anziché semplificare la vita quotidiana. È accaduto a Walter Nudo, oggi 52enne, vincitore del GFVip che nel 2019 ha abbandonato la tv perché vittima di depressione («Ho sperimentato depressione, bancarotta, non camminavo più, mi sono operato al cuore, mi sono separato. Non dormivo la notte»), ma anche a Ilaria Galassi, ex stellina di Non è la Rai che oggi, a 46 anni, dice di aver trovato lavoro da badante dopo essere stata dimenticata dalla tv. 

Sono invece rimasti a loro modo nell'ambiente, virando dalle luci della tv alle luci rosse dell'hard, sia Luca Tassinari, il nerd de La pupa e il secchione, che Nando Colelli del GF 11, seguito a ruota dalla collega Rosy Maggiulli, autodefinitasi «dipendente dal sesso». Si è reinventata influencer, infine, la tronista che rifiutò Vallicella, Ludovica Valli, oggi seguita da 1,8 milioni di follower: «Sono senza parole, sono sconvolta - ha scritto ieri su Instagram non dimenticherò mai la tua timidezza e i tuoi occhi dolci, averti conosciuto è stato un onore. Ora puoi riposare. Che la terra ti sia lieve Manuel, fai buon viaggio. Rimarrai per sempre nel mio cuore».

Da il Messaggero il 22 settembre 2022.  

Milanese, 48 anni, Costantino Vitagliano è stato il primo e il più popolare tronista di Uomini e donne, diventato un fenomeno mediatico, tra il 2003 e il 2004, in coppia con la sua pretendente Alessandra Pierelli. Dopo la condanna per bancarotta fraudolenta dell'agente Lele Mora, nel 2010, la sua carriera televisiva ha subito una battuta d'arresto: oggi Vitagliano sbarca il lunario con ospitate e inaugurazioni, ha una bambina di due anni e si dice «sereno» di aver chiuso con quel mondo. 

Conosceva Manuel Vallicella?

«No, non conoscevo la sua storia. Mi dispiace molto per quello che è successo. Ma non seguo queste cose, io col mondo dei tronisti non c'entro più.

Non sono quello di Uomini e donne». (...)

Quelli come lei?

«La tv ora è dei fluidi. I sex symbol come me non funzionano più». 

Dopo il trono cosa è successo?

«Ho capito cosa volevano da me per fare ascolti e l'ho fatto. Sapevo vendermi molto bene. Volevano che facessi il traditore seriale, l'ho fatto. Volevano che facessi quello che strapazza le donne, l'ho fatto. Guadagnavo tantissimo.  Pensavo di essere superman, che il mio corpo reggesse lo stress. Infatti il corpo l'ha retto, ma la mente no. Ho sofferto di attacchi di panico, per 10 anni non ho più avuto una vita. Lavoravo sempre, facevo tre programmi a settimana, ero dappertutto. Poi è venuto giù il castello (l'arresto di Lele Mora, ndr), e siamo venuti giù tutti». (...)

Gianni Sperti ricorda Vallicella: “Chissà se si sarebbe potuto evitare”. Alice Coppa il 21/09/2022 su Notizie.it.

Gianni Sperti si è unito al coro di dolore e cordoglio per la scomparsa dell'ex corteggiatore Manuel Vallicella. 

Anche Gianni Sperti – così come altri volti di Uomini e Donne – ha scritto un messaggio per ricordare Manuel Vallicella, l’ex tronista che si è tolto la vita a 35 anni.

Gianni Sperti: il messaggio per Manuel Vallicella

L’ex tronista ed ex corteggiatore Manuel Vallicella si è tolto la vita a 35 anni e in queste ore in molti, tra personaggi famosi e non, stanno esprimendo il loro dolore per la sua tragica storia.

Tra questi vi è anche l’opinionista del dating show Gianni Sperti, che sui social ha scritto un messaggio in suo ricordo e si è chiesto in quale modo si sarebbe potuta evitare la tragedia. 

“Tutti ti notavano per l’aspetto fisico ma poi si ricordavano di te per la tua timidezza e bontà d’animo. La domanda che mi affligge è: ‘Chissà se, parlando con te un po’ di più, avrei potuto fare qualcosa per evitare questo traffico finale’.

Ti voglio bene”, ha scritto Sperti.

Come lui anche Raffaella Mennoia, fidata collaboratrice di Maria De Filippi, ha scritto sui social un messaggio in ricordo del tatuatore. A lei si è aggiunta anche Ludovica Valli, che è stata corteggiata proprio da Vallicella durante la sua partecipazione al dating show: “Sono senza parole, davvero, sono sconvolta” ha scritto, e ancora: “Non dimenticherò mai la tua timidezza e i tuoi occhi dolci. Averti conosciuto è stato un onore.

Ora puoi riposare, che la terra ti sia lieve Manuel. Fai buon viaggio”.

·         E’ morto l’attore Henry Silva.

Marco Giusti per Dagospia il 17 settembre 2022.

Con quella faccia, quasi un teschio, con gli zigomi sporgenti e l’aria beffarda, non poteva che fare il cattivo, il killer, l’assassino, meglio se italo-americano, messicano o italiano. Il suo ruolo più “femminile” fu quello di “Mother”, il terribile pusher di “Un cappello pieno di pioggia” di Fred Zinneman che gli aprì per sempre le porte del cinema. I tossici lo adorarono. Ma se a Hollywood era destinato a fare il cattivo a vita, in Italia ebbe anche ruolo da eroe, da protagonista, non diciamo buono, ma positivo nella stagione dei poliziotteschi di Fernando Di Leo e Umberto Lenzi. 

Se ne va l’ultimo dei grandi duri di Hollywood, Henry Silva, quasi 96 anni, una carriera cinematografica spesa tra Los Angeles e Roma a spaventare donne e bambini indifesi, a vedersela con terribili gangster che doveva eliminare come da contratto. Nato a Brooklyn, New York, nel 1926, da madre spagnola o forse portoricana e padre siciliano che se ne andò di casa quando aveva un anno, imparò solo a otto anni a parlare inglese, e fece un po’ di tutto, prima di capire, intorno ai tredici anni, che voleva fare l’attore.

“Sono cresciuto a New York nella Harlem ispanica”, racconta in un’intervista del 1963, dove lui stesso dice di essere portoricano e non spagnolo, “La violenza era la password della giornata. Ma c’erano anche musica e risate. Sono convinto che c’era molto violenza anche a Park Avenue, ma la chiamano in un altro modo”. Vince un concorso da attore all’Actor’s. E Elia Kazan lo porta subito sul set di “Viva Zapata”, 1952, più credibile come novello rivoluzionario messicano del truccatissimo protagonista, Marlon Brando.

Ma a capirlo ancora meglio è Budd Boetticher che gli affida subito il ruolo assieme a Richard Boone di uno dei cattivi che Randolph Scott deve eliminare nel fondamentale “I tre banditi”, 1956. Una faccia simile l’aveva solo Jack Palance. Come “Mother”, il pusher bastardo di “Un cappello pieno di pioggia” di Fred Zinnemann con Frank Sinatra, ruolo che aveva interpretato anche a Broadway alla perfezione, si rivela al mondo di Hollywood come un nuovo cattivo di sicura presa popolare. Interpreta western, grandi come “Sfida nella città morta” di John Sturges e “Bravados” di Henry King, e piccoli come “Il sentiero della rapina” di jesse Hibbs e “I ribelli del Kansas” di Melvin Frank, compare in “Verdi dimore” di Mel Ferrer. 

Entra nel giro del Rat Pack di Sinatra-Lawford-David-Bishop con “Colpo grosso”, cioè l'originale “Ocean’s Eleven” di Lewis Milestone, dove interpreta il gangster Roger Corneal. Sembra nato per fare il gangster italo-americano. Nel 2001 farà una comparsata anche nel remake di Steven Soderbergh. Frank Tashlin, regista, e Jerry Lewis, protagonista, lo vogliono come fratello antipatico di Jerry nel capolavoro “Il cenerentolo”, dove ha alcune delle scene più divertenti del film, che lo vedono subire qualsiasi cosa da un impacciato Jerry. Anche se non ha interpretato molti ruoli comici.

Qui Henry Silva è perfetto, degno erede degli attori come Billy Gilbert che devono subire dai comici, come Stan Laurel, il maestro di Jerry Lewis. Lo ritroviamo anche in “Tre contro tutti” western comico di John Sturges col Rat Pack. Torna a fare il duro, in “Va’ e uccidi”, 1962, di John Frankenheimer, o come il terribile killer italiano protagonista, Salvatore Giordano detto Johnny Cool, in “Johnny Cool, messaggero di morte” di William Asher, 1963. 

E’ uno dei tanti attori americani che Sergio Leone cerca come protagonista del suo primo western, “Per un pugno di dollari”. Ma costa troppo. Intanto gira in Jugoslavia una sorta di pre-Sporca dozzina diretto da Roger Corman, “Cinque per la gloria” con Stewart Granger, Raf Vallone, Edd Byrnes e in Messico “La taglia” di Serge Bourguignon con Max Von Sydow, in Francia “Da New York la mafia uccide” di Raoul Levy, il produttore amico di Godard. Ha il ruolo di un capo pellerossa nel modesto “I dominatori della prateria” di David Lowell Rich.

Così, quando arriva l’offerta di Dino De Laurentiis di girare un paio di film in Italia, stavolta accetta. Lo troviamo come cattivo, Garcia Mendez, nel curioso primo western di Carlo Lizzani “Un fiume di dollari”, poi come antagonista di Patrick O’Neal nello stravaganza eurospy “Matchless” di Alberto Lattuada. Presto viene assorbito dalle produzioni minori e lo troviamo in film come “Assassination” di Emilio P. Miraglia, dove ha un doppio ruolo, “Quella carogna dell’ispettore Sterling”, nel bellico “Probabilità zero” di Maurizio Lucidi, scritto da Dario Argento. 

Le offerte di Hollywood non sono però migliori, visto il ruolo di cattivo di secondo piano in un filmetto come “L’incredibile furto di Mister Girasole” di Jerry Paris con Dick Van Dyke e Edward G. Robinson. Meglio fare il protagonista in Italia o in Francia. Incontra Fernando Di Leo nel ruolo del killer bianco in coppia col killer nero Woody Strode in “La mala ordine”, 1972, in una scena che verrà ripresa direttamente da Tarantino in “Pulp Fiction” con la coppia John Travolta-Samuel L. Jackson.

Poi lo ritroveremo ne “Il boss”, sempre di Di Leo, ne “Il re della mala” di Jurgen Roland, “Quelli che contano” di Andrea Bianchi, nel francese “L’insolent” di Jean-Claude Roy. Umberto Lenzi lo chiama per poliziotteschi come “Milano odia: la polizia non può sparare”, “L’uomo della strada fa giustizia”, “Il trucido e lo sbirro”. Torna a Los Angeles alla fine degli anni ’70, dove gira anche qualche buon film, “Tiro incrociato” di Stuart Rosenberg, “Alligator” di Lewis Teague, “Pelle di sbirro” di e con Burt Reynolds, ma non resiste al richiamo degli italiani e dei francesi. Al punto che girerà ancora con Di Leo, “Razza violenta” e “Killer contro killers", o con Jacques Deray, “Le marginal”.

Ma accetterà un po’ di tutto alla fine degli anni ’90. Film di Wim Wenders, “Crimini invisibili”, e film di Ezio Greggio, “Il silenzio dei prosciutti", fino a chiudere la carriera con due bellissimi film, “Ghost Dog” di Jim Jarmusch e “Ocean’s Eleven” di Steven Soderbergh. 

Quando l’ho intervistato a Los Angeles, non aveva nessuna nostalgia per il cinema e quello che aveva vissuto. Aveva fatto una bella vita, in fondo la carriera che pensava di fare. Era tra i pochi che non avevano buttato soldi inutilmente e si manteneva ancora molto in forma. Ricordava come amici italiano sia Fernando Di Leo che Umberto Lenzi, il regista che urlava sempre. Ma era stato un gran professionista, in America come in Italia. Grande faccia da cinema.

·         È morto il playboy Beppe Piroddi.

Dagospia il 17 settembre 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Gigi Moncalvo

È morto ieri a Genova a 82 anni, Beppe Piroddi (Number One, Caffè Roma, ecc.,) l'ultimo dei 4 moschiettieri (Gigi Rizzi, Rapetti, Parisi) che tennero alto il pennone della bandiera italiana (e non solo) a Saint Tropez e sulla Costa Azzurra mentre dilagava la contestazione.

Beppe Piroddi, addio all’amateur gentiluomo: «Ho fatto tutto sempre per amore». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.

Con l’amico Gigi Rizzi fu uno dei protagonisti della nostra Dolce Vita. Frequentò Brigitte Bardot, Aristotele Onassis, Jane Fonda e Marlon Brando 

Foto del 1968, da sinistra: Rodolfo Parisi, Franco Rapetti, Beppe Piroddi e Gigi Rizzi. Il quartetto imperversava nelle notti in Costa Azzurra tra gli anni 60 e 70

Il termine «playboy» non gli piaceva. Beppe Piroddi, morto venerdì scorso a 82 anni, diceva che, tradotto alla lettera, stava per «ragazzo che gioca» e, quindi, poco serio. Lui aveva scelto per sé la parola «amateur», intesa come «colui che ama». Fra gli anni 60 e 80, lo s’incontrava a cena con Aristotele Onassis o Adnan Kashoggi, con Alain Delon o Marlon Brando e con donne bellissime, Jane Fonda, Maria Schneider...

Una sera, a Saint Tropez, il miliardario Gunter Sachs, torvo perché era appena stato piantato da Brigitte Bardot, gli chiese: ma tu perché hai così successo con le donne? E lui: perché le tratto molto bene. Al che, Sachs, sprezzante, sibilò: ma se non tiri mai fuori un soldo. E Piroddi: appunto! Questo scambio di battute è nell’ Amateur, l’autobiografia curata da Gigi Moncalvo ed edita da Mursia nel 2007, e dà il senso di innumerevoli passioni, avventure o relazioni clandestine i cui nomi e cognomi Beppe porta nella tomba, da gentiluomo, citando solo le donne che furono sue fidanzate ufficiali, come le attrici Odile Rodin e Jacqueline Bisset.

Era nato a Genova nel 1940, figlio del medico che inventò la dieta Mediterranea. La sua villa era vicina a quella di Gigi Rizzi, il tipo che soffiò B.B. a Gunter Sachs. Beppe e Gigi erano il primo nucleo dei cosiddetti «quattro moschettieri», o «quattro dell’apocalisse», ragazzi irresistibili che inclusero Franco Rapetti e Rodolfo Parisi. In principio, al volante di una Citroen DS nelle località di vacanza liguri, Beppe conquistava le turiste e le mogli in villeggiatura desiderose di distrazioni. Zazzera nera, occhi penetranti, lineamenti perfetti, modi eleganti, presto sarebbe passato alle gite in motoscafo in Costa Smeralda con Ira von Furstenberg, alle cene al san Lorenzo di Londra con Roman Polanski e George Harrison, alle sbronze alla Mandrague di Brigitte Bardot. Girava con la Bentley bianca ottenuta in cambio di una comune Lancia dall’attore Jean Quarrier, affascinato dal fatto che l’auto italiana avesse la guida a sinistra. Le foto di una vita lo ritraggono via via accanto a Omar Sharif, ai giovani Luca di Montezemolo o Gianmarco Moratti, a Christina Onassis, a Marina Doria, a Claudia Schiffer. Conosceva tutti e tutti conoscevano lui. Comprò il motoscafo da Susanna Agnelli. Fece un viaggio in camper in California con Vittorio Emanuele di Savoia e, rimasti in panne, fu il mancato re a riparare il cambio. Presentò lui Stefano Casiraghi a Caroline di Monaco.

Ha fondato locali notturni che hanno fatto epoca, a Milano, il Number One e poi il Caffè Roma, replicati poi a Londra e in altre capitali della mondanità. Urbano Cairo, oggi editore di Rcs e del Corriere, se lo ricorda a fine anni 80 al Caffè Roma di Milano: «Lavoravo dalle nove del mattino a mezzanotte, poi facevo una capatina lì. Era simpatico e aveva un tratto romantico. Diceva: ho fatto tutto mai per gioco, ma sempre per amore. E non l’ho mai sentito vantarsi delle sue conquiste». Quando un mafioso gli chiese il pizzo, Piroddi convocò Alain Delon per chiedergli consiglio: il divo si faceva vanto di una certa competenza, in virtù dei film interpretati. Alain sentenziò: non devi pagare. Spiegò come e dove comprare una pistola. Gli consigliò di invitare il mafioso in ufficio per contattare il prezzo. Spiegò che, udendo la cifra, doveva tirare fuori l’arma e pam pam pam, scaricarla per terra. Assicurò che i cattivi non sarebbero più tornati. Bepé preferì rivolgersi alla polizia e fece arrestare i malviventi.

L’accesso decisivo al bel mondo si deve a una donna, Odile Rodin, moglie dell’ambasciatore Porfirio Rubirosa , che aveva avuto storie con Zsa Zsa Gabor, Joan Crawford, Jane Mansfield, Marilyn Monroe, Evita Perón. S’incontrarono nel ’63 al Chatham, il night più «in» di Torino. Odile gli sembrò ancora più bella di come appariva nelle cronache mondane. Rubirosa era ubriaco e non si accorse di quanto accadeva sotto i suoi occhi. Odile ribattezzò Beppe alla francese: Be-pé, e così l’avrebbe sempre chiamato negli anni in cui si amarono. Ballarono un twist, un hully gully, un lento, poi, lei gli disse: vado a New York senza Ruby. Vieni? Furono tre giorni indimenticabili. Uno dei tre lei sparì, poi, gli confessò d’aver raggiunto in segreto il presidente John Kennedy. Si lasciarono. Si ritrovarono nel ’67, quando ormai Rubirosa si era schiantato in Ferrari, ubriaco, lasciando Odile vedova con un castello a Marnes-La-Coquette, vicino a Parigi, dove Bepé avrebbe ricevuto da Paul Getty a Jackie Kennedy. Nel’68, il settimanale Newsweek scelse la foto di Bepé e Odile travestiti da Antonio e Cleopatra per illustrare una festa in maschera dei Rothschild, incoronandoli come i più ammirati.

Poi, lei, stufa dei suoi tradimenti lo lasciò per Warren Beatty. Mentre Jacqueline Bisset, altro suo grande amore, stufa per lo stesso motivo, se ne andrà con un ex di Brigitte Bardot. Piroddi incontrò, alla fine, Kirsten Gille, modella, provetta amazzone, figlia di un ambasciatore Onu, capace di scenate di gelosia di cui parlava tutto il jet set e con la quale divise trent’anni d’amore. Con lui se ne va un protagonista della nostra Dolce Vita.

Piroddi, l’ultimo dei «les italiens»: l’amatore che si fece imprenditore. Giangiacomo Schiavi  su Il Corriere della Sera il 21 Settembre 2022.  

Dalle goliardate a Genova con Paolo Villaggio e Francesco De André, alle notti in Costa Azzurra con Gigi Rizzi e Brigitte Bardot. Poi l’apertura dei caffé in giro per il mondo e la carriera nella finanza

Se n’è andato con un’ombra di leggenda alle spalle, triste solitario y final. Beppe Piroddi, l’amateur, ombroso e tenebroso, l’ultimo della serie che dalla Croisette a Saint Tropez, nelle spiagge e nei nigth, aveva come sottotitolo «les italiens». Con Gigi Rizzi, the king nella mitologia playboiesca, si era tuffato nel miracoloso e stretto pertugio dell’avventura aperto fra gli anni Cinquanta e Settanta, lasciandosi dietro i carrugi di Genova e le goliardate con Paolo Villaggio e Fabrizio de Andrè. Passeggiava a Parigi cambiando ragazza ogni notte fino a quando con Odile Rodin mise un punto fermo alle zingarate: aveva conquistato la donna del grande Porfirio Rubirosa. Finisce con lui l’epoca disinvolta e beata che Newsweek portò in copertina nel 1968, insieme al pugno mondiale di Benvenuti e al gol di Riva nell’Italia europea, quando la storia di due giovanotti di provincia spiazzò la cronaca mondana dell’estate: Gigi Rizzi ballava a piedi nudi e sussurrava parole d’amore a Brigitte Bardot; Beppe Piroddi sorseggiava Chateau Lafitte e gestiva l’Esquinade, la boite preferita da Gianni Agnelli, tappa finale delle notti tropeziane.

Fu un altro ‘68, come ha scritto Massimo Fini, senza molotov e senza barricate, ma con il tricolore che sventolava sulla Mandrague: Gigi Rizzi aveva stregato la più bella, la più affascinante, la più attraente sex simbol del tempo e si faceva fotografare con lei, Piroddi e Odile nel carnaio buio del Papagayo, una cantina trasformata in club, il club des allongès, tutti distesi, camicia aperta, occhi stralunati e bandana da pirata. Diventarono «les italiens» in quell’anno, insieme a Franco Rapetti, Rodolfo Parisi e Gianfranco Piacentini, un pacchetto di mischia imbattibile nelle conquiste in una Costa Azzurra sfrontatamente permissiva, dove la nouvelle vague accettava la contaminazione con le notti brave dei playboy, tra avventurieri, miliardari, paparazzi, bellezze al bagno, drogati e pervertiti. Rizzi e Piroddi cicaleggiavano in tandem allora, passando da Fyona Lewis a Nathalie Delon il primo, da Jaqueline Bisset a Odile Rodin, il secondo. Rizzi farfallegiava e Piroddi dall’Esquinade preparava il suo futuro, di seduttore-imprenditore. Poi arrivò BB, con la sua rovente femminilità che annichiliva tutti, ha ricordato con parole sapienti Giampiero Mughini: sganciò Ghunter Sachs von Opel, il marito che faceva piovere rose rosse dall’elicottero per dire «ti amo» e abbracciò Gigi Rizzi, il ragazzo di provincia che Saint Tropez aveva incoronato come amante seriale bello e sfrontato, cresciuto nelle notti milanesi allo Stork e al Bang Bang e prima ancora al Carillon di Portofino. «Gigi ha la fama di tipo che può beccare qualsiasi donna, dalle principesse a quelle di strada», dirà a Gigi Moncalvo il gioielleiere Pederzani, noto bonvivant di via Montenapoleone.

Non era normalità quella dei ragazzi di vita italiani a Saint Tropez. I risvegli erano drammatici, dopo le notti brave, sesso, coca e alcol da smaltire. La Francia disinibita era terra di conquista. Ma con il flirt tra Gigi Rizzi e Brigitte Bardot, il botto di les italiens fu mondiale. Dalla Mandrague BB mandò l’autista con la Rolls Royce a ritirare le valigie e gli abiti di ricambio di Gigi, che Dalila chiamava «l’amoroso» e Olgina di Robilant aveva definito «bello e possibile». Il giorno dopo Nice Matin titolava: «Nuovo amore per la Bardot». I fotografi italiani impazzirono. I settimanali rosa anche. Gianni Agnelli farà personalmente i complimenti al playboy rampante e saluterà BB con la sirena della barca di famiglia, il GA30 in un memorabile incontro in mare. Nel libro Initiales BB, è lei stessa a ricordarlo. Rizzi e Piroddi diventano un marchio, l’italian style che sbanca sulla Croisette. Salta ogni fusibile della normalità. Sarà l’ultima fiammata del’68, prima delle piazze e dei cortei. «Ogni Zenith contiene in sé un crepuscolo», ha scritto Massimo Fini. Dopo la Bardot che altro? La favola di Rizzi finisce al bancone del Gorille, in compagnia di Roger Vadim che sorseggia Bourbon con due uova al burro e consola l’amico: BB è in cerca di nuove emozioni. Le valigie dell’amante italiano sono fuori dal cancello della Madrague, mentre Piroddi la immaginava già madrina all’inaugurazioine del Number One, in ottobre, a Milano.

La Bardot è solo una ex quando Rizzi si butta via nelle notti romane, con Califano e gli amici Speziali, Pantanella, Beppe Ercole e Dado Ruspoli, con nuove amanti (Veruska) e i sogni da attore. Poi fugge in Argentina dopo lo scandalo del Number One, con l’arresto-spettacolo di Walter Chiari e Lelio Luttazzi (che non c’entra). Ma fino alla fine si porta dietro il fantasma dell’extraterreste e del suo zoo tropezienne. Degli altri italiens, Rapetti, bellissimo, gran pokerista, esperto d’arte, precipita da un grattacielo di New York dopo una love story con la baronessa Von Thissen: debiti di gioco, dicono. Parisi muore a Londra, ucciso dallo specchietto di un bus mentre attraversa la strada guardando dalla parte sbagliata. Piroddi è l’unico che resta sulla breccia, lui non spreca e non si butta via: fa dell’amateur la base per l’avventura nell’imprenditoria e nella finanza. Inaugura i caffè Roma, sbarca a Montecarlo e New York, collabora con Raul Gardini e Sergio Cusani, stabilisce relazioni d’affari con mezzo mondo. Lo ha raccontato Candida Morvillo sul Corriere di ieri. A Saint Tropez, dove tutto è cominciato, abitava con Gigi Rizzi in un appartamentino in Place des liyces. Abitava per modo di dire. Si accasava quasi sempre altrove. Amanti ovunque. E il New Jimmis’s a Parigi. E le avventure con Regine Zilberger, maitresse d’alto bordo. E i casinò. E Annabel’s a Londra. E il Trump’s di Johnny Gold. E le serate con Polansky e Cintya Lennon. E Marina Cicogna e Peter Sellers. E i raid a Montecarlo, dove Gigi perde una fortuna e Beppe guarda.

Amici, ma diversi Piroddi e Rizzi. Uno gioca con la vita, l’altro è un brasseur d’affaires, a cavallo del jet set e della mondanità. «Ci univa l’incoscienza e la vitalità— ricorderà Gigi Rizzi — ma io ero un sognatore, lui un po’ meno». Arriva un momento in cui l’età ti condiziona, diceva Olghina di Robilant, che di Gigi fu amica sincera e forse amante, e che su Dagospia ha scritto che «nel minestrone della capitale dolcevitiera quel giovanotto non tradì mai la distinzione e il garbo del vero gentiluomo». Poi, anche per gli ex playboy arriva un momento della vita «in cui hai voglia di passeggiare solo con il tuo cane guardando un bel tramonto e borbottare scemenze e considerazioni». Gianfranco Piacentini è finito così: un uomo tranquillo, a letto la sera alle nove, dopo una giornata di lavoro al Maurizio Costanzo Show. Beppe Piroddi, senza più Rizzi, Rapetti e Parisi, era rimasto l’ultimo di les italiens. Lentamente ha abbassato la clear. Si è chiuso in un mondo dove era rimasto solo lui. Malinconico, come ogni tramonto. L’ho incontrato più volte, per incastrare certi ricordi, quando Gigi Rizzi aveva sdoganato i suoi per una copertina di Sette («Che notte quella notte con BB»). Beppe aveva il libro nel cassetto, «l’amateur» appunto. Seduto al ristorante, a Genova e a Santa Margherita, guardava il mare: ma non aveva sogni. Si sentiva un sopravvissuto. L’ultimo della serie.

Da La Stampa il 17 settembre 2022.

Ah, Silvio… Lo incrociavo spesso al Torre di Pisa, il ristorante in Brera dove andavamo a cenare in quegli anni: noi circondati da ragazze splendide, lui seduto al tavolo con amici e collaboratori, sempre ingrigiti, sempre a parlar d’affari e a squadrarci con invidia. Una sera mi ferma e mi offre un caffè. E mi dice: “Sai, anch’io voglio avere donne in quantità industriale e quindi ho deciso: farò la televisione commerciale. Il futuro appartiene a me”. Lo so, può sembrare una tesi strana, ma sono fermamente convinto che lui, affamato di successo, abbia fatto quello che ha fatto solo per questo motivo». Tesi originale, certo, ma forse neanche tanto, vista l’indole e la caratura dei personaggi in gioco.

Era la metà degli Anni Settanta e mentre Berlusconi fantasticava lo sbarco nell’etere, Beppe Piroddi brillava come una stella all’apogeo della sua carriera mondana: un principe della bella vita, un ricco «sciupafemmine» capace di conquistare le donne più desiderate del pianeta. 

Ovvero, il numero uno degli «amateur», che è concetto molto più profondo del semplice «playboy»: «Il playboy è uno che “gioca”, che colleziona, che fa parlare il cuore ma anche la testa», spiega lui, in un ristorante sul lungomare di Genova. «L’amateur, invece, insegue solo il piacere: vuole assaporare fino in fondo le sensazioni, abbandona il campo quando questo non avviene più. Questione di divertimento: ecco la bussola che ha governato la mia vita». 

«Meglio Romina Power»

Una giostra di incontri ed emozioni. Beppe Piroddi si è fatto aiutare dall’amico giornalista Gigi Moncalvo e c’ha riempito un libro: «Amateur», Mursia edizioni, quattrocento pagine di feste, donne fatali, stelle del cinema, vacanze a Saint-Tropez e spedizioni passionali a New York e a Londra. Senza dimenticare, ovviamente, i locali da lui stesso fondati: i Number One e i Caffè Roma aperti a Milano, Roma e in America, tra le «mecche» della vita notturna di quegli anni. Da dove iniziare?

Classe 1940, nato a Genova e di buona famiglia, Piroddi è figlio del medico che inventò la dieta mediterranea. Cresce con le spalle coperte tra la Liguria e il Lago Maggiore. E’ un bel ragazzo, ha charme. E ci sa fare così tanto con l’altro sesso che a vent’anni diventa l’uomo-oggetto delle signore più in vista della società genovese. Poi il grande salto, nel 1963, quando al night Chatham di Torino conquista l’attrice francese Odile Rodin, splendida moglie del diplomatico (nonché mitico playboy) Porfirio Rubirosa. 

Sarà lei a lanciarlo nell’empireo del jet set internazionale. «Né romanticismo svenevole né tornaconto economico: con le donne ho sempre seguito la chimica», dice, cercando di spiegare i segreti di un’infinita serie di attrazioni fatali. «Ho usato la mia peculiarità: avvertivo subito se una ragazza mi accendeva e, soprattutto, se lei era attratta da me». 

Esemplare la storia con Jacqueline Bisset: «Mi colpì subito, dolce come le francesi e imprevedibile come le inglesi. Siamo stati insieme nel ’66. Ricordo che una sera, a una cena, io mi misi a parlare con una bionda meravigliosa seduta di fianco a me e quando mi girai lei non c’era più, sparita con un ricco dentista francese. L’aspettai fino alle dieci di mattina. Lei mi vide nella hall dell’albergo, si avvicinò e mi disse con aria beffarda: “Non voglio e non do spiegazioni. E ora: andiamo a fare colazione?”». 

«A pranzo con la Kennedy»

Beppe Piroddi non aveva ancora trent’anni ed era già un mito: «Ero ricco, bello e pieno di donne: se gli dei mi avessero voluto davvero bene, mi avrebbero preso lì, in quei momenti», sorride adesso, davanti a un piatto di rucola e bresaola imposto dalla dieta.

Nella Saint-Tropez degli Anni Sessanta «Bepi» entra nel giro di Brigitte Bardot, poi intreccia una relazione con l’esplosiva Kirsten Gille.

«Non vorrei sembrare irriguardoso», confessa, «ma io alla Bardot preferivo Romina Power: sì, proprio la futura moglie di Al Bano. La vidi al Palm Beach di Cannes: era giovanissima e deliziosa, ma avevo dato parola a Linda Christian (la madre) che non l’avrei corteggiata. E così feci, anche se con molta fatica». Formidabili quegli anni. Feste scatenate, sventole e... cocaina. «Nulla di sconvolgente: anche allora ne girava parecchia. Io l’ho provata, più volte, poi basta. Perché la coca è una vera truffa: esci con una donna di quarta e ti sembra di uscire con uno schianto di donna, hai la sensazione di dire cose intelligentissime e dici solo una montagna di cazzate». 

Ma non ci sono solo donne, negli anni d’oro di Piroddi. «Alain Delon prendeva in prestito le personalità dei suoi personaggi, mentre sono rimasto molto deluso da Marlon Brando: fragile, quasi infantile. Ricordo l’avvocato Agnelli, grande giocatore di carte: una sera Gigi Rizzi voleva spillargli un po’ di soldi, si ritrovò a staccare un assegno di tremila dollari. Ma tra gli uomini che mi colpirono di più c’è Onassis: brusco, rozzo, però dotato di un’energia animale incredibile.

Lo conobbi a una colazione nel castello di Odile, a Parigi. Eravamo in sei, erano invitati anche Paul Getty e Jackie Kennedy. Lei non disse una parola. Era fredda, si limitava a osservare. Disse solo che il formaggio era meraviglioso». Altri tempi, veramente. E adesso, amateur Piroddi? «Se prima guardavo le donne con le lenti della libido», conclude lui, «ora le osservo con quelle della saggezza».

Danilo Endrici, l’ultimo dei playboy: «Così nacquero gli Italiens. Flirtavo con Nadia Cassini». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 23 Settembre 2022.  

Il 78enne, il leggendario gruppetto di amateur con Gigi Rizzi, Franco Rapetti, Rodolfo Parisi e Beppe Piroddi, e le estati in Costa Azzurra: «Iniziò tutto a Bologna»

Danilo Endrici, l’ultimo degli italiens — quel leggendario gruppetto di playboy, anzi di amateurs, che tra gli anni Sessanta e Settanta furoreggiava nelle notti della Costa Azzurra— oggi è un saggio ed elegante signore di 78 anni, pazzo per il jazz, che vive a Trento, dove è nato e dove conduce un’attività imprenditoriale che lo porta in giro per tutta Europa. «Produciamo e vendiamo schermi per il cinema e negli anni Ottanta fui il primo a importare i videoproiettori. Poi arrivarono giapponesi e cinesi e compresi che dovevo cambiare settore. Però feci a tempo a vendere bene la mia società». Danilo è stato amico inseparabile di Franco Rapetti — «lo chiamavano “capriccio per signora”: era il più bello di tutti noi..» — e Rodolfo Parisi «al quale ero legatissimo».

Di Gigi Rizzi ricorda che «mi è morto praticamente tra le braccia. Era tornato dall’Argentina ed eravamo tutti a tavola, in tanti. All’improvviso qualcuno urla: Gigi è caduto! Invece era sulle scale ormai senza respiro, strozzato da un boccone di carne. Nessuno di noi fu in grado di salvarlo... povero Gigi. Era il più simpatico del gruppo, il più charmant: tanto che fu lui ad essere corteggiato da quella donna favolosa che era Brigitte Bardot, e non il contrario». E Beppe Piroddi, morto venerdì a 82 anni? «Da tempo ci sentivamo meno, una o due volte all’anno, lui a Genova, io a Trento, la vita è un po’ così». Dalla città sull’Adige a Saint Tropez è un attimo: attorno ai vent’anni, Danilo, diplomato al classico, una mattina saluta la madre dicendole «che mi sarei messo a girare l’Europa. Lei annuì e basta. Mio padre era morto dieci anni prima. Aveva un’azienda vinicola che fu rilevata dai suoi fratelli. Mi arrivò così una discreta eredità. Quei soldi mi durarono sino a trent’anni. Dissipati? Direi proprio di no, è stata una grande vita. E poi tutto quello che ho vissuto è ritornato in rapporti, relazioni, facilità di mettere a frutto idee e imprese».

Le cronache di quegli anni formidabili gli affibbiano una sfilza di flirt lunga così: un’allora sconosciuta Barbara Bouchet, l’affascinante attrice Marilù Tolo, Nadia Cassini «che «allora era il top: quando si seppe in giro della mia storia mi chiamò schiumando invidia anche Franco Califano». Diventare uno dei cinque invidiatissimi italiens è un po’ frutto del caso: «Eravamo bellocci, di modi eleganti, parlavamo tutti le lingue. Francese e inglese li ho appresi bene e facilmente a scuola, lo stesso per il tedesco seconda lingua dalle mie parti». Proprio il tedesco lo avvicina inizialmente a Rodolfo (Parisi, ndr) «la cui famiglia aveva una ditta di spedizioni a Trieste, ci incrociammo a Bologna, a qualche festa: fu simbiosi». Poi si «aggregò Franco (Rapetti, ndr) i cui genitori avevano delle terre da quelle parti» e in seguito arrivò Gigi (Rizzi, ndr) che era di Piacenza». Nelle «puntate» in Riviera fu «inevitabile incontrare Beppe» e infine si inserì Piacentini «che però operava su Roma, a contatto con attori e attrici di mezza Hollywood». Eccoli qui, gli italiens: fare gruppo fu «una cosa naturale: ognuno di aveva caratteristiche diverse ma assieme stavamo bene». Il collante erano le donne, «una passione ossessiva, forse esagerata».

Il segreto di questi seduttori da leggenda? «Eravamo belli, sportivi, senza tatuaggi, veri direi». I soldi contavano? «El bel de Trent» — così lo chiamano ancora — ridacchia: «A me le donne son sempre costate molto... Anche a Rodolfo, ma lui poteva spendere. Per Rapetti era diverso: veniva prima il gioco e poi la donna: se vinceva a carte poteva fare ogni follia. Piacentini? Altro genere: non spendeva mai una lira in nessun posto... ci sapeva dare da buon romano. Lui organizzava le cene, andava al ristorante e poi andava via d’improvviso. Quante volte lo ha fatto... Chi pagava il conto? Mah. Roma allora era questo». E Rizzi? «Gigi si divertiva ed era uno sportivo: si arrangiava bene. Quando capì che per lui tirava una brutta aria, con tutte quelle storie di droga attorno al suo locale, il Number One di Milano, si eclissò in Argentina».

Due di questi playboy sono morti neanche quarantenni, «come se il destino avesse presentato loro un conto salato per una vita corsa all’impazzata. Ho comunque tanti dubbi su come finì Franco, caduto dall’undicesimo piano di un grattacielo a New York: la polizia archiviò tutto parlando di suicidio. Ma lui non aveva alcun motivo per uccidersi, era sereno, non faceva uso di droghe. Si era messo a commerciare nell’arte, ma ad alto livello. La moglie di Heini Thyssen, l’erede della famiglia tedesca dell’acciaio, perse la testa per lui. Heini lo sapeva ma non era un problema e Franco divenne un suo importante fornitore di opere. Non credo al suicidio, piuttosto un affare andato male... Forse gli tirarono un bidone, forse lo tirò lui. Non lo sapremo mai».

Assurda, poi, la fine di Parisi «che se ne andò a 36 anni, colpito alla testa dal deflettore dello specchietto di un autobus mentre scendeva dal marciapiede a Londra...». Morti che posero inevitabilmente fine al dominio dei playboy sulla Costa Azzurra. Ma in quelle incursioni tra la Mandrague di Brigitte Bardot e le feste epocali organizzate a Saint Tropez sapevate di essere gli italiens? Il «bel Danilo» replica così: «Neanche tanto tempo fa ero a Ischia, a tavola con amici in un ristorante. A un tratto un signore napoletano, simpaticissimo, si avvicina e mi dice: “Ma io la conosco...” . Poi racconta, con modi da attore, che lui e i suoi amici si appostavano regolarmente fuori dalle ville che affittavamo per attendere l’uscita delle invitate “e qualcosa rimediavamo...”». Si ricordava persino «di quella volta che invitammo i Gipsy Kings, all’epoca erano musicisti da strada e non li conosceva nessuno: ma erano travolgenti finimmo tutti a ballare in strada».

Tutti gli italiens, chi in un modo e chi in un altro, si diedero alla stessa attività: aprire locali à la page. «Piroddi gestiva l’Esquinade, io il Bobo a Riccione, il Bobino a Cortina e Porto Rotondo e infine lo «Josephine» a Monaco di Baviera». Oggi la vita è più tranquilla?» «Sono single» sorride l’ultimo degli italiens che nel parlare di un’amore recente «durato otto anni» mostra la foto di una bionda — bellissima — che si chiama Ursula e non aggiunge altro. Poi chiude così: «Ogni giorno ascolto uno stesso brano di Oscar Peterson, jazzista fuoriclasse. Si chiama Tenderly: sì, tenerezza...».

·         Morto l’attore Jack Ging.

Morto Jack Ging, attore della serie 'A-Team'. Redazione spettacoli su La Repubblica il 14 Settembre 2022.

Aveva 90 anni. Aveva lavorato con Clint Eastwood e nella serie 'Bonanza'

L'attore statunitense Jack Ging, caratterista che ha recitato in serie tv come Undicesima ora, Mannix, Riptide e A-Team ed è apparso in tre film al fianco di Clint Eastwood, è morto per cause naturali nella sua casa di La Quinta, in California, all'età di 90 anni. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla moglie Apache Ging.

In rari ruoli da protagonista, Ging ha interpretato  l'oggetto del desideriodel personaggio di Diane Baker Desiderio nella polvere (1960) di William F. Claxton (1960), un soldato ed eroe riluttante nei giorni calanti della guerra di Corea nel film drammatico Sniper's Ridge (1961), uno psichiatra clinico nella serie medica Undicesima ora (1962-64), vestendo i panni del dottor Paul Graham e quelli del generale "Bull" Fullbright nella serie A-Team (1983-1986).

Accanto a Eastwood, Ging ha interpretato uno sceriffo in Impiccalo più in alto (1968), un medico in Brivido nella notte (1971) e Morgan Allen, il proprietario della miniera (e amante del personaggio di Marianna Hill), in Lo straniero senza nome (1973). In tv è apparso anche nei telefilm Bonanza, La casa nella prateria e Autostop per il cielo.

·         È morta l’attrice Irene Papas.

 Da corriere.it il 14 settembre 2022.  

È morta l’attrice greca Irene Papas: aveva 96 anni. A riferirlo è l’agenzia di stampa greca Ana-Mpa. Nel 2018 era stato annunciato che Irene Papas soffriva ormai da cinque anni di Alzheimer. Da allora l'attrice ha vissuto lontano dalle scene e si è ritirata a vita privata. 

Il mondo del cinema di nuovo in lutto, a un solo giorno di distanza dalla morte di Jean-Luc Godard. Irene Papas è ricordata come un simbolo della bellezza greca e una rappresentante della cultura mediterranea all’estero. Ha recitato in decine di film di successo ed è nota a livello internazionale non solo per le doti recitative, ma anche per la sua presenza carismatica e dinamica.

Tra le sue interpretazioni più famose ricordiamo quella di Penelope ne l’Odissea e nei celebri film «Zorba il greco», «Il messaggio», «Le troiane» ed «Elettra».

È morta Irene Papas, è stata Penelope nello sceneggiato 'Odissea'. Redazione spettacoli su La Repubblica il 14 Settembre 2022. 

La celebre attrice greca aveva 96 anni. Indimenticabili i suoi ruoli al cinema in 'Zorba il Greco' e in 'Z - L'orgia del potere'

Addio a Irene Papas, la star greca del cinema e del teatro. Aveva 96 anni. Per il cinema è conosciuta dal pubblico internazionale per le sue interpretazioni della combattente della resistenza Maria Pappadimos in I cannoni di Navarone del 1961; della vedova in Zorba il greco del 1964; della moglie del martire politico in Z - L'orgia del potere  del 1968, accanto a Yves Montand; e di Caterina d'Aragona in Anna dei mille giorni del 1969.  

Il palcoscenico e la cinepresa erano iscritti nel suo destino, già a 12 anni i suoi genitori (sua madre era un'insegnante e suo padre insegnava dramma classico) l'avevano iscritta alla scuola d'arte drammatica. I primi anni della professione l'hanno vista sul palco come cantante e ballerina poi alla radio, sempre come cantante. Formatasi ad Atene nei classici greci, Irene Papas ha interpretato a teatro tutti i principali ruoli tragici, a cominciare da quelli di Medea ed Elettra, prendendo parte alle produzioni contemporanee messe in scena dal Teatro Popolare Greco alla fine del 1950. 

(ansa)Forte il suo legame con l'Italia, terra del suo esilio cominciato quando la giunta militare dei colonnelli prese il potere in Grecia, nel 1967. Papas aveva preso subito una posizione pubblica chiedendo ai suooi connazionali di partecipare a un "boicottaggio culturale" contro quello che definiva il "Quarto Reich". Nel periodo in cui ha vissuto in Italia, prima di trasferirsi a New York dove restò fino al 1974, Papas si fece conoscere dal pubblico italiano anche per la partecipazione nel ruolo di Penelope all'Odissea, lo sceneggiato co-prodotto nel 1968 da diversi Paesi e basato sull'omonimo poema di Omero, che la vedeva al fianco di Bekim Fehmiu nel ruolo di Ulisse. Uno sceneggiato memorabile anche perché, sulla Rai, ogni puntata era preceduta da un'introduzione in cui il poeta Giuseppe Ungaretti leggeva alcuni versi del poema.

(ansa)L'anno prima, nel 1967, Irene Papas aveva debuttato a Broadway in That Summer, That Fall. In seguito, avrebbe anche fornito performance a teatro apprezzate dalla critica e premiate con prestigiosi riconoscimenti, a cominciare dagli adattamenti di Euripide diretti da Michael Cacoyannis, come Le troiane nel 1972, in cui interpretava Elena, e Ifigenia in Aulide in cui era Clitennestra. Nella televisione americana, Irene Papas è stata Zipporah nella miniserie del 1976 Moses the Lawgiver e Rebekah nell'epico Jacob del 1994.

(agf)La sua ultima apparizione sul grande schermo nel 2003 per il film A Talking Picture del regista portoghese Manoel De Oliveira. Nel 2018 era stato annunciato che Irene Papas soffriva ormai da cinque anni di Alzheimer. Da allora l'attrice ha vissuto lontano dalle scene e si è ritirata a vita privata.

Addio Irene Papas, un'icona nell'Olimpo delle dee. Dote naturale? La sensualità. Pasquale Bellini su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Settembre 2022.

È morta alla stessa età della regina Elisabetta, 96 anni, essendo nata anche lei nel 1926 dalle parti di Corinto, e scusate se è poco! A differenza della regina, però, Irene Papas sarà piuttosto ricordata in qualità di Dea, di quelle che aleggiano fra l’Olimpo e i sottostanti territori abitati dai mortali, con i quali le Celesti eventualmente si mescolano con amabile condiscendenza. E per forza!, dico io, con quella faccia da greca che di più non si può, manco i fregi del Partenone, o le statue nei Musei.

Eppure da ragazza, prima di essere per noi in aeternum l’austera fedelissima Penelope (come da serie Tv dell’Odissea nel 1968) e prima di prestare il suo volto scolpito e il suo corpo marmoreo a film di possente impatto politico (vedi A ciascuno il suo di Petri con Volonté nel ‘67 o Z-L’ orgia del potere di Costa Gavras o il più recente, 1987, Cronaca di una morte annunciata di Rosi) ebbene la Papas «da giovane», nella Atene degli anni del dopoguerra esordì, sulle scene come cantante nei night e come ballerina in spettacoli di varietà.

Verve fisica da un lato, sensualità ed eros represso dall’altro non le hanno fatto mai difetto. Con la grande intensità (nello sguardo e nei gesti) che è peraltro la caratteristica delle Dee. Chi non la ricorda come «vedova nera» così cupa e così sensuale in Zorba il greco, il film del ‘64 di Cacoyannis con Anthony Quinn, fra le evoluzioni del sirtaki e le musiche di Teodorakis?

Irene Papas, che pure era scesa dall’ Olimpo degli Dei fin nell’«Actor’s Studio» di New York, accanto alle Medee rigorosamente Made in Hellas e filologiche, date magari nel grande Teatro di Epidauro, aveva anche recitato una Medea contemporanea e moderna ne La lunga notte di Medea di Corrado Alvaro (1989), così come era stata la Contessa Ilse nei Giganti della Montagna di Pirandello con la regia di Mauro Bolognini (1989).

Anche qualche polpettone western o storico-avventuroso nel suo carnet, beninteso, tipo La legge del capestro di Wise (1956) o I cannoni di Navarone del ‘61, ma l’icona immutabile della Irene Papas resta quella della ieratica e mitica figura greca, col suo profilo da medaglia antica, che si staglia su uno sfondo di terre e di mare mediterraneo.

Eppure... eppure... La sua verve e la sua sensualità trovarono momenti di fuga dal cameo immutabile. Nel 1972 (forse per disintossicarsi dal micidiale peplum Le Troiane girato nel ‘71 con Katherine Hepburn!) la divina Papas incise un long-play col gruppo greco alternativo Aphrodite’s Child intitolato 666 (diabolica allusione!): la canzone da lei cantata, Infinity, era tutta una serie di mugolii, di allusioni ed espressioni altamente sexy. Tant’è che il disco fu sequestrato e censurato, e ne fu per un pezzo vietata la diffusione.

Ma è facoltà suprema delle Dee quella di sfidare le comuni regole dei mortali, concedendosi eccessi, brividi di voluttuosa trasgressione, ridendosene delle convenzioni e sfidando addirittura il sommo Giove, o i canoni del mercato dello spettacolo!

Irene Papas è risalita al suo Olimpo luminoso. Ci resta il suo profilo e il suo volto severo e «divino».

·         E’ morto l’industriale Andrea Riello.

Matteo Sorio per corriere.it il 13 settembre 2022.  

Un malore improvviso. È morto così, martedì 13 settembre, in mattinata, Andrea Riello. Classe ‘62, l’imprenditore veronese si trovava a Minerbe (Verona), nella sede della Riello Sistemi Spa, la società fondata dal padre Pilade nel 1963 e da lui oggi guidata. Parliamo di uno dei tanti tasselli della Riello Industries, che ha visto i figli Giuseppe, Pierantonio, Nicola e appunto Andrea portare avanti la vocazione imprenditoriale di Pilade.

Dai primi anni ‘90, Riello è stato anche impegnato in attività associative in Confindustria: tra le altre, dal 2000 al 2004 è stato presidente di Ucimu, l’associazione nazionale di categoria che riunisce i costruttori di macchine utensili, e dal 2002 al 2004 è stato al vertice di Federmacchine, la federazione nazionale di Confindustria che riunisce le undici associazioni di categoria dei costruttori di macchinari. Nel maggio 2005 è eletto alla guida di Confindustria Veneto, carica che ha ricoperto fino a gennaio 2009.

Andrea Riello si era laurato a 23 anni, in Economia aziendale all’università Ca’ Foscari di Venezia. Dopo la laurea - è il 1986 - aveva viaggiato all’estero per completare il percorso di formazione: prima il trasferimento a Bruxelles, poi a Londra per le prime esperienze di lavoro.

A Londra aveva frequentato per un anno il Polytechnic of Central London, corso in Scienze Finanziarie. Tornato in Italia tre anni dopo, era entrato nell’impresa di famiglia: Riello Macchine (Riello Sistemi spa) di cui diventa amministratore delegato a partire dal 1991 e poi direttore generale. Dal 2001 era presidente di Gruppo Riello Sistemi, tra i più evoluti in Europa nel settore delle macchine dei sistemi di produzione: quattro stabilimenti, fra cui quello di Minerbe, e più di 500 dipendenti.

Nel ‘92 Riello era diventato presidente del Confidi (Consorzio garanzia fidi degli imprenditori) dell’associazione territoriale della provincia di Verona. Era entrato anche nel consiglio direttivo di «Ucimu-Sistemi per produrre», di cui aveva assunto la vicepresidenza nel ‘94 e la presidenza sei anni dopo.

Dal giugno 2002, è nel consiglio direttivo di Confindustria, prima col presidente Antonio D’Amato, poi per l’intero arco della presidenza Montezemolo e, infine, con Emma Marcegaglia. A maggio 2005 è eletto presidente di Confindustria Veneto, carica che cede a gennaio 2009. Negli stessi anni Andrea Riello era stato il presidente della Fondazione Campiello, struttura che sottende al più importante premio letterario tricolore.

Dal 2006 a marzo 2010 è stato anche consigliere di amministrazione di Save SpA, società quotata alla borsa di Milano, concessionaria della gestione dell’aeroporto di Venezia. Infine le banche. Andrea Riello è stato nei cda di vari istituti, quali Credito Bergamasco-Gruppo Banco Popolare e Cassa di Risparmio del Veneto-Gruppo Banca Intesa. Dal maggio 2009 è stato membro del consiglio di amministrazione di Unicredit Corporate Banking Spa.

Riello morto in azienda. È l'estate più nera degli industriali italiani. Stroncato da un malore a 60 anni. Da Balocco a Del Vecchio, i lutti nel mondo dell'imprenditoria. Antonio Borrelli il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

È il canto del cigno dell'estate nera dell'imprenditoria italiana, che mai come prima ha mietuto così tante vittime tra alcuni dei più importanti industriali del nostro Paese. L'ultimo in ordine di tempo Andrea Riello, 60 anni, morto improvvisamente ieri mattina mentre si trovava nella sede della sua «Riello Sistemi» a Minerbe, in provincia di Verona. Un infarto fulminante. Questa la causa del decesso di Riello, proprio mentre si trovava in ufficio. I dipendenti hanno subito lanciato l'allarme, ma quando l'ambulanza del 118 e l'elisoccorso di Verona sono arrivati in azienda ormai non c'era nulla da fare. Figura di spicco dell'imprenditoria italiana, ex presidente di Confindustria Veneto dal 2005 al 2009, Andrea Riello aveva costruito una carriera costellata di incarichi e cariche di prestigio: dal 2002 occupava un seggio nel Consiglio direttivo nazionale di Confindustria, dal 2002 al 2004 era stato presidente di Federmacchine (la federazione nazionale di Confindustria che riunisce le undici associazioni di categoria dei costruttori di macchinari), dal 2006 al 2010 consigliere di amministrazione di Save spa, concessionaria della gestione dell'aeroporto di Venezia, oltre ad essere stato componente del cda di varie banche italiane, tra le quali Credito Bergamasco-Gruppo Banco Popolare, Cassa di Risparmio del Veneto-Gruppo Banca Intesa e Unicredit. Infine, era stato presidente della Fondazione Campiello, ente che sottende al premio letterario. Ma soprattutto era presidente e amministratore delegato della «Riello Sistemi», una delle aziende di famiglia specializzata nel settore delle macchine utensili, che sotto la sua guida è arrivata ad avere un fatturato da 21 milioni di euro con 112 dipendenti e stabilimenti in Italia e all'estero. La «family company» affonda le radici agli inizi del Novecento, quando nel 1922 il nonno di Andrea, Giuseppe, fondò con i fratelli Pilade e Raffaello la Officine Fratelli Riello, storica azienda veronese di bruciatori e caldaie dal 2017 parte del gruppo americano United Technologies Corp. Il padre Pilade aveva invece creato la multinazionale poi passata ai quattro figli: ad Andrea la «Riello Sistemi», a Pierantonio la «Riello Elettronica», a Giuseppe la «Riello Crd» e Nicola la «Riello investimenti e gestione fondi». Oggi la multinazionale «Riello Industries» - si legge nella presentazione sul sito dell'azienda «è una realtà a misura delle capacità professionali di Pierantonio, Andrea, Giuseppe e Nicola Riello, in cui ciascuno ha sviluppato la propria vocazione imprenditoriale seguendo percorsi indipendenti ed effettuando scelte strategiche ed operative in assoluta autonomia, all'interno di un comune catalizzatore di valori condivisi». Andrea Riello era parte di quella visione lunga ormai un secolo. «Era un uomo e un imprenditore di grande valore e visione, capace di creare un'impresa leader nel suo settore - ha commentato il governatore del Veneto Luca Zaia -. Lascia un vuoto difficile da colmare». L'estate nera degli industriali era cominciata a giugno con la scomparsa di Leonardo Del Vecchio, fondatore di Luxottica e presidente del gruppo Essiliux. Aveva 87 anni quando a causa di una polmonite poi rivelatasi fatale venne ricoverato in terapia intensiva all'ospedale San Raffaele di Milano. A fine agosto, invece, Alberto Balocco, titolare e amministratore delegato dell'omonima azienda dolciaria, venne ucciso da un fulmine a 56 anni. Neanche due mesi prima, il 2 luglio, era morto il padre Aldo, l'inventore del celebre panettone «Mandorlato». Antonio Borrelli

Era stato anche alla guida di Confindustria Veneto. Stroncato da infarto in azienda, muore l’imprenditore “illuminato” Andrea Riello: “Esempio indimenticabile, ci mancherai”. Redazione su Il Riformista il 13 Settembre 2022 

Andrea Riello era nella sede della società fondata dal padre nel 1963, l’azienda che lui stesso guidava, quando si è sentito male. È stato stroncato da un infarto l’imprenditore, già presidente di Confindustria Veneto e presidente e ceo di Riello Sistemi a Minerbe, in provincia di Verona. Aveva 60 anni, per lui non c’è stato niente da fare. La scomparsa ha sconvolto il territorio, dove l’imprenditore era molto noto. Si è detto addolorato anche Luca Zaia, governatore del Veneto, che ha espresso il suo cordoglio per “un uomo e un imprenditore di grande valore e visione”.

Riello era nato nel 1962 a Paderno del Grappa, frazione di Pieve del Grappa, un anno prima che il padre Pilade fondasse la società che sarebbe stata portata avanti dai figli Giuseppe, Pierantonio, Nicola e appunto Andrea. Che si era laureato in Economia Aziendale all’Università Ca’ Foscari a 23 anni, aveva vissuto all’estero, Bruxelles e Londra, dove si era specializzato in Management Internazionale e da tempo guidava l’azienda di famiglia specializzata nel settore delle macchine utensili. Fatturato da 120 milioni di euro, oltre 500 collaboratori, stabilimenti in Italia e all’estero.

Riello dal 2002 occupava anche un seggio nel Consiglio direttivo nazionale di Confindustria. È stato presidente di Federmacchine, la federazione nazionale di Confindustria che riunisce le undici associazioni di categoria dei costruttori di macchinari, consigliere di amministrazione di Save SpA, società quotata alla Borsa di Milano, concessionaria della gestione dell’aeroporto di Venezia, componente del consiglio di amministrazione di banche come Credito Bergamasco-Gruppo Banco Popolare e Cassa di Risparmio del Veneto-Gruppo Banca Intesa, di Unicredit. Era stato anche presidente della Fondazione Campiello.

Alla guida di Confindustria Veneto era durato dal maggio 2005 al gennaio 2009. Era diventato amministratore delegato dal 1991 e direttore generale di Riello Macchine (Riello Sistemi spa). Dal 2001 era presidente di Gruppo Riello Sistemi. “È per me un esempio indimenticabile di uomo e imprenditore: sentiremo forte e a lungo la sua mancanza, per come ha contribuito con il cuore, l’intelligenza, l’umanità, la visione alla crescita economica e culturale del nostro paese e di tutto il sistema imprenditoriale veneto”, ha dichiarato Enrico Carraro, presidente di Confindustria Veneto.

“La notizia della morte improvvisa di Andrea Riello mi colpisce e mi addolora profondamente”, ha scritto sui social il Presidente della Regione Veneto Luca Zaia. “Era un uomo e un imprenditore di grande valore e visione, capace di creare un’impresa leader nel suo settore. Era sempre con il sorriso. Un imprenditore illuminato e impegnato che ho avuto modo di conoscere e apprezzare, in particolare quando aveva assunto la Presidenza di Confindustria Veneto. La sua scomparsa, così inaspettata, lascia un vuoto difficile da colmare. In questo momento di dolore, voglio rivolgere alla famiglia Riello e a tutte le persone che lavorano nella sua azienda la mia vicinanza personale ed il cordoglio della Regione del Veneto”.

·         E’ morto il regista Jean-Luc Godard.

(ANSA il 13 settembre 2022) - Il regista della Nouvelle Vague, il franco-svizzero Jean-Luc Godard, è morto all'età di 91 anni. Ne dà' notizia il quotidiano francese Libération. 

Da today.it il 13 settembre 2022.

Il mondo del cinema piange la morte di Jean-Luc Godard. Il famoso regista franco-svizzero aveva 91 anni, non era malato, è ricorso al suicidio assistito, rivela una fonte vicina al la famiglia citata dal quotidiano Libération. 

A confermarlo anche la moglie, Anne-Marie Miéville, e i produttori. L’autore di 'Fino all'ultimo respiro' è morto questa mattina, 13 settembre 2022, "serenamente presso il suo domicilio, circondato dai propri cari", a Rolle, sulle rive del Lago Lemano. "Non era malato, era semplicemente esausto", ha rivelato la fonte citata dal giornale francese. Il regista "aveva quindi preso la decisione di farla finita. È stata una sua decisione, ed era importante per lui che si sapesse". È riuscito ad andare "in fondo alle sue convinzioni". In Svizzera, il suicidio assistito è autorizzato da una legge che risale al 1937, in particolare dall'articolo 115 del codice penale.

Macron annuncia consultazione pubblica su fine vita

Proprio oggi il presidente francese Emmanuel Macron ha annunciato l'avvio di una vasta consultazione con i cittadini sul tema del fine vita, nella prospettiva di un possibile nuovo "quadro normativo" entro fine 2023. Il Comitato etico francese ha detto che un "aiuto attivo a morire" potrebbe venire applicato in Francia, ma ad "alcune rigide condizioni". L'organo consultivo chiede anche di accelerare gli sforzi per le cure palliative.

BIOGRAFIA DI JEAN-LUC GODARD. Da cinquantamila.it – la Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Jean-Luc Godard, nato a Parigi il 3 dicembre 1930 (91 anni). Regista. Tra i massimi esponenti della Nouvelle Vague

• «Si è sempre contraddistinto per la sua produzione attenta alle forme espressive e al contenuto ideologico» (Treccani) 

• «Attento a costruire un’immagine di sé sempre sorprendente e fuori dalle regole» Paolo Mereghetti, La Lettura, 1/12/2019) 

• «È scostante, irritante, perfino villano. Eppure, ogni volta che compare agli odiati festival, davanti agli ancor più odiati giornalisti, è accolto con applausi fragorosi. E applausi cadono a pioggia su ogni sua parola, finché lui stesso si irrita» (Giuseppina Manin, Corriere della Sera, 11/9/1993) 

• Esordì con Fino all’ultimo respiro (1960), una specie di film manifesto, critica radicale del linguaggio cinematografico tradizionale. Poi, in mezzo secolo di attività, ha realizzato più di cento film, di tutti i formati e le lunghezze possibili, tanto che il critico cinematografico Jean-Michel Frodon ha definito la sua opera «una specie di foresta magica in cui ci si perde a piacere». 

La Treccani, provando a fare un po’ d’ordine, dà conto di tre «periodi». Il primo, tra il 1960 e il 1967, in cui «alla critica della cinematografia tradizionale, si unì, una sempre più consapevole critica dei valori sociali dominanti». 

Il secondo, tra il 1968 e il 1972, «più esplicitamente militante, sperimentando nuovi modi di produzione e insieme di elaborazione estetica e ideologica». 

Il terzo, dal 1975 in poi, in cui «liricità e ironia, consapevolezza della crisi e una nuova sensibilità figurativa sembrano invece prevalere (pur nella fedeltà a un’idea di cinema come rischio formale e ideale e a uno stile sempre innovativo e sperimentale)»

• «Ha fatto la rivoluzione linguistica, scardinando la sintassi cinematografica. Non ha fatto, come forse avrebbe voluto, la rivoluzione sociale» (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema - Cento Grandi Registi, Newton&Compton 1995) 

• Premio Oscar e Leone d’Oro alla carriera. Due premi César straordinari, massimo riconoscimento del cinema francese. Un Leone d’oro e uno d’argento alla Mostra del cinema di Venezia. Un Orso d’oro e due d’argento al Festival del cinema di Berlino

• «Da tempo ormai ha fatto perdere le sue tracce. Rifugiatosi in Svizzera, la terra materna, vive quasi da eremita a Rolle, paesino di seimila abitanti tra Losanna e Ginevra. Ed è proprio da casa sua, una sorta di set permanente, che continua a studiare ogni tipo di linguaggio possibile da portare sul grande schermo. 

Scontroso, antipatico, ribelle, sempre in antitesi per il gusto di esserlo, Godard parla ormai solo attraverso le sue opere: sempre più oniriche, sempre più ermetiche» (Giacomo Galanti, Huffpost, 28/1/2020) 

• «Qualcuno protesta che non si capisce niente, ma è l’approccio convenzionale che qui non regge. Un film di Godard è come entrare nella chiesa del cinema, mentre si svolge un rito. Quanti, del resto, “capiscono” la messa?» (Tullio Kezich, Corriere della Sera, 11/9/1993)

• Lui, del resto, ai giornalisti che gli chiedevano come avesse fatto a girare il suo Ahimè! (1993), spiegò: «Un lunedì ho trovato il denaro, martedì  qualcuno con cui fare il film, mercoledì gli attori, giovedì i costumi, venerdì i tecnici, sabato i dialoghi e  domenica mi son riposato». 

Titoli di testa «“Le andrebbe un’intervista con Jean Luc Godard? Venti minuti, mezz’ora? Non gli si devono fare domande sul passato, niente A’ bout de souffle, niente Truffaut, i Cahiers du cinema, Pierrot le Fou, non ne può più. Ma solo sul presente, sul film che sta cominciando, o sul futuro. Insomma, veda lei...”. Vedo.

E dopo una lunga anticamera nella piccola casa di distribuzione - tutti sussurrano, il maestro aborre le voci alte - dopo che mi è stato dato un dossier di fotografie dal film con le tipiche didascalie godardiane metà geniali metà incomprensibili (“Ogni problema propone un mistero”, “A sua volta il problema è profanato dalla soluzione”) mi ritrovo, chiusa in una stanza dalle pareti imbottite e dalle tende tirate, davanti al maestro» (Irene Bignardi, la Repubblica, 5/2/2000). 

Vita Nato ricco. Padre medico, madre figlia di banchieri svizzeri. Lo mandano in un collegio a Nyon, nel Canton Vaud, poi alla Sorbona, facoltà di etnologia, ma non studia. Quando il padre gli taglia i fondi è costretto ad arrangiarsi. L’etnologia non gli interessa, lui in mente ha il cinema. «Il cinema mi ha fatto scoprire un altro mondo, che né la letteratura né la pittura potevano mostrare» 

• «In Svizzera per i funerali della madre si ferma a Ginevra, muratore in un cantiere di costruzione d’una diga, e ne approfitta per girare un documentario di 20’, Opération béton (1954)» (Di Giammatteo)

• A Parigi passa giornate intere nei cinemini della Rive gauche. Collabora ai Cahiers du Cinéma. Conosce Rohmer, Rivette, Bazin, Chabrol, Truffaut, i giovani che saranno la spina dorsale della nouvelle vague. «Noi ci consideravamo tutti, ai Cahiers du Cinéma, come futuri registi. Frequentare i cineclub e la Cinémathèque era già pensare cinema e pensare al cinema. Scrivere era già fare del cinema, perché tra scrivere e girare c’è una differenza quantitativa e non qualitativa»

• Hanno le idee chiare. Con disprezzo chiamano il modo tradizionale di fare film cinéma de papa. «A questo i giovani turchi si contrappongono in maniera veemente, sposando la cosiddetta politica degli autori che non è altro che una fanatica promozione dei loro registi più amati, da Jean Renoir ad Alfred Hitchcock passando per Nicholas Ray. 

Ed è proprio il regista di Gioventù bruciata, ricorda Godard, che un giorno, fingendo di dover fare una telefonata urgente, passa dalla redazione per vedere il posto in cui si parlava così bene di lui. Questo per dare l’idea del tempo e della straordinarietà di quell’esperienza.

Il giornale ormai è diventato una seconda casa insieme ai cineclub del Quartiere latino. Come racconta sempre Godard: “La sera andavo ai Cahiers come gli altri vanno al bar o al biliardo. E mia moglie non era contenta”. 

Una fucina di talenti che prima di pensare a mettersi dietro la macchina da presa aveva in comune il pallino per la scrittura e il sogno di pubblicare un romanzo per la prestigiosa casa editrice Gallimard. Qualcuno ce la farà, non Godard che però mira con tutto sé stesso ad affermarsi come artista tout court. Perché il cinema è arte, dice, come la pittura» (Galanti)

• «La Nouvelle Vague ha preso il nome di Hitchcock, che era scritto piccolo piccolo, e ha detto: questo qui vale quanto Shakespeare e Chateaubriand» (Cristiana Paternò, l’Unità, 6/9/1996) 

• Il suo primo lungometraggio, Jean Luc lo gira a trent’anni, nel 1960. «L’anno zero della mia vita». Lo realizza tutto in sole quattro settimane, con pochi soldi, un’unica cinepresa a mano e senza nemmeno tutti i permessi necessari per le riprese in esterna. È À bout de souffle (in italiano Fino all’ultimo respiro). 

 Anni dopo, presentandolo al pubblico del canale inglese BBC, Bernardo Bertolucci dirà: «Nel cinema esiste un pre Godard e un post Godard» 

• «À bout de souffle è la linea di demarcazione tra due epoche della storia del cinema, fu una vera e propria rivoluzione di stile, un coraggioso manifesto artistico siglato dalle generazioni successive di cineasti.

Il soggetto fu scritto da François Truffaut e si basa su un fatto di cronaca realmente accaduto: dopo un’estate di eccessi in Costa Azzurra insieme alla bella fidanzata americana, un giovane uccide un poliziotto per raggiungere più velocemente possibile la madre morente, ma il ragazzo viene denunciato dalla fidanzata alle autorità. 

Truffaut aggiunse alla storia le atmosfere noir dei b movies americani che a lui e al suo amico Godard tanto piacevano, come testimonia inoltre all’inizio del film la dedica alla casa di produzione statunitense Monogram, specializzata in film d’azione. I due amici iniziarono le riprese, ma il set divenne ben presto teatro di contrasti tra Godard e il produttore Georges de Beauregard, a causa dei suoi metodi di lavoro poco ortodossi, che mal si conciliavano con le esigenze economiche della produzione: il primo giorno, infatti, si girò solo per due ore.

Gli attori principali, all’epoca semisconosciuti, erano Jean Paul Belmondo e Jean Seberg. Entrambi, grazie a quella pellicola low budget e a un eclettico e giovane regista parigino, diventarono di lì a poco vere e proprie icone del cinema internazionale. Belmondo interpretava Michel Poiccart, un giovane affascinante che imita le movenze di Humphrey Bogart e vive di espedienti e piccoli furti; Seberg era invece Patricia Franchini, una graziosa studentessa americana che sognava di diventare giornalista e conquistare così la sua indipendenza dagli uomini. Con questa pellicola, Godard vince una scommessa generazionale» (Roberta Errico, The Vision, 19/2/2020)

• «Con l’uso della macchina a mano, le riprese casuali, gli “attacchi” sbagliati, le ripetizioni ossessive, i salti imprevisti da un luogo all’altro, da un volto all’altro (o allo stesso, ma in un luogo diverso) mette in crisi le certezze del cinema narrativo di marca (soprattutto) hollywodiana» (Di Giammatteo)

• Diventa famosissimo. «Non c’è regista che gli assomigli, nessuno che sia così cinomane. Il suo è un purismo che snerva o solletica l’entusiasmo. Non c’è un regista così angosciato. Ma il suo mutismo, la sua perenne introversione, risultano palesi. Palese la sua calma siderale, prodotta da tensione più che da appagamento, calma smentita d’un tratto e clamorosamente. Gli accadde di spaccare i mobili di casa, quando viveva con la prima moglie, e di manifestare un’insospettata elasticità di puma durante la lavorazione di Pierrot le fou. Belmondo esitava a spiccare un salto pericoloso e Godard, snervato, lo fece al posto suo esclamando: “Hop-là”. Ha un solo interesse, il cinema, e quel che della sua persona inesaudita il cinema traduce» (Giancarlo Marmori, Cronache di verità, 1969, Immordino editore). 

Amore

Fu sposato due volte. La prima, dal 1961 al 1965, con Anna Karina, attrice, sua musa. La seconda, dal 1967–1979, con Anne Wiazemsky, figlia della principessa Wiazemsky nata Mauriac, nipotina di François Mauriac e figlia del figlio di lui, Claude, sposato alla nipotina di Proust. «A Godard interessò solo lo stampo fisico e psichico quel suo modo di essere mite e mai stupida, quella sua faccia da putto d’ascensione barocca» (Marmori) • Dal 1978 vive con una sua collaboratrice, Anne-Marie Miéville. 

Politica

Da sempre di sinistra. Per questo destò scalpore, nel 2014, quando, intervistato da Le Monde, disse di sperare che Hollande nominasse primo ministro Marin Le Pen al posto di Manuel Valls. «Per smuovere un po’ le cose. Si faccia almeno finta di smuoverle. Fare finta è sempre meglio che non fare nulla». 

Religione

«Lentamente emerge dal fondo della sua psicologia di calvinista una “nostalgia” insospettata per le tematiche religiose» (Di Giammatteo, 1995).

Vizi Ha dedicato un cortometraggio alle sigarette svizzere Parisienne. 

Critica

«Jean-Luc Godard è un noto antisemita e non merita l’Oscar alla carriera» (il settimanale degli ebrei newyorkesi Forward, 2011) 

• «Credetemi: bisogna fucilare Jean-Luc Godard. Bisogna seppellirlo sotto gli onori, sotto le sinecure. Bisogna affidargli una missione culturale in Costa Rica, nominarlo direttore a vita della Televisione di San Marino. Bisogna creare per lui una cattedra di godardismo al “Collège de France’. Bisogna lanciarlo nello spazio siderale con a bordo le opere complete di Marx e di Céline. L’importante è impedirgli di nuocere, con tutti i mezzi... strappargli la macchina da presa dalle mani...”» (Michel Aubriant, Paris-Presse, citato da Giancarlo Marmori). 

Autocritica

«Padre riconosciuto della Nouvelle Vague […] ma anche inflessibile fustigatore di chi sembrava tradire la purezza delle idee originali (le sue polemiche con Truffaut hanno segnato la storia del cinema francese), Godard è stato il più intransigente dei propri critici, pronto a mettere in discussione i film che faceva (“Ho fatto bene delle parti, ma raramente dei film interi” non esitava a dichiarare), e insieme il più esigente dei teorici, sempre alla ricerca di un’idea di cinema ogni volta più alta» (Mereghetti). 

Curiosità

Quentin Tarantino e Tim Burton hanno chiamato la loro casa di produzione A Band Apart in omaggio al suo Bande à part

• Appassionato di sport. Da ragazzo giocava a calcio nel ruolo di portiere

• Ha confessato che, da giovane, ogni tanto rubava soldi ai genitori per andare al cinema. «Era necessario, o perlomeno mi sembrava necessario. Una volta ho rubato soldi in famiglia e li ho dati a Jacques Rivette per il suo primo film. Ho rubato per vedere i film e per fare i film» 

• Il primo incontro di Bernardo Bertolucci con Jean-Luc Godard, una sera per caso al Festival di Londra: «Io avevo mal di stomaco e l’emozione fu tale che ebbi un fortissimo conato di vomito investendo proprio Jean-Luc! Ricordo che andammo nella toilette del piano terra per pulirci i vestiti a vicenda... » (Bertolucci) 

• Non gli piace La vita è bella di Roberto Benigni. «Visto in tv, è divertente. Personalmente lo trovo brutto. Non doveva essere fatto così. Non so come. Dico solo, giusto per aprire un dibattito, che se il film fosse stato onesto avrebbe dovuto intitolarsi La vita è bella a Auschwitz. Questo bisognava fare, perché è questo che dice»

• «Oggi il grande cinema non c’è più, globalizzazione e totalitarismo della tv l’hanno spazzato via»

• «Non basta filmare per fare un film. Come per i telefonini. La gente pensa di comunicare perché parla»

• «Dove trovo il coraggio e l’energia per fare cinema? Penso che dipende dalle gambe e dagli occhi. Io sento la pena di vivere ma ho il coraggio dell’immaginazione e prendo il treno della speranza e penso a chi prende il treno per andare al lavoro e non ha il coraggio di immaginare». 

Titoli di coda

«È uno degli ultimi totem della settima arte. Forse l’ultimo» (Galanti).

Godard morto con il suicidio assistito. Le versioni differenti e cosa dice la legge. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 13 Settembre 2022.

Il quotidiano Libération riporta che il regista «non era malato, solo esausto». Fonti della famiglia rivelano invece che era affetto da gravi patologie. Condizione indispensabile secondo il «fine vita» elvetico. 

Il regista Jean-Luc Godard, scomparso ieri a 91 anni, sarebbe ricorso al suicidio assistito in Svizzera «riuscendo finalmente a portare a termine le sue convinzioni». A rivelarlo è il quotidiano francese Libération che oggi ha dato la notizia della sua morte, smentendo così che Godard sia morto a Parigi, come era stato diffuso inizialmente. Su questo delicato e pericoloso passaggio tuttavia le versioni non sono concordanti.

La moglie Anne-Marie Miévillee i produttori hanno confermato la sua morte oggi in tarda mattinata, spiegando che si è «spento serenamente nella sua casa circondato dai suoi cari» a Rolle, sulle rive del lago di Ginevra. Il quotidiano francese racconta che il regista «non era malato, era semplicemente esausto», riferendo la testimonianza di un amico di famiglia: «Aveva quindi deciso di farla finita - spiega il giornale, aggiungendo che un’altra persona vicina al regista ha confermato il suicidio assistito -, era una sua decisione ed era importante che la rendesse nota». L’artista ha scelto di morire, dunque pur non essendo affetto da malattie?

L’agenzia di stampa elvetica Ats fornisce una versione differente: secondo un membro dello staff di Godard «Il corpo era stanco, non lo seguiva più. Non poteva più vivere normalmente a causa di varie patologie. Per un uomo così indipendente, così onesto era un grosso ostacolo non poter disporre dei suoi mezzi fisici come tutti gli altri». La stessa fonte confessa che la morte doveva essere annunciata tra 48 ore ma la stampa francese ha anticipato la notizia.

Questa seconda versione sembra più in linea con quanto stabilisce la legge svizzera sul fine vita. Quest’ultima, entrata in vigore nel 2009 ammette non l’eutanasia ma solo il suicidio assistito (deve cioè essere il paziente a darsi la morte, senza intervento esterno di medici). L’evento deve però essere autorizzato da una commissione medica che certifica alcuni requisiti, primi fra tutti una malattia irreversibile e la lucida volontà del paziente. In Svizzera sono solo cinque, inoltre, le cliniche autorizzate a praticare il suicidio assistito.

In un’intervista del 2014, Godard si era detto favorevole al suicidio assistito, spiegando di non voler passare gli ultimi giorni della sua vita impossibilitato a muoversi: «Non ho l’ansia di proseguire ad ogni costo. Se sono troppo malato, non ho alcuna voglia di venire trascinato su una cariola...», aveva detto a margine del festival di Cannes alla trasmissione «Pardonnez-moi» della Radiotelevisione svizzera RTS. A domanda diretta sull’eventualità di ricorrere al suicidio assistito, aveva risposto «sì», aggiungendo che «per il momento» questa scelta «è ancora molto difficile». E poi aveva continuato: «Chiedo spesso al mio medico, al mio avvocato, così, “se venissi a chiedervi dei barbiturici (...), della morfina, me li dareste ?”... Non ho ancora avuto una risposta positiva».

La scomparsa del cineasta è stata salutata tra gli altri anche dall’attore Alain Delon che aveva manifestato a sua volta la possibilità di ricorrere al «fine vita»: «Si chiude una pagina della storia del cinema... Grazie, Jean-Luc, per i bei ricordi che ci hai lasciato. Sappiate che sarò sempre orgoglioso di avere “Nouvelle Vague” nella mia filmografia» ha detto Delon commentando la morte del regista, ricordando il film del 1990 in cui lavorarono insieme.

Addio Jean-Luc Godard, regista contro fino all’ultimo respiro. Claudia Catalli su L'Espresso il 13 Settembre 2022. 

Si spegne a 91 anni il cineasta simbolo della Nouvelle Vague e di un cinema opposto al mainstream, aperto all’indefinito, alla libertà e alla sperimentazione visiva

Vale la pena dirlo subito, Jean-Luc Godard avrebbe detestato i fiumi di inchiostro che stanno scorrendo su di lui per ricordarlo, per commemorarlo, per rendere l’ultimo omaggio a un cineasta che, senza mezzi termini, ha fatto la storia del cinema mondiale (oltre che della Nouvelle Vague). Li avrebbe destati come in vita detestava mostrarsi in pubblico, cosa che da almeno quarant'anni evitava scientemente: si guardava bene dal presenziare ai festival, non si degnava di ritirare neanche i premi più prestigiosi, dall’Oscar alla carriera del 2011 all’ultima Palma d’oro speciale per Le livre d’image nel 2018.

Respingente, e mai compiacente, non faceva come quei cineasti rancorosi che riempiono i colleghi di critiche e si sperticano nelle polemiche sul ‘sistema’, salvo poi, alla prima occasione, farsi fotografare in ogni dove, banchettare alle feste degli addetti ai lavori o smaniare per ricevere il più misero riconoscimento. Godard no, si era veramente ritirato dalla vita pubblica e viveva isolato in Svizzera, a Rolle, borgo svizzero sulle rive del lago Lemano.

Proprio nell’era del trionfo dell’apparire e della visibilità ad ogni costo, un cineasta famoso in tutto il mondo sceglie l’anonimato, l’eremitaggio, quasi l’invisibilità, con la scusa famosa del «Vado in periferia per ritrovare il mio centro». A lavorare in effetti continua, mettendosi alla prova fino all’ultimo, sperimentando video e nuove tecnologie e facendosi nel frattempo terra bruciata con colleghi ed ex amici.

Spicca su tutti François Truffaut, con cui tanto aveva condiviso negli anni di gioventù, che rinnegò accusandolo di essere l’ennesimo servo del sistema, piegato alle logiche del mainstream, se non addirittura il più “bugiardo” di tutti. Un’accusa che Truffaut gli rilancerà come un boomerang, scrivendogli senza giri di parole: «Sento arrivata l’ora di dirti che secondo me tu ti comporti come una merda (…) La tua parte – perché si tratta appunto di una parte – all’epoca consisteva ancora nel coltivare la tua immagine sovversiva, da qui la scelta di una frasettina ben piazzata. (…) Godard è sempre Godard e tutto va come previsto, tu resti sul tuo piedistallo (…) Sei come Ursula Andress, un’apparizione di quattro minuti, il tempo di far scatenare i flash, due o tre frasi a sorpresa e via, di ritorno a un comodo mistero".

Chi scrive è sempre rimasta affascinata dalla ferocia della lotta artistica e politica con cui si sono massacrati, a mezzo lettera, i cineasti francesi che hanno più di tutti influenzato il nostro immaginario (carteggio recuperabile su “François Truffaut, Correspondence 1945-1984”). Del resto per Truffaut il cinema era un mezzo per “migliorare la vita, sistemarla a modo proprio, prolungare i giochi dell'infanzia”, per Godard essenzialmente “lo strumento ideale per pensare”, al di là di ogni moralismo e intento didascalico.

Cinema inteso come una sorta di farmacologia dell’esistenza, non tesa alla narcolessia o all’anestesia, bensì alla sperimentazione e previsione efficace delle molteplici psicopatologie che attraversano l’animo umano.

Un cinema contagiato dalle aporie, pronto a lasciare spazio all’indefinito, al non detto, all’inconscio, alla creazione di un qui e ora irripetibile e tuttavia riproducibile. E all’improvvisazione, persino per il suo film-manifesto, quello che non a torto è considerato il suo capolavoro, "Fino all’ultimo respiro” (che già all’epoca fece impazzire, tra gli altri, Sartre e Cocteau). 

Il protagonista maschile Jean-Paul Belmondo raccontava di aver amato soprattutto l’idea di libertà totale nella direzione di Godard, quella licenza a lasciarsi andare completamente all’ignoto, e dunque all’istinto. «Il giorno prima delle riprese chiesi a Godard se almeno avesse un’idea di ciò che volesse fare. Mi diede una risposta che mi riempì di entusiasmo e che non dimenticherò mai: “No”».

IL REGISTA ANTICIPATORE. Godard, il genio impossibile che ha superato il mito dell’esordio. MATTIA CARZANIGA su Il Domani il 13 settembre 2022

ll cinema di Jean-Luc Godard era sì bellezza, ma una bellezza appunto impossibile, la bellezza (ri)pensata dall’uomo ormai ampiamente psicanalizzato e disincantato

Adorato, odiato, tacciato di narcisismo e di misoginia, è stato il re dei festival negli ultimi anni disertato anche dai festivalieri più osservanti

Si può continuare a essere un genio – e ad alimentare il proprio mito – quando per tutti per sempre sarai legato a vita alla tua opera prima, al tuo esordio? Godard ce l’ha fatta: per via del suo cinema grandissimo anche quando era diventato piccolissimo 

MATTIA CARZANIGA. Giornalista. Ha scritto L'amore ai tempi di Facebook (Baldini Castoldi Dalai, 2009) e Facce da schiaffi (Add Editore, 2011).

1930 – 2022. Godard è riuscito a «diventare immortale, e poi morire». ALBERTO PICCININI su Il Domani il13 settembre 2022

Ha girato 47 film, ma il 48esimo film, forse il primo, il più importante, è stato lui. Un’icona di stile per generazioni di cinefili radical

Jean-Luc Godard, God-art lo battezzò il critico George Sadoul, è stato capace di sfidare il peso di un’immagine non semplice da portarsi dietro, il rischio dell’essere un solenne geniale meraviglioso rompicoglioni

Negli anni Sessanta smonta il cinema in nome del cinema, negli anni Settanta lo distrugge in nome della rivoluzione. Con Susan Sontag ripetiamo che Godard è come Schoenberg, come Picasso: c’è un prima e c’è un dopo ALBERTO PICCININI

Maestro e seduttore "fino all'ultimo respiro". Dandy, demagogo, ribelle: il regista che inventò la Nouvelle Vague. Cannes era il suo regno. Stenio Solinas il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

L'ultimo omaggio glielo aveva fatto, ancora pochi giorni fa, la Settantanovesima Mostra del Cinema di Venezia presentando fuori concorso Godard seul le Cinéma, un documentario di Cyril Leuthy che era il compendio di una vita artistica prestigiosa e insieme caotica, e di una vita privata sempre più solipsistica, incapace di un contatto che non fosse attraverso la macchina da presa: «Faccio cinema per fare conoscenze. Finito il film torno a essere solo». La chiave di questa sua misoginia/misantropia da un lato, di questa stanchezza del vivere contraddetta però da una frenesia del fare (Le livre d'image, Palma d'oro speciale a Cannes, è del 2018, ultimo di una filmografia sterminata) è iscritta in due frasi che non a caso giganteggiavano in quell'À bout de souffle, Fino all'ultimo respiro, appunto, con cui tutto per lui aveva avuto inizio: «Il ruolo della donna è un ruolo importante se la donna è affascinante e se ha un vestito a righe e gli occhiali da sole». «Il fine dell'uomo è divenire immortale... E poi morire». Ha avuto donne e/o mogli molto belle Godard, e sempre e comunque, fino all'ultima, Anne Marie Mieville, sue complici nel fare del cinema il motore immobile della sua esistenza; è arrivato a superare i novant'anni, il che è un po' una prova generale dell'immortalità. Non a caso se n'è andato di sua spontanea volontà. Va detto che con Godard, con l'uomo Godard, non ci si annoiava mai, istrione e filosofo, dandy e demagogo, ciarlatano e seduttore. «Vi dico che non sono io il regista del mio film!». «Toglietegli il sonoro, è il film è migliore. Ascoltatelo senza vederlo e sarà ancora meglio». «I film sono di chi li gira. Nessuno ha il diritto di proiettarli contro la volontà del suo autore»... Sono tutte frasi che recano il suo inconfondibile marchio di fabbrica. Del resto, aveva inventato la Nouvelle Vague ancor prima di finire dietro una macchina da presa, quando era solo un critico dei Cahiers du Cinéma. Il contratto per À bout de souffle, il film con cui esordì, lo firmò sul tovagliolo di un ristorante a Cannes, lo stesso anno che il suo allora amico Truffaut sbancava il Festival al suono dei Quattrocento colpi. Era il 1959, l'anno dopo era il suo il film-manifesto della nuova modernità. Da allora Godard resterà sino alla fine il miglior biglietto di presentazione di una rassegna che faceva del cinema la propria ragion d'essere. «Al Festival sono disposto ad arrivare sino alla morte. Ma non oltre». Il paradosso Godard sta anche in questo: ribelle eppure con le spalle coperte, un po' intellettuale di destra per quelli di sinistra, e viceversa, anarchico e bon vivant, esibizionista sempre. Occhiali scuri, vestiti su misura e sigarette Boyard nel suo primo periodo; occhiali chiari, sigaro da produttore, tweed e barba lunga nel secondo; un patriarca che se ne frega di come veste, mal rasato e bofonchiante in quello che è stato il suo terzo e alla fine ultimo periodo. Dopo À bout de souffle, Le petit soldat, Pierrot le fou, Band à part, Le Mépris, di lui si cominciarono a perdere le tracce. Per Le Mépris, tratto dal Il disprezzo di Moravia e dove Brigitte Bardot era l'immagine più perfetta, nuda e disarmata, della divinità femminile, e dove Jack Palance recitava in inglese, Fritz Lang in tedesco, Michel Piccoli in francese, Carlo Ponti, che era il produttore, decise di tagliare la testa al toro doppiando tutti. Il risultato fu che l'attrice che nel film faceva l'interprete, traduceva in italiano quello che loro, per volontà superiore della produzione, dicevano nella stessa lingua, il film involontariamente più godardiano mai visto. Je vous salue, Marie, è del 1985. Prima c'erano stati Prénom Carmen e Sauve qui peut (la vie), per non parlare dell'imbarazzante western maoista Vent de l'Est, firmato con il nome del collettivo Dziga Vertov, o di Ici et ailleurs, a metà degli anni Settanta, sui campi di addestramento dei feddayn. Fu per eccellenza il suo periodo più gauchiste («il più coglione degli svizzeri pro-cinesi» scrissero allora gli studenti sui muri della Sorbona e l'ultima petizione, pochi anni fa, in favore dei terroristi italiani espatriati in Francia risente ancora delle passioni di quel tempo...): difficile sostenere che sia stato il suo periodo migliore, difficile sostenere che dopo ci sia stato altro, se non un'incessante sperimentazione dove l'immagine elettronica anticipava di almeno un ventennio quella che sarà l'idea stessa di cinema digitale, se non l'idea di cercare nell'immagine pittorica un sostituto di quella puramente visiva... Tutto questo aiuta a spiegare perché Cannes sia comunque restato sempre e comunque il suo regno, La Palma d'oro speciale del già citato Livre d'image e soprattutto, ancora nel 2014, il Premio della Giuria per Adieu au langage. Del resto, un titolo come quest'ultimo permetteva tutte le speranze. Nel film ci sono un uomo e una donna che si incontrano, si amano, litigano, un cane che erra fra città e campagna, le stagioni che passano, loro che si ritrovano, cane compreso, si riparte da capo e la metafora è che finirà tutto in un abbaiare e in grida infantili. Godard sembrava dare con questo film il suo addio al mondo: «Siete pieni di gusto della vita. Io sono qui per dirvi di no e per morire». Non era vero e infatti poi puntuale è arrivato Livre d'image. Adesso si sono spente definitivamente le luci, la musica, come la recita è finita, e la sua resta comunque nell'insieme una magnifica serata.

"Ha scelto il suicidio assistito, era esausto". L'addio in Svizzera, meditato da tempo. Aveva detto in un'intervista: "Non ho l'ansia di proseguire a ogni costo". Maurizio Acerbi il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

«Jean-Luc Godard non era malato, era semplicemente esausto». Di una vita che ha sempre voluto raccontare, in modo ineguagliabile, con la macchina da presa, Fino all'ultimo respiro, ricordando il suo film manifesto della Nouvelle Vague. E volendo dire basta ha fatto ricorso al suicidio assistito. Notizia confermata da un amico di famiglia al quotidiano Liberation. Indiscrezione avallata anche da un'altra persona molto vicina al regista franco-svizzero, scomparso ieri all'età di 91 anni.

Non a Parigi, come era stato erroneamente ritenuto nei primi momenti, ma in Svizzera, dove il suicidio assistito è consentito. Chi conosceva Godard potrebbe non essere sorpreso del modo con il quale ha salutato questa vita. Risale al 2014 una sua inequivocabile dichiarazione: «Spesso chiedo al mio medico, al mio avvocato, così: Se vengo da lei e le chiedo dei barbiturici, della morfina, me ne darà un po'? Non ho ancora ricevuto alcuna risposta favorevole». In una intervista concessa alla trasmissione Pardonnez-moi, della Radiotelevisione svizzera Rts, alla domanda se non fosse preoccupato di morire, Godard aveva risposto: «Non ho l'ansia di proseguire ad ogni costo. Se sono troppo malato, non ho alcuna voglia di venire trascinato su una carriola...». Potrebbe dunque ricorrere al suicidio assistito? «Sì», rispose lui, aggiungendo che «per il momento», questa scelta «è ancora molto difficile». Quella del mettere fine alla propria vita è una questione filosofica che ha accompagnato Godard per gran parte della sua vita. «Godard era affascinato dal suicidio», ha scritto il critico cinematografico Jean-Luc Douin, nel libro Jean-Luc Godard. Dictionnaire des passions. Tanto da girare, in gioventù, con una lametta da barba nel portafogli e di aver già tentato il suicidio «in una forma un po' da ciarlatano per richiamare l'attenzione su di me». Più che temere la morte, però, Godard pensava «alla sofferenza», al «resto, no».

Trattandosi di Maestri, con la «M» maiuscola, il pensiero non può non andare a Mario Monicelli quando, nel 2010, malato di cancro alla prostata, a 95 anni, si era buttato dal quinto piano di un ospedale romano, perché, con ogni probabilità, non voleva spegnersi, pian piano, nella sofferenza. Un po' come Carlo Lizzani che, a 91 anni, si era lanciato dal terzo piano della sua casa di via dei Gracchi, a Roma. «Avrebbe scelto l'eutanasia», aveva detto il figlio Francesco. Lizzani aveva lasciato un biglietto con scritto: «Ho staccato la chiave». Tutti e tre, superati i 90 anni, hanno deciso, ognuno a proprio modo, che era arrivato il momento di dire basta. E chissà se Godard avrà ripensato alla frase di Michelangelo: «Il suicidio è l'estremo tentativo di migliorare la propria vita».

Oh my Godard! Il cinema fino all’ultimo respiro…Il padre della Nouvelle vague ci aveva indicato una strada diversa, sgrammaticata e luminosa, che ci aveva insegnato a trasgredire la norma estetica. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 14 settembre 2022.

Ma quale datato: Jean Luc Godard e il suo cinema venivano direttamente dal futuro, riparliamone fra qualche secolo e vediamo chi avrà avuto ragione! Noi non abbiamo fatto molto per meritarcelo il grande regista franco-svizzero, scomparso ieri a quasi 92 anni tramite suicidio volontario. Non perché fosse malato ma perché si sentiva semplicemente «sfinito».

Lui che ci aveva indicato una strada diversa, sgrammaticata e luminosa, che ci aveva insegnato a trasgredire la norma estetica, a non fidarci mai della tecnica e del professionismo, della “bravura” e dello star system, che aveva fatto del cinema un campo di battaglia e un contro-potere in senso lato, una spina nel fianco della politica, delle accademie, delle industrie e soprattutto del linguaggio che ha destrutturato e fatto a pezzi in ogni modo possibile, al pari di Joyce nella letteratura e di Lacan nella psicoanalisi. Ma noi contemporanei (boomer, millenial, generazioni x e y poco importa) in questi decenni siamo andati dalla parte opposta, abbiamo smesso di sperimentare e di trasgredire, siamo diventati polli da batteria dell’intrattenimento a distanza, divoratori bulimici di storie seriali, sudditi volontari delle piattaforme streaming, spiaggiati come balene nell’opulenza capricciosa dell’on demand, nella morbosa routine con cui ci affezioniamo a personaggi fittizi che trasformiamo in altrettanti amici immaginari per colmare la solitudine.

Ci siamo abituati ai cerchi che si chiudono, alle domande con una sola risposta, alla risoluzione meccanica di ogni conflitto, alla chiosa morale, alla spiegazione pedante o al facile sarcasmo, noi, cosa abbiamo a che fare con l’opera aperta di Godard, con la sua sensibilità e la sua intelligenza? Noi che il nostro terrore più grande si chiama spoiler, questo mostro feroce e ghignante alla Lovecraft che incombe minaccioso e allo stesso tempo ridicolo in ogni conversazione. Insomma, per noi zombie da divano, cavie decadenti di Netflix e gli altri Godard è stato davvero un marziano incompreso. Anche quando lo abbiamo incensato per snobismo, fin dal lontanissimo 1960 anno in cui nelle sale parigine esce A bout de souffle. E ci sarebbe mancato altro: il film è una rivelazione potente, qualcosa di mai visto prima su uno schermo, un oggetto indecifrabile e pieno di fascino, girato con mezzi di fortuna e con un budget risibile, saltellante come la colonna sonora jazz che l’accompagna, la cinepresa spesso nascosta tra la folla perché il cinema è «la messa in scena della vita» e un montaggio ipnotico, scorretto e straniante. Nella Francia gollista e conservatrice, impicciata nei conflitti post coloniali in Indocina e Algeria, assuefatta alla narrazione lineare dei vecchi film di genere e del suo repertorio “di qualità”, A bout de souffle è un oggetto che proviene da un’altra dimensione.

La pellicola diventa immediatamente il manifesto della Nouvelle vague nonostante il fortunato Les 400 coups di Truffaut fosse uscito l’anno precedente. Ma se Truffaut è stato un grande narratore letterario, un regista di storie e di attori, un talentuoso “riformista” della macchina da presa come anche l’amico Chabrol, Godard era il profeta della rivoluzione applicata al cinema, un predicatore misantropo, di cultura protestante e di idee socialiste che ha intrecciato il sacro e il profano, Karl Marx e i Rolling Stones, la vergine Maria e l’invasione sovietica di Praga, il Vietnam e William Shakespeare, la natura incontaminata e le alienanti metropoli moderne. Sono oltre cento i film che ha realizzato in quasi sessant’anni di carriera tra lungometraggi, “corti”, interviste e documentari, una produzione irregolare, frammentaria ed enciclopedica, una continua confessione d’amore per il cinema e per lo sguardo che gli dà vita irriducibile alla performance dell’occhio, mescolando e sovrapponendo i generi e gli stili, confrontandosi a muso duro con altri invadenti e infestanti mezzi come la televisione, togliendo punti di riferimento alla pigrizia della critica e del pubblico, spesso prendendoli entrambi per i fondelli.

Questa è stata l’etica rivoluzionaria del “cineclasta” Jean Luc Godard, la religione dell’immagine che ha professato devotamente e con coerenza a cavallo dei due secoli della celluloide, combattendo nel nome del dio cinema una battaglia furibonda ma già persa in partenza.

Marco Giusti per Dagospia il 13 settembre 2022.

Se non si poteva vivere senza Rossellini, come faceva dire Bernardo Bertolucci a Gianni Amico in “Prima della rivoluzione”, figurarsi come si potrà vivere senza Godard, adesso che se ne è andato per sempre.  

Anche se tutti suoi ultimi film, “Film Socialisme”, “Adieu le langage", ``Le livre d’image”, trattavano della fine della cultura del 900, il cinema, il socialismo, il linguaggio, l’immagine. Perfino i grandi film degli anni ’80 e ’90, “Nouvelle Vague”, “Prenom, Carmen”, che una giuria veneziana presieduta da Bertolucci osò genialmente premiare con il Leone d’Oro nel 1983, navigavano sulla fine del cinema, della musica.  

E ho ancora ben chiara l’immagine di Agnes Varda che bussa inutilmente alla porta di casa sua alla fine di “Visages, villages”. Godard non risponde, non vuole farsi vedere. Non può esserci. Non vuole più esserci. 

Per chi è cresciuto negli anni ’60 e ’70 è difficile pensare a un mondo senza Godard, senza le sue battute (“il travelling è una questione morale”), le sue definizioni (“Il cinema è una pistola e una ragazza”), le sue osservazioni sui registi da amare (“Se il cinema non esistesse più, solo Nicholas Ray dà l’impressione di essere in grado di reinventarlo e, anche di più, di volerlo fare”), sui critici (“gli americani non hanno critici. Per me ce ne sono solo due, James Agee e Manny Farber”), sui vecchi amici della Nouvelle Vague (“Truffaut è l’Ursula Andress del cinema militante”).  

E’ difficille anche non pensare ai suoi mille e mille imitatori, critici o cineasti, penso al mio vecchio socio Enrico Ghezzi e alle sue battute sub-godardiane. E a tutti gli imitatori di ghezzi e quindi sub-sub-sub-godardiani. Ma anche a Quentin Tarantino, che non ama Truffaut, lo ha appena definito un dilettante come Ed Wood, ma amava Godard al punto di chiamare “Bande à part” la sua casa di produzione come omaggio al maestro.

“Farebbe meglio a darmi dei soldi”, commentò la cosa acidello Godard. Una battuta, ma Tarantino lo amava al punto di vantarsi di una cosa impossibile da verificare e assolutamente falsa, cioè di aver interpretato il rarissimo, mai visto da nessuno, “King Lear” diretto da Godard per la Cannon Film di Golan e Globus, contratto scritto su un fazzoletto di carta in un ristorante di Cannes, dove si ritrovano star come Burgess Meredith, Woody Allen, Leos Carax, Norman Mailer, Julie Delpy. 

Ma la verità è che, almeno per me, che ho vissuto gran parte del cinema del dopoguerra, il culto e la comprensione di Godard non esistono se non si amano ancora prima Roberto Rossellini, Nicholas Ray (“Nicholas Ray è il cinema”) e Kenji Mizoguchi. 

Se non hai prima mangiato carne e ossa, alla Guadagnino, i tre maestri, finisci per prendere da Godard i suoi lati più divertenti ma inutili, battute e contraddizioni, tic e stravaganze. Nulla di sostanziale. E mi dispiace non aver rivisto a Venezia “Teorema” che, assieme a “Porcile”, altro cannibal movie alla Guadagnino, rappresentano i film più godardiani di Pasolini, quelli dove cerca di liberarsi totalmente sia da Rossellini (il nerealismo) che da Fellini (il neroealismo cattolico) finendo però nelle braccia dell’allora modernismo più godardiano che nouvellevaguista. 

Non avete idea, e io ne ho un’idea solo di riflesso, di quel che fu l’arrivo di Godard e dei suoi primi film, a cominciare da “Fino all’ultimo respiro”, in sala per i giovani registi del tempo. Gustavo Dahl, mente del Cinema Novo e braccio destro di Glauber Rocha, lo vide al cinema a Roma seduto dietro Luchino Visconti, che odiò il film. Ovviamente.  

Mentre Gustavo lo amò e Godard fu, assieme a Rossellini, una delle grandi ispirazioni del Cinema Novo e del cinema di Glauber in particolare. Anche nella sua fase più decadente, “Der Leone Has Seven Cabezas”. Come lo fu del cinema udigrudi, l’anti-cinemanovo di Bressane e Sganzerla, nato da una sua stessa costola. La nostra nouvelle vague era limitata dalla presenza proprio di Roberto Rossellini, per non parlare di Antonioni, Visconti, Fellini e Pasolini.  

Non avevamo un cinema di papà da distruggere, da odiare. Al massimo si potranno girare film come “I pugni in tasca”, “Partner”, scivolando poi verso modelli godardiani, ma senza costruire una vera e propria Nouvelle Vague. Inoltre Godard arriva più volte in Italia, inchinandosi a Rossellini, girando con lui o quasi “Les carabiniers”, mettendo in piedi un film enorme sul cinema tratto da Alberto Moravia come “Il disprezzo”, che Carlo Ponti distruggerà rimontando e tagliando e cambiandogli la musica non si capisce perché. 

Ma credo che molti dei primi film di Godard siano stati manipolati nelle edizioni italiane, anche se, a noi, allora, andavano bene anche così. Ma tutto il periodo dei film con Anna Karina, “La donna è donna”, “Questa è la mia vita”, “Alphaville”, “Pierrot le fou”, è segnato da capolavori del cinema. Difficile definirli in altro modo. Film che vidi solo nei cineclub dopo la loro uscita, mentre vidi in sala mentre uscivano “La cinese” nel 1967, il suo film maoista e più politico, con Anne Wiazemski, “Due o tre cose che so di lei”, “Una donna sposata”.  

A nessuno piacque davvero il Godard politico successivi dei primi anni ’70, penso a “Lotte in Italia”, a “Crepa padrone… tutto va bene”, ce lo facemmo piacere, almeno parlo per me, ma non c’era più la magia dei suoi film precedenti. Lo stesso Godard, fidanzato con Anne Wiazemsky, come è raccontato nel pur modesto film di Michel Hazanavicius, “Il mio Godard”, ispirato al libro di memorie di lei. 

Attraversa un terribile momento gelosissimo della ragazza e dei tanti uomini che può incontrare. Tenta il suicidio sul set di “Il seme dell’uomo” di Marco Ferreri, dove viene salvato per un pelo. Lo chiama il produttore Ian Quarrier per girare un film sull’aborto a Londra, che non si farà mai perché le leggi inglesi era nel frattempo cambiate. Decide di rimanere lì a girare un film o coi Beatles o coi Rolling Stones.  

I Rolling ci stanno e nasce così “One + One” o “Sympathy for the Devil”, film politico e musicale. Arrivati alla sera della prima a Londra, dopo mille problemi, anche l’arresto per possesso di droga di Brian Jones, il produttore mostra la sua versione, dove il film è rimontato e finisce con la versione integrale di “Sympathy for the Devil”. Godard gli tira un pugno, poi perde l’equilibrio e cade dal palco. Ma non sarà il solo disastro del tempo. Pensiamo a “Vento dell’Est”, girato subito dopo a Roma, l’unico western di Godard e di Jean Paul Gorin, scrittoi assieme a Daniel Cohn Bendit con Gian Maria Volonté e Anne Wiazemsky protagonisti. 

Venne girato nella più completa confusione. “Ricordo che durante la lavorazione Godard metteva la macchina da presa in un dato posto”, raccontava Volonté, “io mi ci piazzavo davanti, facevo quello che dovevo (il mio ruolo era quello dell’imperialismo americano) e non è che siamo andati molto oltre questo rapporto. Mi chiedeva continuamente chi tra Stalin e Mao avesse più contribuito, secondo me, alla distruzione della democrazia e io gli rispondevo: Arlecchino!”. Glauber Rocha stesso appare al centro di un crocicchio con le mani che indicano due diverse strade. Una ragazza gli chiede: “Mi scusi per aver interrotto la sua lotta di classe, mi può dire la strada che porta al cinema politico, prego?”. E Rocha risponde: “Questa è la strada del cinema come avventura estetica e inchiesta filosofica, mentre questa è la strada del Cinema del Terzo Mondo – un cinema pericoloso, divino e meraviglioso”. 

La ragazza sceglie la strada dell’avventura estetica. Un film che alla Cineriz era costato centomila dollari pagati sull’unghia ai produttori Gianni Barcelloni e Ettore Rosboch per avere un film western di Godard e Daniel Cohn-Bendit con Volonté protagonista e che, alla fine, per loro, non solo non è neanche un vero film. Godard distribuì i centomila dollari in egual misura tra tecnici, attori e comparsi, pagando tutti alla stessa cifra, e per alcuni fu una pacchia. 

Glauber Rocha ricordava che ci fu una terribile proiezione a Roma con i due giovani produttori e gli avvocati mandati dalla Cineriz, che avevano subodorato il disastro. In sala, diceva Glauber, Barcelloni piangeva e Ettore Rosboch era impietrito. Dopo mezz’ora di proiezione gli avvocati fanno accendere le luci e, senza mancare di rispetto a Godard, dichiarano che quello che stanno vedendo non è un film e quindi può partire la causa. Ma ci sarebbero mille storie da raccontare e studiare.

Abbiamo aspettato anni e anni per ritrovare il Godard che avevamo amato in “Detective”, “Passion”, “Je vous salue, Marie”, "Prénom, Carmen”, anche negli ultimissimi film. Come per Bob Dylan non deve essere stato facile sopravvivere al proprio mito, invecchiare con la faccia di Godard. Meglio distruggersi, farsi odiare. Ma anche così Godard è sempre rimasto Godard. Ma stasera passeranno almeno “Fino all’ultimo respiro” su qualche rete? Vi consiglio di cercare su Mubi, dove dovrebbe esserci il bellissimo “Masculin Feminin”.

Il cinema e l’anti-cinema. Jean-Luc Godard era un’altra cosa. Mario Lavia su Linkiesta il 13 Settembre 2022.

Come Picasso si erge tra la pittura classica e quella contemporanea, lo stesso si può dire del regista francese simbolo della Nouvelle Vague morto a 91 anni: dopo di lui, nel mondo della settima arte, è cambiato tutto 

Nel film “Il mio Godard” di Michel Hazanavicius, l’attore Louis Garrel, che interpreta Godard, dice alla sua amica: «I sentimenti? Ma per quello c’è Truffaut!».

Forse nella realtà questa frase non è mai stata pronunciata, ma rende benissimo il “disprezzo” di JLG per il cinema convenzionale, facile, addirittura sentimentalistico che per molti anni imputò all’ex amico Truffaut e, tramite lui, a tutto il cinema mondiale.

Godard è stato questo, una presenza fortissima diventata con il passare degli anni un’assenza che oggi, con la morte a 91 anni, diventa definitiva. Il regista parigino è stato “il” cinema e al tempo stesso l’“anti-cinema”, un fiume di creatività che nel suo scorrere ha portato con sé l’aria nuova della Nouvelle Vague, le pulsioni contestatrici e rivoluzionarie, lo sperimentalismo e tante altre cose ancora che lo spettatore di oggi inevitabilmente stenta ad apprezzare, almeno a un primo sguardo.

Un grande intellettuale persino al di là della bellezza delle opere, come anche è per Sartre, due “numi” del Sessantotto parigino: di entrambi rimane il pensiero ancor prima delle opere. Perché fu un inarrivabile teorico del cinema. Tanto che viene da dire: una genialità troppo vivida per metterla realmente in pratica con la macchina da presa.

Sì, un cinema difficile, innovativo, anzi di rottura, teorizzato sui famosi Cahiérs du cinema, insieme a Truffaut e agli altri grandi della Nouvelle vague, peraltro diversissimi tra loro – Claude Chabrol, Eric Rohmer, Jacques Rivette – uno spartiacque nella storia del cinema (non solo francese) che faceva a pezzi il cinema tradizionale riprendendo e rileggendo i grandi americani e il neorealismo italiano (l’amore per Rossellini si vede in tante scene degli allora giovani francesi).

Si può dunque affermare che c’è stato un cinema prima di Godard e un cinema dopo Godard, un po’ come Picasso si erge tra la pittura classica e quella contemporanea. Lui era un’altra cosa, anche rispetto ai colleghi dei Cahiérs. Anche a un non-cinefilo basta una inquadratura per dire: «È Godard». Scene bellissime magari dentro un film noioso ma che non si dimenticano più: il caschetto di capelli di Jean Seberg, il pollice sulle labbra di Jean Paul Belmondo, gli occhi di Anna Karina, certi tagli improvvisi, la carrellata dentro il Louvre sono per il cinema quello che la Patetica di Ciaikowskij o Le quattro stagioni di Vivaldi rappresentano per la musica: e pazienza se c’è qualcosa di antico e perciò di difficile fruibilità in tutte queste cose.

Certo non tutta l’enorme opera di JLG è da considerare allo stesso modo. Sicuramente è il “primo” Godard (“Fino all’ultimo respiro”, “Bande à part”, “Il bandito delle undici”, “Vivre sa vie”, “Il disprezzo”) a poter riscuotere ancor oggi un buon gradimento (se qualcuno lo trasmettesse in tv…), più del Godard successivo – a parte il magnifico “Prénom Carmen”, vincitore a Venezia, dove la giuria era presieduta dal suo più grande ammiratore, esegeta e in qualche modo “fratello minore” Bernardo Bertolucci – per non parlare delle ultime pellicole ipersperimentali e stranianti.

Insomma, un genio tra i più grandi della storia del cinema, accanto ai Fellini, ai Kurosawa, agli Hitchcock. agli Ozu, agli Hawks, ai Dreyer, nomi molto amati dal regista di “Fino all’ultimo respiro”. Quando morì Truffaut, l’ex amico-rivale scrisse: «François è morto, forse. E io, forse, sono vivo. Ma non c’è poi differenza, vero?». Aveva ragione, un gigante come Jean-Luc Godard non muore.

Stralci dell’introduzione a “Francois Truffaut Correspondence, 45/84”, di Jean Luc Godard, pubblicata da “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

«Perché abbiamo litigato io e François? Non ha nulla a che vedere con Genet o Fassbinder. Era qualcos' altro. Qualcosa che, fortunatamente, non aveva nome (...) fortunatamente perché ogni altra cosa stava diventando un simbolo, il segno di sé stessa, una decorazione mortale: l'Algeria, il Vietnam, Hollywood, e la nostra amicizia e il nostro amore per la realtà. Il segno, ma anche la morte di quel segno. 

Quel che ci univa intimamente, come un bacio (…) con molta più intimità del falso bacio di Notorious, era lo schermo, e nient' altro che lo schermo. Era il muro che dovevamo scavalcare per evadere dalle nostre vite e avevamo investito così tanto della nostra innocenza nell'idea che quel muro fosse destinato a frantumarsi sotto il peso della fama e delle decorazioni . Eravamo divorati da Saturno. 

E se ci siamo allontanati era per paura di essere il primo a essere mangiato vivo. Il cinema ci aveva insegnato a vivere. Ma la vita, come Glenn Ford ne Il grande caldo, si era presa la sua rivincita. (...) Per un caso François è morto, per un caso io sono vivo. Ma alla fine, fa differenza?».

Stefano Della Casa per “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

Da giovane, Godard divorava i film e ne scriveva. Forse aveva già chiaro che quella passione sarebbe stata al tempo stesso intensa ma anche passeggera («il cinema vivrà quanto può vivere un uomo, 100 - 120 anni», ebbe a scrivere). Di fatto, come scriveva Gianni Rondolino pubblicando in un memorabile volume Einaudi le sceneggiature di alcuni suoi film, ha però cambiato la storia del cinema tanto amato e forse anche un po' odiato. 

Lo ha fatto quando a fine Anni 50 in collaborazione con gli amici Chabrol e Truffaut ha presentato a Cannes la sua prima regia, Fino all'ultimo respiro, il film che secondo Jacques Lourcelles «ha fatto perdere l'innocenza al cinema». 

Godard racconta una storia contemporanea, un piccolo delinquente braccato dalla polizia, una vicenda vista mille volte e che si vedrà altrettante. Solo che in quel film, a partire dalla dedica iniziale, i riferimenti al cinema che è stato amato si sprecano, e non è un caso se Godard si riserva hitchcockianamente il cameo dell'uomo che riconosce il ricercato e chiama la polizia: quasi a dire che è lui che ha visto tanto cinema e che farà a sua volta cinema da osservatore.

Poi c'è Questa è la mia vita, ritratto struggente di una prostituta che va al cinema a vedere Dreyer e discute di filosofia in un bar con uno sconosciuto. Anche qui si sovvertono tutte le regole linguistiche, visto che per i primi dieci minuti i protagonisti sono ripresi di spalle dento un bar. 

E poi ci sono Week end e Due o tre cose che so di lei, che testimoniano quanto Godard abbia capito l'importanza del consumismo e della mercificazione nella società contemporanea. Ha anche l'occasione di lavorare con un grande produttore (Carlo Ponti) su un grande romanzo (Il disprezzo) con grandi attori (Brigitte Bardot). 

Finirà malissimo, perché Carlo Ponti vuole i nudi della Bardot mentre Godard è molto più interessato a raccontare come, in una Cinecittà già in sfacelo, il cinema consumi la sua morte sotto gli occhi di uno dei più grandi registi della storia, Fritz Lang (e anche qui il suo cameo ha un significato particolare, perché interpreta l'aiuto di Lang e assiste alla sua lite con il produttore avido e autoritario). 

Già, l'autoritarismo. Godard, che come è noto i suoi pensieri non li manda a dire, si mette totalmente in discussione nel maggio '68, quando la Francia è attraversata da manifestazioni che tendono all'insurrezione. Assiste al festival di Cannes stando in una bella villa affittata per l'occasione, ma la lascia per contestare il festival. 

Gli viene proposto di girare uno dei tanti western che all'epoca si giravano in Italia e che a loro modo riflettevano il terzomondismo e le tensioni rivoluzionarie ma lui va oltre: in Vento dell'Est ci sono gli indiani che vendono un giornale maoista e Gian Maria Volontè che insulta lo spettatore passivo con parolacce irripetibili. Gli chiedono di fare un film sui Rolling Stones e lui li inquadra per un'ora mentre provano una canzone, Simpathy for the Devil, senza mai terminarla.

Poi smette di fare film: lui il regista più noto al mondo, quello che potrebbe trovare i soldi per qualsiasi progetto fonda un gruppo di ispirazione maoista e gira solo cine-tracts, cioè filmati militanti da proiettare nelle fabbriche e nelle università. Negli Anni 80 ritorna a fare cinema, crea altri scandali, riflette sulla vita, sulla politica e soprattutto sul cinema. E' sempre lucido, irriducibile, scostante. Quentin Tarantino lo omaggia chiamando Band à part la sua società e lui controbatte che Tarantino non gli piace per niente. 

Si congeda a novant' anni sui social, tenendo una sorprendente lezione di cinema su Instagram. Non è mai stato prigioniero del personaggio che gli hanno costruito intorno. Libero e selvaggio, come Belmondo che rifiuta la pistola che il complice gli offre e muore in Fino all'ultimo respiro davanti all'albergo dove si ritrovavano i surrealisti. Libero e selvaggio, e soprattutto sempre vent' anni davanti a tutti. 

Il regista abusante. Godard fa l’errore di morire nell’era di Instagram attirandosi le critiche più stupide di sempre. Guia Soncini Linkiesta il 14 Settembre 2022.

L’opinionismo online è inattrezzato per definizione, tanto che si riesce ad accusare il regista francese di maschilismo, violenza e abusi per il solo fatto di averli mostrati. Il che dimostra che la comprensione del testo (anche filmico) è nulla, quando l’unica cosa che interessa è l’empatia (scusate la parolaccia)

Intanto, due file separate. Di là, quelle che ci hanno fatto sempre due palle col cinema francese, che – se adolescenti bolognesi – andavano al Lumière nelle sere in cui si proiettava Truffaut, mica in quelle in cui si proiettava Fassbinder (io sempre stata per il crucco, so che ci tenevate a saperlo).

Di qua, quelle che À bout de souffle non l’avrebbero mai visto se, nei rutilanti anni Ottanta, non l’avessero rifatto gli americani, e non ci avessero messo Richard Gere, il più incomprensibile sex symbol delle nostre giovinezze (anche: l’unico sex symbol eterosessuale di quell’epoca).

Appena è arrivata la notizia della morte di Jean-Luc Godard, una delle dieci volte a settimana in cui sospirare «Adesso il Novecento è proprio finito», il primo messaggio me l’ha mandato una persona saggia che pronosticava una giornata di rivolta cancellettista contro il patriarca cinematografico. A scommettere sulla scemenza della militanza instagrammatica non ci s’impoverisce mai, e infatti.

È stato un pomeriggio di meraviglie, in cui non ci siamo fatte mancare niente. Anna Karina ancella del patriarcato. I film topolini prodotti da quell’ego smisurato. E pure le accuse, alle femmine inadeguate, di non essere emancipate: metterete pure i cancelletti di vibrante sdegno contro il sessismo, ma portate la frangia proprio come le muse di Godard, vi pettinate come loro, e ora come la mettiamo?

Il bello di Instagram è che è una gara di voragini di lacune, e quindi le tapine non erano in grado di difendersi evocando la pre-esistenza di quell’estetica: per chiamare a tua difesa Louise Brooks, devi sapere che esiste; per dire «e allora Vadim», devi sapere chi sette anni prima dirigeva la frangia della Bardot senza guglare, devi sapere che con Godard poi aveva la fascia, e la parrucca, e allora chi è responsabile della sua frangia, sarà mica responsabile di sé stessa, vorremo mica insinuare che le donne sappiano decidere per sé o dire sì o no a un regista, pure quelle che in effetti la frangia se la sono fatta perché l’hanno vista al cinema o – anatema – su una rivista di moda?

Mentre le militanti più inattrezzate che la storia del dibattito filosofico abbia mai conosciuto (sì, comprese le epoche in cui le donne erano relegate in cucina: persino le analfabete erano equipaggiate di miglior dialettica, d’altra parte erano costrette a procurarsela per emanciparsi da un’inferiorità vera, mica se ne stavano comode a cercare la causa più fotogenica), mentre quelle linkavano articoli in cui segaioli dei Dams di tutto il mondo ci spiegavano che Godard non voleva empatizzassimo coi personaggi femminili (chi propone il 41 bis per l’uso della categoria dell’empatia in qualsivoglia dibattito, quello o quella ha il mio voto), mentre il ridicolo montava come meringa, io ripensavo a Belmondo e alla Seberg, a quella scena in cui lui le dice che se non sorride la strangola.

A dar retta all’opinionismo del 2022, «Dai, fammi un bel sorriso» è peggio che fischiarti per strada, il che a sua volta è molto peggio che stuprarti, quindi il Belmondo di oggi è come minimo apologeta di patriarcato. Se poi si considera che le mette davvero le mani al collo e conta, e a 7 le dice che tanto è così vigliacca che sorriderà, abbiamo tutto. Manipolazione, sessismo, bullismo, violenza, minacce, forse pure abigeato. Per fortuna si sono dimenticati la scena in cui le chiede perché non porti mai il reggiseno, sennò altro che un pomeriggio d’indignazione, ci toccava parlare di Godard come quello che in neolingua si chiama un «abusante».

Quando i film di Godard erano al presente, l’interpretazione era opposta: se mettevi in scena un maschilista, era per veicolare una critica al maschilismo. Poi è arrivata quella che mi piace chiamare “la sindrome Nicole Kidman”, dalla volta in cui scrissi su una rivista femminile che la Kidman nel suo ultimo film non riusciva a muovere la faccia causa interventi cosmetici, e le lettrici furibonde mandarono lettere al giornale in cui grossomodo dicevano: cosa la mettete in copertina a fare se poi la criticate? Ma una copertina non è uno spazio pubblicitario, o almeno non dovrebbe: è un modo di dire «c’è qualcosa da raccontare riguardo a questa tizia». E un film non dovrebbe essere un apologo o una condanna d’un comportamento: dovrebbe principalmente essere una storia che ti racconto.

L’altra sera parlavo con un’attrice, che mi faceva notare con autentico sconcerto che nessuno s’interessava più del festival di Venezia: «Parlano solo della morte della regina». È invero sconvolgente che esista un’economia dell’attenzione per la quale, di fronte al dirompere d’un evento maggiore, accantoniamo quello minore. Parleremmo del pulmino ecologico di Letta, se non fosse morto Godard? Di Calenda che s’organizza da solo il dibattito virtuale con la Meloni, se Totti non avesse detto che la moglie gli ha arrubbato i Rolex? Dei film di Godard, se non fossimo ipnotizzati dall’ottusa militanza che ci tiene a ricordarci che il regista aveva osato criticare Jane Fonda, con tutto quel che le videocassette della sua aerobica hanno fatto per noi?

Le correzioni uscì il primo settembre del 2001. Qualche anno fa, in un racconto, la moglie di Jonathan Franzen descriveva il marito, due settimane dopo l’uscita del romanzo, scalzato come un qualsiasi festival da una qualsiasi regina morta, guardare le immagini in tv e borbottare: prima o poi smetteranno di parlare di quelle cazzo di torri e torneranno a parlare del mio romanzo. Anche solo per dire che sono uno schifoso patriarca che inquadrava il culo della Bardot: è comunque attenzione.

Stralci dell’introduzione a “Francois Truffaut Correspondence, 45/84”, di Jean Luc Godard, pubblicata da “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

«Perché abbiamo litigato io e François? Non ha nulla a che vedere con Genet o Fassbinder. Era qualcos' altro. Qualcosa che, fortunatamente, non aveva nome (...) fortunatamente perché ogni altra cosa stava diventando un simbolo, il segno di sé stessa, una decorazione mortale: l'Algeria, il Vietnam, Hollywood, e la nostra amicizia e il nostro amore per la realtà. Il segno, ma anche la morte di quel segno. 

Quel che ci univa intimamente, come un bacio (…) con molta più intimità del falso bacio di Notorious, era lo schermo, e nient' altro che lo schermo. Era il muro che dovevamo scavalcare per evadere dalle nostre vite e avevamo investito così tanto della nostra innocenza nell'idea che quel muro fosse destinato a frantumarsi sotto il peso della fama e delle decorazioni . Eravamo divorati da Saturno. 

E se ci siamo allontanati era per paura di essere il primo a essere mangiato vivo. Il cinema ci aveva insegnato a vivere. Ma la vita, come Glenn Ford ne Il grande caldo, si era presa la sua rivincita. (...) Per un caso François è morto, per un caso io sono vivo. Ma alla fine, fa differenza?».

Valerio Cappelli per corriere.it il 14 settembre 2022.  

Gérard Depardieu risponde al cellulare. «Sono un po’ stanco, a Parigi mi rompo le scatole». Dobbiamo parlare di Godard, il profeta della Nouvelle Vague, morto a 92 anni. E Depardieu è sempre lui, controcorrente, con la sua feroce sincerità. Comincia subito a spiazzare: «Sono felice per lui»

Perché?

«Perché la vecchiaia è un disastro, è una tragedia. E’ meglio andarsene via in tempo. Lui si annoiava di vivere». 

Lei ha fatto un film con Godard.

«In italiano si intitola Ahimé, era il 1993».

Ricorda la trama?

«Vagamente, parlava di mitologia. Non l’ho mai visto. Guarda, ho interpretato 250 film e ne avrò visti quaranta. Certamente non quello».

Com’era Godard sul set?

«Mi lasciava un foglietto imbustato sotto la stanza dell’hotel con le battute che dovevo dire il giorno dopo. Niente copione». 

E’ stato un maestro.

«Sì hai detto bene, un maestro. Era un po’ troppo didattico. L’arte non è così. Godard non era Pasolini, che aveva una natura generosa. Godard non lo era».

Godard e Truffaut, un sodalizio che andò in frantumi.

«Erano molto amici e si mandarono al diavolo davanti a tutto il mondo. Fu Effetto Notte a scatenare la lite, si scambiarono lettere incendiarie. Ma Truffaut era la gioia di vivere».

E Godard…

«Veniva da una famiglia protestante, svizzera, piena di soldi. Famiglia importante e molto interessante. Con la vecchiaia il suo carattere divenne impossibile. Accentuò una caratteristica che era quella di parlare male degli attori». 

Non li amava?

«Oui, non li amava. Il film doveva essere lui, Jean-Luc Godard».

Con Truffaut litigò per una visione divenuta antitetica dei film: Effetto notte ha un suo romanticismo, Godard voleva sperimentare.

«E in una lettera chiese soldi a Truffaut per il suo prossimo lavoro alternativo, perché la gente non creda che i film si fanno solo come i tuoi, scrisse».

C’era la metafora del treno nella notte, i film Truffaut li «vedeva» così.

«E Godard gli rispose: chi prende il treno, in che classe, chi lo guida?»

Cosa resta della Nouvelle Vague nel 2022?

«Ah…Niente. Neanche l’emozione. Ci sono le piattaforme che mangiano tutto».

Entrambi, lui e Truffaut, erano nati critici.

«Avevano questa cosa in comune. Io non leggo nulla che mi riguardi, gli articoli non li leggo. Non mi considero nemmeno attore» 

Ma sta uscendo il suo film sul commissario Maigret di cui tutti parlano bene…

«Sembra uno di quei classici di una volta ma girato con un senso moderno. Maigret è uno che sa come parlare con la gente, apprezza la buona cucina, dunque ho delle cose che mi legano a lui. Ha un istinto che lo porta a interessarsi al prossimo, non parlo solo di fiuto investigativo. Mi piace la sua umanità, un poliziotto vecchio stampo che si prende delle pause in una brasserie» 

Cosa le piace ora?

«Mi piace visitare paesi, l’Italia, la Grecia, la Turchia, l’Algeria…».

E la Russia non più?

«La Russia, certo. Non sopporto i giornalisti e i politici che parlano dell’Ucraina. Non mi piace Zelensky che tutti gli occidentali riempiono di soldi. L’Ucraina apparteneva alla Russia da tanti anni». 

Torniamo a Godard. Era contro il sistema?

«Era un professore di filosofia. Aveva un approccio intellettuale alle cose. E aveva problemi con le belle donne degli altri. Un giorno gli dissi che non aveva le palle. Era un autobus passato sul suo corpo, questa è l’immagine che mi viene».

Ora riposerà in pace.

«Adesso lo sarà. Non credo che in vita amasse la pace abbastanza per essere umano».

Ci dica una qualità, una soltanto, di Godard.

«Aveva un bel senso dell’immagine, i suoi film erano quadri».

Stefano Della Casa per “La Stampa” il 14 settembre 2022.  

Da giovane, Godard divorava i film e ne scriveva. Forse aveva già chiaro che quella passione sarebbe stata al tempo stesso intensa ma anche passeggera («il cinema vivrà quanto può vivere un uomo, 100 - 120 anni», ebbe a scrivere). Di fatto, come scriveva Gianni Rondolino pubblicando in un memorabile volume Einaudi le sceneggiature di alcuni suoi film, ha però cambiato la storia del cinema tanto amato e forse anche un po' odiato. 

Lo ha fatto quando a fine Anni 50 in collaborazione con gli amici Chabrol e Truffaut ha presentato a Cannes la sua prima regia, Fino all'ultimo respiro, il film che secondo Jacques Lourcelles «ha fatto perdere l'innocenza al cinema». 

Godard racconta una storia contemporanea, un piccolo delinquente braccato dalla polizia, una vicenda vista mille volte e che si vedrà altrettante. Solo che in quel film, a partire dalla dedica iniziale, i riferimenti al cinema che è stato amato si sprecano, e non è un caso se Godard si riserva hitchcockianamente il cameo dell'uomo che riconosce il ricercato e chiama la polizia: quasi a dire che è lui che ha visto tanto cinema e che farà a sua volta cinema da osservatore.

Poi c'è Questa è la mia vita, ritratto struggente di una prostituta che va al cinema a vedere Dreyer e discute di filosofia in un bar con uno sconosciuto. Anche qui si sovvertono tutte le regole linguistiche, visto che per i primi dieci minuti i protagonisti sono ripresi di spalle dento un bar. 

E poi ci sono Week end e Due o tre cose che so di lei, che testimoniano quanto Godard abbia capito l'importanza del consumismo e della mercificazione nella società contemporanea. Ha anche l'occasione di lavorare con un grande produttore (Carlo Ponti) su un grande romanzo (Il disprezzo) con grandi attori (Brigitte Bardot). 

Finirà malissimo, perché Carlo Ponti vuole i nudi della Bardot mentre Godard è molto più interessato a raccontare come, in una Cinecittà già in sfacelo, il cinema consumi la sua morte sotto gli occhi di uno dei più grandi registi della storia, Fritz Lang (e anche qui il suo cameo ha un significato particolare, perché interpreta l'aiuto di Lang e assiste alla sua lite con il produttore avido e autoritario). 

Già, l'autoritarismo. Godard, che come è noto i suoi pensieri non li manda a dire, si mette totalmente in discussione nel maggio '68, quando la Francia è attraversata da manifestazioni che tendono all'insurrezione. Assiste al festival di Cannes stando in una bella villa affittata per l'occasione, ma la lascia per contestare il festival. 

Gli viene proposto di girare uno dei tanti western che all'epoca si giravano in Italia e che a loro modo riflettevano il terzomondismo e le tensioni rivoluzionarie ma lui va oltre: in Vento dell'Est ci sono gli indiani che vendono un giornale maoista e Gian Maria Volontè che insulta lo spettatore passivo con parolacce irripetibili. Gli chiedono di fare un film sui Rolling Stones e lui li inquadra per un'ora mentre provano una canzone, Simpathy for the Devil, senza mai terminarla.

Poi smette di fare film: lui il regista più noto al mondo, quello che potrebbe trovare i soldi per qualsiasi progetto fonda un gruppo di ispirazione maoista e gira solo cine-tracts, cioè filmati militanti da proiettare nelle fabbriche e nelle università. Negli Anni 80 ritorna a fare cinema, crea altri scandali, riflette sulla vita, sulla politica e soprattutto sul cinema. E' sempre lucido, irriducibile, scostante. Quentin Tarantino lo omaggia chiamando Band à part la sua società e lui controbatte che Tarantino non gli piace per niente. 

Si congeda a novant' anni sui social, tenendo una sorprendente lezione di cinema su Instagram. Non è mai stato prigioniero del personaggio che gli hanno costruito intorno. Libero e selvaggio, come Belmondo che rifiuta la pistola che il complice gli offre e muore in Fino all'ultimo respiro davanti all'albergo dove si ritrovavano i surrealisti. Libero e selvaggio, e soprattutto sempre vent' anni davanti a tutti. 

Francesco Alò per “il Messaggero” il 14 settembre 2022.  

Nessuno l'aveva fatto prima. Cosa? Un uomo e una donna chiacchierano a un tavolino. Visto mille volte? Sì, solo che in Fino all'ultimo respiro (1960) Godard inventa in quella scena il jump cut, ormai abusato in tv e sul web dentro ogni monologo degli youtuber. È un'intuizione grammaticale semplice ma detonante in cui si taglia il discorso di un personaggio mantenendo l'inquadratura su di lui e dando così al parlato un ritmo sincopato a singhiozzo. Oggi lo vedete ovunque. 

L'ha inventato Godard al montaggio di Fino all'ultimo respiro nei primi mesi del 1960. Poi poco dopo, in quel decennio che lo consacra come innovatore del linguaggio, darà vita anche al musical realista d'ambientazione cittadina con personaggi fuori tempo e note «che scivolano dappertutto» per La donna è donna (1961; ispiratore di La La Land di Chazelle) nonché il falso documentario sulla vita di una prostituta (Questa è la mia vita 1962) che poco dopo Accattone di Pasolini è il primo film che non ha paura di affrontare tutti gli aspetti più squallidi del meretricio. Influenza il Bergman di Persona (1966) e poi il Martin Scorsese di Taxi Driver (1976).

 Il primo con la frammentazione del corpo femminile in Una donna sposata (1964), mentre l'italoamericano lo strega inquadrando una Parigi in ricostruzione in Due o tre cose che so di lei (1967), usato da Scorsese per spiegare ai suoi produttori le sequenze più alienate di Taxi Driver. Lo scorso dicembre siamo tutti impazziti per la capacità di Peter Jackson di recuperare e montare le sessioni dei Beatles in studio alle prese con l'ultimo album Let it Be (1970).  

Ebbene anche quel genere era stato inventato da Godard ben prima, quando filmò la noia del rock' n'roll spiando i Rolling Stones che componevano Sympathy for the Devil tra sbadigli e storielle sconce dentro il geniale One Plus One (1968). Ha insegnato come aggirare la produzione assumendo star da copertina (Brigitte Bardot per Il disprezzo e Jane Fonda per Crepa padrone tutto va bene) per poi avere maggiore libertà. 

È il papà del film con amanti criminali in fuga perché dai tempi di Fino all'ultimo respiro, in cui Jean-Paul Belmondo è inseguito dalla polizia mentre amoreggia con Jean Seberg a Parigi, quel filone è stato riletto più volte: da Gangster Story (1967) di Penn all'ultimo Bones and all (2022) di Luca Guadagnino passando per Cuore selvaggio (1990) di Lynch. Tutti gli dobbiamo qualcosa. Perché senza di lui brancoleremmo ancora nel buio, magari in cerca di un jump cut. 

Una vita e un cinema all’ultimo respiro. Chi era Jean-Luc Godard, addio al grande regista della Nouvelle vague. Angela Azzaro su Il Riformista il 14 Settembre 2022 

Jean-Luc Godard se ne è andato come ha vissuto. In maniera radicale. Libera. In Svizzera, dove viveva, è ricorso al suicidio assistito. Aveva 91 anni. La notizia della scelta del regista l’ha data il quotidiano francese Libération. Un suo amico ha spiegato: non era malato, era stanco. La vita l’ha vissuta intensamente, senza risparmiarsi. L’ha vissuta Fino all’ultimo respiro, titolo del suo primo lungometraggio, il suo primo grande successo. Film che è entrato nella storia del cinema insieme al suo regista, alla sua visionarietà polemica. Immaginatevi che cosa potesse essere Parigi negli anni Cinquanta.

In ogni angolo si sperimentava un pensiero, una filosofia, un’idea dell’arte. Un gruppo di giovani, tra cui Godard, Francois Truffaut, Jacques Rivette, Alain Resnais, Agnes Varda, si raccoglie intorno alla figura di Andrè Bazin e dà vita ai Cahiers du cinéma, come dire la Bibbia della settimana arte. Da quelle pagine parte la rivolta contro il cinema di papà. Basta con i cliché, con le frasi fatte, con gli studios, con la tradizione. Nel saggio Che cosa è il cinema? Bazin spiega che nell’immagine è contenuto un grano del reale, quel reale che il cinema di papà ha fatto sparire. Ma reale non significa naturalismo che anzi i nostri registi criticano aspramente: significa forma, montaggio, luci. È la rivoluzione attraverso il cinema. Con I quattrocento colpi di Truffaut (1960) e Fino all’ultimo respiro di Godard nasce la Nouvelle vague. Niente deve restare come prima, tutto deve cambiare. «Quando ho fatto Fino all’ultimo respiro – scrive Godard nella sua Introduzione alla vera storia del cinema – per me era il risultato di dieci anni di cinema. Fino allora avevo fatto dieci anni di cinema senza mai fare film, soltanto tentando di farne. Venivo da una grande famiglia borghese con la quale avevo rotto molto tardi ma in modo definitivo. Il che fa sì che l’unica differenza tra me e qualche mio attuale amico è che, quando vado in vacanza, non so da chi andare».

Così, nei primi anni della loro amicizia che poi si deteriora, lo ricorda Truffaut: «Non portava gli occhiali, aveva i capelli ondulati, era molto bello, di tratti molto regolari. Se si era a casa di amici, la sera, era facile che aprisse quaranta libri, guardando sempre la prima e l’ultima pagina. Era sempre molto impaziente, molto nervoso». Truffaut regala a Godard la sceneggiatura di Fino all’ultimo respiro. Poi lo scontro, l’odio, le frasi al veleno. A tal punto da dividere anche i cinefili. O si stava con Godard o con Truffaut. Il regista di film come Le petit soldat, Les carabiniers, Il disprezzo (da Moravia che fu un flop), Il bandito delle ore 11, La cinese, spara a zero contro il regista di Effetto notte. «Secondo me – scrive – c’è stata una frattura dopo I quattrocento colpi. E non so proprio come si sia prodotta. Si è fatto prendere dal cinema, e lui stesso è diventato tutto quello che detestava. A leggere i suoi articoli degli inizi e a vedere i suoi film si resta sbalorditi». E proprio su Effetto notte sentenzia: «Ciò che si spaccia agli occhi della gente per grande cinema, in realtà non è altro che piccolo cinema di provincia, al massimo piccola commedia di provincia; difatti è molto rispettato dagli americani…».

Per Godard il cinema non deve essere una macchina che mistifica, che inganna. La lettura di Marx lo spinge sempre più a chiedere al linguaggio cinematografi co la sfida di mettere in discussione il discorso dominante. Il cinema di Godard fin dall’inizio è fatto di sguardi in macchina, di una messa in gioco anche personale (contro l’autorialità borghese) e contro chi detiene il potere. Nel 1972 realizzata Crepa padrone, tutto va bene. Un titolo che se fosse proposto oggi farebbe scattare l’indignazione, la protesta, le crociate social. Allora, sulla spinta del Maggio francese, quel titolo era considerato normale, non c’era bisogno di fare tanti distinguo. Film flop ma che parla della lotta operaia, che tenta in tutti i modi di inserire il cinema in una battaglia che in tanti in quegli anni stanno combattendo. E il regista di Crepa padrone lo fa con lo strumento che meglio conosce: il cinema, la rottura, lo straniamento brechtiano, l’autore che Godard ama, legge, cita e che tanto gli assomiglia in quella volontà di cambiare il linguaggio e di stimolare il senso critico di chi guarda o legge. Non ci si adegua al mainstream, si sperimenta, si cerca, si osa, anche a costo di fallire, di collezionare insuccessi, fischi, polemiche. Godard non teme lo scontro, non teme di dare fastidio.

Forse l’ultima fase più in sintonia con il pubblico e con la critica è quella che vede i titoli come Prénom Carmen che nel 1983 vince il Leone d’oro, Je vous salue Marie (1985), Detective (1985). La sua visionarietà e la sua capacità di produrre trovano in seguito un nuovo alleato nella tv e nelle nuove tecnologie. Anche qui Godard non si rassegna al già visto: sperimenta, infastidisce, prende posizione. Come non amarlo quindi, come non preferirlo al regista che invece scriveva di amare le donne? Una delle compagne di Godard, Anne Wiasemsky, dopo essersi lasciati lo descrive come classista e narcisista. Ma una cosa è certa: è uno dei pochi registi della sua generazione che mette in scena il conflitto uomo-donna. Tanti i titoli. La donna è donna, La donna sposata, Il maschio e la femmina, Due o tre cose che so di lei. Materiali non per l’esaltazione del regista, ma per problematizzare, per capire, per non dare niente per scontato: neanche il rapporto tra i sessi. Oggi ripensando al suo cinema così estremo verrebbe la voglia di rinnegarlo, di scegliere Truffaut, il mondo sensuale de La signora della porta accanto.

Ma la sua morte, gli oltre cento fi lm che ci ha lasciati, la sua radicalità anche fastidiosa ci riportano a quella prima scelta di una contesa che era già un mondo. Sì, perché scegliere tra due registi, tra due idee di cinema, racconta un’epoca in cui non si dava niente per scontato. Un’epoca in cui attraverso il cinema e il suo linguaggio si voleva cambiare il mondo. Oggi non si vuole cambiare il cinema e neanche la realtà che ci circonda. Per questo Godard ci mancherà, perché non ci ha fatto sognare. Ci ha fatto pensare. Ci ha fatto anche disperare, sperare. E lo ha fatto con il montaggio, con le luci. Ritornano le parole del suo maestro Bazin: il cinema è realtà, ma lo è in quanto rappresentazione. Smascherare la finzione, farci vedere il punto di vista di chi osserva: non c’è lezione più valida per questo mondo dove si tende a presentare come neutre le immagini che ci arrivano attraverso tv e social. Godard spiega che non sono la verità, ma una verità. Quella di chi racconta.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cine

·         Morto il regista Alain Tanner. 

Marco Giusti per Dagospia il 12 settembre 2022.

Se ne va uno dei più importanti autori e registi del cinema svizzero, il ginevrino Alain Tanner, 83 anni, autore di film importanti come “Jonas che avrà vent’anni nel 2000”, “La salamandra”, “Gli anni luce”, “Charles mort ou vif” e “Il centro del mondo” (“Le milieu du monde”, 1974) celebre anche per gli spettacolari nudi della protagonista italiana, Olimpia Carlisi, allora musa sia di Benigni che di Fellini. Nato a Ginvera nel 1929, figlio d’arte, madre attrice e padre pittore, Tanner si lega da subito con Claude Goretta, altro nome storico della Nouvelle Vague svizzera, con il quale fonda un cineclub a Ginevra ancora ventenne. 

Dopo due anni passati nella marina mercantile, si sposta a Londra e lavora al British Film Institute. Alla fine degli anni ’50 realizza i suoi primi cortometraggi assieme all’amico di sempre, Claude Goretta, come “Nice Time (Picadilly la nuit)”, 1957, Negli anni’60 lavora alla tv svizzera e fonda con Goretta, Michel Soutter, Jean-Louis Roy e Jean-Jacques Lagrange il Gruppo dei 5. Un gruppo fondamentale per lo sviluppo del cinema svizzero moderno, come sarà fondamentale l’apporto del grande direttore della fotografia Renato Berta, legatissimo a Tanner e poi a Godard e a Martone. 

Dirige i suoi primi film alla fine degli anni ’60 e fanno subito il giro dei festival, “Docteur B., médecin de campagne”, 1968, “Charles mort ou vif”, 1969, con François Simon, “La salamandra”, 1971, scritto assieme al critico d’arte John Berger con Bulle Ogier e Jean-Luc Bideau, presentato a Cannes alla Quinzaine, “Le retour d’Afrique”, 1973, con Josée Destoop e le godardiane Juliet Berto e Anne Wiazemski. “Il centro del mondo”, 1974, scritto con John Berger, interpretato da Olimpia Carlisi, Philippe Leotard e Juliet Berto, fece molto colpo nel mondo dei giovani cinefili del tempo, perché già dal titolo girava attorno al corpo della nostra attrice. 

Più popolare ancora, anche grazie al titolo indovinatissimo e alla tematica, con quattro coppie di sessantottini che pensano a come sarà il futuro dei propri figli, “Jonas che avrà vent’anni nel 2000”, girato nel 1976, con Jean-Luc Bideau, Myryam Bouyer, Miou Miou, Raymond Bussières. Nel 2000 Tanner riuscirà a girared anche una sorta di sequel, “Jonas et Lila”, mai arrivato in Italia. 

Seguiranno poi “Messidor”, 1979, “Gli anni luce”, 1981, con Trevor Howard, Mick Ford, Bernice Stegers, che ritroveremo ne “La città delle donne” di Fellini, un film fortunato, premiato a Cannes con il Grand Prix Speicale della Giuria. E, ancora, “Dans la ville blanche”, 1982, con Bruno Ganz e Teresa Madruga, di produzione anglo-franco-svizzero-portoghese, “Terra di nessuno”, 1985, “Una fiamma nel mio cuore”, 1987, con Myriam Mézières, “La valle fantasma”, 1987, con Jean-Louis Trintignant e Laura Morante, “La ragazza di Rose Hill”, 1989, “L’uomo che ha perduto la sua ombra”, 1991, con Francisco Rabal, Angela Molina, Valeria Bruni Tedeschi. 

Attivo fino al 2004, data del suo ultimo film, “Paul s’en va”, Tanner scontò probabilmente il fatto di girare film in Svizzera, da dove non era semplice farsi vedere, ma ha dedicato tutta la vita a un tipo di cinema d’autore, molto legato alla Nouvelle Vague degli anni ’60 che non ha mai rinnegato. Oggi è in gran parte un regista poco noto, ma molti dei suoi film andrebbero recuperati. Come andrebbe studiato il suo rapporto con lo scrittore e critico d’arte John Berger, col quale ha scritto parecchi dei suoi più famosi 

·         Addio al giornalista Piero Pirovano.

Addio Piero Pirovano, mite gigante che ha sempre difeso la vita. Marco Bertola su Avvenire il 13 settembre 2022. 

Una celebrazione piena di vita per un cronista, animatore culturale e politico, protagonista dell’associazionismo cattolico, che alla causa della vita nascente ha dedicato tutto sé stesso, spendendo senza risparmio i suoi talenti comunicativi. Il funerale di Piero Pirovano, morto il 9 settembre a 81 anni, per decenni giornalista di «Avvenire» e tra i fondatori del Movimento per la Vita italiano, ha visto unirsi alla numerosa famiglia una piccola folla di amici nell’antica chiesa di Santa Maria in Calvenzano nella "sua" Vizzolo Predabissi, presenti una delegazione del MpV guidata dalla presidente di FederVita Lombardia Elisabetta Pittino e una rappresentanza del quotidiano dei cattolici. Un rito semplice e commosso, nel quale sono stati ricordati l’impegno instancabile di Pirovano per la promozione della vita e della maternità. Piero non sembrava far più caso ai tanti acciacchi degli ultimi anni, battendosi sui fronti di sempre non appena riusciva a rimettere insieme un po’ di energie. Un testimone della passione capace di muovere una vita intera quando c’è di mezzo la dignità umana. Lascia la testimonianza della dedizione a una chiamata, senza mai tirarsi indietro. (Francesco Ognibene) 

Impossibile ricordare Piero Pirovano, mancato sabato 9 settembre a 81 anni, senza riandare con la memoria a quell’immagine che lo ritrae, nel maggio 1979, su un palco al Castello Sforzesco di Milano al fianco di Madre Teresa di Calcutta. Quasi impossibile, del resto, era dialogare con lui senza che venisse fuori il ricordo di quell’incontro: a casa sua la frugale cena con una piccola suora che avrebbe ricevuto il Nobel per la Pace e sarebbe stata proclamata santa. E che, come lui, metteva il diritto alla vita in cima a tutto e considerava l’aborto «il più grande distruttore della pace».

Giornalista (un’intera vita professionale vissuta nella redazione di questo quotidiano), militante politico nella Democrazia Cristiana milanese e consigliere comunale nel suo piccolo comune, promotore di innumerevoli iniziative. Soprattutto, tra i fondatori, con Carlo Casini, del Movimento per la Vita e strenuo promotore e animatore dei Centri di Aiuto alla Vita, che definiva «avamposti per il sostegno concreto alle mamme in difficoltà». Un impegno - possiamo dire una vocazione - che aveva mosso Piero fin dagli anni ’70, e che ne ha contraddistinto l’intera attività, giornalistica, politica e sociale.

Mite e bonario, generoso nell’impegno, sempre pronto alla battuta, diventava un gigante (anche in forza della notevole stazza fisica) solo quando si trattava di difendere la vita nascente, in una chiacchierata tra colleghi, in un’importante sede politica o in un dibattito pubblico, magari in… campo avverso. Ad Avvenire Piero ha lavorato nella redazione Interni ma soprattutto nella Cronaca di Milano, dedicandosi poi ai servizi speciali. Ma c’è un "filo rosso" che percorre l’intera sua presenza professionale, e che è proseguito come impegno anche dopo il pensionamento: la "Pagina Vita" che, con dedizione assoluta, ha curato per innumerevoli anni. Ancora qualche settimana fa, nonostante la salute gli procurasse da tempo seri grattacapi, telefonava in redazione per ricordare l’appuntamento periodico con quella presenza, che a ragione considerava "sua", e per assicurarsi che ci fosse chi se ne prendesse cura. Quasi come una delle piccole creature in nome delle quali si è battuto per decenni su mille fronti; come quei "piedini preziosi", riprodotti in dimensione reale, diventati una spilla da portare sulla giacca, in memoria di tante vite mai sbocciate e monito per chi, allora come oggi, parla di "diritti" ribaltando la realtà e la logica.

«Fedele e coerente nel suo costante impegno», è l’immagine con cui il Movimento per la Vita lo ricorda oggi, sottolineando come abbia dedicato a quella causa «con generosità e umiltà gran parte delle sue risorse intellettuali». C’era una buona battaglia da sostenere, e lui ha combattuto. In prima fila, senza tentennamenti. Se le buone cause hanno bisogno di testimoni credibili lui lo è stato, fino alla fine. Per la vita. 

·         E' morto il fotografo William Klein.

E' morto William Klein, l'anti-fotografo americano. Redazione cultura su La Repubblica il 13 settembre 2022

Anticonformista e grande sperimentatore anche nel campo dell'arte e del cinema, si è sempre sentito un outsider. Collaborò con Fellini a "Le notti di Cabiria". Aveva 96 anni. La Repubblica il 13 settembre 2022

E' stato scultore, pittore, regista e fotografo, sempre all'insegna dell'anticoformismo. E' morto all'età di 96 anni William Klein, l'uomo che ha rivoluzionato la fotografia con le sue immagini della violenza delle città durante una lunga carriera che ha abbracciato anche la moda e il cinema. "E' morto serenamente", ha dichiarato il figlio che ha dato l'annuncio della scomparsa.

Nato il 19 aprile 1928 a New York da una famiglia ebrea ortodossa, Klein trascorse la sua infanzia a a New York, dove ebbe modo di sperimentare sulla sua pelle l'antisemitismo che negli anni '30 dilagava anche negli Stati Uniti. Amante dell'arte sin da giovane, dai 12 anni è assiduo frequentatore del MoMA che fu praticamente una sua seconda casa, rifiuta la cultura di massa e a 18 anni si arruola nell'esercito americano come radio operatore, prima di concludere gli studi. E' durante il servizio militare infatti che scopre l'Europa. Nel 1948 si iscrive alla Sorbona di Parigi dove studiò con Fernand Leger che incoraggiava i propri studenti a rifiutare e sovvertire il conformismo e i valori borghesi che dominavano il mondo dell'arte.  

In quegli anni William Klein si sposa con Jeanne Florin e decide di stabilirsi a Parigi. E proprio in questi anni parigini sperimenta nella scultura e nella pittura, ispirandosi alla Bauhaus, a Mondrian e a Max Bill. Contemporaneamente inizia a sperimentare anche con il mezzo fotografico e si guadagna l'appellativo di "anti-fotografo". Considerato una delle figure più anticonformiste della fotografia americana del dopoguerra, si è sempre sentito un outsider. La sua opera opere mina alle basi l'oggettività della fotografia, sovvertendone i canoni consolidati. Proprio nel periodo in cui lo sguardo di Henri Cartier-Bresson dettava legge, Klein si dedicava a una sperimentazione che ribaltava ogni regola di composizione, messa a fuoco e qualsiasi altra tecnica fotografica. "Mi piacciono le foto di Cartier-Bresson, ma non mi piace il suo insieme di regole. Così le ho invertite. Penso che la sua visione della fotografia, che deve essere obiettiva, sia una sciocchezza", affermava pur avendo - curiosamente - scattato molte delle sue foto proprio con una macchina fotografica comprata da Cartier Bresson, mostrando quanto in fotografia autori differenti possano dare risultati completamente diversi utilizzando lo stesso mezzo.

Le sue immagini non sono quasi mai pulite e ordinate, eppure hanno una carica e una vitalità che sconvolse un'intera generazione di fotografi. Qualsiasi cosa fosse considerata "errore" dal mainstream fotografico del tempo, Klein riesce a trasformarlo in nuovo metodo espressivo: "Per me, fare una fotografia era fare un'anti-fotografia".

Come regista realizzò oltre 20 film, fra cui il primo documentario in assoluto su Muhammad Ali, ma soprattutto collaborò con Fellini a Le notti di Cabiria.

Marco Belpoliti per doppiozero.com il 16 settembre 2022. 

Tre sono i grandi maestri di quella che è stata chiamata Street photography: Walker Evans (1903-1975), Robert Frank (1924-2019) e William Klein (1928-2022).  Il primo era un aspirante scrittore volto poi alla fotografia; il secondo un fotografo di moda – se ne è andato tre anni fa –;  il terzo, Klein, ci ha lasciati l’altro giorno: era un pittore, o almeno così aveva cominciato. Tre autori, insomma, entrati per vie diverse nella storia della fotografia, portatori di una novità visiva che proveniva da altri ambiti.

Nel 1948 il newyorkese Klein, figlio di una famiglia di immigrati ungheresi, arriva a Parigi per studiare pittura. Tra i suoi maestri c’è André Lhote, pittore, con cui avevano studiato diversi artisti poi diventati celebri, e, tra questi, Cartier-Bresson che alla fine della sua carriera tornò alla pittura, rovesciando il cammino di Klein, che a ragione veduta possiamo considerare la sua antitesi: tanto formale è la fotografia del francese, tanto sformata e aggressiva quella dell’americano. 

Klein non è solo un fotografo; anzi, a rigore non lo è affatto: usa la fotografia per dipingere, per scrivere, per graffiare, per impaginare e per ritrarre. Fotografo contro la fotografia, quella letteraria, in posa, che vuole raccontare il mondo attraverso la notizia, il contesto, l’avvenimento o l’incidente.

Klein, invece no: la sua è una action-photography, come scrive Alain Sayag nel catalogo di una grande mostra di qualche anno fa (William Klein, Éditions du Centre Pompidou et Éditons du Marval), anche questo un oggetto ben diverso da quello dei suoi colleghi, simile ai tanti cataloghi irreverenti che ha prodotto nella sua lunga carriera.

Nell’opera dell’artista americano, che per altro iniziò studiando sociologia per fare poi l’assistente a Parigi ad artisti come Léger, domina una fluidità assoluta, una forma di scorrimento, come se il mondo non fosse altro che superficie disposta su un solo lato dello spazio, e come se l’occhio del fotografo (ma anche del cineasta o grafico o pittore o impaginatore, tutte figure presenti in lui) un obiettivo di vetro sempre aperto, pronto a catturare ogni viso, muro, oggetto, vetrina, corteo o palazzo che gli si para davanti. Basta riguardare oggi Roma (1958) e Mosca e Tokyo (1964). 

Se Walker Evans fa carezze al mondo, come è stato detto da Luigi Ghirri, Klein sembra prenderlo a schiaffi, così da trascriverne il movimento insensato quasi l’avesse provocato il suo occhio di vetro: la fotografia come choc. Ma al tempo stesso la sua arte è anche chic. Così che si può dire che il suo sia lo chic dello choc.

In un testo per Close Up (1989) Klein ha definito le proprie immagini: “Lo choc di Match più lo chic del Bauhaus”. Giusto. Ma è vero solo in parte. Chi ha avuto tra le mani gli splendidi libri consacrati alle città (Parigi, New York, Roma, Tokio, Mosca), sa che lo chic di Klein tende al glamour, senza raggiungerlo mai, e tuttavia lo sfiora, lo corteggia, lo insegue, ma poi si ferma un attimo prima di caderci dentro. David Campany, scrittore, curatore, ma anche artista, in una delle pagine del suo libro Sulle fotografie (Einaudi) si sofferma su un celebre servizio di moda di Klein: Fashion del 1959 per “Vogue”. 

Il lavoro per la rivista patinata viene tre anni dopo Life in Good & Good for You in New York: Trance, Witness, Revels, libro fotografico che rivoluzionò il genere e mostrò una città meravigliosa e insieme crudelissima. Se questo volume va “contro ogni regola del buon gusto”, il servizio di moda che imbastisce sul tetto di un palazzo crea un altro spiazzamento. Siamo nello chic, ma non è quello di Avedon, contro cui fotografa Klein, con il suo formalismo da studio – è il Cartier-Bresson della moda, americano tanto quanto Klein è francese. 

Qui niente ritratti: il gruppo delle modelle, bellissime ed eleganti, è squadernato sul tetto piatto dell’edificio, due di loro tengono in mano uno specchio, così l’immagine risulta moltiplicata: sono tre mannequin, ma se ne vede una quarta nel riflesso, che non c’è, o è lì accanto.

L’inesistenza della moda e insieme la sua esistenza: è l’immagine. Poi Klein fa scendere le ragazze per strada con i loro specchi, “improvvisando pose ironiche, moltiplicando lo spettacolo di cui si prendono gioco”. Klein sa bene che cosa è il gioco della moda: futile, ma serissimo. Ama questa futilità, come accade a un pittore che per dipingere deve usare sia il serio che il faceto, il futile e il grave, l’allegro e il doloroso. Il gioco della moda, come ricorda Campany, lo giocava benissimo. Sulle pagine di “Vogue” il servizio sembrò una parodia ma ebbe un immediato successo. Il che la dice lunga su cosa è la moda come immagine. 

Nelle sue fotografie, sfuocate, in movimento, dettagliate, parziali e insieme generali, non c’è dramma o tragedia, piuttosto il loro contrario: il magma della visione caotica che non discrimina se non sé stessa. Quello che resta della lezione della “scuola superiore della forma” di Weimar, da cui viene la sua ispirazione, è semmai l’inquadratura innovativa di Feininger, quella di La cima delle scale vista attraverso l’occhio dell’obiettivo (1925-30), non il rigore formale o il piacere del montaggio e del collage disassato, sbilenco, trasversale, eppure sempre in equilibrio della Bauhaus. 

Klein è dotato di sguardo eccessivo, non certo problematico. Nessuna delle sue fotografie, impaginate senza cornice, senza margine, spesso spezzandola a mezzo per metterla in pagina (i suoi libri sono sempre innovativi nel lay out), si trasforma in documento: attimi estetici tagliati via nel flusso caotico del reale. 

L’ex pittore tende alla ripetizione, rifà la medesima inquadratura, la reitera più volte con disinvoltura, e gli riesce; usa il jump cut tipico dei fumetti, come scrive Quentin Bajac in quel catalogo della esposizione al Centre Pompidou. La sua mano salta, sobbalza, scarta; oppure è la realtà a farlo, perché la realtà non è mai ferma se non nelle immagini degli altri fotografi. Quella di Klein è un’arte gestuale che vira verso il grafismo, come se il mondo fosse un cartellone pubblicitario, una superficie di carta su cui operare continui décollages. Il giovane Klein, pittore negli anni Cinquanta, collaboratore di Mangiarotti per pitture murali, autore di alcune delle più belle copertine di Domus, aiuto regista di Fellini – lo aveva voluto come assistente alla regia per Roma, ma non gli fece fare nulla, o almeno così si tramanda nella leggenda felliniana –, oltre che fotografo stabile di  Vogue (è Liberman ad averlo scoperto come fotografo per riprendere New York), si è sempre posto un solo problema: come fotografare senza fare della fotografia?

Le sue sono scene grafiche in cui il mondo esterno appare sotto forma di Remix: registrare su un unico nastro, mescolando suoni e colori, dialoghi e musica, movimenti e segni. Un’operazione di secondo livello, perché l’impaginazione, come la stampa delle fotografie, è per lui remixaggio, tema su cui ha qualcosa da dire ancora oggi e di cui è stato un autorevole esponente. Cos’altro sono i Contacts Peints, dove i fotogrammi sono ridipinti, biffati, giustapposti, se non questo? In quella grande mostra parigina, in cui la sua città di imprinting lo celebrò anni fa, era esposto il lavoro a cui Klein s’era dedicato a partire dalla metà degli anni Novanta: pittura e fotografia, disegno in bianco e nero e colore acceso. Per dirla con una formula: Warhol e insieme la Farm Security Administration. Avrà imparato da lui il giovane cecoslovacco degli inizi, vetrinista di talento, oltre che da Saul Steinberg, altro maestro segreto di quella New York anni Cinquanta?

La grande bravura di Klein è quella di farci percepire il proprio  sguardo come naturale, rovesciando le nostre attese, muovendo la macchina e tenendo fermo l’occhio, o agendo al contrario. Il risultato è qualcosa di non-visto, meglio: di appena visto, forma fluens. La sua capacità di essere sempre in movimento è stata divorata dalla moda, di cui è il fortunato beniamino. Perché la moda, la realtà più costruita e manipolata che vi sia, ha bisogno continuamente di sembrare naturale, leggera, immediata, come appare in Fashion. Klein ne è uno dei profeti, il più convincente tra i grandi fotografi del glamour, perché non è mai solo un fotografo, ma appunto qualcosa d’altro. Lo dimostrano i suoi film. Nel 1966 girò Who Are You, Polly Maggoo?, film considerato “la miglior descrizione dell’assurdità seducente della moda” (Campany). Qui la sua diversità, la sua bulimia del reale, raggiunge l’apice insieme alla naturale inclinazione al grottesco.

Ed è nel cinema che il suo sincretismo raggiunge l’apice e ci fornisce, per paradosso, una visione del reale per nulla acquietata o irenica. Con il suo Mister Freedom del 1967-68 (ampiamente copiato da Mattew Barney nei suoi video) produce il fumetto dell’America imperale dell’ultimo quarantennio, mentre con Muhammad Alì the Greatest (rifacimento nel 1974 del film girato nel 1964-65) porta il cinema d’avanguardia dentro il documentario sociale, come confermano le opere cinematografiche sulle Black Panters, sul Festival delle culture panafricane e Grands soirs & petits matins sul Maggio 68 al Quartiere Latino.

Klein rivoluzionario? Sì, ma prima di tutto del gusto. Congedandosi da lui non si può fare a meno di pensare che anche la rivoluzione è, alla fin fine, un fatto estetico e che, caduta l’etica che la sosteneva, ciò che ne resta è un carnevale colorato di cui William Klein è stato, e resta, l’energetico e inesausto ritrattista. Vale Gran Maestro dello spettacolo del mondo!

·         È morto lo scrittore Javier Marias.

Da corriere.it l'11 settembre 2022.

È morto lo scrittore spagnolo Javier Marías. Era nato a Madrid, 20 settembre 1951 era anche traduttore, giornalista e saggista. Il suo libro più recente era Tomás Nevinson, uscito quest’anno da Einaudi. 

Aveva ricevuto importanti premi internazionali tra cui il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane, il premio Rómulo Gallegos, il Prix Femina Etranger e il 2011 ha ricevuto inoltre il Premio Nonino.

Figlio del filosofo spagnolo Julián Marías ha trascorso parte dell’infanzia negli Stati Uniti, dove il padre insegnava. Lo scrittore si è laureato in Letteratura inglese, ha lavorato come traduttore, collaborando con diverse testate. Tra il 1983 e il 1985 ha insegnato Letteratura spagnola e teoria della traduzione in Gran Bretagna (Oxford University) e negli Stati Uniti (Wellesley College, Massachusetts). 

In Italia i suoi libri sono pubblicati da Einaudi, tra questi ricordiamo: la trilogia Il tuo volto domani, Gli innamoramenti, I territori del lupo (romanzo d’esordio del 1971), Il secolo (uscito in Spagna nel 1983, tradotto nel 2013), Mentre le donne dormono, Così ha inizio il male, Berta Isla. Con questo romanzo uscito nel 2018 Marías ha vinto il premio della Classifica di qualità de «la Lettura».

Javier Marías, il racconto alla sua massima potenza. È stato un grande sperimentatore della forma romanzo. Bestsellerista mondiale, amava l'Italia. Gabriele Morelli il 12 Settembre 2022 su Il Giornale.

È scomparso dopo una breve malattia il noto scrittore spagnolo Javier Marías (aveva 70 anni), figlio del grande filosofo Julían Marías, discepolo di Ortega y Gasset, la cui opera illustra il momento della tematica storica dell'antifranchismo e il rifiuto delle problematiche nazionali a favore dello sviluppo del romanzo moderno. Javier visse con il padre un anno nel Massachusetts, dove abitò accanto a Vladimir Nabokov. Tornato poi in Spagna, insegnò all'Università Complutense di Madrid e anche ad Oxford, dedicandosi contemporaneamente alla scrittura e alla traduzione; per quest'ultima ottenne nel 1979 il Premio nazionale di Traduzione, mentre nel 2012 ha ricevuto il Premio nazionale per il libro «Los enamoramientos» che tuttavia ha rifiutato. Il suo nome in questi ultimi anni è stato proposto per l'assegnazione del Premio Nobel.

La produzione di Marías è segnata da un continuo processo sperimentale, evidente già nel primo libro, I territori del lupo, pubblicato a soli 19 anni, la cui la storia si svolge negli Stati Uniti ed è un omaggio al cinema americano. La ricerca continua in Traversare l'orizzonte (1972), in cui si avverte l'influenza del romanzo inglese di avventura, in particolare le opere di Robert Louis Stevenson e Joseph Conrad.

Al contrario il Monarca del tempo (1978) propone materiali dispersi, quali racconti, un'opera teatrale e un saggio sul Giulio Cesare di Shakespeare. Seguono altri libri di chiaro impianto introspettivo che prevale sulla trama, privilegiando l'analisi interiore con giochi spazio-temporali per costruire il racconto.

Ricordiamo altri libri: L'uomo sentimentale (1986) e Domani nella battaglia pensa a me (1994), quest'ultimo tratto dal Riccardo III del drammaturgo inglese, dove l'autore si serve di archetipi letterari per esplorare diversi stati d'animo che proiettano sdoppiamenti dell'io alla ricerca di una verità esistenziale; operazione che continua e approfondisce nella trilogia di successo Il tuo volto domani, una biografia convulsa dell'ambiente accademico di Oxford, in cui la scrittura inventa una realtà inesistente o presente solo nella mente dello scrittore: un ciclo narrativo che mostra una continua ambiguità con la quale Marías afferma la sua ricerca interiore. Un tracciato compositivo in cui lo scrittore interroga figure e storie, in particolare quelle ambientate durante la guerra civile spagnola con tutti i suoi errori e orrori; spesso attinge a materiali personali (foto, lettere, diari), che danno concretezza al flusso della finzione affermando figure concrete in cui l'io si riconosce.

Seguono altri grandi successi come Berta Isla (2017), ambientato a Madrid e Oxford negli anni Settanta, che ripropone personaggi già presenti ne Il tuo volto domani: è la storia di Berta e il marito che vivono una relazione incerta, segnata da segreti e infingimenti e dove i diversi punti di vista presenti nell'uso della prima e della terza persona gettano dubbi sul valore delle istituzioni ufficiali, quali la patria, la guerra e il matrimonio. Ultimo in ordine tempo Tomás Nevinson (2021), che segue le vicende del marito di Berta, il quale torna nei servizi segreti dopo esserne uscito.

Il legame dello scrittore con il romanzo più che un vincolo è uno schermo, poiché il protagonista dei suoi libri non è mai reale; è un personaggio che cambia con il tempo, rinasce, cancella il passato e torna a vivere nel presente. In ogni situazione della vita esiste per Marías una serie infinita di possibilità che non si avverano, ma esistono in quanto potenzialità latenti del vivere umano: l'autore vuole rappresentarle, dialogare con esse poiché sono innumerevoli forme e aspetti differenti dell'esistenza. A questo proposito, in un'intervista rilasciata alla sua maggiore studiosa Elide Pittarello, raccolta nel libro Voglio essere lento (Passigli, 2010), lo scrittore ha detto: «Io credo che siano le vite che si potrebbero anche avere, che si sarebbero potute avere. Quasi sempre sono cose che si sarebbero potute fare, sia pure in modo immaginario». Appunto immaginario, ma non fiabesco, è il mondo narrativo di Marías che rifiuta l'esperienza pragmatica della vita mentre predilige le esistenze fragili e persino contraddittorie, dove meglio egli si specchia e rappresenta. Una scrittura, la sua, che indaga e illustra le varie situazioni dell'esistenza umana, e ciò spiega il rifiuto dell'autore non solo a restituire spaccati realistici di vita o di storia ma al contrario, come ha confessato, a proporsi come un fantasma: «un morto che racconta la storia ormai al sicuro che non gli possa capitare più niente e allo stesso tempo con la conoscenza piena di ciò che è successo e in grado di raccontarlo con quel senso di adeguamento di chi ormai non può più cambiar le cose, di chi non può più intervenire». Insomma, più che rappresentare, a Marías interessa soprattutto indagare, cercare le infinite e contraddittorie presenze dell'io in storie sempre possibili nella vita dell'uomo.

A conclusione, ricordiamo ancora il legame profondo che ha sempre unito l'autore con l'Italia, dove ha avuto numerosi lettori e importanti riconoscimenti. «L'Italia ha scritto l'ho sempre sentita vicina e la trovo abbastanza imparentata con la Spagna. Se qualcuno mi domandasse qual è il paese che somiglia di più al mio, direi che è l'Italia... In Italia mi sono sempre sentito quasi come a casa».

Il suo lavoro è stato tradotto in quarantaquattro lingue. È morto Javier Marias, lo scrittore aveva 70 anni: “La sua opera lo manterrà vivo nel nostro ricordo”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'11 Settembre 2022 

È morto lo scrittore Javier Marias, uno dei romanzieri più celebri della storia della letteratura spagnola. Lo conferma il ministro della Cultura spagnolo Miquel Iceta. Aveva 70 anni. Lo scrittore, tradotto in tutto il mondo, sarebbe morto per le conseguenze di una polmonite. Tra i maggiori autori spagnoli contemporanei, era nato a Madrid il 20 settembre del 1951.

Laureato in filosofia ha raggiunto il successo internazionale nel 1992 con Un cuore così bianco, a cui seguono opere come Domani nella battaglia pensa a me, Quando fui mortale, L’uomo sentimentale, fino al più recente Tomas Nevinson. Romanzi e racconti con cui ha vinto i maggiori premi letterari europei come il Premio nazionale di narrativa spagnolo, il Romulo Gallego, Premio Internazionale Impac di Dublino e il Premio letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

L’ultimo in ordine di tempo, a giugno, il premio Gregor von Rezzori. ”Un libro alla volta, Javier Marias – si legge nella motivazione di quel riconoscimento – ha dimostrato che il romanzo ha ancora il potere di piegare questo ritmo del mondo, farlo rallentare fino quasi a fermarlo. Ma non è solo una questione di ritmo e neppure il semplice desiderio di andare controcorrente. È invece la necessità di un tempo diverso, il tempo necessario per scavare più a fondo, quasi un monito che ci ricorda di continuare a coltivare i pensieri larghi”.

Maria oltre che scrittore è stato anche traduttore e giornalista. Oltre ai romanzi ha pubblicato anche tre raccolte di racconti e vari saggi. Il suo lavoro è stato tradotto in quarantaquattro lingue e ha venduto oltre otto milioni e mezzo di copie a livello internazionale. Marías ha studiato filosofia e letteratura all’Università Complutense di Madrid prima di insegnare in diverse università, tra cui la sua alma mater, le università di Oxford e Venezia e il Wellesley College nel Massachusetts.

La notizia della sua morte è stata data in anteprima dal quotidiano Abc. “È un giorno triste per la letteratura spagnola”, ha scritto su Twitter il premier Pedro Sanchez, “Javier Marias era uno dei grandi scrittori del nostro tempo”. “Riposi in pace. La sua opera lo manterrà vivo nel nostro ricordo”, ha aggiunto il ministro della Cultura spagnolo, Miquel Iceta.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Morto lo scrittore spagnolo de «Gli Innamoramenti» Javier Marías. Figlio del filosofo Julián, aveva ricevuto in carriera importanti premi internazionali tra cui il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno l'11 Settembre 2022.

E’morto lo scrittore Javier Marias. Lo conferma il ministro della Cultura spagnolo Miquel Iceta. Era nato a Madrid il 20 settembre 1951. Marias, oltre ad essere scrittore, era traduttore, giornalista e saggista. Il suo libro più recente era Tomás Nevinson, pubblicato quest’anno da Einaudi: nel romanzo torna il coprotagonista del precedente libro, Berta Isla.

Marías aveva ricevuto in carriera importanti premi internazionali tra cui il Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane, il premio Rómulo Gallegos, il Prix Femina Etranger; nel 2011 aveva ricevuto inoltre il Premio Nonino.

Figlio del filosofo spagnolo Julián Marías, Javier ha trascorso parte dell’infanzia negli Stati Uniti, dove il padre insegnava. Lo scrittore si è laureato in Letteratura inglese, ha lavorato come traduttore, collaborando con diverse testate. Tra il 1983 e il 1985 ha insegnato Letteratura spagnola e teoria della traduzione in Gran Bretagna (Oxford University) e negli Stati Uniti (Wellesley College, Massachusetts).

In Italia i suoi libri sono pubblicati da Einaudi, tra questi ricordiamo: I territori del lupo (romanzo d’esordio del 1971), Il secolo (uscito in Spagna nel 1983, tradotto nel 2013), Mentre le donne dormono, Il tuo volto domani, Gli innamoramenti, Così ha inizio il male e Berta Isla. 

 

·         E’ morto il giornalista Roberto Renga.

Da fanpage.it l'11 settembre 2022.  

"Non posso lamentarmi. Sono stato molto amato e molto odiato. Il mio perdono a tutti meno tre". Roberto Renga è morto oggi ma aveva lasciato da tempo in custodia ai suoi cari il tweet da pubblicare nel giorno del suo decesso. Una sorta di epitaffio social pensato un anno fa e messo nel cassetto, pronto per quando quel momento sarebbe arrivato. Lottava da tempo con un brutto male che se l'è portato via a 76 anni. 

Tre frasi semplici, dirette, per raccogliere una vita e una carriera. Inviato per ben sette mondiali, altrettante edizioni degli Europei, due Coppe d’Africa, una Coppa America, i Giochi Olimpici in Australia. Poche parole per sintetizzare tutta una vita che trovano conferma e spiegazione in un altro post del figlio, Francesco. "Papà ci ha lasciati nel pomeriggio di oggi. Il suo ultimo tweet è postumo, pensato un anno fa. Data e luogo dei funerali saranno comunicati nella giornata di domani".

Giornalista, appassionato di sport e di calcio. Volto popolare della TV, voce che in radio ha alimentato dibattiti alla sua maniera, in punta di penna e di (lingua) polemica mai fine a se stessa. Le colonne de Il Messaggero sono state la sua tribuna scoperta, il luogo dove parlare/ragionare/riflettere con dovizia di particolari. Le pagine dei libri hanno alimentato la fantasia, l'abilità e l'originalità dello scrittore. Tra questi il ricordo va in particolare a ‘Una storia nazionale. Quattro stelle, qualche flop. Un secolo d'Italia in azzurro' e ‘La partita del diavolo' editato insieme a Chiara Bottini. Un titolo che diceva (e dice) tutto e introduceva la narrazione della tragedia dell'Heysel. 

Toccante il ricordo di Antonello Valentini, ex capo ufficio stampa della Nazionale e poi direttore generale della FIGC: "L’ho sentito fino a qualche giorno fa, la notizia della sua scomparsa mi travolge e mi emoziona molto.

In un giornalismo sempre più codino e compiacente, mancheranno il suo rigore professionale, la caccia alla notizia, la difesa delle proprie idee, la capacità di confrontarsi senza scorciatoie e convenienze. E senza riserve mentali. Ciao Roberto, con te se ne va anche un pezzo della storia della Nazionale italiana e quindi della storia professionale che abbiamo condiviso per qualche decennio".

·         Morto il latinista Franco Serpa.

Morto Franco Serpa, la conoscenza come stile di vita. ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA su Il Corriere della Sera il 9 settembre 2022.

Di Franco Serpa, spentosi la notte del 9 settembre a Roma, altri dirà delle doti di latinista e cattedratico di vaglia, della profondissima conoscenza che egli possedette della cultura del decadentismo europeo e del suo mondo in specie tedesco, altri dirà della sua passione sconfinata per la musica; come altri ricorderà i rapporti di amicizia e di intrinsichezza intellettuale che ebbe con figure centrali della scena artistica italiana e non, da Elsa Morante a Ingeborg Bachmann al compositore Hans Werner Henze. Chi invece, come chi scrive, lo incontrò giovane professore di liceo e poi lo conobbe più da vicino diventandone amico e frequentandolo assiduamente per un tratto di anni, oggi ricorda e rimpiange altro. Ricorda quanto gli deve e ciò che egli fu per tanti come lui.

In Franco la cultura era una passione e un abito di vita, un alimento necessario dell’anima. E questo sentimento che gli bruciava dentro era capace come nessun altro che io abbia conosciuto di trasmetterlo anche nella conversazione apparentemente più banale, in una battuta di spirito o in un’osservazione svagata. Franco leggeva e spiegava un passo di greco o di latino con una immedesimazione e, vorrei dire, un pathos che rendevano quasi palpabile quella dimensione chiave della cultura che è l’immortalità di un testo. E per questo era un insegnante sommo. Ma anche perché insegnava non solo e non tanto dalla cattedra — dalla quale non tollerava il minimo segno d’indisciplina — ma testimoniando con la sua persona in ogni gesto e in ogni parola. Insegnava quasi di più fuori dall’aula quando ricordava il tema di una sinfonia o un libretto d’opera, citando il titolo di un libro o un verso di Orazio. E come accade solo ai veri maestri i suoi allievi, mentre apprendevano, provavano verso di lui qualcosa che assomigliava ad una sorta di affascinato desiderio di emulazione. Perfino nel suo stesso modo di muoversi, nel suo abbigliamento pur normalissimo e nei tic che aveva come ognuno di noi essi cercavano in qualche modo di rispecchiarsi in lui. E anche per ciò molti sentono che con la sua morte se ne va pure una parte di loro stessi.

·         E’ morto l’attore Claudio Gaetani.

Malore in strada, morto l’attore Claudio Gaetani. Giampiero Casoni il 08/09/2022 su Notizie.it.

Civitanova Marche piange un personaggio che aveva coniugato cinema, passione politica e docenza universitaria, è morto a 46 anni l’attore Claudio Gaetani 

Brutte notizie dal Regno Unito, per gli abitanti di Civitanova Marche, per il mondo del cinema e dell’arte e per la politica impegnata: a seguito di un malore in strada è morto l’attore Claudio Gaetani. Il 46enne interprete marchigiano era a passeggio nelle vie di Londra quando un infarto lo ha stroncato.

Gaetani era un esponente di spicco del mondo della cultura e a Civitanova Marche era amatissimo per la sua capacità di comunicare e per il suo indiscusso talento. 

È morto l’attore Claudio Gaetani

Gaetani era stato uno straordinario burattino “Arlecchino” nel “Pinocchio” di Matteo Garrone, in cui aveva recitato a fianco di Roberto Benigni e Gigi Proietti. In questi giorni l’attore 46enne era impegnato nel ruolo di protagonista del nuovo spettacolo, “L’ombra lunga del nano”.

Da domenica scorsa Gaetani era a Londra per stare con la compagna. A Civitanova Claudio era anche un impegnato presidente dell’Anpi cittadina, incarico questo che, come ricorda Il Resto del Carlino, “aveva ereditato dalla mamma Annita Pantanetti, morta due anni fa, e che ha portato avanti con la volontà di tramandare i valori della Resistenza nel solco del dialogo con tutti”. 

Il cordoglio del rettore Adornato

Il 46enne era un esperto di cinema e docente all’Università di Macerata, il cui rettore Francesco Adornato ha voluto esprimere cordoglio a nome suo e dell’ateneo: “Ci ha lasciati troppo presto.

Esperto di cinema, attore regista, ha collaborato per molti anni con l’Università di Macerata proprio sui temi del linguaggio cinematografico, coinvolgendo con la sua passione, l’entusiasmo e la competenza tanti studenti e studentesse che continueranno a custodire e a far vivere i suoi insegnamenti”. 

·         È morto il regista Just Jaeckin.

Da editorialedomani.it l'8 settembre 2022.

È morto il regista francese Just Jaeckin, conosciuto soprattutto per aver diretto Emmanuelle con Sylvia Kristel (nel 1974), uno dei film erotici più famosi di sempre. È stato anche il regista di altri film di successo, come Histoire d’O con Corinne Clery e L’amante di Lady Chatterley. Aveva 82 anni. 

Il suo agente ha confermato che è morto in Bretagna dopo una lunga malattia, circondato dalla moglie Anne, una scultrice, e dalla figlia Julia, una fotografa. Da tempo Jaeckin si era dedicato all’arte, in particolare con una galleria nel centro di Parigi.

I film

Jaeckin ha iniziato la sua carriera come fotografo di moda, esordendo alla regia proprio con Emmanuelle, ispirato all’omonimo libro di Emmanuelle Arsan. Il film ha registrato un successo tale che ha dato seguito poi a una serie di altri film (con altri registi). 

È la storia di una giovane francese colta che viaggia verso la Thailandia per raggiungere il marito diplomatico. E nel frattempo si lascia andare a una serie di altre esperienze sessuali.

Anche il film successivo, del 1975, è nello stesso filone. Histoire d’O è la storia di una giovane fotografa, interpretata da Corinne Clery, che viene condotta in un castello dal suo amante (interpretato da Udo Kier) e iniziata al sadomasochismo. È poi tornato a dirigere Sylvia Kristel in L'amante di Lady Chatterley (1981), tratto dal romanzo di David Herbert Lawrence. 

Nel 1984, ispirandosi all'omonimo fumetto a tematica bondage di John Willie, ha diretto Gwendoline. Tra gli altri suoi film Madame Claude (1977) e Un uomo in premio (1978)

·         Morta la poetessa Mariella Mehr.

Morta Mariella Mehr, poetessa ribelle della Svizzera. PAOLO DI STEFANO su Il Corriere della Sera il 6 Settembre 2022.  

Scomparsa a 74 anni l’autrice di famiglia nomade che denunciò la violenta «rieducazione» governativa 

La poetessa Mariella Mehr (Zurigo, 1947- 2022)

Il 5 settembre è morta a Zurigo, dove era nata nel 1947, ma Mariella Mehr non aveva vissuto una sola vita. Da bambina, figlia di madre Jenisch (la terza popolazione nomade europea dopo di Rom e i Sinti), fu vittima del programma eugenetico Kinder der Landstrasse (figli della strada) organizzato dalla Pro Juventute dal 1926 al 1973: era un’«opera di soccorso» svizzera che prevedeva di «estirpare il fenomeno zingaro» sottraendo i figli alle madri (che venivano sterilizzate). I bambini venivano rinchiusi in istituti dove veniva cambiato loro il nome perché i genitori non potessero rintracciarli, infine finivano in affido presso famiglie contadine. Nei suoi libri autobiografici Mehr raccontò degli stupri e degli elettroshock subìti, della sterilizzazione forzata cui fu sottoposta a 24 anni, dopo aver messo al mondo un figlio, che le era stato portato via. Chiusa, come sua madre, in un centro psichiatrico, Mariella aveva passato buona parte dell’infanzia senza parlare, poi affidata a una famiglia ticinese e ricondotta in un altro manicomio. A 19 anni si sposò con la speranza di riavere il bambino, lo ottenne ma dopo il divorzio finì per perderlo di nuovo.

«Fai crescere la rabbia, piccola, ti scalderà, ti permetterà di sopravvivere a questo inferno di ghiaccio», scrisse in Steinzeit, il suo primo libro, uscito in tedesco (la sua lingua) nel 1981 (con il titolo Silviasilviosilvana uscì nel 1995 da Guaraldi). La rabbia è il motore di Mariella Mehr donna e scrittrice: alcolista, farmacodipendente per depressione e per angoscia, ribelle. Il suo «inferno di ghiaccio» durò 31 anni, finché si sottopose a una terapia «per esorcizzare la follia», come ha scritto Anna Ruchat, sua traduttrice in italiano e amica: «Il tema dell’emancipazione dell’adulta dalla bambina sofferente e bisognosa sarà declinato nei romanzi successivi in diverse forme — la rabbia, il desiderio di vendetta, il gelo affettivo — e diventerà poi l’asse portante della trilogia della violenza».

Dopo quasi due anni di carcere, la lenta risalita comincia quando Mariella si presenta dalla famiglia affidataria del suo piccolo implorando di poterlo tenere con sé per un paio di settimane. Raccontò con un sorriso in un’intervista del 2006: «Quando la polizia è venuta a chiederlo per riconsegnarlo alla Pro Juventute, ho detto: aspettate qui, arrivo subito... Sono tornata sulla porta con il coltello più lungo che avevo in cucina e ho minacciato: o vi ammazzo io o mi ammazzate voi. Se ne sono andati e tutto è finito così». Nel ’72 diede inizio alla lunga battaglia di denuncia pubblica contro quella «pulizia etnica» in salsa elvetica. L’anno dopo l’«opera di soccorso» fu chiusa e dovettero passare anni perché la Pro Juventute facesse il mea culpa ufficiale riconoscendo che sui bambini e le bambine spesso erano stati commessi abusi sessuali.

Questa è, in breve, la storia delle tante vite (e battaglie) di Mariella Mehr. C’è poi, ma insieme alla combattente, la scrittrice e la poetessa. La trilogia narrativa «della violenza» comprende i romanzi Labambina (uscito da Effigie nel 2006), Il marchio (Tufani, 2005), Accusata (Effigie, 2008). Libri scritti in Toscana, dove aveva deciso di trasferirsi per un lungo tratto di anni (fino al 2014), ridotta quasi in cecità per una malattia non curata durante l’infanzia: nei tre romanzi, la memoria ferita di Mehr mette in scena diversi alter ego, che soffrono frustrazioni, abusi, infelicità, silenzi in un clima di allucinazione crescente reso con una prosa incalzante e fortemente espressionista.

Viene in mente Agota Kristof, l’autrice ungherese esiliata in Svizzera, autrice della Trilogia della città di K. C’è una crudeltà simile, ma nell’orrore si manifesta anche una maggiore apertura visionaria e a tratti fiabesca. «La scrittura non allontana i fantasmi, non scrivo per liberarmi del dolore», diceva. Notizie dall’esilio (sempre Effigie) è una raccolta di poesie che, con San Colombano e attesa e con la scelta antologica di Ognuno incatenato alla sua ora (Einaudi, 2014, sempre tradotta da Ruchat) rende il delirio del dolore, ma anche la lucidità della visione, tra incantata e crudele: «perseguitata nel nero/ infinito paesaggio/ come una bestia selvatica/ nel ventre/ della notte/ risate/ a brandelli/ sul patibolo/ del tempo/ il dolore implora / compassione».

·         Morto lo scrittore Oddone Camerana. 

Morto Oddone Camerana, l’intellettuale «atipico» che diffuse l’immagine di Fiat nel mondo. Christian Benna su Il Corriere della Sera il 5 Settembre 2022.

Il figlio Benedetto: «Se la mamma avesse vissuto qualche anno in più l’avrebbe seguita, ne sono sicuro». A marzo avevano festeggiato 60 anni di matrimonio. Poi l’8 luglio, l’improvvisa scomparsa di lei, Francesca Gentile Camerana

A marzo avevano festeggiato 60 anni di matrimonio. Poi l’8 luglio, l’improvvisa scomparsa di lei: a 83 anni moriva Francesca Gentile Camerana, la «signora della musica» di Torino e la compagna di una vita. E senza di lei Oddone Camerana non è riuscito ad andare oltre: oggi, 5 settembre, si è spento a 84 anni (ne avrebbe compiuti 85 il 22 novembre) l’uomo che ha creato e diffuso nel mondo l’immagine Fiat dal 1964 fino al 1992. «Se la mamma avesse vissuto qualche anno in più lui l’avrebbe seguita, ne sono sicuro. Papà aveva qualche acciacco ma la perdita di lei l’ha gettato nello sconforto», sostiene il figlio, l’architetto Benedetto Camerana che ricorda il padre come un innovatore «di quelli che oggi non si trovano più in giro».

Oddone Camerana è stato un uomo poliedrico: pubblicitario, comunicatore, scrittore, amico di artisti (da Carlo Mollino a Italo Cremona e Guido Ceronetti) e di industriali (Gianni Agnelli). «Un intellettuale atipico che amava mettersi in gioco. L’ha fatto quando si è messo a scrivere un romanzo con Giuseppe Culicchia, uno scrittore di trent’anni più giovane» ricorda ancora Benedetto. Oddone Camerana entra in Fiat nel 1962 all’Ufficio stampa, dal 1976 diventa responsabile pubblicità e immagine in Fiat e poi Fiat Auto, lavorando alla comunicazione dei marchi Fiat e Lancia e poi Alfa Romeo per quasi vent’anni. Tra le tante innovazioni da lui suggerite: il marchio Fiat a rombi blu inclinati, e la pubblicità della Uno affidata a Giorgio Forattini che disegna l’auto a fumetti: «comodosa», «sciccosa», «risparmiosa», «scattosa».

Oddone esce da Fiat nel 1994, in seguito a disaccordi sulle scelte aziendali, «prima tra tutte — ricorda il figlio — quella di rinunciare qualche anno prima alla figura di Vittorio Ghidella». L’intellettuale «atipico», negli anni in cui la moglie diventa punto di riferimento della musica classica in città con Lingotto Musica, fondata nel 1994, coltiva a fondo le sue passioni: scrive romanzi e saggi di storia industriale, «L’enigma del cavalier Agnelli», «La notte dell’Arciduca», «Il centenario», dove trasforma Torino in «Ligonto» e la Fiat nella «Marescalla»; frequenta artisti, e mantiene vivo il rapporto con Gianni Agnelli. «Mio padre — dice il figlio Benedetto — è stato un uomo culturalmente libero, che ha voluto sempre innovare». Giovedì alla chiesa di Sassi si terranno i funerali di un intellettuale atipico. Riposerà accanto alla sua Francesca.

·         E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.

 Cesare Pompilio, morto l’opinionista tv tifoso della Juventus. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 4 Settembre 2022.

Noto tra gli spettatori di Telelombardia, aveva 73 anni ed era stato colpito da un infarto nel 2018. Il ricordo dell’ex dirigente bianconero Luciano Moggi: «La nostra amicizia e il tuo sostegno nei momenti difficili non saranno mai cancellati» 

È morto Cesare Pompilio, popolare opinionista TV, soprattutto per Telelombardia e grande tifoso della Juventus. Era molto noto tra i bianconeri e gli spettatori delle trasmissioni calcistiche. Se n’è andato all’età di 73 anni, dopo aver sofferto di cuore (un infarto nel 2018 e un malore anche in diretta tv) e un’operazione chirurgica complessa un paio di anni fa. La sua condizione di salute negli ultimi mesi non era stata resa nota.

Nato a Trieste il 29 marzo 1949, ma da sempre residente a Milano, era giornalista professionista dal 1986 ed era una delle colonne di QSVS, Qui studio a voi stadio, la trasmissione di Telelombardia. Si era ritagliato un personaggio — bianconero, ovvio — arrabbiato e polemico, ma competente, come è spesso stile della trasmissione e del calcio trattato al pomeriggio sulle tv locali.

A dare la notizia con un tweet è Fabio Ravezzani, direttore responsabile di Telelombardia. «Ho una terribile notizia da darvi. Purtroppo è morto il mio e nostro caro amico Cesare Pompilio. Solo chi ha avuto la fortuna di frequentarlo dentro e fuori dagli studi televisivi sa che straordinaria persona fosse. Dire che ci mancherà non rende l’idea del vuoto che proviamo».

Ho una terribile notizia da darvi. Purtroppo è morto il mio e nostro caro amico Cesare Pompilio. Solo chi ha avuto la fortuna di frequentarlo dentro e fuori dagli studi televisivi sa che straordinaria persona fosse. Dire che ci mancherà non rende l’idea del vuoto che proviamo.

Lo ha ricordato con affetto anche l'ex dirigente della Juventus Luciano Moggi, sempre via social: «Caro Cesare, oggi ci hai lasciato, ma il tuo ricordo e tutto quello che abbiamo vissuto insieme non potrà mai essere cancellato. La tua amicizia, il tuo sostegno costante anche nei momenti difficili saranno sempre con me. Riposa in pace amico mio».

Caro Cesare, oggi ci hai lasciato, ma il tuo ricordo e tutto quello che abbiamo vissuto insieme non potrà mai essere cancellato. La tua amicizia, il tuo sostegno costante anche nei momenti difficili saranno sempre con me. Riposa in pace amico mio. 

Solo il 16 luglio scorso Pompilio aveva pubblicato il suo ultimo post su Instagram, un video dedicato a Zaniolo che avrebbe voluto giocare alla Juventus con Pogba e Di Maria, mentre Moggi non sarebbe stato d'accordo. Sul fronte del mercato estivo, aveva ragione lui. E proprio sotto a quel post si concentrano i saluti dei tifosi, non solo juventini.

·         Addio al radioastronomo Frank Drake. 

Addio a Drake, l'uomo che cercava E.T.. Redazione su Il Giornale il 4 settembre 2022.

Lo scienziato statunitense Frank Drake, radioastronomo di fama internazionale, noto per i suoi sforzi pionieristici nella ricerca dell'intelligenza extraterrestre nell'Universo, è morto venerdì nella sua casa di Aptos, in California, all'età 92 anni. Era professore emerito di astronomia e astrofisica ed ex preside di scienze naturali all'Università della California di Santa Cruz, lo stesso ateneo che ha comunicato la scomparsa. Insieme al suo collega Carl Sagan (1934 - 1996), Drake era stato il padre del progetto Seti (Search for Extraterrestrial Intelligence), che si basava sull'idea che si potessero forse rilevare le emissioni di onde radio delle civiltà extraterrestri nella Via Lattea e forse anche comunicare con loro scambiandosi messaggi. Drake è stato per 19 anni presidente del consiglio di amministrazione del Seti Institute, nato nel 1974, a Mountain View, in California, un'organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di ricerca delle forme di vita oltre la Terra. Lo scienziato è conosciuto anche per l'equazione che porta il suo nome (equazione di Drake), riferita alla possibilità dell'esistenza di forme di vita intelligenti extraterrestri.

Drake iniziò la carriera intraprendendo la ricerca radioastronomica al National Radio Astronomy Observatory a Green Bank nella Virginia Occidentale e in seguito al Jet Propulsion Laboratory, conducendo importanti misurazioni che rilevarono la presenza della magnetosfera e della ionosfera gioviana. Nel 1960 Drake condusse la prima ricerca radio di un'intelligenza extraterrestre, nota come Progetto Ozma: non venne, tuttavia, trovata alcuna evidenza di segnali alieni. Drake considerava il «contatto» sotto forma di segnali luminosi o radio inevitabile negli anni a venire. Nel 1961, assieme a J. Peter Pearman, presentò la sua famosa equazione, un tentativo di stimare il numero di civiltà extraterrestri intelligenti presenti nella nostra Galassia con le quali potremmo pensare di entrare in contatto. Drake prese parte ai primi studi sulle pulsar, fu professore alla Cornell University (1964-84) e direttore del Osservatorio di Arecibo. Nel 1972 Drake disegnò assieme a Carl Sagan la piastra collocata sulle sonde Pioneer 10 e 11, il primo messaggio fisico inviato nello spazio. In seguito supervisionò anche la creazione del Voyager Golden Record. È stato presidente della Società astronomica del Pacifico e membro dell'Accademia Nazionale per le Scienze degli Stati Uniti.

Morto Frank Drake, lo scienziato che cercava gli Ufo: cosa ha scoperto. Maurizio Stefanini su Libero Quotidiano il 05 settembre 2022

N= R* x fp x ne x fl x fi x fc x L. Sembra roba astrusa, questa "Equazione di Drake": dal nome di Frank Donald Drake, professore emerito di astronomia e astrofisica ed ex preside di scienze naturali all'Università della California di Santa Cruz, nato a Chicago il 28 maggio 1930, scomparso per cause naturali venerdì all'età di 92 anni nella sua villa di Aptos in California. Ma è invece talmente pop che ha ispirato film di successo. Da "Independence Day" a "Contact", peraltro tratto da un libro scritto da quel Carl Sagan (1934-1996) che oltre a essere suo collega è stato l'altro grande creatore del SETI: Search for Extra-Terrestrial Intelligence.

CIVILTÀ INTELLIGENTE

Cercando di essere il più semplice possibili: R* è il numero medio di nuove stelle che si formano ogni anno nella nostra galassia; fp la frazione di stelle R* che possiedono pianeti; ne il numero di questi pianeti che possiedono condizioni compatibili con la vita; fl la frazione di questi pianeti che sviluppa la vita; fi la frazione di pianeti che hanno sviluppato vita intelligente; fc la frazione di pianeti che hanno sviluppato vita intelligente in grado di comunicare con le onde radio; L la stima della durata media della vita comunicativa di tali civiltà. E N sarebbe appunto il numero di civiltà intelligenti nella nostra Galassia in grado di comunicare tra di loro.

In realtà, poi, sulla determinazione di tutti questi parametri c'è un dibattito furibondo. Sicuramente N deve essere almeno 1, perché noi esistiamo. Per il resto, le stime variano da 8 a 60.000. E a questo punto salta fuori il Paradosso di Fermi: ma se ci sono, perché questi alieni intelligenti non si fanno sentire? E qua pure le risposte sono molteplici: dal semplice «c'è troppa distanza tra di loro e noi»; al pessimista «perché le civiltà tecnologicamente avanzate a vedere il nostro esempio devono avere la tendenza ad autodistruggersi in tempi rapidissimi»; a un ottimista «ci deve essere un'etica spaziale che impone di non interferire finché una civiltà non arriva a un certo grado di maturità», che è poi un plot tipico della fantascienza.

Drake pensò però che era il caso di verificare sul campo; sia creando sistemi di ascolto delle onde radio provenienti dallo spazio; sia mandandoli noi questi messaggi. Dopo alcuni esperimenti negli anni '60, nel 1974 il programma SETI parte ufficialmente grazie alla collaborazione con l'osservatorio di Arecibo. Da lì viene inviato nello spazio un messaggio con una composizione di numeri primi in codice binario, in grado di mostrare importanti informazioni su di noi, sul nostro pianeta e sulla genetica alla base della vita. Ma già nel 1972 lui e Sagan avevano disegnato assieme la piastra collocata sulle sonde Pioneer 10 e 11, il primo messaggio fisico inviato nello spazio.

Progettata per essere comprensibile da un eventuale extraterrestre. Anche su ciò la fantascienza sguazzò, immaginando civiltà ostili che invece di rispondere arrivano a distruggerci. Ma anche ciò contribuì alla fama di Drake e del SETI.

OLTRE LA TERRA

Drake del consiglio di amministrazione del SETI Institute è stato presidente per 19 anni. Con sede a Mountain View, in California, è un'organizzazione senza scopo di lucro che si occupa di ricerca delle forme di vita oltre la Terra. Nel ferragosto del 1977 sembrò aver fatto un clamoroso "bingo", quando l'astronomo Jerry R. Ehman nello studiare gli ultimi tabulati prodotti dal radiotelescopio "Big Ear" vide su uno dei fogli una dicitura fuori dagli schemi: un segnale di intensità incredibile, proveniente dalla costellazione del Sagittario. Per molto tempo sia Drake sia Sagan difesero la teoria dell'origine aliena: sostenevano infatti che un segnale così forte dovesse essere per forza qualcosa di intenzionale, che necessitava di un grande utilizzo di energia, al fine di focalizzarlo in un punto ben preciso. Tra 2015 e 2017 è stato ipotizzato che più probabilmente il segnale sia stato dovuto a un passaggio di comete. Dal 1999 gli scienziati del SETI per risolvere i problemi di calcolo crearono una rete a calcolo condiviso che finì nel Guinness dei Primati.

Le trasmissioni partite dal SETI sono state una ventina: la più vicina arriverà nel 2036 e potrebbe avere una risposta nel 2069. Nel 1992 il governo statunitense finanziò un programma SETI di ricerca mirata di 800 specifiche stelle vicine. Nel 1993 il Congresso tagliò i fondi, non senza qualche sarcasmo sui "cacciatori di alieni". Ma nel 1995 il SETI Institute fu in grado di far ripartire il tutto con il nome di Progetto "Phoenix", supportato da fonti di finanziamento privato. Col SETI lavora un centinaio di persone tra scienziati e specialisti, su un budget da 100 milioni di dollari. Drake è stato presidente della Società astronomica del Pacifico e membro dell'Accademia Nazionale.

·         E’ morto il cantante Drummie Zeb.

Aswad, morto il cantante della band Drummie Zeb. Carlo Moretti su La Repubblica il 2 Settembre 2022.  

Il musicista aveva 62 anni. Cordoglio nel mondo del reggae. Ali Campbell degli Ub40: "È morto un pioniere"

Il cantante e batterista degli Aswad, Angus "Drummie Zeb" Gaye è morto, aveva 62 anni. Ne ha dato notizia la sua band che in un post ha dichiarato: “Lascia un vuoto enorme, sia personalmente che professionalmente”. Da quel momento i tributi sui social si sono succeduti, a cominciare dal messaggio accorato di Ali Campbell degli UB40 che ha parlato di perdita di un "pioniere del reggae". 

Ali ha twittato: "Sono molto triste nell'apprendere della scomparsa di Drummie Zeb degli Aswad. Abbiamo perso un altro pioniere del reggae britannico. Le più sentite condoglianze vanno a tutti i @TheRealAswad della famiglia Aswad". Drummie, padre di sei figli e già una volta nonno, era cresciuto a Londra ed è diventato famoso con gli Aswad nel 1970, il gruppo con cui ha pubblicato 21 album e ottenuto tre nomination ai Grammy Award. 

Nella formazione in trio Angus Gaye, Brinsley Forde e Tony Robinson gli Aswad dopo essersi formati nel 1975 a Ladbroke Grove, West London, nel 1976 divennero la prima band reggae britannica a firmare con una major, la Island Records. Il loro singolo di debutto, il classico Back to Africa, è stato pubblicato quell’anno e ha raggiunto il numero uno nella classifica dei singoli reggae del Regno Unito. Il loro omonimo album di debutto conteneva anche il loro secondo successo Three Babylon. La reputazione guadagnata portò gli Aswad a collaborare come gruppo spalla con le star giamaicane in tournée in Inghilterra, come Bob Marley, Burning Spear, Dennis Brown e Black Uhuru.

Gli Aswad sono stati una delle band più importanti della Gran Bretagna, sia in termini di popolarità che di longevità. Dal roots reggae degli esordi, a partire dal loro album di debutto del 1975 nel quale sottolineavano la difficile situazione degli immigrati giamaicani nella Londra degli anni 70, agli sviluppi pop-crossover con il funk e il soul di pezzi come Don't Turn Around. Mettendo sempre in luce la loro caratteristica migliore, quella di adattarsi ai tempi e alle nuove tendenze musicali.

Tra i successi della band inglese Don't Turn Around del 1988, il classico del 1994 Shine e Give a Little Love. Nel 1989 si sono esibiti allo stadio di Wembley di Londra con Cliff Richard per una versione in duetto di Share a Dream. Nel 1996 il gruppo subì un cambio di formazione che lasciò Drummie e Tony 'Gad' Robinson a continuare gli Aswad come un duo. Alla fine degli anni 1990, la band andò in tour con i The Wailers e Drummie fu più tardi arruolato come batterista nel gruppo. Gli Aswad hanno pubblicato il loro ultimo album, City Lock, nel 2009.

·         E’ morto il pittore Gennaro Picinni.

LUTTO NEL MONDO DELL'ARTE. Bari, a 89 anni muore il pittore Gennaro Picinni, era il «fiammingo delle Puglie». Il cordoglio del sindaco Decaro: «Oggi perdiamo un artista originale e prolifico, capace di reinventare con la sua sensibilità luoghi e soggetti per noi familiari». Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 31 Agosto 2022

E’ morto ad 89 anni il pittore barese Gennaro Picinni. Era nato a Bari il 20 luglio del 1933 e dopo un esordio astrattista negli anni '50 entrò a far parte dei 'pittori del Naviglio' a Milano, assieme Crippa, Fontana ed altri. La sua cifra stilistica acquisita negli anni gli è valsa il soprannome di 'Fiammingo delle Puglie'. Alcuni dei suoi dipinti a tema religioso fanno parte del patrimonio artistico dei Musei Vaticani.

«Bari piange la scomparsa di un suo figlio illustre, il maestro Gennaro Picinni, artista amatissimo nella sua terra, apprezzato anche a livello nazionale e internazionale. La sua feconda carriera artistica, sbocciata nel 1950 all’interno de «I pittori del Naviglio», un gruppo di creativi affascinati dall’astrattismo come interpretazione della complessità del reale, ci ha donato nel tempo opere immaginifiche e potenti, realizzate con una originale combinazione di forme, colori e linee». Lo afferma in una nota il sindaco di Bari, Antonio Decaro, appresa la notizia della scomparsa del pittore barese.

«Profondamente legato alla sua città - aggiunge - il maestro ha donato al Comune di Bari due medaglioni che ricordano il bicentenario della fondazione della Bari moderna, ed è dello scorso mese di luglio la delibera con la quale la giunta ha accettato un ulteriore dono dell’artista, la tela 'Murat Avatar', che a breve sarà esposta nelle sale di Palazzo di Città».

«Al talento di Picinni dobbiamo anche diversi quadri che celebrano il Teatro Petruzzelli e la decorazione di alcune delle porte dell’Arena della Vittoria in occasione dei Giochi del Mediterraneo del 1997, quando - prosegue Decaro - l’artista condivise l’idea dell’amministrazione comunale di impreziosire uno degli impianti sportivi simbolo della città». «Oggi perdiamo un artista originale e prolifico - conclude - capace di reinventare con la sua sensibilità luoghi e soggetti per noi familiari, rendendoli unici. A sua moglie e ai suoi familiari giunga l’abbraccio affettuoso della città».

·         È morta l’attrice Charlbi Dean.

È morta Charlbi Dean: l’attrice di Triangle of Sadness aveva 32 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera  il 30 Agosto 2022. 

Charlbi Dean, attrice e modella sudafricana reduce dall’interpretazione nel film Palma d’Oro a Cannes 2022 «Triangle of Sadness», è morta in un ospedale di New York «per una improvvisa malattia». Aveva 32 anni. Charlbi era nata nel 1990 a Cape Town. Aveva debuttato come baby modella a sei anni e al cinema a dieci nella commedia «Spud». Da modella aveva lavorato per campagne di Guess, Benetton e Ralph Lauren. Nel 2008 era sopravvissuta a un grave incidente stradale che l’aveva lasciata con le ossa rotte e un pneumotorace. «È spaventoso», ha detto via email un rappresentante dell’attrice all’Agenzia francese Afp, confermando le indiscrezioni pubblicate dal sito Tmz. Non ci sono al momento ulteriori informazioni circa la malattia contro la quale Dean avrebbe combattuto, e che le è risultata fatale. Nel film «Triangle of Sadness», Charlbi Dean interpretava Yaya, top model e influencer. Articolo in aggiornamento... 

È morta Charlbi Dean: l’attrice di Triangle of Sadness aveva 32 anni. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Charlbi Dean, modella e attrice sudafricana, è stata stroncata da una «improvvisa malattia» in un ospedale di New York. 

Charlbi Dean, attrice e modella sudafricana reduce dall’interpretazione nel film Palma d’Oro a Cannes 2022 «Triangle of Sadness», è morta in un ospedale di New York «per una improvvisa malattia». 

Aveva 32 anni. 

Charlbi era nata nel 1990 a Cape Town. Aveva debuttato come baby modella a sei anni e al cinema a dieci nella commedia «Spud». Da modella aveva lavorato per campagne di Guess, Benetton e Ralph Lauren. Nel 2008 era sopravvissuta a un grave incidente stradale che l’aveva lasciata con le ossa rotte e un pneumotorace. 

«È spaventoso», ha detto via email un rappresentante dell’attrice all’Agenzia francese Afp, confermando le indiscrezioni pubblicate dal sito Tmz. 

Non ci sono al momento ulteriori informazioni circa la malattia contro la quale Dean avrebbe combattuto, e che le è risultata fatale. 

Nel film «Triangle of Sadness», Charlbi Dean interpretava Yaya, top model e influencer. 

Morta a 32 anni l'attrice Charlbi Dean, protagonista di 'Triangle of Sadness' Palma d'Oro a Cannes. Redazione spettacoli su La Repubblica il 30 Agosto 2022.

Il decesso è avvenuto a New York per un malore improvviso. La modella e attrice sudafricana Charlbi Dean è morta per un malore improvviso all'età di 32 anni. A darne notizia il sito Deadline spiegando che la star di Triangle of Sadness è deceduta mentre si trovava a New York. Oltre a recitare nel film di Ruben Östlund, vincitore della Palma d'Oro a Cannes al fianco di Harris Dickinson e Woody Harrelson, Dean è apparsa in produzioni come Spud, Death Race 3: Inferno, Blood in the Water e Don't sleep.

L'attrice era nata a Cape Town il 5 febbraio del 1990 e aveva debuttato al cinema nel 2010 in Spud. Prima di recitare con Harris Dickinson e Woody Harrelson nella feroce satira del capitalismo firmata da Ruben Östlund, Charlbi si era fatta notare per la parte di Syonide, un personaggio ricorrente nella serie basata sui fumetti DC Comics 'Black Lightning' su CW.

Nel film Triangle of Sadness l'attrice interpreta la modella Yaya, fidanzata di Carl, anche lui modello. I due vengono invitati gratis a partecipare a una lussuosa crociera nel Mediterraneo in cambio della pubblicità social che possono offrire in qualità di influencer. Ma le cose non andranno per il verso giusto.

Il film che sarà proiettato al Toronto Film Festival e al New York Film Festival, uscirà nelle sale americane ad ottobre.

Da Ansa il 31 agosto 2022.

Charlbi Dean, l'attrice e modella sudafricana, reduce dall'interpretazione nel film Palma d'Oro a Cannes 2022 'Triangle of Sadness', è morta in un ospedale di New York "per una improvvisa malattia". Aveva 32 anni. Lo riportano i media americani.

Prima di aver recitato con Harris Dickinson e Woody Harrelson nella feroce satira del capitalismo firmata da Ruben Östlund, che dovrebbe uscire nelle sale Usa il 7 ottobre, Charlbi si era fatta notare per la parte di Syonide, un personaggio ricorrente nella serie basata sui fumetti DC Comics 'Black Lightning' su CW. 

In 'Triangle of Sadness' la giovane attrice aveva avuto la parte della modella Yaya, una degli invitati per una crociera a bordo di un superyacht al cui comando c'è un marxista irriducibile e che finisce catastroficamente con i sopravvissuti abbandonati su un'isola deserta.

Charlbi era nata nel 1990 a Cape Town. Aveva debuttato come baby-modella a sei anni e al cinema a dieci nella commedia 'Spud' con John Cleese e Troye Sivan. Era apparsa poi nei film 'Death Race 3: Inferno' (2013), 'Blood in the Water' (2016), 'Don't Sleep' (2017) e 'Porthole' (2018). Da modella aveva lavorato per campagne di Guess, Benetton e Ralph Lauren.

Nel 2008 era sopravvissuta a un grave incidente stradale che l'aveva lasciata con le ossa rotte e un pneumotorace. Nessuna indicazione è arrivata ancora sulla malattia che le è risultata fatale. 

·         È morto Camilo Guevara.

È morto Camilo Guevara, il secondo figlio del Che. La Repubblica il 30 Agosto 2022. 

È morto Camilo Guevara March, figlio secondogenito del rivoluzionario e guerrigliero Ernesto 'Che' Guevara. Lo ha annunciato il presidente cubano Miguel Díaz-Canel su Twitter.

"Con profondo dolore diciamo addio a Camilo, figlio del Che e promotore delle sue idee in qualità di direttore del Centro studi Che Guevara, che conserva parte della straordinaria eredità del padre. Un abbraccio alla madre, Aleida, alla vedova e alle figlie e all'intera famiglia Guevara March", si legge nel messaggio.

Secondo quanto confermato da fonti diplomatiche, Camilo Guevara March è deceduto ieri nella capitale venezuelana Caracas "a seguito di una tromboembolia polmonare che ha portato a un infarto", riporta l'agenzia di stampa statale cubana Prensa Latina. Aveva 60 anni.

Laureato in Diritto del Lavoro, lavorava come direttore del progetto del Centro Studi Che Guevara a L'Avana, istituzione incaricata di promuovere la conoscenza del pensiero, della vita e del lavoro del padre.

È morto Camilo Guevara, il secondo figlio del Che. Daniele Mastrogiacomo su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

La scomparsa, improvvisa, a Caracas per un infarto. Era il direttore del "Centro studi Che Guevara" all'Avana, un'istituzione che conserva l'eredità culturale del guerrigliero.

Una trombosi che gli ha fermato il cuore. È morto così Camilo Guevara March, quarto dei cinque figli di Ernesto “Che” Guevara che il mitico rivoluzionario aveva avuto dalla sua seconda moglie, Aleida March. Camilo era ancora giovane, aveva 60 anni e al momento del decesso si trovava a Caracas con cui faceva la spola da Cuba nel suo incessante lavoro di direttore del Centro Studi Che Guevara all’Avana.

Da tg24.sky.it il 30 Agosto 2022.

Camilo Guevara March, figlio secondogenito del rivoluzionario e guerrigliero argentino Ernesto 'Che' Guevara, è morto. Aveva 60 anni. Lo ha annunciato il presidente cubano Miguel Diaz-Canel con un post su Twitter.  Camilo era nato dalla seconda moglie del Che, Aleida March. 

Il decesso è avvenuto in Venezuela, a Caracas, per una crisi cardiaca "a seguito di una tromboembolia polmonare che ha portato a un infarto", riporta l'agenzia di stampa statale cubana Prensa Latina. 

Laureato in Diritto del Lavoro, era come direttore del progetto del Centro Studi Che Guevara a L'Avana, istituzione incaricata di promuovere la conoscenza del pensiero, della vita e del lavoro del padre. 

"Con profonda tristezza, diciamo arrivederci a Camillo", ha dichiarato il presidente cubano, sottolineando che il secondogenito del Che era "promotore delle sue idee in qualità di direttore del Centro Che, che conserva parte della straordinaria eredità del padre. Un abbraccio alla madre, Aleida, alla vedova e alle figlie e all'intera famiglia Guevara March".

·         E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.

Da lastampa.it il 30 Agosto 2022. 

L’ex Presidente dell'Unione sovietica, e segretario del Partito Comunista, Mikhail Gorbaciov, è morto. Era stato ricoverato in ospedale ai primi di luglio, in dialisi. Aveva 92 anni. 

Gorbaciov è stato protagonista della scena mondiale alla fine degli anni '80 del novecento, determinante nella fine della guerra fredda e nella caduta del muro di Berlino.

BIOGRAFIA DI MIKHAIL GORBACIOV. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

Michail Gorbacëv (Michail Sergeevic G.), nato a Privolnoe (Stavropol, Russia) il 2 marzo 1931. Politico. Ex segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica (1985-1991) e unico presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (1990-1991). Premio Nobel per la pace nel 1990.

«La sua forza rese possibile ogni cosa. Ma le sue debolezze minarono l’intero progetto» (William Taubman). 

«A guardare le cose da una prospettiva più ampia, partendo da come si è venuto delineando il destino che mi ha voluto non solo attore di una delle più importanti svolte della storia, ma anche protagonista e artefice di un grande processo di trasformazione del Paese, posso dire di essere stato fortunato. Ho bussato alle porte della storia e le porte si sono aperte, per me e per coloro per i quali ho ingaggiato la mia battaglia» 

• Nato in una famiglia contadina, alla nascita fu segretamente battezzato dalla madre, devota cristiana ortodossa. «Pantelei Efimovic, il nonno materno, fu il primo a influire su Mikhail, con le letture che gli consigliava, con lo stimolo costante a studiare, con il suo passato di organizzatore delle prime cooperative agricole post-rivoluzionarie.

Ma l’esempio più importante che gli diede ha a che fare con una tragedia collettiva: lo stermino dei kulaki, gli agricoltori più abbienti, i protagonisti della privatizzazione permessa da Lenin negli anni della Nep, la prima riforma economica. Anche il nonno divenne una vittima delle purghe staliniane: un giorno fu arrestato, e spedito nel gulag. 

"Tornò a casa nel 1939, dopo tutte le torture che aveva subìto", ricorderà Gorbaciov una volta al potere, "tutta la famiglia sedette intorno a lui ad ascoltarlo, soffocando grida di orrore quando ci raccontò cosa gli avevano fatto". Il nonno ebbe un’altra fondamentale influenza su Mikhail, regalandogli un paio di valenki, i tradizionali stivali di feltro russi, che gli permisero di compiere il viaggio sino a scuola nel gelo e nella neve dell’inverno.

Le "medie superiori" erano in un altro villaggio, a 15 chilometri di distanza, Krasnogvardejskij: Mikhail, come un pendolare, partiva da Privolnoe la domenica sera, e tornava a casa il sabato pomeriggio, vivendo durante la settimana nella casa di amici di famiglia. Compiva il tragitto a piedi quando il tempo lo permetteva, o su un carro trainato da un cavallo che trasportava fieno. […]

Aveva 18 anni quando trascorse le vacanze scolastiche sulla trebbiatrice del padre, producendo un raccolto di grano da record: con un berretto di traverso sul capo, sudava nei campi da mattina a sera, poi andava con gli amici a rinfrescarsi con un bagno nelle acque dello Egorlyck, il fiumiciattolo che attraversa il paese. Fu così che guadagnò l’Ordine della Bandiera Rossa, la più alta decorazione al lavoro di quell’epoca. […] Finiti gli studi, nel 1950 […] Mikhail Sergeevic lasciò Privolnoe per iscriversi all’Università di Mosca.

Era un "provinciale" rispetto ai suoi compagni, e forse senza l’Ordine della Bandiera Rossa del Lavoro, una decorazione rara fra gli studenti, non sarebbe stato ammesso nella più prestigiosa ed esclusiva istituzione accademica del Paese. Ma con il premio guadagnato sui campi di grano, con la sua educazione da ragazzo di campagna, e con un solo paio di pantaloni, quelli che portava addosso, il "contadino" di Privolnoe riuscì a "sbarcare" nella capitale, dove avrebbe conosciuto Raissa e imboccato la strada di una rivoluzione che ha cambiato lui, l’Urss e il mondo» (Enrico Franceschini).

A Mosca conseguì due lauree, in Giurisprudenza e in Economia agraria, e mosse i primi passi in politica. «La sua carriera si potrebbe dividere in due periodi. Nell primo, che va dal 1952, anno in cui entrò nel partito, al 1978, quando venne chiamato a Mosca e nominato responsabile dell’agricoltura presso la Segreteria del Comitato centrale, non è molto dissimile da quella degli alti funzionari provinciali: responsabile locale e provinciale del Komsomol (Lega della gioventù comunista) di Starvropol, città al centro di un’importante zona granaria; poi membro della segreteria, fino ad essere primo segretario del Pcus. Una trafila come ce ne sono state migliaia. […]

Nel 1978 arriva la chiamata a Mosca. Gorbaciov ha 47 anni; è un esperto di agricoltura, ma negli ultimi tre anni i raccolti nella zona di Stavropol sono stati disastrosi. Alcuni cremlinologi hanno raccontato l’improvvisa fortuna in chiave campanilistica: Yuri Andropov, gran protettore di Gorbaciov, era nativo di Stavropol; i contatti tra i due risalirebbero ai primi anni ’70. In realtà il legame con Andropov si stabilisce nella Segreteria del Comitato centrale e si stringe per affinità intellettuali, per una comune, pragmatica visione politica.

Sotto la potente ala del capo del Kgb, Gorbaciov scala in pochissimi anni i massimi vertici: membro supplente al Politburo nel 1979, membro effettivo nel 1980. In Occidente viene visto come uno dei maggiori esponenti del "riformismo moderato" – per quanto possano valere queste definizioni –, delfino del leader, Andropov. 

In questa chiave è stata interpretata la sua candidatura alla morte di Andropov, in opposizione a quella del "burocrate" Cernienko. Ma quando Cernienko viene eletto segretario generale, nel febbraio 1984, Gorbaciov rimane al suo posto, e anzi accresce il suo potere, fino a diventare supervisore del settore ideologico e numero due del regime: "il nostro secondo segretario generale", come lo aveva definito […] il direttore della Pravda» (Stefano Malatesta).

La svolta giunse nel marzo 1985. «“Lo conosco bene – disse Andrej Gromyko –: è giovane, ma ha i denti d’acciaio”. Quel plenum del Comitato centrale non riusciva a decidersi tra la tentazione a mummificare ogni leadership in gerontocrazia (quasi per un bisogno istintivo di ingessare fisicamente l’ortodossia a garanzia dell’immobilità, per evitare ogni cambiamento) e la vertigine di un precipizio che apriva verticalmente la “classe eterna” al vertice dell’Urss per puntare su un uomo di vent’anni più giovane del segretario generale Cernenko, appena morto dopo dodici mesi di completa paralisi.

Gromyko garantì per lui, rassicurò i conservatori, e l’11 marzo […] Mikhail Sergeevic Gorbaciov arrivò alla guida del partito comunista dell’Urss e della superpotenza sovietica, minacciosa e stremata padrona di metà del mondo» (Ezio Mauro).

«Quando Michail Gorbaciov arrivò sulla scena del mondo, lo shock fu simile a quello provocato dal lancio del primo satellite artificiale Sputnik nel 1956. Sembrò di colpo che quel grigio e misterioso mondo dell’Unione Sovietica dove nessuno sembrava felice avesse prodotto un nuovo fenomeno in grado di riportare il Paese della Rivoluzione d’Ottobre alla ribalta del progresso e dell’innovazione. […] L’uomo nuovo […] era relativamente giovane, e aveva persino una moglie giovane e graziosa come Raissa, che poteva essere equiparata a una First Lady. Una svolta formale che sembrava anche sostanziale» (Paolo Guzzanti). 

«Con lui per la prima volta sale al vertice del Pcus il rappresentante di una generazione che non ha fatto la Rivoluzione d’Ottobre, non ha vissuto gli anni bui dello stalinismo e non ha combattuto nella Seconda guerra mondiale. […] In Italia nelle redazioni dei giornali e nei dibattiti in tv si interpellano i corrispondenti da Mosca e i “cremlinologi” per capire se le due parole chiave del vocabolario di Mikhail Gorbaciov – “perestrojka” (ristrutturazione economica) e “glasnost” (trasparenza politica) – porteranno davvero a un cambiamento profondo dell’Unione Sovietica.

A differenza dei suoi predecessori, Gorbaciov non assume la presidenza del Soviet Supremo (carica equivalente a quella di capo dello Stato), ma vi designa il vecchio Andrej Gromyko, ministro degli Esteri dell’Urss fin dal 1957. A guidare la diplomazia chiama invece un uomo fidato, il georgiano Edvard Shevardnadze. I due incontri di Gorbaciov con il presidente americano Ronald Reagan – a Ginevra nel novembre 1985 e a Reykjavík nell’ottobre 1986 – fanno ben capire quanto i nuovi leader moscoviti siano sinceri nel volere la distensione e il disarmo, meritando la fiducia dell’Occidente. Usa e Urss avviano un negoziato, concluso a Washington nel dicembre 1987, per l’eliminazione dall’Europa dei missili di breve e media gittata. Tra il 1988 e il 1989 Gorbaciov ritira le truppe dall’Afghanistan (invaso dall’Armata rossa quasi dieci anni prima) e convince Fidel Castro ad abbandonare l’Angola.

 La politica di non intervento archivia la “dottrina Breznev”, permettendo ai governi dell’Est europeo di essere artefici del proprio destino politico. Le elezioni in Polonia sono vinte dai cattolici di Solidarnosc e l’elettricista di Danzica Lech Walesa prende il posto del generale Jaruzelski alla presidenza della Repubblica. Infine, nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1989, cade il muro di Berlino: uno di quegli eventi che “tagliano” il corso della storia. […]

Nei vertici di Malta (dicembre 1989) e di Mosca (luglio 1991), il successore di Reagan, George Bush Sr., e Gorbaciov fanno un altro passo avanti verso il disarmo nucleare – dal trattato Salt al trattato Start I –, che prevedeva non solo la limitazione, ma anche la riduzione di un terzo delle testate nucleari delle due parti. 

La Guerra fredda era finita. Prima di recarsi a Malta, Gorbaciov compie una visita di tre giorni in Italia con la moglie Raissa. A Roma tiene un discorso in Campidoglio denso di richiami alle ragioni della pace e dei diritti umani; in Vaticano avviene la storica stretta di mano fra i due maggiori protagonisti della svolta politica nell’Est europeo, il leader comunista e il papa polacco Giovanni Paolo II. […]

Nel 1990 Gorbaciov raggiunge l’apice dei riconoscimenti: viene confermato segretario del Pcus e presidente della Repubblica con ampi poteri (dopo la riforma costituzionale del 1989), insignito del Premio Nobel per la pace. Pareva vicina la prospettiva di un mondo sempre più cooperativo e pacifico, grazie al trionfo dei princípi della democrazia e del mercato: quasi la “fine della storia” vagheggiata dal politologo americano Francis Fukuyama nel suo famoso libro The End of History and the Last Man.

Ma fu ottimismo di breve durata. La situazione interna nell’Urss andava facendosi sempre più difficile e cresceva il malcontento: le riforme proposte da Gorbaciov si scontrarono con le resistenze burocratiche e l’opposizione dei poteri forti, facendo precipitare il Paese in una disastrosa crisi economica e riacutizzando le spinte indipendentistiche e i conflitti etnici fino ad allora repressi.

Nel luglio 1991 Gorbaciov andò al summit del Paesi più industrializzati a Londra per chiedere un sostegno al suo piano di riforme, ma la maggioranza del G7 si espresse contro la concessione dei sostanziosi crediti da lui richiesti per affrontare la crisi economica e mantenere il controllo della situazione politica interna (nonostante le buone intenzioni dell’Italia di Andreotti, della Francia di Mitterrand e anche della Germania di Kohl)» (Pietro Fornara). «Gli occidentali non lo aiutarono. […] Se ne tornò a Mosca con uno squallido voto di raccomandazione per essere ammessi, come osservatori, al Fondo monetario. Di qui cominciò la parabola discendente del nuovo corso moscovita. Non fu difficile al muscolare signor Eltsin metterlo in crisi; e buon per lui se non fu spedito al Creatore» (Giulio Andreotti).

«A Mosca il 19 agosto 1991 scatta un tentativo di colpo di Stato, organizzato dai conservatori del Pcus, che tuttavia fallisce. Ma Gorbaciov di fatto perde il potere, anche se il mondo esterno lo crede ancora al comando, come ha scritto Hélène Carrère d’Encausse (La Russie entre deux mondes, 2010, pubblicato in italiano da Salerno editrice): “È il rivale – e inizialmente suo protetto – Boris Eltsin, l’uomo salito in piedi su un carro armato, simbolo della resistenza al ‘putsch’, a prendere in mano la situazione”» (Fornara). 

«Davanti al Parlamento russo, il 23 agosto, Gorbaciov ringrazia Eltsin per il suo intervento in difesa dello Stato, denuncia le responsabilità dei golpisti, ma viene duramente contestato dall’uditorio, che gli rinfaccia di avere dato lui il potere a chi ha poi cercato di eliminarlo politicamente. […]

 In pochi giorni si sgretolano l’Urss e il comunismo: le tre Repubbliche del Baltico – Estonia, Lettonia e Lituania – proclamano l’indipendenza, che il 27 agosto è riconosciuta dalla Comunità europea; anche a Kiev il Parlamento ucraino vota l’indipendenza e indice il referendum popolare per il 1° dicembre; a fine mese seguiranno le Repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Gorbaciov il 24 agosto si dimette da segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica.

Formalmente resta presidente della Repubblica fino alla sera di Natale, quando annuncia le sue dimissioni in un breve discorso in tv. La bandiera rossa con falce e martello viene ammainata dal più alto pennone del Cremlino e sostituita con quella bianco-rosso-blu della Federazione Russa (rispolverata dal tempo degli zar). Il 26 dicembre 1991 si riunisce per l’ultima volta il Soviet supremo, che ratifica lo scioglimento dell’Urss» (Fornara). 

«L’Unione Sovietica cessò di esistere il 31 dicembre del 1991. Ma il suo certificato di morte fu firmato in Bielorussia l’8 dicembre di quell’anno dai presidenti di Russia, Ucraina e Bielorussia, Boris Eltsin, Leonid Kravchuk e Stanislav Shushkevich. […] "Dal giorno del mio ritorno dalla Crimea dopo il golpe di agosto non avevo fatto altro che tentare di ricucire uno straccio di trattato per rifondare l’Unione. 

Con le Repubbliche che ci volevano stare. Alle loro condizioni. Anche senza di me. Almeno una parte. Certo non i Baltici, che avevano già deciso. Trattative su trattative, bozze di accordo su bozze di accordo per cercare di tenere insieme il Paese. L’Ucraina non partecipò: soprattutto dopo il referendum sull’autonomia, rifiutava ogni incontro. Ma io mi ostinavo caparbiamente a tentare ogni carta. 

Ero convinto che, se la Russia, la Bielorussia e gli altri avessero firmato, in qualche modo anche Kiev avrebbe aderito. Eltsin continuava a dire ‘l’Unione ci sarà’. Ma aveva ben altre intenzioni".  […] Lei si dimise solo il 25 dicembre del 1991. "Nei 17 giorni che seguirono gli accordi di Belovezha mi aspettavo una reazione degli intellettuali, della gente. Certo, il Paese era sotto choc. Nessuno comunque scese per strada. Sembrava quasi che le sorti dell’Urss fossero un problema soltanto mio. Non ci fu un ukaz per destituirmi. Lo decisi autonomamente. Salutai i leader stranieri, parlai al Paese e me ne andai"» (Fiammetta Cucurnia). 

«“Termino qui le mie attività di presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche”, annunciò in tv la sera di Natale del 1991, mentre sul Cremlino veniva ammainata la bandiera rossa dell’Urss. […] “Sono molto preoccupato, ma ho anche fiducia e speranza. […] Avevamo molto di tutto – terra, petrolio e gas, altre risorse naturali – e intelletto e talento in abbondanza. Eppure, vivevamo peggio dei Paesi industrializzati… Questo Paese soffocava, incatenato da un sistema di comando burocratico… schiacciato dal peso della corsa agli armamenti… Stavamo andando verso il nulla, dovevamo cambiare tutto radicalmente”.

Poi Gorbaciov difese la decisione di imboccare la via delle riforme, e fece un bilancio: “Le elezioni libere sono diventate realtà… libera stampa, libertà di culto, un sistema multipartitico, un’economia diretta verso la parità di tutte le forme di proprietà”. Disse: “Questa società ha acquisito la libertà… ma non abbiamo ancora imparato a usarla”.

Negli anni successivi vennero lo sviluppo selvaggio dell’economia e le disuguaglianze, la ricerca di un’identità per un Paese abituato a essere impero e non più potenza. Vennero povertà e crisi e guerre, e poi venne Putin, che garantì stabilità in cambio di una gestione autoritaria del sistema» (Antonella Scott). 

Dopo le sue dimissioni, proclamandosi socialdemocratico, Gorbacëv provò in più di un’occasione a recuperare un ruolo politico di primo piano, senza tuttavia riuscirci: emblematica la débâcle rimediata dalla sua candidatura da indipendente, con appena lo 0,5% dei consensi (settima posizione), alle elezioni presidenziali del 1996, le stesse che sancirono, al secondo turno, la conferma al potere dell’odiato Eltsin, con il 54,4% dei voti.

In seguito, nei confronti di Putin Gorbacëv ha dimostrato un atteggiamento ambivalente, critico verso la sua impostazione scarsamente democratica e la sua eccessiva permanenza al potere e favorevole invece ai suoi interventi in ambito economico (soprattutto nei primi anni) e alle sue rivendicazioni territoriali, con particolare riguardo alla Crimea. «“Al posto di Putin avrei agito allo stesso modo”, ribadisce. […] “La libera volontà popolare e la maggioranza dei cittadini della Crimea voleva che fosse riannessa alla Russia”. […]

Gli dico che Gorbaciov, l’uomo che ha contribuito alla caduta del Muro di Berlino rifiutandosi di reprimere le sommosse popolari nell’Europa dell’Est, non avrebbe annesso la Crimea. La sua risposta è ancora più eloquente: “L’unico vero motivo per cui non lo avrei fatto è che, se fossi rimasto al potere, avrei tenuto in vita l’Unione Sovietica, e la Crimea ne farebbe ancora parte”» (Mark Franchetti)

• Da ultimo è stato il protagonista di un documentario girato da Werner Herzog e André Singer, Meeting Gorbachev, che nel gennaio 2019 ha aperto il Trieste Film Festival. «Herzog tratteggia il ritratto-testamento di un uomo e di un politico che inseguendo un ideale di socialdemocrazia ha cambiato le sorti del mondo. Il suo sogno, però, si è realizzato solo a metà. 

Gorbachev, stoikiy muzhik, appare come una figura tragica che vive in attesa di terminare i suoi giorni. Quell’uomo che per tutti aveva sognato un mondo migliore oggi è un uomo solo con i suoi rimpianti, che sulla propria tomba vorrebbe l’epitaffio “We tried”. Ci abbiamo provato» (Beatrice Fiorentino) 

• Una figlia, Irina (1957), dall’amatissima moglie Raisa Gorbacëva (1932-1999), «con cui ha condiviso 46 anni di matrimonio e una profondissima amicizia. I due, inseparabili, si erano incontrati all’università, e nel 1953 […] si sposarono. Gorbaciov mi racconta che ogni mattina, per tutti quegli anni, facevano una passeggiata di sei chilometri. 

“Ogni giorno, ovunque fossimo e con qualsiasi tempo: nemmeno neve e temporali ci fermavano. Anche perché Raissa adorava il temporale: se io dicevo ‘Per l’amor del cielo, stiamo a casa’, lei mi rispondeva tutta contenta ‘Dai, andiamo!’. E così mi sono abituato a camminare sotto la pioggia. Quando è morta ho smesso di fare passeggiate, e la mia salute è peggiorata» (Franchetti).

«Non mi sono mai sentito tanto solo. Io e Raisa abbiamo convissuto quasi cinquant’anni, senza mai separarci e senza sentirci mai di peso l’uno per l’altra: insieme siamo stati sempre felici. Ci amavamo, ma anche in privato non ce lo confessavamo spesso. L’essenziale era preservare quel sentimento che era nato tra noi fin dagli anni della giovinezza. Ci comprendevamo e cercavamo di proteggere il nostro rapporto» 

• «Gorbaciov non riuscì mai ad essere eletto dal popolo, fallendo ogni tentativo di legittimazione dopo il ripristino di una parvenza di democrazia. Così rimase quel che era stato fin dall’inizio: l’ultimo prodotto del sistema di potere, incapace di riformarlo come aveva promesso e sognato, e alla fine prigioniero di un meccanismo che non faceva sconti a nessuno» (Guzzanti).

«I giudizi politici su un uomo o su un evento dipendono spesso dagli effetti che quell’uomo o quell’evento hanno avuto per la vita di coloro che giudicano. È naturale che le democrazie occidentali diano di Michail Gorbaciov un giudizio positivo; ed è altrettanto naturale che i russi abbiano per lui sentimenti alquanto diversi. Per le democrazie la politica riformatrice dell’ultimo leader sovietico ha significato la conclusione della Guerra fredda, la fine dell’èra del reciproco ricatto nucleare, il ritorno alla libertà dei Paesi satelliti.

Per i russi ha significato il crollo della grande potenza a cui erano orgogliosi di appartenere, la perdita dei benefici economici e sociali (mediocri ma garantiti) di cui tutti avevano goduto, l’avvento di oligarchie rapaci e di organizzazioni criminali, una lunga sequenza di sanguinose guerre civili. Esiste poi il giudizio storico, quello che cerca, per quanto possibile, di sfuggire al criterio della convenienza personale e viene dato con un certo neutrale distacco. Considerato in questa prospettiva, Gorbaciov è un riformatore fallito.

Sperò di rinnovare il sistema sovietico iniettando nel corpo inerte dell’Urss una forte dose di dinamismo economico (la perestrojka) e assicurando una maggiore trasparenza dei pubblici poteri (la glasnost), ma riuscì soltanto a mettere in maggiore evidenza gli incurabili mali del regime. Il maggiore paradosso del riformismo gorbacioviano fu che la perestrojka non funzionò e la glasnost funzionò fin troppo bene: mentre la riforma dell’apparato industriale produceva risultati opposti a quelli desiderati dal Cremlino, la stampa e i cittadini erano più liberi di giudicare e criticare. 

Gli errori di Gorbaciov furono dovuti in buona parte alla sua formazione sovietica. Credeva che il maggiore dinamismo dei dirigenti delle aziende fosse compatibile con la proprietà pubblica di tutti i mezzi di produzione. Credeva che la crescita di una più libera opinione pubblica fosse compatibile con l’esistenza di un solo partito. Credeva che i soviet invocati dalla rivoluzione leninista fossero stati, sia pure per un breve periodo, organismi democratici (non lo furono mai).

E non tenne conto di una famosa riflessione di Alexis de Tocqueville: “Un popolo che ha sopportato a lungo, senza protestare, un regime oppressivo si ribella quando si accorge che il governo ha allentato la sua pressione”. In altre parole, accade spesso che i cattivi regimi crollino quando i loro leader tentano di riformarli» (Sergio Romano). 

«Non esiste una teoria politica, un pensiero, a guidare una stagione che pure metterà fuori gioco la cremlinologia cambiando involontariamente la storia d’Europa e liberando la geografia dell’Urss, fino a travolgere la stessa “natura” sovietica, immobile e intatta per settant’anni, costruita com’era col ferro e col fuoco per durare per sempre. Gorbaciov è tutto prassi, sospinto da uno stato di necessità che lo porta a cambiare, senza sapere dove il cambiamento lo porterà. Non ha un ceto di riferimento, né una leva sociale a disposizione, né una cultura di ricambio.

Si muove interamente dentro l’orizzonte del comunismo – perestrojka non è altro che “ristrutturazione” – tentando un’opera di manutenzione straordinaria, senza sapere dov’è la sponda verso la quale si dirige a zig zag, mentre dietro di lui la vecchia sponda brucia. La sponda, evidentemente, sarebbe diventata visibile solo pronunciando la parola definitiva della fuoruscita dal comunismo: democrazia.

 Ma tutto il gorbaciovismo sta al di qua di quell’approdo, che non riesce a concepire, tutta l’idea-forza del leader è imprigionata nel fascino a sovranità limitata di due concetti intermedi, di due parole a metà: perestrojka invece di democrazia, glasnost(trasparenza) invece di verità. Il comunismo sovietico ferma qui il suo alfabeto leninista, non riesce nemmeno nella fase di massima torsione ad andare oltre se stesso. Eppure in quei sei anni il mondo ha creduto possibile l’impossibile, perché tutte le spinte scomposte che Gorbaciov ha messo in campo avevano superato la soglia russa dell’incredibile» (Mauro). «La causa più profonda della fine del comunismo russo era nel comunismo stesso, giunto nel 1985, quando Gorbaciov diventa segretario, alla carenza d’ossigeno e alla fase della disintegrazione che era fisiologica e che si sarebbe compiuta comunque: anche se al posto del conservatore illuminato vi fosse stato un conservatore oscurantista. […] 

Egli, seppure nolente più che volente, ha agito come uno strumento dell’astuta fatalità o giustizia della storia. In quanto tale, ogni spirito liberale lo ricorderà sempre con rispetto» (Enzo Bettiza) 

• «Prima o poi, il Muro di Berlino doveva cadere. Certo, senza la perestrojka e i cambiamenti che avvennero in Urss non sarebbe stato possibile. L’Europa sarebbe rimasta incastrata per molto tempo ancora. Invece, tutto accadde. Senza sangue. E il merito è di quella generazione di leader che scoprì l’ingrediente per risolvere i problemi: la fiducia. Quello che bisogna ritrovare».

«“Noi credemmo in un nuovo ordine mondiale, ma gli Usa hanno cambiato comportamento molto rapidamente. Hanno elaborato una nuova politica: la guida del mondo da Washington. Sono troppo abituati a essere i padroni. E dunque hanno voltato le spalle agli accordi e ai princìpi di allora. […] La Germania oggi non è libera. I leader europei non sono liberi. E non a causa di Bruxelles: a causa degli Stati Uniti”. Dunque quella casa comune europea in nome della quale si rinunciò al Muro oggi sembra un’occasione mancata? “Noi pensavamo a tutta l’Europa unita, Russia inclusa. Anche se in quel momento l’Unione europea non era pronta per un passo così. Poi, via via, il concetto di Europa è stato riformulato, e non a Mosca: ora, quando si parla d’Europa si intende solo l’Europa occidentale”» (Cucurnia).

«Il più grande rimpianto di Gorbaciov è quello di non essere riuscito a evitare il collasso dell’Unione Sovietica. “Mi rammarico che un grande Paese con grandi potenzialità e risorse sia scomparso. La mia intenzione è sempre stata quella di riformarlo, non distruggerlo”. Gli faccio notare l’amara ironia secondo cui in patria viene criticato, mentre all’estero viene osannato per il suo ruolo nel tramonto dell’Unione Sovietica, ma la verità è che l’opinione pubblica sembra non capire che questa era l’ultima cosa che voleva. “Lei è senz’altro il leader più incompreso del mondo. La gente ancora oggi non la capisce”, gli suggerisco. “Capiranno, capiranno”, ribatte lui con un sorriso. “Serve pazienza”» (Franchetti).

INTERFAX, PER GORBACIOV NON CI SARANNO FUNERALI DI STATO. (ANSA il 31 agosto 2022) - Per l'ultimo leader sovietico, Mikhail Gorbaciov, non ci saranno funerali di Stato a Mosca, secondo quanto riferisce l'agenzia russa Interfax. "Due fonti informate hanno detto a Interfax che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato", scrive l'agenzia.

(ANSA il 31 agosto 2022) - Mikhail Gorbaciov avrà funerali di Stato che si svolgeranno a Mosca sabato. Lo scrive l'agenzia Tass.

(ANSA il 31 agosto 2022) - "Un politico e uno statista che ha avuto una influenza importante sulla Storia del mondo". Così il presidente russo Vladimir Putin ha ricordato Mikhail Gorbaciov nel suo telegramma di condoglianze alla famiglia, secondo quanto riferisce l'agenzia Tass.

(ANSA il 31 agosto 2022) - Mikhail Gorbaciov è stato protagonista di "qualcosa di straordinario" nella storia, "se si guarda a ciò che ha fatto per rendere libera l'intera Europa e per liberare i Paesi dell'ex Urss". 

Lo ha affermato oggi il premier britannico uscente Boris Johnson, argomentando ai media il tributo già reso a caldo nella notte alla memoria dell'ultimo leader sovietico scomparso ieri a 91 anni in Russia; e riproponendolo ancora una volta come un modello a suo dire opposto rispetto a quello dell'attuale presidente russo Vladimir Putin.

Gorbaciov, nelle parole di BoJo, "innescò una serie di cambiamenti a cui probabilmente (all'inizio) non mirava" e pagò a livello personale "un prezzo politico per questo"; ma "la storia lo iscriverà comunque, penso, come uno degli autori di un fantastico cambiamento in meglio del mondo". 

Un cambiamento che tuttavia il premier conservatore britannico imputa a Putin di voler ribaltare, dicendosi "preoccupato dell'intenzione" attribuita all'attuale "leadership di Mosca di disfare ciò che di buono Gorbaciov fece" e di ambire a "ricreare vendicativamente l'Impero Sovietico".

"Lo stiamo vedendo in Ucraina, una tragedia che credo per Gorbaciov fosse impensabile, ingiustificata e irrazionale", ha concluso Johnson secondo quanto riporta la Bbc, il cui sito accompagna la citazione con un’immagine d'archivio d'uno scambio di sorrisi fra Gorbaciov - ritratto in visita a Londra nel 2009 - e lo stesso BoJo, all'epoca sindaco della capitale del Regno Unito.

Media Cina, 'Gorbaciov fece gravi errori, ingenuo con Usa'. ANSA il 31 agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov è una "figura tragica che ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente senza morale", responsabile di "gravi errori" e "ingenuo" nel valutare la situazione internazionale, provocando "il caos nell'ordine economico interno": una parabola politica che rappresenta un "promemoria" per gli altri Paesi ad essere cauti verso l'Occidente. E' il pesante giudizio del Global Times, tabloid del Quotidiano del Popolo, sull'ultimo leader dell'Urss scomparso ieri poche ore dopo l'annuncio sulla data (16 ottobre) del XX Congresso del Partito comunista che darà al presidente Xi un inedito terzo mandato a segretario generale. (ANSA).

Gorbaciov: Peskov, il suo romanticismo non si è realizzato. ANSA il 31 agosto 2022.

"Il romanticismo" di Mikhail Gorbaciov per una pace stabile tra Mosca e l'Occidente "non si è concretizzato, non c'è stato un secolo del miele e la sete di sangue dei nostri avversari si è manifestata". Lo ha affermato il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, parlando alla maratona educativa "Knowledge".

Peskov, citato dalla Tass, ha detto che "Gorbaciov ha dato impulso alla fine della Guerra Fredda, e voleva sinceramente credere che sarebbe finita e che sarebbe iniziato un periodo romantico eterno tra la nuova Unione Sovietica e l'Occidente collettivo". (ANSA).

Gorbaciov: disse 'sfida ecologica nuova perestrojka'. ANSA il 31 agosto 2022.

"La sfida ecologica rappresenta il punto più importante nell' ordine del giorno del XXI secolo'' e a Mikhail Gorbaciov, l' ex presidente dell' Urss, morto ieri a 91 anni, ricordava la spinta al cambiamento e le difficoltà che accompagnarono la sua Perestrojka, il nuovo corso dell'Unione Sovietica. Sono parole dello stesso Gorbaciov, che uscito dalla scena politica si era dedicato ai temi dell'ambiente, in un messaggio alle Marche, dove venne nel 2001 per firmare e presentare a Urbino la Carta della Terra, in qualità di presidente del network Green Cross International.

''Se non saremo in grado di affrontare la sfida ecologica adeguatamente - aveva ammonito - molto della nostra vita perderà di significato". La Carta, che ricevette parole di apprezzamento anche da parte del papa e delle autorità ecclesiastiche, ''sarà un pilastro per lo sviluppo sostenibile e durevole'', paragonato alla Dichiarazione dei diritti dell' Uomo. La Carta era nata dal basso, spiegò, dall' incontro di culture e religioni diverse, ''dai pensieri, dalle speranze e dai sogni di migliaia di persone'' davanti alla crisi globale che il pianeta stava attraversando ''sia per quanto attiene la condizione ambientale, sia per la giustizia sociale, la pace e la democrazia''.

Gorbaciov aveva invocato "una grande sforzo comune", citando gli anni della Perestrojka, sostenendo che l' apertura alla libertà e alla democrazia partì da una serie di dimostrazioni su questioni ambientali: "davanti alla forza di queste dimostrazioni noi, in rappresentanza del governo, fummo costretti a chiudere 1.300 aziende che causavano danni all' ambiente. Un test nucleare fu sospeso e un intero progetto riguardante le acque dei fiumi dal sud al nord del paese fu anch' esso messo da parte''.

Durante la sua visita nelle Marche (con tappe anche a Loreto, Ascoli Piceno e Ancona), parlò di energia con gli imprenditori locali e ricevette una laurea honoris causa in economia politica dall'Università Politecnica delle Marche, oltre a partecipare ad una cena di gala con Rita Levi Montalcini. (ANSA).

QUELLA VOLTA CHE GORBACIOV GIRÒ UNO SPOT PER LA PIZZA. Da open.online il 31 agosto 2022.

L’ex leader dell’Urss Mikhail Gorbaciov, morto ieri all’età di 91 anni, nel 1997 girò uno spot televisivo per Pizza Hut. 

Nella pubblicità che andò in onda a livello internazionale nel gennaio 1998 – ma non in Russia – l’ex presidente, seduto al tavolo con una bambina, veniva riconosciuto dagli avventori scatenando un dibattito sul suo operato tra chi lo accusava di aver generato instabilità economica e chi lo difendeva per aver restituito al paese la libertà.

Il dibattito che si chiudeva con l’accordo di tutti proprio grazie alla pizza. Il finale era affidato a una voce fuori campo: «A volte, niente unisce le persone meglio di una bella pizza calda da Pizza Hut». 

Al termine, lo slogan “Buoni amici. Ottima pizza“. Per l’apparizione nello spot Gorbaciov ha ricevuto un compenso di un milione di dollari, poi devoluto alla sua Fondazione.

Matteo Redigolo per gliann80.com – articolo del 25 gennaio 2018 

Qualche settimana fa ho riascoltato una canzone a dir poco strana, un brano che pensavo fosse in lingua russa, o perlomeno dell’est Europa, con un video incentrato sul comunismo e sui suoi ideali… in realtà mi sbagliavo! 

Questo brano targato 1987 viene scritto con l’avvento della “Perestroika”, l’apertura alle riforme dell’URSS che c’era stata dopo l’elezione a presidente sovietico di Mikail Gorbaciov, ma che finì in un certo senso fuori controllo ponendo fine all’URSS come entità politica e a 40 anni di guerra fredda.

Sull’onda di questa occidentalizzazione sovietica, noi italiani abbiamo confermato la nostra fama di “popolo del mandolino” riuscendo a trarne un brano dance, anche molto orecchiabile, che è appunto “Tovarisc Gorbaciov” (Compagno Gorbaciov)! Il gruppo a cui va attribuita la canzone è The Midnight’s Moscow, che grazie ad un grammelot (termini a caso ma che ricordano le sonorità della lingua russa), approva o boccia una serie di importanti personaggi della storia russa con “Da” o “Niet” (Sì o No), che sono forse gli unici veri termini di vocabolario russo, mentre tutti gli altri sono inventati! Vengono nominati Stalin, Lenin, Rasputin, il KGB e tanti altri.

Il punto è che al tempo molti italiani pensavano che il brano fosse veramente russo! Anche per effetto delle vicende di quel periodo che erano concentrate spesso sulla USSR, il brano ottiene molto successo in Italia, ma anche all’estero, tra l’altro nell’Est Europa dove il sound russo… suona familiare. 

Quindi mettetevi il cuore in pace, la traduzione del brano non esiste: solo noi italiani potevamo fare una cosa del genere!

È morto Michail Gorbaciov, ultimo vero leader dell’Urss e premio Nobel per la pace. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 31 Agosto 2022.  

Morto a 91 anni l’ultimo segretario generale del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Artefice della dissoluzione dell’Urss (quella che Putin vorrebbe ricostituire) e della fine della Guerra Fredda con l’Occidente

E’ morto Mikhail Gorbaciov. L’ex segretario generale del Pcus ed ex presidente dell’Unione Sovietica aveva 91 anni. L’agenzia russa Tass riporta la nota diffusa dal Central Clinical Hospital, l’ospedale di Mosca dove Gorbaciov era ricoverato: “Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia“. Da quanto riferisce la Tass citando una fonte vicina al politico, le sue condizioni si erano aggravate negli ultimi mesi e dal 20 giugno Gorbaciov era sotto la costante supervisione dei medici. Secondo la fonte, l’ex presidente era stato ricoverato in ospedale nel 2020, “all’inizio della pandemia di coronavirus“, su richiesta dei medici.

Nato il 2 marzo 1931 a Privol’noe, in provincia di Stavropol‘, nel Sud della Federazione russa, da una famiglia di agricoltori, nel 1955 Gorbaciov si laurea in giurisprudenza all’Università Lomonosov di Mosca. Durante una festa nella casa dello studente di Sokolniki, incontrò Raisa Maksimovna Titarenko, che studiava filosofia e sociologia. Se ne innamora subito e la sposa subito dopo. Un’unione durata fino alla morte di lei, avvenuta a Muenster, in Germania, nel settembre 1999. 

È stato l’ultimo segretario del Partito Comunista sovietico ma anche colui che ha cancellato il comunismo dove era stato più reale che mai. Come ha detto il grande scrittore israeliano Amos Oz, “per cambiare il mondo bisogna diventare o essere dei traditori“, allora in tal caso Michail Gorbaciov lo è stato più di tutti, nel corso almeno degli ultimi ottant’anni. Con la sua scomparsa se ne va uno di quegli uomini che hanno dato alla storia, a quella con la “S” maiuscola anche se a volte non se la merita, una faccia diversa, e per sempre.

Fa un certo effetto leggere nella sua biografia , che alla voce “suo successore” la casella viene riempita da un “carica abolita“, perché Eltsin, che arrivò dopo di lui nel 1991, si chiama ormai “presidente della Federazione Russa” e la parola “comunista” è stata cancellata. 

Probabilmente non è ancora il momento per tracciare un bilancio di quello che la storia porterà con sé in quel mondo a seguito della rivoluzione proclamata e portata avanti da quest’uomo: certo le parole russe “Perestrojka” e “Glasnost”, cioè “riforme” e “trasparenza” allora avevano lasciato il mondo con gli occhi sgranati a bocca aperta, poichè queste parole significavano che il più grande Paese al mondo stava attraversando una rivoluzione non meno drastica e traumatica di quella vissuta neanche un secolo prima, con la caduta dell’impero zarista. Questa nuova rivoluzione russa portava la sigla di un solo uomo, un vero politico che era lui, che la propugnò e la portò avanti con una decisione che sembrava arrivare da un altro mondo.

Legittimo chiedersi cosa direbbe oggi Gorbaciov, di fronte alle rinnovate manie di grandezza imperialista di cui il suo Paese fa sfoggio, causando a una guerra insensata. Di fronte a un regime che non ha più nulla della Glasnost e della Perestrojka, che non assomiglia neanche al comunismo reale in cui la Russia è rimasta attanagliata per più di settant’anni, che sogna fors’anche nostalgie dell’Impero ma senza fasti e con uno squallore decadente. 

La Russia di Vladimir Putin non è certo il coronamento di quel sogno di riconciliazione che Gorbaciov ha desiderato e cercato per gran parte della sua carriera politica, e che nel 1990 gli procurò il Premio Nobel per la Pace. La sobrietà e trasparenza della sua vita privata, affianco alla sempre sorridente Raissa, sembrano lontane anni luce dall’alone di “machismo” e mistero di cui la leadership odierna della Russia deve ammantarsi, con una sfilza di amanti e pose eroiche a torso nudo. Gorbaciov è certamente sempre stato più amato all’estero che nel suo Paese, dove la diffidenza nei suoi confronti non è stata tenera.

La sua lunga carriera politica, i viaggi per il mondo in cerca di un dialogo sempre costruttivo e innovativo, le riflessioni sul passato e il futuro del regime che guidava, appaiono oggi radicalmente differenti dalle strategie machiavelliche e goffe, che la Russia sta manifestando negli ultimi tempi. Legittimo chiedersi ed interrogarsi cosa penserebbe e direbbe oggi, Gorbaciov, di tutto questo e tanto altro. 

Lui che una volta dimessosi da Presidente dell’Urss non uscì dalla scena politica e diplomatica internazionale ma si dedicò alla Fondazione non governativa di studi politici ed economici che portava il suo nome, ad attività legate al Women’s World Award di cui era presidente, alla difesa dell’ambiente. Tutti problemi e contesti che negli Anni 90 non sembravano essere così urgenti e oggi invece lo sono diventato senza alcun dubbio.

Se per cambiare il mondo bisogna diventare dei traditori, Michail Gorbaciov allora lo è stato fino in fondo, con una coerenza mirabile, una tenacia mai sopita, un senso della missione politica capace di guardare sempre un po’ più in là, persino oltre gli sconfinati orizzonti della grande Russia. 

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie, come ha reso noto alla Tass una persona che conosceva i desideri dei parenti dell’ex presidente.

Mikhail Gorbaciov è morto. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’Unione sovietica, è morto all’età di 91 anni. Sarà sepolto accanto alla moglie Raissa, a Mosca. 

Mikhail Gorbaciov, ex presidente dell’Unione sovietica, è morto all’età di 91 anni, dopo una lunga malattia. Gorbaciov — che, da ultimo segretario generale del Partito comunista sovietico, pose fine alla Guerra fredda con gli Stati Uniti, ma non riuscì a evitare il collasso dell’Unione sovietica — fu l’ultimo leader dell’Urss, e venne insignito nel 1989 della Medaglia Otto Hahn per la Pace e, nel 1990, del Nobel per la pace. Secondo quanto riferito dalla Tass, sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie Raissa. Della guerra di Putin all’Ucraina aveva detto, secondo il direttore dell’Eco di Mosca, pochi mesi fa: «Questa invasione ha rovinato tutti i suoi precedenti sforzi per la Russia». 

Quando uscì il suo nome dalla riunione del Politburo che doveva scegliere il successore di Konstantin Chernenko, tutti furono presi alla sprovvista. Il candidato più quotato era Viktor Grischin, 68 anni, un altro esponente della gerontocrazia che da tempo governava l’Urss. Dopo Leonid Brezhnev, morto a 76 anni nel 1982, era venuto il sessantottenne Yurij Andropov, e poi, dopo soli due anni, il settantatreenne Chernenko che se n’era andato il 10 marzo 1985. 

Invece questa volta il vertice del partito aveva accolto la raccomandazione che Andropov aveva fatto in punto di morte. 

«Scegliete un giovane, scegliete Gorbaciov perché lui è l’unico che può ridare slancio al Paese, rimettere in piedi l’Urss e ridare fiato al partito». 

Così il cinquantaquattrenne Mikhail Sergeyevich, che da poco era diventato membro effettivo del supremo organo di governo dell’Urss, l’11 marzo del 1985 si ritrovò sulla poltrona di Gensek, a coronamento di una carriera brillante, iniziata nella nativa regione di Stavropol, a ridosso della Crimea. 

Era lì che il giovane Mikhail, nato nel 1931, aveva vissuto il disgelo dell’epoca di Krusciov, che tante speranze aveva suscitato nei quadri più dinamici. Ed era lì che era nata la sua fortuna quando si era trovato, come segretario del partito per la regione, ad accompagnare in vacanza il potente capo del Kgb Andropov, che lo aveva preso sotto la sua ala protettiva. 

Già il suo aspetto, il fatto che la moglie Raissa comparisse in pubblico, il voler girare il Paese e incontrare la gente furono visti come una rivoluzione. Si parlò di un nuovo disgelo, mentre lui spiegava che il Paese aveva bisogno di una «accelerazione» per tentare di riguadagnare il terreno perduto nei confronti dell’Occidente. 

La situazione, come sapeva bene il Kgb, era disastrosa. Alla stagnazione brezheviana era seguita negli anni Settanta la ripresa della corsa agli armamenti. Ronald Reagan aveva dato il colpo finale con il suo programma di Guerre Stellari che aveva gettato nel panico i militari e aveva fatto saltare ogni piano economico. 

L’Urss non ce la faceva a produrre generi di consumo, le spese militari erano folli, l’avventura in Afghanistan («per contenere l’avanzata del capitalismo») stava dissanguando il Paese in tutti i sensi. All’«accelerazione», con gli incentivi alla produttività, fece seguito il programma per legare i salari al lavoro, abbandonando l’egualitarismo. 

Poi arrivarono la Perestrojka e la Glasnost. Ristrutturazione del sistema economico sovietico con l’introduzione di fortissimi elementi di mercato. E in più la Trasparenza, la partecipazione del popolo di cui Gorbaciov ricercava il consenso. 

Di pari passo andava avanti la trasformazione politica. Via i vecchi conservatori dai posti chiave, nel governo e nel partito: Eduard Shevardnadze prendeva al ministero degli Esteri il posto di Andrej Gromiko, sopravvissuto ai tempi di Stalin. Andrej Sakharov ritornava a Mosca dall’esilio interno. Veniva convocata la Conferenza del Pcus nella quale per la prima volta nasceva una specie di «corrente», la piattaforma democratica. Poi le elezioni libere, fino alla storica abolizione nel 1990 dell’articolo 6 della Costituzione che stabiliva il ruolo guida del partito. 

Intanto il gensek (generalnij sekretar) affrontava la folle corsa agli armamenti, tentando di convincere gli americani che l’immagine che proiettavano di lui le tv e i giornali popolari era quella vera. La prima a credere in lui fu Margaret Thatcher : «We can do business together» (possiamo lavorare insieme). Al primo vertice, a Ginevra, Reagan non fece grosse aperture. Ma poi gli accordi sulla limitazione delle testate, dei missili intercontinentali, arrivarono, con Reagan e con Bush padre. 

L’Urss poteva ora destinare le sue risorse a migliorare il tenore di vita dei suoi cittadini.

Forse, però, era ormai troppo tardi. 

La resistenza dei burocrati, dei direttori delle fabbriche, di tutta la nomenklatura era fortissima. Gorbaciov non ebbe il coraggio di spingere fino in fondo e, per questo, venne abbandonato dai riformisti più accesi, come Eltsin e Shevardnadze. 

La campagna contro la vodka aveva contribuito a minare la sua popolarità che all’inizio era stata altissima. Poi venne il programma dei cinquecento giorni di Grigorij Yavlinskij, che avrebbe dovuto portare all’introduzione in Urss dell’economia di mercato. Davanti agli attacchi durissimi dei vecchi boss, da Ligaciov a Ryzhkov, Gorby, come lo chiamavano all’estero, fece marcia indietro. Abbandonò il giovane economista per adottare invece un programma assai più moderato. 

Fu avviata la riforma monetaria che portò alla corsa verso gli accaparramenti nei negozi. Ore di fila per ricevere una salsiccia. Razionati zucchero, sigarette, sapone. I radicali si erano raccolti attorno a Boris Eltsin che dopo essere stato cacciato dal vertice era «resuscitato» con l’elezione trionfale alla presidenza del Soviet Supremo russo. L’impero iniziava a sfaldarsi. 

La vittoria di Solidarnosc alle elezioni polacche del 1989, l’apertura delle frontiere da parte dell’Ungheria, il crollo del muro di Berlino il 9 novembre dello stesso anno, al quale Gorbaciov ebbe l’accortezza di non opporsi. Poi la «recessione» delle tre repubbliche baltiche. Gorbaciov tentò di tenere assieme i cocci dell’Urss ricorrendo al Trattato dell’Unione, tra tutte le altre Repubbliche. Ma la situazione si faceva sempre più difficile. 

Il segretario, diventato nel frattempo presidente dell’Urss, era incerto, ondeggiava tra i riformisti e i conservatori. Questi ultimi ebbero l’impressione che avrebbe avallato una loro iniziativa per rimettere le cose a posto. E alla vigilia della firma dell’accordo, il 19 agosto 1991, tentarono il colpo di Stato. Sulla carta erano in grado di controllare il Paese: Primo Ministro, ministro dell’Interno, capo del Kgb. Non avevano messo nel conto il fatto che i cittadini dell’Urss erano cambiati. E che Boris Eltsin non era disposto a cedere. 

Quando Corvo Bianco si presentò ad arringare la folla davanti al palazzo del Soviet Supremo e salì su uno dei carri armati mandati dai golpisti, l’esercito non reagì. Il colpo di stato era fallito (solo il ministro dell’Interno Pugo si suicidò, gli altri finirono brevemente in prigione).

 Il potere oramai era nelle mani del capo della Russia, la repubblica più importante dell’Urss. 

Di fronte a un nuovo tentativo di Gorbaciov di rilanciare il Trattato dell’Unione, Eltsin passò all’attacco. Assieme ai capi delle altre due repubbliche slave, Bielorussia e Ucraina, decise l’8 dicembre lo scioglimento dell’Urss. Il giorno di Natale del 1991 la bandiera sovietica veniva ammainata dal pennone più alto del Cremlino. 

Gorbaciov doveva lasciare una poltrona che non esisteva più. 

Il «dopo» scioglimento dell’Urss è una storia diversa. Amatissimo all’estero, l’ultimo gensek era odiato in patria. Un suo tentativo di rientrare sulla scena politica, alle elezioni del 1996, fu catastrofico: riportò meno dell’1 per cento dei voti. 

Ritiratosi nella fondazione che portava il suo nome, ebbe un altro durissimo colpo nel 1999, con la morte dell’amata Raissa. 

Con Putin, Gorbaciov era uscito in Russia dall’elenco dei «non esistenti» e aveva ricominciato ad avere un ruolo anche di rappresentanza internazionale. Poi, di fronte alla svolta autoritaria di Vladimir Vladimirovich, aveva preso le distanze dal Cremlino, criticando più volte le scelte di Putin. Fino a diventare uno dei proprietari (assieme all’oligarca Aleksandr Lebedev) del giornale d’opposizione Novaya Gazeta per il quale aveva lavorato Anna Politkovskaya. 

Nel marzo 2021, per il suo novantesimo compleanno, il portavoce del presidente parlando con i giornalisti disse semplicemente che al Cremlino si guarda a Gorbaciov come a una «parte della storia, con grande rispetto». Certamente saranno molti di più quelli che lo piangeranno nel resto del mondo e soprattutto in Germania.

Gorbaciov, gigante che cambiò il mondo (odiato nella sua patria): dall’Urss alle critiche a Putin. Paolo Valentino su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.  

Mikhail Gorbaciov, morto martedì 30 agosto a 91 anni, demolì il Muro, ma passa alla Storia come un gigante senza pace. Credeva che ogni nazione dovesse decidere il proprio destino: l’opposto di quanto pensi Vladimir Putin 

Un eroe tragico, un gigante senza pace, il comunista che cercando di salvarlo seppellì il comunismo, il patriota che con le migliori intenzioni preparò la fossa al primo Stato socialista della Storia. 

Tutto questo e altro ancora è stato Mikhail Sergeyevich Gorbaciov — morto martedì 30 agosto a 91 anni —, l’uomo che, come Icaro, pensò di poter volare vicino al sole ma finì per distruggere sé stesso e l’opera che voleva preservare. 

Se potessimo arbitrariamente ridurre a una sola persona, a una sola biografia il Novecento e quelle che Paul Klee chiamava le sue Harte Wendungen, le sue svolte brusche, molto probabilmente questa sarebbe Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione Sovietica, vero demolitore del Muro di Berlino e architetto di quella perestrojka che si rivelò il canto del cigno della Superpotenza comunista. 

«Non si poteva andare avanti allo stesso modo», disse in una delle ultime interviste ricordando il suo disperato tentativo di riformare un sistema ormai ossificato, travolto dalla bancarotta ideologica, politica ed economica. Un passo obbligato, nella sua visione, ma un passo avventato. Che in fondo lo denudò come cattivo marxista: al contrario dei compagni cinesi, che avrebbero aperto a un capitalismo selvaggio stringendo le viti della democrazia e difendendo brutalmente il ruolo di guida del partito, Gorbaciov iniziò dalla sovrastruttura politica (la glasnost, la fine della censura, il diritto a manifestare) mentre si mosse poco e confusamente nella struttura economica, mezze riforme e timide aperture al mercato. E intanto, costretto dal riarmo dell’America di Reagan e sperando negli aiuti dell’Occidente, col quale si era vantato di avergli tolto il nemico, cedette pezzo per pezzo i cardini della potenza sovietica: gli euromissili, le armi strategiche e quelle convenzionali, il patto di Varsavia, le aree di influenza. 

Quando nel 1989, il generale Sergeij Akromeev incontrò per la prima volta il nuovo capo della delegazione americana ai negoziati Start, Richard Burt, gli disse senza perifrasi che Gorbaciov aveva tradito il comunismo, ma che lui, che aveva combattuto nell’assedio di Leningrado, non avrebbe mai permesso che l’Unione Sovietica venisse umiliata in quella trattativa. Andò diversamente. 

Ma l’aneddoto conferma che quella di Gorbaciov era la ricetta perfetta per essere odiato in patria: i russi stavano peggio, vedevano la loro superpotenza denigrata e per la prima volta in quattro secoli potevano anche protestare a voce alta. 

L’Occidente e il mondo devono però molto a Michail Sergeyevich, che non si è mai pentito delle sue scelte, convinto che non si potessero negare le aspirazioni alla libertà e alla democrazia di polacchi e cechi, ungheresi e tedeschi dell’Est. Rimane scolpita nel marmo la frase con cui ammonì Erich Honecker, eterno leader della Ddr, innescandone la fine: «La vita punisce chi arriva in ritardo». Il paradosso fu che la profezia sarebbe valsa anche per lui. 

Si è sempre lamentato Gorbaciov, che dopo la fine della Guerra fredda i leader occidentali non seppero costruire una nuova architettura della sicurezza in Europa. E che nell’umiliazione inflitta alla Russia negli anni Novanta affondino le radici del revanscismo neo-imperiale di Vladimir Putin. Verità elementare. 

Ma la sua ferma convinzione che ogni nazione dovesse decidere da sé il proprio destino, riassunta da un suo collaboratore nella cosiddetta «dottrina Sinatra» citando la celebre My Way, è l’esatto opposto della pretesa dell’attuale leader del Cremlino di poter imporre lui, a suon di cannonate, cosa debbano essere un Paese e un popolo. Requiem per un grande della Storia.

Morte Gorbaciov, l'incontro con Papa Woytila nel 1989. Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

L'annuncio in televisione il 25 dicembre 199. Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

(LaPresse) Il 25 dicembre 1991 con un discorso in diretta Tv Mikhail Gorbaciov, presidente dell’Urss, ultimo Segretario Generale nonché l’uomo che aveva avviato i cambiamenti epocali, annunciò le sue dimissioni. 

«Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!»: le frasi più celebri sull’ex leader dell’Unione sovietica. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Mikhail Gorbaciov, ultimo leader sovietico, è morto martedì 30 agosto, all’età di 91 anni: da Reagan a Thatcher, ecco alcune delle frasi più note su di lui 

Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica, è morto martedì 30 agosto a 91 anni. Ecco alcune delle più note frasi pronunciate su di lui nel corso degli anni. 

«Mi piace il signor Gorbaciov. Possiamo lavorare insieme»

(Margaret Thatcher, premier britannica, intervista alla Bbc, 14 dicembre 1984) 

«C’è un segnale che i sovietici possono dare, un segnale inequivocabile, e che accelererebbe in modo drammatico la causa della libertà, e della pace. Signor Segretario Generale Gorbaciov: se cerca la pace, se cerca la prosperità per l’Unione sovietica e per l’Europa dell’Est, se cerca la liberalizzazione: venga qui, a questa porta! Signor Gorbaciov, apra questa porta! Signor Gorbaciov, abbatta questo muro!»

(Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti, discorso al Muro di Berlino, 12 giugno 1987) 

«Negli ultimi anni si sono verificati drammatici cambiamenti nei rapporti tra l’Est e l’Ovest. Un rapporto conflittuale è stato sostituito da negoziati. I vecchi stati nazionali europei hanno riconquistato la loro libertà. La corsa agli armamenti sta rallentando... Questi cambiamenti storici derivano da diversi fattori: ma nel 1990 il Comitato per il Nobel vuole onorare Mikhail Gorbaciov per i suoi numerosi e decisivi contributi».

(Comunicato del Comitato del Premio Nobel per la Pace, 15 ottobre 1990) 

«Il comitato del Nobel non sa di che cosa parla. Fateli venire a vivere un paio di mesi a vivere qui, come noi russi, sentiamo cosa ne pensano. La pace è solo per gli stranieri?»

(Insegnante di Mosca, non identificato, citato dalla Reuters in un lancio d’agenzia del 15 ottobre 1990) 

«Un pericolo mortale incombe sulla nostra madre patria. La politica di riforme lanciata da Mikhail Gorbaciov e concepita come mezzo per assicurare lo sviluppo dinamico del Paese e la democratizzazione della vita sociale, è entrata in un vicolo cieco. Mancanza di fiducia, apatia e disperazione hanno sostituito l’entusiasmo e le speranze originali. Le autorità a tutti i livelli hanno perso il sostegno della popolazione. Il Paese è diventato ingovernabile, e sta sprofondando nel pantano della violenza e dell’illegalità. Mai prima d’ora nella storia nazionale la propaganda del sesso e della violenza ha assunto una tale portata, minacciando la salute e la vita delle generazioni future. L’orgoglio e l’onore del popolo sovietico devono essere ripristinati in pieno»

(Dichiarazione del Comitato per la situazione d’emergenza nell’Unione sovietica dopo aver annunciato che a Gorbaciov erano stati tolti i suoi poteri a seguito di un colpo di Stato fallito nell’agosto del 1991) 

Nichols: «Tanti errori, però aiutò Reagan a chiudere la Guerra fredda».  dall‘inviata a New York Marilisa Palumbo su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

Il sovietologo: «Non era un eroe romantico, ma un uomo degli apparati». 

«Ronald Reagan non avrebbe potuto fermare la guerra fredda senza Gorbaciov, avevano uno bisogno dell’altro. Reagan era entrato in carica impegnandosi a contrastare l’Unione Sovietica, ma arrivati al 1984 aveva cominciato a cercare dei partner con cui parlare a Mosca e non riusciva a trovarne finché non arrivò Gorbaciov. Entrambi avevano capito di non poter andare avanti così. Reagan aveva compreso che la corsa agli armamenti era andata troppo oltre. Gorbaciov sapeva che l’Unione Sovietica non poteva continuare sulla strada che stava percorrendo. Entrambi erano uomini disposti a parlare di un vero cambiamento. Per Gorbaciov fu però un processo molto più complicato perché aveva tantissimi oppositori in casa».

Tom Nichols, sovietologo che per anni ha insegnato allo Us Naval War College, conosciuto in Italia per il suo libro sulla fine della competenza, vuole sottrarsi però alle mitizzazioni: «Fece molti errori, ma alla fine scelse la cosa più importante, di essere un essere umano. Non dovremmo farne una figura troppo romantica, ha passato la vita nel Partito comunista e il suo mentore era Yuri Andropov, che era stato anche capo del Kgb, un personaggio davvero terrificante. Ma davanti al dilemma se usare la forza per mantenere insieme l’Urss e il Patto di Varsavia, scelse l’opzione di essere un essere umano».

Si ricorda quando ha sentito parlare per la prima volta di lui?

«Studiavo l’Unione sovietica al college, e la prima cosa che mi colpì di lui era quanto fosse giovane. Era un’altra generazione, e la cosa mi rendeva speranzoso. Poi più avanti, quando lui e Reagan dichiararono insieme che una guerra nucleare non si sarebbe mai dovuta combattere, pensai che era un momento importante, ma come molti americani, essendo cresciuto guardando figure come Brezhnev e appunto Andropov, ancora non mi fidavo appieno».

Chi fu nell’amministrazione Usa a capire di avere davanti una persona diversa?

«Nancy Reagan, per cominciare. E Shultz (il segretario di Stato di Ronald Reagan, scomparso lo scorso anno, ndr)».

Fu lasciato solo alla fine?

«Io credo che lo aiutammo standogli fuori dai piedi. George H. Bush disse: “Non danzeremo sul muro di Berlino”, e noi cercammo di non umiliarlo, di trattarlo come un pari fino alla fine ed è stato importante. Non c’era molto altro che potessimo fare, non provammo a convincerci di poter in qualche modo influenzare gli eventi all’interno dell’Unione Sovietica. E lui era molto odiato in casa, non è mai riuscito a farsi rieleggere in Russia. E poi le sue storie sulla fine dell’Unione sovietica cambiavano in continuazione a seconda del suo interlocutore: se parlava in Occidente diceva una cosa, se parlava in Russia sosteneva che la caduta dell’Urss era stata una tragedia».

E dopo, negli anni di Eltsin? Si poteva fare di più per coinvolgere la Russia nel nuovo ordine mondiale?

«Non so che cosa altro avremmo potuto fare, abbiamo trattato Mosca come una potenza più grande di quanto non fosse davvero, l’abbiamo fatta entrare nel G7... La terribile realtà sulla guerra in Ucraina è che Mosca non accetterà mai che sia un Paese separato».

Gorbaciov, il ricordo di Sergio Romano: «Aveva l’abito giusto, ma poche idee. Portò la libertà ma affossò l’economia». Paolo Salom su Il Corriere della Sera il 31 Agosto 2022.

L’ambasciatore in Urss dal 1985 al 1989 sui suoi anni moscoviti: «Mikhail diverso dai suoi predecessori: quando lo dissi a Roma e capii di non essere più gradito»

«Quando arrivai a Mosca, nel 1985, la capitale dell’Unione Sovietica era in sostanza ancora quella di Stalin. L’Urss era allora una gigantesca macchina burocratica che funzionava sempre allo stesso modo».

Sergio Romano è un testimone privilegiato. Ambasciatore d’Italia a Mosca tra il 1985 e il 1989, ha assistito di persona alla «rivoluzione» che avrebbe cambiato per sempre l’Urss. Non solo: diplomatico di grande esperienza e fine studioso di storia, Romano si accorse sin dal principio che qualcosa, nelle riforme varate da Gorbaciov, cominciava a stonare. Ma pochi, a Roma, si fidarono del suo fiuto, almeno in quel caso.

«Mi sono insediato — spiega al Corriere Sergio Romano — proprio nel momento del passaggio: dopo Andropov e Chernenko, arrivava al Cremlino una figura assai diversa. Noi del corpo diplomatico capimmo subito che Gorbaciov rappresentava una novità assoluta per l’Urss, che si stava per aprire una stagione senza precedenti».

In effetti, il giovane segretario generale del Pcus si presentò allentando per la prima volta la presa della censura e della polizia politica sulla società. «I cambiamenti furono immediati per quanto riguarda, per esempio, la libertà di stampa e di opinione. Ma non solo: ai cittadini sovietici fu concesso, novità assoluta, il diritto di viaggiare ovunque nel proprio Paese, cosa fino a quel momento complicatissima e soggetta a permessi e passaporti “interni”». Insomma, un homo novus: «Dopo una serie infinita di personaggi “ingessati”, ecco arrivare al vertice dell’Urss un uomo garbato ed elegante, capace di muoversi con tatto nella gabbia del potere sovietico».

Eppure, l’ambasciatore Romano si accorse che qualcosa sembrava non funzionare nel verso giusto... «Mi trovai ben presto — dice ancora — a osservare criticamente gli avvenimenti. Rimproveravo a Mikhail Sergeevic di non avere un vero programma economico. Va bene concedere più libertà: tutti erano giustamente contenti. Ma cosa fare del sistema di produzione collettivo? Lui parlò della creazione di una “industria sociale”: ma non spiegò mai in cosa consistesse. Per come la vedevo io, si trattava di introdurre nelle aziende di Stato un po’ di democrazia interna. Ma per il libero mercato, per le privatizzazioni (con il risultato di creare un esercito di oligarchi) dovevamo attendere l’arrivo di Eltsin». E così i suoi rapporti diretti al governo italiano cominciarono a crearle dei «problemi». «Questo non lo so, nessuno mi ha mai detto nulla — risponde Sergio Romano — Tuttavia io mettevo in guardia sul pericolo di eccedere in entusiasmo. Ero preoccupato: non ne sapevamo ancora abbastanza, soprattutto per quanto riguarda la sua idea di politica internazionale». Gorbaciov «si stava presentando al mondo e si era messo l’abito giusto. Ma di cose concrete, progetti: poco o nulla». E quindi si arrivò a una rottura tra lei e il governo a Roma. Può raccontarci, oggi, chi decise di metterla da parte? «Fui io a dimettermi anche se in verità ho avuto l’impressione che si fossero stancati di me. Ero rientrato a Roma e mi era stata proposta una sede di “tutto riposo” presso un’organizzazione internazionale, in una capitale dell’Europa occidentale. Io in vacanza? Preferii lasciare».

Da allora in avanti Sergio Romano si è dedicato a un’altra sua grande passione: la scrittura. Proviamo infine a chiedergli quali politici ricorda legati a quegli anni. «Ho avuto a che fare soprattutto con Andreotti e De Mita. Avevo simpatia per Andreotti: non era un uomo caldo (e nemmeno io), non cercavamo l’amicizia. Ma era stimabile: colto ed esperto». E De Mita? «No, lui non era Andreotti».

Gorbaciov e Eltsin: così l’Unione sovietica cessò di esistere. Sergio Romano su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.  

Molti russi hanno accolto la morte di Gorbaciov con freddezza perché lo ritengono responsabile della disintegrazione dell’Urss. L’accusa è discutibile: ma non priva di qualche verità 

Credo di comprendere le ragioni per cui molti russi hanno accolto la morte di Mikhail Sergeevic Gorbaciov con freddezza. 

Per noi è l’uomo che ha messo fine alla guerra fredda, stretto rapporti cordiali e positivi con tutte le democrazie occidentali (fece una eccellente impressione sulla signora Thatcher, durante un viaggio a Londra), tessuto utili relazioni personali con i maggiori leader del pianeta, aperto i mercati del suo Paese al commercio internazionale. Per molti russi, invece, Gorbaciov sarebbe responsabile della disintegrazione dell’Unione Sovietica. 

L’accusa è discutibile, ma non priva di qualche verità. 

La dissoluzione cominciò quando Gorbaciov, cedendo alle insistenze di Boris Eltsin, firmò il decreto che aboliva il partito comunista dell’Unione Sovietica. 

Era certamente vero che il partito aveva paralizzato l’intero Paese con le sue catene ideologiche e con la sua puntigliosa burocrazia. Ma era altrettanto vero che il partito era la spina dorsale del Paese. 

Ricordo ancora la breve cerimonia televisiva che permise ai cittadini sovietici di assistere alla morte del loro Stato. Gorbaciov era affaticato, forse preoccupato, confuso e smarrito, mentre Eltsin, con un tono padronale, spingeva bruscamente attraverso la scrivania il documento su cui l’infelice compagno avrebbe apposto la sua firma. 

Da quel momento la Russia smise di essere la grande casa che aveva accolto fra le sue mura numerosi gruppi etnici uniti dalla fede comunista. 

Un altro colpo mortale fu inflitto al Paese quando fu deciso di privatizzare le aziende statali. Per realizzare questo disegno ed evitare che il cittadino russo cadesse nuovamente tra le braccia del comunismo, fu deciso che tutti sarebbero diventati proprietari. L’obiettivo era chiaro ma l’applicazione avrebbe richiesto una maggiore gradualità. Per aumentare il numero dei proprietari fu deciso che ogni cittadino russo avrebbe ricevuto una somma di voucher (noi diremmo «buoni») con cui avrebbe comperato il maggior numero possibile di azioni. Ma a questo punto entrarono in scena persone abili e spregiudicate che comperavano voucher per farne azioni. E in tempi relativamente brevi la vecchia patria del comunismo divenne un mercato di voucher. 

Le aziende in questo modo finirono nelle mani di pseudo industriali che erano in realtà spregiudicati avventurieri. Una delle ricadute impreviste di questo fenomeno fu quindi una diffusa criminalità e una legione di nuovi ricchi, veri corsari, che compravano case nelle riviere mediterranee, gestivano casinò o costruivano lussuose ville là dove il cittadino si sarebbe accontentato di una modesta dacia nei sobborghi di Mosca. 

Il regista di questa operazione non fu Gorbaciov e le responsabilità, se mai, furono piuttosto di Eltsin. Ma era Gorbaciov che aveva messo in moto la macchina della modernizzazione post- sovietica e i russi sembrano considerarlo non meno colpevole del suo successore alla guida del Paese.

Quando Gorby a Genova predisse il futuro. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

Caro Aldo, la morte dell’ex presidente russo Gorbaciov, ci riporta indietro di quaranta anni, la caduta del muro di Berlino, la caduta dell’Urss e la speranza che il popolo russo dopo gli Zar, Lenin, Stalin, potesse assaporare la libertà e la democrazia. In cosa sbagliò Gorbaciov? Lei lo ha mai conosciuto? Sergio Guadagnolo

Caro Sergio, In questi giorni Mikhail Sergeevic Gorbaciov è stato ricordato soprattutto come icona pop degli Anni ’80; e in effetti è stato anche questo (indimenticabile il sosia, con tanto di voglia di fragola sulla fronte, che compare nel finale di Rocky IV: film orribile che però con la sconfitta di Ivan Drago presagiva la fine della guerra fredda e il crollo dell’Urss). In realtà, Gorby, come lo chiamammo fin da subito, è stato uno degli uomini più importanti del Novecento: in positivo, dal punto di vista occidentale; in negativo, da quello dei russi. In patria non lo amava nessuno: non ovviamente i nostalgici del comunismo, da lui abbattuto; ma neppure gli avversari del regime, perché lui il comunismo non lo voleva abbattere, bensì riformare. Compito, come si è visto, impossibile. L’ho conosciuto nel marzo 1995, a Genova. Cenammo con Grigorij Javlinskij, un liberale cui veniva predetto un grande avvenire e che quella sera scoprì il pigato e il vermentino, e con Giulietto Chiesa (Gorbaciov lo stimava moltissimo). C’era anche Raissa. Il giorno dopo, nel tentativo di intervistarla, la seguii in una malinconica visita a una scuola di Masone, paesino dell’entroterra. Era già scesa dall’auto e aveva salito le scale, quando alle sue spalle partì un piccolo applauso: erano otto signore venute a salutarla (ma forse erano solo sette). Raissa Gorbaciova — una che aveva familiarizzato con la regina Elisabetta e Nancy Reagan — tornò indietro, si avvicinò, strinse la mano alle signore di Masone, dicendo a ognuna «grazie signora» in italiano. Una lezione di stile. Gorbaciov parlò agli studenti dell’università. Tenne un discorso molto bello, ricordando che nel 1952, quando aveva la loro età, aveva scritto una tesi che cominciava così: «Stalin è la nostra forza e la nostra giovinezza». Nella vita tutto cambia, era il senso; lui però stava già con Raissa. Sosteneva che i pericoli del futuro sarebbero stati il ritorno dei nazionalismi e la distruzione dell’ambiente. Purtroppo aveva ragione. Per affrontarli vagheggiava un consiglio di vecchi saggi di tutto il mondo, lui compreso, che avrebbero discusso fino a quando non sarebbero stati tutti d’accordo. Era insomma rimasto un idealista un po’ velleitario. Ma era sempre Gorby.

Monica Ricci Sargentini per il “Corriere della Sera” l'1 settembre 2022.

«Ha scritto la storia del mondo e ha cambiato la mia vita in modo fondamentale, non lo dimenticherò mai». Così l'ex cancelliera tedesca Angela Merkel rende omaggio a Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader dell'Urss morto martedì scorso a 91 anni. 

Cresciuta nell'ex Germania comunista Merkel ricorda commossa: «Ancora oggi posso sentire la paura che avevo nella Ddr nel 1989, temendo l'arrivo dei carri armati come nel 1953. Ma questa volta nessun carro armato si è mosso, nessun colpo è stato sparato». Poi l'auspicio per il tempo presente: «Possa il ricordo della sua storica conquista permettere una pausa, soprattutto durante queste terribili settimane e mesi di guerra della Russia contro l'Ucraina».

Parla dell'attualità anche il premier britannico uscente Boris Johnson preoccupato «dell'intenzione attribuita all'attuale leadership di Mosca di disfare ciò che di buono Gorbaciov fece». E il presidente del Consiglio italiano Mario Draghi sottolinea che «il suo desiderio di pace, la sua opposizione a una visione imperialista della Russia gli sono valsi il premio Nobel. Sono messaggi quanto mai attuali davanti alla tragedia dell'invasione dell'Ucraina».

Per Henry Kissinger, 99 anni, segretario di Stato durante la presidenza Nixon e Ford, «gli europei dell'Est, i tedeschi e anche i russi dovrebbero essere grati a Gorbaciov per l'ispirazione e il coraggio con cui ha portato avanti la sua idea di libertà. Anche se - aggiunge - non è riuscito a consolidare» alcuni dei suoi progetti perché «la società non era pronta». 

Un'altra segretaria di Stato, Condoleezza Rice, che era in carica nella seconda amministrazione di George W. Bush, sottolinea che «senza di lui e il suo coraggio non ci sarebbe stata la fine della Guerra Fredda». Il presidente della Ronald Reagan Presidential Foundation, Fred Ryan, ricorda che la first lady Nancy Reagan era rimasta «molto colpita» quando Gorbaciov era andato ai funerali del marito: «Una conferma in più che tra i due leader c'era una vera amicizia».

Un riconoscimento inatteso arriva dall'ex presidente polacco Aleksander Kwasniewski, al potere tra il 1995 e il 2005: «I Paesi dell'ex blocco sovietico, come la Polonia, devono gratitudine al presidente Mikhail Gorbaciov perché le riforme che lui ha pensato di realizzare ci hanno permesso di liberarci dalla dominazione postbellica di Mosca».

Vladimir Putin, ha ricordato Kwasniewski, trattava l'ex leader sovietico come un «parassita» che ha distrutto l'Urss. Positivo anche il giudizio dell'attuale sodale del presidente russo Alexander Lukashenko: «Mikhail Sergeevic - ha sottolineato - ha dato un grande contributo personale all'allentamento delle tensioni internazionali e al disarmo nucleare globale alla fine del XX secolo».

Per il presidente della Bielorussia, Gorbaciov «credeva sinceramente nella possibilità di riorganizzare la società secondo i principi di glasnost, democrazia e apertura». 

 Chi, invece, non vuole partecipare a quest' omaggio postumo è un altro Paese alleato della Russia. Ieri il Global Times , il tabloid del Quotidiano del Popolo , ha tracciato un ritratto impietoso dell'ultimo presidente dell'Urss: «Gorbaciov è una figura tragica che ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente».

«Venerare ciecamente il sistema occidentale - è la tesi del giornale - ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica e il popolo russo ha sofferto di instabilità politica e di gravi pressioni economiche, fatti che la Cina ha considerato un grande avvertimento e una lezione da cui trarre esperienza per la propria governance». E poi l'accenno alla situazione attuale: «Negli ultimi dieci anni, il leader russo Vladimir Putin ha imparato dalle lezioni del leader sovietico», definendo una «via autonoma per Mosca».

Giuliano Ferrara per “il Foglio” l'1 settembre 2022.

Ci vorranno biblioteche intere di storiografia, trattati poderosi di antropologia politica, corpose analisi freudiane e junghiane ispirate alla curiosità per il sottofondo della mente umana e per gli archetipi dell’anima, ci vorranno inchieste letterarie direttamente derivate dalla pietas latina e dall’epica greca per spiegare l’inspiegabile: il disamore, perfino l’odio dei russi per Michail Gorbaciov.

Garibaldi, il più disordinato e inconsapevole creatore dell’Italia unita, un confusionario d’impeto in camicia rossa, è onorato in ogni piccola comunità, eccetto che da minoranze borboniche. Napoleone Bonaparte riposa agli Invalides ed è celebrato come perenne homme fatal del destino francese malgrado i lutti e le ondate di guerra che scombussolarono Francia ed Europa. I monumenti a Churchill sono sverniciati dagli adepti settari della cancel culture, ma solo perché la sua memoria popolare torreggia con i suoi sigari e i suoi bicchieri di whisky di unico e inflessibile avversario di Adolf Hitler.

Lincoln se ne sta seduto nel suo marmo candido e guarda Washington con la crudele benevolenza del discorso di Gettysburg che chiuse la sanguinosa guerra civile. Gandhi è il nome chiave dell’India moderna e della sua retorica, nonostante i grandi cambiamenti nei decenni. Ci sono cose in cui i grandi creatori di storia hanno fallito, altre in cui sono riusciti, prezzi immensi che hanno fatto pagare a popoli e nazioni, ci sono i loro difetti, lo spirito tirannico, gli errori belluini, le conseguenze inattese, e contano alla fine i risultati finali che si chiamano libertà, indipendenza, unità e visione di una vita migliore per l’ispirazione delle generazioni.

I russi disamorati di Gorbaciov vivevano prima di lui nel sottomondo ossessivo descritto da Grossman in “Vita e destino”. Perfino nell’epopea vittoriosa della guerra patriottica contro l’invasore nazista, seguita a tutti gli equivoci di una iniziale collaborazione fra i totalitarismi, il loro stigma era la sottomissione, la delazione, la purga del dissenso, la confessione falsa, l’inimicizia obliqua in una boscaglia sociale disadattata alla vita libera, il dubbio esistenziale sistematico, la corruzione fino al cuore dell’amore e della famiglia e dell’amicizia, la tortura, il Gulag, una sequela di miti tirannici e imperiali che veniva dal tempo lontano degli zar, per non dire delle invasioni mongole, e si era riprodotta dopo secoli, eguale e piatta, con la rivoluzione dei bolscevichi e con i suoi esiti sovietici.

Prima di Gorbaciov c’era la corsa agli armamenti, c’era un orgoglio nazionale di cartapesta, c’erano la guerra e la Guerra fredda, la chiusura delle frontiere, l’oppressione costosa e vile di mezza Europa, un’eguaglianza livellatrice e forzata che sapeva di miseria e di azzeramento della libertà di consumo e di movimento per tutti, salvo per le oligarchie degli apparati e del partito unico, c’era la cultura ufficiale derelitta, l’uso partitico delle idee, l’arte di regime, la funzione esornativa degli intellettuali sfuggiti all’eccidio staliniano, c’era la censura, mancavano la libertà di espressione, di associazione, di proprietà di se stessi e della propria vita individuale. 

L’Unione sovietica, come aveva capito Yuri Andropov, capo del Kgb, potente occhio assoluto sulla storia sovietica e bolscevica, sulla società russa e delle repubbliche federate, sugli usi e costumi del popolo e sui suoi bisogni, era diventata un caos decadente travestito da stabilità, un sistema senza responsabilità e libertà che non reggeva più il confronto con l’occidente europeo e americano, che non produceva energia né slancio alcuno, una eterna notte di morti viventi. 

Fu Andropov a indicare Gorbaciov, russo caucasico di cinquantaquattro anni, la mascotte del Politburo, uno dell’apparato e non un campione dell’inesistente società civile, come unico successore all’altezza della tragedia. E in sei anni di destino Gorbaciov attuò l’unico programma possibile: distruggere tutto con le parole d’ordine della riforma e della libertà.

Diede ai popoli dell’Urss la fine della galera in cui erano rinchiusi, li fece evadere, li mise di fronte alle loro responsabilità verso se stessi e il mondo, accettò unificazione tedesca e caduta del Muro di Berlino, non mosse un dito contro la ritrovata indipendenza dell’Europa centrale e orientale e dei Baltici e dell’Ucraina e della Bielorussia e degli stan asiatici, tutte nazioni forzate a un’unione produttiva solo di un falso onore politico, di un falso primato mondiale, un mondo disseminato di piccole spie e di polizie politiche arcigne, il mondo dei commissari Gletkin, del buio a mezzogiorno, di un esercito impantanato come tutti prima e dopo di esso nel tragico Afghanistan. 

Altro che Pizza Hut, dialogo internazionale antiatomico, indizi di economia di mercato, fu la resurrezione miracolosa di un fantasma inaudito per i russi, la libertà civile, la fine dell’autoritarismo centralizzato, la liberazione dei Sacharov, la riabilitazione dei Solgenitsin, l’uscita dal carcere di centinaia di migliaia di prigionieri politici, un tentativo di restituire alla propria autonomia le istituzioni della società, della cultura, i giornali, le tv, i libri usciti dall’Indice dei proibiti. 

E tutto questo in nome di una possibile creazione di una classe media e di una mobilità sociale fondata su investimenti e lavoro, su proprietà individuale ed economia di sviluppo, consumi e avanzamento tecnico e scientifico. Il meccanismo era divoratore, non si poteva riformare l’irriformabile, Gorbaciov fu inghiottito dall’ala conservatrice e dall’ala radicale, che la ebbe vinta infine, come prevedibile, sulle sue incertezze, e vorrei vedere, e alla fine se lo mangiò in un sol boccone con la dissoluzione dell’Unione sovietica da lui promossa consapevolmente anche se non voluta o prefigurata, a parte le conseguenze inattese di un’opera di destabilizzazione travolgente del male organizzato.

Le cose poi sono andate nel peggiore dei modi, come sempre quando sono i radicali a mettersi la storia sulle spalle, e ne è venuta la peggiore restaurazione possibile. Che ha fomentato ed è stata fomentata da questo incomprensibile o fin troppo comprensibile disamore, da questo odio per l’uomo che aveva liberato i popoli sovietici dalla cortina di ferro che li divideva dal mondo libero, e aveva restituito loro dignità e onore 

Estratto dell'articolo di Micol Flammini per “il Foglio” l'1 settembre 2022.

Durante una lezione di grammatica russa, un mio compagno di corso particolarmente zelante e incurabilmente nostalgico di un’epoca mai conosciuta aveva consegnato all’insegnante una frase che in traduzione suona così:  “Putin ha distrutto ciò che Lenin ha costruito”. 

La finalità era dimostrare che sapessimo usare in modo corretto le forme perfettive e imperfettive dei verbi, categorie  che nelle lingue slave possono sovvertire il senso di una frase. 

L’insegnante, russa di San Pietroburgo, riportò le nostre frasi corrette e il compito del mio compagno presentava un enorme stralcio vergato con una penna rossa, dal quale trasparivano stizza e rimprovero.

Non erano i perfettivi o gli imperfettivi a essere sbagliati, l’insegnante aveva cancellato il nome Putin e lo aveva sostituito con Gorbaciov in modo che la frase fosse: “Gorbaciov ha distrutto ciò che Lenin ha costruito”. 

Il mio compagno comprese che non aveva evidentemente capito granché dell’epoca per la quale provava nostalgia e io iniziai a intuire che in Russia le cose funzionavano in un altro modo: Gorbaciov per noi era il simbolo di tutto quello che non sarebbe mai potuto succedere senza di lui, per  i russi  era il simbolo di tutto quello che a causa sua è accaduto. 

Nel parlare con Sergey Radchenko, storico della Guerra fredda e docente alla Scuola di studi internazionali avanzati dell’Università Johns Hopkins, ad anni di distanza da quel giorno di  lezione  sui verbi russi, scopro una cosa in più: non eravamo soltanto noi o  i russi a non aver capito Michail Gorbaciov fino in fondo, ma forse neppure lui aveva capito se stesso.

“Gorbaciov ha iniziato con questo sogno di riformare l’Unione sovietica ma nel processo di queste riforme ha scoperto che le cose non stavano andando come sperava. 

Ha cercato di mantenere quella strada, fino a quando ha perso il controllo e questo ha portato all’implosione, o all’esplosione, dell’Unione sovietica. Una conseguenza del fatto che Gorbaciov non fosse pienamente consapevole”. (...) Quando arrivò Vladimir Putin (...) anche lui fu visto come un riformatore. In realtà (...) la sua volontà era quella di riportare la Russia indietro. (...) Radchenko nota che i due “hanno avuto una relazione strana, non facile. Putin a volte ha criticato Gorbaciov per essere stato ingenuo nei confronti dell’occidente, ma lo ha fatto in modo  riservato. Gorbaciov ha criticato Putin a sua volta, ma non sono mancate consonanze tra i due”.

Il freddo di Mosca saluta Gorbaciov. Isolati dal mondo i funerali di Stato. Marta Ottaviani su Avvenire l'1 settembre 2022.  

Raramente la morte di un leader che ha fatto la storia è stata tanto ignorata nel suo Paese. Ma nella Russia di Vladimir Putin tutto è possibile, anche che Mikhail Sergeevich Gorbaciov, ultimo Segretario generale del Pcus, colui che pose fine all’Unione Sovietica, sia morto martedì sera nella sostanziale indifferenza dei media e che sabato avrà funerali di Stato “alternativi”, senza la presenza dei capi di Stato stranieri. 

Anche perché, in tal caso, il Cremlino avrebbe avuto qualche problema: l’isolamento a cui è sottoposta la Russia dall’inizio della guerra contro l’Ucraina avrebbe reso possibile solo la presenza di leader con una visione del mondo diametralmente opposta rispetto all’uomo della glasnost e della perestroika. La sua salma sarà esposta nella Sala delle Colonne della Casa dei Sindacati di Mosca, ossia nel pieno centro della capitale, dietro il teatro Bolshoij, a poche decine di metri dalla Piazza Rossa e dove, in precedenza, sono stati esposti i corpi di Stalin e Lenin.

Martedì sera, le televisioni hanno totalmente ignorato la dipartita dell’ex presidente. I quotidiani, ieri, hanno dedicato l’apertura a colui che ha cambiato tutto, ma sottolineandone più gli errori che i meriti. L’unica voce totalmente a favore di Gorbaciov è stata quella della testata Novaya Gazeta, di cui il politico era in parte proprietario.

Il direttore, il premio Nobel per la Pace 2021 Dmitrij Muratov, è stato uno degli ultimi a visitarlo in ospedale. Un incontro breve, date le condizioni di salute sempre più precarie, ma durante il quale l’ex presidente aveva esortato «a evitare in tutti i modi una guerra nucleare».

Toccante anche la testimonianza della Ong Memorial, una delle più autorevoli e storiche della Russia, bandita lo scorso anno, nata proprio per denunciare i crimini commessi durante l’Unione Sovietica. Irina Scherbakova, una delle sue fondatrici, ha sottolineato come, con la morte di Gorbaciov, si è spenta «una luce di speranza» per tutti i liberali russi, «la possibilità, poi persa, di essere un Paese democratico, un Paese libero».

Il presidente, Vladimir Putin, lo ha commemorato con un telegramma così scarno da indurre a pensare che avrebbe preferito ignorarlo. «Mikhail Gorbaciov – si legge sul sito del Cremlino – è stato un politico e statista che ha avuto un enorme impatto sul corso della storia mondiale. Ha guidato il nostro Paese in un periodo di cambiamenti drammatici e complessi, di politica estera su larga scala, di sfide economiche e sociali. Capì profondamente che le riforme erano necessarie, si sforzò di offrire le proprie soluzioni a problemi urgenti».

Per il resto, silenzio o quasi, anche da quelle giovani generazioni di politici che, secondo alcuni analisti, avrebbero potuto rappresentare un futuro diverso per la Russia. Unica voce fuori dal coro, quella del dissidente, Alexeij Navalny, che dal carcere di massima sicurezza dove è detenuto, ha parlato di un leader «che seppe lasciare il potere in modo pacifico». In evidente contrapposizione con quello attuale.

Se dentro ai confini nazionali si è tiepidi, fuori è un coro unanime di cordoglio. Dagli Stati Uniti alla Gran Bretagna, dalla Francia alla Germania, passando per il premier Mario Draghi, la voce dell’Occidente si è levata per commemorare chi, anche solo per un soffio, ha fatto sperare tutti in un mondo migliore. La percezione di Gorbaciov cambia andando verso l’Estremo Oriente, a delineare un ordine mondiale che risponde alla Guerra Fredda del Terzo Millennio.

La stampa cinese ha bollato l’ultimo leader sovietico come un «ingenuo», una «figura tragica» che «ha soddisfatto i bisogni di Usa e Occidente senza morale», responsabile di «gravi errori».

Per sua espressa volontà, il corpo di Gorbaciov riposerà nel cimitero monumentale di Novodevicij, vicino all’omonimo convento, ma soprattutto accanto a Raijssa, la donna della sua vita, che nel 1999 lo ha lasciato solo a combattere la sua battaglia contro una Russia che se a un certo punto ha smesso di amarlo, di certo lo ha capito poco, e negli ultimi anni lo ha ignorato, fino all’atto finale.

Tutte cose che Gorbaciov sapeva da tempo. Tanto da premunirsi. In un’intervista rilasciata nel 2011, alla domanda su come lo avrebbe giudicato la storia, l’ultimo leader comunista rispose: «La storia è una donna capricciosa ed è difficile dire quale sarà il suo disegno. Ma voglio anticiparla, per dire che, in generale, Gorbaciov è un bravo ragazzo. Aspirava a fare qualcosa di molto importante, serio per le persone. Non tutto ha funzionato, ma molto».

È morto Mikhail Gorbaciov, padre della perestroika. Il padre della perestroika aveva 91 anni. Fu l'ultimo leader dell'Urss, artefice della fine della guerra fredda. Nel 1990 fu insignito del Nobel per la pace. Il "profondo cordoglio" di Putin, Biden: "Un leader raro". La Repubblica il 30 Agosto 2022.

È morto Mikhail Gorbaciov. L'ultimo leader dell'Unione Sovietica aveva 91 anni. In precedenza era stato reso noto che era ricoverato in ospedale. "Questa notte, dopo una grave e prolungata malattia, Mikhail Sergeyevich Gorbaciov è morto", recita il comunicato diffuso dal nosocomio e riportato dalla Tass. Sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, nella tomba di famiglia, accanto alla moglie Raisa.

Gorbaciov fu l'ultimo segretario generale del Pcus e l'ultimo presidente dell'Urss. Fu lui ad avviare il processo di apertura della società sovietica passato alla storia come perestroika, a promuovere la glasnost (trasparenza), a segnare il cammino che portò nel 1991 al crollo dell'Unione sovietica e alla fine della guerra fredda.

La vita e l'ascesa politica

Nato il 2 marzo 1931 a Privol'noe, in provincia di Stavropol', nel Sud della Federazione russa, da una famiglia di agricoltori, nel 1955 Gorbaciov si laurea in giurisprudenza all'Università Lomonosov di Mosca. Lì, durante una festa nella casa dello studente di Sokolniki, conosce Raisa Maksimovna Titarenko, che studia sociologia e filosofia. Se ne innamora subito e la sposa poco dopo. Un'unione durata fino alla morte di lei, avvenuta a Muenster, in Germania, nel settembre 1999.

La carriera politica di Gorbaciov inizia nel 1970, quando viene nominato primo segretario del partito a Stavropol. Dieci anni dopo torna a Mosca come membro a pieno titolo del Politburo: è il più giovane di tutti. Rafforza la propria posizione sotto le ali protettive di Jurij Andropov, capo del Kgb e originario anche lui di Stavropol. Viaggia spesso all'estero e nel 1984 incontra per la prima volta l'allora primo ministro britannico Margaret Thatcher, "un osso duro" con cui stabilirà poi un rapporto di stima e fiducia.

L'anno dopo, con la morte di Kostanntin Cernenko, è il suo turno. L'11 marzo 1985 diventa segretario generale del Pcus: ha solo 54 anni, una svolta generazionale dopo un lungo periodo di gerontocrazia.

Glasnost e perestroika

Il 1986 è già un anno cruciale, che rafforza le attese e le speranze, in Urss come nel resto del mondo, legate alla nuova leadership sovietica. A febbraio Gorbaciov lancia le sue parole d'ordine, glasnost (trasparenza) e perestroika (ristrutturazione), per portare una inedita ventata di libertà nei media e nell'opinione pubblica e per riformare un sistema economico sempre più stagnante. In ottobre invece si incontra con l'allora presidente americano Ronald Reagan a Reykjavik, in Islanda, per discutere la riduzione degli arsenali nucleari in Europa, suggellata l'anno successivo dalla firma di uno storico trattato. Nel luglio del 1991 fa il  bis con George Bush: lo 'Start 1' per una forte riduzione delle armi nucleari strategiche.

Gorby, come ormai viene amichevolmente chiamato in Occidente, riabilita anche i dissidenti più celebri, a partire dal fisico Andrei Sakharov, dopo otto anni di confino. Il percorso democratico interno avanza, le riforme economiche meno. Il potere viene spostato dal partito agli organi legislativi eletti a suffragio universale e nel marzo del 1989 ci sono le prime libere elezioni: una data storica. Nel 1990 il ricostituito Congresso dei deputati del popolo elegge Gorbaciov presidente, con più ampi poteri. Nel frattempo sono cambiate la geografia e la storia dell'Europa, che per il padre della peretroika deve diventare "una casa comune". Il 9 novembre 1989 crolla il Muro di Berlino, il simbolo della guerra fredda, seguono le rivoluzioni di velluto nell'Europa centro-orientale e la riunificazione della Germania.

Tutto con il benestare di Gorbaciov, che nel 1989 ritira anche le truppe dall'Afghanistan. Nello stesso anno compie due visite storiche: in maggio a Pechino, dove Cina e Urss riallacciano i rapporti interrotti trent'anni prima; il primo dicembre in Vaticano da Wojtyla, primo leader sovietico ad incontrare un Papa. Inevitabile, e meritato, il Nobel per la pace nel 1990.

Il crollo dell'Urss

Il 1991 è un anno drammatico. In agosto viene sequestrato per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, vittima di un golpe dei comunisti conservatori spento solo dalla coraggiosa resistenza del presidente russo Boris Eltsin. L'8 dicembre lo stesso Eltsin firma con Ucraina e Bielorussia la nascita della Csi, la Comunità di Stati indipendenti: è la fine dell'Unione Sovietica. Impotente e ormai impopolare dopo le sue riforme troppo lente e prudenti, inviso anche per la sua crociata contro la vodka, umiliato nel duello con l'esuberante Eltsin, Gorbaciov getta la spugna poche settimane dopo, il giorno di Natale.

Nella sua biografia restano alcune ombre, come l'invio del carri armati in Lituania contro le prime aspirazioni indipendentiste o la catastrofe nucleare di Cernobyl nel 1986, passata sotto silenzio per diversi giorni nonostante la glasnost. Ma i suoi meriti storici prevalgono di gran lunga, nonostante l'impopolarità o l'indifferenza tra i russi, che non gli perdonano il crollo dell'Urss. Il suo impegno a favore della pace, della democrazia e dell'ambiente è continuato sino a poco tempo fa, tra conferenze, incontri e critiche aperte alla deriva autoritaria di Vladimir Putin. Anche se nel 2014 era tornato a difenderlo come paladino degli interessi russi, a partire dall'annessione della Crimea, contro l'imperialismo Usa. Ma chiedendo anche, fino alla fine dei suoi giorni, di evitare il rischio di uno scontro nucleare.

Le reazioni internazionali

Putin ha espresso il suo "profondo dolore" annunciando che lo manifesterà direttamente ai parenti e agli amici del leader scomparso. Di tutt'altro tenore l'omaggio del premier britannico uscente Boris Johnson: "Sono rattristato di apprendere della morte di Gorbaciov. Ho sempre ammirato il coraggio e l'integrità con cui egli portò la guerra fredda a una conclusione pacifica. In un tempo segnato dall'aggressione di Putin all'Ucraina, il suo impegno senza risparmio per aprire la società sovietica resta un esempio per tutti noi".

Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ne ha elogiato "straordinaria visione" definendolo un "leader raro", con la capacità di vedere che un futuro diverso era possibile e il coraggio di rischiare la sua intera carriera per realizzarlo. "Il risultato è stato un mondo più sicuro e una maggiore libertà per milioni di persone", ha dichiarato. Biden ha ricordato l'incontro alla Casa Bianca nel 2009 durante la sua vicepresidenza e il confronto sugli sforzi degli Stati Uniti e della Russia per ridurre le loro scorte nucleari. Il segretario generale dell'Onu Antonio Guterres lo ha definito "un uomo di Stato unico, che ha cambiato il corso della storia".

La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha salutato Gorbaciov come un "leader fidato e rispettato" che "ha aperto la strada a un'Europa libera". Il suo "ruolo cruciale" nell'abbattere la cortina di ferro, che simboleggiava la divisione del mondo in blocchi comunisti e capitalisti, e nel porre fine alla guerra fredda ha lasciato un'eredità che "non dimenticheremo", ha scritto su Twitter.

Il presidente francese Emmanuel Macron ha descritto su Twitter Gorbaciov come un "uomo di pace", che "ha aperto una strada di libertà per i russi. Il suo impegno per la pace in Europa ha cambiato la nostra storia comune".

 Morto Gorbaciov. L'ultimo Segretario generale, il primo riformatore. Ezio Mauro La Repubblica il 30 Agosto 2022.

Il ritratto del padre della perestroika: aveva 91 anni.

"Slava Bogu", gloria a Dio, disse a sorpresa Mikhail Sergheevic Gorbaciov in quel cortile dell'asilo dov'erano schierati i bambini per salutarlo nella visita di Stato in Finlandia. I due corrispondenti che lo avevano seguito fino a quell'inutile coda del cerimoniale di giornata cercarono di raggiungerlo per chiedergli conto di quelle due parole clamorosamente estranee al vocabolario ufficiale sovietico, ma furono bloccati dagli uomini del Kgb mentre Raissa Maksimovna, la moglie del leader russo, lo portava via di fretta, avvertito il pericolo.

Da Putin gelido cordoglio. Per il deputato Medvedev "sue le radici di quel che accade in Ucraina". Il parlamentare Milonov: "eredità peggiore alla catastrofe inflitta da Hitler". Ma qualcuno ricorda: "Ci diede la libertà". La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Su Pervyj Kanal si commenta quella che chiamano la "presunta" avanzata ucraina a Kherson, mentre su Rossija1 Vladimir Soloviov, il "propagandista-in-capo" di Vladimir Putin, manda avanti il suo talk show con collegamenti da Donetsk e commenti degli ospiti in studio come se niente fosse. Sulle reti tv più viste dai russi, la morte di Mikhail Gorbaciov non è neppure una "ultima ora" in sovrimpressione.

Le dimissioni di Gorbaciov: "Metto fine alla mia opera di presidente dell'Urss". La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il 25 dicembre 1991 Mikhail Gorbaciov rassegnò le sue dimissioni da Capo dello Stato. La "situazione che si è creata", come dice nel comunicato che legge, è legata all'8 dicembre 1991, quando Boris Eltsin per la Russia e i capi di Stato di Ucraina e Bielorussia firmarono l'Accordo di Belaveza, il trattato che sanciva la dissoluzione dello Stato sovietico. Questa dissoluzione venne ufficialmente confermata il 26 dicembre dello stesso anno, dal Soviet Supremo

Perestroika e glasnost: il significato delle due grandi riforme. Enrico Franceschini La Repubblica il 31 Agosto 2022.

La parola perestroika significa ristrutturazione: con Gorbaciov diventò un piano per riformare il comunismo e farne un sistema socialdemocratico. La glasnost, che alla lettera significa trasparenza, diventò sinonimo di libertà di espressione, libertà di stampa

Il significato era nuovo. Ma la parola, in russo, esisteva già. “Perestroika” vuol dire ristrutturazione. Nell’Urss di Mikhail Gorbaciov diventò sinonimo di riforme, poi di democratizzazione. Un piano per riformare il comunismo, farne un sistema socialdemocratico, con pluralismo politico, libere elezioni, economia di mercato o meglio mista, imprese private e imprese di Stato. 

Così, nel dicembre di trent’anni fa, si dissolse l’Urss e si concluse l’era cominciata con la prima rivoluzione bolscevica. di Carlo Bonini (coordinamento editoriale) ,  Fiammetta Cucurnia ,  Enrico Franceschini ed Ezio Mauro. Coordinamento multimediale di Laura Pertici. Produzione Gedi Visual su La Repubblica l'8 dicembre 2021.

Trent'anni fa, l'8 dicembre 1991, alle 21 in punto ora di Mosca, la televisione di Stato annuncia agli allora 294 milioni di abitanti delle quindici repubbliche socialiste sovietiche che l'Urss ha legalmente cessato di esistere. Due settimane dopo, la notte di Natale, la bandiera rossa verrà ammainata sul Cremlino e l'ultimo segretario generale del Pcus, Mikhail Gorbaciov, nominato sei anni prima per provare a salvare dal collasso il più grande Stato comunista della terra, un impero multietnico esteso su 22 milioni di chilometri quadrati e undici fusi orari, si dimetterà dal partito e dalla guida del Paese.

Mikhail Gorbaciov, l'uomo visto nel momento della sconfitta. Enrico Franceschini su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Gioviale, caloroso, dotato di un'inesauribile energia: così ci sembrava Mikhail Gorbaciov, il 26 dicembre 1991, poche ore dopo avere annunciato in televisione le dimissioni. Erano anche le ultime ore che l'ormai ex-presidente trascorreva nell'ufficio al Cremlino, da lui occupato dal giorno dell'insediamento al potere, sei anni prima. Accogliendo me e la mia collega Fiammetta Cucurnia, allora corrispondenti di Repubblica da Mosca, per quella che fu la sua ultima intervista all'interno della fortezza sulla piazza Rossa, dalla cui cupola il giorno prima era stata ammainata la bandiera rossa, Mikhail Sergeevic non dava l'impressione di uno sconfitto, non appariva demoralizzato o depresso: al contrario, in un certo senso era come se gli avessero levato un formidabile peso dalle spalle.

Addio a Mikhail Gorbaciov, padre della perestroika

La fine dell'Urss era nell'aria perlomeno da sei mesi prima, quando i nostalgici del comunismo avevano tentato di rovesciarlo con un golpe: da vittima designata, Mikhail Sergeevic diventò agli occhi del suo stesso popolo un complice del complotto, perché quegli uomini li aveva scelti lui, nel continuo zig-zag tra riforme e passi indietro per tenere insieme il Paese più grande del mondo. In un certo senso, dopo il golpe d'agosto, era stato dunque un lungo addio, dall'epilogo scontato. Ciò non significa che Gorbaciov non fosse amareggiato e preoccupato dal crollo dell'Urss. "Non siamo né tartari né tedeschi", disse nella lunga conversazione, protratta più di quello che ci aspettavamo, il segno che non aveva fretta, perché i suoi impegni ufficiali erano conclusi. Intendeva che la Russia non era né Asia né Europa, bensì una cerniera fra i due continenti: avrebbe voluto risolvere così l'eterno dilemma tra slavofili ed europeisti. Ma il tempo dei compromessi era passato. E il suo tempo personale era scaduto.

Dal villaggio del sud al Cremlino

Per misurare il viaggio compiuto da Gorbaciov tra il 1985, quando il Politbjuro del Pcus lo elesse segretario generale dopo la morte di tre anziani leader uno dopo l'altro, Breznev, Andropov e Chernenko, e il 26 dicembre '91 della sua uscita di scena, serviva un altro viaggio. Lo avevo compiuto, spinto dalla curiosità e dal caso, nel luglio precedente, poche settimane prima del colpo di stato, recandomi a Privolnoe, un villaggio di duemila abitanti nel sud della Russia, dove Gorbaciov era nato e cresciuto. Nel silenzio della campagna assolata, c'era una sola "stalovaja", una mensa invasa di mosche, tra le misere izbe in legno e le orrende casupole di stile sovietico. Il giovane Mikhail andava a scuola nel villaggio vicino ogni mattina su un carro trainato da un trattore o dai buoi. Il nonno, giudicato un kulako, un contadino arricchito, aveva subito le persecuzioni staliniane. La nonna aveva segretamente battezzato Mikhail, come usava allora. Forse da lì veniva la sua abitudine, ripetuta più volte nel corso della nostra intervista, di esclamare "slava Bogo", grazie a Dio: era strano per me sentire l'ex-capo della superpotenza comunista, della nazione che predicava l'ateismo, intercalare con il nome del Signore il suo discorso sulle riforme riuscite o mancate della perestrojka. Una delle contraddizioni del potere dei Soviet: Stalin aveva mandato il suo aguzzino Kaganovic a fucilare i preti, ma non era riuscito a sradicare del tutto la religione dal linguaggio del socialismo reale.

Quello sperduto villaggio nella regione di Stavropol, in cui spiccava una sola abitazione, modesta come le altre ma protetta da un casotto di guardia del Kgb, perché lì dentro continuava a vivere la madre di Gorbaciov, era lontano dalla Piazza Rossa, dal Cremlino, dall'ufficio con la bandiera rossa sul tetto, come la terra dalla luna. Ci era voluta una determinazione di ferro per compiere quel percorso: la capacità di fare carriera usando fermezza antica e metodi nuovi, di apparire un continuatore e un innovatore, per non spaventare i nostalgici ma pure per dare al sistema lo scossone che anche il suo predecessore e padrino Andropov, un ex-capo del Kgb, dunque uno dei pochi a conoscere il vero stato del disfacimento sovietico, giudicava necessario. Ma quella duplicità, che aveva funzionato per portarlo fino al vertice, non lo aveva più servito quando si era trattato di cambiare l'Urss senza rivoluzionarla: come tutti i riformatori, Gorbaciov era rimasto solo, abbandonato dai nostalgici del comunismo come dai radicali democratici. E sbeffeggiato dalla gente comune per la sua battaglia contro l'alcolismo, che gli valse il soprannome di "segretario minerale", come se fosse astemio, un'infamia per un russo paragonabile a quella di un italiano che disdegna la pizza o gli spaghetti. Non era vero che non beveva: qualche volta, nei giorni finali di solitudine al Cremlino, si era perfino sbronzato di cognac, come confessò il suo più stretto collaboratore Anatolij Cernjaev nel proprio diario. Non era un ubriacone come il suo successore Boris Eltsin, tuttavia. Non avrebbe mai detto, come il principe Vladimir, fondatore della prima Russia, "bere è la gioia dei russi, non possiamo vivere senza", rifiutando per questo l'Islam come fede di stato, perché vietava l'alcol, e abbracciando invece il cristianesimo.

Il giorno dopo l'intervista a Gorbaciov tornai al Cremlino per intervistare il suo braccio destro Aleksandr Jakovlev, detto "l'architetto della perestroika", anche lui intento a traslocare e abbandonare il suo ufficio. Uscendo dalla stanza di Jakovlev, in chi ci imbattiamo di nuovo Fiammetta, io e il nostro redattore russo Sergej Avdeenko? In Gorbaciov, che si aggirava per i corridoi, con il colbacco in testa, come un uomo che non sa più dove andare, cosa fare, impossibilitato ad andarsene per sempre. Baciò Fiammetta. Strinse la mano a me. Quindi la porse anche a Sergej. Ma Sergej si ritrasse, quasi come se una forza oscura lo spingesse verso il muro del corridoio. "Non capisci?", mi disse più tardi. "Per me era come se l'imperatore, Dio in terra, fosse sceso dal trono o dal cielo a stringermi la mano. Non mi sembrava possibile". Questo era il segretario generale del Pcus: un dio in terra. E ora la terra era franata, travolgendolo.

Il collasso dell'Urss

Quella intervista doveva essere il suo testamento politico. Ma era un testamento pronunciato troppo a caldo per essere completo, meditato. Rividi ancora Gorbaciov a Mosca, poi in Israele dove ero stato trasferito dal giornale, infine a Londra, dopo un nuovo trasferimento. E proprio nella capitale britannica Mikhail Sergeevic offrì una riflessione più acuta, oltre che più dolorosa e più consapevole dei problemi creati dal fallimento della perestroika e dal collasso sovietico: "Ci facevano fretta, ma saremmo dovuti andare più piano". Disse che i primi anni di Vladimir Putin erano stati buoni, per riportare un po' di ordine senza imbrigliare del tutto la nascente democrazia russa e i buoni rapporti con l'Occidente, ma che poi Putin aveva sbagliato a spingere sull'autoritarismo e sulla forza. Quella forza che Gorbaciov non aveva usato, lasciando che l'Europa orientale si liberasse dalle catene, regalando agli stessi russi lo spiritello della libertà. Ma la libertà, come ripetevano le massaie di Mosca davanti ai negozi vuoti, non si mangia.

Nemmeno con Eltsin, il rivale che per spodestarlo aveva mandato in frantumi l'Urss, Gorbaciov usò la forza. "Avrei potuto mandarlo a fare l'ambasciatore in Canada e non avremmo mai più sentito parlare di lui", ricordava nel dicembre 1991. Invece era stato clemente, lo aveva tenuto a Mosca, gli aveva dato una seconda chance. Forse perché gli faceva comodo, nella costante ricerca di un equilibrio tra comunisti e democratici. In parte perché era quello il suo carattere.

La cosa più bella che ci disse, come spesso succede nelle interviste, venne a registratore chiuso, sulla porta dell'ufficio. Ricordò un viaggio di tanti anni prima, quando era soltanto segretario di Stavropol, invitato in Sicilia dai compagni del Pci per una vacanza insieme alla moglie Raissa, in un'era in cui solo i sovietici autorizzati potevano recarsi all'estero, mettendo il naso fuori da quell'immenso stato-prigione. E Raissa, bella quando il mondo la conobbe nei panni di una moderna first-lady, da giovane doveva essere ancora più bella: "In spiaggia, vicino a Palermo", raccontava Mikhail Sergeevic, "cominciarono a girarle attorno dei bellimbusti locali. E io dovetti tirare fuori i muscoli per farli allontanare! Che figura! Chissà cosa avranno pensato di quello zoticone russo!" L'uomo della perestroika, l'ultimo presidente sovietico, il leader che per liberare un impero lo ha distrutto, era fatto così: sapeva ridere di sé stesso. Perfino nel momento in cui aveva perso tutto.

"Un leader raro", "un uomo di pace" capace di "abbattere muri": il ricordo corale dei leader politici sulla scomparsa di Gorbaciov. La Repubblica il 31 agosto 2022.

Da Biden a Macron, da Von Der Leyen a Guterres: le ultime ore hanno visto una pioggia di messaggi di ricordo e gratitudine all'eredità lasciata da Mikhail Gorbaciov nell'indomani della sua scomparsa. "Un leader raro", ma anche, "un uomo di pace e di libertà", capace di "abbattere muri".

In mattinata arriva il messaggio di Putin alla famiglia. Mikhail Gorbaciov "ha dovuto affrontare grandi sfide in politica estera, nell'economia e nella sfera sociale, capiva profondamente che le riforme erano necessarie e cercava di proporre le proprie soluzioni a problemi scottanti". Lo scrive il presidente russo Vladimir Putin nel messaggio di condoglianze alla famiglia per la scomparsa dell'ultimo leader sovietico. "Vorrei sottolineare - aggiunge Putin - anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito".

Le parole di Biden

"Quando salì al potere, la Guerra Fredda durava da quasi 40 anni e il comunismo da ancora più tempo, con conseguenze devastanti" e "pochi funzionari sovietici di alto livello avevano il coraggio di ammettere che le cose dovevano cambiare", si legge in una dichiarazione del presidente americano Joe Biden diffusa dalla Casa Bianca. "Ha lavorato con il presidente Reagan per ridurre gli arsenali nucleari dei nostri due Paesi" e, "dopo decenni di brutale repressione politica, ha sposato riforme democratiche". "Ha creduto nella glasnost e nella perestroika non come semplici slogan, ma come la strada per la popolazione dell'Unione Sovietica dopo tanti anni di isolamento e privazioni", prosegue, parlando di "un leader raro, con l'immaginazione di vedere che un futuro diverso era possibile e il coraggio di rischiare la sua intera carriera per realizzarlo".

"Il risultato è stato un mondo più sicuro e una maggiore libertà per milioni di persone". Biden ricorda poi un incontro con Gorbaciov alla Casa Bianca nel 2009. "E' stato facile capire perché tanti in tutto il mondo lo stimassero così tanto", conclude la dichiarazione con le condoglianze "alla sua famiglia, ai suoi amici e a tutte le persone che nel mondo hanno beneficiato della sua fiducia in un mondo migliore".

I leader europei

"Le mie condoglianze per la scomparsa di Mikhail Gorbaciov, uomo di pace le cui scelte hanno aperto un percorso di libertà per i russi. Il suo impegno per la pace in Europa ha cambiato la nostra storia comune". Così su Twitter il presidente francese Emmanuel Macron ha ricordato nelle ultime ore Gorbaciov, morto ieri all'età di 91 anni.

 "Mikhail Gorbaciov era un leader fidato e rispettato. Ha svolto un ruolo cruciale per porre fine alla Guerra Fredda e far cadere la cortina di ferro. Ha aperto la strada a un'Europa libera. Questa eredita' e' quella che non dimenticheremo". Lo scrive in un tweet la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. 

"Il mio ricordo indelebile di Mikhail Gorbaciov e' vederlo incontrare George Hw Bush nella tempestosa Malta per segnalare la fine della Guerra Fredda. Ha ispirato la speranza di un mondo migliore e piu' libero. Significava abbattere muri e portare alla riunificazione dell'Europa. La sua eredita' sara' ricordata. Possa riposare in pace". Lo scrive la presidente del Parlamento europeo, Roberta Metsola.

Le Nazioni Unite e la Nato

"Mikhail Gorbaciov è stato uno statista unico che ha cambiato il corso della storia". Sempre su Twitter il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha ricordato nelle ultime ore Gorbaciov. "Il mondo ha perso un leader globale - ha scritto - un sostenitore instancabile della pace. Sono profondamente addolorato per la sua scomparsa".

"Le storiche riforme di Mikhail Gorbaciov hanno portato alla dissoluzione dell'Unione Sovietica, hanno contribuito a porre fine alla Guerra Fredda e hanno aperto la possibilità di una partnership tra Russia e NATO. La sua visione di un mondo migliore rimane un esempio". Lo ha scritto su Twitter Jens Stoltenberg, segretario generale della Nato.

Le reazioni in Italia

Tutti gli uomini liberi "sono in lutto, se n'è andato un campione della democrazia. Mikhail Gorbaciov è un uomo che ha cambiato la storia del 20° secolo”, scrive Silvio Berlusconi, commentando la morte del padre della pereistroika. “Pur essendo cresciuto all'interno dell'apparato comunista e avendone raggiunto i vertici, ha avuto la lucidità, l'onestà intellettuale e il coraggio politico di porre fine al sistema totalitario sovietico e di scegliere la strada della democrazia e del rispetto della sovranità dei popoli”, è il post lasciato sui social dal leader di Forza Italia.

Anche per il commissario europeo all'Economia, Paolo Gentiloni, "Gorbaciov ha cambiato la Storia. Osannato, poi sconfitto e oggi in patria deriso, con le sue riforme ha accompagnato il crollo delle dittature comuniste e ha acceso la speranza di democrazia in Russia e di disarmo nel mondo. Una speranza che deve tornare".

Su Twitter il messaggio del segretario del Pd, Enrico Letta: “Ognuno è stato attraversato da pensieri e ricordi alla notizia della scomparsa di Gorbaciov. Quello che li riassume tutti è per me gratitudine. Un uomo che si assunse la responsabilità più difficile. Che cambiò la storia. Che pagò di persona per questo. Giù il cappello”. Ha espresso cordoglio, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio che ha definito Gorbaciov “pilastro della nostra storia recente e protagonista di scelte fondamentali di democrazia e libertà. Bisogna difendere la sua importantissima eredità e continuare a credere in un mondo di pace e apertura", conclude il leader di Impegno Civico. “Un uomo che ha creduto nel cambiamento attraverso il coraggio delle riforme e della trasparenza. Un uomo di dialogo e di pace. Ha fatto la storia del Novecento. Gorbaciov'', ha scritto su Twitter la senatrice del Pd Simona Malpezzi.

 Occhetto: “Mikhail mi disse: Achille, che hai fatto? Ma approvò la Bolognina". Concetto Vecchio su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

L’intervista all’ultimo segretario del Pci

Achille Occhetto, qual è il suo primo ricordo di Gorbaciov?

«Risale all’inverno del 1987. Mosca. La neve imbiancava le guglie del Cremlino. Ero vicesegretario del Pci. M’impressionò per l’umanità, il linguaggio schietto, l’apertura mentale e culturale. Era diverso dagli altri burocrati al vertice del Pcus».

Un incontro tra voi due?

«Sì, ma la mattina fummo ricevuti dal vice di Gorbaciov, Ligaciov.

L'oste di Trastevere e quell’amicizia con Gorbaciov nata cucinando la spigola: "Mi parlava d’amore". Katia Riccardi su La Repubblica l'1 settembre 2022. 

Il ricordo dello chef Claudio Dordei: "Aveva un modo di fare così semplice che riempiva il cuore. Quella prima sera mi ha parlato della moglie Raissa, era morta nel '99 ma lui aveva le lacrime agli occhi quando raccontava di lei"

Nuotava in pace e ignara, la spigola, quando venne pescata e portata sui banchi ai mercati generali di Roma all'alba di una mattina di dicembre del 2007. In pace camminava anche Claudio Dordei quel giorno, quando la vide e considerò di comprarla per la sua osteria, 'la Gensola' a Trastevere, l'avrebbe cucinata prima o poi.

Per la Pace quel giorno a Roma era arrivato anche l'ex presidente dell'Urss, Mikhail Gorbaciov.

Gorbaciov e la profezia a Honecker che accelerò il crollo della "cortina di ferro". Paolo Garimberti su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

"La vita punisce chi arriva in ritardo", disse il leader sovietico al numero uno della Ddr per convincerlo a seguire la via delle riforme sul modello di Mosca. Era il 7 ottobre 1989: un mese dopo, la caduta del Muro di Berlino segnava la fine della Germania comunista

"La vita punisce chi arriva in ritardo". Con un monito, che si sarebbe rivelato ben presto profetico, Mikhail Gorbaciov aveva cercato di spingere Eric Honecker, il più ortodosso tra i leader comunisti dei Paesi satelliti di Mosca, sulla via della "perestrojka" e della "glasnost", le riforme che aveva intrapreso in Unione Sovietica. Gorbaciov era arrivato  il 7 ottobre 1989 a Berlino Est per le celebrazioni del quarantesimo anniversario della Ddr, la Germania orientale.

 Morto Gorbaciov: a Mosca le tv ignorano la notizia, poi partono i commenti impietosi. Rosalba Castelletti su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Da Putin gelido cordoglio. Per il deputato Medvedev "sue le radici di quel che accade in Ucraina". Il parlamentare Milonov: "eredità peggiore alla catastrofe inflitta da Hitler". Ma qualcuno ricorda: "Ci diede la libertà"

Su Pervyj Kanal si commenta quella che chiamano la "presunta" avanzata ucraina a Kherson, mentre su Rossija1 Vladimir Soloviov, il "propagandista-in-capo" di Vladimir Putin, manda avanti il suo talk show con collegamenti da Donetsk e commenti degli ospiti in studio come se niente fosse. Sulle reti tv più viste dai russi, la morte di Mikhail Gorbaciov non è neppure una "ultima ora" in sovrimpressione. 

Gorbaciov, i nemici, gli errori economici, l'illusione del comunismo democratico: tutte le critiche al grande leader. Enrico Franceschini su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Uno dei protagonisti del Ventesimo secolo, è stato un leader dai due volti contrapposti, in Occidente e in patria.

Osannato all’estero come l’uomo del Nobel per la pace, del disarmo nucleare, della fine della guerra fredda, della liberazione dell’Europa dell’est dalle catene della dittatura comunista; contestato e perfino dileggiato a Mosca per il caos, la fame e infine il crollo dell’Unione Sovietica, che portò anche alle sue dimissioni. Mikhail Gorbaciov, uno dei protagonisti del Ventesimo secolo, è stato un leader dai due volti contrapposti, in Occidente e in patria. 

Gorbaciov, il messaggio di Putin: "Ha affrontato grandi sfide". Sabato i funerali, ma non è chiaro se saranno di Stato. La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il presidente russo ai parenti: "Chiedo di accettare parole sincere di solidarietà ed empatia". La camera ardente nella Sala delle Colonne del Palazzo dei sindacati, la stessa utilizzata alla morte di Lenin, Stalin e Breznev

Come annunciato, è giunto in mattinata il contenuto del telegramma inviato da Putin alla famiglia di leader scomparso ieri sera. Mikhail Gorbaciov "ha dovuto affrontare grandi sfide in politica estera, nell'economia e nella sfera sociale, capiva profondamente che le riforme erano necessarie e cercava di proporre le proprie soluzioni a problemi scottanti". Lo scrive il presidente russo Vladimir Putin nel messaggio di condoglianze per la scomparsa dell'ultimo leader sovietico. "Vorrei sottolineare - aggiunge Putin - anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito".

I funerali

Mikhail Gorbaciov sarà sepolto sabato, il 3 settembre, al cimitero di Novodevichy: lo ha reso noto la figlia, Irina, che non ha saputo dire se è in programma un funerale di Stato. Non è ancora chiaro neppure se il presidente Vladimir Putin parteciperà alla cerimonia. Quello che si sa, comunque, è che la camera ardente verrà allestita nella Sala delle Colonne del Palazzo dei sindacati, la stessa in cui si sono tenuti in più occasioni i congressi del Pcus e che ha ospitato la camera ardente dei precedenti leader sovietici, da Lenin a Stalin e Breznev. "Le decisioni saranno prese in base ai desideri dei familiari e degli amici" di Gorbaciov, ha detto il portavoce del Cremlino Dmitrij Peskov, citato dall'agenzia Interfax.

Gorbaciov, parla il suo portavoce Poljakov: "Il rapporto con il Cremlino era inesistente". Rosalba Castelletti su La Repubblica l'1 settembre 2022.

Vladimir Poljakov è uno degli uomini che negli ultimi anni è stato più vicino a Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader sovietico morto martedì a 91 anni dopo una "prolungata e grave malattia". Da trent'anni suo portavoce, Poljakov era anche il segretario stampa della sua Fondazione.

Ieri è toccato a lui annunciare che la camera ardente verrà allestita sabato presso la Sala delle Colonne nella Casa dei Sindacati dove un tempo vennero esposte le salme di altri leader sovietici, da Vladimir Lenin a Josif Stalin. Risponde di corsa al telefono alle domande di Repubblica, la voce rotta dal lutto.

Quando è stata l'ultima volta che aveva visto Gorbaciov o che ci aveva parlato? 

"Non ci vedevamo da molto tempo perché era ricoverato in ospedale da mesi. Ma ci sentivamo spesso al telefono, l'ultima volta un paio di settimane fa".

Che cosa vi eravate detti?

"Abbiamo discusso dei nostri soliti affari, quelli della Fondazione. Mikhail Sergeevic era sempre molto attento, seguiva tutto, anche se nelle ultime settimane parlava oramai a stento".

Si era reso conto che la fine fosse vicina? 

"Naturalmente, anche se per ovvi motivi non ne abbiamo mai parlato esplicitamente. Essere malato alla sua età, 91 anni, non promette niente di buono".

Commentava mai "l'operazione militare speciale" in Ucraina?

"Tralascerei questo tema".

Come vede la coincidenza che Gorbaciov sia morto proprio nel mezzo dell'offensiva in Ucraina e del rischio di una catastrofe a Zaporizhzhia?

"È evidente che per l’uomo che ha dedicato tutta la sua vita politica a promuovere la pace, il disarmo, la sicurezza nucleare, tutte queste notizie fossero difficili da digerire".

Il presidente russo Vladimir Putin si è limitato a un sobrio telegramma di cordoglio alla famiglia. Com'era il rapporto tra Gorbaciov e il Cremlino?

"Non esisteva alcun rapporto. Gorbaciov non era in contatto con nessuno già da tanti anni. La sua ultima volta al Cremlino fu nel marzo del 2011 quando l’allora presidente Dmitrij Medvedev gli conferì l'ordine di Sant’Andrea Apostolo in occasione del suo ottantesimo compleanno.  Da allora più nulla".

Qual è il suo più bel ricordo di Gorbaciov?

"È impossibile individuare qualcosa in particolare. Tutti i miei trent’anni di lavoro con lui sono stati speciali".

Lo storico Paul Kennedy: "Gorbaciov scommise su una Russia filo-Occidentale. Putin sta facendo l'opposto". Paolo Mastrolilli su La Repubblica l'1 Settembre 2022.

Secondo l'accademico britannico non si può escludere che i russi decidano di tornare a volere un ruolo responsabile nella comunità internazionale

Il problema è il carattere di Putin, non gli errori di Gorbaciov, con cui la storia sarà assai più generosa in futuro. E in parte la colpa è anche dell'Occidente, che non ha aiutato l'ultimo capo dell'Urss come aveva promesso. Non è sicuro però che il futuro di Mosca siano l'autocrazia e la morte delle riforme decretate dal capo del Cremlino, perché con un altro leader al suo posto non si può escludere che i russi decidano di tornare a volere un ruolo responsabile nella comunità internazionale.

Trent’anni fa la fine dell’Urss. Gorbaciov: “Dopo il crollo Usa arroganti”. La Stampa il 30 Agosto 2022.

«Non si capisce ciò che è accaduto in Europa alla fine del Novecento senza considerare il ruolo di Giovanni Paolo II», disse l’ultimo leader sovietico mentre terminava la guerra fredda. Le persone che passeggiavano per la Piazza Rossa innevata di Mosca la sera del 25 dicembre 1991 sono state testimoni di uno dei momenti cruciali del XX secolo: la bandiera rossa sovietica sul Cremlino è stata ammainata per l'ultima volta e sostituita con il tricolore della Federazione Russa . Pochi minuti prima, infatti, il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov aveva annunciato le sue dimissioni in un discorso televisivo in diretta alla nazione, concludendo così 74 anni di storia sovietica. Nelle sue memorie, Gorbaciov, ora novantenne, ha amaramente ricordato la sua incapacità di impedire la fine dell'Urss. Evento che evento che ha sconvolto l'equilibrio di potere mondiale e ha gettato i semi di un braccio di ferro in corso tra la Russia e la vicina Ucraina. «Mi rammarico ancora di non essere riuscito a portare la nave sotto il mio comando in acque calme, di non essere riuscito a completare la riforma del paese», ha scritto Gorbaciov. Intanto a superare la cortina di ferro concorrevano la ostpolitik vaticana e il Papa polacco Karol Wojtyla attraverso Solidarnosc.

E la storia cambiò. Gli esperti politici discutono da trent’anni se avrebbe potuto mantenere la sua posizione e salvare l'Urss. Alcuni accusano Gorbaciov, che salì al potere nel 1985, di non essere stato in grado di impedire la disgregazione sovietica. Lo avrebbe potuto impedire se si fosse mosso più risolutamente per modernizzare l'anemica economia regolata dallo stato mantenendo controlli più severi sul sistema politico. «Il crollo dell'Unione Sovietica è stata una di quelle occasioni nella storia che si crede siano impensabili fino a quando non diventano inevitabili», ha detto all'Associated Press Dmitri Trenin, direttore del Moscow Carnegie Center. «L'Unione Sovietica, qualunque fossero le sue possibilità a lungo termine, non era destinata a crollare quando è successo». Nell'autunno del 1991, tuttavia, l'aggravarsi dei problemi economici e le richieste secessioniste delle repubbliche sovietiche avevano reso il crollo tutt'altro che certo. Un fallito colpo di stato dell'agosto 1991 da parte della vecchia guardia comunista fornì un importante catalizzatore, erodendo drammaticamente l'autorità di Gorbaciov e incoraggiando più repubbliche sovietiche a cercare l'indipendenza.

Il trattato. Mentre Gorbaciov cercava disperatamente di negoziare un nuovo "trattato sindacale" tra le repubbliche per preservare l'URSS, ha dovuto affrontare una dura resistenza da parte del suo arcirivale, il leader della Federazione Russa Boris Eltsin, che era ansioso di impadronirsi del Cremlino e aveva il sostegno di altri capi indipendenti di repubbliche sovietiche. L'8 dicembre, i leader di Russia, Ucraina e Bielorussia si sono incontrati in un padiglione di caccia, dichiarando morta l'URSS e annunciando la creazione della Comunità degli Stati Indipendenti. Due settimane dopo, altre otto repubbliche sovietiche si unirono alla neonata alleanza, offrendo a Gorbaciov una scelta netta: dimettersi o cercare di evitare la disgregazione del paese con la forza. Il leader sovietico ha analizzato il difficile dilemma nelle sue memorie, osservando che un tentativo di ordinare l'arresto dei leader delle repubbliche avrebbe potuto provocare un bagno di sangue tra le lealtà divise nei militari e nelle forze dell'ordine. «Se avessi deciso di fare affidamento su una parte delle strutture armate, ciò avrebbe inevitabilmente innescato un acuto conflitto politico irto di sangue e conseguenze negative di vasta portata», ha scritto Gorbaciov.

In retrospettiva. «Non potevo farlo: avrei smesso di essere me stesso». Quello che sarebbe successo se Gorbaciov avesse fatto ricorso alla forza è difficile da immaginare in retrospettiva, ha osservato Trenin del Carnegie Center. «Potrebbe aver scatenato eventi sanguinosi a Mosca e in tutta la Russia, forse in tutta l'Unione Sovietica, o potrebbe aver consolidato alcune cose", ha detto. «Se avesse deciso di percorrere quella strada... ci sarebbe stato del sangue sulle sue mani. Avrebbe dovuto trasformarsi in una sorta di dittatore, perché questo avrebbe... eliminato il suo più importante elemento di eredità; cioè, non usare la forza in modo massiccio».

I vincitori. L'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov, nel trentennale del crollo dell'Urss, ha denunciato che è proprio dal quel momento che gli Stati Uniti sono diventati «arroganti e pieni di sè», promuovendo l'espansione della Nato a Est. «Come possiamo contare su relazioni paritarie con gli Usa e l'Occidente da una tale posizione?», ha dichiarato Gorbaciov in un'intervista all'agenzia Ria Novosti per il 30°anniversario delle sue dimissioni. L'ex segretario generale del Pcus ha così rilanciato le stesse considerazioni del presidente russo, Vladimir Putin, che è tornato a chiedere con insistenza a Nato e Washington «garanzie di sicurezza legalmente vincolanti» su manovre militari e dispiegamento di armi in Europa orientale. Nell'intervista, Gorbaciov, 90 anni, ha ricordato «l'atteggiamento trionfante in Occidente, soprattutto negli Usa», dopo la fine dell'Urss, nel 1991 e ha denunciato: «Sono diventati arroganti e pieni di sé e hanno dichiarato vittoria nella Guerra Fredda». I vincitori, ha proseguito l'ex leader sovietico e padre della perestrojka, «hanno poi deciso di costruire un nuovo impero e da qui l'idea dell'espansione della Nato». Gorbaciov ha, infine, accolto con favore gli imminenti colloqui sulla sicurezza tra Mosca e Washington, che dovrebbero tenersi a Ginevra e gennaio. «Spero che portino risultati», ha auspicato. 

Il socialismo non è contro. MIKHAIL GORBACIOV La Stampa il 30 Agosto 2022.

Dal giorno in cui il golpe d’agosto è fallito, i cospiratori sono finiti in carcere e le loro responsabilità gravissime sono apparse ben chiare a tutti [...], mi sento di rivolgere una domanda che nasce in Occidente ma arriva fin qui, a Mosca: il comunismo è morto oppure sopravvive e può rinascere? Posso rispondere oggi, con una precisa convinzione. Quel che è finito per sempre è il modello creato da Stalin, che fu fin dall’inizio un’avventura, un regime che ignorava la democrazia, i diritti degli uomini, le esigenze della gente, un sistema che violentava la società e tradiva le idee socialiste. Dunque questa è la mia opinione: è morto il modello di Stalin. E voglio aggiungere, grazie a Dio. Con la stessa certezza devo subito precisare che questa morte non riguarda il socialismo. L’idea del socialismo è ben viva, e io sento lo sforzo di ricerca, l’ansia di sperimentare, di trovare una nuova forma di vita per questo ideale. Qui, in questo nuovo terreno, i princìpi della democrazia dovranno naturalmente occupare il primo posto, insieme con i princìpi umanitari. La cosa che più mi colpisce, oggi, è che questo tentativo di ricerca non riguarda solo il nostro Paese, ma tutto il mondo, compresi naturalmente i Paesi capitalisti. [...] Ho avuto modo di riflettere molto su questi temi. La verità è che oggi noi tutti, ad Oriente come ad Occidente, consapevoli o no, stiamo andando verso una sorta di nuova civiltà. E proprio questo mi fa ritenere che molti schemi del nostro stesso modo di pensare oggi non hanno più senso e devono essere modificati. Soprattutto non possiamo più contrapporre il capitalismo e il socialismo. Questo significa che la società e la civiltà che stiamo creando devono essere lette in tutta la loro complessità, nella molteplicità dei loro aspetti [...]. In fondo, questo e non altro è il senso della libertà politica ed intellettuale in cui crediamo, il senso del pluralismo. E questo è il significato, anche, della libertà economica. Mi hanno riferito le parole del filosofo Norberto Bobbio, che ha detto che il sistema socialista è andato in crisi per la mancanza del mercato. Ma per me il concetto di libertà economica significa proprio questo: coesistenza di ogni tipo di proprietà - statale, cooperativa, privata. E questo presuppone il mercato [...]. Uscire dai vecchi schemi significa anche rinunciare a leggere la storia passata e recente ad uso e consumo dei propri interessi particolari. Sarebbe ingiusto ripensare alla storia dell’Urss solo come ad una vicenda di occasioni perdute. Questo è un approccio estremamente unilaterale. La vera grande occasione è stata infatti perduta insieme dall’Est e dall’Ovest, disperdendo le enormi opportunità che nascevano dalla vittoria contro il nazismo e il fascismo. Esistono cause e motivazioni diverse per questo errore storico: alcuni temettero la democratizzazione del loro Paese e il rafforzamento del dialogo tra le due parti che insieme avevano vinto la guerra; altri ebbero paura dell’espansione dell’influenza sovietica. Il risultato fu una contrapposizione che sfociò nella Guerra fredda. Una grande occasione per l’Europa e il mondo fu perduta, nel 1945-47. Forse la più grande di questo secolo. Il presidente George Bush ha detto che gli Stati Uniti hanno vinto la Guerra fredda. Vorrei rispondere così: rimanendo immersi nel clima della Guerra fredda, tutti hanno perduto. E oggi, quando il mondo ha saputo liberarsi da quel clima, [...] tutti hanno vinto. Penso che questa polemica non abbia più grande rilevanza. Se non per una campagna elettorale...

Francesca Sforza per “La Stampa” il 31 agosto 2022.

Va nel personale, Jas Gawronski, giornalista e analista che ha attraversato il crollo del comunismo con il passo del diplomatico, ereditato da suo padre, e la prossimità con i più grandi, da Lech Walesa a Papa Giovanni Paolo II. 

E lo fa, a proposito di Gorbaciov, ricordando cosa gli disse proprio Papa Wojtyla nel corso di una conversazione avuta negli anni del suo papato: «Ha sempre difeso il comunismo sperando che potesse cambiare volto e non poteva fare altrimenti come primo segretario del partito, ma allo stesso tempo è stato l'unico che ha avviato una autentica riflessione sul comunismo». 

Gawronski, che ruolo ha avuto Gorbaciov nel crollo del comunismo?

«Il crollo del comunismo è stato determinato da quattro personaggi: Ronald Reagan, che con le guerre stellari ha messo in difficoltà economiche l'Urss come potenza, poi Giovanni Paolo II, col semplice fatto della sua nomina e per come ha gestito la cosa, poi certamente Lech Walesa, grazie alla scintilla che ha fatto scattare». 

E poi, lui, il padre della Perestrojka

«Io non credo che Gorbaciov volesse riformare il comunismo. A differenza dei primi tre, che volevano eliminarlo, Gorbaciov lo voleva migliorare, renderlo più umano, più sostenibile, ma non era più possibile, e non per una questione di riforme, ma proprio perché il sistema era arrivato a un punto di rottura irreversibile. Ha cavalcato opportunisticamente il ruolo del riformatore, ma non lo è stato per convinzione, lo è stato per le circostanze». 

Definiva Eltsin e il suo entourage degli "avventati". È d'accordo che il tempo non ha giocato a suo favore?

«Penso che sia vero dal suo punto di vista. Era presuntuoso e convinto di avere sempre ragione, guardava agli altri riformatori come concorrenti nella gara a conquistare un posto nella Storia, ma non ha colto la gravità del momento, l'impossibilità, per il comunismo, di trovare una qualsiasi possibilità di sopravvivenza».

Dal punto di vista comunicativo, ammetterà, è stato un rivoluzionario

«Diciamo che si è mosso molto bene, proprio con La Stampa, grazie al suo rapporto privilegiato con Giulietto Chiesa, all'epoca corrispondente da Mosca, e anche in parte con Giovanni Agnelli. Ma di nuovo, questo mi conferma nell'idea che volesse soprattutto lavorare sull'immagine di sé». 

Per questo, secondo lei, i russi non l'hanno mai amato?

«Lo giudicavano male i comunisti perché metteva in discussione gli aspetti fondanti del sistema, e lo giudicavano male gli anticomunisti perché intuivano la superficialità con cui intendeva riformare il Paese. In definitiva era un superficiale...»

Come sarà ricordato?

«Come il primo leader sovietico - perché sovietico era - accettato e accettabile in Occidente. Era l'unico che si muoveva a suo agio in Europa, erano gli europei che lo facevano sentire così riformatore, e a lui piaceva molto. 

Era contento di esserci, di apparire, di sembrare un sovvertitore della tradizione. Anche per quello i russi non lo hanno mai amato, ne coglievano il tratto narcisista.

Cosa diceva Lech Walesa di lui?

 «Walesa era moto critico nei confronti di Gorbaciov, soprattutto perché non credeva in un successo del comunismo, anche nella sua versione riformata. Allo stesso tempo, così come Gorbaciov non era immune dalla vanità, Walesa provava nei suoi confronti una certa invidia, perché aveva più successo di lui. Ma io sono convinto che fra trent' anni la storia ricorderà più Walesa che Gorbaciov». 

Anna Zafesova per “La Stampa” il 31 agosto 2022.  

C'è qualcosa di simbolico nel fatto che Mikhail Gorbaciov sia morto proprio mentre la Russia emersa da quell'impero sovietico che lui aveva cercato di salvare pacificamente stia naufragando nel sangue e nella vergogna. Chi lo ha frequentato negli ultimi mesi diceva che a 91 anni restava lucido e sapeva della guerra.

Era quello l'incubo al quale aveva sacrificato la sua carriera, accettando a soli 60 anni di diventare un pensionato, dopo essere stato uno degli uomini più potenti e popolari al mondo. 

Per lui, come per Vladimir Putin, la fine dell'Unione Sovietica era la tragedia più grande del '900, ma a differenza dell'attuale leader russo il primo e ultimo presidente sovietico aveva scelto la pace come priorità della sua missione politica e umana, e probabilmente non ci poteva essere per lui una punizione peggiore che morire sapendo che il suo Paese stava bombardando l'Ucraina, il Paese dal quale veniva sua madre e del quale cantava con una bella voce intonata le canzoni popolari quando era di buon umore.

Mikhail Sergeevich Gorbaciov - figlio di contadini arrestati da Stalin, studente moscovita idealista nel disgelo di Krusciov, funzionario del comunismo brezhneviano, il demolitore del Muro di Berlino, il Nobel per la pace premiato per il disarmo nucleare - è morto nel momento in cui la storia russa ha compiuto una giravolta a 180 gradi, e tutto (o quasi) quello che lui aveva conquistato o costruito è stato distrutto e rinnegato. 

Era entrato nella Storia già trent' anni prima di morire, eppure è morto sconfitto. Se la Russia di Putin è arrivata a pensare che la perestroika gorbacioviana fosse stata un tragico errore, e si è posta come obiettivo quello di tentare di riportare l'orologio della storia al 1984, è colpa probabilmente anche dell'idealismo di Mikhail Sergeevich.

Politico di magistrale bravura nella retorica e nell'intrigo, era però anche uomo di compromessi e mezze misure, che aveva sottovalutato il pericolo dei conservatori comunisti che cercava di tenere a bada mentre aveva sopravvalutato la lealtà dei suoi alleati riformisti. 

Aveva cambiato il mondo alla cieca, quasi d'istinto, mosso spesso più da un senso morale che da una consapevolezza chiara: era un uomo sovietico, che era arrivato a tastoni alla necessità di distruggere il sistema in cui era nato, ma senza riuscire ad accettarlo. 

Non l'avrebbe mai ammesso, ma era un rivoluzionario: nel modo in cui sceglieva la libertà, nel modo in cui aborriva la violenza anche quando vi rimaneva immischiato, ma anche nel modo in cui aveva portato nel mondo anaffettivo del Cremlino l'amore dichiarato per la sua Raissa. Aveva liberato dal Gulag i dissidenti. 

Aveva dato la libertà di parlare e creare agli intellettuali. Aveva fatto finire la guerra fredda, firmando con un presidente americano anticomunista come Ronald Reagan accordi sul disarmo nucleare che oggi sembrano appartenere a un mondo che abbiamo soltanto sognato. Aveva lasciato andare i Paesi dell'Europa dell'Est, accettando che gli ex satelliti sovietici tornassero in Europa, un "crimine" che gli ispiratori del putinismo ancora non riescono a perdonargli.

Aveva portato a Mosca quello che nessuno aveva mai visto: un politico che sorrideva, discuteva, che andava tra la gente e parlava a braccio. Un politico che sbagliava e ammetteva i suoi errori. Un leader che sapeva chiedere scusa e chinare il capo. Un potente che aveva invocato la fine di un mondo governato dalla forza. Uno statista che si era inserito da pari in un mondo di grandi leader occidentali, e che è stato amato all'estero proprio per la qualità che più è stata odiata in patria: il rifiuto della violenza, la visione che il potere politico si conquista e si negozia e non si impone.

Addio Mikhail Gorbaciov, eroe tragico che provò a salvare l’Unione Sovietica. Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 31 Agosto 2022.

L’ultimo segretario del Pcus scompare all’età di 91 anni. Le sue riforme furono l’ultimo tentativo, tardivo, di tenere in piedi il gigante rosso

Nel marzo del 1985 il Comitato centrale del Partito comunista sovietico elegge un relativamente giovane (aveva 54 anni) burocrate Mikhail Gorbaciov alla carica del Primo segretario. L’Unione sovietica, all’epoca, è retta da una gerontocrazia priva di immaginazione e che governa coi metodi di segretezza modellati sull’esempio di satrapie orientali: esisteva perfino una scienza, la cremlinologia, che dà segni difficilmente percettibili, come l’ordine di apparizione dei leader a qualche cerimonia ufficiale, traeva conclusioni su ciò che succedeva ai vertici di potere. Nel vicino Afghanistan è in corso una guerra che le truppe dell’Urss non sono in grado di vincere; ogni giorno aerei Antonov riportano nell’Urss bare con cadaveri di ragazzi morti inutilmente. E ancora: l’economia è a pezzi, causa inefficienza, corruzione, clientelismo. Il fianco occidentale del Paese è un’altra ferita aperta: in Polonia il movimento di Solidarnosc, guidato da Lech Walesa, continua la sua attività, nonostante anni prima fosse stato messo fuori legge, ed è aiutato dalla Chiesa e dal pontefice Karol Wojtyla. E ancora: il dissenso, così si chiamava quel fenomeno che vide intellettuali e attivisti democratici organizzare una vera opposizione ai regimi autoritari, ha preso piede in Cecoslovacchia (protagonista un grande scrittore Václav Havel), Ungheria, perfino nella Ddr. Tutto questo, mentre il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan, affiancato dalla premier britannica Margaret Thatcher, è convinto che quello comunista fosse “l’impero del Male”, condannato a morte (simile intuizione ebbe da noi Bettino Craxi, l’unico tra i leader italiani a onor del vero).

È difficile sapere quale fosse il vero programma politico di Gorbaciov nel momento in cui diventò il padrone del Cremlino. Probabilmente, stava pensando a una graduale riforma del paese, a qualche misura per rendere l’economia un po’ più vivace. Ma, spesso nella storia accade che un incidente in apparenza tecnico, finisce per cambiare il corso degli eventi e lo spirito del tempo. È stato questo il caso del disastro di Cernobyl nell’aprile del 1986. L’esplosione di un reattore nucleare e la nube radioattiva che si propagò per tutto il continente, fino all’Oceano Atlantico non potevano essere nascosti all’opinione pubblica, come avveniva invece in Urss, per decenni.

Il mistero cui era avvolta la vita dei sovietici era tale che non venivano pubblicati elenchi telefonici; le cartine geografiche portavano dati falsi, conglomerati urbani di importanza militare, ufficialmente non esistevano. Gorbaciov colse quindi l’occasione dell’indicente nucleare per farla finita con l’ossessione della segretezza. Il segretario del Pcus aveva compreso che senza la libertà d’informazione l’Urss sarebbe stata condannata a morte. O meglio, il suo tentativo di introdurre la libertà di parola (lo chiamò glasnost, seguì un progetto di riforma dell’economia definito perestrojka) fu un tentativo eroico e tragico, tragico perché intrapreso troppo tardi e non per colpa sua, di salvare il salvabile.

In questa sua impresa Gorbaciov trovò un alleato in Andrej Sacharov, premio Nobel per la pace, confinato da anni nella città di Gorkij (Nižnyj Novgorod). La scena è da grande romanzo: il 23 dicembre 1986, l’uomo, che siede al Cremlino (simbolo di un potere assoluto) chiama al telefono il suo prigioniero più illustre e gli dice: da domani sei libero e sappi che ho bisogno di te. I primi a capire quello che stava accadendo a Mosca sono stati i polacchi. Il paese era allo stremo; nei negozi mancavano beni di prima necessità; gli ospedali erano privi di medicine. I comunisti non erano più in grado di governare: per stanchezza, per mancanza di fiducia in se stessi, e lo sapevano bene. Dall’altro lato della barricata, nonostante la messa fuori legge di Solidarnosc (dicembre 1981) in seno all’opposizione democratica ha continuato a crescere una classe politica straordinariamente ben preparata, colta, intelligente e generosa. E basti pensare a intellettuali come il cattolico Tadeusz Mazowiecki (fu il primo Presidente del Consiglio non comunista; mori nel 2013, povero); o il grande storico Bronislaw Geremek, o a Jacek Kuron ́ (nove anni nelle patrie galere; a casa sua non chiudeva mai la porta perché chiunque potesse entrare e chiedere aiuto).

A Varsavia nel 1988 i comunisti intavolavano un negoziato con l’opposizione e con la mediazione della Chiesa, e che finì con il passaggio di potere l’anno dopo. Seguivano, con un simile modello, gli ungheresi. Poi, manifestazioni di piazza hanno finito per rovesciare gli altri regimi, e fino e oltre (in caso cecoslovacco) alla sera del 9 novembre 1989 in cui è caduto il Muro. Comunque, quelle rivoluzioni furono, tra le ultime guidate da grandi intellettuali prestati alla politica (in Cecoslovacchia da Václav Havel, una delle menti più eccelse del secolo scorso), e forse per questo, prive di rancore e generose invece. L’entusiasmo era contagioso. Tanto che in Palestina era in atto l’Intifada, una rivolta popolare contro l’occupazione israeliana, mentre in Cina gli studenti reclamavano libertà e democrazia.

Di quell’entusiasmo, come si diceva, rimane poco. Ma due cose vanno ribadite. La prima: la memoria, anche e soprattutto quella degli in apparenza sconfitti (come appunto i generosi intellettuali o Gorbaciov) può in ogni momento trasformarsi in un progetto dell’avvenire. Lo sapeva bene il grande pensatore ebreo tedesco Walter Benjamin. La seconda cosa da ricordare è che nessuno può negare quanto nonostante tutto l’Europa sia oggi un posto migliore: basta andare in visita a Berlino, Varsavia o Vilnius per constatarlo. E comunque quel Muro doveva cadere.

Quando Mikhail Gorbaciov andò al potere per cambiare il mondo (senza saperlo). Nel 1986 il “giovane” Gorbaciov diventato da poco segretario del Pcus inizia le sue radicali riforme. Ecco come il mondo guardava a quegli eventi storici (e chi si opponeva). Wlodek Goldkorn su L'Espresso il 19 ottobre 1986.

Questo articolo dell’Espresso del 1986 è tratto dal libro “La nostra storia, Cadono i muri 1985-1989”.

C’è chi parla di un uragano, o addirittura di un terremoto. Comunque, da cinquant’anni a questa parte in Urss non accadeva una cosa simile. Stiamo parlando delle massicce purghe volute dal segretario generale del Pcus Mikhail Serghievicˇ Gorbaciov.

Per illustrare l’ampiezza del fenomeno ecco alcune cifre: quattro dei quattordici primi segretari dei partiti delle quindici Repubbliche che compongono l’Unione Sovietica sono stati cambiati; un terzo dei responsabili del partito a livello regionale ha dovuto trovare un’altra occupazione; nel comitato centrale sono stati sostituiti ben quattordici dei ventitré capi dipartimento; infine il 40 per cento dei titolari dei ministeri. Tutto questo in poco più di un anno e mezzo. Il capo del Cremlino sta dunque liquidando, e in fretta, l’eredità lasciatagli dal suo predecessore, Konstantin Cˇernenko. Queste purghe di burocrati corrotti, o troppo vecchi e troppo pingui per adattarsi al nuovo stile del giovane zar dai vivaci occhi grigio-blu che sorridono dolcemente nei momenti di bonaccia, ma che diventano di ghiaccio negli attimi di rabbia, non sono che la punta dell’iceberg del cambiamento radicale che il segretario generale del Pcus sta imponendo alla società. Una rivoluzione dall’alto? Sarebbe esagerato sostenere una simile tesi. Le fondamenta del potere sovietico non muteranno: il partito unico rimane e rimarrà la massima e inappellabile autorità. Ma Mikhail Gorbaciov è fermamente convinto che la società che egli governa debba essere riformata.

Il terremoto in atto non è che il preludio alla costruzione di una Urss diversa da quella che egli ha ereditato. Ma vediamo qual è il progetto che persegue il capo del Cremlino, o con più esattezza come egli si immagina la “sua” Urss e con quali mezzi la vorrebbe costruire. Cominciamo dal settore più disastrato: l’economia. Nella cerchia degli intellettuali moscoviti vicini a Gorbaciov si dice che il sogno non troppo segreto del capo del Cremlino sarebbe di dar vita a una riedizione della Nep. La Nep fu la politica economica voluta negli anni Venti da Lenin e che consisteva nel dare un elevato spazio al mercato. I contadini erano autorizzati a vendere i loro prodotti direttamente in città. Mentre nelle città ai privati era permesso di aprire piccole fabbriche e negozi, arricchirsi, insomma. Il riferimento alla Nep è più che altro simbolico, nessuno intende ritornare alle pratiche di 65 anni fa, si tratta piuttosto di varare una «riforma radicale», espressione che, dopo mesi di esitazione, Gorbaciov usa sempre più spesso e volentieri.

Alla base di questa riforma sta l’esperimento in atto da più di due anni (dai tempi precedenti l’avvento di Gorbaciov quindi) che entro il 1988 sarà allargato a tutte le industrie. I direttori delle aziende dovranno operare usando il metro, finora loro estraneo, del profitto. I lavoratori non saranno più pagati a seconda della quantità prodotta, mentre i piani di produzione non saranno calcolati in tonnellate di materie prime. Il direttore della fabbrica avrà invece a sua disposizione un certo fondo di capitale; starà a lui organizzare il lavoro e distribuire le paghe in modo di trarre il massimo guadagno e di incrementare la produttività. Tutto ciò provocherà non solo forti sperequazioni salariali e licenziamenti degli operai “inutili”, ma anche la fine dei poteri delle burocrazie ministeriali che finora decidevano ogni dettaglio della vita di ogni fabbrica. Del resto molti dei ministeri di settore (ce ne sono un centinaio) sono stati aboliti, altri sono stati raggruppati in organismi di “importanza strategica”.

Il loro compito è quello di fissare globalmente le linee generali della politica economica, lasciando ai direttori delle aziende (diventati così manager e non più soli esecutori di ordini) una larga autonomia. I responsabili di quei nuovi “organismi strategici” sono fedelissimi di Gorbaciov. Tra di essi spiccano, per citare solo i più importanti, il Presidente del Consiglio dei Ministri Nikolaj Ryžkov, Nikolaj Talyzin attuale capo del Gosplan (l’ufficio di pianificazione centrale), Vsevolod Murakhovskij, presidente dell’importantissimo Comitato agro-industriale, Jurij Batalin responsabile dell’edilizia. Tutti loro (ad eccezione di Murakhovskij – che ha fatto carriera a Stavropol, la città di Gorbaciov) sono ingegneri con ferrea mentalità di tecnocrati. Simile è la musica che suona nelle campagne. Non saranno aboliti i kolkhoz (le fattorie collettive) voluti da Stalin, ma tutta la produzione agricola eccedente le quote fissate dal piano potrà essere venduta liberamente e ufficialmente nei mercati cittadini. Riuscirà Mikhail Gorbaciov a portare a compimento questi progetti? Non è facile dirlo. È certo che lo zar riformatore ha molti nemici.

C’è la massa degli uomini senza volto, i piccoli burocrati dei ministeri in via di abolizione spaventati dalla prospettiva di perdere il posto di lavoro e il potere che da esso deriva. Ma c’è anche l’opposizione, tenace anche se non dichiarata apertamente dei membri del Politburo. Il numero due del Cremlino, grande sacerdote della dottrina marxista-leninista Egor Kuzmicˇ Ligaciov, non perde occasione per spiegare che parole come “profitto”, “autonomia dei manager” devono considerarsi bandite dal lessico sovietico. Ma forse Ligaciov non è tanto spaventato dalla prospettiva di concedere una certa autonomia ai direttori delle industrie e ai contadini koknosiani, quanto di un altro concetto che secondo gli uomini di Gorbaciov dovrebbe caratterizzare la società sovietica del Duemila.

“Unità nella diversità” è il titolo (che ricalca la celebre parola d’ordine “eretica” dei comunisti italiani negli anni Sessanta) di un articolo del professore Vsevolod Davidovicˇ apparso un mese fa sulla “Pravda” l’organo del Pcus. Le tesi del saggio si possono riassumere così: «Compagni, è ora di riconoscere che in seno alla nostra società vi sono interessi e idee differenti. Mettere una cappa burocratica per soffocarli e per creare l’impressione di una falsa unanimità è non solo errato, ma addirittura nocivo». Idee queste che da anni vengono espresse da Tatyana Zaslavskaja, una sociologa siberiana che Gorbaciov ascolta volentieri. Nell’articolo di Davidovicˇ non solo vengono criticate le passate gestioni dell’impero, ma si tenta di tracciare un modello della società proiettato nel futuro. Vediamolo. Intanto dovrebbe essere radicalmente ridimensionato l’enorme potere che ai tempi di Breznev avevano accumulato i capi locali e regionali del partito. Le decisioni “strategiche” saranno prese direttamente a Mosca, ma questa centralizzazione sarà poi accompagnata con la “democratizzazione” (la parola è stata pronunciata, anche se è difficile sapere che cosa essa significhi in lessico sovietico) delle decisioni a livello dei “collettivi di fabbrica”. Il partito dovrà “sorvegliare” l’attuazione della linea politica e non più ingerirsi nella diretta gestione dell’economia. Quest’ultimo concetto è poi guardacaso il cavallo di battaglia di Boris Eltsin, segretario del partito di Mosca e capofila dei “gorbacioviani arrabbiati”, di quelli cioè che vorrebbero vedere la burocrazia di grado intermedio se non proprio smantellata, almeno privata di alcuni importanti privilegi.

Il vento nuovo ha scosso anche la sfera della cultura. Il poeta Andrej Voznesenskij ha recentemente parlato addirittura di una “rinascita spirituale” in atto. Intendiamoci, Gorbaciov certamente non abolirà la censura, ma vorrebbe almeno ammorbidirla. Solo un mese fa un celebre critico letterario Boris Egorov ha denunciato con molto vigore dalle pagine di Sovietskaja Kultura gli abusi degli editori e dei burocrati del Glavlit (l’ufficio della censura), ma alcuni libri di autori importanti, finora proibiti stanno per essere pubblicati. Tra questi: il Dottor Živago di Boris Pasternak, i romanzi di Vladimir Nabokov e le poesie di Nikolaj Gumilëv che fu fucilato dai bolscevichi nel 1921. Su “Ogonjok”, una rivista stampata in un milione e mezzo di copie, ha visto la luce un frammento di I camici bianchi, il romanzo di Vladimir Dudinzov che denuncia lo stalinismo in termini mai usati sulla stampa sovietica, ad eccezione del brevissimo periodo in cui ad Alexander Solženicyn era permesso pubblicare in Urss. Infine, gli intellettuali moscoviti prevedono il trionfo nelle librerie di Stato di quel gruppo di trentenni esplicitamente “ribelli” che contestano tutto l’establishment letterario e che scrivono opere di aspra denuncia dello stesso stato delle cose esistenti in sintonia con le tendenze d’avanguardia in Occidente.

L’Unione Sovietica sognata da Gorbaciov dovrà anche esercitare un ruolo nuovo nell’arena internazionale. La teoria del “nuovo pensiero” (novoje myshlenije) è stata spiegata sul “Komunist”, la rivista teorica del Pcus, nel settembre scorso da Anatolij Dobrynin, ex ambasciatore sovietico negli Usa e oggi segretario del Cc responsabile de facto della politica estera. La vecchia nozione di “lotta antimperialista” viene abbandonata a favore della “salvaguardia dell’umanità”. Il linguaggio di Dobrynin è tutt’altro che chiaro. Ma dal saggio da lui firmato si può dedurre che, nonostante gli Stati Uniti siano sempre considerati il “nemico principale”, il compito più urgente della politica estera sovietica non è tanto raggiungere e mantenere la parità strategica con Washington, quanto costruire una rete di buoni rapporti con gli altri paesi del mondo. E questo perché nell’era delle armi nucleari la sicurezza «è un problema globale che non può riguardare una sola nazione». C’è chi considera tutto questo un altro trucco propagandistico per dividere i paesi dell’Europa occidentale dall’alleato americano e per convincere l’opinione pubblica mondiale della “cattiveria” di Reagan e della “bontà” di Gorbaciov. Può darsi che questo sia vero. Ma rimane il fatto che Dobrynin ha duramente, anche se non esplicitamente, criticato la gestione passata della politica estera sovietica, alla quale ha rimproverato troppa rigidità e troppo attaccamento alle tesi precostituite e alla visione bipolare del mondo.

La politica di Dobrynin e di Gorbaciov, a differenza di quella di Gromiko, sarà molto più elastica, improntata al pragmatismo, meno fissata sul rapporto esclusivo con gli Stati Uniti. L’Urss cercherà i favori dei paesi dell’Asia, Cina compresa, del Pacifico e dell’Europa occidentale. Questi progetti sono duramente osteggiati dai militari i quali hanno addirittura dato vita ad una rivista mensile “Vojennyj Vjestnik” (Il messaggio militare) – distribuita, fatto inedito, esclusivamente in Occidente – sulle cui pagine si possono leggere critiche degli altissimi ranghi dell’esercito nei confronti della politica estera e militare del segretario generale del Pcus. L’Unione Sovietica resterà il leader dell’alleanza dei paesi del socialismo reale, ai quali sarà permessa una certa autonomia nella gestione delle loro economie, ma sarà richiesta assoluta fedeltà alla linea del Cremlino soprattutto nelle questioni di politica estera e di strategia militare. Questo è il ritratto dell’impero riformato come lo vorrebbe il giovane zar. Ma, sovietologi e intellettuali moscoviti sono concordi nell’affermare che i suoi numerosi nemici non dormono. E pochi sono pronti a scommettere che Gorbaciov non farà la fine di quel suo illustre predecessore Nikita Krušcˇev che il nuovo segretario generale del Pcus non ha ancora osato far uscire dal dimenticatoio e il cui spirito aleggia su Mosca in attesa di una tardiva riabilitazione.

1931-2022. In Russia il sogno di Mikhail Gorbaciov si è infranto nello scontro fra generazioni. MARA MORINI, politologa, su Il Domani il 31 agosto 2022

«Per colpa sua abbiamo una gran confusione economica e instabilità politica!», afferma con fervore un anziano signore seduto a un tavolo nel centro di Mosca. «Grazie a lui abbiamo opportunità e libertà», ribatte un ragazzo. «Grazie a lui abbiamo molte cose... come Pizza Hut», afferma sorridente una signora, mettendo tutti d’accordo. 

Questo video della pubblicità del brand americano a cui l’ultimo segretario del Pcus, Mikhail Gorbaciov, aveva partecipato per finanziare la sua fondazione di studi, riassume efficacemente come il processo riformatore della perestrojika e della glasnost’ sia stato valutato dal popolo russo.

Da un lato, una generazione di giovani che desideravano la libertà d’opinione e sognavano un futuro migliore. Dall’altro lato, una gerontocrazia al potere, contraria alla ridefinizione del socialismo reale e al rinnovamento nel e del partito di stato, e una popolazione mediamente anziana che ha subito uno shock per il tracollo economico e sociale che le riforme gorbacioviane avevano determinato nel paese.

Gorbaciov ha cambiato per sempre anche la politica americana. MATTEO MUZIO su Il Domani il 31 agosto 2022

Lo scomparso leader sovietico non scompaginò soltanto gli equibri mondiali, ma anche i due maggiori partiti americani: i repubblicani, una volta vinto il nemico comunista, concentrarono le proprie attenzioni sul nemico interno e le “culture wars”, mentre i democratici trovarono una sintesi tra i liberal urbanizzati e i conservatori del sud durante la presidenza di Bill Clinton.

Cosa resta oggi nella memoria pubblica americana dell’epoca di Mikhail Gorbaciov? Rimane un leader russo amichevole e rispettabile, forse l’unico con queste caratteristiche.

Ha rappresentato un unicum nell’immaginario collettivo: il capo del principale avversario della potenza americana che voleva seriamente riformare il proprio sistema e che voleva superare il sistema dei due blocchi passando gradualmente alla democrazia e all’economia di mercato.

“INGENUO E IMMATURO”. Lo spettro di Gorby aleggia ancora sulla Cina. MICHELANGELO COCCO su Il Domani il 31 agosto 2022

Il Partito comunista cinese ha accolto la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov ribadendo il giudizio politico, liquidatorio, sull’ex leader sovietico. «Durante il periodo in cui è stato alla guida dell’Urss, ha commesso gravi errori nel giudicare le vicende nazionali e internazionali, e i fatti hanno dimostrato che le sue politiche sono state catastrofiche per il paese» ha scritto mercoledì il Global Times.

Il giornale del gruppo editoriale del Quotidiano del popolo (organo ufficiale del Comitato centrale del Pcc) bolla Gorbaciov come «una figura tragica, senza principi e compiacente con gli Stati Uniti e l’Occidente», un «ingenuo e immaturo, che ha rappresentato un certo periodo storico in cui la Russia oscillava tra la “ricerca di una via indipendente” e “l’abbraccio all’occidente”».

Ma nell’ultimo decennio - conclude il Global Times - il presidente russo, Vladimir Putin, «ha imparato dalle lezioni del leader sovietico degli anni Novanta, portando il suo paese su un percorso autonomo».

Morto Mikhail Gorbaciov, l'ultimo presidente dell'Unione sovietica aveva 91 anni. Il Tempo il 30 agosto 2022

Se ne va un protagonista del Novecento. È morto a 91 anni l’ex presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov. È stato l'ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Urss dal 1985 al 1991, propugnatore dei processi di riforma legati alla perestrojka e alla glasnost’, e protagonista nella catena di eventi che portarono alla dissoluzione dell’Urss e alla riunificazione della Germania. Artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda, fu insignito nel 1989 della Medaglia Otto Hahn per la Pace e, nel 1990, del Nobel per la pace.

A dare la notizia della morte, riporta la Tass che sottolineando come l’ex presidente abbia posto fine alla Guerra fredda, è la struttura sanitaria che lo aveva in cura. "Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia", ha fatto sapere il Central Clinical Hospital. 

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie. Lo ha annunciato alla Tass una persona che conosceva i desideri dei parenti dell’ex presidente. "Mikhail Sergeevich sarà sepolto accanto a sua moglie Raissa al cimitero di Novodevichy", ha detto la fonte all’agenzia russa. 

Alla guida dell’Urss tra il 1985 e il 1991, Gorbaciov negoziò la fine della Guerra Fredda, la caduta del muro di Berlino e il disarmo nucleare. Tra il 1990 e il 1991 fu Presidente dell’Unione Sovietica, prima di doversi dimettere definitivamente il 25 dicembre 1991, con la fine dell’Urss. È stato il simbolo di una nuova generazione di leader: fu lui ad avviare la Glasnost (trasparenza) e poi la Perestrojka (ristrutturazione economica), che vide la nascita della Russia moderna. Cercò di cambiare l’Unione Sovietica e le sue relazioni con il mondo occidentale. E non volle solo la fine della Guerra Fredda o un ritorno alla politica della distensione, ma creare una vera cooperazione, un’intesa tra Oriente e Occidente: difese il multilateralismo non ancora globalizzato, consapevole che il pericolo peggiore fosse quello di una guerra nucleare ma anche delle sfide ambientali, che sarà uno dei primi leader politici a mettere in agenda. 

Funerali di Mikhail Gorbaciov, Vladimir Putin non parteciperà alla cerimonia di Mosca. Il Tempo l'01 settembre 2022

Vladimir Putin non parteciperà alla cerimonia di addio a Mikhail Gorbaciov, morto all’età di 91 anni, «con elementi da funerale di stato». Lo ha reso noto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, citato dall’agenzia russa Interfax. Peskov ha riferito che Putin si è recato presso l’ospedale in cui è deceduto Gorbaciov, prima di spostarsi a Kaliningrad, e non potrà quindi partecipare ai funerali previsti per sabato a Mosca.

Lo "zar" del Cremlino ha, però, reso omaggio a Gorbaciov nell'ospedale di Mosca. In silenzio, con un grande bouquet di rose rosse, solo un accenno di inchino e il segno della croce. Così Vladimir Putin ha reso omaggio alla salma dell’ex leader sovietico che riposa in un’ampia sala vuota e semi illuminata all’Ospedale centrale di Mosca dove è morto il 30 agosto. Le immagini di Putin che depone le rose vicino alla bara aperta di Gorbaciov, prima di fermarsi per un minuto di raccoglimento, sono state diffuse dalla tv di Stato.  

È morto Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell’Unione sovietica. Il Domani il 31 agosto 2022

Preso il potere nel 1985, Gorbaciov cercò di riformare l’Urss con la glasnost e la perestrojka, ma non riuscì a impedire la caduta del comunismo e la nascita della Russia moderna

L’ultimo leader dell’Unione Sovietica Mikhail Gorbaciov è morto questa notte all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. Gorbaciov è considerato il politico che ha portato la guerra fredda a una conclusione pacifica, sovrintendo allo smantellamento quasi non violento dell’Urss che aveva tentato di riformare.

Condoglianze sono arrivate da tutti i principali leader internazionali. Il segretario dell’Onu, Antonio Guteress, ha detto che è stato un uomo «che ha cambiato la storia». Il presidente degli Stati Uniti Joe Biden lo ha definito «un leader raro». Il presidente russo Vladimir Putin ha comunicato le sue condoglianze tramite il suo portavoce.

L’ULTIMO SEGRETARIO

Arrivato al potere nel 1985 all’età di 54 anni, Gorbaciov è stato il più giovane leader sovietico e ha cercato di aprire l’Urss all’esterno, di rendere meno vincolanti i legami con gli stati del suo blocco e di aumentare le libertà politiche ed economiche. Le sue riforme, note con i nomi di glasnost e perestrojka, contribuirono in modo significativo al crollo dell’Urss. Nel 1990, Gorbaciov ha ottenuto il premio Nobel per la pace.

Gorbaciov è stato il leader politico che ha gestito il disastro della centrale nucleare Chernobyl, nel 1986. Pochi anni dopo, nel 1989, deve gestire la caduta del muro di Berlino, resa possibile dall’allentamento del legami tra l’Urss e gli stati della sua alleanza. Infine, nel 1991, il processo innescato dalle sue riforme porta al collasso dell’Unione e l’ascesa della nuova Russia, all’epoca guidata dal carismatico sindaco di Mosca, Boris Yeltsin. 

In Russia, l’opinione nei confronti di Gorbaciov è peggiorata nel corso degli anni e molti lo incolpano per gli il caos e la povertà seguiti alla caduta dell’Urss. Con l’ascesa di Putin e con la rinascita di un forte sentimento nazionale russo sostenuto dal governo guidato dal successore di Yeltsin, Vladimir Putin, la sua figura è diventata sinonimo delle umiliazioni subite dalla Russia negli anni Novanta. 

Gorbaciov è morto in un ospedale di Mosca e la malattia che lo affliggeva non è stata rivelata.

Gorbaciov seppe prevedere e gestire il crollo dell’Urss: ora Putin impari dalla storia. Piero Liuzzi su la Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Settembre 2022.

Con le sue sperticate lodi a Mikhail Gorbaciov, Silvio Berlusconi ha posto una pietra tombale su quanto restava della sua amicizia con Vladimir Putin. Ammesso che l’ufficio stampa del Cremlino abbia incluso il Cavaliere nella rassegna dei laudatores occidentali per colui che Mad Vlad considera l’autore della «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo». Così, infatti, Putin definì nel 2005 lo scioglimento dell’Unione Sovietica. Gerarchia dei fatti molto inopportuna per un Novecento particolarmente generoso di catastrofi belliche ed umane.

In Occidente era la sera di Natale del 1991, quando Gorbaciov parlò per 11 minuti e 22 secondi alla televisione di Stato. Poco dopo, Valentin Kuzmin e Vladimir Arkhipikin, addetti al cerimoniale, ammainarono la bandiera rossa con falce, martello e stella dell’Unione Sovietica dal più alto pennone del Cremlino sostituendola con la bandiera russa.

Per Vladimir Putin un secondo colpo tanto terribile quanto temuto. Il primo lo aveva accusato nel suo ufficio, nella «rezidentura» del Kgb a Dresda al numero 4 di Angelikastrasse, la sera del 9 novembre 1989, quando era crollato il Muro di Berlino. Quella notte Gorbaciov fece varie telefonate. Una ad Helmut Kohl e una a Willy Brandt, assicurando che i 400mila militari russi di stanza nella DDR (la Germania dell’Est, comunista, appartenente al blocco sovietico e al Patto di Varsavia - n.d.r.) sarebbero rimasti nelle caserme. Infatti, nessuno accese i motori degli oltre 4mila carri armati sovietici che presidiavano la Germania Est. Decisione non del tutto scontata, considerando l’entourage che lo circondava.

Ma facciamo un passo indietro. L’Urss che Gorbaciov eredita da Cernenko è stremata dalla guerra in Afghanistan, da spese militari insostenibili e, in buona sostanza, da un modello politico che è arrivato al capolinea. Che la soluzione sia una perestroika governata dalla glasnost è quanto di più velleitario si possa immaginare.

A remare contro di lui, il primo ministro Valentin Pavlov, il vicepresidente Gennadij Janaev, il capo del Kgb Vladimir Krjuckov, il ministro degli interni Boris Pugo e quello della difesa Dmitrij Jazov, tutti alla testa del fallito golpe del 18 agosto 1991 che porta sulla scena Boris Eltsin.

Pochi giorni dopo, il 24 agosto, l’Ucraina proclama l’indipendenza.

Una leggenda racconta che a Gorbaciov l’ispirazione della perestroika venne nel 1984, in una notte mentre chiacchierava con il suo amico Eduard Shevardnadze, in una dacia in Abkhazia, sul Mar Nero. Forse la spinta venne da una bottiglia di vodka. Al tempo è solo Secondo Segretario del Pcus. A Mosca regna incontrastato Cernenko. Gorbaciov avrebbe scandito a Shevardnadze: «È tutto marcio. Dalle radici alla punta».

Capire la natura del conto che decenni di Unione Sovietica lasciano a Mikhail Gorbaciov è importante per riflettere sull’oggi. «Overstretching» sarebbe il termine giusto: sovraestensione politica, militare ed economica. Il sostegno russo al Comecon e al Patto di Varsavia non era più sostenibile. Gorbaciov ha cercato un’alternativa impossibile nelle condizioni date all’inizio degli Anni Novanta.

Ovviamente «parce sepulto», onore ad una delle figure più tragiche del Novecento ma anche una riflessione sull’ossessione dell’«overstretching» che, ancora una volta, assedia un Paese la cui unica forza è l’esportazione di quanto Madre Natura gli ha destinato e un’atomica che sarebbe un «game over» per tutti. Nessuno escluso.

Si dice che Putin sia un cultore della storia russa. E della storia fanno parte anche le mitologie e da queste originano gli esiti più devastanti. Su aspirazioni territoriali caddero i Romanov e sullo stesso terreno cadde l’Unione Sovietica. A leggerla bene la storia può essere anche una via che porta alla pace.

Morto Mikhail Gorbaciov, l'ultimo presidente dell'Urss. Mikhail Gorbaciov scompare all'età di 91 anni dopo aver passato una vita alla sburocratizzazione dello Stato e un'operazione di trasparenza che avrebbe concesso le libertà individuali. Francesco Curridori il 30 Agosto 2022 su Il Giornale.

Dopo Reagan, la Thatcher e Papa Giovanni Paolo II muore anche l’ultimo fautore della fine del regime sovietico, Mikhail Gorbaciov che passerà alla storia come un grande riformista. Gorbaciov è morto all'età di 91 anni e sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy a Mosca, in una tomba di famiglia, dove potrà riposare accanto alla moglie. Gorbaciov è morto al Central Clinical Hospital.

L'infanzia di Gorbaciov

Gorbaciov nasce il 2 marzo 1931 da una famiglia di contadini a Privol'noe, un paese del Caucaso settentrionale, al confine con l’Ucraina.“Mio padre e mia madre alla nascita mi avevano chiamato Viktor, ma quando mi battezzarono nonno Andrej, alla domanda del prete sul nome che era stato scelto, rispose: Michail”, racconta l’ex presidente dell’Urss nella sua prima autobiografia, intitolata ‘Ogni cosa a suo tempo: storia della mia vita’. Gorbaciov, infatti, trascorre la sua infanzia a casa del nonno, insieme ai suoi genitori e ai 4 fratelli e, come tutti i suoi coetanei, parla indistintamente sia il russo sia l’ucraino. Per i suoi antenati essere russi “significava appartenere al nostro Stato, alla religione ortodossa e alla cultura russa. Non si attribuiva grande importanza al fatto di essere chochol (ucraino) o moskal (moscovita)”.

La repulsione verso il regime di Stalin

Gorbaciov ha sempre avuto una repulsione verso il totalitarismo introdotto da Josep Stalin negli anni ’30. La repressione del regime staliniano, infatti, tocca direttamente anche la sua famiglia. Il nonno materno fu condannato a morte, nonostante avesse sostenuto la rivoluzione e nonostante il comunismo gli avesse dato la terra per sostentare la sua famiglia. Sopravvisse dopo essere stato torturato per 14 mesi perché il giudice dell’epoca “non aveva visto nella sua ‘causa’ non solo alcun motivo per la fucilazione, ma neppure alcuna colpa”. Il nonno paterno, invece, fu arrestato per la mancata realizzazione del piano di semina. “Il mio punto di vista è che in Unione Sovietica abbia trionfato un regime rigido, crudele, totalitario. Naturalmente ebbe un’evoluzione e dopo la morte di Stalin la sua crudeltà si attenuò leggermente, si affievolì. Ma la sostanza resta la stessa. Il totalitarismo dell’Unione Sovietica non può essere un modello per nessuno. Questo è fuori discussione. Ma - spiega nel libro ‘Riflessioni sulla rivoluzione d’Ottobre’- il trionfo di questo regime nell’Unione Sovietica degli anni Trenta non può in nessun modo essere un argomento contro l’idea stessa di socialismo”.

La carriera nel Pcus e l'amore per Raissa

Finita la guerra e conclusi gli studi adolescenziali, Gorbaciov si trasferisce a Mosca per studiare legge e, grazie ai buoni risultati ottenuti negli esami, riesce a ottenere varie borse di studio. Vive, però, male il “clima iperideologizzato” dell’università dove gli uomini del Pcus “controllavano e orientavano il sistema didattico in modo da forgiare le giovani menti fin dalle prime settimane”. Gorbaciov, in questi anni diventa segretario del Komsomol (l’Unione comunista della gioventù), della sua facoltà e conosce Raissa, la sua futura moglie che gli resterà accanto fino alla morte, avvenuta il 20 settembre del ‘99, cinque giorni prima del loro 46esimo anniversario di matrimonio e due giorni prima di effettuare il trapianto di midollo. A un anno dalla sua perdita, nel libro ‘Il nuovo muro’ confessa: “Non mi sono mai sentito tanto solo. Io e Raissa abbiamo convissuto quasi cinquant’anni, senza mai separarci e senza sentirci mai di peso l’uno per l’altra, insieme siamo stati sempre felici”. Alla fine degli anni ’60 Gorbaciov si trasferisce, insieme alla moglie Raissa, a Stavropol, capoluogo della regione del Caucaso Settentrionale, dove studia economia agraria e prosegue la carriera politica tanto da essere eletto, a 39 anni, primo segretario di comitato del Pcus in quel territorio.

Gorbaciov, in breve tempo, entra anche nel Comitato centrale del partito e instaura un rapporta d’amicizia con il futuro segretario generale, Jurij Andropov, anch’egli favorevole a sburocratizzare l’Urss. A cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 visita la Germania dell’Est, la Bulgaria e la Cecoslovacchia ma non mancano, però, viaggi anche in Italia, Francia, Belgio e Germania dell’Ovest. Nel 1979 Gorbaciov si trasferisce a Mosca e tre anni dopo muore Leonid Breznev che lui criticava perché aveva smantellato le riforme avviate da Krusciov e per aver invaso militarmente Praga e l’Afghanistan. Negli anni ’80 Andropov sostiene il suo ingresso nel Politiburo e gli affida il discorso per l’anniversario dei 113 anni dalla nascita di Lenin. Nel 1983 Gorbaciov va in visita ufficiale in Canada, mentre l’anno successivo è in Italia per i funerali di Enrico Berlinguer, principale sostenitore dell’Eurocomunismo.

Gorbaciov nominato segretario generale del Pcus

Nel 1985, a 54 anni, viene eletto segretario generale del Pcus, diventando di fatto il capo del governo. Le parole perestrojka (ristrutturazione dello Stato) e glasnost (trasparenza) entrano così di diritto nel vocabolario mondiale. Gorbaciov, nel suo libro ‘Riflessioni sulla Rivoluzione d’Ottobre’, definisce la perestrojka come “il rifiuto degli stereotipi ideologici, dei dogmi del passato”. Nella perestrojka c’era “una profonda democratizzazione della vita sociale, la garanzia della libertà di scelta sociale e politica”. In sintesi, nelle politiche di Gorbaciov vi è anche la condanna della dittatura del proletariato, che “nella sua variante staliniana, veniva definita come la forma più alta di democrazia” ma, in realtà, “non era neanche una dittatura del proletariato come strato di massa della società, bensì la dittatura di un gruppo dirigente e della sua nomenclatura gerarchica”.

Gorbaciov, perciò, pur abbracciando le teorie socialiste e respingendo quelle ultraliberiste, valuta negativamente anche lo statalismo in economia.“È stato provato che agendo in questo ruolo, lo Stato – scrive sempre nel libro sulla rivoluzione del ’17 - si trasforma in un’arma del potere incondizionato della burocrazia, mentre la forza produttiva (per dirla meglio, i direttori/gestori e i lavoratori/dipendenti) perde la capacità di iniziativa e di imprenditorialità”. In politica estera, invece, il capo dell’Urss mantiene frequenti ed intensi rapporti sia con Margaret Thatcher sia con i presidenti americani Ronald Reagan e George Bush senior per porre fine alla guerra fredda. Il 9 novembre 1989 crolla il muro di Berlino e nel 1990 Gorbaciov viene insignito del premio Nobel per la Pace.

Boris Eltsin subentra a Gorbaciov

In patria, però, deve guardarsi dall’ostilità del sindaco di Mosca, Boris Eltsin che nell’agosto del 1991 diventa il vero vincitore del fallimento del golpe organizzato dai conservatori del Pcus che tentavano di fermare le riforme avviate da Gorbaciov. Il fallito golpe consente ai riformisti come Eltsin di accelerare il processo di dissoluzione dell’Unione Sovietica. Gorbaciov, perciò, il 25 dicembre rassegna le sue dimissioni, lasciando il posto a Eltsin che gli negherà persino l’immunità parlamentare. Dopo soli cinque giorni ufficializza la nascita della sua fondazione e diventa uno dei maggiori critici della “terapia d’urto” con cui Eltsin privatizzò l’intera economia russa. “Oggi come ieri - scrive nel libro ‘Il nuovo muro ‘ - ritengo che il principale errore strategico sia stato la scelta di abolire l’Unione Sovietica come Paese unico, accompagnata dalla distruzione di tutta una cultura, di uno spazio economico e militare, dalla rottura di rapporti umani”.

L’autorità giudiziaria russa dell’epoca cerca di incriminare Gorbaciov con un processo farsa sulla legittimità costituzionale del Pcus che, alla fine, si conclude con un nulla di fatto. Negli anni ’90 Gorbaciov si fa promotore della nascita del Partito socialdemocratico unito della Russia (ROSDP) che, poi, abbandona per dissidi interni. Nel ‘99 appoggia l’ascesa di Putin che, in una recente intervista, ha rimproverato per la lentezza nel processo di democratizzazione del Paese“perché è vero che molte delle libertà civili introdotte con la perestrojka resistono e che la stragrande maggioranza dei russi ha votato per Vladimir Putin. Ma – conclude - nessuno sa quale sarebbe la loro scelta se l'intero processo elettorale, dalla selezione dei candidati in poi, fosse davvero libero e democratico". Nel 2021 Gorbaciov viene ricoverato in ospedale per problemi ai reni e viene sottoposto a dialisi.

Con il miracolo Perestrojka salvò la Russia dall'orrore. Angelo Allegri il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Fu l'ultimo leader del Pcus, cercò di riformarlo e traghettò il Paese fuori dal comunismo. Ma Putin lo ha rinnegato 

A far rivalutare Mikhail Gorbaciov ci ha pensato Vladimir Putin. L'attuale inquilino del Cremlino è la dimostrazione di quanto possa essere pericoloso il gigante russo se guidato da chi si nutre di nostalgie imperiali e revansciste. Lui, Mikhail, è riuscito invece in una specie di miracolo: chiudere una parentesi di 70 anni di comunismo e di massacri, praticamente senza colpo ferire, senza morti e senza stragi.

L'impero sovietico crollò sotto il peso delle sue inefficienze e della sua mancanza di libertà, i Paesi satelliti dell'Europa orientale ritrovarono la strada della libertà, le repubbliche sovietiche, dall'Ucraina alla Georgia, iniziarono un percorso, doloroso ma inevitabile, di indipendenza. E negli stessi, pericolosi, frangenti le bombe rimasero negli arsenali nucleari, mai in nessun momento con Gorbaciov si corse davvero il rischio di un confronto atomico. Oggi più che mai il mondo è in grado di apprezzarlo e di valutare i suoi meriti.

Sono gli stessi meriti che la Russia non gli ha mai perdonato. La «più grande catastrofe geopolitica del XX secolo», come l'ha definita Vladimir Putin, la fine dell'Urss, ha lasciato nell'animo dei cittadini ex sovietici una ferita che ancora oggi si fa sentire. Travolto dal tentato colpo di Stato della vecchia guardia comunista, superato da un Boris Eltsin molto meglio di lui in grado di interpretare i tempi nuovi del nazionalismo e della Russia degli animal spirits trionfanti, Gorbaciov finì alla svelta ai margini della vita pubblica. I tentativi di tornare in gioco si rivelarono poco più che velleitari. Seguirono anni, più o meno tutti gli anni Novanta, di violenze e di anarchia, di business criminale e di violenze, di rapace sottrazione delle risorse pubbliche. Con il comunismo sembrò implodere il cuore stesso della Russia. Lui non c'entrava o c'entrava poco. Ma per i suoi concittadini non era così. Era stato lui a far finire il vecchio mondo, con le sue rassicuranti certezze, era lui il colpevole.

Quello che in Occidente era un merito, l'immagine amichevole e alla mano, perfino la moglie Raissa, dall'aspetto elegante e raffinato, diventò per in Russia, per l'uomo della strada un limite e una colpa, un tradimento del severo galateo tipico dell'unica nomenklatura che il Paese aveva conosciuto.

Eppure di quel Paese Gorbaciov era un figlio tipico: nato in una famiglia di contadini della regione di Stavropol, nel Sud, non lontano dalle prime montagne del Cucaso, cresciuto in una casa di paglia e fango, senza acqua corrente e una fede genuina, come quella dei suoi genitori, nel futuro del socialismo. Anche lui, come uno dei suoi successori, Putin viene battezzato di nascosto, dalla madre e dalla nonna. Ma la sua carriera nel partito è senza macchia: si iscrive subito al Komsomol, l'organizzazione giovanile, poi diventa uno dei più grandi esperti di problemi agricoli del Pcus. Tra le file della dirigenza degli anni della stagnazione brezneviana, la sua forza, la sua energia, la sua modernità, fanno la differenza. In una sfilata di mummie alla Chernenko o alla Andropov, diventa l'ultima speranza di salvare il sistema.

E invece ne diventa l'affossatore. Chiude l'avventura afghana, dichiara ufficialmente fnita la dottrina Breznev che tiene nel pugno sovietico tutta l'Europa orientale. Le sue parole d'ordine, glasnost, perestroika, trasparenza, riforme, diventano slogan popolari in ogni angolo del mondo. Le sue visite ufficiali si trasformano in bagni di folla. Alla fine degli anni Ottanta viene anche in Italia, a Milano: lui e la moglie sono accolti come delle specie di rockstar. Anche dopo il tramonto politico il suo attaccamento alla Russia non cambia. È tra gli azionisti della Novaya Gazeta, il giornale che fino all'ultimo tenta di salvare qualche spiraglio di democrazia. 

"Fu un gigante della Storia da apprendista stregone. Le riforme? Un'illusione". Il docente Aldo Ferrari e direttore del Programma Asia dell'Ispi ha le idee chiare sul lascito di Gorbaciov. "Ha avviato meccanismi che non ha controllato". Fausto Biloslavo l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Gorbaciov armato di buoni propositi, ma apprendista stregone di fronte alla missione impossibile di riformare il sistema comunista sovietico. E gli strascichi del crollo dell’Urss li paghiamo ancora oggi con la guerra in Ucraina. Aldo Ferrari ha le idee chiare sul lascito dell’ultimo leader sovietico. Docente all’università Ca’ Foscari di Venezia è anche direttore delle ricerche dell’ Istituto di studi di politica internazionale per la Russia, Caucaso e Asia centrale. Al Giornale spiega il ruolo di Gorbaciov, che bene o male, resterà nella storia. 

Mikhail Gorbaciov era un grand’uomo o un personaggio fra luci e ombre?

“Anche i grandi uomini hanno luci e ombre. Non era una personalità forte della storia russa come Pietro il Grande o Ivan IV, che noi chiamiamo il Terribile oppure Stalin e Lenin. Era un classico funzionario sovietico, ma il suo ruolo storico è stato immenso, positivamente o negativamente a seconda dei punti di vista. Non penso che esistono altri casi di un personaggio che in soli sei anni sia riuscito ad imprimere alla storia del proprio paese ed universale dei cambiamenti epocali come quelli provocati da Gorbaciov”. 

C’è qualcosa che non sappiamo o che si conosce poco dell’ascesa e caduta di Gorbaciov?

“Non ci sono lati oscuri o segreti da rivelare. Gorbaciov non era un outsider e aveva percorso la sua carriera disciplinatamente, seppure brillantemente, all’interno del Partito comunista dell’Unione sovietica. In Occidente forse ce lo dimentichiamo ma non voleva distruggere l’Urss e il sistema comunista, bensì riformarlo rendendolo più efficiente ed umano”. 

Ha sicuramente fallito…

“Le sue azioni hanno avuto un peso importantissimo. Le riforme bene intenzionate e corrette sono fallite cozzando contro la realtà sclerotizzata del sistema sovietico. Però mi sembra ingiusto addebitare il fallimento al tentativo stesso intrapreso da Gorbaciov. Le riforme erano valide e necessarie dall’economia alla glasnost da tradurre più che con il termine “trasparenza” come libertà di parola e di coscienza. Purtroppo, però, hanno distrutto un paese o meglio ucciso il malato anziché curarlo”. 

E’ stato il migliore “alleato” dell’Occidente?

“Per come è andata a finire, sì, ma sicuramente non era questa la sua volontà. Nei fatti, però, è implosa una grande potenza crollata dall’interno senza una guerra o un’invasione. La responsabilità o il merito è da attribuire a Gorbaciov”. 

Voleva veramente la caduta del muro di Berlino?

“E’ un po’ giornalistico e riduttivo, ma l’immagine dell’apprendista stregone è abbastanza calzante per Gorbaciov. Ha messo in moto dei meccanismi che non è stato in grado di controllare”. 

Ha chiuso la guerra fredda…

“Voleva porre fine alla guerra fredda, ma su un piano di parità fra Urss e Stati Uniti. Di fronte alle difficoltà della perestroika gli Usa e l’Occidente hanno ritenuto di avere vinto la partita e trattato prima l’Urss e poi la Russia come dei nemici sconfitti ai quali non era necessario dare retta. Un atteggiamento che purtroppo è ancora attuale e alla base dei disastri successivi in cui siamo impelagati oggi”. 

Il fallito golpe, il crollo dell’Urss del 1991. Cosa ha sbagliato?

“Ha sbagliato molte cose, ma credo che avesse intrapreso un’operazione politica umanamente impossibile. L’Urss era un’unione di 15 repubbliche con storie e tradizioni spesso confliggente con il potere centrale moscovita. Gorbaciov non era uno scolaretto impreparato, ma l’errore è stato fatto in partenza: volere riformare un sistema irriformabile”. 

E’ vero che molti russi lo considerano un traditore?

“E’ molto difficile trovare in Russia qualcuno che abbia stima e simpatia per Gorbaciov se non che una ristretta élite di intellettuali orientati verso l’Occidente. La stragrande maggioranza della popolazione lo considera un incapace, un traditore o tutte e due le cose insieme. Percepisce quest’uomo come il responsabile principale del crollo dell’Urss che non a caso l’attuale presidente russo Putin ha definito “la più grande tragedia geopolitica del XX secolo”. 

Putin ai tempi di Gorbaciov era un ufficiale del Kgb in Germania Est. Oggi il Cremlino parla di personaggio storico, ma cosa pensa veramente di lui il nuovo Zar?

“Credo che pensi tutto il male possibile. Agli occhi di Putin Gorbaciov porta una responsabilità primaria nel dissolvimento sovietico. Il comunicato di cordoglio neutro e freddo, anche nella scelta della parole, dimostra che secondo Putin le scelte di Gorbaciov sono state completamente sbagliate perchè hanno smantellato la grande potenza sovietica precipitando tutto lo spazio dell’ex Urss in un caos dal quale fatica a riprendersi”. 

Putin è una reazione al crollo dell’Urss?

“Si può considerare una reazione non solo a Gorbaciov, ma pure a Eltsin (al potere subito dopo nda). Putin ha voluto portare avanti una politica che sanasse i disastri precedenti. Nella sua ottica statalista sono entrambi responsabili del decadimento della potenza russa”. 

Guerra in Jugoslavia, alle porte di casa, bombe sui serbi, interventi in Iraq e Libia. Si stava meglio quando si stava peggio?

“Il mondo bipolare era più stabile, ma con duri regimi repressivi in Europa orientale e la penetrazione comunista sovietica in mezzo mondo dall’Afghanistan all’Angola. Gli Usa reagivano finanziando regimi dittatoriali ovunque per contrastare l’avanzata dell’Urss. Non è un mondo da rimpiangere”. 

Gorbaciov ha criticato l’invasione dell’Ucraina, ma non è alla lunga figlia del crollo dell’Urss?

“Indirettamente, ma sicuramente. Il conflitto in Ucraina è iniziato nel 2014, molto dopo la fine dell’Urss, però non era inevitabile. E’ stato gestito male soprattutto per il rafforzamento delle posizioni nazionaliste in Ucraina, il neo imperialismo a Mosca e anche per lo sconsiderato interventismo occidentale. Si é arrivati alla guerra a causa di scelte scellerate, che si potevano evitare”.

Il saluto a Gorbaciov e il gelo del Cremlino. "Solo un romantico". E la Russia lo liquida. "Ha distrutto l'Urss". Alla fine i funerali di Stato, almeno secondo la Tass, ci saranno. La cerimonia è prevista per sabato, prima della sepoltura al cimitero di Novodevichy, accanto all'amata moglie Raissa. Angelo Allegri l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Alla fine i funerali di Stato, almeno secondo la Tass, ci saranno. La cerimonia è prevista per sabato, prima della sepoltura al cimitero di Novodevichy, accanto all'amata moglie Raissa. Una smentita alle voci trapelate ieri in mattinata e raccolte da un'agenzia di stampa, che escludevano onori pubblici. Ma il fatto stesso che l'omaggio fosse in dubbio testimonia il distacco con cui la Russia, ufficiale e no, si appresta al congedo da Mikhail Gorbaciov.

Le condoglianze di Vladimir Putin alla famiglia (incerta la sua presenza) sono un capolavoro di distacco e di equilibrismo. Era «un politico e uno statista che ha avuto un impatto enorme sulla storia mondiale. Ha guidato il nostro Paese in un periodo di cambiamenti complessi e drammatici e si era impegnato a proporre soluzioni a problemi urgenti». Nessun coinvolgimento, nessuna valutazione. La chiave di lettura del tono gelido sta nelle parole del portavoce del Cremlino Dmitry Peskov che, più libero dai vincoli del protocollo, la dice tutta: «Il romanticismo di Gorbaciov verso l'Occidente non aveva giustificazioni» e il suo progetto di creare rapporti cordiali «non ha funzionato». Una condanna definitiva, pur se espressa in termini più garbati di quanto abbiano fatto, a qualche migliaio di chilometri di distanza, i commentatori cinesi sul comunista Giornale del Popolo: è stato una «figura tragica», che visto in prospettiva storica si è dimostrato «ingenuo e immaturo». «La sua venerazione cieca del sistema occidentale ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica e il popolo russo ne ha tratto instabilità politica e pesanti conseguenze economiche».

Tornando a Mosca, è la stessa prospettiva di giudizio utilizzata dalle forze nazionalistiche e «imperiali» raccolte attorno a Tsargrad, la tv dell'oligarca Kostantin Malofeev. Qui il giudizio è durissimo: «Gorbaciov è stato uno dei più grandi successi della Cia americana», recitava ieri il sito dell'emittente. «Non hanno nemmeno avuto bisogno di reclutarlo: ha fatto tutto da solo». Più severi di così non si può. Eppure Gorbaciov non era un pericoloso estremista. Nel 2014 si era dichiarato a favore dell'annessione della Crimea e contro le sanzioni occidentali. «Difenderò in modo fermo le posizioni della Russia e quindi di Vladimir Putin. Sono convinto che difenda gli interessi russi meglio di qualunque altro». Con il tempo il giudizio sugli atteggiamenti autocratici del leader del Cremlino si era fatto più severo, ma sempre con misura. «Ha salvato il Paese, ma ora mi sembra malato di presunzione» aveva detto qualche tempo fa. «Tutti mi dicono che non ha più importanza, perché lui è già Dio o, come minimo, il vice di Dio in terra». Allo scoppio delle ostilità in Ucraina, per la prima volta non aveva commentato gli eventi. Dmitri Muratov, direttore della Novaya Gazeta, giornale che Gorby ha finanziato fino all'ultimo, era andato a trovarlo: «Non sta bene, ma mi ha confermato che bisogna fare tutto il possibile per evitare una guerra nucleare», aveva riferito.

Al di là di questa o quella specifica posizione era tutta la sua storia ad essere lontana dall'attuale élite di potere moscovita. A spiegarlo bene è stato ieri Pietr Akopov, uno degli editorialisti di Ria Novosti, considerato tra i più vicini al Cremlino (suo l'editoriale pubblicato per errore alla fine del mese di febbraio, scritto in anticipo per celebrare la facile vittoria russa e la conquista di Kiev).

Le sue parole sembrano un manifesto del potere moscovita. «La Russia e l'Occidente salutano diversi Gorbaciov: nella nostra storia rimarrà il distruttore dell'Urss e, per l'Occidente, l'uomo che ha posto fine alla Guerra Fredda e ha aperto la strada all'unificazione della Germania e dell'Europa», scrive Akopov. «La lezione principale del suo periodo di governo consiste nel fatto che la Russia non solo non può far parte dell'Occidente e nemmeno essere sua alleata, ma deve in ogni modo rafforzare la sua indipendenza e autosufficienza».

Un amico del leader scomparso, Alexey Venediktov, direttore di una radio indipendente, Echo Moskvy, ha detto che «tutte le riforme di Gorbaciov sono ora ridotte in cenere e in fumo». Per Putin anche la guerra in Ucraina è stato un mezzo per azzerare l'eredità del predecessore. Ora non restano che i funerali. C'è chi ha ipotizzato la partecipazione di leader occidentali come Angela Merkel (un suo portavoce ha già smentito). In questo momento sarebbe un evento straordinario, l'ultimo servizio di Mikhail Sergeevic Gorbaciov alla politica mondiale. 

L'omaggio minore e il messaggio dello Zar. Angelo Allegri su il Giornale il 2 settembre 2022.

Un anonimo salone, grigio e spoglio, quello dell'ospedale centrale di Mosca, la camminata particolare e un po' impacciata di Vladimir Putin (per gli americani è il gunslinger gait, il passo del pistolero, e sul perchè Putin cammini così sono stati scritti libri), un mazzo di fiori e pochi istanti di raccoglimento. Tutto qui. Le immagini diffuse dai canali ufficiali sull'omaggio del leader del Cremlino a Mikhail Gorbaciov sono un simbolo potente. Specie se si confrontano con altri decessi illustri.

Nell'aprile scorso, alla morte dell'ultranazionalista Vladimir Zirinovskij, l'uomo che aveva proposto di buttare un'atomica su Kiev, Putin decise di dare un'immagine diversa. Rese omaggio al defunto quando la bara era nel Salone delle colonne della Casa dei sindacati, il luogo sacro dei funerali di Stato, da Stalin in poi: un trionfo di architettura classica decorato di velluti e pieno di debordanti corone di fiori. Ancora più stridente il contrasto con i funerali del successore di Gorbaciov, Boris Eltsin nel 2007: Putin era in prima fila nella Cattedrale di Cristo Salvatore, la cerimonia venne trasmessa in diretta dai principali canali televisivi, nel Paese fu proclamato un giorno di lutto nazionale.

Per il potere russo i funerali hanno sempre contato parecchio. Come dimostra la stessa carriera di Gorbaciov. I Cremlinologi dell'epoca capirono che era destinato a diventare il numero uno quando fu nominato presidente della Commissione incaricata di organizzare le esequie del suo predecessore, Kostantin Chernenko.

A Gorby è stata risparmiata la sorte riservata a Nikita Krushev, ultimo leader morto in disgrazia nel 1971: la bara trasportata al cimitero nel cassone di un camion e a seguirla un vecchio autobus riservato ai parenti.

Al premio Nobel della Pace è stata concessa la celebrazione nella casa dei Sindacati e il picchetto d'onore. Il meno possibile. Perchè i rapporti tra la Russia del potere e quella di Gorbaciov sono all'insegna della rimozione e dell'inconciliabilità.

Nell'ultimo libro in uscita (e di cui ieri il Giornale ha pubblicato un estratto), Gorbaciov parla di «Europa come casa comune», pur sottolineandone gli errori e le ambiguità. Per Putin e i suoi, i valori di quell'Europa non sono più politicamente presentabili. Il futuro della Russia, per la sua attuale dirigenza, è in una triade lontana: autocrazia, nazionalismo e ortodossia. Nulla a che fare con quell'ingenuo di Gorbaciov e con la sua deplorevole infatuazione per l'Occidente. Centinaia di migliaia di russi che la pensavano come lui sono scappati negli ultimi mesi oltre frontiera. Quanto alla Russia ufficiale l'opinione più sincera l'ha espressa Igor Korotchenko, analista di cose militari, presenza fissa nei più importanti talk show russi. «Gorbaciov? - ha detto- se ne vada pure all'inferno».

Quando il Pci si genufletteva per il picconatore del Soviet. Tutti pazzi per Gorby in Italia e non soltanto in Italia quando si apprese di questo evento assolutamente nuovo: la grande patria del comunismo aveva prodotto per la prima volta un essere umano come leader. Paolo Guzzanti l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Tutti pazzi per Gorby in Italia e non soltanto in Italia quando si apprese di questo evento assolutamente nuovo: la grande patria del comunismo aveva prodotto per la prima volta un essere umano come leader. Mikhail Gorbaciov fu un grande successo mediatico, e anche un uomo molto sfortunato che ha concluso la sua lunga vita nell'oblio quasi generale. Detestato nel Paese in cui è nato e che ha governato, ha ricevuto manifestazioni di amore sfegatato in Europa e specialmente in tutti i paesi come l'Italia in cui esisteva un forte o fortissimo partito comunista. In Italia il primo a correre trafelato a Mosca per porgere non soltanto i suoi omaggi ma anche utili consigli fu Alessandro Natta, il dimenticato segretario del partito comunista succeduto a Enrico Berlinguer. Natta era convinto di poter convincere Gorbaciov di ciò di cui Gorbaciov era già convinto in partenza e cioè che l'occasione dell'Unione europea che stava per farsi fosse quella giusta per mettere insieme il mondo sovietico con L'Europa antiamericana e tutti insieme dare una nuova società che per nostra fortuna c'è stata poi evitata. Chi veramente pianse di commozione fino alle lacrime fu Giulio Andreotti, il quale benché non comunista era tuttavia filosovietico fino al cuore oltre che al cervello e posso dirlo con cognizione di causa avendolo avuto tra i membri della commissione Mitrokin che indagava sulle imprese sovietiche. Andreotti dichiarò durante il primo G7 cui Gorbaciov fu invitato di aver avuto davvero la più grande delle fortune: quella di vedere un leader sovietico unirsi all'Europa. Tutto il partito comunista era in festa e così anche i giornali sia vicini al partito comunista che quelli di grosso taglio che trovavano egualmente delizioso per quanto indecifrabile il modo di parlare di quest'uomo che rese popolari benché intraducibili parole come glasnost e perestroika.

Era felicissimo Walter Veltroni che trovava finalmente un sovietico che assomigliava un po' a un americano pur restando del tutto sovietico. Mikhail Gorbaciov infatti diventò segretario generale del partito comunista sovietico e quindi capo dell'URSS perché era stato selezionato con grande accuratezza dal più intelligente e lungimirante capo del KGB: Yuri Andropov che aveva capito bene come le cose sarebbero finite; e cioè la guerra fredda si sarebbe conclusa con una sconfitta totale del mondo sovietico e una vittoria dell'occidente cosa che non era possibile evitare ma quantomeno si sarebbe potuta correggere grazie ad alcuni ammortizzatori. Gli ammortizzatori erano la liberazione degli Stati satelliti dell'Unione sovietica che costavano troppo e rendevano pochissimo ottenendo in cambio un posto a tavola nella imminente Unione europea. Questo era il piano, ma lo conoscevano in pochi. Ne erano pazzi tutti i capi socialisti d'Europa e primo fra tutti il presidente francese Francois Mitterrand. La parola d'ordine diffusa da Gorbaciov fu: liberare l'Europa da americani e inglesi mettendo insieme il continente che va dall'atlantico agli Urali. Questa era stata la formula scelta dal generale Charles De Gaulle e tutti erano convinti che potesse funzionare. Arrivò a trattare in maniera molto greve il presidente americano Ronald Reagan chiedendogli se il suo Dio fosse veramente il denaro. Ciò accadeva perché la funzione mediatica di Mikhail Gorbaciov funzionava perfettamente. Diffondeva l'impressione del socialismo dal volto umano che era stata devastata da continui atti di brutalità dei suoi predecessori e permetteva a tutti comunisti italiani ma anche a molti socialisti e democristiani di fare una sorta di outing e dichiarare le proprie simpatie internazionali. La Democrazia Cristiana era pazza di Gorbaciov, molto meno allora era il partito socialista di Bettino Craxi che naturalmente guardava al leader sovietico con la massima attenzione e il massimo rispetto ma senza lasciarsi incantare dalla chiassosa messinscena che accompagnava ogni suo atto e ogni suo discorso.

L'Italia ai tempi di Gorbaciov era letteralmente genuflessa di fronte a un uomo di grandi qualità ma che stava servendo una causa per nulla a favore dell'Europa occidentale ma che doveva servire a far uscire la Russia dal penoso isolamento in cui si era chiusa per molti decenni. Non saprei trovare nessuno della dirigenza comunista, da D'Alema a Veltroni, da Occhetto ai tanti dirigenti che nel frattempo sono scomparsi, che non vedesse in quest'uomo tutto sommato modesto ma ben addestrato, un messaggero della pace, un inviato di Dio o almeno dalla commissione del premio Nobel che gli venne subito inflitto. Per avere un'idea del culto della personalità che fu scatenato dalla presenza di Gorbaciov in Italia non c'è che ricorrere a internet. Ma le foto mostrano quanto il vuoto delle idee dello schieramento comunista avessero fame di pura, anche se ben servita, propaganda. Ora Gorbaciov se n'è andato ma nel suo Paese nessuno ricorda più neanche chi fosse. In Russia lo odiano perché il risultato finale fu la catastrofe del proprio Paese.

Dall'Atlantico agli Urali. Gorbaciov, l’uomo che cambiò il mondo e pagò il ‘tradimento’ di volere una sola Europa. Paolo Guzzanti su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Fu l’incanto dell’Occidente mentre l’Oriente lo ha sempre ignorato e spesso disprezzato. Da ieri tutta la stampa e i media dell’Europa occidentale e dell’America di lingua inglese celebrano la morte dell’ultimo Segretario Generale del Partito Comunista dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, Michail Gorbaciov, perché con lui muore un sogno occidentale. Ero a Mosca pochi giorni prima che un piccolo golpe ordito dal Kgb lo mettesse fuori circolazione per qualche giorno per poi restituirlo al mondo denudato dei magici poteri con cui era venuto al mondo, specialmente le sibilline armi della “perestroika” e della “glasnost”, grossomodo riforma e trasparenza, su cui in Occidente furono versati inchiostri abbondanti.

Per i giornalisti che andavano all’esame per diventare professionisti era particolarmente raccomandato, in Italia, non in Unione Sovietica, essere ferratissimi in materia. Oggi, con quel che sta accadendo in Russia e fuori dei suoi confini, non resta che celebrare la memoria di quel sogno, ricordandone le cause. Chi è giovane non ricorderà il longevo Leonid Breznev dalle enormi sopracciglia, ricco, corrotto e prigioniero di una classe dirigente che dissipava tutte le risorse in armamenti inutili. Morto Breznev fu il turno di un vero stratega: Yuri Andropov di cui si può dire, come per certi imperatori romani, che fu spietato ma intelligente. Andropov si rese conto che l’Urss stava andando in bancarotta e che sia le forze armate che la catena degli Stati “satelliti” costavano un occhio e producevano solo guai e dissidenti. L’Europa occidentale stava diventando un progetto sempre più concreto e specialmente i francesi spingevano molto per il vecchio sogno del generale De Gaulle: fare un’Europa “dall’Atlantico agli Urali” (Russia inclusa) imponendo ad americani e inglesi di lasciare il continente europeo. La Russia aveva sempre avuto bisogno della tecnologia europea e l’Europa del petrolio e del gas russo.

Il dissidente e scrittore russo Vladimir Bukowski pubblicò un libro, intitolato “Eurss”, che sintetizzava sarcasticamente il progetto. Andropov selezionò fra i candidati anche l’emergente Michail Gorbaciov perché aveva tutte le qualità che piacciono agli occidentali, persino una moglie elegante come Raissa che infatti furoreggiò in Occidente. A causa del tumore che lo stava uccidendo, Andropov tentò di convincere il Comitato Centrale ad eleggere Gorbaciov come successore, ma quel club di vecchie cariatidi preferì uno dei loro, Cernenko. Eppure, aveva spiegato Andropov allo stesso Comitato Centrale, l’obiettivo era non solo semplice e da raggiungere con urgenza, ma anche che richiedeva qualità personali: concedere all’Occidente tutti gli Stati della cosiddetta “cortina di ferro” incapaci di mantenersi, a cominciare dalla Repubblica Democratica, e ottenere in cambio una procedura di ingresso nell’Europa occidentale. E poi trovare un accordo con gli americani sulla insostenibile corsa agli armamenti in cui la tecnologia recitava un ruolo da protagonista.

Finalmente nel 1985 Cernienko muore e Gorbaciov ottiene il posto che gli spetta e per cui era stato addestrato con molta cura. Comportandosi come un leader occidentale Gorby parla volentieri in pubblico e a braccio, cosa inappropriata in terra sovietica. Ma fa di più: impone parole nuove come glasnost – la trasparenza – attraverso la quale far accettare l’idea di una gigantesca riforma come la Perestroika poco compresa in Occidente e che era stata elaborata dallo stesso Andropov. La sovietologa francese Hélène Blanc concorda con un altro grande analista Nicolas Jallot: «Fabbricando la Perestroika, il Kgb comprende che la sola soluzione per far ripartire l’Unione Sovietica è abbandonare l’Europa Centrale puntando sull’Europa Occidentale».

Cominciano gli anni d’oro del grande flirt fra l’Occidente e Gorbaciov che entusiasma in particolare gli eurocomunisti italiani, spagnoli, portoghesi e francesi. Ma in Italia anche la Democrazia Cristiana è felice dell’incoraggiante piega che sembra prendere lo scenario internazionale perché si può sperare di vedere la fine della guerra fredda e dunque la possibilità di ringraziare gli americani per i servizi resi con preghiera di tornarsene a casa. La controstoria, che emergerà con qualche anno di ritardo, saranno i grandi movimenti delle mafie russe protette dal Kgb solleticate dalle possibili alleanze con le mafie europee, giocando un ruolo fondamentale nella fuga dei capitali di Stato organizzata dai servizi segreti per rimettere la Russia in una posizione favorevole.

Nel gennaio 1986 Alessandro Natta, segretario del Pci, volle incontrare Gorbaciov per parlare della creazione del Mercato Unico Europeo previsto per il 1992. Gorbaciov era perfettamente d’accordo e ripeté ufficialmente che ciò “che avviene oggi in Europa occidentale determinerà il corso degli eventi per molti e forse per secoli”. Gorbaciov spiegava che la nuova linea internazionale non consisteva nel dividere l’Europa occidentale dagli Usa, ma nel far uscire gli Usa dall’Europa, in perfetta coincidenza col progetto gollista poi rilanciato dal Presidente Francois Mitterrand. Fra i consiglieri di Gorbaciov viene arruolato il generale Jaruzelski, ex presidente – golpista per necessità – della Polonia dal febbraio del 1981 che propone una serie di incontri con ex politici europei come Willy Brandt. L’incontro fra Gorbaciov e la sinistra socialdemocratica europea diventa un trend: nel maggio del 1988, Vogel, leader dei socialdemocratici tedeschi va da Gorbaciov dichiarandosi favorevole a una vasta “perestroika” internazionale.

Anche i laburisti inglesi cominciano a guardare a Mosca con nuovo interesse e il 23 agosto 1988 Vladimir Zagladin, il miglior esperto di politica estera, corse da Gorbaciov per dirgli di aver avuto un colloquio con il parlamentare laburista Ken Livingstone secondo cui “il nocciolo duro” del partito ritiene che esistano ampie opportunità per incrementare i rapporti tra Europa occidentale e Urss”. Un colpo vincente dopo l’altro. Un anno dopo Kenneth Coats, presidente del sottocomitato per i diritti dell’uomo del Parlamento Europeo fece la tanto attesa proposta: preparare entro due anni una sessione congiunta dell’Europarlamento e del Soviet supremo dell’Urss. Finalmente il 26 novembre del 1988 si incontrarono a Mosca Gorbaciov e Mitterrand, che mise in chiaro il grande sogno: “L’Europa, unita nella Cee, è solo il primo passo verso la totalità dell’Europa”.

Certo, osservò Mitterrand, che nel campo dei diritti individuali l’Europa occidentale segue una prassi “più perfetta di quella vigente in Urss”, ma per i diritti collettivi “l’Occidente nel suo complesso dovrà lavorarci molto”. A Mitterrand era poi succeduto Chirac, che diceva di non amare affatto l’idea della “casa comune europea”, ma decide di appoggiare il progetto. Fu poi la volta del ministro degli Esteri spagnolo Ordonez, il quale disse a Mosca che “il successo della perestroika significa il successo della rivoluzione socialista nelle condizioni odierne”. L’anno successivo, il 1989 della caduta del muro di Berlino, l’ex Cancelliere tedesco Willy Brandt chiese al leader sovietico “che tipo di aiuto per la perestroika si aspetta dal cosiddetto Occidente e da noi socialdemocratici”. Brandt era stato travolto dallo scandalo del suo segretario Guillaume, il quale era stato arrestato per essere sempre stato un agente sovietico. E per far meglio capire da che parte stava disse che avrebbe scoraggiato qualsiasi tentativo delle Repubbliche baltiche di uscire dalla federazione con l’Urss.

Tutti questi movimenti si trasformavano in spostamenti reali: la gente dell’Est sovietico faceva capolino in Europa occidentale alla guida delle misere Trabant e venivano fotografati come marziani. Il mondo occidentale si stava preoccupando: che intenzioni ha Gorbaciov? Vuole aprire le frontiere a milioni di fuggiaschi che si riverseranno in Europa? A novembre del 1989 il ministro degli Esteri francese Dumas si precipitò a Mosca molto preoccupato. Ma Gorbaciov era allegro: “Noi stiamo cambiando, gli disse. Ma sta cambiando l’Occidente? Noi rappresentiamo due tendenze del movimento socialista”. E Dumas rispose: “Se lei scorge una certa sorpresa nei miei occhi, è solo perché stavo per dire la stessa cosa”.

La questione del muro di Berlino rientrava nell’ambito dell’altro tavolo, quello con gli Stati Uniti, dove il Presidente Donald Reagan poneva la precondizione, per trattare, che “Mister Gorbaciov butti giù quel muro”. E Gorbaciov volle darne l’annuncio personalmente al Bundestag di Bonn, dove disse di ritenere quel muro un errore da correggere. Pensava di poter realizzare i programmi con ordine, ma la folla dei berlinesi lo accolse il giorno dopo con i picconi in mano, gridando “Gorby! Gorby!” e il muro venne giù a furor di popolo. A chi in patria era furioso per quel gesto che si sarebbe tradotto prima o poi nella riunificazione della Germania, Gorbaciov rispose che la riunificazione avrebbe dissanguato la Repubblica federale e che avrebbe dovuto dare garanzie reali di disarmo e di pacifismo, come poi avvenne realmente dopo gli incontri del Cancelliere Kohl con gli altri leader europei: lasciateci fare la riunificazione e noi in cambio vi permetteremo di usare in tutta Europa il Deutsche Mark, magari chiamandolo euro.

Furono anni febbrili i primi Novanta perché Mitterrand era totalmente favorevole a qualche forma di associazione dell’Urss con l’Ue e il fronte gorbacioviano si allargava fino alla Spagna di Felipe Gonzales, il quale il 26 ottobre del 1990 ricevette Gorbaciov a Madrid e disse pubblicamente di provare “disgusto intellettuale” di fronte agli atti del G7 in cui si equiparano i problemi della democrazia e dell’ideologia dell’economia di mercato. Mitterrand andò a Praga per parlare con Havel di una possibile Assemblea per “una confederazione europea”. Tuttavia, il presidente Havel, un grande scrittore che aveva trascorso alcuni anni in galera, mandò a monte il progetto, almeno per la parte cecoslovacca. Finalmente si arrivò al Summit del G7 a Londra dove il Segretario generale del Pcus fu invitato come ospite e protagonista. Giulio Andreotti disse: «Sono felice di aver vissuto abbastanza per arrivare al giorno in cui siamo noi a dire all’Urss di mantenere le sue posizioni».

Ma tutto questo fermento europeista di Gorbaciov, che nel frattempo aveva ottenuto una pace di fatto con gli Stati Uniti pagando come prezzo un declassamento di fatto dell’Urss da superpotenza a potenza regionale, aveva fatto imbestialire i quadri del Kgb, all’interno del quale però Gorbaciov aveva costruito un suo proprio Kgb molto attivo sul piano internazionale. Si arrivò così al teatrale colpo di Stato contro Gorbaciov che doveva avere soltanto l’effetto che poi realmente ebbe: frantumare il prestigio di Gorbaciov e portare a un repulisti all’interno dello stesso Kgb con l’arresto del suo capo Vladimir Kryuchkov. Spaccata in due, la grande casa madre del Kgb si affossò e con decreto dello stesso Gorbaciov il Kgb venne frantumato in nuovi Direttorati da cui nascono l’Svr, l’Fsb, il servizio interno, e il Fapsi.

Il Paese era arrivato al collasso: Gorbaciov non aveva avuto mezzi e capacità sufficiente per tenere sotto controllo i suoi nemici che ormai erano tutti. Alla fine del 1991 Gorbaciov cede e lascia il potere a Boris Eltsin che, non aveva esitato a prendere a cannonate il Parlamento di Mosca dove si erano asserragliati i rivoltosi che avevano tentato il golpe. Da allora, Michail Gorbaciov diventò un fantasma sulla scena internazionale dove appariva saltuariamente ai convegni cui era invitato. In patria gli rimproveravano una nuova forma di totalitarismo consistente nel distruggere la tradizione russa per assumere dall’Occidente, sia pure europeo e sia pure socialista, atteggiamenti incompatibili con la Russia e la sua anima profonda, che è quella di gente come Dugin, il grande ispiratore di Vladimir Putin,

A Gorbaciov non piaceva Putin che era stato imposto a Eltsin dal circolo ristretto del Kgb, impegnato e riprendere il potere dopo l’ondata delle violenze e delle sopraffazioni degli oligarchi che avevano fatto riciclare all’estero gran parte del tesoro sovietico e dello stesso partito comunista. Gorbaciov aveva sempre con sé una vistosa ed elegante borsa firmata di Luis Vuitton e compariva sempre meno perché era noto che fosse malato e del resto ampiamente dimenticato in Occidente, mentre nella sua Russia era ed è considerato una disgrazia per aver causato lo spappolamento dell’impero, un danno cui il presidente Vladimir Putin è intenzionato a porre rimedio.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

"L'Europa sia casa comune. Se c'è unità siamo in tempo per riparare tutte le crepe". Nel suo ultimo libro-testamento, lo statista Gorbaciov chiama i leader a muoversi in fretta e non risparmia accuse: "La Russia non può essere solo spettatrice". Mikhail Gorbaciov l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Pubblichiamo un ampio estratto dell'ultimo libro di Mikhail Gorbaciov «La posta in gioco. Manifesto per la pace e la libertà» (Baldini+Castoldi, 176 pagine). Una sorta di testamento politico, specie nel capitolo pubblicato in cui elogia l'importanza dell'Europa ed esorta a migliori rapporti tra gli Stati, compresa la Russia.

Che ruolo svolgerà l'Europa? Cosa succederà al nostro continente a cui l'umanità deve così tanto? Ma prima ancora, occorre rispondere a questa domanda: di quale Europa stiamo parlando? Alle conferenze internazionali e nei media, l'Europa equivale spesso all'Unione Europea. Ogni volta che mi trovavo di fronte a questa idea, non potevo fare a meno di chiedere: «Non state forse facendo confusione? Le nazioni che non ne fanno parte, in particolare la Russia, non sono comunque Europa?». Negli ultimi anni, questa ambiguità è apparsa particolarmente evidente (forse perché l'Unione Europea stessa sta affrontando grossi problemi), ma non è scomparsa. Vero è che la Comunità Europea, che in seguito è diventata l'Unione Europea, è stata eccezionalmente importante nel continente e nel mondo intero, e lo è tuttora. 

(...) L'idea di una casa comune, di un'Europa unita senza linee di confine è una delle idee più produttive nella nostra storia comune, e ha svolto un ruolo incontrovertibile nel superamento della guerra fredda. Sviluppare questa idea, aiutarla a evolversi e metterla in pratica avrebbe dovuto diventare il tema unificante della politica europea. Sono convinto che avrebbe aiutato a prevenire molti conflitti, come quelli nei Balcani, all'interno dell'Unione Europea e nelle relazioni tra la Russia e i suoi vicini. Sfortunatamente, la storia ha preso un'altra piega. Oggi l'Europa è diventata un focolaio di crisi per la politica mondiale. Come è potuto accadere? Sono sempre più convinto che uno dei motivi sia da ricercare nel corso stabilito dai principali Stati membri nei primi anni Novanta. All'epoca l'Unione intraprese un percorso di espansione accelerata in risposta al desiderio di alcuni Paesi di entrare in Europa: il nostro continente, la nostra casa a farne parte, ma allo stesso tempo trascurò il fatto che le sue posizioni globali dipendevano dalla forza della sua struttura interna. È emerso che membri vecchi e nuovi non rispettavano gli standard comuni in termini di economia, sicurezza sociale e lotta alla corruzione. A mano a mano che l'Unione si espandeva, i suoi problemi interni peggioravano anziché diminuire, con grande dispiacere di molti cittadini che non vedevano alcun beneficio concreto da parte di questo enorme apparato burocratico, lento nel rispondere ai loro problemi e bisogni. Diverse crisi, in particolare quella in Grecia, hanno reso questo atteggiamento dolorosamente evidente. E a partire dal referendum per la Brexit, la questione principale è questa: quanto è forte l'Unione Europea oggi? 

Il rapido processo di espansione ha anche notevolmente teso le relazioni tra l'Unione Europea e la Russia. Durante gli anni della perestrojka iniziammo a costruire, nel 1988, una nuova relazione attraverso un accordo commerciale e di cooperazione. L'accordo di partenariato e cooperazione tra l'Unione Europea e la Russia venne firmato nel 1994. Nel 2001 si svolse il summit in occasione del quale Romano Prodi, allora presidente della commissione europea, presentò l'idea di istituire uno spazio economico comune, seguita da un accordo, firmato nel 2005, tra la Russia e l'Unione Europea che aveva l'obiettivo di creare partenariati strategici in quattro spazi: uno economico, uno di libertà, sicurezza e giustizia, uno in materia di sicurezza estera e uno di ricerca, istruzione e cultura. Sembrava che si fossero aperte grandi prospettive, decisamente in linea con l'idea di una casa comune europea. Ma queste nuove opportunità dipendevano da un dialogo tra pari e dalla considerazione per gli interessi russi, in particolare per quel che riguardava la creazione delle relazioni con i nostri vicini, ai quali ci legava una complessa storia comune e plurisecolare. In merito a questo aspetto i leader dell'Unione non hanno mostrato sufficiente saggezza politica, e non sono stati nemmeno in grado di essere lungimiranti. Ciò è stato evidente soprattutto nel modo in cui l'Unione Europea ha negoziato un accordo di associazione con l'Ucraina. Non era forse lampante che un tale accordo toccasse direttamente gli interessi della Russia? Commercio, relazioni economiche, cooperazione industriale... tutto questo è saldamente legato a problemi politici, economici e legali, e avrebbero dovuto discuterne al tavolo delle trattative, permettendo alla Russia di parteciparvi da pari. Sono certo che il contributo della Russia sarebbe stato costruttivo, perché in fondo è davvero interessata a un partenariato sia con l'Unione Europea che con l'Ucraina. Ma al posto di negoziati, la Russia è stata semplicemente messa davanti a un fatto compiuto. Il risultato è noto a tutti. 

Molti sembrano pensare che il nostro continente abbia vissuto una spaccatura irreversibile. In tal caso, il danno all'Europa sarà enorme; nell'inevitabile competizione tra le regioni del mondo globale, che è già iniziata, la sua posizione risulterà indebolita. Sarebbe davvero il «declino dell'Europa» di cui molti parlano. E noi dobbiamo impedire che ciò accada. Non vi è altra scelta che tornare all'idea di una casa comune per tutti gli europei. In realtà viviamo già in una casa Europa: il nostro continente, la nostra casa simile, ma i cui abitanti ultimamente non vanno d'accordo. Questa situazione deve cambiare. Dobbiamo lavorare insieme per riparare le crepe che si sono formate in questi ultimi decenni e che di recente si sono fatte più profonde. La situazione è così complessa da richiedere uno sforzo praticamente titanico. E dobbiamo metterci al lavoro il prima possibile. In tutta onestà, avremmo dovuto incominciare ieri. Peccato che i leader politici responsabili non avessero la saggezza e la forza necessarie per farlo.

L'illusione della "glasnost". Il comunismo? Non è morto. L'Urss è stata archiviata troppo in fretta. I principi illiberali circolano ancora nell'economia. E il sindacato li alimenta. Pier Luigi del Viscovo l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

La glasnost, operazione trasparenza, fu talmente veloce da non far vedere le ragioni della fine del comunismo, e infatti ce lo ritroviamo ancora tra i piedi.

Il comunismo contiene molti e forti punti di contatto con le dottrine religiose che vogliono gli uomini tutti uguali e che insistono sulla distribuzione dei beni e sulla generosità verso gli altri. Tuttavia, non è una fede ma una teoria economica che, mettendo insieme fattori sociali ed economici, costruisce un modello per l'equa distribuzione della ricchezza, che era il tema centrale dell'economia nel primo secolo della rivoluzione industriale, quando la creazione di ricchezza non pareva così in discussione.

A differenza della fede, ha il grande vantaggio di poterlo sottoporre alla prova dei fatti. Così, più Paesi nel corso del Novecento l'hanno adottato e tra questi il più importante è stato l'Unione Sovietica, retta per 70 anni da un regime comunista. Sì perché fu subito chiaro che il modello avesse bisogno di un regime, poiché pare che i cittadini non si trovassero poi tanto bene. In effetti, pure chi non abbia grandi conoscenze di economia può giudicare quanto i russi o i tedeschi dell'Est fossero contenti del modello comunista. Comunque, la bocciatura della storia è in economia: assolutamente incapace di produrre ricchezza, ha mostrato molte debolezze anche sulla distribuzione, la sua ragion d'essere. Infatti, è imploso su se stesso, dopo esser durato 70 anni, non poco. Di tutto l'esperimento l'aspetto forse più sorprendente è la quasi totale mancanza di analisi del risultato.

In pochi anni, a me gli occhi, carta vince e carta perde, et voilà: giù il muro, glasnost, perestroika e scioglimento dell'URSS, quasi si trattasse dell'ultimo e più marginale staterello sullo scenario geopolitico. Tanto per dire, il fascismo, considerato volgarmente l'antagonista del comunismo, ha governato per 20 anni ma è stato archiviato con un processo storico molto lungo e puntellato di occasioni di ricordo. Al punto che oggi è facile etichettare un movimento o un esponente politico come fascista per bollarlo negativamente. Certo, è un paragone insostenibile nel contenuto ma è giusto per cogliere il senso, anzi l'assenza, dell'elaborazione storica del comunismo sovietico, i cui principi e valori sono vivi e vegeti nella nostra società. Non per un caso ma per un vero capolavoro.

I figli del PCI hanno subito condannato il comunismo, alcuni addirittura sostenendo di non esserlo mai stati e di non aver mai approfondito il significato di quella C nel simbolo. L'abilità è stata puntare il dito sulla dittatura e sulla mancanza di libertà, sorvolando leggiadri sull'incapacità del sistema di produrre la ricchezza che ambiva a distribuire. Così da sdoganare un'idea semplice: purché in democrazia e libertà, quei principi possono funzionare e sono auspicabili. Anche la contro-narrazione di fine secolo concentrò le sue bordate sulla libertà anziché insistere sul valore della competizione e dello spirito di impresa. Probabilmente valutando che sul piano dell'economia non sarebbe stato facile contrastare quel proselitismo, arrivato negli anni '70 a un terzo dei cittadini e tra i giovani di allora, oggi adulti, anche di più. Fatto sta che è tuttora molto forte, specie nella parte della società non esposta alle leggi del mercato e dell'iniziativa personale, con il sindacato in funzione di vestale ad alimentare la fiammella. Però il comunismo non è un regime politico ma una teoria economica e come tale nella pratica ha fallito. La glasnost su questo è stata una finestra aperta e richiusa troppo in fretta.

Morto Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell'Urss: il discorso con cui ha scritto la Storia. Libero Quotidiano il 30 agosto 2022

L'ex presidente dell'Urss, Mikhail Gorbaciov, è morto all'età di 92 anni. Lo ha reso noto l'agenzia russa Tass, sottolineando che l'ex presidente che mise finealla guerra fredda è deceduto nell'ospedale dov'era ricoverato.

Era il 25 dicembre del 1991 quando Mikhail Gorbaciov, in un discorso considerato fra i cardini della storia del XX secolo, annunciava le sue dimissioni da presidente dell'Unione sovietica. Padre della Perestrojka e della dottrina Glasnost, protagonista della caduta del Muro di Berlino e insignito nel 1990 del premio Nobel per la Pace "per il ruolo di primo piano nei cambiamenti radicali delle relazioni fra Est e Ovest", Gorbaciov accompagnava la Russia in un nuovo momento storico: al Cremlino veniva abbassata la bandiera dell'Urss, sostituita con il tricolore della Federazione russa.

Per lui si era trattato di una scelta di responsabilità, dichiarò in un'intervista rilasciata alla Bbc nel 2016: "Eravamo sulla buona strada per una guerra civile e volevo evitarlo", "una divisione nella società e una lotta in un paese come il nostro, traboccante di armi, comprese quelle nucleari, avrebbe potuto causare la morte di molte persone ed enorme distruzione. Non potevo lasciare che accadesse solo per aggrapparmi al potere. Dimettermi è stata la mia vittoria". Gorbaciov è rimasto una figura controversa: se in Occidente è considerato da molti un eroe, colui che ha dato la libertà all'Europa orientale e ha permesso la riunificazione della Germania, da molti russi è visto come il leader che ha perso un impero, quello sovietico. Fu lui, però, che condusse la Guerra fredda a una fine pacifica, ragion per cui il comitato del Nobel scelse di premiarlo.

Nato il 2 marzo del 1931 in una famiglia di agricoltori a Privolnoye, sotto il regime di Stalin, visse sotto l'occupazione tedesca nella Seconda guerra mondiale. Dopo la guerra studiò all'università di legge a Mosca, laureandosi nel 1955. Laurea a cui nel 1967 aggiunse quella in Economia agraria all'università di Stavropol. La sua carriera politica nel Partito comunista iniziò poco dopo proprio in questa città, come primo segretario del partito.

Questo ruolo gli permise viaggi all'estero che lo resero gradualmente critico nei confronti dell'inefficiente sistema sovietico, che subì ulteriori pressioni quando l'Unione sovietica invase l'Afghanistan nel 1979. Tra le sue trasferte più importanti, nel 1975 condusse una delegazione nella Repubblica federale di Germania. Nel 1983 guidò una delegazione sovietica in Canada per incontrare il primo ministro Pierre Trudeau e alcuni membri della Camera dei Comuni del Paese nordamericano. Nel 1984 partecipò come delegato sovietico ai funerali a Roma del segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, mentre nello stesso anno incontrò nel Regno Unito la prima ministra Margaret Thatcher.

Con il suo ministro degli Esteri, Eduard Ševardnadze, conseguì poi il ritiro delle truppe sovietiche dall'Afghanistan, messo in pratica dopo la stipula degli Accordi di Ginevra del 1988.

Nel 1985 Gorbaciov fu eletto segretario generale del partito, nuovo leader dell'Unione Sovietica. Cercò di riformare il comunismo e introdusse i concetti di "Glasnost" (apertura) e "Perestroika" (cambiamento). La società fu liberalizzata e Gorbaciov cercò la distensione con gli Stati Uniti per poter trasferire i fondi dalla difesa alla società civile. Dichiarò che non avrebbe sostenuto i regimi comunisti in altri paesi se i loro popoli si fossero opposti a loro. Iniziò così una reazione a catena che portò alla caduta del comunismo in Europa.

L'11 ottobre 1986 arrivò anche un'epocale svolta sull'arresto agli armamenti, quando incontrò il presidente statunitense Ronald Reagan a Reykjavík in Islanda per discutere la riduzione degli arsenali nucleari installati in Europa. Tutto ciò condusse nel 1987 alla firma del Trattato INF sull’eliminazione delle armi nucleari a raggio intermedio. Nell'aprile di quell'anno dovette anche gestire il disastro nucleare della centrale di Chernobyl, nella Repubblica Ucraina allora parte dell’Unione sovietica.

Il 1989 vide gli effetti distensivi della sua politica arrivare ai massimi, con la caduta del muro di Berlino il 9 novembre. Il resto di quell'anno fu scandito dalla crescente divergenza tra i riformisti, che criticavano il lento ritmo di cambiamento, e i conservatori, che criticavano l'estensione del cambiamento.

Il 15 marzo del 1990 il Congresso dei rappresentanti del popolo dell'Urss lo elesse presidente dell'Unione Sovietica. Lo stesso anno, cinque mesi dopo, gli fu assegnato il Nobel per la Pace.

Tuttavia, fallì nel riorganizzare economicamente l'Unione sovietica nel suo obiettivo di migliorare le condizioni di vita nel Paese. Le riforme politiche radicalizzarono l'opposizione e nell'estate del 1991, quattro mesi dopo un fallito colpo di Stato nei suoi confronti, Gorbaciov si dimise. L’Unione Sovietica era avviata inesorabilmente verso la sua dissoluzione.

Non perse però il suo fervore e impegno politico. Nel gennaio del 1992 diventò presidente della fondazione Gorbaciov, Fondazione Internazionale Non-Governativa per gli Studi Socio-Economici e Politici. Dal marzo del 1993 fu inoltre presidente e fondatore della Green Cross International, organizzazione ambientalista indipendente presente in più di 30 paesi.

In un'intervista concessa nel 2016 a Bbc, l'ex presidente sovietico è stato critico sulla Russia moderna. "I burocrati", disse, "rubarono le ricchezze della nazione e iniziarono a creare corporazioni". Criticò anche uno dei più stretti collaboratori dell’attuale presidente Vladimur Putin, Igor Sechin, capo del gigante petrolifero Rosneft, accusandolo di cercare di influenzare gli affari di stato. Ma ebbe anche parole dure per l'Occidente. "Sono sicuro che la stampa occidentale abbia ricevuto istruzioni speciali per screditare Putin e sbarazzarsi di lui. Non fisicamente. Solo per assicurarsi che si faccia da parte. Ma, di conseguenza, il suo indice di popolarità qui ha raggiunto l'86%. Presto sarà del 120%".

Al suo 91esimo compleanno ha incontrato i giornalisti Maria Ressa e Dmitry Muratov, a cui è stato assegnato il Premio Nobel per la pace nel 2021. Muratov è il direttore di Novaja Gazeta, una delle poche voci indipendenti nella Russia di Putin, nonché settimanale che lo stesso Gorbaciov finanziò nel 1993. Sulla situazione attuale, riguardante la guerra tra Russia e Ucraina, il suo appello è però stato monolitico e disarmante: "Fate il possibile per fermare Putin".

Per lo scrittore e amico János Zolcer, che su di lui ha scritto un libro, Gorbaciov ha lasciato un'eredità senza precedenti: "Essere qui a parlare liberamente. Questa è l’eredità più grande di Gorbaciov. Ha dato la libertà all’Unione sovietica e ai popoli dell’Europa orientale. Ci ha detto ‘siete voi gli artefici della vostra vita’, il modo in cui l’ha fatto ha cambiato la nostra vita".

Mikhail Gorbaciov, lo sfregio dalla Cina: "Figura tragica, ingenua e immatura". Libero Quotidiano il 31 agosto 2022

Mikhail Gorbaciov è stato una "figura tragica che ha soddisfatto i bisogni degli Stati Uniti e dell'Occidente senza morale", ha commesso "gravi errori" nel valutare la situazione internazionale, "ha provocato il caos nell'ordine economico interno" e la cui parabola politica deve servire da "promemoria" per altri Paesi nell'essere cauti verso l'Occidente. 

Questo il durissimo giudizio degli osservatori cinesi citati dal tabloid Global Times, pubblicato dal Quotidiano del Popolo, organo di stampa ufficiale del Partito Comunista Cinese, su Mikhail Gorbaciov, ultimo leader dell'Unione Sovietica, scomparso ieri, martedì 30 agosto, a distanza di solo poche ore dall'annuncio diramato da Pechino delle date del prossimo Congresso del Partito Comunista Cinese, che a ottobre, con ogni probabilità, rieleggerà Xi Jinping per un terzo mandato consecutivo alla guida del partito. Un pensiero, quello dei cinesi, condiviso da Vladimir Putin. Lo zar russo, pur non avendo speso parole di condanna nei confronti dell'ultimo leader Urss, si è limitato a un gelido commento esprimendo cordoglio. Si ricorda che Putin ebbe a dire che a suo giudizio "la dissoluzione dell'Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe del XX secolo". E Gorbaciov, su quella dissoluzione, ci mise la firma.

Ma torniamo a Pechino. "In una riflessione storica, Gorbaciov è ingenuo e immaturo", scrive ancora l'agguerrito giornale cinese. "Venerare ciecamente il sistema occidentale ha fatto perdere indipendenza all'Unione Sovietica, e il popolo russo ha sofferto di instabilità politica e di gravi pressioni economiche, che la Cina ha considerato un grande avvertimento e una lezione da cui trarre esperienza per la propria governance". 

Nell'articolo, che ripercorre le scelte prese da Gorbaciov quando era al vertice dell'Urss, il Global Times cita il direttore dell'Istituto per gli Affari Internazionali dell'Università del Popolo di Pechino, uno dei più prestigiosi atenei della capitale, Wang Yiwei. "Gorbaciov è stato ingannato dall'Occidente", è il giudizio dello studioso. "In un momento critico non ha potuto salvare l'Unione Sovietica, né il Partito Comunista dell'Unione Sovietica", ha aggiunto l'accademico di Pechino, sottolineando la differenza di approccio del Pcc che, ha detto, si fonda sulla leadership del partito e sul principio di indipendenza "piuttosto che sulla ricerca dell'occidentalizzazione, come l'Urss", si conclude l'offensivo ricordo del leader sovietico scomparso a 91 anni.

Morte Gorbaciov, il gelo di Putin e l'affondo del fedelissimo: "Coincidenza mistica". Libero Quotidiano il 31 agosto 2022

A 91 anni, se ne è andato Mikhail Gorbaciov, l'ultimo leader dell'Unione Sovietica, l'uomo della perestrojka e della glasnost, del disgelo, del passaggio alla Federazione russa. La notizia arriva poco prima della mezzanotte italiana, con uno scarno comunicato della Clinica di Mosca dove Gorbaciov era ricoverato da tempo. "Questa sera, dopo una prolungata e grave malattia, Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto". Punto e stop. Poche, gelide, righe rilanciate dalla Tass, l'agenzia di stampa russa organica al Cremlino.

Già, un gelo "di Stato". Un gelo dietro al quale è fin troppo semplice ipotizzare che ci sia un ordine diretto di Vladimir Putin, il presidente di quella Russia nata proprio dopo Gorbaciov e che, prima di lui, ha visto il passaggio di Boris Eltsin. Già, si pensi che lo zar Putin ritiene che il crollo dell'Urss fu "la più grande catastrofe del XX secolo", queste le sue parole. E poiché sulla dissoluzione del mostro sovietico c'era proprio la firma di Gorbaciov, è fin troppo facile capire il distacco con cui è stata accolta la notizia della sua morte.

Non a caso, Putin si è limitato ad esprimere "profondo cordoglio". "Un politico e uno statista che ha avuto una influenza importante sulla Storia del mondo - questo quanto avrebbe scritto Putin nel suo telegramma di condoglianze alla famiglia, secondo quanto riferisce l'agenzia Tass -. Vorrei sottolineare anche quella grande attività umanitaria, di beneficenza e illuminismo che Gorbaciov ha condotto in tutti gli ultimi anni. Chiedo di accettare le parole sincere di solidarietà e empatia per la perdita che avete subito". Stando all'altra agenzia russa Interfax, però, pare che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato a Mosca: "Due fonti informate hanno detto a Interfax che per Gorbaciov non ci saranno funerali di Stato". Un vero e proprio schiaffo insomma. 

Prima di queste indiscrezioni, il Cremlino aveva detto di non avere ancora preso una decisione sullo svolgimento di un funerale di Stato per l’ex presidente sovietico Mikhail Gorbaciov. "Non posso ancora dirlo con certezza. La questione sarà affrontata oggi. Verrà presa una decisione. Finora non sono state prese decisioni", aveva detto il portavoce Peskov ai giornalisti. Certo non quello che ci si aspetta per una delle figure più importanti della storia contemporanea. Un discreto sfregio a Gorbaciov. E, forse, ad esprimere il vero pensiero di Putin, ci pensa Andrej Medvedev, deputato di Russia Unita, che commentando il fatto ha ricordato le recenti morti di Shushkevich, Kravchuk e Burbulis, i tre che firmarono gli accordi di Belovezha che sancirono la fine dell'Unione Sovietica. "Dall'inizio dell'operazione militare speciale, Gorbaciov è già il quarto politico deceduto direttamente coinvolto nel crollo dell'Urss. Questa, ovviamente è una specie di coincidenza quasi mistica", ha concluso. Parole, per certi versi, agghiaccianti.

Mikhail Gorbaciov, raccapricciante insulto: "Becchino, peggio di Hitler". Mirko Molteni su Libero Quotidiano il 02 settembre 2022

Il detto "nemo propheta in patria sua" è perfetto per Mikhail Gorbaciov, la cui morte a 91 anni è stata accolta freddamente, quasi con imbarazzo, in Russia, dove gran parte della popolazione è nostalgica dell'Unione Sovietica. Anche l'ultimo leader sovietico, in carica dal 1985 al 1991, voleva che l'Urss sopravvivesse, ma le aperture da lui promosse, di fatto, ne accelerarono la crisi. Il ricordo prevalente di Gorbaciov nel suo Paese è, nella migliore delle ipotesi, quello dell'ingenuo che s' è fatto "fregare" dall'Occidente e s'è illuso di poter ristrutturare un sistema farraginoso, scoperchiando un vaso di Pandora. Nel caso peggiore, un demolitore, perfino un traditore, quantomeno inconscio.

Per il deputato Vitaly Milonov, il presidente sovietico ha lasciato un'eredità «peggiore di Hitler per il nostro Paese» mentre Vladimir Rogov, filoputiniano dell'oblast di Zaporizhia nella parte occupata dell'Ucraina, ha definito Gorbaciov un traditore che ha deliberatamente portato al collasso l'Urss. Infine, la Komsomolskaya Pravda lo ha definito «becchino della stessa Urss». Il presidente Vladimir Putin ha invece espresso un cordoglio distaccato, con sottintese critiche: «Ha dovuto affrontare grandi sfide. Capiva che le riforme erano necessarie e cercava di proporre sue soluzioni a problemi scottanti. Ha avuto un impatto enorme sulla storia mondiale». Se lo "zar" parla di «sue soluzioni», ne prende le distanze, e se parla di «impatto enorme», intende una valanga. Putin già aveva definito il crollo dell'Unione Sovietica «la peggior catastrofe geopolitica del secolo». I due si rendevano pan per focaccia. L'anziano Gorbaciov diceva: «Putin? Ha salvato la Russia, ma ora mi sembra malato di presunzione». E poi: «Putin governa con la paura».

Ma approvò nel 2014 l'annessione della Crimea, lui che era di madre ucraina e aveva sposato l'ucraina Raissa. Gorby era però critico sull'attuale offensiva contro Kiev. Per Nina Krusciova, nipote dell'ex-leader sovietico Nikita Kruscev, «era completamente devastato dalla guerra in Ucraina». Malato, dal febbraio 2022 non parlava più pubblicamente, ma in Russia il suo silenzio è passato inosservato. In serata la TASS ha confermato i funerali di Stato, il che era rimasto in dubbio per tutto il giorno. Sabato, cerimonia nella Sala delle Colonne della Casa di Sindacati, già teatro delle esequie di Stalin nel 1953, poi la sepoltura al cimitero moscovita di Novodevichy.

Veloci saluti, nella fretta di chiudere una pagina traumatica. Il portavoce del Cremlino Dimitry Peskov lega gli eventi di 30 anni fa alla crisi odierna: «Il romanticismo di Gorbaciov per una pace stabile non s' è concretizzato, non c'è stato un secolo del miele e la sete di sangue dei nostri avversari s' è manifestata». Propaganda a parte, lo studioso Andrey Kortunov, direttore del Russian International Affairs Council, definisce Gorby «controverso, con idee naif». Per l'ex rabbino di Mosca, Pinchas Goldschmid, espatriato per protesta contro la guerra in Ucraina, «tre milioni di ebrei sovietici gli devono la libertà», avendo Gorby eliminato le restrizioni all'emigrazione in Israele. E l'oppositore Alexei Navalny, incarcerato da Putin, dice: «Liberò gli ultimi prigionieri politici e verrà giudicato meglio dai posteri che dai contemporanei».

È morto Mikhail Gorbaciov. L'ultimo leader dell’Urss aveva 91 anni. Il Dubbio il 31 agosto 2022.

È morto all’età di 91 anni Mikhail Gorbaciov, ultimo segretario generale del Partito Comunista ed ex presidente dell’Urss. Fautore di una politica di riavvicinamento con l’Occidente, Premio Nobel per la pace nel 1990, è stato uno dei maggiori protagonisti della politica mondiale negli anni ’80, alla guida dell’Urss tra il 1985 e il 1991: negoziò la fine della Guerra Fredda, la caduta del muro di Berlino e il disarmo nucleare. Tra il 1990 e il 1991 fu Presidente dell’Unione Sovietica, prima di doversi dimettere definitivamente il 25 dicembre 1991, con la fine dell’Urss. È stato il simbolo di una nuova generazione di leader: fu lui ad avviare la Glasnost (trasparenza) e poi la Perestrojka (ristrutturazione economica), che vide la nascita della Russia moderna. Cercò di cambiare l’Unione Sovietica e le sue relazioni con il mondo occidentale. E non volle solo la fine della Guerra Fredda o un ritorno alla politica della distensione, ma creare una vera cooperazione, un’intesa tra Oriente e Occidente: difese il multilateralismo non ancora globalizzato, consapevole che il pericolo peggiore fosse quello di una guerra nucleare ma anche delle sfide ambientali, che sarà uno dei primi leader politici a mettere in agenda. I suoi traguardi sono stati significativi: la fine dell’occupazione dell’Afghanistan, la firma di un accordo sugli euromissili, l’«opzione 0» che elimina completamente una categoria di armi nucleari, l’accordo sul disarmo convenzionale, ma anche il fatto che ogni Paese dell’Est europeo potesse seguire la propria strada: l’Urss non imponeva più la sua politica con la forza, come dimostrò la riunificazione tedesca che Gorbaciov accettò quando c’erano ancora 500mila soldati sovietici nella Germania dell’Est. Dopo le dimissioni dal suo incarico di presidente dell’Urss, Mikhail Gorbaciov si rivolse all’ecologia. In vent’anni ha scritto Il mio manifesto per la Terra e partecipato a diversi documentari sull’argomento – La battaglia di Chernobyl nel 2006, L’undicesima ora, prodotto da Leonardo DiCaprio nel 2007, o Rimarremo sulla Terra nel 2009. Ma la sua eredità più notevole in questo settore è la Green Cross International, fondata nell’aprile 1993 con il deputato svizzero Roland Wiederhehr: un ong ecologica sul modello della Croce Rossa mira a garantire «un futuro sostenibile per tutti i popoli del mondo». Per fare questo Gorbaciov auspica una «perestrojka dello sviluppo sostenibile» , come ha indicato in occasione del 20 anniversario della Ong. Secondo l’agenzia Tass, che ha dato la notizia del decesso, Gorbaciov, morto in un ospedale di Mosca, sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, nella capitale russa, dove giacciono i resti di personaggi di spicco della storia del Paese, ma dove riposano anche i resti della moglie di Gorbaciov, Raissa. Gorbaciov viveva da anni lontano dai riflettori dei media a causa di problemi di salute. 

La versione di Gorbaciov, l’ultimo principe del Novecento. 29 novembre del 1989: sul Quirinale sventola la bandiera rossa, i romani si stringono intorno a Gorbaciov. Che come Kennedy per gli Usa, ha incarnato la “nuova frontiera russa”. Lanfranco Caminiti su Il Dubbio il 31 agosto 2022.

La frase memorabile, in realtà gliel’aveva rubata John Fitzgerald Kennedy che a Berlino nel giugno del 1963, quando il Muro era stato proprio da poco tirato su, mattone su mattone, in quel tour europeo che poi lo porterà anche a Roma, prima di pronunciare il famoso Ich bin ein Berliner, aveva detto che un tempo nel mondo si era orgogliosi di dire: “civis romanus sum”. A Gorbaciov – che era attento alle campagne pubblicitarie del mondo occidentale e che diventerà, quando tutto sarà finito, un’icona con la sua borsa da viaggio Louis Vuitton – era rimasto “So’ Caio Gregorio, er guardiano der Pretorio”, il Carosello che sponsorizzava il tessuto terital Scala d’oro Rhodiatoce. L’avesse detta, i romani si sarebbero spellati le mani. Ma era troppo serio, e i romani lo amarono lo stesso, e lo applaudirono e gli si strinsero intorno con calore in un bagno di folla, quel 29 novembre del 1989.

Un calore, che mai avevano riservato a un qualche capo di Stato. Forse, appunto, con Kennedy. Ma Kennedy sembrava il futuro, con la sua “nuova frontiera” e il ciuffo bello. Anche Gorbaciov sembrava il futuro, benché fosse calvo e avesse una meravigliosa “voglia rossa” sulla fronte. E la “nuova frontiera” russa significava forse la fine della guerra fredda e la distensione nel mondo. Questo era quello che si percepiva, guardandolo. Sul Quirinale sventolava la bandiera rossa – certo, era il protocollo delle diplomazie. Ma nemmanco con la Repubblica romana, con Mazzini e Garibaldi, la bandiera rossa era stata issata sul pennone del Quirinale. Non erano arrivati i cosacchi a abbeverarsi alle fontane di San Pietro – come dicevano le profezie di don Bosco e la campagna anticomunista del ’48 – e non era il marziano di Flaiano, ma un signore, con la sua signora Raissa che entrò subito nel cuore degli italiani, per la sua sobrietà e la sua solarità, che con la perestrojka e la glasnost stava aprendo la Russia al mondo. Portava affari Gorby, portava business per le imprese italiane: la globalizzazione iniziava con quel suo tour europeo. Tre giorni restò a Roma Gorbaciov – e era il primo appuntamento est-ovest dall’inizio della sua storia. Perché la storia non stava finendo, si stava sbloccando.

Prima l’Italia. Gorbaciov scelse il nostro paese perché – come disse – avevamo «una percezione migliore della Storia», che so, per Machiavelli e Guicciardini? Perché, come disse, si considerava anche lui “un meridionale”? O perché qui c’era “il più forte Partito comunista dell’occidente”? Berlinguer però è morto già nell’84: era stato lui a dire, nell’81, che “la spinta propulsiva della rivoluzione d’Ottobre” era finita. Gorbaciov avrebbe sottoscritto; lui, anzi, lo stava dimostrando. Segretario del Partito comunista italiano – sarà l’ultimo segretario – è ora Achille Occhetto che ha seguito con attenzione quello che succedeva in Unione sovietica. Occhetto ha appena dichiarato “la svolta della Bolognina”, ma ci vorranno ancora quasi due anni perché il PCI diventi il PDS, il Partito democratico della sinistra. E fra due anni, Gorbaciov sarà prima agli arresti per un tentato golpe e poi travolto dal succedersi improvviso degli eventi. Sarà la sua propria “fine della storia”. Anche Occhetto finirà travolto. Ma in quel momento, a Roma, Gorbaciov sta cavalcando l’onda. È l’Unione sovietica, è l’Armata rossa, è Stalingrado, è “addavenì Baffone” che arrivano con lui – e il popolo romano, quello delle sezioni comuniste ancora attive e vegete nei quartieri, gli rende omaggio. Che l’abbiamo issata a fare allora, la bandiera rossa al Quirinale?

Ma è anche all’incredibile coraggio intellettuale e politico di quest’uomo – che mostrerà anche coraggio fisico nei momenti del putsch militare – che tutti, senza appartenenza di bandiera, rendono omaggio: Norberto Bobbio lo definirà un “grande principe riformatore”. Nessuno ha davvero la più pallida idea di quel che sta accadendo dentro la nomenklatura russa. È dalla parte giusta della storia Gorbaciov – gli altri, i suoi nemici, fra i quali il capo del KGB, finiranno nella spazzatura. In quello stesso anno del putsch, il 1991, Putin lascia i servizi segreti e inizia la sua carriera politica a San Pietroburgo, come “ufficiale di collegamento” con l’FSB. Più tardi, si unirà a Eltsin, l’uomo che ha fatto fuori Gorbaciov, e infine ne sarà, a sua volta, il successore. Noi non avevamo la più pallida idea di quello che stava accadendo dentro la nomenclatura russa. A Roma, anzi a Città del Vaticano, Gorbaciov incontrerà Wojtyla – è la prima volta per un leader sovietico – che è l’uomo al mondo che più di altri si è battuto contro l’impero russo per amore della sua cattolicissima Polonia. E è anche riuscito a incrinarlo davvero quel potere, con Lech Walesa, gli operai dei cantieri navali di Danzica e il loro Solidarnosc, fino alla legge marziale di Jaruzelski dell’81, che forse evitò che arrivassero i russi con i loro carri armati, come era accaduto in Ungheria nel ’56 e in Cecoslovacchia nel ’68. Ma ora, tutto questo è il passato. Gorbaciov ha definito “irreversibile” il processo di rottura dell’Urss e se le nazioni che facevano parte del blocco sovietico vorranno scegliere la propria autonomia – lui non interverrà. Avranno un’ora e mezza di colloquio Gorbaciov e Wojtyla. Raissa è vestita di rosso – infrangendo il protocollo che vuole le donne in Vaticano vestite di nero e con il velo. Troverà anche il tempo, Raissa, in quei tre giorni di volare a Messina e ricevere, al posto del marito, il premio Colapesce, in memoria dei marinai russi che per primi accorsero a soccorrere la popolazione della città colpita dal terremoto del 1908.

Dieci anni dopo, quando la perestrojka e la glasnost sono ormai un ricordo e un rimpianto, Gorbaciov e Raissa arriveranno insieme al festival di Sanremo del 1999 a salutare e ringraziare gli italiani che così calorosamente li avevano accolti. Eravamo rimasti nei loro cuori. Quello stesso anno, a settembre, Raissa morirà di leucemia. Erano stati insieme per quasi cinquant’anni.

Addio al padre della Perestrojka. Morto Mikhail Gorbaciov, addio all’ultimo presidente dell’Unione Sovietica: aveva 91 anni. Redazione su Il Riformista il 30 Agosto 2022 

Mikhail Gorbaciov, ultimo presidente dell’Unione Sovietica, è morto all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. A darne notizia è stata l’agenzia di stampa russa Tass, citando l’ospedale dove era ricoverato, il Central Clinical Hospital: “Mikhail Sergeevich Gorbaciov è morto questa sera dopo una grave e lunga malattia”, si legge nella breve nota resa pubblica dalla Tass.

Gorbaciov sarà sepolto nel cimitero di Novodevichy, a Mosca, nella tomba di famiglia accanto alla moglie Raissa.

Da considerare uno dei leader più importanti dell’ultima parte del Novecento, Gorbaciov fu l’ultimo segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, carica che ha ricoperto dal 1985 al 1991, ottenendo la carica a soli 54 anni. L’ex leader sovietivo nacque il 2 marzo 1931 a Privol’noe, località rurale nella Russia sudoccidentale

Gorbaciov ebbe il merito di porre fine alla Guerra Fredda con gli Stati Uniti senza arrivare ad un confronto diretto tra le due superpotenze nell’epoca della ‘Cortina di ferro’, ricevendo per questo nel 1990 il Nobel per la Pace, ma non riuscì ad impedire il collasso della stessa Urss.

A lui si devono anche i due tentativi di dare una ‘sterzata’ all’Unione Sovietica tramite la Perestrojka e con la Glasnost, un insieme di riforme nel tentativo di mettere fine alla corruzione e ai privilegi dell’apparato politico del Partito comunista sovietico, introducendo “trasparenza” (Glasnost) nel dibattito politico e nella società civile dell’Unione Sovietica.

Il tentativo di riorganizzazione l’economia e la struttura politica e sociale del Paese, la “ristrutturazione” dell’Unione Sovietica (il termine russo Perestrojka) portò in realtà il sistema a collassare su sé stesso, i cambiamenti imposti al sistema sovietico portarono la stessa Urss alla dissoluzione in pochi anni. Se da una parte il processo democratico all’interno del Paese avanzerà, le riforme economiche non faranno lo stesso percorso.

La sua fine politica, e paradossalmente anche quella dell’Urss, arrivarono per cause interne, con l’ostracismo di una parte del Pcus. Episodio chiave il tentativo di golpe del 1991 da parte dei comunisti più conservatori e refrattari al cambiamento imposto dalla sua guida. Gorbaciov viene sequestrato per tre giorni nella villa presidenziale in Crimea, ma il colpo di stato fallisce. 

È solo il preavviso della crisi politica che scoppierà l’8 dicembre del 1991, quando Gorbaciov firma con Ucraina e Bielorussia la nascita della Csi, la Comunità di Stati indipendenti, ponendo fine all’Urss. 

Ormai impopolare tra l’ala più conservatrice del partito ma anche tra i cittadini, l’arrivo sulla scena politica di Boris Yeltsin lo porta al passaggio di consegne, gettando la spugna nel giorno di Natale ponendo fine alla sua era.

 30 anni fa crollava l'Unione Sovietica. Natale 1991, cala per sempre la bandiera rossa: la rivoluzione è morta. Umberto Ranieri su Il Riformista il 24 Dicembre 2021 

1) Il 25 dicembre del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello calava dal pennone del Cremlino sostituita da quella bianco, rosso e blu della Russia. Lo Stato nato dalla rivoluzione d’Ottobre non esisteva più. La sua capacità di attrazione era venuta meno da tempo. Era fallito il tentativo di Gorbacev di ridefinire una missione che consentisse all’Urss di rientrare nelle dinamiche del mondo globale e di ridare al comunismo la capacità di emanare un credibile messaggio universalistico. Il fallimento dell’ultimo segretario generale del Pcus metteva a nudo le insormontabili contraddizioni insite nel tentativo di riformare il comunismo sovietico.

2) L’altro tentativo di riforma fu quello condotto da Chruscev. Egli comprese che occorreva fare i conti con lo stalinismo. Difficile negare gli effetti liberatori della sua denuncia brusca, clamorosa e drammatica al XX congresso del Pcus nell’indimenticabile 1956. Tuttavia la risposta del leader sovietico alla esigenza emersa all’indomani della morte di Stalin di rivedere obiettivi, strategie e ruolo dell’Urss e del comunismo internazionale fu, come scrive Silvio Pons, debole e inefficace. Nella visione del comunismo chrusceviano restava intatta la convinzione che il capitalismo andava incontro alla depressione e alla catastrofe, assente era la capacità di intendere la tenuta e il dinamismo del sistema occidentale. Di qui le illusioni su una competizione economica vincente. Fallirà il tentativo di riformare, sulla scorta delle tesi di Evsej Liberman, l’economia sovietica, introducendovi concetti quali la produttività, gli incentivi, il profitto d’impresa.

3) Chruscev uscì di scena il 14 ottobre del 1964 vittima di una congiura che avrebbe aperto la strada all’era di Leonid Breznev. Lasciava un’Urss meno dispotica di quella che aveva ereditato ma le fondamenta del regime sovietico restavano quelle forgiate da Stalin. Negli anni di Breznev sarà raggiunta la parità negli armamenti con gli Stati Uniti ma apparirà chiaro che sotto il coperchio di ferro della dittatura politica permaneva una realtà di inefficienza e degrado economico, oltreché di fame e miseria per strati sempre più estesi della popolazione. Con l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968 venne stroncato l’ultimo tentativo di riformare un regime comunista. La vicenda ungherese del ‘56 e quella della Cecoslovacchia nel ’68 segneranno la fine del tempo delle riforme “dall’alto”, promosse dalle classi dirigenti dell’est. In Polonia, dalla fine degli anni Settanta aveva preso corpo un movimento di massa che “dal basso” erodeva ormai le basi del regime.

4) Era inevitabile, si chiede Silvio Pons a conclusione del suo bel libro sul comunismo La rivoluzione globale, il crollo dell’Unione Sovietica? Fu Gorbacev a provocarlo involontariamente, aggiunge Pons: «Il suo ideale di un socialismo dal volto umano lo portò a varare riforme insostenibili per le compatibilità del sistema, che innescarono la dissoluzione». Nei trent’anni successivi alla fine dell’Urss si sono moltiplicati i lavori e le ricerche per capire le ragioni di fondo che hanno portato l’Urss al crollo e il comunismo allo scacco. La rivoluzione del 1917, scrive Aldo Schiavone, “rappresentò la quintessenza di quel trionfo “giacobino” della politica… che era l’esatto contrario delle previsioni e degli auspici di Marx. In questo senso fu di sicuro “una rivoluzione contro Il Capitale” (per riprendere una formula celebre) destinata a riproporre per tutto il secolo il mito della conquista del potere come puro atto di forza e di volontà. Accadde così che il carattere giacobino della rivoluzione cristallizzatosi in una forma di Stato si trasformò rapidamente in dispotismo. Infine il colpo di grazia al sistema fu inferto dalla straordinaria trasformazione capitalistica che dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento aveva cambiato il volto del pianeta. Travolto dal mutamento e incapace di adeguarvisi il comunismo diventerà all’improvviso una figura inattuale e obsoleta”.

5) La verità è che avevano visto bene Julij Martov e i menscevichi: quella di Lenin fu la dittatura del partito e si trasformò dopo nella dittatura del despota Stalin sulla intera società russa. L’ultima illusione dei riformatori gorbacioviani, il ritorno a Lenin, lo aveva già sostenuto Chruscev, non avrebbe impedito una crisi sempre più profonda di quel sistema. Eduard Bernstein, il socialista più denigrato della storia del Movimento Operaio, vedrà nel leninismo la conferma che le rivoluzioni finiscono col risolversi nella pura conquista del potere. Privilegiato l’aspetto militare, la costruzione di un ordine economico e sociale nuovo si esaurirà in una serie di atti volontaristici, in “tentativi capricciosi…brancolamenti dilettanteschi” che produrranno danni irreparabili.

6) Trent’anni fa, Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto e tuttavia, senza la sua iniziativa, la fine dell’Urss difficilmente avrebbe presentato un carattere pacifico. Quel sistema avrebbe potuto esasperare il suo aspetto concentrazionario, chiudersi senza varchi come una fortezza assediata, tentare una avventura militare. Soluzioni disperate che avrebbero imposto sacrifici sconvolgenti. Imboccare la via cinese avrebbe significato una tragedia di proporzioni incalcolabili per l’Europa e per l’Urss. Gorbacev scongiurò un simile esito. Rinunciò al profilo imperiale dell’Urss lasciato in eredità da Stalin, liquidò la concezione del potere che aveva portato alle tragedie di Berlino Est nel 1953, di Budapest nel 1956, di Praga nel 1968, di Varsavia nel 1981. Il putsch dell’agosto 1991 a Mosca fu un penoso colpo di coda di un regime ormai esausto. Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto. La sua iniziativa, scrive Silvio Pons, «se non aveva cambiato il sistema né rinnovato il comunismo, ciò nonostante, aveva privato di senso una sua difesa ad oltranza».

7) Con la fine del comunismo implodeva un sistema totalitario. Eppure le immagini di quell’ammaina bandiera senza onore nell’indifferenza dei moscoviti suscitava una profonda tristezza al pensiero dei tanti che avevano guardato al comunismo come una utopia liberatrice. Il comunismo storico è fallito scriverà Norberto Bobbio ma i problemi restano. La via maestra per affrontarli è in un ancoraggio ideale e politico alle imprescindibili lezioni della democrazia liberale e al pensiero socialista democratico. Consapevoli come scriveva Isaiah Berlin che nessuna soluzione perfetta è possibile nelle cose umane e ogni serio tentativo di metterla in atto è destinato con ogni probabilità a produrre sofferenza, delusione e fallimento. Umberto Ranieri

La testimonianza. Dal muro di Berlino alla Glasnost: vi racconto Gorbaciov, il leader del secolo breve. Alessandro Iovino su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Oggi gli uomini liberi sparsi in ogni parte del mondo piangono la scomparsa di un grande riformatore, un uomo che si è speso per la pace e la libertà dei popoli. Il Novecento fu definito da Henric J. Hobsbawn «il secolo breve». E se a questo secolo, pur breve, volessimo dare un volto, allora quel volto non potrebbe che essere quello di Mikail Sergeevich Gorbačëv. Non ho dubbi. Fu l’ultimo segretario del PCUS, il Partito Comunista dell’Unione Sovietica, dal 1985 al 1991 e fu dunque l’ultimo Presidente dell’URSS, l’artefice della fine della Guerra Fredda che ebbe un ruolo determinante per la caduta del Muro di Berlino. Poi anche Premio Nobel per la Pace nel 1991.

Da allora, una vera icona mondiale. Un gigante del XX secolo. Quando ci incontrammo nella sede della sua fondazione a Mosca – grazie ai buoni uffici del suo consigliere per la comunicazione, il prof. Vladimr Polyakov – il Presidente si mostrò premuroso, disponibile e molto interessato all’Italia, Paese che insieme al Giappone ha amato particolarmente. Ci fu il tempo anche per qualche ricordo: l’abbraccio con Benigni, l’incontro con Sofia Loren, l’ammirazione per Pavarotti e Bocelli, le interviste con Enzo Biagi e Maurizio Costanzo e, ovviamente, la grande passione per la cucina italiana. Il momento per me sicuramente più emozionante e significativo fu quando gli consegnai una Bibbia in russo e parlammo di fede. Alla fine degli anni ’80 l’ex Presidente sovietico era uno degli uomini più potenti al mondo. La sua sembrava un’ascesa inarrestabile, fino al golpe di Stato e alla caduta di quel regime che si era proposto di riformare, invano.

Gli anni che seguirono non furono sempre facili: sia per la scomparsa dell’amata moglie Raissa e sia per la disaffezione di molti russi nei suoi confronti. Contestualmente crebbe, però, la sua popolarità in Occidente fino alla realizzazione di alcuni spot per delle multinazionali che fecero molto scalpore. Si narra che in un colloquio con Ronald Reagan, ancora prima che Gorbačëv divenne segretario generale del PCUS, il primo ministro Margaret Thatcher gli disse: «…is an unusual Russian», un russo anomalo. Aveva ragione. Non solo anomalo, singolare, ma anche un uomo dalle mille vite. Nel 2021, in piena pandemia, l’ex leader sovietico festeggiò i suoi 90 anni e da lui ricevetti l’onore di poter coordinare i contributi editoriali ad una pubblicazione internazionale sulla sua illustre figura di alcuni illustri italiani che lo avevano conosciuto personalmente. Il libro fu poi curato e pubblicato in lingua russa dalla Fondazione a lui intestata.

Quando mi spedirono le copie, fui sorpreso nel vedere che nella sezione degli amici del Presidente fu scelta una mia foto, insieme a poche altre. Uno degli onori più grandi della mia vita. Il giorno del suo compleanno in tanti avremmo dovuto festeggiarlo a Mosca. Ma le sue condizioni di salute e soprattutto la pandemia non hanno consentito nessuna cerimonia pubblica. Però mi fecero una richiesta specifica: il presidente era un grande fan di Andrea Bocelli che prontamente contattai e da Miami – dove era impegnato per un concerto – mandò un video in cui intonò un Happy Birthday per il Presidente. Da Mosca mi dissero che fu il regalo di compleanno più bello che aveva ricevuto e che si commosse. Negli ultimi mesi le condizioni di salute del Presidente erano peggiorate.

Era in ospedale e venivo informato continuamente sul suo stato di salute dal suo principale collaboratore, il prof. Polyakov. Il Presidente era molto angosciato anche per questa guerra. Poi ieri la notizia che nessuno di noi avrebbe voluto ricevere. Ho subito scritto a Polyakov che mi confermato quanto riportavano quotidiani di mezzo mondo. In tanti abbiamo amato Gorby e quello che lui ha rappresentato. Le sue azioni e le sue parole rimarranno scolpite nel nostro cuore per sempre: «Sono un sostenitore della libertà di scelta, di religione, di parola. Sempre e comunque libertà. Piuttosto sparatemi, ma alla libertà non volto le spalle». Addio, signor Presidente. Alessandro Iovino

Meriti e oblio: tanti applausi ma pochi aiuti. Gorbaciov, ritratto di un leader dimenticato: osannato dall’Occidente e odiato dai russi, il tempo con lui non è stato galantuomo. David Romoli su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Sorte ingrata quella di Michail Gorbacev, ex uomo più potente del mondo a pari merito con il presidente degli Usa, ex segretario generale del Pcus, dunque padrone della sterminata Unione sovietica, premio Nobel per la pace mai tanto meritato. L’Occidente, che lo aveva molto applaudito e poco aiutato all’epoca del suo tentativo di riformare un sistema che probabilmente riformabile non era, lo aveva dimenticato. Un conferenziere ben pagato, il presidente di una Fondazione racchiusa in spazi sempre più angusti a Mosca, da onorare, certo, ma senza bisogno di ascoltarlo: come quando nel 1999, con gli aerei Nato che bombardavano Belgrado, ammoniva inutilmente la Nato a non scippare le prerogative dell’Onu in virtù solo della forza militare. Appena dieci anni prima aveva messo fine alla guerra fredda ma era già un sopravvissuto, estraneo al nuovo mondo.

In Russia gli entusiasmi iniziali avevano ceduto il passo a un discredito universalmente diffuso già nel corso del suo breve regno: poco più di sei anni, dall’11 marzo 1985, quando grazie a un accordo con i geronti della vecchia guardia breneviana diventò segretario generale del partito, all’8 dicembre 1991, quando si dimise da presidente dell’Urss, carica che aveva sommato a quella di segretario nel 1988 togliendola al dinosauro Andrej Gromyko. Nel bellissimo e monumentale Tempo di seconda mano, della giornalista premio Nobel per la letteratura Svetlana Aleksievic, testo definitivo per capire la fine dell’Urss, il solo tratto comune nelle decine di testimonianze è il disprezzo per l’uomo che in Occidente chiamavamo amichevolmente Gorby e applaudivamo senza capire quanto poco fosse invece amato nel suo Paese. Nel ricordo dei decenni successivi le quotazioni dell’ultimo leader dell’Urss sono scese ulteriormente, nessuna riabilitazione per lui in Patria: per i russi è ancora l’uomo che ha smantellato la potente e orgogliosa Unione sovietica.

Per i popoli che si affrancarono e si resero indipendenti allora, invece, Gorbaciov è l’Urss, il giogo sovietico, il presidente che, dopo aver permesso e quasi incentivato la nascita dei nazionalismi, tentò di sedarli e reprimerli ordinando nel gennaio 1991 all’Armata Rossa di occupare il Parlamento della Lituania a Vilnius e di sparare sulla folla. Un disastro politico che Gorbacev rese anche peggiore negando contro ogni evidenza di essere stato al corrente dell’operazione militare contro la Lituania. Il tempo per ora non è stato galantuomo con Gorby. Ha cancellato il ricordo degli accordi che portarono nel 1987 alla firma del Trattato sovietico-americano Inf sullo smantellamento dei missili nucleari a medio raggio in Europa. Fu l’inizio della fine della guerra fredda, tanto che proprio il segretario del Partito comunista sovietico arrivò a pronunciare parole allora inimmaginabili come quelle sulla Nato non più considerata un nemico.

Il tempo ha fatto dimenticare la vitalità, l’energia, le speranze della breve primavera russa, della quale tuttavia proprio il libro di Svetlana Aleksievic è testimonianza e monumento perché tutti, pur biasimando il leader, ricordano con struggente rimpianto quelle ore di interminabili discussioni, ogni sera fino a notte tarda e sempre nelle cucine, dove i russi ritenevano di potersi esprimere con minor rischio di essere ascoltati e registrati. E ancora i decenni hanno annebbiato nei Paesi dell’ex Urss la percezione di quanto la loro indipendenza debba alla rivoluzione di Gorbacev, alla perestrojka e alla glasnost, che certo non miravano alla dissoluzione dell’Urss ma che posero lo stesso le basi necessarie e imprescindibili per quella indipendenza.

Forse è vero che Michail Gorbacev non riuscì ad andare oltre la metà del guado. È probabile che colga nel segno Georgj Shaknazarov, suo strettissimo collaboratore, quando dice che in lui “coabitavano due persone: un riformatore radicale e un funzionario di partito”. Ma è anche vero che quasi sempre il riformatore ebbe la meglio sul funzionario e che difficilmente avrebbero potuto evitare qualche ambiguità. In fondo era arrivato al potere attraverso un tipico percorso tutto interno alla nomenklatura, ai suoi riti e alle sue logiche. Lo aveva indicato come suo delfino Andropov, ex capo del Kgb succeduto a sorpresa a Breznev come segretario del partito nel 1982, come Gorbaciov proveniente dalla provincia di Stavropol. Andropov era allo stesso tempo un duro della vecchia guardia e un riformatore che, per imporre le riforme, era pronto a ricorrere ai metodi spicci ereditati dall’età di Stalin. Durò pochissimo. Alla sua morte, nell’84, gli succedette, invece del delfino Gorbaciov, il conservatore assoluto Cernenko che a sua volta sopravvisse al conferimento dell’alta carica appena un anno. Per spuntarla, dopo il terzo decesso di geronte in meno di tre anni, Gorbaciov dovette stringere un’alleanza con il più inossidabile tra i campioni della nomenklatura, Andrey Gromiko, ministro degli Esteri da 28 anni.

Eppure fu subito chiaro che con il nuovo segretario le cose erano cambiate. Gorbaciov era giovane, molto energico, in ottima salute, e già questo nell’Unione sovietica degli anni 80, dove i dirigenti erano tutti più di là che di qua, faceva scalpore, tanto che praticamente tutti i leader occidentali che lo incontrarono ai funerali di Cernenko non mancarono di notare e segnalare. Arrivava in ufficio alle 9, lavorava a testa bassa 12 ore al giorno di solito senza neppure fermarsi per la pausa pranzo. Aveva una moglie, Raissa, con la quale era felicemente sposato da 22 anni e certo non era il primo. Ma dai tempi di Lenin era la prima volta che una first lady compariva in pubblico, non restava nell’ombra ed era anche bella ed elegante. Ed era anche, incredibile ma vero, la principale consigliera del marito. Cose da Casa Bianca o peggio!

Poi Gorbaciov, per gli standard sovietici dell’epoca, era un cosmopolita. Aveva passato la cortina di ferro più spesso di qualunque altro dirigente sovietico a eccezione di Gromyko. Era stato in Germania, Belgio, Canada. Una volta si era anche eclissato per girare la Francia in macchina con Raissa, roba che nell’Urss neppure Easy Rider. Era stato in Italia ed era davvero interessato alla svolta del Pci. Gorbaciov era nuovo e in quanto tale suscitò nel suo Paese attese e speranze che né la situazione né probabilmente l’acume politico dell’uomo permettevano di realizzare davvero. Come politico Gorbaciov di errori ne commise parecchi: esordì con una campagna proibizionista dura contro il consumo di vodka, già avviata con metodi Kgb da Andropov, che mise al tappeto un’economia già agonizzante e gli inimicò subito la popolazione. Provò a forzare sulla produzione con metodi quasi bellici e fallì miseramente l’obiettivo.

Quando scelse di aprire a spiragli di iniziativa privata lo fece riproponendo la Nep degli anni 20, come se nel frattempo non fossero passati sei decenni e passa e fu un altro scacco. Forse la sconfitta della sua scommessa era già scritta quando scelse di giocarla, ma di certo merita che sulla sua lapide campeggi la scritta che, intervistato dal regista Werner Herzog, disse che gli sarebbe piaciuta più di ogni altra: “We Tried”. Ci abbiamo provato. David Romoli

La morte dell'ex leader Urss. “Il mio incontro con Gorbaciov: da Craxi e Andreotti all’amicizia con Berlinguer. La sua perestroika sfruttata dall’Occidente”, intervista a Gianni Cervetti. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'1 Settembre 2022 

Gianni Cervetti, una storia nel Pci e del Pci, l’Unione Sovietica l’ha conosciuta e frequentata come pochissimi altri in Italia. Nel suo libro Il compagno del secolo scorso, ha raccontato gli anni della sua formazione, assieme alla moglie Franchina, compagna di una vita recentemente scomparsa, di studente nella Russia di Chruščëv. “Cervetti – scrive Siegmund Ginzberg in un bell’articolo su Il Foglio – è uno che di Unione Sovietica e di Russia ne sa qualcosa… È l’uomo che Enrico Berlinguer aveva incaricato di recidere ogni cordone ombelicale con l’Urss. Di mettere fine agli imbarazzanti finanziamenti, in qualsiasi forma. L’ha raccontato negli anni Novanta senza alcuna reticenza, per filo e per segno nel suo L’oro di Mosca”. Sul filo della memoria, che l’età avanzata non ha minimamente scalfito, intrecciando analisi e ricordi personali, Cervetti racconta a Il Riformista il “suo” Michail Sergeevič Gorbačëv

Cosa ha rappresentato Gorbačëv per il mondo, per l’Unione Sovietica e per il Partito comunista italiano?

Per il mondo ha rappresentato l’uomo della pace. Per l’Unione Sovietica, di conseguenza, ha rappresentato un innovatore delle vecchie politiche e anche delle strutture. Per il Pci è stato un uomo dell’apertura e della comprensione, innanzitutto verso le politiche berlingueriane.

Gorbačëv l’innovatore. Il leader che pensava di poter riformare il socialismo reale. Era un illuso?

No, è stato un combattente. Un combattente che si dovette scontrare con resistenze potenti e radicate, in primis quelle interne ma anche di carattere internazionale. La sua perestroika fu letta in Occidente come un segno di debolezza, come l’ammissione di una crisi dell’impero sovietico su cui bisognava agire per vincere definitivamente la Guerra fredda. Fu questo l’approccio di Reagan e della Thatcher. Continuo a credere, con gli occhi dell’oggi, che quell’approccio punitivo ha contribuito a sedimentare quella volontà di rivalsa antioccidentale da parte della Russia su cui continua a far leva Putin per mantenere un consenso interno.

Scavando nel tempo e dal ricco cassetto dei suoi ricordi personali. Quali cose le sono rimaste più impresse nei suoi tanti incontri con Gorbačëv?

I ricordi sono tanti, e tutti indelebili nella mia mente. Ricordo l’incontro che ebbi con lui nel maggio del 1982 quando era stato appena eletto Segretario generale del Pcus. Qualcuno ha detto che avevamo frequentato assieme la stessa Università. Ma questo non è del tutto esatto, perché l’anno in cui lui terminò l’università di Mosca io la cominciai. Eravamo nello stesso edificio. La prima volta che lo incontrai fu nel 1972 alla Festa de l’Unità di Torino. Lui era stato invitato, assieme a Raisa Gorbačëva, la sua splendida moglie e ad un altro gruppo di segretari, dal Pci per una vacanza in Italia. Lui a quel tempo era Segretario della sua regione, quella di Stavropol’, dove aveva mosso i primi passi da uomo politico. Era stato in Sicilia, a Terrasini. Prima di ripartire per Mosca, si fermò a Torino alla Festa de l’Unità. Io andai lì per incontrare Berlinguer. Incontrai Enrico e anche Gorbačëv. Si dice che la prima volta non la si scorda mai. Beh, in quel caso fu così. Parlammo per qualche minuto, e non credo di esagerare nel dire che si stabilì un feeling di simpatia umana tra di noi. In seguito lo incontrai a Mosca appena dopo la sua elezione al vertice del Pcus.

Perché si recò a Mosca?

Io ero allora presidente del Gruppo parlamentare multinazionale in Europa. Andai a Mosca perché avevo avuto sentore che qualcosa stava cambiando. Una mattina di maggio, era sabato, ricevetti in albergo una telefonata dal suo segretario, Aleksandrov-Agentov, il quale mi disse “se sei d’accordo Gorbačëv vorrebbe incontrarti. Ti prega di venire qui alle 11”. Ovviamente io gli dissi di sì. Ero a Mosca con il presidente del gruppo comunista al Parlamento europeo, Angelo Oliva. Il giorno prima, Gorbačëv aveva fatto un discorso nell’allora Leningrado, in cui aveva usato, per la prima volta, la parola perestroika. E io leggendo i giornali di quella mattina trovai questa parola. A un certo punto del nostro incontro, gli chiesi cosa volesse esattamente dire con quel termine.

E lui?

Con parole abbondanti cercò di spiegarmelo. E poi mi disse che una settimana dopo avrebbe incontrato Craxi e Andreotti che andavano a Mosca in quanto l’Italia era presidente di turno dell’allora Comunità Europea. Mi chiese cosa avrebbe dovuto dire loro. Io che fino a quel momento gli avevo raccontato che noi eravamo autonomi etc., ebbi una esitazione nel rispondergli. C’è una parola russa, edinizza, che significa unione, unità. Io gli dissi che se Craxi, a quel tempo presidente del Consiglio, e Andreotti, ministro degli Esteri, si fossero presentati animati con spirito di edinizza, sarebbe stato importante che l’Urss avesse risposto con lo stesso spirito costruttivo. Lui convenne in questo. Mi ricordo che si rivolse al suo segretario, che partecipava al nostro colloquio, Aleksandrov-Agentov, che era un uomo di grande cultura, e conosceva parecchie lingue, ma era anche una persona molto rigida. Gorbačëv gli disse: “annota, annota questa frase”. Frase che poi utilizzò a Parigi, qualche settimana dopo, quando tenne un importante discorso all’Assemblea Nazionale francese. E a Craxi e Andreotti disse la stessa cosa. Poi io tornai in Italia dove la cosa non fu accolta tanto bene. Ricordo che mi telefonò Altiero Spinelli che mi disse ma cosa sei andato a fare a Mosca, quelli non cambieranno mai. Io gli risposi che mi sembrava di aver sentito toni diversi da quelli di prima. E lui tagliò corto dicendomi, pressappoco, che ero un ingenuo. E invece è successo quel che è successo.

Lei che è stato testimone attivo di un’epoca, come racconterebbe i rapporti tra Berlinguer e Gorbačëv?

Furono rapporti veri, tra persone che si stimavano reciprocamente e che avevano maturato, ognuno con il proprio carattere, sentimenti di amicizia personale, di simpatia umana. Stima e amicizia. Tanto che Gorbačëv volle partecipare ai funerali di Berlinguer. Volle venire di persona, cosa che non era mai successa per nessun Segretario. Ricordo quel giorno e ricordo la commozione sincera, il dolore vero, personale, di Gorbačëv.

Sempre sul filo dei ricordi personali. Lei in precedenza ha fatto riferimento al suo primo incontro con il futuro Segretario generale del Pcus, nel 1972 alla Festa de l’Unità di Torino. Ad accompagnare Gorbačëv c’era la moglie Raisa, compagna di una vita. Cosa le è rimasto impresso di quel rapporto e quanto Raisa ha pesato nella vita politica e di statista di Michail Sergeevič?

Ha pesato molto, fin dagli anni della loro gioventù. Erano molto legati. Quando lei parlava, lui la seguiva sempre con grande attenzione. Una volta, proprio qui a Milano, in un’assemblea molto partecipata e animata, alla quale partecipavano Gorbačëv e Raisa, le domande rivolte a Raisa erano così a raffica da impedirle di completare il suo discorso. A un certo punto lui disse: fatele finire quel che sta dicendo. Mi colpì lo sguardo e il sorriso tra i due. Il loro era un rapporto di reciproca protezione, se posso dire di complicità sentimentale e intellettuale. Un rapporto durato una vita. Per Gorbačëv la scomparsa di Raisa fu un colpo tremendo, dal quale non si riprese mai completamente.

In una nostra precedente conversazione, lei affermò che nella storia della Russia, ancor prima che s’instaurasse l’Unione Sovietica, ci sono tre periodi nei quali le cose potevano svilupparsi in senso democratico. E uno di questi fu nella breve stagione di Gorbačëv. Il fatto che quel tentativo non andò a buon esito, significa che il socialismo reale è irriformabile?

Alla luce degli avvenimenti che si sono susseguiti, si deve rispondere di sì. Tuttavia io credo che in quel fallimento c’è anche la responsabilità degli uomini che governavano in Occidente, negli Stati Uniti come in Europa. C’è stata una vista corta.

Cosa è rimasto, se è rimasto qualcosa, della Russia immaginata, se non realizzata, da Gorbačëv, nella Russia di Putin?

Nella Russia attuale di Putin non è rimasto nulla della Russia immaginata da Gorbačëv. Quella di Putin è una Russia che guarda al futuro con gli occhi di un passato che ha le sue radici storiche e identitarie nella Russia pre-sovietica, nella Russia imperiale, zarista. Certamente il suo riferimento non è mai stato Gorbačëv, semmai Pietro il Grande.

Gorbačëv può essere considerato un “Grande della storia”?

Io penso di sì. Lui è stato alla testa di un tentativo di cambiare i rapporti nel mondo e di cambiare la posizione del suo Paese. Lui era sinceramente convinto che potesse avvenire una rivoluzione democratica. Non c’è riuscito, ma ha combattuto per questo. La battaglia di una vita. Una vita ben spesa. 

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Come non vi invidio. L’estate dei miei nove anni e le canzoni stupende di quando nessuno sapeva chi fosse Gorbaciov. Guia Soncini su L'Inkiesta l'1 Settembre 2022.

Anni prima che l’ex leader sovietico andasse a Sanremo, gli italiani andavano in piazza ad ascoltare i cantanti di Vota la voce (quando non era il Festivalbar) e all’arena estiva per rivedere i film già usciti. Poi è arrivato l’autunno ed è morto Breznev

E se invece di parlare di Gorbaciov al Sanremo del 1999 (vinto dall’unica canzone brutta di Anna Oxa), se invece di parlare di Gorbaciov eletto segretario del Pcus tre mesi prima che Sting lamentasse che in America e in Europa c’era un crescente senso di isteria, se invece andassi fuori tema come facevo sempre a scuola e parlassi dell’estate di quarant’anni fa?

L’estate dei miei nove anni nessuno sapeva chi fosse Gorbaciov. Il segretario del Pcus era Breznev, quello del Pci era Berlinguer, il problema della guerra fredda non me lo sarei posto per altri tre anni, quando Sting incise Russians e passammo l’estate a canticchiare che speravamo anche i russi volessero bene ai loro figli.

L’estate dei miei nove anni avevo una tuta rosa, di Fiorucci, con gli angeli sulla felpa. Le estati italiane non erano ancora climaticamente simili a quelle di Bangkok: si poteva persino indossare la tuta, di sera.

L’estate dei miei nove anni nelle arene si andava a vedere Innamorato pazzo, che l’inverno aveva incassato uno sfracello, e non ci eravamo ancora stancati di rivederlo, e – siccome lo streaming non c’era neppure nelle idee più spericolate degli autori di fantascienza – se un film ti piaceva lo vedevi in prima visione, e poi in seconda, e poi al parrocchiale, e poi all’arena estiva.

(In Innamorato pazzo Adriano Celentano era un autista d’autobus che rapiva Ornella Muti per non lasciarle sposare un altro tizio. Oggi verrebbe accusato d’essere un apologo dello stalking).

L’estate dei miei nove anni alla sinistra non faceva schifo chi si divertiva, quella dinamica così favolosamente illustrata da Dov’è Mario?, e quindi, benché Bologna fosse governata dal Pci, la me novenne e la sua tuta di Fiorucci poterono andare in piazza Maggiore a saltare mentre Miguel Bosé cantava Bravi ragazzi. In playback, naturalmente, perché neanche le spalline imbottite sono entelechia degli anni Ottanta quanto il playback.

La manifestazione alla quale la me novenne si strappava i capelli per Miguel Bosé (le signore della mia età non hanno avuto neanche un sex symbol eterosessuale: che impressione volete che ci faccia l’identità di genere), quel raduno di piazza lì si chiamava Vota la voce.

Serviva a chi non era stato così fortunato da essere vicino a qualche tappa del Festivalbar. Certo, al Festivalbar s’impegnavano di più, e Loredana Berté cantava vestita da sposa, ma comunque veniva anche da noi a fare Non sono una signora, e non c’è davvero molto di più che una bambina in tuta rosa possa chiedere alla vita che essere contemporanea d’un disco stupendissimo del quale non capisce una parola: ci avrei messo trent’anni a rendermi conto che quella prima della vita balera era una carretera, mica una carne intera.

Era un’opportunità, mica un limite: la tensione verso quel che non è per te è l’unica cosa che ti faccia crescere, mica quest’epoca infelicitata dalla Pixar in cui qualunque produzione cinematografica o musicale o sartoriale è a misura di minorenne, e sono gli adulti ad adattarsi.

Nei Festivalbar e nei Vota la voce dell’estate dei miei nove anni c’era roba che ancora oggi se la fanno nella serata delle cover di Sanremo saltiamo tutti sui divani, e io mica lo so se questa estate dei miei quarantanove anni stia producendo altrettante indimenticabilità. Nelle piazze dove le bambine in Fiorucci si strappavano i capelli c’era Claudio Baglioni che cantava Avrai e Ron che cantava Anima, c’erano Al Bano e Romina che facevano Felicità e Marco Ferradini che faceva Teorema, e la Domenica bestiale di Concato, e Un’estate al mare di Giuni Russo: era l’estate migliore per avere nove anni.

Chissà se oggi Vota la voce e il Festivalbar sarebbero quella macchia di Rorschach che è il JovaBeachParty: una cosa che la guardi e se mi dici cosa ci vedi dentro io ti dico se sei uno con cui valga la pena fare conversazione. Chissà se il playback consuma più elettricità che cantare dal vivo e quindi ci sarebbero polemiche su quello, o su cos’altro. Beh, su Teorema, naturalmente: «prendi una donna, trattala male» varrebbe qualche decina di editoriali indignati.

Chissà se oggi un Lucio Dalla regalerebbe a un Ron un capolavoro come Anima o, come l’aristocratica toscana di Sabina Guzzanti, si baloccherebbe un po’ con l’idea d’essere generoso, ma poi «si tenne». Chissà se oggi una novenne potrebbe appassionarsi al disco in cui c’era Non sono una signora, disco la cui più bella canzone a un certo punto diceva «giusto ai piedi del letto, un giornale: la questione d’Algeria», che la me novenne sapeva a stento che da quelle parti c’era un Valtur, perché in casa giravano dei dépliant. Chissà quanti autori di fantascienza ci vogliono, oggi, per concepire un disco in cui non solo c’è Non sono una signora, ma non è neppure la canzone più bella del disco. Chissà quante carretere ci stiamo perdendo, coi parolieri analfabeti che hanno sostituito Fossati, e quanti Festivalbar in abito da sposa stiamo delegando agli sponsor, con la dittatura degli stylist.

Dicono che il più preoccupante segno di vecchiaia sia sospirare «ah, ai miei tempi». Ma a me al massimo viene da sospirare «poveri voi, come non v’invidio».

L’estate dei miei nove anni stava tra i due Sanremo in cui Vasco Rossi andò a dimostrare che Sanremo è roba per rockstar solo se già affermate. (L’inverno dei miei ventisei anni a Sanremo sarebbe arrivato Gorbaciov, a ribadire il concetto). Poi arrivò l’autunno, morì Breznev, al cinema uscì E.T., e una lavatrice sbagliata mi rovinò la tuta di Fiorucci.

"Uomini liberi in lutto. Se ne va un campione della democrazia". Il ricordo di Silvio Berlusconi per la scomparsa di Mikhail Gorbaciov. Numerosi gli incontri tra l'ultimo leader Urss e il Cav per avvicinare la Russia all'Occidente. Silvio Berlusconi il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Tutti gli uomini liberi stasera sono in lutto, se n'è andato un campione della democrazia. Mikhail Gorbaciov è un uomo che ha cambiato la storia del 20° secolo. Pur essendo cresciuto all'interno dell'apparato comunista ed avendone raggiunto i vertici, ha avuto la lucidità, l'onestà intellettuale e il coraggio politico di porre fine al sistema totalitario sovietico e di scegliere la strada della democrazia e del rispetto della sovranità dei popoli. 

Si è illuso che il sistema comunista fosse riformabile dall'interno, ma ha saputo accettare la volontà dei popoli che ha portato al crollo all'Unione Sovietica. Grazie a lui e a Ronald Reagan si è conclusa la divisione del mondo in blocchi, e si è avviato un processo di avvicinamento della Russia non più comunista all'Occidente. Un processo al quale anch'io ho collaborato da presidente del Consiglio italiano e che si è drammaticamente interrotto negli ultimi anni. 

Anche dopo aver lasciato il potere Gorbaciov è rimasto un osservatore lucido e autorevole della politica mondiale. Ricordo con lui numerosi incontri, occasioni per scambi di vedute di altissimo livello e per me di straordinario interesse. La sua lungimiranza e la sua serenità di giudizio ci mancheranno soprattutto in questo difficile momento della politica internazionale. 

La politica unita: "Ha fatto la Storia". Le reazioni da Salvini a Gualtieri. Redazione il 31 Agosto 2022 su Il Giornale.

Da destra a sinistra, la morte di Mikhail Gorbaciov non lascia indifferente la politica italiana, alle prese con la campagna elettorale. Non solo Silvio Berlusconi. Con lui anche gli altri leader del centrodestra, compreso il capo della Lega, Matteo Salvini commentano: «Ci lascia un uomo che ha lasciato un segno importante nel secolo scorso. Buon viaggio, Gorbaciov». Per Mario Lupi di Noi Moderati: «Mikhail Gorbaciov è ora nella storia della libertà dei popoli. La sua politica di Glasnost e Perestrojka, trasparenza e cambiamento, ha liberato dal giogo comunista centinaia di milioni di persone. Cresciuto nel solco dell'ideologia comunista è stato un uomo libero e coraggioso, capace di smantellare, con il suo amico Reagan, la cortina di ferro, che entra di diritto nella storia contemporanea. Il mondo libero gli deve molto, anche l'Italia. Il suo riformismo resta un esempio per tutti».

Commenta anche il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri: «Con #Gorbaciov se ne va un grande protagonista del '900, leader illuminato e coraggioso che ha saputo dialogare con l'Occidente, mettendo al centro la pace e contribuendo alla fine della guerra fredda. Un uomo che ha saputo coltivare la speranza». Per Stefania Craxi, senatrice di Forza Italia (FI) e presidente della Commissione esteri a Palazzo Madama: «Gorbaciov è stata una delle personalità più significative del secondo Novecento, l'uomo che, con il suo tentativo riformatore, ha portato a maturazione il processo dissolutivo dell'universo sovietico. Probabilmente, egli avrebbe immaginato una Russia saldamente integrata nelle dinamiche del contesto globale, in rapporto positivo e costruttivo con l'Occidente e con l'Europa, e in chiave diversa dall'approccio regressivo che segna questo tempo storico». Caterina Bini, sottosegretaria di Stato per i rapporti con il Parlamento e senatrice Pd, dà l'addio al «padre della perestroika, ultimo leader dell'Urss, artefice, con la sua politica, della fine della guerra fredda che fu, anche per questo, insignito nel 1990 del Nobel per la pace».

Johnson: "Gorbaciov un esempio, diverso da Putin". ANSA il 31 Agosto 2022.

Il premier britannico Boris Johnson ha reso omaggio a Mikhail Gorbaciov - ultimo leader sovietico morto ieri in Russia all'età di 91 anni - mettendone in contrasto la figura con quella dell'attuale presidente russo Vladimir Putin, sullo sfondo della guerra in corso.

"Sono rattristato - ha scritto Johnson su Twitter - di apprendere della sua morte. Ho sempre ammirato il coraggio e l'integrità con cui portò la Guerra fredda a una conclusione pacifica. In un tempo segnato dall'aggressione di Putin all'Ucraina, il suo impegno senza risparmio per aprire la società sovietica resta un esempio per tutti noi".

"Un uomo di Stato unico, che ha cambiato il corso della storia": così il segretario generale dell'Onu, Antonio Guterres, ha ricordato invece Gorbaciov. (ANSA).

Marco Rizzo festeggia la morte di Gorbaciov: «Era dal 1991 che aspettavo di brindare». Redazione online su Il Corriere della Sera il 30 Agosto 2022.

Il segretario generale del Partito Comunista ha commentato la notizia con un post su Twitter. 

«Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…» è con queste parole che l’ex deputato Marco Rizzo, segretario generale del Partito comunista, ha accolto la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov a 91 anni.

Rizzo, tra i fondatori di Rifondazione Comunista e Italia sovrana e popolare, segretario generale del Partito Comunista dal 2009 , ricorda il giorno in cui, da presidente dell’Unione sovietica, Gorbaciov segnò la fine dell’Urss . La dissoluzione fu resa definitiva nella notte tra il 31 dicembre 1991 e il primo gennaio 1992.

Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo?

Gorbaciov, padre della perestrojka e Premio Nobel per la Pace è morto nella notte del 30 agosto. Da anni ormai viveva lontano dai riflettori a causa di problemi di salute. Fu lui che, da ultimo segretario generale del Partito comunista sovietica, pose fine alla Guerra fredda con gli Stati Uniti, senza evitare però il collasso dell’Urss.

Brindando alla morte. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 31 agosto 2022.

Marco Rizzo è uomo d’onore (oltre che tifosissimo del Toro, quindi di animo nobile per definizione), però questa pagliacciata della «provocazione dadaista» su Gorbaciov, come la chiama lui, se la poteva risparmiare. Nel dibattito pubblico ridotto a un ruttodromo e solcato da odiatori e infelici di ogni risma, resisteva un ultimo tabù: il silenzio davanti alla scomparsa di qualcuno che ti sta sonoramente sulle scatole. Rizzo è il primo personaggio pubblico ad avere violato questa clausola minima di umanità. Nessuno pretendeva ipocrite beatificazioni a tempo scaduto, solo un dignitoso arrestarsi di fronte al mistero della morte. Rizzo poteva persino insinuare a cadavere ancora caldo che Gorbaciov fosse stato un agente della Cia o un utile idiota al soldo delle multinazionali, ma nel mondo in cui mi piacerebbe vivere non avrebbe mai detto quello che invece ha detto per pura smania di visibilità, e cioè di avere tenuto idealmente in fresco una bottiglia di bollicine per oltre trent’anni, in attesa del luttuoso annuncio che gli avrebbe dato l’occasione di stapparla. Anche perché Rizzo non festeggerebbe mai la morte di un militante di estrema destra (con alcuni di loro si è appena alleato alle elezioni). Come spesso capita ai massimalisti di sinistra, da Robespierre in giù, il suo odio politico lo riserva più volentieri a quelli della sua stessa parte che, per il fatto stesso di preferire le riforme graduali alla rivoluzione permanente, non considera avversari ma traditori. 

Marco Rizzo brinda per la morte di Mikhail Gorbaciov su Twitter: "Dal '91 aspettavo questo momento". Migliaia le reazioni. La Repubblica il 31 Agosto 2022.

"Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettavo di stappare la migliore bottiglia che avevo". É così che Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista ha commentato la notizia della morte dell'ex presidente dell'Urss Mikhail Gorbaciov che mise fine alla guerra fredda. Lo fa con un post su Twitter, sommerso di reazioni.

Rizzo cita la data che segnò la fine dell'Unione Sovietica e pubblica la foto di un tappo che salta da una bottiglia a festeggiare l'occasione. Oltre 2mila i commenti arrivati in poche ore, molti dei quali per criticare l'uscita di Rizzo candidato alle elezioni con la sua lista “Italia sovrana e popolare”.

Gorbaciov è morto, Marco Rizzo (Partito comunista) brinda: “Dal 26 dicembre ‘91 aspetto di stappare la mia migliore bottiglia”. La Stampa il 31 Agosto 2022.

«Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…». Fa discutere il tweet di Marco Rizzo che, morto l'ex presidente dell'Urss Mikhail Gorbaciov, posta una immagine di una bottiglia di spumante ricordando la data della dissoluzione dell'Unione sovietica, appunto il 26 dicembre 1991, quando il Soviet delle Repubbliche del Soviet Supremo ratificò le decisioni di Gorbaciov che si era dimesso da presidente il giorno prima, e dissolse formalmente l'Urss. Energica la reazione degli utenti, con decine di tweet di risposta contro l'uscita del leader del Partito Comunista, candidato alla Camera con Italia Sovrana e Popolare.

Marco Rizzo: "La bottiglia stappata per Gorbaciov? Non ce l'ho, ho voluto solo fare baccano". Matteo Pucciarelli su La Repubblica il 31 Agosto 2022.

Il segretario del Partito comunista: "Non mi vergogno del tweet, queste uscite servono per vedere le reazioni"

Il segretario del Partito comunista Marco Rizzo, oggi impegnato nel cartello elettorale Italia sovrana e popolare, l'ha rifatta grossa con l'ormai celebre foto dello champagne stappato per festeggiare la morte di Michail Gorbaciov.

Ma la bottiglia alla fine ce l'aveva per davvero?

"Ma noooo, era una voluta provocazione!".

Per dire?

"Gorbaciov è un'icona della globalizzazione, del cambiamento di un'epoca, quella che Francis Fukuyama chiamava 'la fine della storia', che poi non era tale.

Gorbaciov è morto, Marco Rizzo (Partito comunista) brinda: “Dal 26 dicembre ‘91 aspetto di stappare la mia migliore bottiglia”. La Stampa il 31 Agosto 2022.

«Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…». Fa discutere il tweet di Marco Rizzo che, morto l'ex presidente dell'Urss Mikhail Gorbaciov, posta una immagine di una bottiglia di spumante ricordando la data della dissoluzione dell'Unione sovietica, appunto il 26 dicembre 1991, quando il Soviet delle Repubbliche del Soviet Supremo ratificò le decisioni di Gorbaciov che si era dimesso da presidente il giorno prima, e dissolse formalmente l'Urss. Energica la reazione degli utenti, con decine di tweet di risposta contro l'uscita del leader del Partito Comunista, candidato alla Camera con Italia Sovrana e Popolare.

Morto Mikhail Gorbaciov, Marco Rizzo stappa lo champagne: il comunista travolto sui social. Il Tempo il 31 agosto 2022.

La morte di Mikhail Gorbaciov è arrivata nella serata di martedì 30 agosto e ha colpito molti. Comunquee la si pensi l'ultimo presidente dell'Unione sovietica è stato un vero protagonista del Novecento, che ha traghettato la Russia verso il disgelo. Ma c'è chi attendeva il cadavere dell'ultimo capo del Pcus passare sul fiume della storia da parecchi anni. Come Marco Rizzo, segretario del Partito Comunista candidato alle elezioni del 25 settembre con Italia Sovrana e Popolare, che nell'apprendere la notizia della morte a 91 di Gorbaciov ha esultato postando la foto di bottiglia di champagne: "Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo....", scrive Rizzo senza citare Gorbaciov e in riferimento al giorno in cui il Soviet supremo ratificò le decisioni del presidente dimissionario e dissolse formalmente l’Urss. 

"Comunisti con lo champagne", "Scusati, fai una figura migliore" scrive il giornalista Pablo Trincia, l'attore Luca Bizzarri twitta: "Ognuno, nella vita, ha i parenti che ha, gli amici che merita e le occasioni per stappare la migliore bottiglia che la miseria emotiva gli regala". Anche il direttore della Stampa Massimo Giannini lo critica, citando I Miserabili di Victor Hugo. Tanti i commenti negativi: "Pensa se un politico può compiacersi per la morte di un uomo. In ogni caso Gorbaciov è morto, un giorno, come chiunque altro, morirai pure tu. E l’URSS non tornerà comunque mai più. Sfigato", "Tanto l'Unione sovietica non te la ridanno", si legge sotto al post insieme anche a qualche raro commento a favore di Rizzo. 

Travolto dai tweet, Rizzo parla di trovata dadaista e attacca i "giornaloni". "Una provocazione dadaista e l’ipocrisia. Ci sono persone che muoiono per guerra, per fame, per infortuni, per vaccini. Ogni sacro giorno. Muore uno della banda dei globalizzatori. Metti una bottiglia di spumante, senza esplicitare un nome. Si scatena l’inferno. Di chi? Dei giornaloni", scrive su Twitter. 

La Sinistra litiga pure sulla morte di Gorbaciov. Lite tra comunisti. Pietro De Leo su Il Tempo l'01 settembre 2022

Fermi tutti, fermiamo la campagna elettorale. Per il gas? Ma no, perché c'è il congresso dei comunisti. Sì. Virtualmente attorno alle spoglie di Michail Gorbaciov si è innescata l'ennesima fase di autocoscienza che chiama nostalgici, reduci, teorici degli anni che furono alla disamina sulle colpe e il profilo dell'ultimo leader sovietico. E così l'attenzione del web vien subito catturata dal tweet di Marco Rizzo, leader del «Partito Comunista», il quale ben consapevole che un contenuto quanto più è dirompente, tanto più diventa virale, la prende con delicatezza e posta la foto di una bottiglia di champagne con il tappo che salta.  «Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo», scrive l'ex parlamentare. Il riferimento è alla data in cui il Soviet Supremo, a seguito delle dimissioni di Gorbaciov da Presidente, dissolse l'Unione Sovietica.

Una posizione, quella di Rizzo, che ha suscitato qui e là indignazione, e che poi lui, forse un po' in correzione di rotta, ha definito una «provocazione voluta, quasi di tipo dadaista». Tra le critiche, tuttavia, si segnala quella di Maurizio Acerbo, segretario di Rifondazione Comunista. In un lungo testo pubblicato su Facebook, dedica a Rizzo il post scriptum, definendolo «caricatura di "comunista" horror che piace ai salotti che frequenta e gli garantiscono visibilità in tv. Uno che ha sostenuto il governo che bombardava la Serbia e si congratulava con Prodi per l'ingresso nell'Euro, poi No Nato, No euro per fessi che abboccano». Comunque, nel resto del suo commiato.

Acerbo osserva: «L'Occidente si spertica in omaggi ipocriti a Gorbaciov però lo ha tradito con l'espansione della Nato a Est e la serie infinita di guerre con cui gli Stati Uniti hanno affermato il loro dominio unipolare».

Invece difende Marco Rizzo il «suo» senatore uscente, Emanuele Dessì, ex Movimento 5 Stelle, che derubrica il tweet a «regolamento di conti tra noi comunisti». E poi argomenta: «Oggi c'è una guerra che è anche frutto degli errori e della incapacità politica di Gorbaciov, della sua incapacità di affrontare la realtà dell'Unione Sovietica. Gorbaciov ha svenduto i valori del socialismo». E si affida ad una citazione eloquente il «Partito Comunista Italiano» che nel suo profilo Facebook, riporta le parole dell'attuale segretario dei comunisti della federazione russa, Ghennadij Zjuganov: «L'ascesa al potere di Gorbaciov segnò l'inizio della distruzione dell'Unione Sovietica. Col pretesto di Slogan su accelerazione, perestrojka e glasnost, i nuovi governanti iniziarono a distruggere metodicamente tutti i pilastri chiave del sistema socialista, dall'economia all'ideologia. Tale processo culminò nella tragedia del 1991».

All'Adnkronos, invece, Mario Capanna, già deputato e segretario di Democrazia Proletaria, esprime il suo «sentimento di grande dispiacere» per la scomparsa di Gorbaciov, che definisce «personalità di primo piano anche per la coerenza dimostrata. Dopo il crollo dell'Urss Gorbaciov crea una sua fondazione che si batte per i temi ambientali, per il disarmo e contro i cambiamenti climatici. Ha commesso però un errore fondamentale: non la Perestroika, la Glasnost, cose giuste, ma di fidarsi della buona fede, presunta, dell'Occidente».

E poi Fausto Bertinotti. Già Segretario di Rifondazione Comunista e Presidente della Camera, oltreché fine e dotto interprete dei cambiamenti epocali con una chiave di lettura ben precisa, ragiona: «Quella di Gorbaciov è una figura tragica, che ha vissuto in un tempo e con una scelta politico strategica impossibile», ossia la «riforma del sistema del Socialismo reale. Il sistema era irriformabile, come dimostrò poi la sua caduta». Dunque, tra l'irruenza di Rizzo e il ragionamento articolato di Bertinotti, emerge la complessità di un'analisi storica con cui la sinistra non solo comunista in realtà - ancora deve compiutamente fare i conti.  

Omonimo di Marco Rizzo insultato per sbaglio sui social dopo la morte di Gorbaciov. Il Tempo il 31 agosto 2022

Dopo la notizia della morte di Mikhail Gorbaciov, il leader di Italia Sovrana e Popolare, ha postato un tweet in cui brindava dicendo : "Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo...".  

Sui social media è scoppiato il putiferio. Il segretario dei Partito Comunista è stato sommerso da insulti per il suo tweet. Ma il problema è che gli insulti non hanno coinvolto solo lui. Ci è finito in mezzo anche un altro Marco Rizzo. Sui social si presenta come "un giornalista, editor e scrittore" che ha passato una brutta giornata. "Fatemi un favore: se dovete insultare me medesimo, però, mettete un disclaimer, siate chiari e soprattutto vi pregherei di trovare dei buoni motivi (ce ne sono eh)". E ancora: "Però "Marco" è il nome che scelse mia mamma. Non lo cambierei mai, anche se dietro quel nome non c'è nessun motivo poetico o nonno Marco: era un nome breve con cui mi avrebbe sgridato in fretta (e così sarebbe stato). Sempre pragmatici, in casa Rizzo". Fino allo sfogo finale: "Ho quasi nostalgia di quando gli insulti per me erano davvero diretti a me (come quello che tengo nella bio, partorito da un seguace di Fusaro e dello pseudo vignettista di quel mondo, ah che tempi signora mia)" e "In questa giornata folle posso capire chi mi tagga per sbaglio, ma chi viene a insultarmi PROPRIO SOTTO i tweet dove preciso che io NON SONO QUELL'ALTRO fa davvero perdere fiducia nell'umanità". Insomma i social hanno colpito ancora...

E il compagno Rizzo stappa lo champagne tra luoghi comuni e luoghi... comunisti. Il coro di indignazione sulla provocazione "dadaista" ma in fondo sincera. Massimiliano Parente l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

È morto Gorbaciov e ok, moriamo tutti prima o poi, e tra l'altro io sono uno di quelli che spesso, come in questo caso, quando non senti nominare persone da molto tempo, mi stupisco al contrario dicendo «ah, era ancora vivo?». Però ieri è successo un casino, altra indignazione, perché se ogni giorno non ci si indigna per qualcosa i vivi che non sono morti non vivono bene.

È successo, per farvela breve, che Marco Rizzo, il comunista Marco Rizzo, uno dei pochi comunisti rimasti a proclamarsi comunisti, ha twittato (un vero comunista non dovrebbe usare Twitter però) che era contento, e che stappava una bottiglia di champagne (o di quello che era, non so se lo champagne è da comunisti, avrebbe dovuto tagliare un cartone di Tavernello magari), e apriti cielo, anzi apriti social, apriti indignazione, tutti indignati.

A cominciare da Matteo Salvini, perché «quando c'è la morte di mezzo, per me ci sono preghiera e rispetto. Mi spiace che qualcuno riesca a fare polemica anche quando una persona vola in cielo: mi limito a non commentare», e limitandosi a commentare ha commentato. Così migliaia di persone su Twitter. A parte il mio pensiero scientifico sul pregare e volare in cielo (a proposito, la NASA ha rimandato il suo lancio per la Luna, non è più la NASA di una volta), a parte quello che penso di Marco Rizzo e del suo essere comunista, secondo me era l'unica cosa giusta che ha detto Rizzo da quando è Rizzo.

Se non se la fosse rimangiata subito affermando che la sua era solo una provocazione dadaista (come no, l'avevamo tutti scambiato per Marcel Duchamp). Di base c'è il luogo comune, che il luogo comunista aveva smentito, che dei morti non si parla male, ma perché? Anzitutto sono morti, non gliene può fregare di meno a un morto di quello che dici una volta morto, non c'è più. In secondo luogo ci sono morti e morti, non è che quando gli USA hanno sparato un missile in bocca a Al Zawahiri ci siamo indignati (i filoislamici antiamericani magari sì), così come non è che quando morirà Putin io stesso non stapperò una bottiglia (la mia di champagne, non sono comunista). Per quanto mi riguarda se uno odia qualcuno da vivo, non vedo perché non dovrebbe odiarlo da morto.

Io stesso, in trent'anni che faccio lo scrittore, essendomi messo contro tutto l'establishment culturale, ho più nemici che amici: centinaia di autori che ho stroncato, fascisti, comunisti, cattolici, mussulmani, michele murge, e chi più ne ha più ne metta. Quando morirò, per rispetto, mi piacerebbe che stappassero una bottiglia e facessero una festa per essersi liberati di me (tanto restano le mie opere, quelle non riescono a toglierle di mezzo). Anzi, ordino ora dieci casse di Moët & Chandon e ne mando a tutti una in anticipo. Basta che non diciate che sono andato in cielo. Sarò morto e basta.

Le reazioni e l'attacco ai media. Morte Gorbaciov, il brindisi di Marco Rizzo: “Aspettato questo momento, morto uno della banda dei globalizzatori”. Redazione su Il Riformista il 31 Agosto 2022 

C’è chi brinda alla morte di Mikhail Gorbaciov, ultimo presidente dell’Unione Sovietica, è morto all’età di 91 anni dopo una lunga malattia. “Era dal 26 dicembre 1991 che avevo aspettato di stappare la migliore bottiglia che avevo…” scrive sui social Marco Rizzo, segretario generale del Partito Comunista che ha così commentato la notizia della morte dell’ex presidente dell’Urss che mise fine alla guerra fredda.

Rizzo, candidato alle elezioni del 25 settembre con la lista “Italia sovrane e popolare”, ha pubblicato la foto di una bottiglia appena stappata. Il suo post ha generato migliaia di reazioni, molte delle quali critiche. “Temo di aver capito che si sta brindando alla morte di un uomo o mi sbaglio?” scrive una donna.

C’è chi critica anche l’italiano: “Hai scritto un tweet immondo nella forma (cura l’italiano, diamine!) ma, soprattutto, nella sostanza”.

Lo stesso Rizzo, in un tweet successivo, si scatena ulteriormente, attaccando anche i media e provando a giustificarsi perché non ha esplicitato il nome: “Una provocazione dadaista e l’ipocrisia. Ci sono persone che muoiono per guerra, per fame, per infortuni, per vaccini. Ogni sacro giorno. Muore uno della banda dei globalizzatori. Metti una bottiglia di spumante, senza esplicitare un nome. Si scatena l’inferno.Di chi? Dei giornaloni”. 

Anna Zafesova per “La Stampa” il 2 settembre 2022.

Vladimir Putin che guarda, freddo e scettico, la salma di Mikhail Gorbaciov, per poi farsi il segno della croce davanti alla bara di un ateo. Un'immagine che entra direttamente nella Storia, in quella polemica muta ma molto evidente tra il leader più popolare a livello internazionale che il Cremlino abbia mai avuto, e quello più ostracizzato. 

Il primo che aveva cercato di riportare il suo Paese in Europa, il secondo che si dichiara in guerra con «l'Occidente collettivo», mentre sta restaurando una Unione Sovietica 2.0 che si ispira al 1984, minaccia atomica inclusa. In una giravolta paradossale della storia, Gorbaciov, che ha iniziato la sua carriera politica come dittatore, avrà sabato prossimo a Mosca un funerale quasi da dissidente, e il presidente russo infatti ha scelto di non parteciparvi per un «conflitto di impegni nel calendario», evitando così di scontrarsi con quello che potrebbe diventare una rara occasione di manifestazione di protesta da parte di intellettuali e giovani.

Putin ha preferito un algido commiato privato, con un mazzo di rose rosse depositato accanto al feretro, per poi volare a Kaliningrad a celebrare il primo giorno di lezioni nella scuola russa. 

Il capo del Cremlino ha deciso di dare inizio in persona alle nuove lezioni propagandistiche diventate obbligatorie, le «conversazioni sulle cose importanti» che ogni settimana dovranno indottrinare, fin dalle elementari, i bambini russi.

E per farlo ha scelto l'exclave russa nel Baltico, dalla quale la Russia oggi punta i missili sull'Europa: una regione bottino di guerra, un territorio militarizzato dal quale rivendicare la visione neoimperiale del Cremlino, e oggi anche il punto più a Ovest che il presidente russo riesce a visitare. 

Agli scolari della ex Koenigsberg prussiana Putin ha raccontato la sua visione del mondo e del ruolo della Russia, ripetendo una lezione di quella pseudostoria che è diventata ormai la giustificazione dell'invasione russa: «l'Ucraina non è mai stata uno Stato», «a Kiev c'è un regime golpista» e soprattutto l'incredibile affermazione «gli ucraini credono che noi li abbiamo aggrediti, ma non è vero».

 A sentire Putin, l'esercito russo è andato in Ucraina per «far finire la guerra e difendere la Russia», oltre a portare ai bambini ucraini - che «non sanno nemmeno che siamo stati tutti insieme nell'Unione Sovietica» - la storia patria secondo la visione russa. 

Un discorso che diventa ancora più inquietante nel giorno in cui le scuole iniziano anche in Ucraina, in buona parte con la didattica a distanza perché milioni di bambini sono sfollati e centinaia di istituti sono stati distrutti dalle cannonate e dalle bombe.

Zelensky è andato a sedersi ai banchi delle elementari a Irpin, uno dei sobborghi di Kiev più devastati dall'invasione russa. Facendosi accompagnare come testimonial dall'idolo dei bambini, il famoso cagnetto-sminatore Patron - al quale ieri le poste ucraine hanno dedicato un francobollo che sta già andando a ruba - il presidente ucraino ha ricordato agli allievi delle scuole la prima lezione da imparare, quella di precipitarsi nei rifugi antiaerei al primo suono della sirena.

Ma si è rivolto soprattutto ai bambini ucraini nei territori occupati, costretti ieri a varcare la soglia delle scuole precettate da insegnanti venuti dalla Russia, dove non si insegna più ucraino e i libri di storia e letteratura russi cancellano l'indipendenza dell'Ucraina. Le autorità militari minacciano i genitori che non vogliono mandare i bambini nella scuola russa di togliere loro i figli, e i ragazzi sono costretti ad ascoltare in silenzio la propaganda. Il dilemma scolastico riguarda ora anche molti genitori russi: le "conversazioni sulle cose importanti" sono da ieri obbligatorie, come l'alzabandiera e il canto dell'inno nazionale, spesso in uniformi paramilitari.

Se finora molti genitori erano riusciti a evitare le manifestazioni di zelo nazionalista con varie scuse, ora diventano parte della didattica, in attesa che ogni istituto si doti di uno speciale vicepreside addetto alla «educazione patriottica» e di manuali unici imposti dal governo.

Le nuove linee guida raccomandano di insegnare già a 8 anni «quanto è bello morire per la patria», probabilmente nella speranza di educare una generazione di soldati più motivati di quelli che oggi si rifiutano in massa di andare al fronte ucraino. Un sondaggio dell'indipendente Levada-Zentr conferma che i giovani sono i più contrari alla guerra: tra gli under 39, il 54% ha il coraggio di dichiarare che vorrebbe un negoziato di pace, contro il 37% che chiedono di proseguire i combattimenti, una percentuale che negli over 55 è ribaltata.

CAPIRE LA STORIA ATTRAVERSO PICCOLI FATTI DI 30 ANNI FA. Il matematico ungherese che sapeva perché i russi non amavano Gorbaciov. GIORGIO MELETTI su Il Domani il 02 settembre 2022

Perché i russi non hanno mai amato Mikhail Gorbaciov? Gli occidentali non ne capiscono le ragioni perché non guardano l'universo mentale russo con le lenti giuste, che sono di fabbricazione russa.

Un russo che aveva 18 anni nel 1917, l'anno della rivoluzione di Lenin, nel 1989 ne aveva 90. E non è che prima, sotto lo zar, ci fosse un regime liberale. Per i russi il comunismo non è stato una parentesi, è il mondo in cui sono nati e cresciuti.

Gorbaciov ha smontato tutto ma loro sulla bicicletta liberale non c’erano andati nemmeno da piccoli. E lui non ha indicato al suo popolo "capitalisticamente svantaggiato" un nuovo modello. L’hanno fatto fuori e la strada l'hanno indicata Eltsin e Putin.

Alberto Zanconato per l’ANSA il 3 settembre 2022.

La lunga fila per entrare nella camera ardente si forma al lato del teatro Bolshoi, vira a sinistra e passa sotto un busto di Lenin. Poi scende lungo la Via Bolshaya Dmitrovka, in fondo alla quale, sul palazzo che fu sede della Terza Internazionale, c'è una lapide intitolata a Gramsci. Infine entra nella Casa dei Sindacati. 

L'ultimo omaggio a Mikhail Gorbaciov assomiglia a un pellegrinaggio in ricordo del passato sovietico, che viene sepolto con il suo ultimo leader. A dargli l'estremo saluto alcune migliaia di persone. Poche rispetto al ruolo storico del personaggio e all'impatto che ha avuto sul suo Paese e sul mondo.

L'assente più illustre in questo 'mezzo' funerale di Stato è Vladimir Putin che due giorni fa era passato all'ospedale per deporre un mazzo di rose rosse accanto alla bara del defunto prima di partire per un viaggio a Kaliningrad. Ora è tornato, ma come aveva preannunciato non si fa vedere, limitandosi a inviare una corona di fiori.

Una conferma del disagio che la Russia di oggi, intenta ad inseguire la potenza del passato, prova per l'uomo in cui vede colui che ha fatto crollare sì un regime dispotico, ma ha anche aperto le porte al caos degli anni '90 e inferto un colpo quasi letale alla grandezza e all'orgoglio nazionali. 

E' invece presente l'ex presidente Dmitry Medvedev, ora vice capo del Consiglio di sicurezza nazionale. Così come sono presenti diversi personaggi dello spettacolo tra cui Alla Pugachiova, una delle più famose cantanti russe. Unico leader europeo a recarsi alla camera ardente è stato il primo ministro ungherese Viktor Orban, in linea con la posizione dissidente più volte espressa rispetto alla Ue sui rapporti con Mosca.

Ma nessun incontro è in programma con Putin, ha fatto sapere il Cremlino. Gli altri Paesi dell'Unione hanno inviato gli ambasciatori, così come la Gran Bretagna e gli Usa. Per l'Italia era presente l'incaricato d'affari Guido De Sanctis, che si è intrattenuto brevemente con l'unica figlia di Gorbaciov, Irina. Quest'ultima ha risposto con un "grazie", detto in italiano, alle condoglianze del diplomatico. Alla cerimonia ha presenziato un picchetto d'onore militare.

Due soldati in alta uniforme rossa e blu, sull'attenti ai lati di una fotografia del defunto, accoglievano i cittadini che entravano nella Casa dei Sindacati. Poi un lungo percorso nelle sale del palazzo decorate con stucchi color verde pallido. 

Infine, l'entrata nella grande Sala delle Colonne. La stessa dove furono resi gli ultimi onori a tutti i leader sovietici a partire da Stalin, eccetto Khrushov, morto quando era già stato deposto. A riportare al presente era un'enorme scritta su un telo posto sulla facciata di un palazzo di fronte: 'Zadachu vypolnim', assolveremo al nostro compito. Lo slogan della cosiddetta operazione militare speciale in Ucraina.

Uno dopo l'altro, al suono di musica classica, i visitatori sono passati davanti alla salma, molti lasciando piccoli mazzi di fiori. Per loro Gorbaciov resta comunque il leader che ha portato la libertà. "Grazie a lui ho potuto leggere i libri che volevo e viaggiare all'estero", dice una signora di una settantina d'anni che aspetta in fila. "Pensate soltanto al fatto che è stato lui ad abolire il divieto di espatrio, e il sistema della prapiska, la proibizione di lavorare in regioni dell'Urss diverse dalla propria residenza", sottolinea Marina, una italianista che lo ha incontrato tre volte.

E non è un caso che chi ha reso omaggio all'ex leader scomparso fosse per lo più gente di mezza età, memore della repressione del passato regime. Al termine della cerimonia, il feretro è uscito scortato dai soldati, accompagnato dai familiari e dal Premio Nobel per la pace Dmitry Muratov, già direttore del giornale indipendente Novaya Gazeta, che da marzo ha sospeso le pubblicazioni per le sue posizioni contrarie all'operazione in Ucraina.

Muratov portava una fotografia di Gorbaciov, mentre la gente applaudiva e gridava "grazie". Poi la partenza per il cimitero monumentale di Novodevichy, dove Gorbaciov è stato sepolto accanto alla moglie Raissa al suono dell'inno nazionale eseguito da una banda militare, dopo che un prete ortodosso aveva recitato una preghiera per lui. 

Gorbaciov, l'omaggio di Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare. Vita.it 01 settembre 2022

Novaya Gazeta, il giornale che contribuì a fondare, pubblica un video ricordo di Gorbaciov. In sottofondo l’ultimo leader sovietico canta una delle sue canzoni preferite: “C’è solo un momento tra passato e futuro, proprio questo è ciò che si chiama vita”.

Un articolo di Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta, pubblicato oggi da “La Stampa” di cui vi riproponiamo qualche passaggio.

Gorbaciov disprezzava la guerra. Dmitrij Muratov, premio Nobel per la pace e direttore di Novaya Gazeta.

Lui disprezzava la guerra. Lui disprezzava la real politik. Era convinto che il tempo in cui l'ordine mondiale poteva venire dettato dalla forza fosse finito. Credeva nelle scelte dei popoli. Aveva liberato i detenuti politici. Aveva fermato la guerra in Afghanistan e la corsa al riarmo nucleare.

Mi aveva raccontato di essersi rifiutato di schiacciare il bottone dell'attacco atomico perfino durante le esercitazioni! Aveva visto i filmati dei test nucleari nei quali il fuoco divorava tutto, case, mucche, pecore, uguali alle pecore della sua Stavropol, delle quali andava tanto fiero. Aveva amato una donna più del suo lavoro. Penso che non avrebbe mai potuto abbracciarla con mani sporche di sangue. Lui non considerava l'omicidio un atto nobile. Aveva dato al comunismo un addio senza sangue. I nostalgici dell'impero continuavano a rimproverargli di aver "dato via" la Germania, la Cechia, la Polonia. Lui replicava con inimitabile sarcasmo: «A chi li avrei dati? La Germania ai tedeschi. La Polonia ai polacchi, la Cechia a cechi. A chi altri avrei dovuto darle?». Qualche anno più tardi, durante una discussione per la Novaya Gazeta sulle nuove dittature, mi disse all'improvviso: «Scrivitelo, così ce lo ricordiamo: un dittatore deve avere una regola, quella di tenere sempre in un aeroporto segreto un aereo con il serbatoio pieno». Il suo humour nero era sempre molto indovinato. Un giorno, un paio d'anni fa, scrisse una relazione molto importante per le Nazioni Unite, che decise di leggerci a una tavolata tra amici. Quando avevamo già sollevato i bicchieri per un brindisi, aveva tirato fuori dalla cartella uno spesso pacco di fogli. Noi ci eravamo preparati educatamente ad ascoltare ma la prima pagina recava una sola frase: «Proibire la guerra»! «Tutto qui?», chiedemmo. «E cos' altro bisognerebbe dire?» ci rispose, e ci permise di iniziare a bere. Tra la pace e l'esplosione nucleare non si interpone più un uomo di nome Gorby. Chi potrà sostituirlo? Chi? Ricordiamocelo sempre: ha amato una donna più del lavoro, ha posto i diritti umani sopra lo Stato, ha preferito un cielo di pace al potere personale. Ho sentito dire che è riuscito a cambiare il mondo, ma non il proprio Paese. Può darsi. Ma lui ha fatto, al suo Paese e al mondo, un regalo incredibile. Ci ha regalato trent' anni di pace. Trent' anni senza la minaccia di una guerra globale e nucleare. Chi altri ne sarebbe stato capace? C'è un ma. Il regalo è finito. Il regalo non c'è più. E nessuno ci regalerà più nulla.

Questo articolo è stato pubblicato da La Stampa il 1 settembre 2022.

Russia, a morte la libertà di stampa: 22 anni di carcere per il giornalista Ivan Safronov e revocata la licenza a Novaja Gazeta. Rosalba Castelletti su la Repubblica il 5 settembre 2022.

Ex corrispondente di Kommersant e Vedomosti giudicato colpevole di "tradimento" sulla base di accuse mai provate. "Vogliono che tutti abbiano paura". Il giornale fondato da Gorbaciov e diretto da Muratov costretto a chiudere: "Hanno ucciso Politkovskaja due volte"

Quanti chiodi si possono mettere su una bara? Quante volte si può recitare un requiem o scrivere un necrologio? Oggi un'altra pietra tombale è stata messa sulla libertà di stampa in Russia. Una morte già annunciata più volte, ma la magistratura russa ha deciso di spostare il limite della repressione e della censura ancora più in là. Un giornalista, Ivan Safronov, è stato condannato a 22 anni di carcere sulla base di accuse inesistenti e un giornale, la Novaja Gazeta, il giornale fondato da un Nobel (l'ex leader sovietico appena scomparso Mikhail Gorbaciov) e diretto da un Nobel (Dmitrij Muratov), il giornale di Anna Politkovskaja e di altri cinque giornalisti uccisi per le loro inchieste scomode, ha perso per sempre la licenza.

"Oggi hanno ucciso il giornale. Hanno rubato 30 anni della loro vita ai suoi dipendenti. Hanno privato i lettori del diritto a essere informati", ha denunciato la redazione di Novaja Gazeta in un comunicato. "Ma non solo. Oggi i nostri colleghi che sono già stati uccisi dallo Stato per aver fatto il loro dovere professionale - Igor Domnikov, Jurij Shchekochikhin, Anna Politkovskaja, Stanislav Markelov, Anastasia Baburova, Natalia Estemirova, Orkhan Dzhemal - sono stati uccisi di nuovo". Ma con la condanna a 22 anni di Sofranov sono stati uccisi anche il diritto alla libertà di stampa e a un processo equo.

La condanna di Safronov: 22 anni di carcere

Al tribunale della città di Mosca succede tutto rapidamente. Insolitamente rapidamente per la giustizia russa. Safronov viene giudicato colpevole di "tradimento" e condannato a 22 anni di carcere "sotto regime severo". Processo chiuso. Il trentaduenne ascolta la sentenza da dietro la gabbia di vetro riservata agli imputati, in tuta, le mani ammanettate. Qualcuno urla "Svoboda", qualcuno applaude. Ma non c'è tempo per reazioni scomposte. Solo per un bacio da dietro al vetro alla fidanzata Ksenia e per urlare ai colleghi e ai sostenitori ammessi in aula soltanto per la sentenza: "Scriverò a tutti. Scrivetemi. Vi amo". Un appello che dice già tutto della solitudine della prigionia.

Ventidue anni sono due terzi della sua vita. Sono quasi l'età della sua fidanzata, Ksenia Mironova. Sono il triplo della pena prevista in Russia per un omicidio. Ma qualsiasi termine, persino un anno, sarebbe stato troppo per un innocente. È un monito, commenta fuori dall'aula l'attivista per i diritti dei detenuti Marina Litvinovich, "perché tutti abbiano paura".

Non ne dubita nessuno. "La ragione per cui Ivan Safronov è stato perseguito non è il 'tradimento', che non è stato provato, ma il suo lavoro di giornalista", hanno scritto varie testate russe - tra cui Meduza, Tv Dozhd, Novaja Gazeta Europa e The Moscow Times - in un comunicato diffuso in mattinata chiedendo il rilascio di Safronov.

"La colpevolezza non è mai stata provata in nessun modo", commenta il capo del partito Jabloko Nikolaj Rybakov davanti al tribunale. Lo ribadisce anche l'avvocato Dmitrij Katchev: "Non riesco a definire questa condanna in altro modo che 'inappropriata'. Niente può resistuire l'assurdità a cui abbiamo assistito. Un giornalista è stato condannato a 22 anni semplicemente per aver fatto il suo lavoro. Fermatevi a pensarci!". Intanto i colleghi si abbracciano, si stringono attorno a Mironova e piangono.

Le "inesistenti" accuse contro Safronov

Ex corrispondente militare di Kommersant e Vedomosti, Safronov è stato arrestato nel luglio 2020 con l'accusa di aver venduto segreti di Stato all'estero. Un'accusa mai dimostrata nei due anni di processo a porte chiuse. Anzi, un'accusa "inesistente". Secondo una recente inchiesta del sito investigativo Proekt che è riuscito a procurarsi gli atti processuali, i documenti classificati venduti da Safronov non sarebbero altro che informazioni disponibili al pubblico. Sulle agenzie di stampa, sullo stesso sito web del Ministero della Difesa russo o su Wikipedia.

Il vero motivo dietro al processo, sostengono legali, colleghi e amici, è la vendetta. Safronov è stato punito per aver fatto il suo mestiere. Nel 2019 era stato licenziato da Kommersant dopo aver preannunciato possibili cambi di personale nel Consiglio della Federazione russa, la Camera alta del Parlamento russo. Un articolo che fece infuriare diversi funzionari pubblici russi e la stessa presidente del Consiglio, Valentina Matvienko. L'intera redazione politica di Kommersant si dimise per protesta, ma non riuscì a scongiurare l'uscita.

Safronov allora si unì alla redazione di Vedomosti, considerato all'epoca il principale quotidiano economico indipendente russo, ma fu costretto ad andarsene sei mesi dopo perché il giornale era finito nelle mani di nuovi proprietari vicini al governo. Finì per il lavorare presso l'agenzia spaziale russa, Roskosmos, come consulente per le comunicazioni dell'allora capo Dmitrij Rogozin.

Un incarico breve. Due mesi dopo, nel luglio 2020, fu arrestato e incarcerato nella famigerata prigione di Lefortovo gestito dal Servizio di sicurezza federale, l'Fsb, erede del Kgb. Primo caso di "tradimento" mosso contro un giornalista da quando Grigorij Pasko fu condannato nel 2001 a quattro anni di carcere per aver rivelato le violazioni ambientali della Marina russa.

Ad aver dato più fastidio, stando alla ricostruzioni di Bbc Russia, sarebbe stata un'inchiest di Safronov che rivelava le trattative per la vendita di nuovi caccia russi Su-35 all'Egitto e che aveva creato non pochi problemi ai ministeri della Difesa di entrambi i Paesi.

Anche il padre di Safronov, Ivan senior, era un corrispondente militare di Kommersant. Morì nel 2007 cadendo da una finestra, come capita a sempre più gente scomoda in Russia. Gli inquirenti liquidarono la morte come suicidio, ma qualcuno contestò la ricostruzione. Ivan Safronov senior stava lavorando a consegne d'armi russe a Iran e Siria.

La stretta alla libertà di stampa

Nei due anni in cui Safronov è stato in custodia cautelare, gli è stato impedito di vedere o chiamare i familiari. Gli è stato proposto di barattare una confessione con una telefonata alla madre, un'ammissione di colpevolezza con una pena dimezzata a 12 anni. Safronov si è sempre rifiutato rivendicando la sua innocenza.

"Vanja non era un uomo di lotta. Tuttavia il suo esempio ci dice che anche una persona normale è in grado di resistere. È stato un uomo eroico perché non ha voluto patteggiare con gli inquirenti, non ha ceduto alle pressioni e questo ha molto valore nei nostri tempi", commenta Litvinovich.

Anche gli avvocati di Safronov sono stati sottoposti a pressioni senza precedenti: sono stati incriminati, incarcerati o sono stati costretti all'esilio. Eppure non si danno per vinti. E invitano tutti a non farlo. "Nessuna metta un punto o la parola 'fine' a questo processo. Noi, legali della difesa, non lo metteremo per niente. Come prima cosa, presenteremo ricorso in appello. Combatteremo per l’abolizione della sentenza con tutti i mezzi possibili", commenta a fine processo l'avvocato Daniil Nikiforov.

La revoca della licenza a Novaja Gazeta

Da quanto Safronov è stato incarcerato, intanto, la maggior parte dei media indipendenti in Russia sono stati etichettati come "organizzazioni indesiderabili" o "agenti stranieri" e costretti a chiudere. La repressione è montata da quando il Cremlino ha lanciato la cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina il 24 febbraio. Oltre 500 giornalisti sono stati costretti a lasciare il Paese. Decine di siti sono stati bloccati. La radio Ekho Moskvy, Eco di Mosca, è stata costretta a chiudere e tv Dozhd, tv Pioggia, a interrompere le trasmissioni.

Anche il giornale Novaja Gazeta aveva deciso di sospendere le pubblicazioni lo scorso marzo per timore di rappresaglie. Almeno finché sarebbe restata in vigore la cosiddetta "legge sulle fake news" che vieta di dare notizie sull'Ucraina diverse dalle veline del governo. O finché sarebbe proseguita l'offensiva in Ucraina. Parte della redazione si era spostata a Riga e aveva dato vita al progetto online in lingua russa e inglese Novaja Gazeta Europe. Una cautela che non è bastata.

Oggi il tribunale di Basmanny ha revocato la licenza. E domani toccherà alla rivista lanciata lo scorso luglio Novaja Rosskaja Gazeta. È la fine e cade a una settimana dalla morte dell'ex leader sovietico Mikhail Gorbaciov che ventinove anni fa contribuì a fondare il giornale. Politkovskaja è stata uccisa un'altra volta, hanno scritto i suoi colleghi. E anche la libertà di stampa è stata colpita ancora una volta a morte in Russia.

Medvedev alla cerimonia d'addio a Gorbaciov. ANSA il 3 settembre 2022.

Una lunga fila di cittadini comuni ma anche di personaggi noti, come una delle più famose cantanti russe Alla Pugachiova, si è creata fuori dalla Casa dei sindacati a Mosca dove si svolge la cerimonia di addio a Michail Gorbaciov. A dare l'ultimo saluto al leader dell'Urss anche l'ex presidente russo e vicepresidente del Consiglio di sicurezza Dmitri Medvedev.

Il primo ministro russo Mikhail Mishustin e il governo hanno inviato corone di fiori alla camera ardente allestita nella sala delle Colonne. (ANSA).

Gorbaciov, ai funerali una folla silenziosa. Putin non partecipa. Fabrizio Dragosei su Il Corriere della Sera il 3 settembre 2022.

Putin non c’è all’estremo saluto per Mikhail Gorbaciov, l’ultimo leader dell’Urss. Ma in migliaia portano il loro piccolo gesto di «dissidenza»

Migliaia di persone comuni, gli ambasciatori dei Paesi occidentali ma quasi nessun personaggio pubblico, a cominciare da Vladimir Putin tenuto lontano da «impegni di lavoro», secondo la spiegazione ufficiale. Mikhail Gorbaciov, l’uomo che diede la libertà ai cittadini dell’Unione Sovietica e dei Paesi dell’Est è stato salutato in una cerimonia dal tono decisamente minore. E anche l’affluenza del pubblico non è stata granché, se si pensa che per l’addio a Stalin, il responsabile delle grandi repressioni sovietiche, arrivarono a Mosca a milioni. Dare l’ultimo saluto a Mikhail Sergeevic nella Sala delle colonne, a due passi dal Bolshoi, è stato per molti anche un piccolo gesto di «dissidenza», visto che manifestare normalmente contro le decisioni del regime è cosa praticamente impossibile.

Niente funerale di Stato, che avrebbe imposto a Putin di essere presente e di invitare dignitari stranieri. Alcuni «elementi» della cerimonia ufficiale, come ha precisato il portavoce del Cremlino Peskov: picchetto d’onore con i tradizionali tre colpi a salve, bandiera russa sulla bara e inno nazionale.

I leader occidentali

Impossibile per i leader occidentali arrivare nella capitale russa, vista la situazione. Così, e la cosa appare ironica, l’unico capo di governo presente era Viktor Orbán, il leader ungherese che tra gli europei è certamente quello più vicino a Putin e alla politica attuata oggi dalla Russia che appare sempre più in diretto contrasto con gli insegnamenti di Gorbaciov. E dei dirigenti russi c’era Dmitrij Medvedev, l’ex braccio destro di Putin che quando fu messo a tener calda la sedia di presidente nel 2008 si presentò come il possibile restauratore della piena democrazia in Russia.

Il continuatore di quella linea liberale e filoccidentale che era stata inaugurata dallo stesso Gorby e poi proseguita (nonostante i contrasti tra i due) dal primo presidente della Russia postsovietica Boris Eltsin. Nel 2011 l’allora presidente conferì a Gorbaciov per i suoi meriti la più alta onorificenza del Paese, l’Ordine di S. Andrea, «per il grande lavoro svolto come capo di Stato». Oggi Medvedev è invece il più falco dei falchi e ieri, dopo aver sfilato davanti alla bara nella grande sala, ha postato un commento per dire che appoggiando l’Ucraina il mondo anglosassone tenta, come nel 1991, di «spingere il Paese verso la disintegrazione… con il sogno segreto di frantumare la Russia, di farla a pezzi». Ma, ha ammonito con tono apocalittico Medvedev, «non si rendono conto che questo vorrebbe dire giocare una partita a scacchi con la morte».

Coloro che volevano lasciare dei fiori ai piedi della bara (aperta, come nella tradizione) hanno potuto continuare a entrare nella Sala delle colonne per altre due ore dopo l’orario di chiusura.

L’iconografia

Poi il corpo è stato portato al cimitero di Novodevichy, dove già si trovano le tombe dell’amata moglie Raissa, di Eltsin e dell’altro segretario generale che negli anni Sessanta avviò il disgelo post-staliniano e tentò di riformare l’Unione Sovietica. Anche Nikita Krusciov fallì nel suo intento; venne defenestrato dagli uomini del Politburo guidati da Leonid Brezhnev che ne prese il posto. E non fu seppellito lungo le mura del Cremlino come i «grandi», almeno secondo l’iconografia comunista: Lenin, Stalin, lo stesso Brezhnev e poi i due vecchi apparatchik che precedettero Gorby, Andropov e Chernenko.

Russia, in fila per l'addio a Gorbaciov: "Cambiò la nostra Storia". Rosalba Castelletti su La Repubblica il 4 settembre 2022.  

Prima in centinaia, poi a migliaia per i funerali senza onori di Stato dell'ultimo leader sovietico: sono gli stessi che a Mosca rischiano il carcere. "Un faro del XX secolo. E non approverebbe tutto ciò"

Ci siamo messi in fila anche noi, con i familiari e gli amici, con la babushka col fazzoletto in testa e il ragazzino con un garofano rosso in mano, e abbiamo gettato anche noi la nostra manciata di terra umida sulla bara di legno chiaro inghiottita dall'oscurità della fossa scavata di fresco. Mikhail Gorbaciov non avrebbe voluto riposare in nessun altro posto che qui. Nel cimitero del monastero di Novodevichij, accanto alla moglie Rajssa, la "donna che amava più del potere" e che piangeva da 23 anni.

Quando l'hanno calato nella nicchia sulle note della Ballata del soldato di Vasilij Soloviov-Sedoj, il pomeriggio si è rannuvolato di colpo e per appena qualche minuto è scesa una pioggerellina sottile, come se neppure il cielo riuscisse a trattenere le lacrime. Quello di Gorbaciov non è stato soltanto il funerale di un uomo che voleva cambiare il suo Paese e ha finito col cambiare il mondo, che era a capo di un Impero e ci ha rinunciato. È stato il funerale di una Russia che già da troppo tempo si sente orfana della libertà e della speranza, ma che almeno per un giorno si è data appuntamento in silenzio.

I russi in fila: "Qui brava gente"

Per l'addio all'ultimo leader sovietico non ci sono stati onori di Stato, né lutto nazionale. E non ci sono state parole. Soltanto una processione di russi composti con i fiori in mano. Si sono messi in fila sin dal mattino al lato del teatro Bolshoj, mentre il traffico del primo sabato di settembre scorreva sonnecchioso. Dapprima poche centinaia, poi qualche migliaio. Non una folla oceanica, ma una moltitudine che a Mosca non si vedeva da tempo.

Evgenija Ganijeva, 40 anni, avrebbe voluto che ce ne fosse ancora di più. "Ma è confortante stare per un giorno in mezzo a brava gente senza rischiare il carcere. Siamo in tanti a non appoggiare quello che accade in Ucraina. Avevo dieci anni quando finì l'Urss. Ricordo la caduta del Muro di Berlino e l'abbattimento del monumento di Felix Dzerzhinskij. Sono quegli eventi ad avermi reso la persona che sono oggi".

Aleksej ha più o meno la stessa età, 36 anni, eppure ricorda - come tanti russi che hanno snobbato il saluto - "la carenza di prodotti, la stagnazione e le file per comprare da mangiare", ma rammenta anche "le trasformazioni, le speranze e l'apertura al mondo che ora non ci sono più" e si commuove.

Vladimir Janitskij, letterato, 68 anni, prima dell'avvento di Gorbaciov - dice - era costretto a scrivere "per il cassetto": "Il potere ci snobbava. Mikhail Sergeevic invece ci ha fatto sentire cittadini. Ci rispettava. E io ho potuto iniziare a scrivere per diverse riviste letterarie".

Elena Ponomariova, 54 anni, indossa i colori della bandiera ucraina gialloblu: "No, che non è un caso. Viviamo in tempi nuvolosi, è vero, ma siamo qui per salutare il nostro sole politico del XX secolo".

Barriere, metal detector, "Z" e "V"

Evgenija, Aleksej, Vladimir ed Elena sono quelli che Vladimir Putin chiama "traditori". Per omaggiare il Nobel per la pace che scongiurò una guerra nucleare, sfilano sotto un telone che ricopre una facciata in ristrutturazione dov'è scritto a caratteri cubitali Zadachu Vypolnim, "Completeremo la nostra missione", con la "Z" e la "V" in caratteri latini simbolo della cosiddetta "operazione militare speciale" in Ucraina. Superano le transenne e i metal detector che li separano dalle spoglie dell'uomo che in vita abbatté il muro di Berlino e la cortina di ferro, le barriere fisiche e virtuali.

Quando infine arrivano nella Casa dei Sindacati, ad accoglierli c'è un ritratto di Gorbaciov in bianco e nero, in piedi e sorridente, a ricordare l'allegro vigore che lo distinse da predecessori grigi e malati. Poi, salito lo scalone monumentale tra stucchi verde pastello e specchi coperti da veli neri d'organza, entrano nella maestosa Sala delle Colonne rischiarata dal fioco bagliore di 54 lampadari dove giace l'ultimo gigante del XX secolo affiancato da una guardia d'onore.

Il volto che sembra di cera: che cosa resta del gigante del XX secolo

Un drappo nero sul catafalco, rose rosse ai piedi della bara e un fiotto di luce bianca che fa di cera il volto largo e disteso. È l'unica cosa che sporga da un lenzuolo di raso bianco damascato. L'ultima immagine che resta dell'uomo che barattò la potenza con le libertà. Da un lato un ritratto e le onorificenze, dall'altro la figlia Irina e le due nipoti sedute tra il gruppuscolo degli amici più cari. Come Dmitrij Muratov, il direttore Nobel per la pace della censurata Novaja Gazeta, avvolto in un cappotto scuro, gli occhi blu sempre chini e l’aria mesta. E i più stretti collaboratori, il portavoce della Fondazione Vladimir Poljakov e l’interprete degli storici vertici con Ronald Reagan Pavel Palazhchenko.

La gente depone fiori e si inchina in silenzio, mentre risuona una musica solenne. In fila c'è anche Serghej Buntman, cofondatore di Eco di Mosca, la "radio della perestrojka" costretta a interrompere le trasmissioni lo scorso marzo: "Gorbaciov ha cambiato le nostre vite. Eravamo soffocati. Ci ha dato il respiro. Spero che quei tempi ritornino". E Jan Rachinskij, capo della storica ong Memorial chiusa dopo trent'anni: "Tutto questo lo rattristava, ne sono sicuro. Ma la sua eredità è impossibile da cancellare".

Andrej Zubov, copresidente del partito Parnas è contento di sfilare con giovani che negli Anni '90 non erano nati, ma rammaricato perché "nel '53 per un dittatore come Stalin c'erano milioni di persone, per l'uomo che ci diede la libertà ce ne sono migliaia". Su una sedia a rotelle arriva anche Suzanne Massie, la storica statunitense che preparò Reagan ai suoi incontri con Gorbaciov e lo guidò verso il disgelo: "Ricordo ancora quella volta che Mikhail Sergeevic intonò alla Casa Bianca Mezzanotte a Mosca".

Gli onori di Stato negati e gli "impegni" di Putin

La sala è la stessa che ospitò i balli della nobiltà sotto gli Zar e i Congressi del Partito sotto l'Urss. E dove giacquero tutti gli altri segretari generali dell'Unione Sovietica per le esequie solenni. Per tutti i suoi predecessori, tranne che per il defenestrato Nikita Krusciov, ci furono funerali di Stato e lutto nazionale, discorsi solenni e la sepoltura nella necropoli all’ombra delle mura del Cremlino. Non per Gorbaciov.

Vladimir Putin ha voluto svilire così il leader che, cambiando l'Urss, ne accelerò la caduta e distanziarsi da quell'eredità controversa: negando gli onori e la sua presenza. Trattenuto, a detta del suo portavoce, dai troppi "impegni": imprecisati incontri di lavoro, una telefonata internazionale e i preparativi per il Forum economico orientale che si terrà la prossima settimana.

Soltanto l'ex premier e presidente Dmitrij Medvedev, oggi vice del Consiglio di sicurezza, porta i suoi omaggi di persona. Tutti gli altri esponenti della nomenklatura, dal premier Mikhail Mishustin in giù, si limitano a inviare una corona. E di tutti i leader stranieri a Mosca arriva solamente il premier ungherese nazionalista Viktor Orbán. Per Stati Uniti, Gran Bretagna e Germania ci sono gli ambasciatori e per l’Italia il vice Guido De Sanctis.

La cerimonia funebre al cimitero di Novodevichij

Chiusa la camera ardente, salutata da applausi e qualche Spasibo, "Grazie", la bara viene caricata sul carro funebre seguito da una teoria di macchine scure. Ad attenderla tra i viali cosparsi di rami d'abete del cimitero di Novodevichij e tra le tombe dei grandi della letteratura come Checkov e Gogol, c'è un'altra folla commossa. Ancora più raccolta. Non dice una parola.

L'aria si riempie d'incenso e del tintinnio del turibolo mentre il sacerdote Aleksej Uminskij recita sommessamente il servizio funebre sotto un tendone nero allestito, ultima nemesi, proprio davanti alla tomba di Boris Eltsin. Poi la bara viene accompagnata da guardie a passo d'oca al suono dei tre spari di commiato e dell'inno russo che ha la stessa melodia di quello sovietico e calata nella fossa. La gente si rimette in fila. Fa scivolare la terra nella buca. Il posto che Gorbaciov ha scelto per il riposo. E che dice tutto di lui.

L'ultimo saluto a Gorbaciov da parte di chi vuole democrazia. Raffaella Chiodo Karpinsky su Avvenire il 3 settembre 2022.  

Mentre ancora si svolge la “Maratona per Gorbaciov” promossa a Mosca da “Jabloko”, il movimento politico fondato da Gregory Javlinskij, un altro premio Nobel per la pace, Dimitri Muratov lo ha accompagnato aprendo il corteo fino al cimitero Novodevichy. Lì Gorbaciov è stato sepolto affianco a sua moglie Raissa Maximovna. Gesti e fatti che segnano il nostro tempo e la storia. Messaggi rivolti all’opinione pubblica russa e quella di tutto il mondo.

Si chiude una giornata particolare, a suo modo emblematica e che propone diverse riflessioni e interpretazioni. Durante la maratona di testimonianze per ricordare come Mikhail Sergejevich ha cambiato la nostra vita sono intervenuti figure che hanno condiviso le fasi importanti dell’azione politica di Gorbaciov durante la perestrojka e che negli anni a venire hanno portato avanti il cuore di quel processo facendo i conti con una piega sempre più soffocante del potere che si è consolidato fino a esprimersi nella Guerra con l’Ukraina.

Persone che in questi anni e ancora oggi sono il riferimento nella lotta per l’affermazione dei diritti umani, per la libertà di espressione e di parola e che rappresentano l’altra possibile Russia. Le testimonianze si sono dipanate per lunghe ore dalle 13 alle 21 in forma ibrida, in presenza e anche su Zoom. Javlinskij ed altri intervenuti hanno riportato il segno di speranza che deriva da fatto che nella fila per portare omaggio a Gorbaciov nella famosa Sala delle colonne., c’era soprattutto giovani tra i 20 e i 30 anni. Persone nate dopo la fine dell’URSS e che dei 6 anni di governo di Gorbaciov hanno solo potuto sentire parlare alla lontana e spesso in modo negativo quando non con disprezzo.

Più volte in questo incontro si è sentito dire che la speranza della Russia di oggi poggia sul fatto che la percezione più sincera del senso della perestroijka e della glasnost di Gorbaciov è più forte in questi giovani. E’ un messaggio prezioso che ad esempio è stato sottolineato da Jan Rachinskij Jan Rachinskij direttore dell’Ong fondata dal Nobel per la pace Andrej Sakharov che custodisce la memoria di milioni di vittime dei lagher e il registro dei detenuti politici della Russia contemporanea. “Questo ci dice che non è tutto perduto.” Che l’eredità di quanto fatto da Gorbaciov ha lasciato il segno e rappresenta una speranza per il futuro. Considerato che Rachinskij aveva iniziato ricordando la repressione e la chiusura di Memorial proprio poco prima dell’inizio della guerra e del contesto che vede soffocata la libertà di espressione tutto questo assume un peso e un significato degno di alta attenzione.

Dunque non solo membri più o meno noti del Movimento Jabloko ma tanti attori della società civile e della intellighenzia russa come Nadjezhda Azhgikhina, giornalista ed ex vice presidente della Federazione Europea dei Giornalisti, oggi direttrice di PEN Mosca, ha uno dopo l’altro riflettuto sul passato, sulla perestrojka e sul colpo di stato del 1991, forse più di quanto non sia accaduto lo scorso anno in occasione del 30 anniversario, quando prevalentemente passò nell’indifferenza.

Una riflessione che rappresenta pure un’analisi dura e senza sconti verso quanto sia mancata progressivamente l’agibilità politica in Russia, di quanto il mancato sostegno a Gorbaciov a suo tempo da parte dell’Occidente sia simile alla mancanza di investimento nelle relazioni con la società civile russa, soprattutto quando questa richiamava l’attenzione dell’occidente sulla restrizioni degli spazi democratici la repressione spazi di azione per la società civile. Il bisogno di trasparenza era ed è la base per la possibilità di un cambiamento nella società e nel rapporto fra cittadini e istituzioni consolidate. Una giornata che ha offerto la possibilità di ritrovarsi e poter sviluppare la riflessione. Una base per guardare al passato e imbastire il futuro forse con più consapevolezza e determinazione.

·         Morto il giornalista Giulio Giustiniani.

Morto Giulio Giustiniani, fu vicedirettore del «Corriere». GIANGIACOMO SCHIAVI su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

Nella storia di ogni giornalista c’è una destinazione non scritta che a volte diventa quella della vita: la destinazione di Giulio Giustinani era il «Corriere» e un futuro da direttore. In via Solferino, dopo gli anni alla «Nazione» e al «Resto del Carlino», era arrivato chiamato da Ugo Stille per rafforzare la macchina del quotidiano che voleva tornare a primeggiare per autorevolezza e diffusione e in quel palazzo dai grandi scaloni coi marmi e i velluti è entrato quasi naturalmente da «corrierista», per stile e competenza, e «corrierista» è rimasto. Anche se dopo una lunga stagione da caporedattore e vicedirettore aveva lasciato Milano per Venezia, chiamato a dirigere il «Gazzettino», e poi a Roma alla guida dell’innovativa La7, la sua immagine resta legata a quel giornalismo che al «Corriere» aveva grandi firme e grandi interpreti, capaci di ragionare sulle cose viste.

Era nato a Firenze da una famiglia all’antica, aveva avuto una formazione liberale, temperata dagli studi con un maestro come Giovanni Sartori, il grande politologo che lui contribuirà a portare al «Corriere». In casa, ha raccontato a Claudio Sabelli Fioretti, si leggeva la «Nazione» e quello fu il primo amore. Voleva fare il politologo ma finì in cronaca con i capi che lo mandavano a chiedere la foto del morto da sfilare dalla cornice, un cinico rituale di cui uno si vergogna per tutta la vita. Era educato, elegante, «all’inizio timido e impacciato», dirà in una delle poche interviste concesse. La sua sensibilità per la cronaca politica s’incrocia nell’81 con quella di un fuoriclasse: Gianfranco Piazzesi. Con lui direttore Giustiniani realizza una delle più importanti inchieste sulla P2 e sulla massoneria toscana: 13 puntate, una bomba che gli esplode in casa. Piazzesi è costretto alle dimissioni, lui viene emarginato dal giornale: nella loggia di Licio Gelli c’erano anche i nomi dei suoi editori. È una medaglia che vale una carriera.

Lo ripescano un anno dopo («il nuovo vicedirettore mi chiese di seguire la cronaca politica, ma c’era ancora l’anatema su di me e dovevo farlo di nascosto»). Quel vicedirettore, Marco Leonelli, lo vuole vicino quando va a dirigere il «Resto del Carlino». Un paio d’anni, poi c’è il «Corriere». Fine anni Ottanta: dopo la Milano da bere ci sono le inquietudini politiche, c’è la Lega, esplode Tangentopoli. Giustiniani guida la macchina operativa di via Solferino con Tino Neirotti e Giulio Anselmi. Sulla sua scrivania la cronaca ribolle, tra manette, dimissioni e suicidi eccellenti. Finisce la prima Repubblica e comincia un’altra era. Anche per lui. Va al «Gazzettino», feudo della Lega. Litiga con Umberto Bossi ma è apprezzato da Luca Zaia che oggi gli rende omaggio. Poi sbarca in tv. E alla fine si chiama fuori. Definitivamente. È una seconda vita. A Percoto, con Elisabetta Nonino, nel regno della grappa e della civiltà del bere. Tre figlie amatissime, che aggiungono ai primi due. Lascia i giornali per le rose, come un signore d’altri tempi.

Tre mesi fa ci siamo incontrati. Era in forma, giovanile come sempre. «Non ho rimpianti — mi ha detto — abbiamo vissuto un giornalismo irripetibile. Questo di oggi non mi piace più. Troppi io, io, io. Troppa ideologia furente. Si lavora tra internet, chiacchiere e telefonate…». Nessuna nostalgia, però. Voglia di scrivere invece sì. Romanzi. L’ultimo uscirà postumo. Con questa dedica: «A Elisabetta, unico vero amore della mia vita». 

·         L’addio al politico Mauro Petriccione. 

L’addio a Mauro Petriccione, direttore generale della Commissione europea. Piero Benassi, Marco Buti, Sandra Gallina, Mario Nava, Stefano Sannino, Roberto Viola su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2022.

Un senso di sgomento e di smarrimento ci ha colpiti, all’improvviso, la sera del 22 agosto 2022 quando ci è giunta la terribile notizia che Mauro Petriccione, uno dei direttori generali più preparati ed esperti della Commissione Europea, ci aveva lasciato. Mauro ha dedicato la sua vita al servizio dell’Europa. Il suo ultimo incarico come Direttore Generale responsabile per il cambiamento climatico lo ha collocato al centro di una delle sfide generazionali dei nostri tempi: la trasformazione della società contemporanea in un’economia sostenibile.

Ogni sfida Mauro l’affrontava pensando e parlando chiaro. La sua era una cultura cartesiana, lo gica, razionale, etica. In una parola, europea. Una formazione, la sua, nutrita dai luoghi e dai tempi della sua vita. Nato a Taranto, aveva studiato a Bari e a Londra ed era entrato alla Commissione a trent’anni. Qui a Bruxelles aveva conosciuto sua moglie Astrid. Come funzionario della Commissione, ne aveva percorso tutti i gradi sino ad arrivare ai vertici. La sua carriera esemplare gli ha consentito di diventare uno dei massimi esperti di commercio internazionale. Decisive furono le sue qualità di fine negoziatore che gli permisero di concludere con successo una lunga serie di importanti negoziati, l’ultimo dei quali fu l’accordo di libero scambio con il Giappone, di storica complessità. Nel 2018 l’incarico più importante, direttore generale della Dg Clima con la responsabilità di preparare il green deal europeo. Forte della sua esperienza internazionale, Mauro si è battuto perché il cambiamento climatico non fosse solo una responsabilità europea bensì di tutta la comunità internazionale ed in cui le grandi potenze mondiali facessero la loro parte.

Perdiamo un grande italiano e un grande europeo. Ci mancherà la stretta di mano poderosa, il sorriso contagioso, il ciuffo ribelle da eterno ragazzino, ma soprattutto il suo modo di essere: spiritoso, gentile e affabile. Un uomo capace di convincere tanto che molte delle sue idee finirono, infatti, per essere condivise o addirittura fatte proprie da interlocutori scettici e diffidenti. Mauro in questo incarnava le migliori qualità di un funzionario delle Istituzioni Europee. E’ l’eredità vera di Mauro e sarà nostra responsabilità fare tesoro dell’esempio che ci ha lasciato.

Piero Benassi (ambasciatore italiano presso l’Ue), Marco Buti, Sandra Gallina, Mario Nava, Stefano Sannino, Roberto Viola (direttori generali della commissione europea).

·         E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi. 

E' morto Piergiorgio Branzi, con le sue fotografie ha raccontato il mondo. Michele Smargiassi su La Repubblica il 28 Agosto 2022.

La foto di copertina della monografia di Piergiorgio Branzi "Il giro dell'occhio" .

Giornalista, reporter, corrispondente per la Rai da Mosca. E una Leica sempre portata al collo

Era felice, Branzi, di non aver dovuto condurre la telecronaca della fine del mondo, perché il mondo gli piaceva molto, infatti lo fotografava ogni volta che poteva. Nel 1963, mentre preparava un difficile collegamento da Mosca per il Telegiornale della Rai, due poliziotti sovietici vennero a prelevarlo a casa senza dargli spiegazioni, per trasferirlo in un "posto sicuro".

·         Morta l’attrice Paola Cerimele.

L’attrice Paola Cerimele muore in un incidente dopo la foto con il suo “maestro” Sergio Castellitto. La Stampa il 26 agosto 2022.

Molise sotto choc per la morte, nell'incidente avvenuto oggi pomeriggio sulla Trignina, dell'attrice Paola Cerimele, 48 anni di Agnone (Isernia). Nella sua carriera ha recitato in molti film e in decine di spettacoli teatrali. Era anche una apprezzata insegnante di recitazione e dizione. Tra i film che aveva interpretato c'era anche Non ti muovere di Sergio Castellitto, pellicola girata in parte in Molise. E proprio ieri l'attrice aveva incontrato Castellitto ad Agnone. Lo aveva raccontato lei stessa nel suo ultimo post su Facebook: «Oggi è andata così: ricevo una chiamata dal sindaco Daniele Saia: "Paola sei in Agnone?”. Rispondo: “sì, a casa”. “Allora vieni subito al forno Alto Molise perché c'è un amico che ti vuole salutare”. Incuriosita dico: “ok, arrivo”. Apro le tende del forno e vedo Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini! Il cuore comincia a battere a mille, ci abbracciamo forte forte, felici di rivederci dopo diversi anni dalle riprese del film Non ti muovere. È stata un'emozione indescrivibile. Sergio per me è stato e rimarrà sempre un grandissimo maestro di arte e di umanità. La vita a volte ci sorprende e ci regala tanta felicità».  Centinaia i post sui social di chi la conosceva come artista, i messaggi dei cittadini di Agnone, dove era cresciuta e benvoluta, e quelli dei suoi colleghi tra i quali Sergio Castellitto che ha chiamato il sindaco, Daniele Saia, e in una telefonata ha espresso il suo cordoglio. Intanto la Procura di Vasto (Chieti) ha disposto l'autopsia, si attende ora l'affidamento dell'incarico. Restano critiche le condizioni del compagno di Paola Cerimele, in auto con lei. L'uomo, 56enne di San Marco in Lamis (Foggia), dapprima ricoverato all'ospedale di Vasto (Chieti), è stato poi trasferito all'ospedale di Pescara dove, durante la notte, è stato operato. Illeso il conducente dell'altra auto coinvolta. I carabinieri di Vasto indagano per chiarire le cause dell'incidente.

Da blitzquotidiano.it il 26 agosto 2022.

Molise sotto choc per la morte, nell’incidente avvenuto nel pomeriggio di giovedì 25 agosto sulla Trignina, dell’attrice Paola Cerimele, 48 anni di Agnone (Isernia). Nella sua carriera ha recitato con Sergio Castellitto in “Non ti muovere” ed anche in molti film e in decine di spettacoli teatrali. 

L’impatto è avvenuto intorno alle 15.30 all’altezza dello svincolo San Giovanni Lipioni-Castelguidone tra una Fiat Panda e un’Audi. Paola Cerimele è morta, mentre un uomo è stato trasportato in codice rosso dal 118 all’ospedale di Vasto.Nel bilancio c’è stato anche un altro ferito in modo lieve. 

Molise sotto choc per la morte, nell’incidente avvenuto nel pomeriggio di giovedì 25 agosto sulla Trignina, dell’attrice Paola Cerimele, 48 anni di Agnone (Isernia). Nella sua carriera ha recitato con Sergio Castellitto in “Non ti muovere” ed anche in molti film e in decine di spettacoli teatrali.

L’impatto è avvenuto intorno alle 15.30 all’altezza dello svincolo San Giovanni Lipioni-Castelguidone tra una Fiat Panda e un’Audi. Paola Cerimele è morta, mentre un uomo è stato trasportato in codice rosso dal 118 all’ospedale di Vasto.Nel bilancio c’è stato anche un altro ferito in modo lieve. 

Paola Cerimele era anche una apprezzata insegnante di recitazione e dizione. Tra i film che aveva interpretato c’era anche “Non ti muovere” di Sergio Castellitto, pellicola girata in parte in Molise. E proprio nella giornata di mercoledì l’attrice aveva incontrato di nuovo Castellitto ad Agnone. Lo aveva raccontato lei stessa nel suo ultimo post su Facebook: “Oggi è andata così: ricevo una chiamata dal sindaco Daniele Saia: “Paola sei in Agnone?”. Rispondo: “sì, a casa”. Allora vieni subito al forno Alto Molise perché c’è un amico che ti vuole salutare”.

“Incuriosita dico: “ok, arrivo”. Apro le tende del forno e vedo Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini! Il cuore comincia a battere a mille, ci abbracciamo forte forte, felici di rivederci dopo diversi anni dalle riprese del film Non ti muovere. È stata un’emozione indescrivibile. Sergio per me è stato e rimarrà sempre un grandissimo maestro di arte e di umanità. La vita a volte ci sorprende e ci regala tanta felicità”.

·         E' morto il fotografo Tim Page.

E' morto Tim Page, il fotografo "folle" che ha raccontato la guerra nel Vietnam. Lucio Luca su La Repubblica il 25 Agosto 2022 

Era nato nel Regno Unito ma si era trasferito in Australia. Ha ispirato il reporter drogato e amante del rischio interpretato da Dennis Hopper nel film "Apocalypse Now"

Cinico, irriverente, fuori da tutti gli schemi. Coraggioso fino al limite dell'incoscienza e bravo, tremendamente bravo. Tim Page era nato 78 anni fa nel Regno Unito ma, da qualche tempo, aveva scelto l'Australia per vivere. Anche se, effettivamente, ha sempre vissuto nel mondo, in qualsiasi angolo in cui c'era un pezzo di storia di fotografare. Libero, senza paura, grazie a lui abbiamo visto foto intime dei combattimenti nel Vietnam che altrimenti non avremmo mai nemmeno immaginato e che hanno contribuito a cambiare il corso della guerra.

·         Morta la scienziata Laura Perini.

Morta Laura Perini, scienziata e prof di Fisica nucleare: era nel team che scoprì il Bosone di Higgs. La Repubblica il 25 Agosto 2022. Aveva 70 anni e insegnava alla Statale, di cui era anche membro del cda. Tantissime le sue rierche sulla fisica sperimentale delle particelle elementari

La scienziata Laura Perini, docente di Fisica nucleare e subnucleare dell'Università Statale di Milano presso il Dipartimento di Fisica 'Aldo Pontremoli', è morta all'età di 70 anni a Milano. Perini era, dal 2019, anche membro del Consiglio di Amministrazione dell'Ateneo, presso cui era professore ordinario dal 2005. Dal 2012 al 2017 è stata direttore del Dipartimento di Fisica 'Aldo Pontremoli' e membro del Senato Accademico.

Laura Perini ha svolto la sua attività di ricerca nell'ambito della fisica sperimentale delle particelle elementari o fisica delle alte energie, anche come ricercatrice dell'Istituto nazionale di Fisica Nucleare. Ha preso parte e contribuito a numerosi esperimenti al Cern, occupandosi sin dai primi anni Novanta della progettazione e preparazione dell'esperimento Atlas al collisore Lhc, nell'ambito del quale è coautrice della scoperta del Bosone di Higgs avvenuta nel 2012. In ambito Atlas, Laura Perini si è concentrata sui problemi di calcolo posti dalla straordinaria quantità di dati che l'esperimento comporta e ha partecipato a numerosi organismi internazionali in cui ha sostenuto il progetto di calcolo distribuito 'Grid', poi effettivamente utilizzato. Molti gli incarichi organizzativi e in ambito scientifico da lei ricoperti: dal 2013 a fine 2018 è stata rappresentante dei direttori di area Fisica nel Direttivo di ConScienze; infine, nel 2021 la nomina da parte del Ministero dell'Università e della Ricerca come secondo rappresentante dell'Italia nello Steering Board dell'Associazione European Open Science Cloud.

Oltre alle attività didattiche e scientifiche, la professoressa Perini si è impegnata a lungo nelle attività di promozione della fisica. Responsabile per il dipartimento di Fisica dell'Ateneo del Progetto Lauree Scientifiche, finanziato dal Miur con lo scopo di favorire la crescita dell'interesse degli studenti delle scuole superiori verso le materie scientifiche e la fisica in particolare. Rilevante anche il suo impegno per migliorare la preparazione in ingresso degli studenti. Si è infatti occupata anche dell'ultimo Mooc (Massive Open Online Courses) di fisica del Consorzio Interuniversitario Sistemi Integrati per l'Accesso, nonché, nel corso degli anni, della preparazione dei quesiti per i test di ingresso a Corsi di Laurea delle Facoltà o Scuole di Scienze fornendo un prezioso contributo, infine, anche nell'orientamento con il coinvolgimento nella ideazione e creazione del progetto del Cisia orientazione.it.

"La professoressa Laura Perini - la ricorda il professor Giovanni Onida, attuale direttore del Dipartimento di Fisica, esprimendo il cordoglio per la sua scomparsa - si è sempre distinta per la propria tenacia e generosità nel portare a termine i progetti e concretizzare le idee in cui credeva. Il ricordo di Laura, che avrebbe terminato a ottobre i suoi molti anni di servizio presso il Dipartimento di Fisica 'Aldo Pontremoli', resterà fortemente impresso in chiunque l'abbia conosciuta ed abbia avuto modo di collaborare con lei. Il suo impegno costante, la sua disponibilità e la sua gentilezza le hanno consentito di costruire nel tempo una vasta rete di rapporti umani e scientifici, in Italia e all'estero, che è oggi esemplare per noi che abbiamo ancora la fortuna di poter proseguire la strada della ricerca scientifica e della formazione dei giovani".

Le esequie si celebreranno a Milano sabato 27 agosto, nella chiesa di San Cipriano, in via Carlo d'Adda 31. Al termine del rito funebre sarà sepolta presso il cimitero Maggiore di Milano.

·         È morto l’attore Enzo Garinei.

(ANSA il 25 agosto 2022) - È morto a 96 anni Enzo Garinei, attore di cinema e di teatro e fratello di Pietro della celebre ditta Garinei e Giovannini, oltre che doppiatore. In carriera realizzò più di 70 film e partecipato a molte commedie teatrali. Esordì al cinema nel 1949, in Totò le Mokò, e con il Principe De Curtis, che fu per lui un maestro, realizzò diversi film. 

Nel teatro leggero fu interprete di numerosi spettacoli di Garinei e Giovannini, come ad esempio Alleluja brava gente e Aggiungi un posto a tavola. In carriera anche ruoli in alcune serie televisive.

Enzo Garinei, la sua "bella famiglia" e quel dolore per la scomparsa del figlio Andrea. Cecilia Cirinei su La Repubblica il 25 Agosto 2022

Enzo Garinei al teatro Brancaccio dove recitava "La voce di lassù" in "Aggiungi un posto a tavola"  

L'attore non si era più ripreso dal duro colpo della morte del figlio nel 2016. Stretti accanto a lui la moglie Lorle e la figlia Isabella con la nipote Martina

Una famiglia sconvolta dal dolore. La moglie di Enzo Garinei, Lorle, 92 anni, aveva festeggiato con lui il 19 dicembre 2021 i loro 70 anni di matrimonio. Garinei, scomparso il 25 agosto a 96 anni, era sempre stato molto schivo e riservato sulla sua famiglia. Trapelava pochissimo. Solo quello che lui voleva far sapere. "Erano molto riservati" racconta Gianluca

Morto Enzo Garinei, una vita tra teatro, cinema e tv. La Repubblica il 25 Agosto 2022

Fratello del noto commediografo e regista teatrale Pietro Garinei (del duo Garinei e Giovannini) l'attore aveva 96 anni. Nella lunga carriera ha realizzato più di settanta film e ha calcato per cinquant'anni i palcoscenici italiani

È morto Enzo Garinei, attore di cinema e di teatro, doppiatore, fratello del noto commediografo e regista teatrale Pietro Garinei (della celebre ditta Garinei e Giovannini). Aveva 96 anni. Nella lunga carriera ha realizzato più di settanta film e ha calcato per cinquant'anni i teatri italiani, spesso nelle produzioni del fratello come Alleluia brava gente e Aggiungi un posto a tavola.

I "copioncini" del fratello Pietro

Nato a Roma il 4 maggio 1926, muove i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo risalgono agli anni della guerra, al teatro dell'Università dove conosce Gabriele Ferzetti, Marcello Mastroianni, Giulietta Masina. Formatosi al Cut, centro universitario teatrale, si cimentava con i ''copioncini'' che il fratello Pietro scrive - racconta lui nell'autobiografia Io c'ero - ''per le dame di beneficienza'' che poi si rappresentavano nei club. Ma la ditta del fratello, Garinei e Giovannini è anche l'avventura del Sistina mentre lui si disegna un suo autonomo percorso artistico. Sarà infatti dalla macchina da presa che gli verrà il maggiore successo.

L'incontro con Totò: "Da lui ho imparato i tempi comici"

Esordì infatti poco più che ventenne in Signorinella seguito poi da Totò le Mokò; con il principe De Curtis, che lo aveva apprezzato a teatro, ha girato moltissimi film come caratterista con la regia di Mario Mattioli, Mario Monicelli e Camillo Mastrocinque. Per il giovane attore, Totò è stato un grandissimo maestro, "da lui ho imparato tutti i tempi comici" raccontava.

Era la voce di Dio in Aggiungi un posto a tavola

'Quanto alla televisione l'ho vista nascere, sono stato fra i suoi pionieri, mi è piaciuta subito'' raccontava, infatti in tv iniziò con i Caroselli, insieme a Virna Lisi che pubblicizzava il suo sorriso splendente. Poi via via da Scaramouche fino all'ultima apparizione in Don Matteo nel 2014. Alla carriera cinematografica e televisiva (era con Delia Scala e Gerry Scotti nella serie televisiva Io e la mamma), Garinei ha sempre affiancato quella teatrale, in particolare nelle commedie musicali. Solo due anni fa era ritornato in tournée con la nuova edizione di Aggiungi un posto a tavola con Gianluca Guidi, interpretando dal vivo "la voce di Dio", ottenendo un sentito riconoscimento da parte del pubblico.

Doppiatore per i Jefferson e Stanlio

La sua voce d'altronde è molto conosciuta al pubblico grazie anche al suo lavoro di doppiatore. Il personaggio più noto a cui ha prestato la voce è probabilmente quello di George Jefferson (interpretato da Sherman Hemsley) della sitcom I Jefferson (1975-1985). Doppiò anche Stan Laurel in alcune comiche e film dopo la prima versione che storicamente fu quella di Alberto Sordi. Nel luglio 2009 ha vinto il riconoscimento speciale Leggio d'oro "Alberto Sordi".

Enzo Garinei, morto l’attore e commediografo fratello di Pietro Garinei. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera su il 25 Agosto 2022

Nella lunga carriera ha realizzato più di settanta film e ha calcato per cinquant’anni i palcoscenici italiani in produzioni come «Alleluja brava gente» e «Aggiungi un posto a tavola»

È morto l’attore e doppiatore Enzo Garinei, fratello del commediografo Pietro Garinei. Aveva 96 anni. Nella sua lunga carriera ha partecipato a oltre 70 film ed è apparso in tv e sui palcoscenici teatrali interpretando anche diversi testi del fratello, come «Aggiungi un posto a tavola», «Cielo mio marito» e «Alleluja brava gente». Nella stagione teatrale 2017-2018 e ancora nella stagione 2019-2020 era ritornato in tournée con la nuova edizione di «Aggiungi un posto a tavola», interpretando dal vivo «la voce di Dio» e ottenendo un tributo d’affetto da parte del pubblico. L’esordio sul grande schermo è del 1949 in «Totò le Mokò». Come doppiatore è stato anche voce di Stan Laurel (Stanlio) in alcune comiche e film.

Morto Enzo Garinei a 96 anni, principe dei caratteristi e fratello del grande Pietro. Maurizio Porro su Il Corriere della Sera il 25 Agosto 2022.

Nella lunga carriera ha realizzato più di settanta film e ha calcato per cinquant’anni i palcoscenici italiani in produzioni come «Alleluja brava gente» e «Aggiungi un posto a tavola». 

Con la morte, avvenuta ieri a 96 anni a Roma, di Enzo Garinei, si chiude definitivamente il grande capitolo della commedia musicale italiana, quella siglata dalle due manine allacciate di Garinei & Giovannini, autori impresari registi e talent scout. Vincenzo, Enzo sulle centinaia di locandine in cui apparve, era il fratello di Pietro, ma non aveva mai goduto di privilegi, era la morale della compagnia: scritturato sì, ma non protagonista, sempre un caratterista, la spalla, un comico che aveva imparato benissimo le regole del mestiere.

Tanti anni di gavetta come attore e spesso doppiatore (diede la voce ai Jefferson e anche a Stan Laurel e a Spugna di Peter Pan) di cinema, tv e di teatro “leggero”, in epoca di doppi spettacoli e di tournèes lunghe otto mesi. Enzo Garinei, padre di Andrea, morto prematuramente, fino a pochi mesi fa era la voce di Dio nella settima edizione di “Aggiungi un posto a tavola” e tutte le sere stava dietro le quinte, pronto a dare la battuta a Guidi, il pretino del diluvio universale: molti pensavano che la voce di Dio (ereditata da Garrone) fosse registrata, data l’età, invece Garinei viaggiava con la compagnia, ne era il simbolo, puntuale come un soldatino per questo musical che ha battuto ogni record di tenitura in Italia (1700 repliche). Ma prima di raggiungere la voce divina, Garinei ebbe per 500 sere la parte comica del sindaco (ereditata da Panelli), così come era stato indispensabile in moltissime produzioni della celebre ditta, facendo in scena perfino l’imitazione del fratello nel “Delia Scala show” e quell’anno ebbe la Maschera d’argento per il teatro di rivista. Inizi in varietà carnevaleschi al Valle di Roma e poi il solito tragitto, iniziando nel 1949 con “Totò le moko”, primo di una lunga collaborazione col principe de Curtis; poi “Il vedovo allegro”, “Arrivano i nostri” e molti successi dell’Italia povera ma bella che rideva con Sordi, la Valeri, De Filippo, Rascel, nei film da spiaggia o con i titoli parodistici.

Ma ebbe pure parentesi serie, lavorò con Maselli nei “Delfini” e con Lattuada in “Oh Serafina!”, oltre a una serie infinita di film comici senza pretese da domenica pomeriggio (platee piene, 90’ con intervallo e gelato) ma in cui Garinei era una garanzia comica, arrivando anche a comparire nel 2014 in “Don Matteo” in tv e con Scotti e la Scala in “Io e la mamma”. Certo la sua storia è tutta sui palcoscenici e sulle passerelle dei famosi teatri italiani, partendo dal Sistina che era la sua casa, ereditando dal fratello memorie e archivi, continuando col Lirico e l’oggi scomparso Nuovo a Milano. Non si contano i musical cui ha partecipato, sempre con un guizzo quasi surreale, dalla “Bisarca” del 50 con Billi e Riva, alle riviste con la Wandissima (“Gran Baraonda”), Rascel (“Tobia la candida spia”), Pagnani e Calindri (“La padrona di Raggio di Luna”) e poi l’irresistibile tombarolo monco di “Alleluja, brava gente”, fino ad “Accendiamo la lampada”, musical da mille e una notte con la coppia Dorelli-Guida. Da ricordare, soprattutto per il fattore umano, la sua partecipazione a uno show con Bramieri che era già molto malato ma voleva dar l’addio al suo pubblico e Garinei gli fece da spalla in “Riuscire a farvi ridere”.

E poi anche la prosa, quella brillante, con Bramieri, Marisa Merlini, la Mondaini, Bonagura, Montesano, Valeria Valeri e Paolo Ferrari, con la Colli in “Cielo mio marito!” e le riprese con Maurizio Micheli in “Un mandarino per Teo”. Fece anche parte di un trio di successo nel 60 con Delia Scala e Carletto Sposito che arrivò alla nazional popolare “Canzonissima” e poi fu in una miniserie di Falqui su Fracchia. Ma ebbe anche registi maestri, una comparsata con Visconti, poi Enriquez, Bolchi ed anche con il giovane regista Luca Ronconi nei “Lunatici”. Una vita spesa per il pubblico, nell’antico e vero senso della parola, ogni sera il suono particolare di una risata e di un applauso e del resto il titolo della sua autobiografia (“1926: io c’ero”, presentata da Maurizio Costanzo) racconta una lunga storia di innamoramento e amore con il pubblico.

È morto Enzo Garinei, attore e commediografo tra cinema e teatro: aveva 96 anni. I suoi esordi al cinema con Totò. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Agosto 2022 

Lutto nel mondo dello spettacolo. Enzo Garinei, attore di cinema, teatro e tv, si è spento a 96 anni. Fratello del commediografo e regista teatrale Pietro Garinei, con cui aveva lavorato spesso, per oltre 50 anni ha calcato i palcoscenici dei teatri italiani. Nella sua lunga carriera ha realizzato più di 70 film collaborando con attori che hanno fatto la storia del cinema e del teatro italiani. A dare la notizia è Repubblica.

Enzo Garinei era nato il 4 maggio 1926. Il suo esordio al cinema in Totò le Mokò nel 1949 e Signorinella di Mario Mattioli. Con il principe della risata collaborò a numerosi film tra cui Totò cerca moglie e Totò terzo uomo. Per lui Totò fu un maestro: “da lui ho imparato tutti i tempi comici”, raccontava, come riporta Repubblica. Numerosi i film girati insieme con la regia di Mario Mattioli, Mario Monicelli e Camillo Mastrocinque.

Per la tv ha partecipato alla serie Io e la mamma e a qualche episodio di Don Matteo. Garinei ha sempre affiancato la carriera teatrale in particolare con le commedie musicali come Aggiungi un posto a tavola. Proprio 2 anni fa era tornato in turnee con una nuova edizione della commedia con Gianluca Guidi e Marisa Laurito, interpretando dal vivo “la voce di Dio”, ottenendo un sentito riconoscimento da parte del pubblico.

Fino al 2008 è stato anche, saltuariamente, doppiatore: il personaggio più noto da lui doppiato è probabilmente quello di George Jefferson (interpretato da Sherman Hemsley) della sitcom I Jefferson (1975-1985). Doppiò anche Stan Laurel in alcune comiche e film. Nel luglio 2009 ha vinto il riconoscimento speciale Leggio d’oro “Alberto Sordi”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Marco Giusti per Dagospia il 25 agosto 2022.

Perdiamo anche l’ultimo caratterista rimasto dei film di Totò, Enzo Garinei, 96 anni, grande macchina di spettacolo inesauribile che ha lavorato a teatro fino all’ultimo, fratello di Pietro, e quindi attivissimo nella rivista e nel teatro leggero di Garinei&Giovannini fin dall’inizio. 

Magro, buffo, bruttino, con grandi orecchie a sventola, ma col sorriso stampata sulla faccia anche da vecchio e da vecchissimo, anche se non è mai sembrato davvero vecchio, laziale, grande giocatore e grande perdente da sempre.

Ha vissuto tutte le stagioni dello spettacolo italiano dividendosi tra teatro, cinema e tv, perfino una serie celebre di caroselli con Virna Lisi, “La bocca della verità” dove faceva il marito della gaffista Virna Lisi, sempre perdonata perché “… con quella bocca può dire ciò che vuole”. 

Mentre frequenta la facoltà di Farmacia recita nel Centro Universitario Teatrale, il CUT, a Roma con Marcello Mastroianni. Esordisce nella rivista nel 1950 con “La bisarca” di Garinei&Giovannini, seguita da “Gran baldoria” e “Gran baraonda”, per non parlare delle commedie musicali, “Tobia, candida spia” e “La padrona di Raggio di Luna”, ma si dedica anche al teatro di prosa.

Diventa subito un volto popolare della rivista e da lì passa immediatamente al cinema grazie a Mario Mattoli con “Signorinella”, “Il vedovo allegro”, “Adamo ed Eva”, 1949. Incontra Totò, col quale fare ben sette film, nello spettacolare “Totò le Mokò” di Carlo Ludovico Bragaglia, che lo richiamerà anche per “Le sei mogli di Barbablù”. 

 Attivissimo con Mattoli, lo troviamo in “I cadetti di Guascogna”, “Totò terzo uomo”, dove faceva molto ridere, “Accidenti alle tasse”, “Arrivano i nostri”, “Il più comico spettacolo del mondo”, “Due notti con Cleopatra”.

Mario Monicelli lo vuole nel censuratissimo “Totò e Carolina”, Camillo Mastrocinque in “Totò all’inferno” e “Totò, Peppino e i fuorilegge”. Presenza fissa nel cinema comico degli anni ’50 può recitare sia da solo che in gruppo, come al varietà. Il pubblico lo riconosce subito. 

Tenta anche qualche ruolo più drammatico, “Peccato di castità” di Gianni Franciolini, “Il momento più bello” di Luciano Emmer, “L’ultima violenza” di Raffaello Matarazzo, ma è nel comico che si trova meglio.

Negli anni ’60 prosegue senza sosta quello che aveva iniziato nel dopoguerra. Fa anche moltissima tv, a cominciare da “Suicidio perfetto” di Alberto Bonucci, “Demetrio Pianelli” e “I miserabili” di Sandro Bolchi, “Scaramouche” di Daniele D’Anza. 

Con la fine di un certo cinema leggero, all’inizio degli anni ’70, come molti comici del tempo, Paolo Panelli, Riccardo Billi, non viene più chiamata dal cinema come prima, ma trova nel teatro sempre un sicuro rifugio. 

Lo ricordiamo in grandi successi, “Alleluja brava gente” e “Aggiungi un posto a tavola”, mentre in tv si riciclava nella nuova comicità con show del tipo “Il trappolone”, “L’Italia s’è desta”, “Giandomenico Fracchia”. Nella penuria di ruoli tra la fine degli anni ’70 e i primi anni ’80, finisce anche in film hard italiani come presenza comica di alleggerimento.

Lo troviamo così in produzioni come “La dottoressa di campagna” di Mario Bianchi, “Le segrete esperienze di Luca e Fanny”, “Albergo a ore”, “Cameriera senza… malizia” di Lorenzo Onorati. Film dei quali non si vergognava per nulla e ne parlava con la più grande tranquillità. Ma nella seconda metà degli anni ’80 lo chiamano anche Marino Girolami per i Pierini con Alvaro Vitali e Bruno Corbucci negli altrettanto romanissimi film di Tomas Milian e Bombolo, “Delitto in formula Uno”, “Delitto al Blue Gay”. Simpatico, sempre allegro e disponibile, Enzo Garinei è stato una presenza vitale e di grande esperienza del nostro teatro. 

Estratto dall'articolo di Alessandro Ferrucci per “il Fatto Quotidiano” del 15 settembre 2019

[…] Quando parla è giusto guardarlo tra gli occhi e il sorriso, come una proiezione in cinemascope: ha lo sguardo e il sorriso identico a quando girava con Totò, Mastroianni o chiunque altro big della storia del grande e poi piccolo schermo; film comici, seri, drammatici (“nel 1960 ero a Venezia con Citto Maselli per I delfini e l’anno dopo a Cannes con La ragazza con la valigia di Zurlini, uno di quei registi che si innamorava sempre dell’attrice principale, in quel caso la Cardinale”); 

lui dagli anni Cinquanta è spesso presente, anche un cammeo o poco più e per ben 108 volte; lui rientra nella categoria “caratteristi”, uno degli ultimi di una compagine gloriosa, maschere che hanno arricchito la storia del cinema, caratterizzato momenti e battute, “proprio per questo non siamo attori di grado inferiore, anzi”.

Ogni tanto quando racconta cita, testuali, le battute di film di cinquanta o più anni fa e quando ricorda la sua carriera da doppiatore – non secondaria – cambia tono e si trasforma in Lionel Jefferson, protagonista dell’omonima serie televisiva statunitense. Si diverte. Ama divertire. Sa qual è il valore della risata, quanto è complicata la leggerezza, quanto è seria l’ironia, soprattutto dopo che “ti muore un figlio: Andrea è stato un bravissimo attore e ci tengo a tenere in vita il suo ricordo. Ma ne parleremo dopo, solo se vorrà…”. 

Suo fratello Pietro, insieme a Giovannini, è il genio della commedia musicale, da Rugantino ad Aggiungi un posto a tavola (“mi raccomando, non lo definisca musical, quello è un’altra cosa”).

Insomma, i caratteristi sono sottovalutati.

Sì, e me ne sono reso conto al funerale di Carlo Delle Piane: per noi è necessario morire per ottenere considerazione. 

Per capire il reale valore.

Eppure sono in grado di interpretare qualunque tipo di personaggio, ma non sono un primo attore, non me ne frega niente, non me n’è mai fregato niente, ma senza i caratteristi non esisterebbero il cinema e il teatro. 

Ha girato molto con Totò.

Con il principe sono stato sette volte su un set, il primo nel 1949, Totò le Mokò, e avevo il ruolo del palo nella banda criminale; poi anche Totò e Carolina (1953) per la regia di Mario Monicelli, film che ha causato qualche guaio al principe stesso: lì interpretava la parte di un celerino e allora Mario Scelba era ministro degli Interni (governo De Gasperi); in una scena Totò caricava una prostituta su una jeep per poi accompagnarla da un dottore, e a quel tempo era politicamente inconcepibile.

Totò.

Persona generosa, quando un attore era in difficoltà economica gli regalava 500 lire, e in quegli anni significava la metà di uno stipendio medio; e poi a differenza di altri grandi interpreti non si dava le arie, non si atteggiava, solo che quando finiva di girare, toglieva la bombetta, si spogliava degli abiti di scena, immediatamente tornava il principe Antonio de Curtis. 

E arrivederci…

Non viveva tutto il giorno con la sua maschera di scena, non era come Carlo Dapporto che anche fuori dal set continuava a recitare le barzellette; (abbassa gli occhi) era un mondo meraviglioso e ho avuto la fortuna di lavorare con tutti i più grandi, e con tutti sono riuscito a costruire un rapporto bellissimo, forse perché sono cresciuto con una generazione di attori che amava profondamente la professione, a prescindere da soldi e fama; ciò non toglie che ognuno aveva le sue fissazioni. 

Quali?

Totò voleva esser chiamato principe, come Mario Mattoli pretendeva l’appellativo di “avvocato”. 

Come ha iniziato?

Ho perso mio padre all’inizio della guerra e per malattia, mio fratello Pietro è diventato subito il mio riferimento e allora la nostra famiglia viveva grazie a una farmacia aperta anni prima nel centro di Roma; un luogo particolare, non solo medicine e cure, ma punto di ritrovo per una serie di artisti, attori, registi, e allora era normale darsi appuntamento “da Garinei”. 

Insomma…

Lì ho conosciuto tutti, era facile condividere, chiedere, incuriosirsi e venir coinvolti; un periodo entusiasmante durante il quale era normale mischiare le esperienze. E inoltre mio fratello aveva iniziato con la sua eccezionale carriera. 

Un periodo fecondo…

Le do un esempio: per Alleluja brava gente Pietro e Giovannini crearono un vero linguaggio, qualcosa di inedito, che ha ispirato lo stesso Monicelli per L’Armata Brancaleone, e mio fratello scherzando non mancava di sottolinearlo a Mario: “Aoh, m’hai fregato la parlata”; insomma, come spiegavo prima, quelle erano commedie, storie, perché potevano tranquillamente venir solo recitate tanto da ispirare i registi cinematografici. […] 

Ha studiato e lavorato con Mastroianni.

Ci siamo conosciuti all’inizio delle nostre carriere, tutti e due iscritti al CUT, il Centro universitario teatrale; lui era l’uomo più semplice e timido mai conosciuto e frequentato. […] Una sera gli indico una donna: “Marcè, te piace quella?” “Sì” “Perché non ce provi?”. E lui: “Enzo, se devo scopare preferisco una puttana”. Però è vero, le donne ci provavano sempre, ho assistito a scene poi diventate sceneggiate.

Cioè?

Il giorno della partenza per la nostra prima tournée teatrale, destinazione Merano, a un certo punto in stazione si materializza Silvana Mangano, bellissima, innamorata di Marcello, piangeva disperata, inconsolabile, e lui un po’ imbarazzato: “A Silvà, mica vado in guerra, tra una settimana torno. Sta’ bona, calmate”. […] 

Dopo la guerra la sinistra ha poi egemonizzato.

Sì, certo, dopo è nato anche l’attore “del sistema”, piazzato ovunque e a prescindere. 

Tipo chi?

Silvio Orlando da giovane: era un buon caratterista. 

Ora è primo attore.

Ma tutti lo siamo: il personaggio è una caratterizzazione. 

Lei non l’è mai diventato: come mai?

Non lo so, forse perché ero magrissimo, bruttino, però ho conquistato delle bellissime donne grazie al fascino dell’attore.

Gassman, Tognazzi, Manfredi, Sordi, Mastroianni. Chi il più bravo?

Tecnicamente Vittorio, talmente perfetto da risultare esagerato: ricordo un Riccardo III con lui protagonista, regia di Luca Ronconi, qualcosa di unico… 

Ma…

Non amo sentire la recitazione, preferisco la naturalezza e Vittorio si è salvato con il cinema: con il grande schermo è stato costretto ad abbassare il diaframma e cambiare il suo stile. 

Tecnicamente Gassman, artisticamente?

Mastroianni. Meraviglioso. In grado di coprire un’ampia gamma di personaggi. 

Amico con Gassman?

Lui era complicato. Durante le riprese de La ragazza del palio, girato tutto a Siena, spesso andavamo a cena insieme, ma era impossibile mantenere una conversazione normale e rilassata, dopo un po’ calava il ritmo e si finiva nel silenzio; allora cambiavo argomento. Inutile: stessa storia. 

Insomma?

Vittorio era difficile capirlo, anche a colazione non interagiva, preferiva leggere, restare con se stesso; Sordi era un po’ più aperto di Vittorio, ma non troppo dissimile nei silenzi. […]

Come cura la memoria?

Leggo tutti i giorni sia i giornali che i libri, ma evito Internet, ho paura di venir irretito, di fissarmi e perdermi. 

E oltre alla sua professione?

Amo le partite, tifo da sempre per la Lazio, ed era una passione comune con mio figlio; ancora oggi quando giocano mi piazzo davanti al televisore e accanto metto una sedia vuota, è come averlo al mio fianco, come un tempo quando gioivamo o ci incazzavamo; lui se n’è andato troppo presto e temo venga dimenticato, per questo quando mi assegnano un premio lo dedico sempre a lui. Se lo merita (chiude gli occhi e resta in silenzio). 

Riceve molti premi?

Per il teatro capita, mentre dal cinema neanche uno, e non ne capisco il motivo. Mi piacerebbe, invece silenzio. Forse a Roma non sanno che sono sempre vivo. E soprattutto lucido. Quindi si sbrigassero. 

·         Addio al magistrato Domenico Carcano.

Addio al magistrato Domenico Carcano, dal Csm ai vertici della Cassazione. Già primo presidente aggiunto della Corte di Cassazione, e capo ufficio legislativo a Via Arenula, Carcano è morto all’età di 72 anni. Il Dubbio il 22 agosto 2022.

È morto all’età di 72 anni il magistrato Domenico Carcano. Ne dà notizia Gnewsonline, il quotidiano web del ministero della Giustizia. Aveva ricoperto le funzioni più alte dell’ordine giudiziario, fino a quella di primo presidente aggiunto della Corte di Cassazione.

Dopo la laurea conseguita nell’Università di Bari, la sua carriera era iniziata nel 1980, con la nomina in ruolo presso la Procura della Repubblica di Treviso. Dal 1989 è stato destinato al Consiglio superiore della magistratura, prima alla Segreteria e poi all’Ufficio studi. Nel 1996 l’assegnazione al ministero della Giustizia, dove ha ricoperto il ruolo di direttore generale vicario degli Affari penali e di direttore dell’Ufficio II – Estradizioni e rogatorie internazionali. Nel 2001 è stato assegnato alla Suprema Corte di Cassazione, presso l’Ufficio del Massimario e la VI sezione penale, prima come consigliere e in seguito come presidente. Dal 2013 è stato nominato capo dell’Ufficio legislativo del ministero della Giustizia, posizione ricoperta fino al 2015. Ha diretto Cassazione penale, prestigiosa rivista di dottrina e giurisprudenza.

·         E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey. 

(ANSA il 23 agosto 2022) - E' morta nella sua casa di Roma la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey. Era nata a Reggio Calabria con il nome da nubile Aliberti ed avrebbe compiuto 97 anni il 23 settembre. Lo rende noto la figlia Silvia, anche lei saggista, oltre che accademica e filologa. 

Moglie del giornalista e scrittore Alberto Ronchey, Vittoria fu insegnante di storia e filosofia al liceo per decenni, oltre che assistente del filosofo Guido De Ruggiero all'Università di Roma.

E' autrice di romanzi e saggi, che le valsero diversi premi. Nel 1992, per il romanzo 1944, fu inserita nella cinquina dei finalisti del Premio Strega. Nel 1996 vinse il Premio Hemingway Lignano Sabbiadoro, sezione Narrativa, per La fontana di Bachcisaray. 

Il suo libro di maggior successo è stato Figlioli miei, marxisti immaginari, scritto nel 1975, sui ragazzi e il mondo della scuola negli anni del Sessantotto, reso popolare da un endorsement di Enrico Berlinguer. Fu anche traduttrice, in particolare del romanzo La piccola Fadette della scrittrice francese George Sand. 

Ida Bozzi per il “Corriere della Sera” il 24 agosto 2022.

Un carattere forte, che aveva conosciuto la guerra e la durezza della povertà, e ne aveva tratto una lezione di impegno assoluto: si è spenta a 96 anni - ne avrebbe compiuti 97 il 23 settembre - la filosofa, scrittrice e insegnante Vittoria Ronchey, moglie del giornalista e scrittore Alberto Ronchey (1926-2010) e madre della saggista e accademica Silvia Ronchey. 

Nata Aliberti a Reggio Calabria il 23 settembre 1925, di formazione filosofa (e assistente dello storico del pensiero Guido De Ruggiero), era stata insegnante di liceo, prima a Bergamo e poi nella capitale, con il trasferimento del marito a Roma al «Corriere della Sera» di Mario Missiroli e al «Corriere d'informazione» come corrispondente (e lo seguì quando fu corrispondente de «la Stampa» a Mosca).

Dall'esperienza di insegnante era nato il primo libro, Figlioli miei, marxisti immaginari (Rizzoli, 1975). Sottotitolo: Morte e trasfigurazione del professore . Un romanzo-diario sulle esperienze di insegnante negli anni della contestazione. «E una denuncia - spiega ora al "Corriere" la figlia Silvia - delle contraddizioni e dei paradossi della pubblica istruzione».

Un libro che la portò alla ribalta, continua la figlia, anche perché fu citato durante un discorso in Parlamento dal segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer.

Vincitore del premio Viareggio Opera prima di saggistica, il libro era il ritratto di una scuola e di una gioventù contemporanea: ma Ronchey volle raccontare anche un'altra gioventù, la propria, immergendosi nell'Italia della guerra con il secondo romanzo, 1944 (Rizzoli, 1992), in cinquina allo Strega. Seguirono Il volto di Iside (Rizzoli, 1993), La fontana di Bachcisaray (Mondadori, 1995), Un'abitudine pericolosa (Mondadori, 1997) e Dodici storie di fantasmi (Longanesi, 1999).

«Era una di quelle persone - racconta ancora la figlia Silvia - che avevano passato l'infanzia nella guerra. Veniva da una famiglia fortemente antifascista e povera, aveva iniziato a lavorare presto: i suoi studenti avevano quasi la sua età». Docente anche alla scuola serale per gli operai, era stata comunista, all'inizio, continua la figlia: «Salvo poi non esserlo più, dopo la sua permanenza nell'Urss di allora». Coraggiosa, con un carattere che non si lasciava intimidire, conclude Silvia: «Una delle persone più colte che abbia conosciuto. Faceva parte di una generazione di intellettuali veri che avevano, sì, una grande cultura universitaria ma anche un forte impegno nel presente: una generazione speciale, che nella durezza della guerra aveva saputo affinare le proprie capacità. E aveva saputo eccellere».

Addio alla scrittrice Vittoria Aliberti Ronchey, la prof dei "marxisti immaginari". La Repubblica il 23 Agosto 2022

Moglie di Alberto Ronchey e madre della filologa Silvia, è stata finalista allo Strega. Il suo libro più celebre fu citato da Berlinguer

"Ci si decide a scrivere un libro quando si ha un rapporto disturbato con la realtà. E io allora l'avevo". Così, con pragmatismo e understatement, la scrittrice Vittoria Aliberti Ronchey, scomparsa a Roma a 96 anni, commentava in un'intervista a Repubblica, negli anni Novanta, la genesi della sua scrittura: si scrive, intendeva, non per ambizione né per mettersi in mostra, ma perché la realtà preme. La traccia di questo rapporto con la vita vissuta percorre tutti i libri che ha scritto, opere che in qualche modo, seppur non in ordine cronologico, hanno fissato sulla carta alcune tappe fondamentali del suo lungo percorso. 

Moglie del giornalista Alberto Ronchey, che fu anche ministro dei Beni culturali, e madre di Silvia Ronchey, bizantinista e filologa, Vittoria Aliberti era nata a Reggio Calabria ma era cresciuta a Roma. Era stata ragazza negli anni della Seconda guerra mondiale, si era laureata in filosofia ed era stata assistente del filosofo Guido De Ruggiero alla Sapienza. Poi aveva scelto l'insegnamento e aveva lavorato per decenni come insegnante di storia e filosofia nei licei della capitale. 

Grande lettrice, traduttrice dal francese (tra gli altri, del romanzo La piccola Fadette di George Sand), aveva seguito alla fine degli anni Cinquanta il marito Alberto in Russia, dove Ronchey era stato inviato come corrispondente della Stampa: lì Vittoria, che parlava e leggeva il russo, lavorò come addetta culturale dell'ambasciata italiana. Nell'originaria militanza di sinistra portava il suo carattere, la sua sincerità con gli altri e con se stessa; anni dopo, proprio dal bilancio difficile della sua docenza in un liceo romano durante la contestazione studentesca nascerà il suo libro più celebre, dal titolo diventato proverbiale. Era quel Figlioli miei, marxisti immaginari, sottotitolo Morte e trasfigurazione del professore in cui, come in un diario, l'autrice raccontava il dirompente ingresso dell'ideologia e della politica nelle aule scolastiche. Edito per la prima volta nel 1975, vendette rapidamente oltre 100 mila copie e divenne l'inaspettato (e contestato) bestseller di una sinistra che guardava in faccia i suoi errori. Era anche, profeticamente, il breviario di una crisi lunghissima, quella dell'istruzione pubblica, la cui portata si sarebbe rivelata compiutamente nei decenni successivi e fino ad oggi. All'epoca, lo stesso Enrico Berlinguer lo citò sui giornali e in un discorso, a riprova di quanto quell'analisi avesse colto nel segno.

Nella maturità Vittoria Ronchey aveva risalito il corso del tempo e dato alle stampe un romanzo che nel 1992 entrò nella cinquina del premio Strega. Si intitolava 1944 ed era ambientato nella Roma dolente, affamata e confusa dell'occupazione tedesca e poi della liberazione alleata. Protagonisti erano due ragazzi, due diciottenni matricole universitarie, l'aristocratico Roberto, di famiglia fascista, e la piccolo borghese Luisa. Non una storia d'amore ma, nelle intenzioni dell'autrice, "un romanzo di idee", in cui Aliberti aveva voluto ricostruire la confusione, la visione parziale di chi nella guerra si era trovato nel pieno della giovinezza, ma anche la coralità, la ridda delle voci in una città ferita e divisa tra partigiani, resistenti, collaborazionisti e perseguitati.

Non aveva consultato libri di storia, ricordava a Natalia Aspesi in un colloquio su questo giornale, ma aveva riletto prima di scrivere La Storia di Elsa Morante, indugiando sui suoi personaggi "disperati e miserabili". Pochi anni dopo, con La fontana di Bachcisaray, dal titolo di un poema di Puskin, era tornata idealmente nella Russia dove aveva vissuto. Di lei la figlia Silvia ricorda: "Era una grande stilista della parola. Ma pensava al vivere, voleva che la sua esistenza le corrispondesse, che corrispondesse alla sua cultura, a ciò in cui credeva. Anche questo faceva parte della sua onestà spiazzante". E quanto bisogno c'è di bagagli di vita e letture che portino buoni libri.

·         E’ morto il comico Gino Cogliandro.

Da leggo.it il 23 agosto 2022.

Lutto nel teatro napoletano: è morto all'età di 72 anni Gino Cogliandro, il cabarettista membro del trio comico napoletani Trettré. Celebre a cavallo degli anni Ottanta e Novanta anche grazie alla partecipazione al programma televisivo Drive In, il trio iniziò a muovere i propri passi nel 1975, col nome de I Rottambuli e con una formazione che vedeva, al posto di Cogliandro, Peppe Vessicchio, che lasciò per indirizzarsi alla carriera musicale.

Ilary Blasi e quella canzone che fa sognare i fan: «Ti vorrei abbracciare...». Una dedica a Totti? Attivo soprattutto nell'ambito dell'avanspettacolo e dei locali notturni fino alla fine degli anni Settanta, il gruppo - rinominatosi I Trettré dopo la defezione di Vessicchio e l'ingresso di Cogliandro, cominciarono presto ad emergere sulla scena cabarettistica nazionale fino al farsi ingaggiare in diversi programmi televisivi tra cui Il barattolo, Il ponte sulla Manica e Lo scatolone.

A partire dal 1983, poi, divennero una presenza quasi fissa di Drive In, affiancando al contempo Paolo Villaggio nei programmi Un fantastico tragico venerdì e Che piacere averti qui, conquistando così una notevole fama presso il pubblico televisivo  

(ANSA il 24 agosto 2022) - E' morto a 72 anni Gino Cogliandro, del trio comico Trettré, popolarissimo negli anni '80. "Quanto mi e ci dispiace? Tanto, tantissimo. Ripeto: "a me, me pare 'na strunzata", scrive il conduttore radiofonico Gianni Simioli, nel darne la notizia, riprendendo la frase diventata un tormentone del trio.

I Trettrè - con Gino Cogliandro, Edoardo Romano e Mirko Setaro - è stato un gruppo di cabaret che ha avuto grande successo tra gli anni Ottanta e Novanta, prima con la partecipazione allo storico programma televisivo Drive In, poi con I-taliani e tante edizioni di Buona Domenica. Al cinema Cogliandro ha preso parte a numerosi film: da 'Joan Lui', con la regia di Adriano Celentano, a 'Fantozzi 2000 - La clonazione'. Ma anche 'Italian Fast Food', commedia cult degli anni Ottanta, fino a 'Made in China napoletano' per la regia di Simone Schettino nel 2017.

Da ricordare anche il "TG delle vacanze", andato in onda nelle estati del 1991 e del 1992, con la sigla "Beach on the Beach", che diventò un grandissimo successo commerciale. La sua carriera è comunque ricordata soprattutto per la partecipazione al trio comico. Una volta scioltisi, i Trettré hanno perseguito individualmente carriere in televisione ed a teatro: Mirko Setaro ha collaborato come autore a diversi programmi Mediaset, Edoardo Romano ha realizzato una piccola parte nel film "La rivincita di Natale" con Diego Abatantuono mentre Cogliandro è stato uno degli inviati della trasmissione Forum e s'è cimentato come commediografo realizzando, tra gli altri, gli spettacoli "Otello ma non troppo", "A volte se ne Vanno" e "Cavoli all'ananas".

Morte Cogliandro: Edoardo Romano,sei andato via senza avvisarci? (ANSA il 24 agosto 2022) - Un ricordo carico di pathos e commozione, quello che il comico napoletano Edoardo Romano, ha dedicato in un video di poco più di due minuti - diffuso dal sito de "Il Mattino" - all'amico Gino Cogliandro, morto oggi. I due, con l'altro comico Mirko Setaro, avevano formato lo storico trio Trettrè, molto noto tra gli anni '80 e '90.

"Caro Gino - inizia Romano - ti ricordi quando nei lontani anni '70 venni a casa tua a Napoli, al vicolo Mata Hari al quartiere Sanità per chiederti di sostituire Beppe Vessicchio? Tu rispondesti molto garbatamente. 'Che garanzie mi date?' Per quelle parole abbiamo riso 30 anni. Voglio ricordati per tutte le cose belle vissute in 30 anni con te; la tua flemma,la tua disponibilità, la tua generosità, quella di cui molti ne hanno approfittato. Quando dovevamo prendere decisioni importanti dicevi sempre questo: 'quello che decidete voi va bene anche per me', per questo ti soprannominai 'Signor ni'".

"Trent'anni di convivenza - continua Romano - il più delle volte coatta, fatta di risate, divertimenti e grandi successi grazie ai quali ancora oggi si ricordano di te e dei Trettrè. Caro Gino, nei nostri sketch facevi sempre la battuta: 'Uè ma quanto siete antipatici, mo me ne vado proprio; no quasi quasi mi trattengo'. E perché ora non ti sei ancora trattenuto, che peccato, avevamo programmato io e te da soli una tournee teatrale e uno spettacolo televisivo. La tua generosità hai voluto dimostrarla ancora una volta andando via per primo. E ora dico io una battuta: Ma come, hai deciso di lasciarci senza avvisarci? A me me pare na strunzat. Ciao Gino".

Aveva 72 anni, il cordoglio degli amici e colleghi di una vita. È morto Gino Cogliandro, del trio i Trettrè: “Un pezzo di storia della comicità”. Rossella Grasso su Il Riformista il 23 Agosto 2022 

Lutto nel mondo della comicità napoletana. È morto Gino Cogliandro, attore, autore e cabarettista del trio comico i Trettrè, aveva 72 anni. A darne notizia sui social gli amici e colleghi di una vita interamente dedicata alla comicità. Tra gli anni ’80 e ’90 i Trettrè riscossero molto successo anche grazie alla partecipazione al programma televisivo Drive In. Colleghi, amici e fan, piangono la morte dell’amato artista napoletano.

I Trettrè iniziarono a muovere i loro primi passi nel 1975 col nome di Rottambuli. All’inizio nella formazione non c’era Cogliandro ma Peppe Vessicchio che poi lasciò per dedicarsi alla carriera musicale. Cogliandro poi prese il suo posto. Attivo soprattutto nell’ambito dell’avanspettacolo e dei locali notturni fino alla fine degli anni Settanta, diventò famoso con la partecipazione di diversi programmi televisivi tra cui Il barattolo, Il ponte sulla Manica e Lo scatolone. A partire dal 1983, poi, divennero una presenza quasi fissa di Drive In, affiancando al contempo Paolo Villaggio nei programmi Un fantastico tragico venerdì e Che piacere averti qui, conquistando così una notevole fama presso il pubblico televisivo.

Una volta scioltisi, i Trettré hanno perseguito individualmente carriere in televisione ed a teatro: Mirko Setaro ha collaborato come autore a diversi programmi Mediaset, Edoardo Romano ha realizzato una piccola parte nel film “La rivincita di Natale” con Diego Abatantuono mentre Cogliandro è stato uno degli inviati della trasmissione Forum e s’è cimentato come commediografo realizzando, tra gli altri, gli spettacoli “Otello ma non troppo”, “A volte se ne Vanno” e “Cavoli all’ananas”.

Appena si è diffusa la notizia della morte di Cogliandro, tanti artisti napoletani hanno voluto omaggiarlo con affettuosi messaggi e ricordi. “Addio a Gino Cogliandro dei Trettre – ha scritto Gianni Simioli su Facebook – Ripeto: a me, me pare ‘na strunzata, ma, purtroppo, non lo è. E ascolto a volume altissimo: ‘Beach on the beach’”. “Che Dispiacere. Gino Cogliandro con te ho fatto TV Teatro una persona così umile, così semplice. Autore Geniale. Hai vissuto tutto dell’artista. Le stelle e le stelle. Che uomo straordinario. Un pezzo di Storia della comicità. Ho imparato tanto tanto tanto da te”, ha scritto Marco Lanzuise.

“Mi hanno appena comunicato che Gino Cogliandro dei Trettrè non c’è più – ha scritto Beppe Braida – Sono completamente basito, io con i Trettrè ho iniziato, ho collaborato e ci ho lavorato. Gino era un’anima pura oltre che comico straordinario, era uno spaccato di quella Napoli verace, allegra e generosa. Un grosso abbraccio a Mirko Setaro e Edoardo Romano. Ricevuta la notizia da Mirko avrei voluto rispondere con un loro famoso tormentone : ‘A me me pare na strunzata’. E invece no! Ciao Gino”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Tra le varie testate con cui ha collaborato il Roma, l’agenzia di stampa AdnKronos, Repubblica.it, l’agenzia di stampa OmniNapoli, Canale 21 e Il Mattino di Napoli. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. E’ autrice del documentario “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

·         È morto il comico Vito Guerra.

Bari piange il suo Piripicchio, Decaro: «Addio all'ultimo testimone del folklore». È morto l’artista barese Vito Guerra, 78 anni, il cui personaggio si ispirava a 'Piripicchio', con la bombetta in testa, un garofano rosso. la Gazzetta del Mezzogiorno il 17 Agosto 2022

È morto l’artista barese Vito Guerra, 78 anni, il cui personaggio si ispirava a 'Piripicchio', con la bombetta in testa, un garofano rosso, baffi e il bastone di legno. «Ultimo testimone di quella dimensione folkloristica che con semplicità animava le strade e le piazze nelle città» lo ricorda il sindaco di Bari Antonio Decaro. «Un vero artista di strada - sottolinea - che per somiglianza fisica e ispirazione era diventato Piripicchio. E come Michele Genovese, con semplicità e straordinaria empatia, ha regalato sorrisi a grandi e piccini».

«La sua banda 'U sciaraball’- ricorda Decaro - era diventata il segno distintivo di un intero territorio, quello di Carbonara, a cui era profondamente legato. È stato interprete autentico delle tradizioni carbonaresi con i suoi riti, le sue feste patronali, le sue sagre, i suoi balli. Ricorderemo Vito Guerra per la passione per la musica, per la teatralità dei gesti e delle espressioni e per la sua generosità. Sono certo che anche da lassù Vito continuerà, con la sua bombetta, il suo bastoncino e i baffetti alla Charlot a dare il tempo alla sua banda affinché le tradizioni popolari possano perpetuarsi».  

Bari piange 'Piripicchio': l'artista di strada amato da Madonna è morto a 78 anni. Gennaro Totorizzo La Repubblica il 17 Agosto 2022.

 Vito Guerra, scomparso a 78 anni. Combatteva contro una malattia. Allietava il pubblico con i suoi spettacoli in piazza, soprattutto durante le feste patronali e le sagre, accompagnato dalla banda

Un’icona non solo di Carbonara, ma di tutta la città. Con la sua bombetta e i suoi baffi a spazzolino. Bari piange l’artista di strada Vito Guerra, in arte Piripicchio, scomparso a 78 anni a causa di una malattia: allietava il pubblico con i suoi spettacoli in piazza, soprattutto durante le feste patronali e le sagre, accompagnato dalla banda. E ora sono in tanti a ricordarlo, commossi.

Vito Guerra, conosciuto come “Vitino”, era nato a Carbonara e viveva a Ceglie del Campo. Lavorava nel campo dell’edilizia come imbianchino, prima della pensione. Ma al contempo aveva raccolto l’eredità di Michele Genovese, artista di strada che ideò la maschera novecentesca di Piripicchio, una sorta di Charlie Chaplin con frac, bombetta, baffetti, garofano rosso all’occhiello e bastone di bambù. Nei suoi spettacoli nelle piazze, nelle feste popolari, nelle sagre e nelle serenate era accompagnato dalla piccola banda U’ sciaraball, “composta dal figlio e dei nipoti – racconta la presidente del Municipio 4, Grazia Albergo – si è esibito anche per Madonna a Borgo Egnazia, assieme ai Terraross”.

“Lo ricordo come una persona solare, amante delle tradizioni – continua la presidente – è una grave perdita per noi, è stata una bella espressione di questo territorio e partecipiamo al dolore della famiglia”. I funerali si terranno domani 18 agosto nella chiesa di Santa Maria del Fonte a Carbonara, alle 16.

"Ultimo testimone di quella dimensione folkloristica che con semplicità  animava le strade e le piazze nelle città" lo ricorda il sindaco di Bari Antonio Decaro. "Un vero artista di strada - sottolinea - che per somiglianza fisica e ispirazione era diventato Piripicchio. E come Michele Genovese, con semplicità e straordinaria empatia, ha regalato sorrisi a grandi e piccini".

"La sua banda 'U sciaraball' - ricorda Decaro - era diventata il segno distintivo di un intero territorio, quello di Carbonara, a cui era profondamente legato. È stato interprete autentico delle tradizioni carbonaresi con i suoi riti, le sue feste patronali, le sue sagre, i suoi balli. Ricorderemo Vito Guerra per la passione per la musica, per la teatralità dei gesti e delle espressioni e per la sua generosità. Sono certo che anche da lassù Vito continuerà, con la sua bombetta, il suo bastoncino e i baffetti alla Charlot a dare il tempo alla sua banda affinché le tradizioni popolari possano perpetuarsi".

·         È morta la comica Anna Rita Luceri.

È morta la comica pugliese Anna Rita Luceri, parte del trio Ciciri e Tria. Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

L'attrice, 48 anni, se n'è andata a causa di un male incurabile, diagnosticato solo pochi giorni fa. 

Se n'è andata all'improvviso, a causa di un male incurabile diagnosticato solo pochi giorni fa, la comica pugliese Anna Rita Luceri, parte del trio al femminile Ciciri e Tria che era anche entrato nel cast di «Zelig». Luceri, 48 anni, era originaria di Martano, in provincia di Lecce, e con le colleghe Carla Calò e Chicca Sanna aveva fondato il gruppo comico, noto per la partecipazione a vari programmi televisivi. Sono state proprio le altre due componenti del gruppo a dare la notizia della sua morte, postando una foto del trio in bianco e nero e scrivendo «stretta a noi per sempre». Stando a quanto riportano i media locali, l'attrice aveva scoperto appena una decina di giorni fa di avere un male incurabile che in pochissimo tempo se l'è portata via. Con Ciciri e Tria Anna Rita Luceri aveva partecipato a «Zelig», ma anche a trasmissioni come «Tu sì que vales», «Domenica cinque» e «Colorado».

·         È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.

Da ansa.it il 18 agosto 2022.

L'avvocato Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia e storico legale di Silvio Berlusconi, è morto all'ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato.  Ghedini, 62 anni, era da tempo in cura per una forma di leucemia che lo aveva colpito ed era stato sottoposto nei mesi scorsi all'ospedale San Raffaele ad un trapianto di midollo. Ma, a quanto si è appreso, la morte è sopraggiunta per una complicanza, una polmonite, probabilmente contratta per il suo stato particolarmente fragile di paziente immunodepresso. 

"Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme. Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te", ha detto il leader di FI, Silvio Berlusconi.

Addio a Niccolò Ghedini, lo storico avvocato di Silvio Berlusconi morto a 62 anni. Il Cav: dolore immenso. Il Tempo il 17 agosto 2022.

Lutto nella politica, è morto Niccolò Ghedini. Il parlamentare di Forza Italia e storico avvocato  di Silvio Berlusconi aveva 62 anni. Da tempo, si apprende, era ricoverato al San Raffaele di Milano. 

"Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme", ha scritto su Facebook, il presidente di Fi, Silvio Berlusconi, rendendo nota la morte di Ghedini. "Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te. Niccolò caro, Niccolò carissimo, ti abbiamo voluto tanto bene, te ne vorremo sempre. Addio, ciao. Per noi sei sempre qui, tra noi, nei nostri cuori. Un forte, fortissimo abbraccio", scrive ancora Berlusconi.

Dopo la diffusione della notizia sono arrivate parole di cordoglio di tanti esponenti del partito. "Un dolore grande la scomparsa di Ghedini che lascia tutti noi sgomenti, pur sapendo che da tempo combatteva con la malattia. Un abbraccio alla famiglia e ai suoi cari. Ciao Niccolò, ci mancherai. Sei e rimarrai amico di una vita", scrive su twitter Renato Brunetta. "La scomparsa di Niccolò Ghedini ci lascia un dolore immenso. Se ne va un grande amico con il quale abbiamo condiviso tante battaglie importanti per il Paese. Rimarrà per sempre il suo grande contributo a migliorare la giustizia in Italia. Ciao Niccolò, riposa in pace", commenta  il coordinatore nazionale di Fi, Antonio Tajani.

"Addio a Niccolò Ghedini, uno degli amici con cui ho condiviso trent’anni di storia politica, e una delle persone più disinteressate che siano state accanto a Berlusconi. Ha lottato come un leone, scompare in campagna elettorale, come un combattente indomito che cade sul campo", ha dichiarato Gianfranco Rotondi, vicepresidente del gruppo di Fi alla Camera. 

Niccolò Ghedini, gli odiatori festeggiano. Le frasi della vergogna sui social e non solo. Il Tempo il 19 agosto 2022

La morte di Niccolò Ghedini, storico avvocato di Silvio Berlusconi, a soli 62 anni dopo una lunga malattia, è stata seguita dai messaggi di cordoglio e partecipazione bipartisan. Ma non sono mancati insulti e sciacallaggi. Gli attacchi più insopportabili naturalmente si sono visti sui social network, sfogatolo dell'odio politico. Libero ha pubblicato una sorta di antologia degli orrori riportando alcuni degli insulti più odiosi a Ghedini. 

Per il quotidiano una delle uscite peggiori è quella del blog satirico Spinoza «È morto l'avvocato Ghedini. Da anni combatteva insieme a un male incurabile», con la sovrapposizione di senso tra la leucemia di cui soffriva l'ex parlamentare di Forza Italia e Berlusconi.  Tra i vari insulti riportati da Libero si legge di tutto: «Lo aspetta l'inferno», «Il karma esiste», «Chi semina vento raccoglie tempesta», «È una bestia che sta già nel fuoco eterno ad aspettare la bestia di Berlusconi», «Per anni ha difeso e tutelato gli interessi di un essere schifoso e subdolo come il suo padrone».

Accanto agli insulti diretti e odiosi dei social, il quotidiano sottolinea anche le uscite di alcuni organi di stampa. "Si pensi a Il Fatto quotidiano che ora chiama Ghedini, a cadavere ancora caldo, «il pretoriano dell'uomo di Arcore»". E Repubblica "che pubblica un pezzo di commemorazione di Ghedini con un carico di veleno, sfottendo l'omaggio del Cav al suo avvocato e amico", si Legge su Libero che riporta uno stralcio di un articolo di Liana Milella: Ghedini era «pronto ad attaccare chiunque pur di contestare le accuse dei magistrati. Pronto a escogitare ogni possibile artificio giuridico per cavare d'impaccio Berlusconi. Tant' è che a lui resterà legata la stagione delle leggi ad personam - dal legittimo impedimento al lodo Alfano, dalla Cirami alla Cirielli (...). E si può capire come adesso Berlusconi possa chiedersi come potrà fare senza di lui». 

Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti

Niccolò Ghedini, nato a Padova il 22 dicembre 1959 (62 anni). Avvocato. Penalista, è uno dei legali di Silvio Berlusconi. Nel 2001 e 2008 eletto alla Camera (Forza Italia, Pdl), nel 2006, 2013 e 2018 al Senato. «Berlusconi è buono. Rispetto a lui, io sono una carogna». 

Vita «Perché è diventato avvocato? “Nella mia famiglia, una famiglia borghese di Padova, tutti da secoli hanno fatto l’avvocato. Il nostro studio ha 400 anni”. Famiglia borghese e con poca fantasia… “Pochissima fantasia. Mia madre però si è occupata della campagna”» (a Claudio Sabelli Fioretti)

• Una volta raccontò di essere caduto da un’impalcatura, in prima media, mentre cercava di sputare in testa agli orchestrali di passaggio nella strada (Gigi Riva) «Il padre di Niccolò, Giuseppe, era un noto penalista del padovano: esponente di una famiglia dell’alta borghesia terriera veneta, conservatore e ricco al punto da fare la professione “per dare da mangiare ai cavalli”. Morì quando Niccolò aveva solo 13 anni. La primogenita Nicoletta e la sorella Ippolita – Nico e Ippi le chiamano gli amici – imboccarono la carriera del padre, scegliendo però il diritto civile. Ereditarono lo studio e aprirono le porte al collega penalista Longo. Niccolò dal canto suo non sembrava destinato a grandi imprese: unico fratello a finire all’istituto Barbarigo, la scuola privata destinata ai figli della Padova bene, si laureò in Giurisprudenza a Ferrara, considerata nella vulgata il rifugio di chi non vuole sottoporsi alla dura scuola padovana. 

E invece la determinazione, il carattere e una passione politica precoce hanno fatto di lui la migliore spalla dell’avvocato Longo. Adolescente nella Padova degli anni 70 divisa tra rossi e neri, tra fronti opposti valicabili solo dalla nascente mala del Brenta, il giovane Ghedini militò nel Fronte della gioventù e finì testimone nel processo alla strage alla stazione di Bologna per aver frequentato dirigenti nazionali dei neofascisti di Ordine nuovo. Chi lo conosce bene lo definisce “un anticomunista per corredo genetico” […]

Abbandonata l’attrazione fascista, Ghedini divenne un convinto esponente del Partito liberale: “Uno dei quattro rimasti”, scherza chi lo frequentava allora. Il futuro legale del Cavaliere si presentava con vesti eccentriche: un impermeabile bianco e guanti neri, a fianco del futuro manager di Publitalia e poi governatore del Veneto, Giancarlo Galan. Ma mentre l’ex ministro dei Beni culturali è noto per amare la bella vita, di Ghedini sembra si possa dire “tutto tranne che godereccio”. 

Secondo gli estimatori, il giovane avvocato che lavora con Longo è “un cultore della disciplina, dotato di istinto e uso a penetranti boutade”. Talvolta oltre il limite. Come quando definì il Cav “utilizzatore finale” delle donne che affollavano Arcore, nonostante avrebbe potuto disporne in “grandi quantitativi” anche “gratis”. Chi conosce lo studio Ghedini e Longo dice che alla fine l’incontro con Berlusconi ha portato ai legali più danni che vantaggi. E anche l’entrata in parlamento dei due avvocati è avvenuta per puro “spirito di servizio”» (Giovanna Faggionato)

• «È vero che lei è stato il maestro di Ghedini? “Sì. Io ho 15 anni più di Niccolò e quando si laureò entrammo entrambi nello studio Ghedini. Lui come praticante, io per tentare di salvare il salvabile, perché da lì se n’erano andati tutti alla morte di suo padre, avvenuta quando lui aveva 13 anni. Erano rimaste solo le due sorelle, Ippolita e Nicoletta”.  

Tra voi c’è ancora questo rapporto allievo-maestro? “No, la differenza d’età tra noi non si sente più. Lui è stato un ottimo allievo, ora è un ottimo collega. Abbiamo caratteri diversi quindi ci compensiamo”. Diversi in cosa? “Ghedini è un pessimista, io l’opposto. Lui è sempre stato un grandissimo lavoratore con uno spiccatissimo senso del dovere, io invece penso che le cose importanti della vita siano la salute e i sentimenti. Sono più giovane io di lui”» (Piero Longo a Barbara Romano)

• «Il presidente Silvio Berlusconi arriva nella vita di Niccolò sotto forma del processo “toghe sporche”. Era il 1998 il premier non aveva mai sentito parlare di questo giovane veneto dall’aria mite. Non se ne separerà mai più. Alla Camera Niccolò approderà con lui, nel 2001» (Alessandra Arachi) • «La storia di Ghedini e Berlusconi è diventata oggetto di leggenda. Nei corridoi dei tribunali si racconta che quando l’ex premier si rivolse a Piero Longo per ottenere la sua difesa, il celebre avvocato declinò l’invito: “Sono molto onorato presidente, ma non ho abbastanza tempo”. Fu allora che i due ritennero di “coltivare il giovane Ghedini”. […] È stato – secondo molti – il cervello della legge ad personam: “La legge è uguale per tutti, ma non necessariamente lo è la sua applicazione”, disse nel 2009 nella memorabile discussione in aula sul Lodo Alfano. Nel 2011, poi, solo per portare da Milano a Padova i documenti del processo Ruby dovettero affittare un camion. Letteralmente.

Ma nelle faccende personali del Cav sono finiti coinvolti primari e comprimari. Da una parte lo studio Longo-Ghedini (una squadra di 12 professionisti tra penalisti e civilisti), dall’altra la corte di Berlusconi. Nel 2011 alcuni documenti del processo Ruby furono inviati all’intero gruppo del Pdl. Mentre le due sorelle Ghedini gestirono il divorzio da 1,4 milioni di euro tra Silvio e Veronica. Più recentemente, Paola Rubini, penalista, da 20 anni braccio operativo dello studio padovano, ha difeso Francesca Pascale dalle accuse di Michelle Bonev sulle sue abitudini sessuali. La politica, insomma, ha invaso le stanze e i faldoni di via Altinate» (Giovanna Faggionato)

• Trattava lui, per conto di Silvio, con Veronica • Uomo chiave nell’emendamento al decreto sicurezza che rinviava di un anno i processi per i reati minori (quelli cioè con pene inferiori ai dieci anni). Quell’emendamento fu all’origine dello scontro tra Berlusconi e il Csm nel giugno-luglio 2008: la sua entrata in vigore, infatti, permetteva la sospensione del processo Mills in cui il presidente del Consiglio rischiava una condanna a sei anni

• «“I cavilli. Da sempre. Ho sempre impostato le mie difese sulle questioni di procedura o di diritto”. I cavilli sono giustizia giusta? “Il processo giusto è quello che segue le regole. Se il processo è lento, o torna in primo grado o finisce nella scadenza termini, è colpa della norma. O del giudice che la applica male”. Vale anche per chi è impegnato in politica? “Il giudizio politico viene dato dall’elettore. Il processo va fatto con le regole. Per Berlusconi sono state disattese 99 volte su 100”» (a Sabelli Fioretti) • «Applica sempre il massimo delle tabelle professionali: 2.479 euro Iva compresa per un’udienza, 26 mila per una causa con poche udienze» (Antonello Caporale nel 2002) • Indagato per concorso in corruzione in atti giudiziari nel processo Ruby Ter che vede coinvolte le ragazze che hanno frequentato la casa di Silvio Berlusconi ad Arcore e che avrebbero testimoniato a favore di quest’ultimo in cambio di soldi, nel 2015 la sua posizione e quella di Piero Longo sono state stralciate e poi archiviate

• Nel 2016, stando al monitoraggio di Openpolis, è stato il senatore con la più alta percentuale di assenze a Palazzo Madama (99,15%). «Lei, quando è assente, cosa fa di preciso? “Guardi: io, ogni giorno, e anche più volte al giorno, sento il mio presidente, Silvio Berlusconi. E lui... d’intesa con il capogruppo al Senato di Forza Italia, Paolo Romani, mi ha concesso la possibilità di fare politica fuori dal Parlamento. Un’attività che, evidentemente, viene giudicata utile. Altrimenti non mi avrebbero ricandidano così tante volte, non trova?”. Trovo che non partecipare con una certa regolarità ai lavori parlamentari tradisca il suo mandato. “Questa è una considerazione buffa, lo sa?”. Lei la trova buffa? “Ma certo! Ora mi tira fuori quest’idea un po’ balzana della nostra democrazia... No, dico: mi sembra sia noto che quando i parlamentari italiani vanno a votare è già stato tutto deciso. Il capogruppo fa un gesto con la testa e ordina: votiamo sì, oppure votiamo no. I parlamentari, che spessissimo non sanno neppure cosa stanno votando, si limitano quindi ad alzare il ditino, pigiano diligenti il tasto e poi tornano a sonnecchiare, oppure a leggere il giornale sull’iPad, a scrivere sms, a telefonare...”» (a Fabrizio Roncone)

• Celebri le sue litigate con Marco Travaglio ad Annozero, la trasmissione di Michele Santoro andata in onda su Raidue tra il 2006 e il 2011: «Praticamente un format. Travaglio cita una sentenza per dire che Berlusconi è un criminale. Lui parte in una difesa appassionata scartabellando faldoni. Travaglio insiste. Lui si incaponisce. I toni si alzano. Santoro osserva felice. Le voci si sovrappongono. Finché lui, esasperato, urla “mavalà”» (Sabelli Fioretti) 

• Sposato con Monica Merotto, un figlio, Giuseppe • Ha tre sorelle, Elena Francesca Ghedini (1945), archeologa; Nicoletta (1942) e Ippolita (1950), avvocatesse. Ippolita, specializzata in Diritto di famiglia, ha seguito Silvio Berlusconi nelle pratiche per il divorzio da Veronica Lario • «Più estroversa Ippolita detta “Ippi”, ottima cavallerizza come fa presagire il nome da regina delle Amazzoni, sposata a Michele Dalla Costa, al vertice della Procura di Trieste. Più defilata Nicoletta, di otto anni più anziana, nota per aver ’consigliato’ Virginia Sanjust, la giovane annunciatrice al centro di una causa intentata dal suo ex marito contro il premier (che aveva al fianco Niccolò)» (Denise Pardo).

Critica «Ghedini è duro ma sportivo, non sfugge al confronto. È coraggioso» (Marco Travaglio) • «Ghedini perde i processi in tribunale e prova a vincerli in Parlamento. Finché lo difendevo io, Berlusconi si è sempre fatto processare. Ed è stato sempre assolto o prescritto» (Gaetano Pecorella) • «Allure fassinesca, mento che sembra un cactus e una somiglianza con Christopher Lee, insuperato interprete del vampiro Dracula (...) È lui il falco dei falchi, l’uomo con il cerino in mano che ha dato fuoco al falò delle ostilità tra Palazzo Chigi e la magistratura» (Danise Pardo) • «Il sarto di fiducia di Silvio Berlusconi, cliente in doppiopetto. Lui cuce. Tra leggi, disegni di legge, decreti e semplici bozze, ha ricamato una ventina di provvedimenti. Otto hanno visto la luce, e sono leggi dello Stato. La sua virtù è non stancarsi mai. Notte e giorno, a Natale e Ferragosto. C’è sempre» (Antonello Caporale).

Tifo «Il calcio non mi appassiona. Ma per simpatia del presidente tifo per il Milan. È divertente guardare le partite con lui. Fa commenti pertinenti, ti spiega che quell’azione è sbagliata. Lo vedi che soffre. È come guardare una partita di tennis con Panatta» (a Sabelli Fioretti). 

Hobby «Il lavoro. Ritengo sia una fortuna. Non frequento salotti, non conosco la cosiddetta mondanità. Non vado a teatro, non scio, non nuoto, non vado a cavallo. Quando non sono ad Arcore o a Palazzo Grazioli, torno a casa a Padova».

Vizi Colleziona auto d’epoca Ha una Packard convertibile (la sua preferita), una Triumph Tr3, una Aston Martin. Per gli 80 anni ha regalato a Berlusconi una Lancia Astura nera del 1936 (anno di nascita di Berlusconi), conservata ad Arcore. 

È morto Niccolò Ghedini, storico avvocato di Berlusconi. Il Cavaliere: “Dolore immenso”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Agosto 2022

Si è spento a 62 anni Niccolò Ghedini, avvocato e senatore di Forza Italia. Era da tempo in cura per una forma di leucemia che lo aveva colpito ed era stato sottoposto nei mesi scorsi all'ospedale San Raffaele ad un trapianto di midollo

A 62 anni è morto l’avvocato e senatore Niccolò Ghedini. Nato a Padova nel 1959, è stato a lungo il legale di Silvio Berlusconi e, dal 2001, è stato un parlamentare di Forza Italia. Ghedini aveva iniziato a fare politica negli anni Settanta, per poi essere eletto nel 2001 alla Camera dei deputati nelle file di Forza Italia. Nel 2006 viene eletto per la prima volta al Senato, dove tornerà nel 2013. Dal 2005 ha ricoperto l’incarico di coordinatore regionale di Forza Italia in Veneto. Lascia un vuoto incolmabile nel mondo della giurisprudenza e della politica italiana.

Dopo l’operazione al cuore, nel 2016, Berlusconi gli aveva lasciato anche le chiavi del partito in co-gestione con Gianni Letta per un periodo, a testimonianza di una fiducia totale. E lui, con la toga nei processi o in impeccabili completi scuri al Senato, gli è stato sempre accanto, in ruoli chiave: nella scelta delle candidature, della linea politica, delle decisioni cruciali su ogni dossier delicato. Un’ombra riservata e poco sotto i riflettori, e una testa acuta, per i pochi che avevano accesso alle sue confidenze, sempre anticipate da un “non voglio apparire, è solo per spiegarle…“. 

La notizia, drammatica, è arrivata proprio mentre i vertici di Forza Italia — da Tajani a Ronzulli, da Bernini a Barelli — hanno raggiunto a “Villa La Certosa” a Porto Rotondo in Sardegna Silvio Berlusconi per chiudere il capitolo liste. C’era ancora un posto riservato per quello che a lungo è stato non solo l’avvocato nei delicati processi che hanno costellato i 28 anni di vita politica del Cavaliere, ma anche suo consigliere, tra i più stretti, vicini, fidati, ascoltati: “Stiamo aspettando una sua telefonata. Non sta bene, ma se vuole, noi siamo la sua famiglia e lo attendiamo” dicevano ancora due giorni fa dai vertici del partito .

A rendere pubblica la notizia della scomparsa di Ghedini è stato Gianfranco Rotondi vicepresidente del gruppo forzista alla Camera : “Addio a Nicolò Ghedini, uno degli amici con cui ho condiviso trent’anni di storia politica, e una delle persone più interessate che siano state a fianco di Silvio Berlusconi. Ha lottato come un leone, e scompare in campagna elettorale, come un combattente indomito che sceglie di cadere sul campo“. 

“Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme. Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te”, ha detto Silvio Berlusconi annunciandone il decesso. Il Cavaliere ha poi aggiunto: “Niccolò caro, Niccolò carissimo, ti abbiamo voluto tanto bene, te ne vorremo sempre. Addio, ciao. Per noi sei sempre qui, tra noi, nei nostri cuori. Un forte, fortissimo abbraccio“. 

Da quanto si apprende dall’Ansa, Ghedini era da tempo in cura per una forma di leucemia che lo aveva colpito ed era stato sottoposto nei mesi scorsi all’ospedale San Raffaele ad un trapianto di midollo. Figlio e fratello di avvocati penalisti, a Ferrara, entra nello studio di Piero Longo, con il quale sarà poi parlamentare FI e legale del suo leader. Parlamentare FI dal 2001 ad oggi, tra Camera e Senato dove era attualmente eletto, ha fatto parte del Comitato di presidenza di Forza Italia.

“La scomparsa di Niccolò Ghedini ci lascia un dolore immenso. Se ne va un grande amico con il quale abbiamo condiviso tante battaglie importanti per il Paese. Rimarrà per sempre il suo grande contributo a migliorare la giustizia in Italia. Ciao Niccolò, riposa in pace“, ha commentato il coordinatore nazionale di Forza Italia, Antonio Tajani. “Ci ha lasciati il senatore Niccolò Ghedini. Un collega di rara intelligenza e professionalità. Lascia un vuoto enorme in tutta la comunità di Forza Italia”. Lo scrive su Twitter Anna Maria Bernini. “A nome mio e del gruppo FI al Senato, un abbraccio affettuoso e commosso ai suoi cari”, si legge sul profilo social di Anna Maria Bernini, presidente dei Senatori di Forza Italia.

Ci ha lasciati il S

Il sindaco di Padova, Sergio Giordani, ha scritto un profondo messaggio di cordoglio su Facebook: “Sono molto addolorato per la scomparsa di Niccolò Ghedini. Una persona e un politico molto legato a Padova che ho avuto modo di conoscere quando sono divenuto Sindaco e col quale ho sempre coltivato un rapporto di grande cordialità e forte rispetto reciproco. Ai familiari, agli amici e anche al suo partito, Forza Italia, rivolgo sincere condoglianze“. “Addio a Niccolò Ghedini. Mi stringo al dolore della famiglia e di quanti gli hanno voluto bene”, ha scritto il senatore Matteo Salvini, leader della Lega, su Twitter.

 Morto Niccolò Ghedini, storico avvocato di Silvio Berlusconi. Aveva 62 anni. Paola Di Caro su Il Corriere della Sera il 17 Agosto 2022.

Dal 2001 era parlamentare con Forza Italia: è morto all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato per una forma di leucemia. Berlusconi: «Grande e immenso dolore, non mi sembra possibile». 

Nella serata di mercoledì 17 agosto è morto il senatore Niccolò Ghedini, a lungo legale di Silvio Berlusconi e dal 2001 parlamentare con Forza Italia. Nato a Padova, aveva 62 anni. È morto all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato a causa di una forma di leucemia, che da mesi lo aveva allontanato dall’attività politica.

La notizia, drammatica, arriva proprio mentre i vertici di Forza Italia — da Tajani a Ronzulli, da Bernini a Barelli — hanno raggiunto a Villa La Certosa Silvio Berlusconi per chiudere il capitolo liste. C’era ancora un posto riservato per quello che a lungo è stato non solo l’avvocato nei delicati processi che hanno costellato i 28 anni di vita politica del Cavaliere, ma anche suo consigliere, tra i più stretti, vicini, fidati, ascoltati: «Stiamo aspettando una sua telefonata. Non sta bene, ma se vuole, noi siamo la sua famiglia e lo attendiamo», dicevano dai vertici del partito ancora due giorni fa.

Era ricoverato all’ospedale San Raffaele per una forma di leucemia. La malattia da mesi ormai lo aveva allontanato dalla quotidianità politica. Niccolò Ghedini, a 62 anni, lascia un vuoto profondo in una FI — di oggi e di ieri — di cui è stato fedelissimo, silenzioso, potente, ascoltato punto di riferimento.

«Ci ha lasciato Niccolò — scrive in una nota Berlusconi —. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci, tre giorni fa abbiamo ancora lavorato insieme». E ancora: «Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherà immensamente e ci domandiamo: come potremmo fare senza di te? Niccolò caro, Niccolò carissimo, ti abbiamo voluto tanto bene, te ne vorremo sempre. Addio, ciao. Per noi sei sempre qui, tra noi, nei nostri cuori. Un forte, fortissimo abbraccio».

Ghedini era nato a Padova, laureato in Giurisprudenza a Ferrara, aveva mosso i primi passi da avvocato nello studio del padre Giuseppe. Una gioventù scandita dalla passione per la politica e per la professione: prima militanza a destra, nel Fronte della Gioventù, poi nel Partito liberale. In FI viene eletto per la prima volta nel 2001, poi nel 2006 passa alla Camera, nel 2008 ancora al Senato e a Palazzo Madama resta fino alla fine. Sempre nell’interesse del Cavaliere, per il quale fino all’ultimo ha gestito tutta la linea giudiziaria, sostenendo anche l’ascesa della presidente del Senato Casellati, a lui sempre vicina.

Dopo l’operazione al cuore, nel 2016, Berlusconi gli lascia anche le chiavi del partito in co-gestione con Gianni Letta per un periodo, a testimonianza di una fiducia totale. E lui, con la toga nei processi o in impeccabili completi scuri al Senato, gli è stato sempre accanto, in ruoli chiave: nella scelta delle candidature, della linea politica, delle decisioni cruciali su ogni dossier delicato. Un’ombra riservata e poco sotto i riflettori, e una testa acuta, per i pochi che avevano accesso alle sue confidenze, sempre anticipate da un «non voglio apparire, è solo per spiegarle...».

«Mio fratello Niccolò Ghedini, scapestrato in gioventù e insonne di talento. Così conquistò Berlusconi». L’avvocato padovano nei ricordi della sorella Vittoria Nicoletta e del nipote Luca. «Vittima di body shaming, lo chiamavano Lurch». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 19 Agosto 2022.

Vittoria Nicoletta Ghedini torna con la memoria a quasi mezzo secolo fa. «Quando papà morì, Niccolò avrà avuto si e no quindici anni mentre io e le mie sorelle Francesca e Luisa Ippolita, eravamo molto più grandi. Fu un duro colpo, per fortuna eravamo una famiglia solida e ci pensò mamma Renata a tenerci uniti, compatti: mio fratello, che da giovane era anche piuttosto scapestrato, non avrebbe mai fatto nulla che potesse deluderla».

Ghedini è uno dei nomi più noti dell’alta borghesia veneta: generazioni di legali che da oltre un secolo si tramandano lo studio in centro a Padova. Scomparso mercoledì a 62 anni, Niccolò – avvocato, parlamentare di Forza Italia e soprattutto difensore di fiducia di Silvio Berlusconi, che l’ha sempre voluto accanto come amico e consigliere politico – rivive nei ricordi d’infanzia della sorella e in quelli del nipote Luca Favini, entrato pure lui a far parte del team legale di via Altinate.

«Mi ero appena laureata in giurisprudenza, e con Luisa ci ritrovammo a prendere le redini dello studio, mentre Francesca seguiva la sua passione per l’archeologia», racconta Vittoria Nicoletta Ghedini. «Intanto Niccolò frequentava le superiori e a 17 anni si sarebbe fidanzato con una ragazzina, Monica Merotto, che poi è diventata sua moglie e con la quale ha condiviso tutta la vita. Ad ogni modo, ci serviva subito un buon penalista e chiesi consiglio a un amico che mi indicò un giovane e promettente assistente, laureatosi da poco».

Piero Longo. Suo fratello l’ha sempre considerato «il maestro».

«Longo si dimostrò ben presto il fuoriclasse che tutti conosciamo. E quando Niccolò, appena laureato, venne a lavorare con noi, lui lo prese sotto la sua ala».

La ribalta arrivò negli anni Ottanta: Longo difendeva Marco Furlan, il serial killer di Ludwig, e volle Niccolò accanto a sé. Per la prima volta si trovò a rispondere all’assalto dei giornalisti, come reagì?

V.Ghedini: «Con molto equilibrio: non era vanitoso ma aveva capito che anche l’aspetto mediatico aveva un certo peso. Se la cavò bene: sapeva argomentare, anche perché studiava molto. In poco tempo imparò a vincere l’innata riservatezza e a stare davanti alle telecamere, capacità che gli tornò utile dopo il suo ingresso in politica, quando ospite di Michele Santoro si trovava a replicare alle invettive di Marco Travaglio».

Favini: «Mio zio era un intellettuale: soffriva d’insonnia e trascorreva le notti a leggere ogni genere di libro. Era preparatissimo sugli argomenti più disparati: dalla cucina alle arti marziali, oltre ovviamente al Diritto. Conosceva ogni Legge, ogni cavillo; sapeva quale tribunale sarebbe stato più favorevole, a quali argomenti quel giudice avrebbe dimostrato più sensibilità. Partecipare alle riunioni con lui e Longo, ascoltare le loro arringhe, per me è stato come assistere all’attività di due geni assoluti. Niccolò, poi, univa alla competenza la capacità di entrare in empatia col cliente, di rassicurarlo e di farlo sentire compreso».

Dopo Ludwig, la nuova sliding door: l’incontro con Berlusconi.

V. Ghedini: «All’epoca era segretario dell’Unione delle camere penali italiane. Fu Gaetano Pecorella a segnalarlo al leader di Forza Italia, negli anni Novanta. Ricordo che un giorno ero da sola in ufficio quando arrivò la telefonata di una signora: si presentò come la segretaria di Berlusconi e mi spiegò che il Cavaliere chiedeva che Niccolò lo raggiungesse a Milano. Le risposi che se voleva incontrare mio fratello poteva benissimo venire lui a Padova…».

Favini: «A Silvio l’ha legato un’amicizia sincera, profonda. Mi ha sempre parlato di lui come di un grande politico e di una brava persona che voleva il bene dell’Italia. Insieme hanno vissuto molte avventure, professionali e umane. Giusto o sbagliato che sia, l’ha sempre difeso: nelle aule di tribunale, nella convinzione che fosse un perseguitato, e in televisione, dove i giornalisti stravolgevano la realtà».

Quel legame gli è costato molti grattacapi: è stato dipinto come l’eminenza grigia di Forza Italia, l’uomo dietro alle leggi ad personam, l’avvocato pagato per negare l’innegabile, a cominciare dal Bunga Bunga…

V. Ghedini: «Attaccavano lui per attaccare Berlusconi. E spesso le offese scendevano su un piano personale: dicevano che era brutto, lo chiamavano Lurch, come quello della Famiglia Addams... Oggi si direbbe che era vittima di body shaming».

Favini: «Lo zio ha partecipato a tante cene con Silvio. Mi raccontava delle canzoni di Mariano Apicella, delle barzellette, ma di sicuro non si sarebbe mai infilato in situazioni inopportune. Ad ogni modo lui volava alto, le insinuazioni non lo ferivano. Ricordo che veniva sbeffeggiato anche per il suo pallore. Un giorno mi disse: “Se la pelle è bianca come le pagine di un libro, in aula incuti più rispetto e soggezione”. Il suo insegnamento è anche questo: saper tirare fuori il meglio da ciò che hai a disposizione».

Quando ha saputo di essere malato di leucemia?

Favini: «Circa un anno e mezzo fa, e vista la sua cultura aveva capito immediatamente la gravità della situazione. Ad ogni modo si sottopose subito alle cure e intanto continuava a seguire il lavoro: mi chiedeva di aggiornarlo, mi dava consigli, mi spronava a fare sempre bene».

V. Ghedini: «È stato un soldato. Ha affrontato la malattia, e poi la morte, con la stessa dignità che l’ha accompagnato per tutta la vita».

Paola Di Caro per il “Corriere della Sera” il 18 agosto 2022.

Anche chi se ne è appena andato da Forza Italia, come Renato Brunetta, lo piange: «Ci conoscevamo da cinquant' anni, la sorella Ippolita aveva sposato un mio compagno di scuola. Dopo il mio addio, mi ha fatto una telefonata bellissima. Era un signore». 

Niccolò Ghedini lascia un vuoto in una comunità, quella di Forza Italia, che lo rispettava e ne riconosceva «l'equilibrio, la razionalità, la competenza», il suo essere un punto di riferimento per tutti. Su posizioni diverse, non sempre coincidenti, ma come Gianni Letta uno di quegli uomini della ristretta cerchia di Silvio Berlusconi di cui tutti riconoscevano l'equilibrio.

«Il consigliere», così lo definivano, era un uomo «serio, un professionista, magari freddo, ma forte, ascoltato, rispettato». E tanto brillante nel privato - con le sue battute sferzanti da veneto di buona famiglia, figlio di un famoso avvocato di Padova di cui ha continuato l'attività con grande successo, diventando a lungo il parlamentare con il reddito personale più alto -, quanto riservato un pubblico. 

Non cercava la scena Ghedini, la rifuggiva. Non gradiva interviste, quasi sempre rifiutate, se non strettamente legate al suo campo, quello di avvocato di Berlusconi. Ma nei momenti difficili sapeva raccontare quello che stava succedendo con una lucidità di analisi e senza partigianeria: «Così stanno le cose. Cosa penso io? Non importa, questa è la situazione. Non mi citi», diceva sempre a chi gli chiedeva lumi nei passaggi che poi hanno determinato le scelte di Berlusconi.

In tribunale Niccolò Ghedini è entrato prestissimo, attaccato al suo grande maestro, l'avvocato Piero Longo, che in udienza se lo portava quando il giovane promettente era ancora uno studente in giurisprudenza. Diceva, il maestro: «Tenete a mente il nome di questo ragazzo, si chiama Niccolò Ghedini e farà strada». 

Strada che li ha visti fianco a fianco per parecchio tempo. Entrambi sono stati avvocati di Silvio Berlusconi, entrambi parlamentari di Forza Italia. Figlio e fratello di avvocati penalisti, Niccolò entra presto a far parte dello studio di Longo.

E al primo processo insieme, negli anni Ottanta, con il «caso Ludwig», diventa già famoso. Lavorava sempre, Ghedini. A chi gli domandava quale hobby avesse tolta la toga, rispondeva, aggiustandosi gli occhiali con le lenti che gli ingrandivano ancora di più gli occhi: «Il mio Hobby? Il lavoro. E ritengo sia una fortuna. Non frequento salotti, non conosco la cosiddetta mondanità. Non vado spesso a teatro, non scio e non nuoto, non vado neppure a cavallo. Quando non sono ad Arcore o a Palazzo Grazioli, torno a casa a Padova».

Il «sarto» di Berlusconi, ha detto di lui qualcuno. In oltre vent' anni, tra leggi, disegni di legge, decreti o semplici bozze, ha cucito e ricamato parecchi (oltre venti) provvedimenti. Una decina hanno visto la luce e sono diventati legge dello Stato. Oltre a scriverle, al Cavaliere Ghedini spiegava le leggi. 

E sempre a lui toccava alzare il telefono e chiamare Silvio Berlusconi per comunicargli gli esiti dei processi, assoluzioni o condanne. «Davanti a un verdetto di colpevolezza - raccontava -, Silvio Berlusconi resta sempre incredulo. Normale per una persona innocente che ha la coscienza pulita».

Erano «più che amici», lui e il Cavaliere. Diceva ancora: «E io difendo l'onore e la libertà di questo amico ogni volta innocente cui voglio bene. Molto bene». Le auto d'epoca. Ecco forse una passione, per Ghedini, che non entrava dentro l'aula di un tribunale. Raccontano sia stata sua, nel settembre del 2016, l'idea di regalare a Berlusconi, per i suoi 80 anni, una bellissima e lucida Lancia Astura del 1937.

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 19 agosto 2022.

La notizia del trapasso di Niccolò Ghedini, avvocato di Silvio Berlusconi e senatore, è di ieri. A 62 anni è stato stroncato da una malattia assassina: la leucemia. Giustamente la sua figura di professionista instancabile viene esaltata dai media: personaggi di tale caratura ce ne sono pochi e quando, magari prematuramente, vanno all'altro mondo, vengono ricordati per il loro lavoro al servizio della comunità. 

Ma io, che mi vanto di essere stato amico suo, desidero sottolineare un aspetto misconosciuto e intimo del suo carattere poliedrico, al di là dell'abilità con la quale agiva nelle cause riguardanti le grane del Cavaliere, ovvero la grande generosità. 

Vi narro un unico episodio che vi farà capire la ricchezza umana di Ghedini. Accadde una dozzina di anni orsono. Un figlio ventenne di miei amici fraterni era sprofondato nella trappola della cocaina da cui, nonostante gli sforzi, non riusciva a venire fuori. 

Ne parlai con Niccolò che cominciò ad occuparsi della pratica e un giorno venne nel mio ufficio per spiegarmi la soluzione da lui architettata per aiutare il ragazzo, soluzione che subito decidemmo di adottare. Quindi ingaggiammo due ex poliziotti molto esperti e li mettemmo alle calcagna del giovanotto. 

Registrammo i suoi contatti con gli spacciatori ed eventuali clienti allo scopo di verificare quale fosse il suo giro. Raccolte le prove della sua dipendenza, facemmo intervenire i falsi agenti i quali gli notificano i reati commessi al fine di indurlo a credere che sarebbe stato arrestato e trasferito presso l'istituto penitenziario di San Vittore, a Milano. A quel punto, una bella mattina, all'alba, fecero irruzione a casa del giovane e gli notificarono il provvedimento restrittivo.

Egli, disperato, proprio come aveva previsto Ghedini, mi telefonò pregandomi di intervenire. «Allora tu gli spiegherai che la sola maniera per non finire in galera sarà quella di accettare il ricovero in una comunità di recupero, quella il cui capo tu conosci bene e col quale ti sarai già accordato. Il ragazzo, senza dubbio, se la farà sotto e valuterà la condizione come una salvezza», questo era il piano diabolico di Niccolò, che me lo aveva illustrato con testuali parole. Piano che si rivelò perfetto. Tutto andò secondo programma pianificato a tavolino.

Giunse il dì del taroccato arresto. Il malcapitato rimase di stucco, non proferiva più sillaba, era rassegnato a recarsi in carcere, quando io gli proposi l'alternativa della struttura dedita alla rieducazione. Va da sé che acconsentì al volo, senza discutere. Salì in automobile in compagnia degli pseudo-gendarmi e per circa due anni subì le cure poco urbane dei rieducativi, i quali gli fecero passare la voglia di stordirsi con gli stupefacenti. Fu un trionfo di Niccolò, la sua tattica fu vincente. 

Adesso l'ex "tossico" fa l'imprenditore, è marito e padre equilibrato e perbene. Non gli ho mai rivelato la via indicata dall'avvocato più bravo del mondo per salvargli la pelle. Né ho mai raccontato a qualcuno questa faccenda temendo di aver commesso un reato, sia pure a fin di bene. Oggi il delitto sarebbe prescritto, quindi lo confesso in lode a un uomo intelligente quanto buono.

La sua morte, causata dal linfoma non-Hodgkin, ossia un tumore maligno del sangue che non gli ha lasciato scampo, mi addolora intimamente. Un amico indimenticabile che non meritava un epilogo così precoce. Smetto di scrivere poiché mi viene da piangere, a me come a Berlusconi, che lo considerava alla stregua di un figlio. La sua storia di legale raffinato ed efficiente è nota, la sua bella e delicata personalità, purtroppo, un po' meno.

ARCHEO-INTERVISTA A NICCOLÒ GHEDINI (12 SETTEMBRE 2016)

Cristiana Lodi per “Libero Quotidiano”

Smilzo e pallido. Arriva con passo aristocratico provocando fascino spettrale. E si dichiara pronto a tutto pur di salvare il capo. Il cliente in doppiopetto che lo ha creato, plasmato, reso potente. E ricco più di quanto già non fosse. 

La sua virtù (a far tutt'uno con la sua filosofia giuridica) è che lui non si stanca mai. Nel muro contro muro coi magistrati, non cede nemmeno se lo avveleni. A dispetto della voce cantilenante: «Ella, signor giudice …». Tende il labbro in direzione del lobo destro (non sia mai quello sinistro per uno che come lui è anticomunista per cromosoma) e, in un nanosecondo di scherno, sferra la sua strategia di difesa. Oppone impedimenti e codicilli. Azzecca astuzie procedurali, in quel ring dove ti chiamano soltanto per sbranarti.

«In questo mestiere - dice - il 99,99 per cento è sudore e quel che resta è abilità». Notte e giorno, domenica e Ognissanti, Natale e Ferragosto: l'avvocato-onorevole Niccolò Ghedini è sempre presente. Nonostante (e meno male) stando al motto, sarebbe Silvio quello che c'è.

«Berlusconi è totalmente innocente e lo è sempre stato, come provano le mille assoluzioni e, ancor più, l'ingiusta condanna del 2013 per la frode fiscale mai esistita. Una sentenza, quella, utile soltanto a estrometterlo dalla scena politica. Basta andarli a vedere gli almeno 65 processi nei quali è stato costretto a difendersi. Assolto e sempre assolto. E anche i casi prescritti sarebbero finiti allo stesso modo, se non fosse intervenuto lo scadere dei termini. Si veda il caso Mills, per citarne uno.È sufficiente leggere la sentenza per constatare che c' era assoluzione. Anche lì», arringa così l' avvocato padovano nato nel 1959. Il giovane disciplinato che alla fine dei Novanta sbaraglia nel cuore di Silvio Berlusconi e vince annientando ogni possibile rivale. 

Come è diventato il suo avvocato e consigliere per eccellenza?

«Berlusconi non ha bisogno di un consigliere. È un uomo d' intelligenza superiore e in quanto tale può consigliarsi benissimo con se stesso. Io, al massimo, gli rappresento le norme procedurali. Sono il suo avvocato, quello che lo difende e che fa le scelte processuali». 

Com' è cominciata?

«Per caso, nel 1998. Avevo difeso un giornalista del gruppo Fininvest su indicazione di Gaetano Pecorella che era presidente nazionale delle Camere Penali, quando io ero segretario. Fu lui a segnalarmi. Il Gruppo poi mi chiese dei pareri "pro veritate". Li diedi e la seconda richiesta fu di difendere il Presidente Berlusconi in un singolo processo».

Quale?

«Sme-Ariosto. Accettai con entusiasmo. Ci fu assoluzione anche se dopo anni. Nessuna prescrizione. Berlusconi fu scagionato dall'accusa di corruzione perché il fatto non sussiste e per non avere commesso il fatto». 

L'instancabile Ghedini si prende così un primo processo, poi un secondo, finché si prende tutto.

«Non da solo. Berlusconi ha avuto l'apporto di altri validissimi colleghi: Amodio, De Luca, Pecorella, per citarne alcuni. E io ancora sono coadiuvato da altri avvocati altrettanto validi: Cerabona a Napoli, il mio maestro Piero Longo e il bravissimo Franco Coppi. Io e Franco siamo in rapporti...». 

Siete in rapporti «ottimi». Lo ha confermato Coppi stesso a Libero. E lei gli ha perfino regalato un cane Golden retriever che lui ha ribattezzato «Rocky Ghedini».

«Aggiungerei che i rapporti sono eccellenti, a dispetto dei commenti di certa stampa. Ho stima straordinaria di Coppi, lo tormento tutti i giorni e lo considero un vero maestro». 

Il primo, si sa, era stato Piero Longo. Memorabili le sue parole nel 1988. Niccolò aveva 29 anni ed era suo assistente di studio.  All' epoca difendevano Marco Furlan: il fascista della Verona bene che con l'amico Wolfgang Abel faceva l'assassino seriale (18 omicidi) per liberare la società da drogati preti e barboni, in nome di Ludwig. In aula il professor Longo parlò ai colleghi durante una pausa d'udienza: «Tenete a mente il nome di questo ragazzo - disse - si chiama Niccolò Ghedini e farà strada».

Ma nemmeno lui immaginava quanta. Da almeno vent'anni l'allievo difende l'uomo che per altrettanti vent' anni ha governato e deciso le sorti del Paese; ne conosce i segreti più nascosti. La potenza e anche le fragilità. Con lui vive in una simbiosi che lo ha trasformato nel suo doppio.

Cos' è per lei Berlusconi?

«Un amico. Vero. Carissimo. Il nostro rapporto va oltre, molto al di là dell' amicizia comunemente intesa. Perché io difendo l' onore e la libertà di questo amico, ogni volta innocente, a cui voglio bene. Molto bene». 

Chi altro vuole bene a Berlusconi?

«Gianni Letta e Fedele Confalonieri: gli vogliono bene in modo critico e sono le persone ideali nel confronto con lui. Loro, a parte i figli che lo amano all' infinito, sono anche gli amici fidati e che gli sono accanto ogni volta in cui la salute dà problemi. E sempre loro, per primi, gioiscono quando Berlusconi da malato si trasforma all' improvviso in una star del rock. Com'è successo dopo l'intervento dello scorso 14 giugno». 

Le lacrime di Francesca Pascale affacciata alla finestra del San Raffaele, quella volta lì? Una commedia secondo il parere di tanti.

«Ma non è così… È stata la stampa che ha diffuso questo messaggio». 

Non erano i giornalisti a piangere.

«La Pascale vuol molto bene a Berlusconi. Normale e comprensibile fosse emozionata. Dispiaciuta. Nessuno possiede gli strumenti per poter leggere i sentimenti dell' altro. Meno che meno io».

È stato scritto che voi amici, avvocati e parenti avreste però allontanato certe figure nocive alla salute del presidente. Persone che lo avrebbero fatto stancare più del dovuto, a proprio uso e consumo. Pascale compresa.

«Non è vero. Com' è falsa la storia del cerchio magico. Che non esiste. Berlusconi non ha bisogno di consiglieri, né di registi col cappello di Mago Merlino». 

Però di nemici ne ha. Chi sono, se escludiamo i magistrati e gli oppositori?

«Parliamo degli ingrati? Di quelli ne avrei un lungo elenco, ma mi avvalgo della facoltà di non rispondere». 

Faccia un esempio almeno. 

«È capitato di leggere intercettazioni e di scoprire così che soggetti da sempre vicini, di colpo parlassero male di lui. E ogni volta Berlusconi li ha giustificati. È come se cercasse di dare una spiegazione: "Sono cose che si dicono…", commenta nonostante i piaceri fatti. Berlusconi è una persona buona. Trova la spiegazione e poi perdona qualsiasi cosa». 

Lei invece è più cattivo?

«Assolutamente sì, al confronto. La scorrettezza non la accetto. La slealtà ancora di meno, la detesto. Con gli scorretti chiudo. E se qualcuno è con me sleale, io non lo perdono. Berlusconi invece sì». 

Lei è anche l'uomo dei cavilli.

«Ho sempre impostato la mia difesa sulle questioni di procedura e di diritto. Il processo giusto è quello che segue le regole. Se è lento e incontra la scadenza dei termini, è colpa della norma. O del giudice che non la applica o la applica male».

Non c'è avvocato sulla faccia della terra che non miri alla prescrizione. I giudici talvolta sbagliano e condannano gli innocenti. Succede perfino che lo facciano in buona fede, perché sono uomini e non Dio.Si può mirare alla prescrizione. E non si può negare che lei in questo sia un maestro. 

«Andiamo con ordine. Anzitutto io non sono un maestro di niente e Berlusconi non è stato condannato in modo corretto. E poi i suoi processi sono stati spesso su fatti molto vecchi (anche di 15 anni e oltre, con i testimoni praticamente morti), alla fine si sono prescritti a causa dell' accusa e non della difesa». 

La condanna del primo agosto 2013? Quella che lo ha fatto decadere, cancellandolo dalla scena politica attivamente intesa?

«Il caso Mediaset ha avuto uno svolgimento anomalo. Il calcolo della prescrizione era diverso e questo è conclamato. Il processo scadeva a settembre, c'era tutto il tempo per assegnare la discussione a una sezione normale. Invece è stata appositamente assegnata alla sezione feriale, fissando quelle tre udienze fra luglio e il primo agosto. Una composizione della Corte anomala, nonostante il processo si prescrivesse in autunno. Lei cosa dice?».

Che vi aspettavate la condanna.

«Ci siamo resi conto subito che il processo era segnato. La sezione era diversa dal dovuto. Ripeto: era del tutto anomala». 

Com'è stato dirlo a Berlusconi? Cos' ha provato quel giorno, al telefono quando lo ha sentito?

«Incredulità. Berlusconi reagisce sempre così, anche quando gli prospetto le norme o gli illustro i rischi. È normale per una persona innocente e che ha la coscienza pulita. Anche quel tardo pomeriggio era incredulo. Vede, io ho sempre difeso un innocente e l'ho sempre difeso nel processo. Lo ripeto: Berlusconi è sempre stato difeso nel processo, che poi ci sia stata una persecuzione da parte dei magistrati più o meno politicizzati, è palese e sotto gli occhi di tutti. Innegabile. A questo, ovvio, si aggiunge la strumentalizzazione da parte degli oppositori che hanno sfruttato ai propri fini la persecuzione giudiziaria stessa. Dov' è la novità?».

Strasburgo? 

«Certamente. Davanti alla Corte Europea l' ingiusta condanna del primo agosto 2013 sarà riconosciuta con tutte le sue anomalie. Il Presidente Berlusconi risulterà doppiamente e totalmente innocente nel merito. Così come sarà assolto nell' assurdo processo Ruby ter che neppure sarebbe dovuto iniziare e che non è nient' altro se non un' indebita e intollerabile intromissione nella sua vita privata, per giunta impeccabile». 

Quando l'esito?

«A primavera, vogliamo sperare». 

Torniamo a lei, oltre a fare l' avvocato di Berlusconi cosa fa?

«Il mio lavoro è il mio hobby. Ritengo sia una fortuna. Non frequento salotti, non conosco la cosiddetta mondanità. Non vado a teatro, non scio, non nuoto, non vado a cavallo, niente. Quando non sono ad Arcore o a Palazzo Grazioli, torno a casa a Padova. Ci sono mia moglie con cui ho uno splendido rapporto e mio figlio Giuseppe che ha 18 anni ed è un ragazzo molto gradevole».

Gradevole?

«Sì, è gradevole e amatissimo. Noi siamo una famiglia molto unita. Mio padre era un avvocato di chiara fama, il nostro studio ha 400 anni. Lui è morto che io avevo 13 anni. Ci sono le mia sorelle: quattro. Una di loro è acquisita. Due fanno l'avvocato civilista, una fa l'archeologa e ho un cognato magistrato». 

Un giudice in famiglia?

«Perché no?». 

Una volta ha detto che se entra in un salotto e vede cinque persone, lei vuole scappare mentre Berlusconi, al suo posto, chiederebbe dove sono gli altri.

«Sì, mi annoiano i salotti». 

La spaventano le arene agguerrite?

«Per niente. Travaglio, per esempio, mi è simpatico». 

Lui le sentenze le legge. È uno dei pochi.

«Sì, ma racconta solo quello che gli piace e gli fa comodo. In ogni caso è sempre costruttivo discutere con lui. Certo, i programmi in cui c' è Travaglio non sono mai equilibrati. Altra cosa è la trasmissione di Vespa. A Porta a Porta il confronto è possibile e il conduttore lo sa gestire con equilibrio e correttezza, garantendo a tutti la possibilità di intervenire».

Niccolò Ghedini che non fa l' avvocato, sarebbe stato possibile? 

«Eccome se lo sarebbe stato. Ho la laurea in Giurisprudenza, ma avrei fatto volentieri anche Agraria. Non mi sarebbe dispiaciuto lavorare in una delle nostre aziende agricole, a produrre olio o vino. Ecco, amo la campagna ed è lì che quando torno a casa mi piace andare. In campagna».

Ghedini, il pm del processo Ruby: «Mi mancherà la sua fulgida ironia». Virginia Piccolillo  il 18 Agosto 2022 su Il Corriere della Sera

In Tribunale non si sono risparmiati colpi durissimi ma, all’indomani della scomparsa, Antonio Sangermano, pm dei processi Ruby (1 e bis), offre a Niccolò Ghedini più dell’onore delle armi: «Era un grandissimo signore, con una rara competenza».

Lo dice perché non c’è più?

«La morte pacifica. Ma lo penso veramente: aveva una fulgida ironia. Era austero, glaciale, eppure aveva una forte umanità».

Gliela testimoniava mentre lei accusava Berlusconi di prostituzione minorile e concussione?

«Il processo non deve essere un’arena con un torero e i tori da mattare».

Cosa intende?

«Quel dibattimento conteneva molte tensioni, sia per l’ipotesi accusatoria, sia perché era il momento della guerra di Berlusconi con la magistratura. Ma tra noi c’è stata, sin dall’inizio, reciproca stima ed enorme cortesia».

Ma gli scontri erano duri.

«Con lui, e con l’ottimo avvocato Longo, avevamo solo un confronto dialettico serrato. Nel rispetto reciproco dei ruoli, è stato sempre un confronto virtuoso».

Sulle eccezioni preliminari però ci furono scintille

«Ne presentarono centinaia. Io replicai punto su punto. Ma non ci furono mai liti, attacchi, parole di scherno. Solo puntualizzazioni tecniche».

Poi arrivò il turno di Ruby e delle 20 ragazze testimoni delle serate da Berlusconi, per lei pagate per tacere.

«Di Ruby chiesi l’acquisizione del verbale di interrogatorio: non ci fu confronto. E la cross examination delle ragazze fu garbata, mai puntuta. Era corretto, rigoroso, sempre con la battuta pronta. Grandissima professionalità e cortesia. Tanto è vero che poi andavamo a prendere il caffè».

Il caffé?

«Sì. Ilda Boccassini non veniva (sorride, ndr)».

Quasi amici?

«Avevamo un’alleanza».

Di che genere?

«Avendo entrambi abitudini monacali facevamo in modo di non far slittare oltre le 13 la pausa. A riprova che può esistere una giurisdizione in cui avvocati e pm non sono nemici, ma titolari di ruoli distinti, io gli avvocati li frequento, ma solo in Tribunale, non nelle conventicole dei potenti».

Quando Ghedini si toglieva la toga però Ruby diventava la nipote di Mubarak e lui contribuiva a modificare le leggi. Non glielo contestava?

«Non abbiamo mai parlato di politica. Mai».

Alcune modifiche legislative non impattarono con il suo processo?

«In primo grado chiesi 6 anni per Berlusconi. Lo condannarono a 7 anni per concussione. Poi arrivò la legge Severino».

E...?

«E spacchettò il reato di concussione, ne complicò l’interpretazione e in Appello e in Cassazione Berlusconi fu assolto. Ma nulla da dire. Sono fautore di una distanza abissale tra magistrati e politica. Come cittadino non condividevo quella stagione, ma il nostro dovere è applicare la legge».

Berlusconi vi attaccava ferocemente.

«Nel 2003 il suo governo aggravò la legge Merlin. Se una legge si ritiene un vecchio arnese si può abolire non prendersela con chi è chiamato ad applicarla. Percepivo un profondo affetto di Ghedini per Berlusconi. E io ho fatto il mio dovere. Senza intestarmi guerre purificatrici. Con rispetto per lui come per ogni imputato».

Quando ha sentito Ghedini l’ultima volta?

«A Natale mi ha fatto gli auguri».

Mica le mancherà?

«Sì, moltissimo. Con lui ho misurato la distanza siderale tra integralismo ed equilibrio. Scelgo l’equilibrio. L’integralismo, a volte, è molto scortese. E anche antiestetico».

Morto Niccolò Ghedini, politico e avvocato. Aveva 62 anni. La Repubblica il 17 Agosto 2022.

È stato a lungo legale di Silvio Berlusconi e dal 2001 parlamentare con Forza Italia

È morto il senatore Niccolò Ghedini, politico e avvocato, aveva 62 anni. Da tempo era ricoverato al San Raffaele di Milano.

Nato a Padova nel 1959, Ghedini è stato a lungo legale di Silvio Berlusconi e dal 2001 parlamentare con Forza Italia.

"Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme". Lo scrive su facebook Silvio Berlusconi, leader di Forza Italia, ricordando il senatore azzurro e suo storico avvocato Niccolò Ghedini. "Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te. Niccolò caro, Niccolò carissimo, ti abbiamo voluto tanto bene, te ne vorremo sempre", aggiunge. "Addio, ciao. Per noi sei sempre qui, tra noi, nei nostri cuori. Un forte, fortissimo abbraccio", conclude Berlusconi.

"Un collega di rara intelligenza e professionalità. Lascia un vuoto enorme in tutta la comunità di Forza Italia. A nome mio e del Gruppo Fi senato un abbraccio affettuoso e commosso ai suoi cari". Lo scrive su twitter la presidente dei senatori di Fi, Anna Maria Bernini. 

"Addio a Niccolò Ghedini. Mi stringo al dolore della famiglia e di quanti gli hanno voluto bene". È il ricordo del leader della Matteo Salvini su Twitter.

"Un dolore grande la scomparsa di Ghedini che lascia tutti noi sgomenti, pur sapendo che da tempo combatteva con la malattia. Un abbraccio alla famiglia e ai suoi cari. Ciao Niccolò, ci mancherai. Sei e rimarrai amico di una vita". Lo scrive su twitter Renato Brunetta.

"Addio a Niccolò Ghedini, uno degli amici con cui ho condiviso trent'anni di storia politica, e una delle persone più disinteressate che siano state a fianco di Silvio Berlusconi" ha dichiarato all'Adnkronos il vicepresidente del gruppo di Fi alla Camera, Gianfranco Rotondi. "Ha lottato come un leone, e scompare in campagna elettorale, come un combattente indomito che sceglie di cadere sul campo".

Ghedini l'aristocratico, difensore di Berlusconi in tribunale e in politica. Liana Milella su La Repubblica il 18 Agosto 2022.

Per oltre un decennio protagonista della storia parlamentare sulla giustizia

Una notizia buca la notte. Imprevista. Se non per chi gli era legato ed era in confidenza con lui. Pochi in verità, perché Nicolò Ghedini non aveva mai smesso il suo tratto aristocratico. Anche se contava su grandi legami ed amicizie. Non solo Berlusconi. Ma anche Giulia Bongiorno. Sin dai tempi in cui, durante i governi di Berlusconi, erano seduti accanto sui divanetti della Camera. E pochi sapevano che una malattia lo stava consumando. Che la stava combattendo da tempo. Che aveva tentato anche un trapianto. Ed era ricoverato al San Raffaele di Milano. Anche se il programma sulla giustizia di Forza Italia era passato ancora per le sue mani. “Nicolò ha detto di scrivere così…” assicurava ancora ieri più di esponente di Forza Italia.

Ed è da lì, dal suo partito, che arriva la notizia della sua scomparsa. Pochi minuti, ed ecco il saluto di Silvio Berlusconi, di cui Ghedini, per anni, è stato non solo avvocato, ma amico, ad Arcore con lui tutti i lunedì. Pronto a difenderlo  da qualsiasi accusa, non solo in tribunale, ma anche escogitando ogni possibile tipo di legge per salvarlo. Anche a costo di mettere in gioco se stesso. Adesso Berlusconi lo saluta così: “Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile, ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme. Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te".

E in effetti, a riavvolgere il film della storia giudiziaria e anche politica di Berlusconi, resta impresso un legame tra i due che andava ben oltre il tratto professionale. Ghedini, classe 1959, figlio d’arte, una sorella avvocato civilista, un figlio a cui era legatissimo, con lui una grande passione per cani e cavalli, aveva fatto del rapporto e della difesa di Berlusconi una questione di vita. Pronto ad attaccare chiunque pur di contestare le accuse dei magistrati. Pronto a escogitare ogni possibile artificio giuridico per cavarlo d’impaccio. Tant’è che a lui resterà legata la stagione delle leggi ad personam - dal legittimo impedimento al lodo Alfano, dalla Cirami alla Cirielli - che per oltre un decennio lo hanno reso protagonista della storia parlamentare sulla giustizia. Epocali le sue norme sulle intercettazioni. Mentre tutto questo, a ogni udienza per difendere il Cavaliere in cui non mancava mai, diventata occasione di scontro politico. E si può capire come adesso Berlusconi possa chiedersi come potrà fare senza di lui.

Morto Niccolò Ghedini, l'uomo delle battaglie per salvare la giustizia. Morto l'avvocato che ha difeso Berlusconi dall'assedio dei giudici. In punta di diritto. Luca Fazzo il 18 Agosto 2022 su Il Giornale.  

La parte finale della lunga partita tra Silvio Berlusconi e la giustizia si svolge con altri nomi al fianco del Cavaliere: l'aplomb di Federico Cecconi, il carisma accademico di Franco Coppi. Ma l'essenza dell'interminabile faccia a faccia tra il leader di Forza Italia e la magistratura, che fu un ring di scontri furibondi e senza esclusione di colpi, si incarna nell'uomo che ieri soccombe a una lunga malattia e che rispondeva al nome di Niccolò Ghedini. L'unico avvocato in grado di reggere l'asprezza di uno scontro a suo modo brutale, dove le armi del diritto - tutte, nessuna esclusa - erano solo un pezzo dello scontro totale, fatto di politica, di ribalta pubblica, di alleanze. Uno scontro che Ghedini combatté dall'inizio alla fine con un solo, granitico obiettivo: quello di portare in salvo il leader politico in cui si riconosceva e in cui vedeva la vittima sacrificale di un attacco tutto ideologico da parte della magistratura e della sua componente più schierata.

Era entrato in scena alla fine degli anni Novanta, quando l'assedio giudiziario a Berlusconi durava ormai da cinque anni. All'offensiva giudiziaria, il Cavaliere aveva reagito inizialmente in modo quasi pacato, come se non si rendesse conto della importanza drammatica della posta in gioco. Così aveva scelto per difendersi luminari del diritto di prestigio indiscutibile, come Giuseppe De Luca e Ennio Amodio. Che però si erano presto rivelati inadatti alla violenza da catch dello scontro in corso. Mentre De Luca intratteneva i cronisti giudiziari sul «moderno Leviatano» e cose simili, nelle procure di tutta Italia si tessevano le fila di un attacco che aveva come unica posta finale lo scalpo del leader azzurro. Quando Berlusconi si arrende all'evidenza, capisce che non è solo con le armi della dottrina giuridica che può sperare di uscire incolume dallo scontro. E prima ancora di lui lo capisce il consigliere che più in questi anni gli è stato vicino, e ne ha condiviso e patito i guai giudiziari: ovvero Cesare Previti. È Previti a introdurre a Berlusconi questo avvocato padovano lungo e pallido, apparentemente pacato. Ghedini è cresciuto insieme al suo collega Piero Longo, in un affiatamento di coppia che risulterà decisivo nella fase dello scontro frontale, ma che fino a quel momento si è sviluppato senza clamori: l'unica difesa che porta Ghedini all'onore delle cronache è quella negli anni Ottanta di Wolfgang Abel e Marco Furlan, i due neonazisti veronesi protagonisti delle imprese della banda Ludwig. Niente a che fare con la temperie in cui Longo e Ghedini si trovano catapultati quando si prendono - per intero, da un capo all'altro della penisola - il compito di «salvare il soldato Berlusconi».

Da quel momento, Ghedini diventa una presenza fissa nelle aule dei processi a Berlusconi. In centinaia o forse migliaia di udienze, nessuno può ricordare di avergli mai sentito alzare la voce o perdere la calma. Ma nemmeno è mai accaduto che perdesse un passaggio, un dettaglio, un appiglio su cui aprire una nuova battaglia. Dalle interminabili udienze del processo Mondadori, a quelle del caso Squillante fino al pirotecnico affare Ruby, la scena è sempre quella. Berlusconi in aula, spesso provato, a volte addirittura a occhi chiusi. E accanto a lui Ghedini che non perde un colpo. Ma ancora più cruciale è il suo ruolo dietro le quinte, soprattutto dopo lo sbarco nel 2001 in Parlamento, quando diventa il vero suggeritore delle linee di Forza Italia sulla giustizia, individuando con occhio infallibile obiettivi e trappole. Le poche volte in cui non venne ascoltato, le conseguenze furono pesanti: come quando cercò invano di spiegare che la legge Severino dietro l'apparenza nobile preparava l'affossamento del ruolo politico di Berlusconi. Non venne ascoltato, e le conseguenze sono note.

Era un gentiluomo, e ben lo sa un'avversaria come l'inviata di Repubblica cui nelle aule di udienza non risparmiò mai un baciamano. Ma era a suo agio nel ring, negli scontri a scena aperta con Ilda Boccassini: appassionanti, senza limiti, e alla fine tutti vinti. Alle sue spalle, aveva una macchina organizzativa poderosa, con il grande studio di via Altinante trasformato nel quartier generale di un esercito inferiore come mezzi ma coriaceo nella sua determinazione, dove non un solo foglio dei milioni prodotti dalle procure anti-Cav poteva perdersi o non venire valutato nella sua pericolosità. Sapeva di dover morire, ma a marzo - già stremato dalla leucemia - aveva voluto essere presente, nella sua ultima uscita pubblica, alla cerimonia tra Berlusconi e la sua nuova compagna Marta Fascina. L'assedio al Cavaliere non è finito. Ma se un giorno finirà, sarà soprattutto alla memoria di Niccolò Ghedini che Berlusconi dovrà dire grazie. 

Da liberoquotidiano.it il 18 agosto 2022.

La notizia della morte di Niccolò Ghedini, l'avvocato di Berlusconi scomparso ieri sera all'età di 62 anni, ha sorpreso tutti. Diversi conduttori hanno comunicato la triste notizia in diretta. Tra questi Veronica Gentili a Controcorrente su Rete 4 e Alessandro De Angelis durante Corsa al voto su La7. "Scusate un aggiornamento, è scomparso Ghedini, storico avvocato di Berlusconi", ha detto il vicedirettore dell'Huffington Post leggendo un'agenzia sul proprio telefono.

Sconvolta Laura Ravetto, ospite del talk insieme a Maurizio Lupi. La deputata leghista ha ascoltato la notizia con sguardo triste e mano sul petto. "Era una delle persone più vicine a Berlusconi, che voi avete conosciuto bene - ha continuato De Angelis rivolgendosi ai due ospiti -. Scusate, era doveroso dirlo". "Era un amico carissimo", lo ha interrotto Lupi.

"Assolutamente inaspettato", ha detto a un certo punto il conduttore Paolo Celata. Ma il presidente di Noi con l'Italia ha rivelato: "Non stava assolutamente bene, qualche settimana fa quando eravamo a Villa Grande avevamo chiesto a Berlusconi notizie di Niccolò. Credo sia la scomparsa di una persona che ha dato tanto, non solo a Berlusconi, ma anche alla politica italiana e al Parlamento". "Concordo assolutamente", ha aggiunto la Ravetto.

Niccolò Ghedini e la malattia, "come ha scelto di morire". Rivelazione straziante. Libero Quotidiano il 18 agosto 2022

Niccolò Ghedini "ha lottato come un leone, scompare in campagna elettorale, come un combattente indomito che cade sul campo". Sono di Gianfranco Rotondi, forse, le parole più strazianti sulla morte di Ghedini, penalista di grido, storico avvocato di Silvio Berlusconi e senatore di Forza Italia per 4 legislature, scomparso a soli 62 anni all'ospedale San Raffaele di Milano, per complicanze relative a una forma di leucemia che lo aveva costretto a un trapianto di midollo eseguito nei mesi scorsi. Schivo, riservatissimo, con dedizione totale al lavoro e alla politica (era "l'uomo delle leggi" del Cav), lontanissimo dagli schiamazzi e dal gossip dei Palazzi romani. Padovano di nascita e figlio d'arte (suo padre Giuseppe era tra i più noti penalisti della città), laureato in giurisprudenza a Ferrara, Ghedini è stato un enfant prodige delle aule italiane debuttando negli anni Ottanta accanto al suo maestro Piero Longo difendendo Marco Furlan, che insieme a Wolfgang Abel fu responsabile di una serie di omicidi che si firmavano collettivamente come Ludwig.

"Addio a uno degli amici con cui ho condiviso trent’anni di storia politica, e una delle persone più disinteressate che siano state accanto a Berlusconi", scrive sempre Rotondi. E proprio il leader di Forza Italia ricorda il suo storico braccio destro e difensore in processi delicatissimi come il caso Ruby (fu lui a coniare la formula "utilizzatore finale"), commosso: "Ci ha lasciato il nostro Niccolò. Non ci sembra possibile ma purtroppo è così. Il nostro dolore è grande, immenso, quasi non possiamo crederci: tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme". "Cosa possiamo dire di lui? Un grande, carissimo amico, un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita. Ci mancherai immensamente, e ci domandiamo come potremo fare senza di te. Niccolò caro, Niccolò carissimo, ti abbiamo voluto tanto bene, te ne vorremo sempre. Addio, ciao. Per noi sei sempre qui, tra noi, nei nostri cuori. Un forte, fortissimo abbraccio", scrive ancora Berlusconi su Facebook. 

Il cordoglio nel centrodestra è generale. "Una mente arguta e sottile - lo ricorda la collega e concittadina Elisabetta Alberti Casellati, presidente del Senato -, un giurista raffinato e combattente, un politico di altri tempi, un uomo dall'etica autentica". "Un collega di rara intelligenza e professionalità. Lascia un vuoto enorme in tutta la comunità di Forza Italia - sottolinea Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia -. A nome mio e del Gruppo Fi senato un abbraccio affettuoso e commosso ai suoi cari". "Un dolore grande la scomparsa di Ghedini che lascia tutti noi sgomenti, pur sapendo che da tempo combatteva con la malattia. Un abbraccio alla famiglia e ai suoi cari. Ciao Niccolò, ci mancherai. Sei e rimarrai amico di una vita", scrive su Twitter Renato Brunetta, ministro per la Pubblica amministrazione uscito da poche settimane dal partito. "La politica, la legge, ma soprattutto il buonsenso e l’educazione perdono una grande presenza - gli fa eco Giovanni Toti, governatore della Liguria -. Ciao Niccolò, rimpiango come non mai le nostre discussioni. Soprattutto quando non eravamo d’accordo. Se c’è un giudice lassù riconoscerà le tue qualità. Ciao". Addolorati anche gli alleati: "Mi stringo al dolore della famiglia e di quanti gli hanno voluto bene", scrive Matteo Salvini su Twitter. "A nome mio e di Fratelli d'Italia - sono le parole di Giorgia Meloni - desidero esprimere cordoglio per la scomparsa del senatore Niccolò Ghedini. Alla sua famiglia e ai suoi cari la nostra vicinanza".

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano” il 19 agosto 2022.

L'on. avv. Niccolò Ghedini era un bello stronzo. L'ho sempre pensato quand'era vivo e il fatto che ora sia morto - e così presto, a 62 anni- non mi pare un buon motivo per dire il contrario. 

Anche perché ho l'impressione che a quella nomea tenesse parecchio, con la fatica che aveva fatto per guadagnarsela: nelle aule di tribunale, in quelle parlamentari e negli studi televisivi, dove abbiamo incrociato le lame non so quante volte sui processi al suo cliente più illustre, che lui chiamava "il Presidente" con l'aria deferente di chi gli dà del lei. Anzi, del Lei.

Solo chi vuol passare alla storia come uno stronzo può coniare l'immortale definizione di "utilizzatore finale" per scrollare di dosso al "Presidente" se non la fama, almeno l'accusa penale di puttaniere di minorenni. 

[…]  Poi un giorno di 10 anni fa presi l'aereo Venezia-Roma e me lo ritrovai accanto. Parlammo in libertà, come due carissimi nemici che non s'illudono di convincersi. Mi raccontò della sua famiglia-bene che vantava un paio di dogi. Gli spiegai che non ero comunista, come lui e il Presidente pensavano.

[…] Mi spiegò che le leggi ad personam le avevano volute Previti e altri cattivi consiglieri. "Dubito che avrebbe vinto anche i processi per falso in bilancio senza depenalizzare il reato". 

Lui fu onesto: "Beh, quelli, in effetti...". Alla fine, ai saluti, non mi chiese di tenere riservata la chiacchierata, ma non ce ne fu bisogno. 

Non so perché non ne scrissi nulla. Forse perché, dopo averlo conosciuto un po' meglio, temevo che fosse talmente stronzo da iniziare a diventarmi simpatico.

La malattia dell'avvocato di Berlusconi. Come è morto Niccolò Ghedini, la leucemia, il trapianto e le complicanze: “E’ caduto sul campo”. Redazione su Il Riformista il 18 Agosto 2022

Niccolò Ghedini è morto all’ospedale San Raffaele di Milano dove era ricoverato in seguito a una polmonite. Lo storico avvocato di Silvio Berlusconi, nonché della Repubblica italiana per diverse legislature, si è spento all’età di 62 anni dopo aver combattuto a lungo contro una grave forma di leucemia.

Nei mesi scorsi era stato sottoposto, sempre all’ospedale San Raffaele ad un trapianto di midollo. Ma, secondo quanto riferisce l’agenzia Ansa, la morte è sopraggiunta per una complicanza, una polmonite, probabilmente contratta per il suo stato particolarmente fragile di paziente immunodepresso.

Berlusconi nel sottolineare il dolore “grande, immenso”, ricorda che appena “tre giorni fa abbiamo lavorato ancora insieme”. Nonostante la malattia e le precarie condizioni di salute, Ghedini continuava a contribuire all’azione politica di Forza Italia. E’ “un professionista eccezionale, colto e intelligentissimo, di una generosità infinita” ricorda l’ex premier.

Per Gianfranco Rotondi, vicepresidente del gruppo di Forza Italia alla Camera,  Ghedini “ha lottato come un leone, e scompare in campagna elettorale, come un combattente indomito che sceglie di cadere sul campo”.

Il diritto alla difesa era la bussola della sua intelligenza. Niccolò Ghedini, l’avvocato colonna del garantismo che ha lavorato fino all’ultimo minuto. Piero Sansonetti su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

È stato una delle colonne del garantismo in Italia. Su questo c’è poco da discutere. Niccolò Ghedini è morto ieri di leucemia. Aveva lavorato fino all’ultimo minuto, all’ultimo secondo. Da avvocato e da politico. È stato lui a preparare l’uscita di Berlusconi, mercoledì, sull’abolizione dell’appello in caso di assoluzione in primo grado. Gli mancavano poche ore, quando ha scritto quelle ultime righe, stava male da più di un anno, la leucemia aveva corroso da dentro il suo corpo magrissimo, ma lui continuava a vivere per quelle due idee lì che gli avevano assorbito tutta l’esistenza: la politica e il suo essere avvocato.

Niccolò Ghedini era avvocato, era avvocato, era avvocato. Il Diritto e soprattutto il diritto alla difesa era la bussola della sua intelligenza. Non ce ne sono molti come lui. Sicuramente ci mancherà. O comunque mancherà a quel gruppetto piccolo piccolo di persone che ancora pensano davvero che il garantismo sia la chiave della civiltà e che oggi viviamo tempi cupi nei quali prevale l’odio, la voglia di vendetta, i valori ispirati alla punizione e al manicheismo. Ghedini era padovano, aveva 62 anni, aveva iniziato giovanissimo a fare l’avvocato e, sempre giovanissimo, era stato segretario delle Camere penali quando presidente era il mitico avvocato Frigo. Era un uomo di destra. È diventato famoso in quanto avvocato di Berlusconi. Ma la sua carriera non è solo Berlusconi e la sua nitidezza intellettuale non è solo di destra.

Lo ho conosciuto qualche anno fa, quando dirigevo “Il Dubbio”. Non ho avuto molti rapporti con lui, ma sempre correttissimi e sempre molto utili. Era informatissimo, conosceva in modo profondo e sapiente tutte le questioni del diritto e moltissime vicende giudiziarie. Non ti negava mai un aiuto. Conosco pochissimo le sue vicende politiche e il ruolo che ebbe in Forza Italia. Io conosco il ruolo che ha avuto nella battaglia contro la sopraffazione delle procure. Lui è stato decisivo. Ha combattuto, ha rischiato, come rischia chiunque si mette contro il potere del partito dei Pm.

Non ha combattuto solo per Berlusconi, ha combattuto per le questioni di principio. E ha avuto grandi risultati. Su quasi cento procedimenti giudiziari subiti, Berlusconi ne ha perso uno solo (quello famoso sulla frode fiscale di Mediaset, che peraltro pende ancora alla Corte di Strasburgo) e credo che nessun avvocato possa esibire un palmares di vittorie così alto. Non è retorica se lo dico: sento che senza Ghedini la battaglia garantista sarà ancora più difficile e furiosa.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Impegno, rigore, dignità e correttezza. Niccolò Ghedini non ci ha lasciati: sarà sempre un esempio per le generazioni future. Paola Rubini su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

Niccolò Ghedini ci ha lasciati. No, non è così. Lui è ancora qui. Rimane la sua figura di avvocato, di giurista, di politico, di uomo.

Un avvocato che della difesa ha fatto una ragione di vita. Nessun atto del fascicolo, anche quello che appariva a prima vista ininfluente, veniva tralasciato. Ma il suo non era uno studio acritico, meramente mnemonico. L’acume e l’intelligente disamina delle questioni, sia processuali sia sostanziali, ne caratterizzava il profilo e lo stile.

Era un fine giurista in grado di elaborare, con la profonda preparazione in diritto unita a una cultura eclettica, complesse argomentazioni per sostenere le eccezioni che proponeva all’attenzione del giudicante. Era un politico che ha saputo, utilizzando la sua ricca esperienza di avvocato, trasmettere un valore aggiunto a chi l’ha conosciuto e apprezzato in Parlamento, anche se con idee e programmi politici diversi perché era profondamente convinto che un avvocato penalista non smette di essere tale sol perché eletto ma porta con sé e mai dimentica i valori e i principi del diritto penale liberale e del giusto processo.

Era da ultimo, ma non certo per ultimo, un uomo che non viveva di soli processi, come si potrebbe erroneamente immaginare. Dotato di un senso dell’umorismo fulminante, era capace di fare battute divertenti che strappavano risate spontanee. Aveva anche molteplici passioni come quella per le automobili, per l’arte, per la natura e gli animali, argomenti che insieme alla procedura penale ci hanno unito in questi trent’anni di lunghe e appassionate conversazioni. È e rimane un esempio, anche per le generazioni future, di impegno, di rigore, di dignità e correttezza. No, lui non ci ha lasciati. Paola Rubini 

Parla l'ex segretario del partito dei Comunisti italiani. “Ghedini usava la sua genialità per gli interessi del suo cliente”, Oliviero Diliberto ricorda l’avvocato del Cav. Paolo Comi su Il Riformista il 19 Agosto 2022 

“Niccolò Ghedini? È stata certamente una delle persone più acute ed intelligenti che abbia conosciuto. Voglio approfittare di questa intervista per fare le più sentite condoglianze alla sua famiglia”. A dirlo è Oliviero Diliberto, ministro della Giustizia nei governi D’Alema uno e due, ed ex segretario del partito dei Comunisti italiani.

Onorevole Diliberto, si ricorda quando è stato il suo primo incontro con l’avvocato Ghedini?

Si, ero ministro della Giustizia. Ghedini all’epoca aveva un ruolo importante, quello di segretario nazionale, all’interno delle Camere penali. Notai subito che aveva una marcia in più rispetto ai suoi colleghi. Lavorava nello studio di Padova dell’avvocato Pietro Longo.

Ghedini in quel periodo non era ancora l’avvocato di Silvio Berlusconi?

No, ancora non c’era quell’intreccio con la politica che poi ha caratterizzato la sua vita, facendolo diventare non solo l’avvocato di Berlusconi ma di tutta la galassia Mediaset, sbaragliando la concorrenza di fior fior di avvocati.

Quando ha terminato il suo incarico di governo lo ha ritrovato sui banchi in Parlamento?

E già. Avevamo un bel rapporto ed abbiano iniziato a frequentarci anche fuori dall’aula. Raramente una persona era così diversa nel privato da come appariva nel pubblico. Abbiamo trascorso serate molte gradevoli, pur avendo idee molto differenti.

Che carattere aveva Ghedini?

Molto auto ironico, non si prendeva troppo sul serio. Le racconto un episodio: stavano passeggiando vicino alla Camera quando iniziò a piovere. Gli dissi che dovevamo accelerare e lui mi rispose che non dovevo preoccuparmi perché non era pioggia ma qualcuno che ci stava sputando.

Tutti dicono che amasse moltissimo il suo lavoro.

Lo confermo. Avevamo entrambi una casa nel sud della Sardegna, un posto poco glamour. Ci incontrammo alla fine dell’estate all’aeroporto di Cagliari per tornare a Roma. Era bianchissimo in volto. Gli chiesi che cosa fosse successo. Lui aprì una borsa ed all’interno vi erano le carte di uno dei processi a carico di Berlusconi. Aveva passato le vacanze a studiare il fascicolo.

Essere stato il difensore di Berlusconi ha avuto come conseguenza quella di aver ispirato le leggi ‘ad personam’. Concorda?

Ghedini era personaggio molto geniale ed usava la sua genialità per gli interessi del suo cliente. In quel caso proprio Berlusconi. Le leggi ‘ad personam’ erano una porcata, ma egli era assolutamente consapevole che servissero alla causa. Era troppo intelligente per non saperlo.

Le leggi, però, furono poi votate del parlamento.

Guardi, lei crede che i parlamentari di Forza Italia pensassero veramente che Ruby fosse la nipote di Mubarack? Erano tutti perfettamente e disciplinatamente in mala fede. Sarebbe un’offesa alla loro intelligenza credere il contrario.

Però, non si può negare che alla Procura di Milano ci fosse un ‘accanimento’ nei confronti di Berlusconi. In particolare da parte di un gruppo di magistrati, le “toghe rosse” per usare una definizione molto cara all’ex premier.

Su questo aspetto non sono d’accordo. Il discorso è complesso. Berlusconi quando entrò prepotentemente sulla scena politica ha attirato i fari su di se. Ma ricordiamo che quando era solo un imprenditore era già stato inquisito e aveva beneficiato anche di una amnistia.

Nessun clima ostile alla Procura di Milano?

La stagione ‘efferata’, quella del 1992-1993, era alle spalle quando iniziarono i processi a Berlusconi. E poi non è vero che ad indagare fossero solo magistrati di sinistra. Piercamillo Davigo, non era certo una toga di sinistra.

Ghedini si oppose alla legge Severino che, invece, fu votata da Forza Italia.

Quello fu un accanimento. Io ho sempre ritenuto la legge Severino una vera follia. Ma all’epoca, ed anche ora, la politica era talmente debole per potersi schierare contro leggi e provvedimenti che solleticavano la pancia degli italiani. Ed è stato questo il motivo del successo del Movimento cinque stelle. Paolo Comi

Da tg24.sky.it il 20 agosto 2022.

Era presente anche Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia, ai funerali di Niccolò Ghedini, storico avvocato di Silvio Berlusconi scomparso prematuramente nei giorni scorsi a Milano. 

Alle esequie che si sono svolte nella chiesa dell'Immacolata di Santa Maria di Sala (Venezia) per l'ultimo saluto al parlamentare forzista, sono intervenuti anche il presidente del Senato Elisabetta Alberti Casellati, il capogruppo a palazzo Madama, Anna Maria Bernini e la senatrice Licia Ronzulli oltre a Gianni Letta. Berlusconi, invece, è rimasto in Sardegna, mentre alla cerimonia era presente la primogenita Marina.

 “Di professionisti, di dottori, di avvocati ce ne sono tanti, ma come lui ce n'erano veramente pochi”. Questo il ricordo del coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, avvicinato dai giornalisti al termine dei funerali di Ghedini. “Era anche molto ironico, di grande cultura, una grande persona”, ha aggiunto Tajani, commosso.  

Le parole del figlio Giuseppe

“Volevo ringraziarvi a nome della mia famiglia, per essere qui in questo momento difficile. Sono salito solo per vedere l'amore e il bene che ha fatto, dato e seminato mio padre, e guardandovi lo vedo in ognuno di voi”. Queste, invece, le parole del figlio di Ghedini, Giuseppe, pronunciate nel corso delle esequie. “Non sarà un addio. Lasciare andare un uomo come mio padre è impossibile. Vi ringrazio tutti dal profondo del cuore”.     

Presenti anche semplici cittadini

Il feretro di Ghedini, sopra cui è stata appoggiata una toga da avvocato, è arrivato nei pressi della piccola chiesa della cittadina veneziana, dove all'esterno erano presenti anche semplici cittadini, persone che conoscevano l’avvocato, insieme alla sindaca Natascia Rocchi. Tra le autorità presenti anche il presidente del Veneto, Luca Zaia ed il sindaco di Padova, Sergio Giordani.

L’ultimo saluto a Niccolò Ghedini. Il figlio lo ricorda: “Papà ha seminato amore e bene”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Agosto 2022.

Alle esequie presenti la presidente del Senato Elisabetta Casellati, legata a Ghedini da lunga amicizia vice presidente di Forza Italia, Antonio Tajani assieme alla capogruppo del Senato Anna Maria Bernini. Particolarmente commosso l' avv. Piero Longo, collega di studio di Ghedini, tra i primi a giungere in chiesa.

Si sono svolti questa mattina  i funerali di Niccolò Ghedini, avvocato e parlamentare di Forza Italia, deceduto nei giorni scorsi a Milano, nella chiesa di Santa Maria di Sala il paese nel veneziano dove si trova la villa di famiglia e dove il parlamentare viveva da molti anni, nella chiesa dell’Immacolata che poteva contenere non più di 150-200 persone. In chiesa sono stati riservati alla famiglia i primi dieci banchi, mentre non era previsto vi fossero posti prenotati per le autorità. All’arrivo del feretro, assieme ai familiari, è stato portato anche uno dei cani dei Ghedini, un terranova nero di nome Thor, rimasto poi accucciato, in attesa, sul sagrato della chiesa. Sopra la bara è stata appoggiata la toga da avvocato di Ghedini.

Alle esequie presenti la presidente del Senato Elisabetta Casellati, legata a Ghedini da lunga amicizia vice presidente di Forza Italia, Antonio Tajani assieme alla capogruppo del Senato Anna Maria Bernini. Particolarmente commosso l’ avv. Piero Longo, collega di studio di Ghedini, tra i primi a giungere in chiesa. Il feretro è giunto alla piccola chiesa della cittadina veneziana, all’esterno della quale erano presenti anche molti semplici cittadini, persone che incrociavano Ghedini in paese, quando questi non era impegnato professionalmente, insieme alla sindaca Natascia Rocchi.

Presenti fra le autorità anche il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, e il sindaco di Padova, Sergio Giordani. Fra gli altri presenti, Marina Berlusconi e Gianni Letta. “Volevo ringraziarvi a nome della mia famiglia, per essere qui in questo momento difficile per tutti noi. Sono salito solo per vedere l’amore e il bene che ha fatto, dato e seminato mio padre, e guardandovi lo rivedo in ognuno di voi». Queste le parole del figlio di Niccolò Ghedini, Giuseppe, nel corso delle esequie del padre. “Non sarà un addio – ha aggiunto – Lasciare andare un uomo come mio padre è impossibile. Vi ringrazio tutti dal profondo del cuore“.

Piero Longo, principe del foro di Padova, collega e maestro di Ghedini, ha ricordato con commozione l’allievo ed amico scomparso: “Gli antichi giapponesi, quelli che potevano permetterselo, usavano lasciare scritto dopo la morte `Quello che doveva esser fatto, è stato fatto´. Questo epitaffio lo rispecchia, perché quello che si doveva fare, lui, l’ha sempre fatto. E in questo momento direbbe `ma cosa fate ancora qui, andate a lavorare´”. Longo ha proseguito : “Niccolò era quello che, a parte gli affetti, era dedicato da sempre al lavoro. L’ho considerato un fratello e a volte un figlio, e auspico che lui mi abbia considerato a volte come fratello, a volte come secondo padre. A un certo punto l’ho considerato solo un grande avvocato pieno di ironia, ma non sarcasmo, perché non faceva parte del suo mestiere“.

“Di professionisti, di avvocati, di dottori, ce ne sono tanti, ma come lui ce n’erano veramente pochi». ha detto il coordinatore di Forza Italia, Antonio Tajani, avvicinato dai giornalisti al termine dei funerali di Niccolò Ghedini, a Santa Maria di Sala. “Era anche molto ironico, di grande cultura, una grande persona“, ha aggiunto Tajani, allontanandosi commosso.

Nei giorni scorsi sono stati numerosi i messaggi di cordoglio nei confronti di Niccolò Ghedini, che ha lasciato un ricordo profondo in chiunque abbia avuto la fortuna di conoscerlo. Non solo parole di stima e di vicinanza sono state espresse nei suoi confronti in questi giorni, come ha sottolineato anche l’amica e collega Giulia Bongiorno: “L’odio sui social nei riguardi di Niccolò Ghedini non è soltanto meschino e spregevole, ma dimostra che spesso si scrive senza cognizione di causa. Era un uomo di grandi valori e ha aiutato silenziosamente moltissime persone, anche umili. Ho perso un vero, prezioso amico”.

Antonio Sangermano, pm dei processi Ruby (1 e bis), offre a Niccolò Ghedini più dell’onore delle armi: “Era un grandissimo signore, con una rara competenza, aveva una fulgida ironia. Era austero, glaciale, eppure aveva una forte umanità”.  Ed aggiunge ricordando i processi dove duellavano nei rispetti ruoli contrapposti (accusa e difesa) “Era corretto, rigoroso, sempre con la battuta pronta. Grandissima professionalità e cortesia. Tanto è vero che poi andavamo a prendere il caffè, anche se Ilda Boccassini non veniva…“.

I funerali di Niccolò Ghedini, folla fuori dalla chiesa. Tajani: «Era una grande persona». Messico tra narcos e depistaggi, 8 anni per la «verità» sul massacro di 43 ragazzi: arrestato l’ex procuratore. Guido Olimpio su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022. 

Murillo guidava le indagini sulla loro scomparsa. Restano ancora da chiarire il movente dell’assalto e il destino dei corpi dei ragazzi

Una strage dove sono riusciti a far sparire decine di vittime insieme alla verità. Una pagina nera di complicità collettiva, di collusioni e di bugie che, purtroppo, sono la consuetudine in Messico. E gli arresti arrivati a 8 anni dall’eccidio non possono essere considerati la conclusione, anche se coinvolgono personaggi di massimo rilievo.

Le autorità messicane, dopo lunghe indagini rilanciate dal presidente Andrés Manuel López Obrador, hanno fornito la loro ricostruzione su quanto avvenne nell’estate del 2014 nella regione di Iguala, quando 43 studenti furono rapiti e uccisi . Un massacro per il quale sono stati spiccati 63 mandati di cattura riguardanti ufficiali di tutti gli apparati della sicurezza, compreso l’ex procuratore generale Jesús Murillo, l’uomo che avrebbe dovuto dare risposte e invece ha sotterrato il dossier usando teorie alternative. Un muro di silenzio dietro il quale si sono nascosti in tanti. Difficile credere che l’allora presidente Peña Neto abbia creduto a ciò che gli raccontavano riguardo l’imboscata del 2014.

Tutto si consuma nelle ore tragiche tra il 26 e il 27 settembre, quando i giovani aspiranti maestri sono a bordo di alcuni pullman, che dirottano per poter andare a una manifestazione di protesta. È una tattica che usano di frequente, solo che stavolta la loro iniziativa si tramuta nell’orrore. Il convoglio è bloccato da agenti locali e banditi del cartello Guerreros Unidos legati da un patto di connivenza: i ragazzi sono portati via ed eliminati. I resti di soli tre di loro saranno ritrovati, gli altri diventeranno dei desaparecidos , i loro nomi aggiunti agli oltre centomila scomparsi di quella che è una guerra in cui la droga c’entra fino ad un certo punto. I traffici, infatti, sono un segmento in parallelo a manovre di influenza e partite di potere.

La prima inchiesta aveva puntato tutto su un’operazione locale, coinvolgendo politici della zona e pedine spendibili. Confessioni estorte avevano raccontato di cadaveri inceneriti su una grande pira di legna e copertoni vicino a un torrente, le ossa frantumate. Un report mai preso per buono dalle famiglie e da investigatori indipendenti, una soluzione che permetteva di offrire delle teste all’opinione pubblica risparmiandone altre. Chi non credeva alla soluzione ammoniva a guardare in profondità, a considerare anche il ruolo dell’esercito.

Ora la nuova indagine, con la grande retata e le manette a Murillo, riscrive i fatti tirando dentro anche le forze armate, da anni schierate nelle strade contro i cartelli ma non di rado infiltrate dai gangster. I militari avevano un loro informatore su uno dei bus, sapevano cosa stava accadendo ma non hanno fatto nulla e poi hanno preferito tacere. La copertura si è quindi estesa ad altri inquirenti, ai federali, a funzionari di vario livello. Tra i ricercati spicca Tomas Zeron, all’epoca numero uno dell’Agenzia anti-crimine, altro depistatore, coinvolto in un clamoroso caso di tangenti e scappato in Israele dove vive in apparenza sicuro di non essere preso.

Smentita poi la tesi dei corpi cancellati con il fuoco lungo il fiume, scenario giudicato improbabile da esperti internazionali intervenuti per far luce sul «crimine di Stato». Che conserva ancora molti segreti, a partire dai due punti chiave. Il primo: non è chiaro il movente reale dell’assalto al corteo. Si è ipotizzato un errore della gang e dei loro referenti nell’individuare una possibile minaccia, pericolo inesistente che li ha portati a considerare gli studenti come alleati di una fazione rivale. Non sono mancati riferimenti a un carico di droga nascosto su uno dei pullman che doveva essere recuperato a ogni costo, a piste improbabili, a intrighi. Il secondo: dove sono finiti i resti dei giovani? C’è chi ha ipotizzato il ricorso a un grande inceneritore vicino a una caserma, da qui vecchi sospetti. Per questo la «verità storica» — non quella promessa da Murillo mentre spargeva la cortina fumogena — non è ancora completa

Niccolò Ghedini e la malattia, la rivelazione di Longo: "Un anno e mezzo di vita. Poi..." Libero Quotidiano il 21 agosto 2022

E' il più commosso di tutti, Piero Longo: l'avvocato arriva tra i primi ai funerali di Niccolò Ghedini, a Santa Maria di Sala, nel Veneziano. Il senatore di Forza Italia, scomparso a soli 62 anni dopo aver lottato contro una grave forma di leucemia, era qualcosa in più del suo "allievo", avendolo portato in aula giovanissimo negli anni Ottanta, non ancora laureato. 

Alle esequie presenti  tutti i vertici azzurri, dal vicepresidente Antonio Tajani alla capogruppo al Senato Anna Maria Bernini, dall'amica e collega (nel partito e nelle aule di giustizia) Elisabetta Alberti Casellati al governatore del Veneto Luca Zaia, leghista, fino a Sergio Giordani, sindaco della sua città natale Padova, e Natascia Rocchi, prima cittadina di Santa Maria di Sala, piccola cittadina tra Padova e Venezia dove Ghedini viveva e "fuggiva" quando non era richiamato dalle vicende romane. Presenti anche Marina Berlusconi e Gianni Letta, mentre Silvio Berlusconi, suo cliente per anni ma soprattutto amico e quasi "padre acquisito", è rimasto in Sardegna perché "troppo provato". 

Anche Longo è visibilmente prostrato, e le sue parole in ricordo di Ghedini forse sono le più strazianti. "Gli antichi giapponesi, quelli che potevano permetterselo, usavano lasciare scritto dopo la morte 'Quello che doveva esser fatto, è stato fatto'. Questo epitaffio lo rispecchia, perché quello che si doveva fare, lui, l'ha sempre fatto. E in questo momento direbbe 'ma cosa fate ancora qui, andate a lavorare'".

"Niccolo' - ha aggiunto Longo - era quello che, a parte gli affetti, era dedicato da sempre al lavoro. L'ho considerato un fratello e a volte un figlio, e auspico che lui mi abbia considerato a volte come fratello, a volte come secondo padre. A un certo punto l'ho considerato solo un grande avvocato pieno di ironia, ma non sarcasmo, perché non faceva parte del suo mestiere. Due anni fa - ha poi rivelato - sono andato da lui e mi disse che gli avevano dato un anno e mezzo di vita. Io gli dissi che doveva morire quindici anni dopo di me, ma non ce l'ha fatta. Abbiamo parlato della sua malattia - ha concluso l'avvocato Longo - che ha affrontato in un modo che nessuno potrà mai capire". 

Niccolò Ghedini, i funerali nel Veneziano: "Cos'hanno appoggiato sopra la bara". Libero Quotidiano il 20 agosto 2022

"Era più di un avvocato", ha scritto Vittorio Feltri di Niccolò Ghedini. Difensore, compagno di partito, amico, quasi un figlio acquisito di Silvio Berlusconi, suo confessore e infaticabile (e impagabile) consigliere politico, quasi il tarantiniano Mister Wolf dentro Forza Italia, l'uomo "che risolve problemi". L'ultima volta qualche giorno prima di morire a 62 anni per le complicazioni della leucemia con cui combatteva da anni. Lo ha rivelato Ignazio La Russa: una telefonata a tarda sera, la richiesta di prendere in mano il dossier delle candidature del centrodestra in Sicilia. E l'indomani mattina era tutto risolto. 

Tuttavia Ghedini era, nell'animo, un uomo di legge. Una vita passata tra le aule dei tribunali, sempre in prima fila accanto al suo maestroPiero Longo. E sotto i riflettori, da quando ha iniziato a difendere Berlusconi in processi dall'altissimo impatto mediatico, come quelli delcaso Ruby. Scontri durissimi (ad esempio, conIlda Boccassini) che non cancellavano il rispetto infinito nei suoi confronti degli "avversari", come confermato dalle toccanti parole del procuratore di MilanoAntonio Sangermano.  

Non deve stupire, dunque, che ai funerali di Ghedini, celebrati a Santa Maria di Sala, cittadina tra Padova e Venezia dove viveva, lontano dai clamori romani, sulla sua bara sia stata appoggiata la toga da avvocato. "Non vado a cavallo, non scio. Il mio hobby è il mia lavoro", amava ripetere il senatore azzurro. E la sua vita era la sua famiglia: all'arrivo del feretro, insieme ai familiari, è stato portato anche uno dei cani dei Ghedini, un terranova nero di nome Thor, rimasto poi accucciato, in attesa, sul sagrato della chiesa. 

Niccolò Ghedini, Silvio Berlusconi assente ai funerali: retroscena straziante. Libero Quotidiano il 20 agosto 2022

Tutti i vertici di Forza Italia sono a Santa Maria di Sala, in  provincia di Venezia, per i funerali di Niccolo Ghedini. Tutti, tranne Silvio Berlusconi. L'uomo che da sempre era il più vicino al senatore azzurro e avvocato. Ghedini, stroncato dalle complicanze di una grave forma di leucemia a soli 62 anni, era il suo storico difensore in tanti processi famosi, ultimo quello Ruby, ed era considerato dal Cav come un figlio acquisito. L'ex premier e leader di Forza Italia resterà in Sardegna: "Troppo provato per la perdita dell'amico", fanno sapere fonti a lui vicine. Nulla c'entrano, dunque, le questioni politiche che vedono Berlusconi ancora alle prese con il rompicapo delle liste elettorali, come qualcuno ha malignamente sottolineato in queste ore. C'entrano, semmai, il dolore infinito per una morte così prematura e la commozione del leader 85enne, letteralmente prostrato. 

Nessuna mancanza di sensibilità, dunque, anzi all'opposto. E forse i timori per un crollo emotivo, nel momento dell'ultimo saluto all'amico e collaboratore, tra i più fidati di questi ultimi 20 anni. Non a caso, fino a pochi giorni fa, Ghedini e Berlusconi avevano continuato a lavorare gomito a gomito, sia pure a distanza, per limare le ultime questioni politiche in vista delle elezioni del 25 settembre. E l'avvocato si era speso per trovare un "erede" da candidare al suo posto a Padova, ben consapevole dell'aggravarsi definitivo delle sue condizioni di salute. 

Alle esequie, come detto, sono presenti i vertici del partito: il vicepresidente Antonio Tajani, la capogruppo del Senato Anna Maria Bernini, assieme alla presidente del Senato Elisabetta Casellati, legata a Ghedini da lunga amicizia. Il feretro è giunto alla piccola chiesa della cittadina a metà strada tra Padova e Venezia, all'esterno della quale vi sono anche molti semplici cittadini. Tra le autorità anche il presidente del Veneto, Luca Zaia, e il sindaco di Padova, Sergio Giordani. Particolarmente commosso il collega di studio Piero Longo, tra i primi a giungere in chiesa. Fra gli altri presenti, Marina Berlusconi e Gianni Letta,. a conferma della vicinanza dell'inner circle berlusconiano. Sopra la bara è stata appoggiata la toga da avvocato di Ghedini.

"Gli antichi giapponesi, quelli che potevano permetterselo, usavano lasciare scritto dopo la morte 'Quello che doveva esser fatto, è stato fatto'. Questo epitaffio lo rispecchia, perché quello che si doveva fare, lui, l'ha sempre fatto. E in questo momento direbbe 'ma cosa fate ancora qui, andate a lavorare'", è il ricordo commosso di Longo, il "maestro" di Ghedini. "Era quello che, a parte gli affetti, era dedicato da sempre al lavoro. L'ho considerato un fratello e a volte un figlio, e auspico che lui mi abbia considerato a volte come fratello, a volte come secondo padre. A un certo punto l'ho considerato solo un grande avvocato pieno di ironia, ma non sarcasmo, perché non faceva parte del suo mestiere". "Due anni fa - ha poi rivelato - sono andato da lui e mi disse che gli avevano dato un anno e mezzo di vita. Io gli dissi che doveva morire quindici anni dopo di me, ma non ce l'ha fatta. Abbiamo parlato della sua malattia -, ha concluso - che ha affrontato in un modo che nessuno potrà mai capire".

Luca Di Carmine per tag43.it il 23 agosto 2022.  

Sono sempre da ritagliare le partecipazioni di Gianni Letta ai lutti eccellenti: il problema è che ne scrive tanti, e nel corso dei decenni la collezione ha riempito un armadio. Fatto sta che l’Eminenza Azzurrina regala sempre qualche notizia, all’interno dei suoi lunghi ricordi per il compianto di turno, e lo ha fatto anche per commemorare Niccolò Ghedini. E nel testo appare anche qualche messaggio in codice.

Letta ha scritto: «Carissimo Niccolò, abbiamo lavorato bene insieme, tanto e per tanto tempo, ci siamo sempre capiti, anche quando eravamo di parere diverso. Ci piaceva discutere, e l’abbiamo fatto spesso, come solo gli amici possono fare, convinto ognuno delle sue buone ragioni, ma pronto e disponibile a riconoscere quelle dell’altro, sicuri sempre, tutti e due, di ritrovarci d’accordo sulla utilità del confronto e sul valore della contrapposizione dialettica, sempre illuminante per chi deve decidere. 

Per questo il nostro è stato davvero “un bel rapporto”: forte e saldo, sincero e leale, schietto e affettuoso. Così l’abbiamo concepito e vissuto insieme, in amicizia, affianco e per il nostro grande Presidente che oggi più di ogni altro avverte la lacerazione del distacco. E io con lui. Così il tuo amico Gianni Letta ti ricorderà per sempre con affetto e gratitudine, infinita gratitudine». Il necrologio continuava: bisogna sottolineare che Letta è amato tantissimo dagli editori, dato che si tratta del primo contribuente degli spazi a pagamento dedicati a chi non c’è più.

·         E’ morta la stilista Hanae Mori.

Moda in lutto, morta a 96 anni la stilista giapponese Hanae Mori. Redazione Tgcom24 il 18 agosto 2022.  

E' morta all'età di 96 anni la stilista giapponese Hanae Mori, riconosciuta in tutto il mondo come membro dell'elite dell'alta moda. Soprannominata Madame Butterfly per i motivi di farfalle che aveva reso il suo marchio di fabbrica, nel corso dei decenni le lussuose creazioni fatte a mano sono state indossate da Nancy Reagan, Grace Kelly e molte altre personalità internazionali. Mori è stata una delle poche donne giapponesi a capo di un'azienda internazionale, una pioniera dell'emancipazione delle donne nel suo Paese.

·         È morto il regista Wolfgang Petersen.

(ANSA-AFP il 17 agosto 2022) - Il regista tedesco Wolfgang Petersen, che ha raggiunto la fama internazionale con i film “La storia infinita”, ''U Boot 96", "Virus letale" e "Air Force One" ma anche il più recente ''Troy'', è morto di cancro al pancreas, ha detto una portavoce. Aveva 81 anni. Petersen, che ha diretto attori famosi di Hollywood tra cui Clint Eastwood, Dustin Hoffman, George Clooney, Harrison Ford e Brad Pitt in una carriera che dura da cinque decenni, è morto venerdì a Los Angeles.

Nato a Emden, in Germania, nel 1941, Petersen ha ottenuto il suo primo grande successo con il thriller sottomarino della seconda guerra mondiale "U Boot 96", adattato da un romanzo omonimo sulla battaglia dell'Atlantico. Il film gli è valso due nomination all'Oscar nel 1983, inclusa quella per il miglior regista, e Petersen ha realizzato il suo primo film in lingua inglese - il film fantasy per bambini "La storia infinita" - l'anno successivo. 

È passato ai film d'azione e catastrofici di Hollywood negli anni '90, lavorando con Eastwood e John Malkovich nel thriller di omicidio "Nel centro del mirino" e dirigendo Hoffman in "Virus letale" a tema pandemico.

Glenn Close, che ha recitato al fianco di Ford in "Air Force One" di Petersen, ha dichiarato all'AFP che essere stata diretta da lui "rimane un ricordo speciale". "Anche se la sceneggiatura era elettrizzante e incredibilmente intensa, ricordo molte risate, specialmente nelle scene attorno all'enorme tavolo nella War Room", ha scritto. "Il mio ricordo è di un uomo pieno di gioia di vivere che stava facendo ciò che amava di più fare", ha aggiunto Close. Negli anni 2000, Petersen ha diretto Clooney ne "La tempesta perfetta" e Pitt in "Troy".

E' morto nella sua residenza a Brentwood, Los Angeles, tra le braccia della moglie da 50 anni, Maria Antonietta. Petersen lascia anche il figlio Daniel, sua moglie Berit e due nipoti, Maja e Julien.

Marco Giusti per Dagospia il 18 agosto 2022.

Per chi è stato ragazzino negli anni ’80 pochi sono i film di culto da ricordare come “La storia infinita”, coi suoi buffi personaggi pelosi, la sua musica, la poetica della lettura come unico rimedio al nulla che avanza. 

Grazie a “La storia infinita”, tratto dal romanzo di Michael Ende, e al non meno importante, ultrarealistico “Das Boot”, uscito prima, il regista Wolfgang Petersen, scomparso ieri a 81 anni in California, dove si era stabilito dal 1987, dimostrò che si poteva fare un cinema europeo, di guerra o fantasy, concorrenziale con quello di Hollywood, un cinema che avesse la stessa ampiezza di racconto e di successo.

“La storia infinita”, che costava 25 milioni di dollari, e incassò 100 e portò al cinema, nella sola Germania 5 milioni di spettatori. Per Wolfgang Petersen fu in realtà l’inizio di una carriera che lo portò proprio nella Hollywood che stava combattendo. Nato nel 1941 a Enden, in Germania, figlio di un ufficiale della Marina tedesca, studiò a Hamburg e si interessò fin da piccolo di cinema e di riprese.

Fece film in 8mm, dei cortometraggi, lavorò alla tv, prima di ottenere un grande successo con “Tatort”, serie poliziesca con Jurgen Prochnow per la quale diresse sei episodi tra il 1970 e il 1977. Esordì nel cinema con un paio di thriller, “Ich Werde Dich Totev, Wolf”, 1971, e “Einer von uns Beiden”, 1974, con Jurgen Prochnow e Elke Sommer.

Ma il successo internazionale gli arrivò solo nel 1981 con “Das Boot”, girato per la Bavaria Studios, tratto dai romanzi di Lothar S. Buchheim, filmone di guerra da 32 milioni di Marchi, che ottenne be 6 nominations agli Oscar e lanciò la stella di Jurgen Prochnow, che divenne una stella di prima grandezza nel cinema americano. 

Grazie al successo di “Das Boot”, che ebbe una versione seriale in tv poco dopo e proprio in questi anni ha dato vita a una seconda serie, molto diversa dal film di Petersen, riuscì a convincere la Bavaria produrre “La storia infinita”, 1984. 

Fu uno sforzo enorme per il tempo e una scommessa assolutamente vinta, visto il successo che riscontrò il film in tutto il mondo, con effetti speciali ancora non così progrediti e tecnologizzati come quelli dei grandi film americani successivi.

Ma, proprio per questo, così artigianali e romantici. Fu allora che Hollywood si interessò a Petersen e gli affidò un film di fantascienza con scontro alieno-terrestre, “Il mio nemico”, con Dennis Quaid come terrestre e Louis Gossett Jr come alieno. Un film che non fu un successo di pubblico, ma piacque moltissimo alla critica più snob e diventò di culto nel tempo.

Non funzionò nemmeno il successivo film americano di Petersen, il thriller “Shattered” con Tom Berenger e Greta Scacchi, passato proprio ieri sera in tv. Il successo per Petersen in America, dove si era stabilito dal 1987, arrivò molto più tardi del previsto, con un bellissimo film con Clint Eastwood e John Malkovich, “Nel centro del mirino” del 1993, che gli aprì davvero le porte del successo a Hollywood. Fu così che girò grandi macchine popolari, mai banali, di grande successo, come “Virus letale” con  Dustin  Hoffman, “Air Force One” con Harrison Ford, “La tempesta perfetta” con George Clooney, il divertente “Troy” con Brad Pitt, Eric Bana e Diane Kruger, un remake del “Poseidon” di minor successo e, nel 2016, una sorta di ritorno a casa, “Vier Gegen Die Bank”, il suo ultimo film.  

È morto Wolfgang Petersen, regista di 'Air Force One' e 'La tempesta perfetta'. Giovanni Gagliardi su La Repubblica il 16 Agosto 2022.

Era nato in Germania nel 1941. La chiamata di Hollywood dopo il successo del suo U-Boot 96 (Das Boot) del 1981. In poco tempo divenne il regista preferito dagli studios per film d'azione

Wolfgang Petersen, regista, produttore e sceneggiatore, è morto a 81 anni. Nato in Germania il 14 marzo 1941, nei suoi 40 anni di carriera ha diretto successi come U-Boot 96, La storia infinita, Troy, La tempesta perfetta e molti altri.

Petersen è morto venerdì scorso (ma la notizia è stata diffusa solo oggi) nella sua casa di Brentwood, un distretto di Los Angeles in California, per un cancro al pancreas. Ad assisterlo c'era la moglie Maria-Antoinette Borgel, con la quale era sposato da 44 anni.

La carriera

Nato il 14 marzo 1941 a Emden, in Germania, Petersen ha iniziato la sua carriera di regista in patria, con cortometraggi e film per la tv negli anni 60 e 70. Poi è arrivata la chiamata di Hollywood, dopo il successo del suo U-Boot 96 (Das Boot) del 1981.

Il film sul sottomarino claustrofobico della Seconda guerra mondiale ebbe sei nomination agli Oscar, due erano per Petersen come sceneggiatore e regista. Il lavoro fu anche nominato per un Bafta e un Dga Award. Il protagonista della vicenda era Jürgen Prochnow, che vestiva i panni del capitano dell'U-Boot. L'attore divenne il prototipo dei personaggi d'azione di Petersen.

Jürgen Prochnow in una scena del film "Das Boot", del  1981 In breve tempo il regista si ritrovò a essere uno dei più richiesti per film d'azione tecnicamente complessi, come Virus letale del 1995, Air Force One del 1997, Nel centro del mirino del 1998, La tempesta perfetta del 2000. E ancora: Troy del 2004, Prova schiacciante del 1991 e Poseidon del 2006.

Brad Pitt in una scena di Troy, del 2004 Petersen ha anche diretto il film di fantascienza ambientato nello spazio del 1985 Il mio nemico e ha diretto e co-sceneggiato il film fantasy del 1984 La storia infinita.

Clint Eastwood in una scena del film "Nel centro del mirino" del 1998 Era molto apprezzato e benvoluto dagli attori con i quali ha lavorato: Clint Eastwood, Harrison Ford, George Clooney, Brad Pitt, Rene Russo, Glenn Close, Mark Wahlberg, Dustin Hoffman e Morgan Freeman.

Wolfgang Petersen e Dustin Hoffman 

La vita privata

Wolfgang Petersen si è sposato una prima volta prima con l'attrice Ursula Sieg, dalla quale ha avuto un figlio, Daniel, nato nel 1968. Nel 1978 ha divorziato e nello stesso anno si è risposato con l'assistente Maria-Antoinette Borgel, conosciuta sul set del film Smog del 1973. Aveva due nipoti.

·         E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.

Da lastampa.it il 16 agosto 2022.

Era famoso per aver dipinto il leader dell'Unione Sovietica Leonid Brezhnev e il leader della Germania dell'Est Erich Honecker che si baciano tra le rovine del Muro di Berlino. Il pittore russo naturalizzato tedesco Dimitri Vrubel, che ha firmato una delle opere più note del periodo post-Guerra Fredda con il suo "Bacio della Fratellanza Socialista", un monumento iconico fotografato da migliaia di turisti ogni anno in visita alla capitale tedesca, è morto domenica nella capitale all'età di 62 anni. 

Il caporedattore di Art Newspaper Russia Milena Orlova ha annunciato la notizia della scomparsa con un breve un messaggio pubblicato su Facebook e la causa del decesso di Vrubel non è stata resa nota. Sua moglie, l'artista Viktoria Timofeyeva, nelle scorse settimane aveva scritto sui social che Vrubel era stato ricoverato in ospedale con il coronavirus nel giugno scorso e successivamente messo in coma artificiale a causa di insufficienza cardiaca. 

Il graffito

Il graffito che aveva subito consacrato Vrubel come uno street-artist di fama internazionale è ufficialmente intitolato "Dio, aiutami a sopravvivere a questo amore mortale" (1990): è stato ispirato da una vera fotografia del 1979 in cui Brezhnev e Honecker si baciano in occasione dei festeggiamenti per i trent'anni dalla nascita della Ddr, la Repubblica democratica tedesca. Nel 2009 il graffito è stato ridipinto dallo stesso Vrubel dopo che era stato vandalizzato e usurato dal tempo. 

L’opera (365 cm × 480 cm) fa parte del memoriale della East Side Gallery, una galleria permanente all'aperto sulla più lunga sezione superstite del Muro di Berlino in Mühlenstraße, tra la Ostbahnhof e l'Oberbaumbrücke lungo la Sprea. Consiste in una serie di murales dipinti direttamente su un resto del Muro lungo 1.316 metri, situato sulla Mühlenstraße a Friedrichshain-Kreuzberg.

Chi era Dimitri Vrubel

Nato a Mosca il 14 giugno 1960, Vrubel aveva studiato all'Università Statale Pedagogica di Mosca e si era trasferì a Berlino nel 1990, subito dopo la caduta del Muro e la riunificazione tedesca. Nella capitale sovietica aveva studiato anche alla scuola d'arte, anche se non si era diplomato. Nel 1983 fu comunque accettato come membro dell'Unione degli Artisti dell'Urss. 

La carriera artistica

Vrubel è stato un artista dissidente precoce e costante. Nel 1986 organizzò mostre d'arte non ufficiali - e illegali - nel suo appartamento moscovita e l'anno successivo entrò a far parte del "Club dell'Avanguardia" (abbreviazione russa Klava), che comprendeva alcune delle migliori figure culturali non ufficiali dell'epoca, tra cui l'artista e scrittore Dmitry Prigov e il poeta Lev Rubinstein.

Nel 2020, a Mosca, Vrubel è stato testimone della difesa di due curatori accusati di incitamento all'inimicizia religiosa per una mostra intitolata "Arte proibita-2006" al Centro Sakharov. All'epoca disse: "«iamo ancora una volta in un Paese in cui lo Stato sostiene una posizione e un'estetica e definisce illegale tutto il resto. È orribile». 

L'artista, che spesso appariva in pubblico con un cappello nero, è stato spesso criticato per le sue opere provocatorie, a volte politiche, e spesso fraintese. Lui replicava alle polemiche sostenendo che la missione della sua vita era una sola: «Riportare l'arte e le persone insieme». 

Il calendario con “I 12 stati d’animo di Putin”

Tra le sue opere, Vrubel ha creato nel 2001 un calendario con i ritratti del presidente della Russia Vladimir Putin intitolato "I 12 stati d'animo di Putin", che ha avuto un inaspettato successo di vendite tra la popolazione russa. In uno dei ritratti Putin sembra severo e accigliato, in un altro il suo viso rivela il minimo sorriso, e in un altro ancora si siede a gambe incrociate nel suo abito da judo.

Marino Niola per “la Repubblica” il 17 agosto 2022.

L'autore del Bacio Mortale è morto. Ieri il Covid si è portato via l'artista russo Dmitrij Vladimirovi Vrubel, diventato celebre per aver immortalato sul Muro di Berlino il bacio che il leader sovietico Leonid Breznev stampò sulla bocca di Erich Honecker, presidente della Ddr, l'ex Repubblica democratica tedesca, il 5 ottobre 1979. 

Quel giorno si celebrava il trentesimo Tag der Republik, cioè giorno della Repubblica, la festa che solennizzava la divisione tra le due Germanie. L'unica traccia materiale di quella funesta lacerazione resta adesso la cosiddetta East Side Gallery, milletrecento metri di muro diventati la più lunga galleria d'arte all'aperto del mondo. È lì che si trova The Mortal Kiss , uno dei murales più famosi di sempre, che Vrubel terminò nel 1990, un anno dopo il crollo dell'impero sovietico.

Siamo in Mühlenstrasse, una via dell'ex Berlino Est a due passi da Alexander Platz, cioè i luoghi simbolo della Ostalgie , ovvero la nostalgia dell'Est (in tedesco Ost ), quel diffuso sentimento che rimpiange il tempo in cui le due metà del Paese erano divise e che ha ispirato quello splendido film che è Goodbye Lenin. 

In realtà il bacio socialista tra Breznev e Honecker, proprio come quello tra Paolo e Francesca nella Divina Commedia ispirato da un libro galeotto, nasce da una foto altrettanto galeotta scattata dal reporter francese Régis Bossu. Che il giorno del contatto bocca a bocca fra i due leader si trovava a Berlino per coprire l'evento. 

«Ho aspettato che Breznev e Honecker si congratulassero teneramente. E ho premuto nel momento perfetto, quando le loro labbra si sono fuse in un bacio così sensuale e grottesco che è entrato nella storia». Di fatto l'immagine di quel contatto ravvicinato fissa in un fotogramma il corso degli eventi, sorprende la storia nel suo farsi e molto prima che gli storici abbiano trovato le parole per dirlo.

Non a caso il suo scatto e il murale di Vrubel sono diventati due immagini epocali. Due paradigmi che tornano periodicamente a galla come simboli di altri affratellamenti politici che alla fine si rivelano impossibili. Come il bacio tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini che ha sancito l'accordo di governo tra pentastellati e leghisti dopo le elezioni del 4 marzo 2018.

Anche quell'amore breve ma intenso ispirò lo street artist Tvboy, al secolo Salvatore Benintende, che lo immortalò in Amor populi , un murale con evidente allusione al populismo, affisso a due passi da Montecitorio e ben presto rimosso. Insomma, fu una immortalità provvisoria, proprio come la coabitazione tra i due leader. Idem per il bacio alla russa di Calenda a Letta subito dopo l'accordo tra Azione e Pd, che è durato lo spazio di un mattino.

E in ogni caso le antenne sensibili di fotografi e artisti, da Bossu a Vrubel fino a Tvboy, hanno colto la potenza iconica del bacio, la pluralità di sensi che questo gesto in apparenza elementare può assumere. Non solo in amore ma anche in politica. Perché in realtà il contatto a fior di labbra è uno dei più antichi emblemi di unione ma anche di separazione, di fratellanza ma anche di lontananza, di gradimento ma anche di tradimento. 

Prima ancora di arrivare al bacio berlinese, che esprimeva dietro il paravento della fratellanza socialista malcelava l'effettiva sottomissione di Honecker, che subiva sia le attenzioni fisiche che lo stalking territoriale del capo sovietico.

Ma anche altri baci storici con l'amore hanno poco a che fare. Come quello celebre di Francesco Hayez che si trova nella pinacoteca milanese di Brera, dove attrae file interminabili di adolescenti che si commuovono e si selfeggiano davanti a quella manifestazione turbinosa di attrazione, di passione, di fusione. Due corpi un'anima. 

Peccato che si tratti di un'allegoria politica. Visto che si riferisce alla liaison tra Cavour e Napoleone III in funzione antiaustriaca alla vigilia della Terza guerra d'In-dipendenza. Una scena decisamente patriottica.

Ma a dispetto della verità storica, il sottotesto dell'opera viene bellamente bypassato da quei ragazzini che, nonostante siano abituati a navigare tra un sito e l'altro in un mare di gigabaci, sono perturbati dal big bang fusionale ed etologico contenuto in quel gesto. Così universale da essere praticato perfino da certe specie animali, come i primati. Oltre che da capi politici e religiosi che da millenni ne hanno fatto il codice privilegiato per esprimere tutta una gamma di messaggi di alleanza e di comunanza, di gerarchia e di ideologia. 

Dal bacio santo, quello che i primi cristiani si davano sulla bocca per dirsi fratelli in Cristo. Ai baci di vassallaggio che gli imperatori imprimevano sulle labbra dei feudatari per sottolineare che l'unico datore di privilegi e latore di potere era il sovrano. 

Fino ai baci mafiosi, un rito che manifesta il potere del boss sugli accoliti, cui Lucio Luca ha dedicato un pezzo apparso su Repubblica nel giugno 2020. Dimmi come baci e ti dirò chi sei. Bacio in bocca ma senza lingua, per consacrare il legame eterno con la Famiglia. Ma può significare anche passaggio di poteri.

Come quello dell'ottantunenne capobastone Settimo Mineo che baciò sulle labbra il sessantatreenne Salvatore Alfano. Una vera e propria investitura feudale, una trasmissione di consegne dal vecchio al nuovo sovrano. 

E qualche volta un bacio mai dato può essere la rappresentazione di una speranza tradita. Come quello tra il presidente russo Vladimir Putin e quello ucraino Volodymyr Zelensky, immaginato dall'artista di strada Ozmo, pseudonimo di Gionata Gesi e donato alla città di Trento lo scorso giugno. Un'utopia della pace destinata a rimanere tale. Come dire che la storia si ripete. Perché l'impero colpisce ancora.

·         È morto lo scrittore Nicholas Evans.

È morto Nicholas Evans, autore de L’uomo che sussurrava ai cavalli. Lo scrittore se ne è andato all'età di 72 anni. Era conosciuto in tutto il mondo per il suo romanzo bestseller "L’uomo che sussurrava ai cavalli". Federico Garau il 15 Agosto 2022 su Il Giornale.

Se n'è andato all'età di 72 anni lo scrittore inglese Nicholas Evans, noto soprattutto per il suo romanzo "L’uomo che sussurrava ai cavalli", un bestseller che ha venduto in tutto il mondo e dal quale fu tratto poi un film nel 1998, con Robert Redford nella parte del protagonista.

È stata la stessa agenzia letteraria United Agents a rilasciare un comunicato in cui si informano i fan di Evans della scomparsa dell'autore.

Prima della fama, Nicholas Evans, nato a Bromsgrove (cittadina della contea del Worcestershire) nel 1950, lavorò come documentarista, occupandosi di scrittori, pittori e registi. Poi, nel 1995, uscì The Horse Whisperer, in italiano "L'uomo che sussurrava ai cavalli", che riuscì a vendere 15 milioni di copie in tutto il mondo, venendo tradotto in ben 40 lingue.

Dopo questo lavoro, Evans scrisse altri quattro romanzi: The Loop (1998), Smoke Jumper (2002), The Divide (2006) e The Brave (2010). Conosciuti, nell'edizione italiana, come "Insieme con i lupi", "Nel fuoco", "Quando il cielo si divide" e "Solo se avrai coraggio".

Lo scrittore, deceduto lo scorso 9 agosto, viveva con la moglie Charlotte Gordon Cumming, cantante e cantautrice. La coppia ha quattro figli, Finlay, Lauren, Max e Harry.

Pare che la causa della morte sia stata un attacco di cuore. "Ha vissuto una vita piena e felice, nella sua casa sulla riva del fiume Dat nel Devon", si legge nella nota diramata dalla United Agents.

·         E’ morta l’attrice Robyn Griggs.

Lutto nel mondo della televisione, morta l’attrice Robyn Griggs. Giampiero Casoni il 15/08/2022 su Notizie.it.

Arriva in questi giorni un grande lutto nel mondo della televisione leggera e di intrattenimento, è morta l’amata attrice statunitense Robyn Griggs 

Se ne va una protagonista dell’intrattenimento leggero ed è lutto nel mondo della televisione, è morta l’attrice Robyn Griggs: amata da tutti i seguaci delle soap la 49enne era malata da tempo di tumore ed era molto attiva sui social. La Griggs era molto conosciuta dal grande pubblico soprattutto per i suoi ruoli nelle soap opera, in particolare in un Una vita da vivere a Destini.

La 49enne è scomparsa in questi giorni e la notizia della sua morte è stata data il 13 agosto e riportata dalla pagina Facebook ufficiale dell’artista. 

È morta l’attrice Robyn Griggs

Solo un mese fa Robyn  aveva annunciato che le erano stati diagnosticati quattro nuovi tumori. Il suo debutto televisivo risale al 1991 con il ruolo di Stephanie Hobart in “Una vita da vivere”. Poi tra il 1993 e il ’95 Griggs era stata Maggie Cory in “Destini”, il ruolo che l’aveva resa celebre.

Nata il 30 aprile 1973 a Tunkhannock, in Pennsylvania, aveva iniziato con il teatro per bambini  e con “Rated K”, programma in cui i giovanissimi recensivano i film.

La malattia e la lotta, sempre con il sorriso

Nel 2020 alla Griggs era stato diagnosticato un “cancro endocervicale all’adeno al quarto stadio”. La 49enne ha lottato contro il male per mesi ed ha informato i fan della sua battaglia sui social.

Durante la  pandemia, quando aveva ricevuto anche un attestato di merito, aveva detto: “Amo ridere, è il mio modo di affrontare la malattia, e quindi mi sono assicurata di trovare qualcosa di divertente a cui pensare”.

·         E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro. 

Morta Carmen Scivittaro: attrice di Un posto al sole, per i fan era Teresa. La Repubblica il 14 Agosto 2022. 

Aveva 77 anni, una lunga carriera in teatro e poi il successo di pubblico

Addio alla popolare attrice Carmen Scivittaro. Aveva 77 anni. È stata per molti anni Teresa Diacono nella soap Rai Un posto al sole, un personaggio molto amato dal pubblico. L’attrice, da qualche tempo distante dal set di Upas, è scomparsa per una malattia.

La notizia della morte di Carmen Scivittaro ha riversato sui social i tanti ricordi e saluti commossi dei fan della telenovela, negli anni diventata cult, la più longeva tra le produzioni italiane. A darne la notizia Alberto Rossi, Michele in Un posto al sole, con un post su Instagram.

Scivittaro è nata a Napoli nel 1945. Nella sua carriera tanto teatro e anche drammaturgia in radio, ha lavorato in opere come “La gatta Cenerentola” di Roberto De Simone,  il “Mestiere di Padre” di Raffaele Viviani e “Ceneri di Beckett” di Lello Serao. Il successo di pubblico è arrivato nel 1998 con la soap Rai, dove con il personaggio di Teresa, moglie di Otello, ha rappresentato un cardine narrativo importante negli intrecci della sceneggiatura.

Morta l’attrice Carmen Scivattaro: interpretò Teresa Diacono in “Un Posto al Sole”. Valentina Mericio il 14/08/2022 su Notizie.it.

Lutto nella serie tv "Un Posto al Sole". L'attrice Carmen Scivattaro è morta all'età di 77 anni. Aveva lottato contro una malattia. 

La televisione italiana oggi piange la scomparsa di un’altra grande protagonista. L’attrice Carmen Scivattaro è morta nella giornata di domenica 14 agosto all’età di 77 anni. Fu nota al pubblico per aver vestito i panni di Teresa Diacono in “Un Posto al Sole”.

Morta Carmen Scivattaro, l’annuncio della sua scomparsa

La scomparsa dell’attrice ha immediatamente sconvolto gli utenti dei social e ciò è apparso particolarmente evidente su Facebook dove sono moltissime le persone che le hanno dedicato un ultimo pensiero. L’annuncio è stato dato da due attori della nota soap opera di Rai 3, Alberto Rossi (Michele Saviani) e Walter Melchionda (Luigi Cotugno). Il primo, attraverso le Instagram stories ha dichiarato: “Purtroppo è successo l’inevitabile.

È una notizia che non avremmo mai voluto avere. Sapevate che Carmen non era con noi da parecchio tempo, per motivi prima di salute del fratello, poi di salute suoi. Era da un po’ che non la sentivamo, perché non voleva che la contattassimo. È arrivata questa notizia. Venticinque anni insieme. Era una grande artista, una grande professionista. Niente, è così. Salve a tutti”.

La carriera

Non tutti sanno che, prima di approdare sul piccolo schermo, Carmen Scivattaro aveva recitato moltissimo a teatro. È stata infatti drammaturga in atti unici trasmessi da Radio 2 ed è apparsa in diversi spettacoli teatrali molto noti tra i quali “Mestiere di padre” di Raffaele Viviani o ancora Ceneri di Beckett di Lello Serao. Nel 2018 aveva deciso di ritirarsi dalle scene a seguito di un grave lutto familiare, infine la malattia che l’attrice non è riuscita purtroppo a sconfiggere.

Addio a Carmen Scivittaro, indimenticabile Teresa nella soap "Un posto al sole". Se n'è andata all'età di 77 anni, per le conseguenze di una lunga malattia, l'amatissima attrice Carmen Scivittaro, per 20 anni interprete di Teresa nella soap "Un posto al sole". Il cordoglio di colleghi e fan. Roberta Damiata il 15 agosto 2022 su Il Giornale.

Lutto nel cast di Un posto al sole per la morte di Carmen Scivittaro. L'attrice scomparsa all'età di 77 anni, aveva vestito i panni di Teresa Diacono per venti anni, dal 1998 al 2018, quando si ritirò dalle scene per problemi familiari. Ad annunciare la sua scomparsa sono stati due colleghi della nota soap, Walter Melchionda (Luigi Cotugno) e Alberto Rossi (Michele Saviani). Melchionda su Facebook ha scritto: "Cara Teresa Riposa In Pace. Un dispiacere enorme". Alberto Rossi invece, in diverse stories si è mostrato in lacrime. Molto commoventi le sue parole: "Una notizia che non avremmo mai voluto avere. Carmen non era con noi da parecchio per motivi di salute. Non voleva che la contattassimo. Venti anni insieme. Era una grande artista e professionista".

La decisione di lasciare il set nel 2018, inizialmente fu dettata da motivi legati alla salute del fratello, poi fu proprio la stessa Carmen ad ammalarsi. Fino alla notizia di queste ore, con l’addio ad una delle attrici che si è fatta amare per la sua genuinità e la passione con cui dato vita al suo personaggio. L'assenza nella soap, era stata giustificata facendo stabilire Teresa in pianta stabile a Indica, dove in seguito l’aveva raggiunta anche il marito Otello, l'attore Lucio Allocca.

Un lutto che ha scosso gli attori e i fan, addolorati da questa scomparsa. Anche Stefano Amatucci, sceneggiatore e regista di Un posto al sole, ha voluto tratteggiare il ritratto dell'attrice scomparsa: "Meravigliosa compagna di lavoro, donna intelligente e colta, mi si accavallano ricordi di 20 anni e più di lavoro quotidiano insieme. Addio, ti voglio bene".

Carmen era nata a Napoli nel 1945. Nella sua carriera tanto teatro ma anche drammaturgia in radio. Ha lavorato in opere come La gatta Cenerentola di Roberto De Simone, il Mestiere di Padre di Raffaele Viviani e Ceneri di Beckett di Lello Serao. Si era poi dedicata anche al cinema, in alcune pellicole come La posta in gioco e ll verificatore, uscite tra la fine degli anni ’80 e gli anni ’90. In tv ha fatto parte de La nuova squadra, anche se il grande successo di pubblico è arrivato nel 1998 con la soap Rai, dove con il personaggio di Teresa, moglie di Otello, ha rappresentato un cardine narrativo importante negli intrecci della sceneggiatura della soap più longeva della televisione italiana, che proprio pochi giorni fa aveva festeggiato le 6000 puntate.

·         Addio all’attrice Denise Dowse.

Addio a Denise Dowse, la vicepreside di Beverly Hills 90210. Valentina Dardari su Il Giornale il 14 agosto 2022.

L'attrice statunitense Denise Dowse è morta all'età di 64 anni. L’indimenticabile interprete della vicepreside Yvonne Teasley in ‘Beverly Hills 90210’, del giudice Rebecca Damsen in ‘The Guardian’ e della terapista Rhonda Pine in ‘Insecure’, sarebbe deceduta a causa di una forma grave di meningite. Il suo decesso è stato annunciato nella giornata di ieri sul suo account Instagram dalla sorella maggiore Tracey Dowse: "Era la sorella più incredibile, un'attrice illustre. Era la mia migliore amica e l'ultimo membro della mia famiglia".

Stroncata da una menigite

Lo scorso 7 agosto Tracey aveva scritto sul social, come riferisce The Hollywood Reporter, che la sorella minore si trovava ricoverata in ospedale ed era in coma a causa di una forma virulenta di meningite. Sul grande schermo la Dowse si era distinta per il ruolo della manager di Ray Charles, Marlene André, in ‘Ray’ film del 2004, con il premio Oscar Jamie Foxx, e aveva interpretato un'altra preside, basata su una educatrice realmente esistita della Richmond High School (California), in ‘Coach Carter’ (2005), con Samuel L. Jackson. In passato, l'attrice aveva dichiarato che questi erano stati tra i suoi ruoli preferiti, al pari del ruolo di Yvonne Burns, la zia di Derek Morgan nella serie tv ‘Criminal Minds’.

Tornando al telefilm cult degli anni ‘90, la Dowse aveva interpretato la severa, ma compassionevole, vicepreside del West Beverly Hills High, Yvonne Teasley, in ben 23 episodi, per tutti i 10 anni in cui è stata registrata la serie televisiva, dal 1990 al 2000. In seguito è apparsa 32 volte nel ruolo del giudice Rebecca Damsen nella serie tv ‘The Guardian’ (2001-2004), e sei volte nel ruolo della terapista di Molly, Yvonne Orji, nelle tre stagioni finali di ‘Insecure’ (2017-20). La Dowse è stata anche un personaggio ciclico nelle serie tv ‘Built to Last’ nel 1997, in ‘Secrets and Lies’ nel 2015-16 e in ‘Imposters’ nel 2017-18. L’attrice americana è apparsa anche in episodi di ‘Roc’, ‘Seinfeld’, ‘Touched by an Angel’, ‘Party of Five’, ‘Charmed’, ‘Law & Order’, ‘Bones’, ‘Rizzoli & Isles’, ‘Grey's Anatomy’, ‘E.R. - Medici in prima linea’, ‘Snowfall’. Nel suo curriculum cinematografico troviamo interpretazioni in ‘I signori della truffa’ (1992), ‘Professione: Avvocato. Missione: Giustiziere’ (1992), ‘Tonto + Tonto’ (1996), ‘Starship Troopers - Fanteria dello spazio’ (1997), ‘Pleasantville’ (1998), ‘Requiem for a Dream’ (2000) e ‘Il dottor Dolittle 2’ (2001).

I primi passi nel cinema

Dowse ha insegnato per 18 anni recitazione e diretto opere teatrali presso l'Amazing Grace Conservatory, una scuola nel centro di Los Angeles di arti sceniche per studenti dagli 8 ai 18 anni. Nel 2016 ha diretto il musical ‘Recorded’ al Kirk Douglas Theatre di Culver City, e l’anno seguente ha diretto a New York anche ‘Daughters of the Mock’ per The Negro Ensemble Company. Denise Yvonne Dowse era nata a Honolulu il 21 febbraio del 1958. Suo padre era un ufficiale di carriera nella Marina degli Stati Uniti e ogni due anni la sua famiglia era solita trasferirsi in luoghi diversi.

Nel 1976, mentre frequentava la W.T. Woodson High School di Fairfax, in Virginia, fece un'audizione per entrare a far parte del gruppo teatrale itinerante Up With People e nello stesso periodo presentò domanda di ammissione all'Accademia Navale degli Stati Uniti. Conseguì la laurea nel 1980 alla Norfolk State University e visse in Germania con i suoi genitori per oltre sette anni. All’età di 30 anni si trasferì a Los Angeles, dove trovò lavoro come comparsa a Hollywood, iniziando così la sua lunga carriera sia televisiva che cinematografica.

·         E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.

Da leggo.it il 14 agosto 2022.

È morta oggi, nella sua casa romana, l’attrice Rossana Di Lorenzo. Aveva 84 anni ed era sorella dell'attore Maurizio Arena e zia dello showman Pino Insegno. 

Il nome dell’attrice è legato in particolare ai ruoli della moglie di Alberto Sordi sia nell’episodio La camera nel film Le coppie (per cui è stata candidata come migliore attrice non protagonista ai Nastri d’Argento nel 1971) sia nel film Il comune senso del pudore, diretto dallo stesso attore. 

Chi era Rossana Di Lorenzo

È stata poi Erminia in "Vacanze di Natale" di Carlo Vanzina. Ha recitato in commedie come "Il presidente del Borgorosso Football Club", "Permettete signora che ami vostra figlia?", "Cuori nella tormenta", "L'assassino è quello con le scarpe gialle", "Letti selvaggi", ma anche in film drammatici come "L'eredità Ferramonti" o in "Ballando ballando" di Ettore Scola che le valse nel 1983-84 una candidatura ai David come migliore attrice non protagonista.

Morta Rossana Di Lorenzo, l'attrice moglie di Alberto Sordi nel film "Il comune senso del pudore". Sorella dell'attore Maurizio Arena e zia di Pino Insegno, che ha diffuso la notizia della scomparsa. La Repubblica il 14 Agosto 2022.

È morta a Roma, all'età di 84 anni, l'attrice Rossana Di Lorenzo, sorella dell'attore Maurizio Arena e zia dello showman Pino Insegno, che ha diffuso la notizia della scomparsa.

Il nome dell'attrice è legato in particolare ai ruoli della moglie di Alberto Sordi sia nell'episodio La camera nel film Le coppie (per cui è stata candidata come migliore attrice non protagonista ai Nastri d'Argento nel 1971) sia nel film Il comune senso del pudore, diretto dallo stesso attore. E' stata poi Erminia in Vacanze di Natale di Carlo Vanzina.

Ha recitato in commedie come Il presidente del Borgorosso Football Club, Permettete signora che ami vostra figlia?, Cuori nella tormenta, L'assassino è quello con le scarpe gialle, Letti selvaggi, ma anche in film drammatici come L'eredità Ferramonti o in Ballando ballando di Ettore Scola che le valse nel 1983-84 una candidatura ai David come migliore attrice non protagonista.

Cinema, morta l’attrice Rossana Di Lorenzo: aveva recitato con Alberto Sordi. Valentina Mericio il 13/08/2022 su Notizie.it.

Aveva interpretato il ruolo della moglie di Alberto Sordi in due film di successo. Rossana Di Lorenzo è morta a 84 anni nella sua abitazione a Roma. 

Sorella dell’attore Maurizio Arena e zia di Pino Insegno, aveva conosciuto il periodo massima popolarità tra gli anni ’70 e ’80. L’attrice Rossana Di Lorenzo è morta a 84 anni nella sua residenza di Roma. La notizia è stata data proprio dal noto nipote ad Adnkronos.

Tra i ruoli interpretati anche quello della moglie in due pellicole con Alberto Sordi ossia nell’episodio “La camera” ne “Le coppie” che le portò una candidatura come migliore attrice non protagonista al nastro d’argento del 1971 e ne “Il comune senso del pudore”, qui diretta dallo stesso Sordi.

Morta Rossana Di Lorenzo, la carriera

Classe 1938, Rossana Di Lorenzo nel corso della sua lunga carriera, ha lavorato con i più grandi.

Pur non essendo stata particolarmente prolifica, è stata diretta da registi del calibro di Ettore Scola o ancora De Sica. Con quest’ultimo ha recitato nella pellicola del 1972 “Senza famiglia, nullatenenti cercano affetto” dove ha vestito i panni della prostituta. In Ballando Ballando di Ettore Scola è stata la Dame-Pipi, ruolo che le è valso una nuova candidatura come migliore attrice non protagonista ai David di Donatello del 1983-84.

L’attrice è conosciuta dal grande pubblico anche per il ruolo della indimenticabile Erminia nel film del 1983 “Vacanze di Natale” di Carlo Vanzina, pellicola che, come sappiamo, ha inaugurato il fortunato filone del cinepanettone natalizio.

Di Lorenzo reciterà con Vanzina anche in “Amarsi un po’…” del 1984, “Montecarlo Gran Casinò” del 1987 e soprattutto il film cult “S.P.Q.R – 2000 1/2 anni fa” dove l’abbiamo vista vestire i panni della simpaticissima Rosa.

L’ultimo film nel quale è apparsa è “L’assassino è quello con le scarpe gialle” di Filippo Ottone del 1995.

Da lì il ritiro dalle scene che l’ha portata a condurre una vita privata. Non si conoscono per il momento le cause del decesso. Sono moltissimi nel frattempo gli utenti che, sui social, hanno dedicato un pensiero a questa amatissima attrice.

·         E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.

È MORTO PIERO ANGELA. Da today.it il 13 agosto 2022.

Piero Angela, il conduttore e divulgatore scientifico si è spento nella notte tra il 12 e il 13 agosto, all'età di 93 anni. Nato a Torino il 22 dicembre 1928, aveva da poco celebrato i suoi 70 anni in Rai. Volto rassicurante e grande conoscitore delle bellezze d'Italia con i suoi programmi ha portato la cultura, tramite il piccolo schermo, nelle case di milioni di italiani. Il figlio, Alberto, ha seguito le sue orme. 

A confermare la morte del giornalista è stato il figlio Alberto con un post su Instagram, tre sole parole: "Buon viaggio papà". 

Chi era Piero Angela: il grande divulgatore

Angela è nato a Torino il 22 dicembre 1928, suo padre Carlo è stato nominato Giusto tra le nazioni per aver salvato numerosi cittadini ebrei durante la Seconda Guerra Mondiale. Fin da giovane coltiva la passione per l'arte, la musica, la scienza. Eternamente curioso, la sua mente scorreva le parole di libri per scoprire le meraviglie del mondo.

Il suo primo lavoro nell'ambito giornalistico è con il Giornale Radio, poi nel 1954 con l'avvento della televisione, passò al telegiornale e poi iniziò il suo sodalizio con la Rai prima come corrispondente da Parigi e poi come conduttore, nel 1968, della prima edizione del Telegiornale Nazionale delle 13:30. Negli anni '70 inizia la sua carriera come divulgatore scientifico prima con "Destinazione Uomo" e poi nel 1980 con Quark, diventato poi SuperQuark. La sua carriera è costellata di grandi successi: Il pianeta dei dinosauri, Viaggio nel cosmo e Ulisse – il piacere della scoperta. 

La vita privata di Piero Angela

Quello con la moglie Margherita Pastore è stato un grande e immenso amore. Quando i due si sono incontrati avevano rispettivamente lui 24 e lei 18 anni. Pastore era una ballerina classica della Scala di Milano e tra i due fin dal primo istante scattò qualcosa, lo stesso Angela dichiarò: "Ho avuto un colpo di fulmine, ma è accaduto in un’epoca nella quale ci si dava ancora del lei. L’ho conosciuta alla festa di un’amica, lei aveva 18 anni e io 24, mi sono messo a suonare il pianoforte e ci siamo innamorati”.

La coppia è convolata a nozze nel 1955, hanno avuto due figli, Alberto e Christine. Se sul primo sappiamo molto, almeno della carriera lavorativa, sulla seconda le informazioni sono molto poche. Dal primogenito ha avuto tre nipoti: Edoardo, Alessandro e Riccardo.

Durante un'intervista, Angela sulla moglie dichiarò: "Ho avuto da lei la possibilità di fare delle cose che da solo non avrei potuto fare perché mi ha incoraggiato e criticato". Solo parole d'ammirazione e di amore si sono scambiati nel corso della vita, ben 65 anni di matrimonio. Pastore abbandonò la danza e quando Angela si dovette trasferire a Parigi, come corrispondente, lei lo seguì, infatti Alberto è nato a Parigi nel 1962. Proprio sull'abbandono della carriera da ballerina della moglie Angela lo scorso anno dichiarò: "Ho ancora un senso di colpa per avere interrotto, per seguirmi, la sua carriera nel mondo della musica nel quale era una giovane promessa. Però lei mi ha sempre detto di essere stata felice. Ancora oggi abbiamo, l'uno verso l'altra, molto amore e rispetto e tolleranza".

Piero Angela, alcune curiosità sul conduttore

Pur non avendo mai conseguito una laurea, gli sono state conferite per ben 8 ad Honoris Causa. Nel 2018 poi è stato insignito del titolo Torinese dell'anno per aver da sempre "rappresentato lo stile torinese dell’impegno e della passione per il lavoro (…) attraverso un linguaggio accurato ma comprensibile e soluzioni innovative di comunicazione che hanno rivoluzionato il mondo della divulgazione scientifica". 

Era un eccellente pianista, suonava il piano forte dall'età di 7 anni e prima di diventare un giornalista full time si esibiva nei jazz club di Torino.

Suo figlio Alberto non lo ha mai chiamato papà sul posto di lavoro, fu proprio il divulgatore scientifico a chiedere al figlio di chiamarlo per nome: "Gliel’ho chiesto io di chiamarmi Piero, mi piace avere un rapporto di lavoro"

Cristina Palazzo per repubblica.it l'1 settembre 2022.

Piero Angela era per molti il papà della cultura italiana. Grande giornalista e divulgatore scientifico, medaglia d'oro ai benemeriti della cultura e dell'arte, dodici lauree honoris causa, quaranta libri scritti e il merito di saper spiegare e far piacere la scienza a tutti, sconfiggendo la noia "la peggior nemica della cultura", come amava definirla. Eppure quella noia che, raccontò nelle interviste, lo ha accompagnato negli anni della scuola e, si scopre oggi, in effetti era cristallizzata nei voti al liceo classico D'Azeglio di Torino.

Dagli archivi della scuola emerge infatti un ritratto inedito del giornalista morto il 13 agosto scorso a 93 anni. Angela frequentò il D'Azeglio dal 1939 al 1947 (due di questi anni li trascorse al liceo Alfieri, perché sfollato con la famiglia durante la guerra). Fu rimandato e dovette anche studiare d'estate, sottraendo del tempo alla sua grande passione per la musica, che spesso lo portò a far tardi la sera con le orchestrine jazz. "Veniva a scuola vestito da sera", ricordavano i compagni.

Al penultimo anno, quando frequentava la II B dell'istituto torinese - che tra gli altri ha avuto come studenti Cesare Pavese e Primo Levi - i suoi docenti dovettero andare a capo per elencare tutte le materie da riparare: "Italiano, latino, matematica, fisica, scienze". L'anno successivo, quello della maturità, lo chiuse con tre materie da riparare. 

Le recuperò, come altri 13 compagni su 29 della classe "fiacca e lenta", come scrivevano i prof quell'anno, e prese la maturità nella sessione autunnale. Sulla pagella tutti sei e un nove: educazione fisica. Ma il "cinque" più curioso riguardava un voto in condotta del primo trimestre dell'ultimo anno.

L'enorme biblioteca del liceo (29.500 libri e un archivio con documenti a partire dal 1831) non aiuta a svelare il mistero. Di certo è che Piero Angela era in buona compagnia: nella sua classe in quel trimestre ci furono 18 "cinque" in condotta. Così nelle altre sezioni. Il motivo? "Erano assenti arbitrariamente il giorno 21", scrivevano nei registri dell'altra classe. Per cosa non è chiaro, forse per una manifestazione studentesca. 

Quello fu un anno complicato. Sia per "il terribile inverno del 1946", con temperature di meno 11 gradi a Torino e i termosifoni del D'Azeglio mal funzionanti. Sia per le tante manifestazioni diffuse in tutta Italia. Quel "cinque", però, durò giusto il tempo di scriverlo sul registro, perché divenne un "otto" il trimestre successivo.

I rapporti con il liceo D'Azeglio, dunque, non furono dei migliori: "Del resto, oggi come allora, non sempre la scuola riesce a cogliere in pieno la bravura dei ragazzi", commenta l'attuale preside a Franco Francavilla. Nonostante tutto, Piero Angela mantenne un legame con il liceo D'Azeglio. Come ricorda Tiziana Cerrato, docente del liceo che cura l'archivio, nel 2012 fu invitato all'inaugurazione della nuova biblioteca ma non riuscì a presenziare, così telefonò il giorno dopo per farsi raccontare il com'era andata.

Negli archivi c'è poi un'altra curiosità: una richiesta, datata settembre 1955, dell'Ambasciata americana. Chiedevano "un vostro giudizio sul carattere della suddetta persona e sulla condotta degli studi". Pare sia rimasta senza risposta. Allora era corrispondente del telegiornale da Parigi per la Rai. Ci lavorava da tre anni. Era solo l'inizio di una lunga e sfolgorante carriera.

BIOGRAFIA DI PIERO ANGELA. Da cinquantamila.it – la storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• Torino 22 dicembre 1928. Giornalista televisivo, principe dei divulgatori scientifici, da trent’anni conduce Quark. «Bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra». 

• Vita Papà psichiatra e «una mamma che voleva a tutti i costi che studiassi musica». Entrato in Rai come cronista e collaboratore, dal 55 al 68 è stato corrispondente del telegiornale prima da Parigi e poi da Bruxelles. Con Andrea Barbato presentò la prima edizione del Tg delle 13.30. Nel 76 è stato il primo conduttore del Tg2. 

• Negli anni Settanta ha introdotto i documentari scientifici (Destinazione uomo e Indagine sulla parapsicologia), nell’81 ha inventato la formula Quark, al quale sono seguiti i suoi derivati (Quark economia, Mondo di Quark, Quark scienza). Negli anni Novanta, con il figlio Alberto, ha realizzato Il pianeta dei dinosauri, Ulisse e Superquark.

• «A fine anni Sessanta, dopo i progetti Apollo, quelli che portarono l’uomo sulla Luna, ero di casa nei laboratori della Nasa, i miei speciali sulle imprese spaziali erano piaciuti. Così lasciai il tg per fare i documentari. Dissero che ero pazzo a lasciare il tg. Ma io ho sempre fatto le cose che amavo fare. Mi è andata bene: passato alla rete per fare divulgazione ho sperimentato nuovi linguaggi. Allora la tv era paludata, ma la Rai ha capito che si poteva spettacolarizzare: abbiamo proposto sempre cose credibili, Viaggio nel cosmo non era Star Trek. La scienza virtuale è stata vista anche da 7 milioni di persone. Il viaggio nel corpo umano è stato il primo fatto con le nuove tecnologie. Lì abbiamo capito che dovevamo osare. La Rai spese qualche lira in più, ma il programma fu venduto in tutti i paesi. Ho le cassette in arabo e in cinese. Un successo anche economico. Negli anni Novanta io sono stato a costo zero: la Rai ha tutti i diritti, con le cassette e le vendite all’estero incassava più di quanto mi pagasse». 

• Memorabili le battaglie contro maghi, indovini, omeopati e eterodossi in genere, condotte soprattutto attraverso il Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale). Contro l’astrologia: «Dal punto di vista gravitazionale e della presenza della materia hanno più influenza un armadio di ferro o un ascensore che non questi corpi vaganti, lontanissimi da noi e la cui influenza diminuisce col quadrato della distanza». A proposito dei profili astrologici richiesti da alcune aziende prima delle assunzioni, Angela ha raccontato un piccolo esperimento: «Fingendoci personale di un’azienda, ci siamo rivolti a degli astrologi, chiedendo di farci il profilo di alcune persone, di cui fornivamo data di nascita e altre notizie. Ci risposero che si trattava di individui con spiccate capacità manageriali, oppure portati per le pubbliche relazioni. Chiedemmo: sono persone di cui ci possiamo fidare? Ci risposero che erano degne della massima fiducia. Invece erano tutte persone condannate per i reati più diversi: assegni a vuoto, furto con scasso, spaccio di droga». 

• «I venditori di quadri, materassi, pentole o quelli che leggono i tarocchi sono dei maestri di televisione. Osservarli è come andare alla scoperta di un pezzo di umanità». 

• Dichiarazione del 1994: «Bisogna smantellare il mito di Rol così come abbiamo fatto con quello di Babbo Natale». Rol, cioè Gustavo Rol (20 giugno 1903-22 settembre 1994), è stato il più grande cultore italiano del paranormale. La sua amica Giuditta Dambech rispose così a Piero Angela: «Se avesse voluto avrebbe potuto incenerirlo». Invece si limitò a lasciar scritto nel testamento di aspettarlo nell’aldilà «per intimargli col dito puntato: “Io ti accuso di non avermi creduto e di avermi trattato da illusionista da strapazzo”». Angela lo invitò a partecipare a una sua grande inchiesta tv sul paranormale, ma Rol si rifiutò. 

• Nelle sue trasmissioni ha fatto ricorso anche ai cartoni animati di Bruno Bozzetto e alle scenografie di Eugenio Guglielminetti (per La macchina meravigliosa). 

• Critica «Re dei divulgatori televisivi» (Leandro Palestini). 

• Piero Angela «è l’unico presentatore al mondo che si presenta davanti alle telecamere esibendo impunemente, e con orgoglio, i calzini bianchi» (Aldo Grasso). Il giornalista non si spiega «la vittoria scientifica del portatore sano di calzini immacolati», decretata dagli ascolti: «È probabile che Angela abbia inventato un nuovo genere: la divulgazione in calza bianca».

• In un sondaggio, i lettori dell’Espresso lo hanno proposto come ministro dell’Ambiente. 

• Vizi Grande appassionato di jazz. Non avesse fatto televisione avrebbe suonato il pianoforte: «Studiavo musica classica, frequentavo il Conservatorio e Torino era al centro di un fenomeno jazzistico all’avanguardia, merito di personaggi come Dick Mazzanti e Renato Germonio, veri pionieri del genere in Italia. I giovani erano Oscar Valdambrini, Franco Mondini, Cerri e Basso e insieme si andava a suonare in qualche cantina. Si  faceva musica per pochi, soprattutto per noi stessi, il genere non era di grande presa in considerazione del fatto che la diffusione era praticamente nulla, solo qualche locale faceva esibire i vari Nini Rosso, Sergio Farinelli». 

• Ha scritto trentacinque libri.

•  È goloso di gianduiotti e meringhe alla panna. 

• Vive appartato: «Non frequento salotti. Con mia moglie, anche lei piemontese, facciamo una vita molto ritirata. Mangiamo alle sette di sera e alle undici andiamo a dormire» (Antonio Gnoli) [la Repubblica 21/4/2013]. 

• Alla domanda del giornalista Gian Maria Aliberti Gerbotto sul posto più strano dove ha fatto l’amore «Piero Angela rimase esterrefatto da una simile domanda» (Monica Piccini) [Novella 2000 20/08/2009].

Frasi «Viaggiare è ancora la sola forma che abbiamo per realizzare la macchina del tempo. Vai in un posto e scopri di essere ancora in pieno medioevo, oppure finisci nella preistoria o magari in un luogo avveniristico. Ho spesso viaggiato da solo, a piedi, a dorso di un animale o con un fuoristrada. L’importante era farlo fuori dalle rotte usuali» (ad Antonio Gnoli) [la Repubblica 21/4/2013].

È morto Piero Angela, l'annuncio del figlio Alberto: "Buon viaggio papà". Il Tempo il 13 agosto 2022

"Buon viaggio papà". È morto Piero Angela e il figlio Alberto lo annuncia con un post sui social. Piero Angela, divulgatore scientifico, giornalista e conduttore televisivo aveva 93 anni.

Aveva iniziato la sua carriera giornalistica in Rai come cronista radiofonico, diventando poi inviato e infine conduttore del telegiornale ma la sua fama è legata però alla realizzazione di programmi televisivi di divulgazione scientifica che hanno fatto la storia nella televisione italiana: nel 1981 "Quark" e nel 1995 "Superquark".

"La scienza è stata un'avventura straordinaria" scriveva il conduttore in un messaggio sul sito internet di SuperQuark, nei giorni scorsi nell'ultimo messaggio di saluto ai telespettatori. “Cari amici, mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme" scriveva il decano dell'azienda Rai. "Ma anche la natura ha i suoi ritmi. Sono stati anni per me molto stimolanti che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana. Soprattutto ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha aiutato a realizzare quello che ogni uomo vorrebbe scoprire. Grazie alla scienza e a un metodo che permette di affrontare i problemi in modo razionale ma al tempo stesso umano.

Malgrado una lunga malattia sono riuscito a portare a termine tutte le mie trasmissioni e i miei progetti (persino una piccola soddisfazione: un disco di jazz al pianoforte…). Ma anche, sedici puntate dedicate alla scuola sui problemi dell’ambiente e dell’energia.

È stata un’avventura straordinaria, vissuta intensamente e resa possibile grazie alla collaborazione di un grande gruppo di autori, collaboratori, tecnici e scienziati. A mia volta, ho cercato di raccontare quello che ho imparato. Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese. Un grande abbraccio ". 

Il Personaggio. È morto Piero Angela, padre della divulgazione scientifica in Italia. Il Quotidiano del Sud il 13 agosto 2022.

È MORTO a 93 anni Piero Angela, il patriarca della divulgazione italiana. “Buon viaggio papà”, ha scritto Alberto Angela sui suoi profili social annunciando la scomparsa del padre.

Nato a Torino nel 1928, Piero Angela aveva iniziato la sua carriera giornalistica in Rai come cronista radiofonico, divenendo poi inviato e conduttore del tg. La sua grande popolarità è legata ai suoi programmi di divulgazione scientifica, da Quark a Superquark per citare i più importanti, con i quali ha fondato per la televisione italiana una solida tradizione documentaristica.

È morto Piero Angela, una vita per la scienza

Piero Angela ha scritto anche diversi libri, sempre di carattere divulgativo: Nel cosmo alla ricerca della vita (1980); La macchina per pensare (1983); Oceani (1991); La sfida del secolo (2006); Perché dobbiamo fare più figli (con L. Pinna, 2008); A cosa serve la politica? (2011); Dietro le quinte della Storia. La vita quotidiana attraverso il tempo (con A. Barbero, 2012); Viaggio dentro la mente: conoscere il cervello per tenerlo in forma (2014); Tredici miliardi di anni. Il romanzo dell’universo (2015); Gli occhi della Gioconda (2016). Nel 2017 ha pubblicato il libro autobiografico Il mio lungo viaggio.

Nel 2004 è stato insignito del titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e nel 2021 del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili.

Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

Contiamo su di voi per preservare questa voce libera che vuole essere la bandiera del Mezzogiorno. Che è la bandi

Addio a Piero Angela: il «papà» di Superquark muore a 93 anni. Era patriarca della divulgazione scientifica in Italia. A dare l'annuncio il figlio Alberto: «Buon viaggio papà». La Gazzetta del Mezzogiorno il 13 Agosto 2022

È morto Piero Angela. Ad annunciarlo su Facebook il figlio Alberto con poche, semplici parole: «Buon viaggio papà».

Nato a Torino nel 1928, Piero Angela aveva iniziato la sua carriera giornalistica in Rai come cronista radiofonico, divenendo poi inviato e conduttore del tg. La sua grande popolarità è legata ai suoi programmi di divulgazione scientifica, da Quark a Superquark per citare i più importanti, con i quali ha fondato per la televisione italiana una solida tradizione documentaristica.

Piero Angela ha scritto anche diversi libri, sempre di carattere divulgativo: Nel cosmo alla ricerca della vita (1980); La macchina per pensare (1983); Oceani (1991); La sfida del secolo (2006); Perché dobbiamo fare più figli (con L. Pinna, 2008); A cosa serve la politica? (2011); Dietro le quinte della Storia. La vita quotidiana attraverso il tempo (con A. Barbero, 2012); Viaggio dentro la mente: conoscere il cervello per tenerlo in forma (2014); Tredici miliardi di anni. Il romanzo dell’universo (2015); Gli occhi della Gioconda (2016). Nel 2017 ha pubblicato il libro autobiografico Il mio lungo viaggio.

Nel 2004 è stato insignito del titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e nel 2021 del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

“Un grande divulgatore, un uomo di scienza e di cultura che, sfruttando le possibilità del servizio pubblico televisivo, ha permesso a intere generazioni di italiani di avvicinarsi alla scienza e comprenderne i segreti. Un grande italiano, un uomo elegante e rigoroso capace di trasmettere il piacere della scoperta e della conoscenza. Mi stringo al dolore del figlio Alberto e di tutta la famiglia in questa triste giornata”. Così il ministro della Cultura, Dario Franceschini.

IL CORDOGLIO DI EMILIANO E DECARO 

«Ero un bambino quando lo ascoltavo al telegiornale e sapeva parlare anche a me che non sapevo nulla del mondo. Ho continuato ad ascoltarlo come fosse un maestro di scuola che mi rapiva con le sue storie vere, garbate, mai polemiche o di parte e sono arrivato sino ad oggi consapevole del dono che ho ricevuto, al pari di milioni e milioni di Italiani che lo hanno amato ed ascoltato». E’ il ricordo di Piero Angela del governatore della Puglia Michele Emiliano. "Chissà - conclude - quanti hanno capito bene il senso e il mistero della vita seguendo le sue divulgazioni scientifiche belle e poetiche come vera e propria letteratura».

«Nel 2018 l’Università di Bari conferiva a Piero Angela il sigillo d’oro. È stato un onore averlo tra i nostri studenti. Grazie a lui generazioni di italiani si sono appassionate alla scienza, alla cultura e alla storia. Grazie Piero Angela per averci accompagnato attraverso mondi a noi sconosciuti con le tue parole e la tua brillante intelligenza». E’ il ricordo del sindaco di Bari e presidente dell’Anci, Antonio Decaro.

E’ morto Piero Angela. A dare la notizia il figlio, Alberto Angela, con un post su Instagram: “Buon viaggio papà”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Agosto 2022.  

Insieme al giornalista Andrea Barbato presentò la prima edizione del TeleGiornale delle 13.30, nel 1976 è stato il primo conduttore del TG2. Nel 1981 ha dato vita alla rubrica scientifica «Quark», la prima trasmissione televisiva italiana di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generalista. Il programma ha un successo notevole ed è uno dei più longevi della tv italiana.

Piero Angela era nato a Torino nel 1928, dove aveva iniziato la sua carriera giornalistica in Rai come cronista radiofonico, divenendo poi inviato e conduttore del telegiornale. La sua grande popolarità è legata ai suoi programmi di divulgazione scientifica, da “Quark” a “Superquark” per citare i più importanti, con i quali ha fondato per la televisione italiana una solida tradizione documentaristica. Di recente, aveva ironizzato sulla sua lunga carriera nella tv pubblica in questi termini: “Se è vero che la regina Elisabetta ha festeggiato da poco il suo giubileo di 70 anni dall’incoronazione, dobbiamo dire che anche noi, molto più modestamente, festeggiamo 70 anni. Sono 70 anni che lavoro ininterrottamente per la Rai“.

Angela era sposato con Margherita Pastore, da cui ha avuto due figli: Christine e Alberto, archeologo, che ha seguito le sue orme in tv e che ha ideato e conduce programmi Rai di successo come «Ulisse- Il piacere della scoperta». Nel 2004 è stato insignito del titolo di Grande Ufficiale dell’Ordine al merito della Repubblica Italiana e nel 2021 del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana. 

Il giornalista ha dedicato la sua vita all’informazione. Dal 1955 al 1968 è stato corrispondente del Telegiornale, prima a Parigi e poi a Bruxelles. Insieme al giornalista Andrea Barbato presentò la prima edizione del TeleGiornale delle 13.30, nel 1976 è stato il primo conduttore del TG2. Alla fine del 1968 ha girato una serie di documentari, dal titolo «Il futuro nello spazio», dedicati al progetto «Apollo» che avrebbe portato i primi astronauti sulla Luna. Nel 1981 ha dato vita alla rubrica scientifica «Quark», la prima trasmissione televisiva italiana di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generalista. Il programma ha un successo notevole ed è uno dei più longevi della tv italiana. 

Piero Angela ha scritto anche diversi libri, tutti di carattere divulgativo: “Nel cosmo alla ricerca della vita” (1980); “La macchina per pensare” (1983); “Oceani” (1991); “La sfida del secolo” (2006); “Perché dobbiamo fare più figli” (con L. Pinna, 2008); “A cosa serve la politica?” (2011); “Dietro le quinte della Storia. La vita quotidiana attraverso il tempo” (con A. Barbero, 2012); “Viaggio dentro la mente: conoscere il cervello per tenerlo in forma” (2014); “Tredici miliardi di anni. Il romanzo dell’universo” (2015); “Gli occhi della Gioconda” (2016). Nel 2017 ha pubblicato il libro autobiografico “Il mio lungo viaggio”.

Estratto da lastampa.it il 13 agosto 2022.  

[...] 

L’addio al suo pubblico: “Ho fatto la mia parte, fate anche voi la vostra”

Nei giorni scorsi Piero Angela, giornalista divulgatore di alta qualità e decano della Rai, ha voluto lasciare al sito Internet del suo programma SuperQuark l'ultimo messaggio di saluto ai telespettatori. 

 "Cari amici - ha scritto - mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme. Ma anche la natura ha i suoi ritmi. Sono stati anni per me molto stimolanti che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana. Soprattutto ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha aiutato a realizzare quello che ogni uomo vorrebbe scoprire... Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese. Un grande abbraccio". 

Il cordoglio del mondo della tv e delle istituzioni

Innumerevoli i commenti, le reazioni e le dichiarazioni di cordoglio da parte del mondo della tv e delle istituzioni. «Provo grande dolore per la morte di Piero Angela, intellettuale raffinato, giornalista e scrittore che ha segnato in misura indimenticabile la storia della televisione in Italia, avvicinando fasce sempre più ampie di pubblico al mondo della cultura e della scienza, promuovendone la diffusione in modo autorevole e coinvolgente. Esprimo le mie condoglianze più sentite e la mia vicinanza alla sua famiglia, sottolineando che scompare un grande italiano cui la Repubblica è riconoscente». Lo dichiara il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

«L'Italia è profondamente grata a Piero Angela», ha aggiunto il premier Mario Draghi. «È stato maestro della divulgazione scientifica, capace di entrare nelle case di generazioni di italiani con intelligenza, garbo, simpatia. Le sue trasmissioni e i suoi saggi hanno reso la scienza e il metodo scientifico chiari e fruibili da tutti. Il suo impegno civile contro le pseudoscienze è stato un presidio fondamentale per il bene comune, ha reso l'Italia un Paese migliore. Piero Angela è stato un grande italiano, capace di unire il Paese come pochi. Ai suoi cari, le condoglianze del Governo e mie personali».  

Piero Angela, l’uomo che sognava la luna: “Nel ‘68 mi candidai alla Nasa per un volo spaziale”. Antonio Lo Campo per La Stampa il 13 agosto 2022. 

«Mi candidai ad un volo spaziale. Era il 1968. Ovviamente non come astronauta, ma come giornalista. Il sogno non si realizzò, ma è stato comunque emozionante anche solo inviare la candidatura». Assieme al razzo Saturno 5, che decollò lanciando l’Apollo 8 e i suoi tre astronauti verso la Luna, il 21 dicembre 1968, decollò anche la carriera di grande divulgatore scientifico per Piero Angela. In occasione di una pausa, durante le lunghe ed estenuanti riprese della trasmissione “Viaggio nel cosmo”, che magistralmente Piero, con il regista Gabriele Cipollitti realizzarono in 6 puntate con effetti speciali fino ad allora inediti per la TV, ebbi occasione di parlare di spazio, di astronautica e di astronomia con Piero. Che subito prima salutò, in cinese, due giovani studenti seduti dietro di noi, che risposero con sorriso e ringraziamento: «Piero ma quante lingue parli?”. Risposta: “Mah, direi una decina, ma mica tutte alla perfezione …». Lo spazio, dunque, fu l’inizio di tutto: «Ero inviato del telegiornale a Cape Kennedy e a Houston» – ci ricordò Piero Angela – «e oltre ai collegamenti, alle dirette dei lanci, degli attracchi in orbita e degli allunaggi, mi occupavo di approfondimenti sia per il Tg, sia per le trasmissioni di informazione più approfondita. E quindi ebbi occasione, oltre che di occuparmi delle tecnologie del programma che stava portando l’uomo sulla Luna, di entrare nei laboratori dove si svolgeva la ricerca scientifica vera e propria. Perché attorno a un programma spaziale ruotano tante discipline: astronomia, biomedicina, fisica, chimica … E soprattutto restai colpito dal centro Ames della Nasa dove si effettuavano studi di esobiologia, cioè la scoperta di forme di vita nell’universo, su altri corpi celesti. Lo scopo era di evitare che batteri e virus potessero essere portati sulla Terra dagli astronauti, e portare ad una pandemia. Infatti dopo le prime missioni, gli equipaggi venivano rinchiusi in quarantena. Ecco perché poi la mia prima trasmissione scientifica aveva il titolo “Nel cosmo alla ricerca della vita”». Una grande passione, al punto tale da candidarti per una missione: «Io seguii tutte le missioni negli Stati Uniti come inviato a partire dall’Apollo 7, la prima con astronauti attorno alla Terra, e fino all’Apollo 12, che portò a termine il secondo allunaggio, nel novembre del 1969. In quel periodo la Nasa aveva deciso di avviare il programma di un traghetto spaziale. Quello che poi sarà in seguito lo Space Shuttle. E pensò di poter inviare, un giorno anche dei civili in orbita o dei turisti spaziali. Pertanto aprì la possibilità anche alla categoria dei giornalisti. E io subito inviai la mia richiesta e il mio curriculum». La risposta?: «Non arrivò, perché passò troppo tempo e anche l’età di noi candidati era avanzata di 15 anni: la seconda possibilità arriverà solo nel 1984. E il primo Shuttle volò nel 1981, anziché nel 1976 come previsto a fine anni sessanta. Oltretutto il programma dei civili nello spazio venne bloccato sul nascere, perché la prima “maestra spaziale” morì nell’incidente del Challenger e così sullo Shuttle sono poi tornati a volare solo astronauti di professione». Chi erano gli astronauti e gli scienziati della Nasa? : «Mio figlio Alberto ha incontrato Gene Kranz, il direttore delle missioni, mitico personaggio Nasa, noto soprattutto per aver guidato da Terra il salvataggio dell’Apollo 13. Ha raccontato retroscena davvero inediti e uno mi ha colpito in modo particolare: gli astronauti americani erano persone semplici, e molti avevano famiglie contadine ed erano comunque persone abituate a lavorare duro, a fare sacrifici e attenti alla disciplina. Avevano e hanno ancora oggi la cultura della fatica». «Seguendo l’Apollo 12 come inviato, invece appresi con stupore che quasi la metà dei collaboratori della Nasa erano stati licenziati subito dopo il primo allunaggio, dell’Apollo 11. Avevano raggiunto l’obiettivo di arrivare sulla Luna prima dei sovietici, e molti di loro, i più fortunati, furono trasferiti in aziende che costruivano televisori, lavatrici o nuove automobili. I programmi spaziali sono molto importanti, anche perché producono componenti e prodotti di uso comune sulla Terra nella vita di tutti i giorni. Ne abbiamo tanti che usiamo ogni giorno e senza di questi, a cominciare dai servizi molteplici offerti dai satelliti, torneremmo indietro di molti decenni».

Michela Tamburrino per “la Stampa” il 17 agosto 2022.

Quarantun anni insieme, nella stessa redazione, idee scambiate, proposte accolte, bocciate. Piero Angela il maestro, Lorenzo Pinna prima giornalista con una predilezione già rodata per la scienza, poi regista, dunque autore. L'obiettivo privilegiato, Superquark ai suoi albori, un programma sperimentale che poteva dare i suoi frutti.

Pinna, che esperienza è stata quella con Piero Angela?

«Totalizzante. Non immaginavo che sarei diventato un veterano. Il programma, fu subito chiaro, era destinato a grandi successi. Angela voleva si affrontassero i grandi temi per filoni, la comunicazione tra animali, le guerre». 

Lei di cosa si occupava?

«All'inizio fungevo da jolly, ricordo un servizio che mi affidò e che credo rimase nella storia, si partiva dal Big Bang e si ricostruivano i primi tre minuti dell'universo. Dentro c'era tutto: il concetto d'infinito, la relatività, l'entropia». 

Angela era molto esigente?

«Per noi era un esempio. Un'educazione incredibile, un grande rigore e non alzava mai la voce, mai. Ricordo una volta che stavamo preparando la scenografia per una puntata. Entrò in studio e fu subito chiaro che non gli piaceva. Alzò un sopracciglio e con estrema freddezza si limitò a chiedere: "Dov' è il nostro studio?". Agghiacciammo. Lui era così, quel suo aplomb fatto di garbo e d'intelligenza gli faceva ottenere gli stessi risultati. Alla fine lo studio fu esattamente come lo voleva». 

Chi era per lei Piero Angela?

«Era, per tutti, un punto di riferimento in una Rai che sapeva pianificare. Era una figura nazionale come Mike Bongiorno. Era espressione di quella tv che sapeva unificare, fedele a una missione di educazione nell'intrattenimento. A tutti gli effetti una figura istituzionale». 

Aveva idee dalle quali non si poteva prescindere?

«La sua grande battaglia l'aveva combattuta per un'Italia che capisse l'importanza della scienza e della tecnologia. Soffriva a vederla fredda sulla scienza perché a creare ricchezza è la capacità d'innovazione. Un deficit cultural-scientifico che ci portiamo ancora dietro». 

Voleva preparare al futuro?

«Certo, e lo faceva anche intervenendo nelle scuole, diceva sempre che le due culture umanistiche non aiutano quanto quella scientifica. La sua missione era quella di preparare i giovani al futuro». 

Angela fu prima un giornalista Rai corrispondente da varie sedi internazionali. Quando avvenne il cambiamento?

«Vuol dire l'illuminazione della scienza? Era un grande corrispondente in un mondo ancora inaccessibile. Il clic per lui arrivò con lo sbarco sulla Luna, con il progetto Apollo. E da lì cominciò, con il Club di Roma, gli studi sull'ambiente, fu anche fondatore del Cicap con Massimo Polidoro, quando cercava di scardinare credenze e superstizioni di un Paese oscurantista come il nostro. Grandi sostenitori di Angela in questa guerra furono Rita Levi Montalcini, Renato Dulbecco, Silvio Garattini. Per lui solo la razionalità e il metodo scientifico avvicinavano alla verità».

Che le ha dato Piero Angela in 41 anni di lavoro insieme?

«La possibilità di incontrare premi Nobel, di girare il mondo, di crescere in un ambiente di grande levatura. Una meravigliosa avventura». 

Piero Angela è morto, aveva 93 anni: la camera ardente e funerale in Campidoglio il 16 agosto. Chiara Severgnini su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Addio al giornalista e conduttore, storico volto della Rai. L’annuncio del figlio Alberto: «Buon viaggio papà». Nel 2020 aveva dichiarato al Corriere: «La cosa che mi gratifica di più è avere inciso nella formazione dei ragazzi». Mattarella: «Scompare un grande italiano cui la Repubblica è riconoscente» 

Piero Angela, il più grande divulgatore scientifico della televisione italiana, si è spento all’età di 93 anni. A dare l’annuncio è stato il figlio Alberto, che ha scritto sui suoi account social:«Buon viaggio papà». Giornalista, ideatore di format tv di grande successo e divulgatore scientifico, Angela è stato tra i volti più amati e stimati della tv pubblica italiana. La camera ardente sarà allestita il 16 agosto, dalle 11.30, in Campidoglio. A seguire è previsto il funerale laico.

Nel 2017, intervistato da Elvira Serra per il Corriere della Sera, aveva parlato della morte in questi termini: «La considero una scocciatura». Nei giorni scorsi aveva scritto un messaggio di addio che è stato diffuso oggi dai canali social della sua trasmissione SuperQuark. «Cercate di fare anche voi la vostra parte per questo nostro difficile Paese», ha detto, in quello che si può considerare il suo ultimo saluto ai telespettatori. Nel messaggio, in riferimento all’ultimo periodo, ha anche ricordato che «malgrado una lunga malattia sono riuscito a portare a termine tutte le mie trasmissioni e i miei progetti (persino una piccola soddisfazione: un disco di jazz al pianoforte…)».

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha diffuso una nota di cordoglio in cui esprime «grande dolore» per la scomparsa di Angela. «Ha segnato in misura indimenticabile la storia della televisione in Italia», ha detto il Capo dello Stato, ricordando come il giornalista abbia «avvicinato fasce sempre più ampie di pubblico al mondo della cultura e della scienza». «Esprimo le mie condoglianze più sentite alla sua famiglia», aggiunge Mattarella, «scompare un grande italiano cui la Repubblica è riconoscente». Anche il presidente del Consiglio, Mario Draghi, ha voluto ricordare Angela con un messaggio: «È stato un grande italiano, capace di unire il Paese come pochi», ha detto, «ha reso l’Italia un Paese migliore».

La vita

Nato a Torino il 22 dicembre 1928, figlio di uno psichiatra antifascista (riconosciuto anche tra i «Giusti delle nazioni» per aver salvato alcuni ebrei dai nazifascisti), Angela ha iniziato a lavorare per la Rai nel 1952. Di recente, aveva ironizzato sulla sua lunga carriera nella tv pubblica in questi termini: «Se è vero che la regina Elisabetta ha festeggiato da poco il suo giubileo di 70 anni dall’incoronazione, dobbiamo dire che anche noi, molto più modestamente, festeggiamo 70 anni. Sono 70 anni che lavoro ininterrottamente per la Rai».

La carriera in tv

Angela ha dedicato la sua vita alla professione giornalistica e, in particolare, alla divulgazione scientifica. Dopo l’esordio nel Giornale Radio della Rai nel 1952, dal 1955 al 1968 è stato corrispondente del Telegiornale, prima a Parigi e poi a Bruxelles. Con Andrea Barbato ha presentato la prima edizione del TeleGiornale delle 13.30, poi nel 1976 è stato il primo conduttore del TG2. Alla fine del 1968 ha girato una serie di documentari, dal titolo «Il futuro nello spazio». Nel luglio del 1969, seguì il lancio dell’Apollo 11 da Cape Canaveral, negli Stati Uniti.

La divulgazione scientifica

Nel 1981 Angela ha dato vita alla rubrica scientifica «Quark», la prima trasmissione televisiva italiana di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generalista. «Con un po’ di scetticismo mi dissero di farlo: temevano che non avrebbe fatto grandi ascolti. Ma io, che da qualche anno facevo documentari, avevo voglia di misurarmi in un progetto di respiro più ampio», ha raccontato il giornalista nel 2021. Il programma — nelle sue varie reincarnazioni, da «Il mondo di Quark», a «Quark Economia», da «Quark Europa» a «SuperQuark» — ha avuto un successo straordinario, diventando uno dei più longevi della tv italiana. Il segreto del suo successo? Lo ha spiegato Angela stesso: «Il mio linguaggio sta dalla parte del pubblico, i contenuti dalla parte degli scienziati».

La divulgazione scientifica era la sua passione e, per certi versi, la sua missione. Nel 2020, intervenendo in forma di ologramma a un evento di CampBus organizzato dal Corriere per Il Tempo delle Donne, ha spiegato: «La cosa che mi gratifica di più è avere inciso nella formazione dei ragazzi. Quando ancora giravo per le scuole, in tantissimi mi dicevano: “Sono cresciuto a pane e Quark”, “Ho scelto la facoltà scientifica dopo aver letto un suo libro”, “Mi sono appassionato alla materia guardando il programma”. Con il pubblico si è creato un rapporto speciale».

La vita privata

Angela era sposato con Margherita Pastore, da cui ha avuto due figli: Christine, classe 1958, e Alberto, archeologo, nato nel 1962. Alberto ha seguito le orme del padre in tv: ha ideato e conduce programmi Rai di successo come «Ulisse- Il piacere della scoperta». Negli ultimi anni, Angela aveva parlato del suo matrimonio in diverse interviste: «Mia moglie», aveva detto, «è stata una santa, il nostro è stato un vero colpo di fulmine e io le devo tutto». Nel 2020, intervistato dal settimanale Oggi, aveva ammesso: «Lei è più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Mi ha seguito in tutte le mie peregrinazioni. Ha tirato su due figli magnifici. Ma non le ho mai detto “ti amo”». Il motivo? Le sue origini: «Sono piemontese, anche se levigato da anni all’estero e a Roma, e nel nostro dialetto non esiste il verbo “amare”: usiamo il più contegnoso vorej bin, voler bene. Se vale, se questo mi “salva”, le ho detto tante volte: T’veuj bin, ti voglio bene» 

Piero Angela, l’amico jazzista Gigi Marsico e l’ultima lettera: «Scriveva che aveva finalmente registrato il suo disco». Paolo Morelli su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

«Era uno dei più grandi pianisti jazz italiani. Dado Moroni mi raccontò che Ray Brown, ascoltando Piero che suonava Lover, lo scambiò per Art Tatum»

«Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese». Le parole di Piero Angela, pubblicate sulla pagina Facebook della sua creatura, SuperQuark, risuonano come un monito. Il giornalista e divulgatore ci ha lasciati oggi, sabato 13 agosto, a 93 anni, ma rimane una grande eredità: l’approccio razionale ai fatti che non dimentica i sentimenti. Come il suo amore per la musica jazz, incontrato quando iniziò a suonare il pianoforte e conobbe il chitarrista Gigi Marsico, torinese, oggi 95enne: «La nostra è stata una lunghissima amicizia nata proprio per la musica, quando eravamo entrambi all’università a Torino».

«I ricordi sono tanti e si affollano in maniera vorticosa», confida il musicista, che venerdì ha ricevuto l’ultima lettera di Piero Angela, nella quale gli annunciava di aver concluso il suo disco, incidendo tre brani, e di aver bisogno del «master» di Lover, pezzo che suonò nel 1953 per Trampolino, trasmissione radio condotta ai tempi da Marsico. «Era uno dei più grandi pianisti jazz italiani – afferma l’amico di una vita – e ricordo una lettera di Dado Moroni in cui mi raccontava che Ray Brown, ascoltando Piero che suonava Lover, lo scambiò per Art Tatum (fra i più grandi jazzisti della storia, ndr). Lascerà un ricordo lungo, ma forse il vero Piero l’hanno conosciuto solo gli amici».

Come Mario Pogliotti ed Enzo Tortora. Pogliotti che fu ricordato nel 2007 con un evento ad Aosta, al quale suonarono Marsico e Angela. «Mario – prosegue il musicista – era un autore di testi di cabaret e canzoni di grande intelligenza». Poi Tortora, che gli altri tre difesero quando fu ingiustamente coinvolto in una pesantissima vicenda giudiziaria. «Ci trovavamo a suonare in corso Palestro – ricorda Marsico –, erano gli anni Cinquanta. Io e Piero facemmo poi una trasmissione jazz che non andò mai in onda, Dalla bombetta al basco. Nella risposta che gli ho inviato stanotte gli ho detto di aver trovato il master di Lover, gliel’avrei portato a Roma per riabbracciarlo».

A Torino, Angela tornava con piacere. «Per questa città ebbe un grande amore deluso – rivela Piero Bianucci, giornalista scientifico per decenni al suo fianco –. Nel 2010 propose un progetto per il Museo Regionale di Scienze Naturali che, primo per qualità, non fu scelto: la logica era del massimo ribasso. Per lui fu una delusione grandissima». Un periodo in cui si fermava a casa di Fulvio Albano, anima del jazz torinese, dove incontrava musicisti come Dino Piana. L’idea di un museo, però, rimase. Qualche anno fa, con Bianucci e Pino Zappalà, segretario del comitato scientifico del Centro Scienza (realtà che Angela contribuì a fondare), furono contattate le Ogr ma non se ne fece nulla. «La sua vocazione – prosegue Bianucci – era pedagogica. Al Politecnico abbiamo realizzato Prepararsi al futuro, con 400 studenti fra i più brillanti di Torino, per sensibilizzarli al metodo scientifico». Idea che indusse Angela a fondare il Cicap nel 1989, organizzazione che esamina le affermazioni sui misteri per diffondere spirito critico.

«Era il tentativo di portare razionalità in un ambito dove è facile lasciarsi travolgere – afferma Massimo Polidoro, segretario nazionale Cicap –. Teneva molto ai giovani ed era preoccupato di come la discussione generale fosse focalizzata sulle polemiche, soprattutto in tv, anziché sui fatti. Diceva: a scuola si insegnano le materie scientifiche ma si dà poco spazio al metodo». «A Torino era riconoscente – ricorda Pino Zappalà – e le nostre collaborazioni risalgono agli anni Ottanta, con la manifestazione L’isola di Pasqua, poi è tornato per Experimenta, Giovedì Scienza e altro». Amava la farinata («ricordava quella che prendeva uscito da scuola, dal D’Azeglio», dice Bianucci) e i piccoli locali come la Baita dei Sette Nani in via Andrea Doria. «Questa – conclude Zappalà – è sempre stata una sua cifra, esageröma nen, gusti semplici ma legati alle tradizioni».

La semplicità anche nel racconto, nella capacità di ascoltare. «La sua torinesità – aggiunge Bianucci – sta anche, come avrebbe detto Primo Levi, nel “gusto del lavoro ben fatto”. Sto lavorando a un museo sugli strumenti scientifici dell’Ottocento, con l’Astut, si potrebbe intitolare a lui». Intanto c’è una serie di 16 puntate già registrata, pensata da Piero Angela per i giovani: dovrebbe andare in onda su Rai in autunno. La sua voce non si spegnerà.

Piero Angela, il divulgatore che rese la scienza e l’innovazione un patrimonio di tutti. Guido Tonelli per il “Corriere della Sera” il 13 agosto 2022.

Ha influenzato milioni di telespettatori e colpito l’immaginazione di migliaia di giovani che, proprio grazie a lui, hanno scelto la carriera scientifica. P ha segnato in profondità le coscienze di tutti. A lui va il merito di avere intuito per primo che la scienza tratta di questioni importanti per tutta la comunità e che occorreva trovare un modo nuovo per comunicarne i contenuti al più ampio spettro di pubblico. Porsi questo obiettivo nei primi anni ’70 poteva sembrare una follia, ma riuscire a realizzarlo già a partire dagli anni ’80, quando in tv predominava il disimpegno e l’intrattenimento più superficiale, rende conto della grandezza dell’uomo.

Piero Angela ha avuto successo perché il pubblico riconosceva l’onestà del suo approccio e si identificava nella sua passione. Ogni volta che esponeva un argomento complicato o intervistava un grande scienziato si capiva che l’animo del grande giornalista era mosso da una curiosità genuina. La scienza, il suo metodo paziente e rigoroso, quella disciplina così vicina alla musica (altra sua grande passione) che caratterizza le parti più oscure e difficili del lavoro scientifico, lo intrigavano personalmente. Quando ho avuto occasione di scambiare quattro chiacchiere con lui, ed era già molto avanti con gli anni, non smetteva mai di fare domande. 

Voleva conoscere tutti i dettagli più minuti e mentre si concentrava sulle mie risposte, piuttosto complesse, gli brillavano gli occhi quasi a voler raccogliere la sfida. Il grande merito di Piero Angela è di aver capito, decenni prima che diventasse di stretta attualità, il ruolo decisivo di scienza e innovazione nelle nostre società. Sappiamo che, con tutti i suoi limiti, che sono enormi, la scienza costituisce la visione del mondo più dettagliata e completa di cui disponiamo. Quando in campo scientifico avvengono grandi cambiamenti e nasce un nuovo modo di guardare alle cose, prima o poi cambia tutto, per tutti.

Abbiamo visto all’opera questo meccanismo più volte. L’esempio più eclatante si è avuto ai primi del Novecento, quando un gruppo di menti eccezionali ha prodotto, in pochi anni, rivoluzioni concettuali talmente profonde da modificare radicalmente il modo di pensare dell’umanità. Relatività e meccanica quantistica hanno fornito le basi per un modo nuovo di concepire la materia e l’Universo; un cambiamento di paradigma così radicale che ancora oggi, a distanza di un secolo, facciamo fatica a comprenderlo pienamente. Nel frattempo è cambiato tutto: la vita materiale delle persone, le relazioni sociali e quelle fra individui, la cultura in ogni suo aspetto, compresi coscienza di sé e percezione del mondo.

Addio a Piero Angela

Ed eccoci a Sigmund Freud e Paul Klee, Arnold Schoenberg e Luigi Pirandello e così via. Ma il meccanismo è tuttora in azione, perché la scienza progredisce a ritmo incalzante e questo nostro XXI secolo sarà ricordato come il secolo della conoscenza, quello che ridisegnerà le gerarchie mondiali fra Paesi o continenti sulla base del ruolo che essi sapranno conquistarsi nello sviluppo di nuovo sapere. Piero Angela ha costruito i suoi programmi di successo perché ha intuito prima di altri l’importanza di condividere con l’opinione pubblica più vasta contenuti e metodo del lavoro scientifico moderno. Una comunità che è consapevole delle sfide che si giocano in campo scientifico, che ha rispetto per scienziati e ricercatori, che apprezza e riconosce lo sforzo dell’avanzamento della conoscenza è una comunità meglio attrezzata per il futuro.

Piero Angela e Margherita Pastore, compagna di sempre: «È più di metà del mio successo». Redazione online su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Il divulgatore scientifico e il supporto della moglie alla quale non ha mai detto «ti amo». 

«Mia moglie mi ha aiutato molto. È più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Mi ha seguito in tutte le mie peregrinazioni. Ha tirato su due figli magnifici». Piero Angela, scomparso oggi all'età di 93 anni, parlava così di Margherita Pastore, sua moglie, raccontando al settimanale «Oggi», uno spaccato della sua vita privata e famigliare. Margherita, ha rinunciato per amore alla carriera di ballerina. Ha lasciato la danza per seguire il marito a Parigi, dove la famiglia si è trasferita quando lui ha iniziato a fare il giornalista. Ma proprio Piero Angela raccontava al settimanale di non averle mai detto «ti amo».

«Sono piemontese — aggiungeva — anche se levigato da anni all’estero e a Roma. Nel nostro dialetto non esiste il verbo “amare”: usiamo il più contegnoso vorej bin, voler bene. E non esiste neppure la parola bacio: diciamo basin, bacino. Se vale, se questo mi “salva”, le ho detto tante volte: T’veuj bin, ti voglio bene».  

Colpo di fulmine

Il primo incontro da giovanissimi, quando Piero Angela aveva 24 anni ed era un pianista jazz che sognava di incidere un disco, mentre lei, 18 anni, era una ballerina della Scala con un futuro da étoile della danza. È stato amore a prima vista. Un colpo di fulmine, come ha raccontato Angela in un'altra intervista al Tg1: «È stata la prima volta che ho avuto la scossa elettromagnetica». Si sono sposati nel 1955.

Il senso di colpa

Piero Angela non si perdonava però la scelta di Margherita. «Ho ancora un senso di colpa per avere interrotto la sua carriera, era una giovane promessa. Però lei mi ha sempre detto di essere stata felice». La coppia ha avuto due figli: Alberto (nato a Parigi nel 1962), che ha seguito le orme del padre, diventando giornalista scientifico, e Christine di quattro anni più grande di Alberto. 

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2022.

Alzi la mano chi pensa subito a Piero Angela quando sente l'Aria sulla quarta corda di Bach. Tutti. Perché è sull'arrangiamento jazz dei Swingle Singers che è entrato nelle nostre case: con la sigla di Quark , il successo esportato nel mondo grazie all'intuizione di registrare le puntate sia in inglese che in francese. 

Quarant' anni di scienza spiegata in soggiorno, il professore che sognavamo in classe.

Per questo ci sembra di averlo conosciuto così bene, anche se in realtà era riservatissimo. Caratteristica comune a tutti gli Angela. 

A partire da Carlo, il padre, «giusto tra le nazioni», medico antifascista che salvò decine di ebrei ricoverandoli nella clinica psichiatrica che dirigeva in Piemonte. Viaggiatore, visse in Francia e in Inghilterra e lavorò nelle foreste del Congo, prima di condurre un piccolo programma radiofonico di divulgazione scientifica.

Parte da lui il filo rosso che arriva ad Alberto, «ricercatore prestato alla televisione», quel figlio di cui Piero Angela aveva registrato l'audio della nascita (fece lo stesso anche per la primogenita Christine, nel 1958), lo stesso giorno in cui in Francia si votata il referendum per l'indipendenza dell'Algeria. 

«Quelli sono momenti magici, è un'emozione che rimane per tutta la vita», ci raccontò una volta, superando eccezionalmente la ritrosia nel privato. Perché dal figlio, sul lavoro, si faceva chiamare per nome, come si fa tra colleghi. Avevano cominciato a collaborare nel 1989 scrivendo insieme La straordinaria storia dell'uomo.

«Lui descriveva l'evoluzione con approccio giornalistico, io ci arrivavo più da ricercatore, avevo ancora addosso la polvere dello scavo», disse Alberto, che forse patì di non essere mai stato aiutato dal genitore a fare i compiti. «È vero: ognuno deve fare la sua parte. E poi io ero sempre fuori», spiegò il padre. 

Tra Margherita Pastore e Piero Angela fu colpo di fulmine. Lui chiosò di far parte di quel dieci per cento degli innamorati cui tocca in sorte questo stato di grazia. Fu lei a trascinare le valigie in più di una trasferta, visto che il consorte soffriva di ernia del disco da quando aveva 25 anni.

E nonostante lei lo abbia seguito da Torino a Roma, da Parigi a Bruxelles, durante tutte le peregrinazioni imposte dalla carriera in Rai, lui confessò di non averle mai detto ti amo, giustificandosi con il dialetto piemontese, che non prevede il verbo amare: in compenso l'aveva riempita di «ti voglio bene». 

Non avendo mai preso in considerazione l'idea della pensione, non fu un nonno convenzionale. Con Simone e Alessandro, i figli di Christine, e con Riccardo, Edoardo e Alessandro, quelli di Alberto, non fu troppo presente («Siamo molto legati, ma di solito i nonni hanno tempo a disposizione, sono pensionati. Io non svolgo quelle funzioni...»).

Per certo lo colpì, e non in positivo, l'improvvisa attenzione che catalizzò Edoardo (ora al terzo anno di Ingegneria dei materiali all'Imperial College di Londra) quando debuttò sui social, sommerso da commenti sul suo bell'aspetto: arrivò ad avere 40 profili fake! Durante il Covid, però, sentì molto la mancanza dei nipoti. «Ogni tanto facciamo una video chiamata - ammise - ma stare insieme è un'altra cosa». 

Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” il 14 agosto 2022.  

Contrariamente a ciò che si potrebbe essere indotti a credere a causa dei suoi modi compassati, Piero Angela, che Enzo Biagi assunse in Rai oltre sessant’anni orsono, è stato uomo anticonvenzionale, corretto però non incline al politicamente corretto, allergico alla serietà costruita, amante del contenuto più che della forma, come egli stesso dichiarava.

Era colto, saggio, preparato eppure mai ha assunto l'antipatico atteggiamento da primo della classe, che spesso caratterizza coloro che sanno poco o nulla ma che pure si reputano sapientoni. Era e sarà sempre il numero uno nel campo della divulgazione scientifica, tuttavia mai ha ostentato i suoi primati, successi, risultati, record, mentre qualcuno di quelli che hanno condotto programmi scientifici con ben più modesti indici di ascolto e apprezzamenti seguita a fare di questo un titolo di vanto che possa addirittura contribuire a riconoscergli una superiorità intellettuale e intellettiva, se non persino morale. Il che è ridicolo.

Ecco, proprio così: Piero, il quale era convinto che sia «difficile essere facili», era umile. Dote rara e preziosa nonché valore da riscoprire, l'umiltà è sintomo di vera grandezza. Chi è umile, chi si fa piccolo, è anche semplice e non per niente la semplicità è stato il tratto caratteristico di Angela sia nel lavoro che nel privato. 

Grazie ad essa egli si è fatto sempre comprendere ed amare dagli abitanti della penisola, intere generazioni a cui Piero ha spiegato con una chiarezza senza paragoni materie per loro natura complicate che abbracciano tutto lo scibile umano.

La nostra società tende ad essere di anno in anno sempre più diffidente, gli intellettuali oggi non rappresentano più un punto di riferimento, un faro, siamo sempre più orientati ad idolatrare personaggi senza peso e senza spessore, famosi per nulla, privi di un qualsiasi talento, ma Piero Angela, non soltanto per la sua esperienza, era reputato da chiunque una specie di Bibbia vivente, in carne ed ossa, le cui parole non possono essere messe in dubbio, avendo ricevuto una certificazione divina. 

Con la sua scomparsa muore un'epoca, sebbene il figlio Alberto sia degnissimo erede del padre. Prima di Angela la divulgazione scientifica era ambito riservato all'élite dei dotti, con Angela essa è divenuta popolare e democratica e questo ha contribuito a rendere milioni di italiani più istruiti, più curiosi, più attenti, più informati, pieni di desiderio di restare incatenati al piccolo schermo se a raccontare determinati fenomeni era il nostro Piero, il quale sembra che ti narrasse una favola mentre ti narrava la vita e il mondo nella loro cruda realtà. Ci mancherai, Piero. Buon viaggio.

«Il mio amico Piero Angela e quel suo ultimo libro scritto a mano con la biro». Alberto Luca Recchi su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

Il ricordo dell’amico e collaboratore Alberto Luca Recchi: «Sorrideva e razionalizzava sempre, per questo non è mai invecchiato. Era riservato, ma il suo rapporto con la moglie Margherita mi ha svelato la bellezza dell’amore». 

Alberto Luca Recchi, esploratore, fotografo e scrittore, ricorda l’amico Piero Angela con cui ha scritto 5 libri e realizzato la conferenza-spettacolo I Segreti del Mare.

Venezia 2019, Teatro la Fenice. Dopo due ore di spettacolo sul mare, entriamo in camerino stanchi e sudati, Piero mi poggia la mano sul braccio e mi dice: «Alberto, quanto pagherei per avere 80 anni!». D’Altronde aveva già 91 anni. Poi, quasi per tirarsi su, aggiunge: «Però devo godermela questa serata, perché nella mia vita non sarò mai più giovane come oggi». Piero era così: razionalizzava, riassumeva, sorrideva e poi razionalizzava di nuovo, sempre con leggerezza. Forse per questo non è mai invecchiato.

D’altronde, si invecchia non quando passano gli anni, ma quando si smette di ridere e di sognare. E lui non si è mai fermato e non ha mai smesso di fare entrambe le cose in un’attività intensa: trasmissioni televisive, lezioni per i giovani, conferenze, libri, teatro e perfino un disco jazz, registrato «ai tempi supplementari». Un ultimo libro su quello che ha imparato nella sua lunga vita è ancora sulla sua scrivania. Ovviamente, con i fogli scritti a mano con la biro, come sempre.

Metà della mia vita e un terzo della sua l’abbiamo trascorsa vivendo avventure insieme. Spesso lui da Roma e io per mare. Eravamo lontani, ma non eravamo distanti. Così era 25 anni fa quando cercavo lo squalo bianco nel Mediterraneo e non lo trovavo e lui in studio e ogni settimana mi chiedeva: «Lo hai trovato lo squalo bianco?» E io rispondevo: «Purtroppo no, Piero». Così è anche oggi, in cui ancora sono in mezzo al mare e stiamo facendo viaggi diversi. La voglia di esplorare ci univa e ci legava anche una robusta affinità umana. Ci siamo conosciuti più di 30 anni fa. Una mattina mi telefona un editor della Mondadori e mi dice: «C’è Piero Angela che vorrebbe fare un libro sul mare con lei». Io rispondo: «E come no? E magari anche Umberto Eco vorrebbe fare un romanzo con me, vero?». «Guardi che non è uno scherzo. Domani venga in via Sicilia e ne parliamo». Il giorno dopo vado, e c’erano Piero e Alberto che mi proposero di fare un libro fotografico sul Mediterraneo. Lo realizzammo e poi, dopo il primo, venne il secondo e poi altri. Così diventammo amici.

Ho appena letto un articolo su un quotidiano che lo racconta come una persona fredda, quasi gelida. Chi ha scritto quelle righe lo conosceva poco e solo da lontano, anche se in effetti, lui quasi si compiaceva nel raccontarsi più distaccato di come davvero era. Era riservato e poco propenso a esibire l’affetto del corpo o l’esagerazione delle parole, questo sì, ma il suo rapporto forte e lungo con la moglie Margherita mi ha fatto scoprire la bellezza senza età dell’amore tra un uomo e una donna. E poi affetto, amicizia e capacità di amare vanno al di là di forma e parole. Certo, era piemontese, ma slancio e battuta ironica non gli mancavano. E soprattutto aveva un grande rispetto per gli altri.

Una volta andammo a presentare un libro in una libreria di Roma. L’editore non aveva fatto promozione all’evento e in sala c’era solo una signora. Un solo spettatore per chi era abituato ad avere milioni di telespettatori. Con un certo imbarazzo, chiesi a Piero: «Che facciamo, ce ne andiamo?». Mi rispose: «Perché mai? Questa signora si è disturbata per venire, quindi facciamo la nostra presentazione. Glielo dobbiamo». Dopo un po’ si sparse nel quartiere la notizia che c’era Piero Angela e la sala si riempì oltre misura. Una lezione di vita e di umiltà che non dimenticherò.

Scrivendo queste righe mi sono accorto che ho usato il passato. Piero era... Piero rispose… Ho sbagliato. Piero non «era», Piero «è». E «sarà». Perché continua a vivere in ognuno di noi.

La lunga carriera di Piero Angela in tv: un illuminista che odiava la pseudoscienza e rendeva facili concetti difficili. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

La grandezza del divulgatore scomparso risiedeva nel suo non essere un accademico. 

Una volta, durante un convegno, un relatore chiese a Piero Angela perché nei suoi programmi di divulgazione non avesse mai nominato Dio. Domanda ingenua e il primo a stupirsene fu Angela stesso. Il grande giornalista, scomparso a 93 anni, è sempre stato persuaso che la cultura scientifica, quella che discende dagli illuministi, fosse implicitamente superiore a ogni altro tipo di conoscenza, perché più «saggia» (la scienza vive sul suo incessante processo di verifica collettiva che le permette col tempo di individuare ed emendare eventuali errori) e non condizionata dalle ideologie e dalle credulità. Per questo aveva fondato il CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze, un’associazione di promozione sociale, scientifica ed educativa, che promuove un’indagine scientifica e critica nei confronti delle pseudoscienze, del paranormale, dei misteri e dell’insolito con l’obiettivo di diffondere la mentalità scientifica e lo spirito critico.

Tutto, infatti, ebbe inizio con «Indagine sulla parapsicologia», un’inchiesta televisiva in cinque puntate, ideata, realizzata e condotta da Piero Angela, andata in onda nel mese di aprile del 1978 sulla Rete Uno della Rai: il minuzioso lavoro di verifica e indagine condotto da Angela rompeva il giocattolo e dimostrava che le cose stavano in maniera radicalmente opposta. La divulgazione scientifica moderna e rigorosa, nella storia della tv italiana, nasce nel 1981 con Piero Angela e con Quark, la sua rubrica di “viaggi nella scienza” che abbandona definitivamente l’afflato umanistico delle trasmissioni precedenti per conservarne intatto l’intento pedagogico e didascalico. Buona parte della trasmissione era costituita da f ilmati e documentari, prodotti all’estero soprattutto dalla BBC, e introdotti in studio dal linguaggio semplice e chiaro di Angela. Lo scopo del conduttore, perfettamente raggiunto nel corso degli anni, era quello di rendere accessibile allo spettatore televisivo argomenti scientifici e tecnologici apparentemente ostici e difficili.

La grande abilità comunicativa di Angela nell’esporre anche argomenti complessi derivava proprio dal suo essere non un uomo di scienza, ma in primo luogo un giornalista che avvicinava il problema scientifico gradualmente, con la curiosità e i dubbi dell’uomo comune. Così Angela, cui nel tempo si è affiancato il figlio Alberto, è riuscito con le sue trasmissioni a rendere accessibile l’informazione scientifica e tecnologica a un pubblico di milioni di telespettatori. Ha persino teorizzato la sua formula espositiva: «Il mio linguaggio sta dalla parte del pubblico, i contenuti dalla parte degli scienziati». Angela (Torino 1928) era entrato in Rai come cronista e collaboratore del Giornale Radio. Dal 1955 al 1968 è stato corrispondente del Tg, prima da Parigi poi da Bruxelles; successivamente ha presentato con Andrea Barbato la prima edizione del Tg delle 13.30 e nel 1976 è stato il primo conduttore del Tg2. Dal 1971 ha cominciato a sperimentare con grande successo la strada del documentario scientifico con il programma Destinazione uomo. Nel 1978 ha condotto Indagine sulla parapsicologia e nel 1980. Dal 1981 ha monopolizzato il campo della divulgazione scientifica con Quark e i successivi programmi «satelliti» (Quark economia, Il mondo di Quark, Quark in pillole, Quark speciale, Quark scienza) utilizzando tutte le risorse della comunicazione audiovisiva: dai documentari prodotti dalla BBC e da Richard Attenborough ai cartoni animati di Bruno Bozzetto, dalle interviste con gli esperti alle spiegazioni in studio.

Nel 1990 è stato protagonista di un affascinante viaggio nel corpo umano con La macchina meravigliosa e nel 1993 ha esplorato, con il figlio Alberto, il mondo preistorico nel programma Il pianeta dei dinosauri. Nella stagione 1995-96 Raiuno ha iniziato la fortunata serie di Superquark ancora in onda in questi giorni. Nel 2017 il “Foglio” aveva lanciato un appello perché Angela venisse nominato senatore a vita per salvaguardare la cultura scientifica messa in crisi «da un banda di politici rozzi e incompetenti». Esemplare la sua risposta: «Naturalmente sarebbe un onore, oltre che una grande gratificazione personale. La ringrazio quindi per aver lanciato questa idea… Io, però, faccio un altro mestiere. È un mestiere che amo, e che spero di poter continuare a fare ancora per qualche tempo. È anche questo un modo per servire il mio Paese, cercando, per quanto possibile, di diffondere quella cultura moderna così necessaria in un mondo che cambia rapidamente. Grazie quindi per aver pensato a me, ma ritengo sia meglio che qualcun altro ottenga questa nomina così prestigiosa». È stato un affabulatore elegante, preparato, coscienzioso. Una grande perdita per tutti.

Gli esordi di Piero Angela: il jazz, la cronaca nera, gli anni a Parigi. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Il divulgatore Piero Angelo scomparso sabato suonava nei club e iniziò come corrispondente a Parigi. 

Ci fu un tempo in cui Piero si chiamava Peter: Peter Angela. E non raccontava storie in tv; suonava il jazz. Erano i primi anni 50, e lui ne aveva poco più di venti. Si esibiva nella sua città, Torino, all’Hot Club, dove andavano a sentirlo altri giovani come Enzo Jannacci e Felice Andreasi, e un suo caro amico che studiava filosofia: Gianni Vattimo. Peter Angela aveva uno stratagemma per conoscere i grandi musicisti che tenevano concerti a Torino. Si informava sull’orario d’arrivo, andava a prenderli in stazione, li portava in giro per la città che come non tutti sanno è bellissima, e quando se ne guadagnava la confidenza chiedeva di poter suonare con loro: salì così sul palco con Rex Stewart e Dizzy Gillespie, il suo mito.

Piero aveva fatto il D’Azeglio, il liceo dove la generazione precedente era stata a scuola di antifascismo dal professor Augusto Monti, per poi finire nelle carceri di Mussolini o al confino. Lui aveva studiato con Pietro Citati, Edoardo Sanguineti, Furio Colombo. Si era iscritto a ingegneria, però aveva smesso dopo due anni. Allora non gli interessava la scienza, ma il giornalismo, in particolare la cronaca nera. Collaborava alla radio, scriveva musiche per i documentari, e divenne amico di un funzionario dell’ufficio amministrativo che si chiamava Enzo Tortora. «Lo ammiravo moltissimo – amava raccontare Angela -. Enzo era molto colto e intelligente, nelle ore libere scriveva i testi di un programma per nuovi talenti, “Fuori l’autore”, aveva anche inventato una trasmissione di cinema, “Carrellate su Hollywood”. Aveva bei modi e una bella voce, così a volte gli chiedevano di presentare qualche serata; ma lui rifiutava. Una volta però glielo chiese un dirigente, e non poté dire di no. Solo che Enzo non possedeva uno smoking, se lo fece prestare da un nostro collega della radio, Gigi Marsico».

A Torino, Piero Angela ed Enzo Tortora frequentavano gli atelier dei pittori, cenavano in trattoria, andavano al teatro Alfieri. E componevano canzoni. Nell’ottobre 1955, dopo aver scritto “Barba, capelli e baffi”, un motivo che risuonerà per molti anni nei locali, P iero ottenne di andare a Parigi, ad affiancare il corrispondente della radio per qualche mese. Divenne invece corrispondente del telegiornale appena fondato, e vi restò un decennio: il figlio Alberto, il suo erede che ne ha annunciato la scomparsa, è nato là. A Parigi, Piero Angela intervistò il presidente del consiglio, Pierre Mendès-France, e un giovane emergente, passato dall’estrema destra al socialismo: François Mitterrand. «Però mi emozionò di più incontrare Yves Montand, una sera, a casa sua, all’Ile Saint-Louis. Nel soggiorno aveva un teatrino di marionette; al centro, dietro il sipario, il televisore. Parlava un buon italiano, con un accento toscano che tradiva le sue origini». Per dire cos’era all’epoca la Rai, un’altra volta Angela andò a intervistare Jean Cocteau, il poeta: «Abitava da solo con la domestica in un piccolo appartamento vicino al Palais Royal, alla parete teneva una sua foto vestito da Papa».

Piero era insomma un artista . Un uomo di grande cultura, ma tanto intelligente da non darlo a vedere. Ha inventato un genere: la divulgazione che non concede nulla alla volgarità, che non dice quello che le persone vorrebbero sentirsi dire; che è il modo migliore di rispettarle e di voler loro bene. Per questo gli italiani lo contraccambiavano, e volevano bene a lui. (Piccola annotazione personale: queste cose che avete letto Piero Angela me le raccontò in un’intervista del 1996. Mi pareva di conoscerlo da sempre, fin da quando, bambino, guardavo in tv l’inchiesta in cui smascherò i santoni del paranormale. Ogni anno lo vedevamo al festival della Comunicazione di Camogli, dov’è tradizione che gli ospiti suonino e cantino al pianoforte dell’albergo. Ogni volta, conoscendo il suo passato da jazzista, gli chiedevamo di suonare. Lui era sempre gentilissimo, sorridente: un signore, un maestro. Ma non ha mai voluto).

Morte di Piero Angela, il cordoglio di Roma. Zingaretti: «Se n’è andato un gigante». Maria Rosa Pavia su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Si moltiplicano gli attestati di stima e i messaggi d’affetto rivolti al giornalista che è venuto a mancare. Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri lo ha definito «un fuoriclasse della divulgazione scientifica»

Dopo la notizia della morte, a 93 anni, del giornalista e divulgatore scientifico Piero Angela , si moltiplicano gli attestati di stima e i messaggi d’affetto. Molte personalità del mondo politico e culturale del Lazio hanno dichiarato la propria vicinanza alla famiglia di Angela ricordandone la statura intellettuale e la capacità di veicolare in modo comprensibile concetti complessi.

Il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti ha ricordato su Instagram anche le collaborazioni al mondo della cultura della Capitale: «Se ne è andato un gigante: Piero Angela. Per decenni è entrato nelle nostre case, aiutandoci a conoscere e capire. Uno stile inconfondibile, che rendeva semplice e affascinante la storia, così come la scienza e la conoscenza del mondo. Con lui avevamo collaborato nel bellissimo e geniale progetto delle Domus Romane di Palazzo Valentini, sede della Provincia di Roma, e, anche nella vita, colpiva sempre per il suo incredibile mix di cultura e semplicità».

Il sindaco di Roma Roberto Gualtieri su Twitter lo ha definito «un vero fuoriclasse della divulgazione scientifica». Il primo cittadino della Capitale ha concluso il suo cinguettio così: «Ci mancheranno tantissimo la sua intelligenza, la sua cultura, la sua gentilezza».

Lo considerava «immortale» l’amico Maurizio Costanzo che dice: «Raramente ho ricevuto una notizia così brutta: per me Piero Angela era un amico ed era una di quelle persone che si tende a considerare immortali». Poi ha elencato qualche ricordo: «Ci conoscevamo fin dagli inizi, da quando facevamo radio nella sede Rai di via del Babuino, nel palazzo che ora è l’Hotel De Russie. Ci vedevamo in quello che allora si chiamava il Bar Menghi, dietro piazza del Popolo, con noi c’era spesso anche con Enzo Tortora. Poi, più avanti, ci siamo sempre sentiti e ci dicevamo che l’importante per non morire è avere sempre nuovi progetti. Per me è davvero un giorno triste».

È intervenuto per onorare la memoria di Piero Angela anche il sindaco di Nemi Alberto Bertucci che, a maggio, gli aveva conferito la cittadinanza onoraria: «Lo ringrazio per la collaborazione che era iniziata per promuovere Nemi e le sue ricchezze storiche e archeologiche a iniziare dalla ricostruzione di una delle due navi romane dell’imperatore Caligola». 

Il divulgatore scientifico con il sindaco Alberto Bertucci subito dopo aver ricevuto l’onorificenza. CorriereTv su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

È morto il grande divulgatore scientifico Piero Angela, aveva 93 anni. A maggio scorso Piero Angela ha ricevuto a Nemi la cittadinanza onoraria. Angela era un grande estimatore delle «Navi di Caligola» e si era appassionato al progetto della ricostruzione degli scafi dell’antica Roma. Parlando con il sindaco Alberto Bertucci ha proposto: «Ci vorrebbe l’aiuto di Elon Musk, lui è un creativo».

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 14 agosto 2022.

«Oggi mi sono sentito veramente solo, per me lui era immortale». Maurizio Costanzo accoglie con questo spirito la notizia della scomparsa di Piero Angela. «Stanno scomparendo tante persone con cui ho condiviso buona parte della mia vita non solo professionale e Piero era tra queste». 

Come vi siete conosciuti?

«Io ero un ragazzo, avrò avuto 18-20 anni. Ero agli esordi della mia carriera giornalistica e lavoravamo entrambi alla radio, nell'antica, mitica sede della Rai di via del Babuino, che adesso non esiste più. Eravamo un gruppo affiatato, c'era anche Enzo Tortora tra noi, e ci incontravamo in un locale dietro piazza del Popolo, il Bar Menghi. Quel gruppo si è molto assottigliato e forse non esiste più nemmeno quel locale».

Essendo più grande di lei, le dava consigli?

«Piero era un uomo molto discreto, non si atteggiava mai a primo della classe, quando gli facevo complimenti per i suoi programmi, mi guardava come fossi un folle. La cosa curiosa, poi, è che un po' di tempo fa affermò in un'intervista che io gli avevo consigliato di dedicarsi sempre a nuovi progetti, per mantenersi giovani e non invecchiare. Invece era stato proprio lui che, precedentemente, lo aveva consigliato a me... e infatti era quello che lui attuava quotidianamente». 

Ovviamente sarà stato spesso ospite dei suoi programmi televisivi...

«Certo! Venne spesso al Costanzo Show , ma l'ultima volta, un annetto fa, lo avevo invitato; però dovevamo effettuare un collegamento telefonico e mi disse che aveva un problema all'udito, quindi declinò l'invito. 

Comunque nel 2018 era stato ospite del mio programma su Rai 1 S' è fatta notte , e come al solito fu un piacere chiacchierare con lui». 

Qual era, secondo lei, la caratteristica fondamentale di Piero Angela?

«Quella di essere capace di farsi capire, anche su argomenti tutt' altro che semplici, non dicendo mai una banalità, non semplificando mai in maniera mediocre. Inoltre, era capace di raccontarti dei fatti, oppure delle scoperte, degli aspetti singolari del mondo che ci circonda, in modo tale da lasciarti per intero il piacere di stupirti. 

In altri termini, non solo era il principe dei divulgatori, ma soprattutto dei narratori. Resterà la sua lezione di vita e di una professione svolta sempre in maniera rigorosa, scrupolosa, eccezionale». 

E se pensa a lui in questo momento, cosa le viene in mente?

«Mi ha commosso il messaggio del figlio Alberto sui social: "Buon viaggio papà". Ecco, pensando ai i suoi collegamenti con le missioni spaziali, mi piace immaginarlo in viaggio per raggiungere finalmente la Luna». 

Quark e l’intervista a Piero Angela per i 40 anni della trasmissione: «La Rai temeva che sarebbe stato un flop. Ora una nuova serie, sull’amore». Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Il divulgatore: «Proposi io il programma. Con un po’ di scetticismo accettarono: temevano che non avrebbe fatto grandi ascolti». I retroscena: «Molte difficoltà tecniche, risolte con una serie di trucchi». Il futuro: «Ci salveranno l’amore e la scienza» 

Piero Angela si è spento all’età di 93 anni. A dare l’annuncio è stato il figlio Alberto, sui suoi profili social. Giornalista, ideatore di format tv di grande successo e il più grande divulgatore scientifico della tv italiana, Angela è stato tra i volti più amati e stimati della tv pubblica italiana. Nel 2017, intervistato da Elvira Serra per il Corriere della Sera, aveva parlato della morte in questi termini: «La considero una scocciatura». Riproponiamo qui l’intervista integrale.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” – articolo del 25 giugno 2017 

Dov’era la sera del 18 marzo di quarant’anni fa?

«Eh, be’, lo ricordo molto bene... Eravamo andati tutti insieme a vedere il programma a casa di uno degli autori, intrecciando le dita perché era una novità per l’epoca. Però andò molto bene: avevamo fatto 9 milioni di spettatori».

Ed era una seconda serata!

«Sì, prima di noi c’era Dallas. La televisione allora era molto diversa, anche le prime serate con i grandi spettacoli di varietà duravano un’ora. La terza serata cominciava alle 22.30».

Piero Angela, 92 anni, «nonno», ormai, della divulgazione scientifica in Italia, risponde al telefono con la stessa generosità e gentilezza con cui frequenta le nostre case da quasi 70 anni, prima con il Giornale Radio, poi le corrispondenze da Parigi e Bruxelles, il Tg delle 13.30, i documentari e, nel 1981, la rivoluzione copernicana: 55 minuti di approfondimento scientifico introdotti dall’Aria sulla quarta corda di Bach e un nome che era già una dichiarazione di intento. Quark: la minuscola particella che si trova nel nucleo degli atomi. Con Lorenzo Pinna, Giangi Poli e Marco Visalberghi avrebbe cambiato la tv per sempre.

Di cosa è più orgoglioso?

«La cosa che mi gratifica di più è avere inciso nella formazione dei ragazzi. Quando ancora giravo per le scuole, in tantissimi mi dicevano: “Sono cresciuto a pane e Quark”, “Ho scelto la facoltà scientifica dopo aver letto un suo libro”, “Mi sono appassionato alla materia guardando il programma”. Con il pubblico si è creato un rapporto speciale».

Seguaci illustri?

«Una volta mi scrisse due righe affettuose un italiano che era a capo di un gruppo di ricerca all’Università di Harvard. “Devo a lei se sono qui”».

Le avevano chiesto di creare il programma o fu una sua idea?

«Lo proposi io e con un po’ di scetticismo mi dissero di farlo: temevano che non avrebbe fatto grandi ascolti. Ma io, che da qualche anno facevo documentari, avevo voglia di misurarmi in un progetto di respiro più ampio».

Scenografia essenziale, nessun fronzolo, eppure Quark e i suoi «figli» furono venduti in 40 Paesi.

«Sì, ho ricevuto diverse cassette in cui parlo perfettamente giapponese o arabo! Lì mi aiutò il fatto che avevo registrato le puntate sia in francese che in inglese: alla fine di ogni seguenza, la rifacevo in entrambe le lingue, altrimenti nessuno le avrebbe guardate all’estero».

Imprevisti memorabili?

«Più che imprevisti, difficoltà tecniche: tante. Perché erano cose nuove che ci inventavamo ogni volta».

Mi faccia un esempio.

«Abbiamo fatto sette puntate del Viaggio nel cosmo, dove la scenografia era doppia perché io mi sdoppiavo sempre: da una parte ero in studio e dall’altra ero a bordo di un’astronave immaginaria che si muoveva alla velocità del pensiero e per questo si chiamava Noos, in greco pensiero. Lì il problema era simulare l’assenza di gravità come nelle stazioni spaziali».

E come risolveste?

«Con una serie di trucchi, venuti benissimo! Il segreto era il chroma key, la chiave di colore, grazie a una serie di soprapposizioni. Un altro trucco bellissimo era quando scrivevo con la penna, poi la lasciavo per un attimo, si alzava in aria e la riacchiappavo».

Festeggerà Quark, oggi?

«No, però stiamo già pensando a una nuova serie di Superquark+, che è ancora tutta da registrare: dieci puntate sull’amore, dall’innamoramento alla gelosia al tradimento alla sessualità».

L’amore, visti i tempi che stiamo vivendo, ci salverà? O ci salverà la scienza?

«Diciamo tutte e due. Il nostro problema attuale è quello dell’energia, che fa girare tutto quello che vediamo, ma al tempo stesso avvelena l’atmosfera. L’amore, invece, scende dall’atmosfera e tiene in vita le persone. Mica solo l’innamoramento, anche la solidità dei rapporti».

Piero Angela, l’intervista: «Registrai l’audio della nascita dei miei due figli. Morire? È una scocciatura». di Elvira Serra su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.

Il divulgatore: non posso fare il nonno, devo lavorare. «Se potessi rivedere mio padre gli chiederei se gli piacciono i miei programmi». 

Piero Angela si è spento all’età di 93 anni. A dare l’annuncio è stato il figlio Alberto, sui suoi profili social. Giornalista, ideatore di format tv di grande successo e il più grande divulgatore scientifico della tv italiana, Angela è stato tra i volti più amati e stimati della tv pubblica italiana. Nel 2017, intervistato da Elvira Serra per il Corriere della Sera, aveva parlato della morte in questi termini: «La considero una scocciatura». Riproponiamo qui l’intervista integrale.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” – articolo del 25 giugno 2017 

Testiamo la sua memoria. Dov’era il 10 giugno 1940?

«Ero seduto sul sofà, a casa a Torino: ascoltavo alla radio il discorso del Duce con la dichiarazione di guerra a Inghilterra e Francia».

Aveva paura?

«A quell’età non ti rendi bene conto di cosa significa. Mia madre era molto agitata. Mio padre aveva già fatto la Prima guerra mondiale sul Grappa, come medico di una unità speciale in prima linea: ai tempi i soccorsi erano nelle retrovie, molti soldati morivano di emorragia perché non si faceva in tempo a salvarli».

L’8 aprile 1962?

«Vediamo... Ero a Parigi... È nato mio figlio! C’era un referendum per l’indipendenza dell’Algeria: feci il collegamento Rai di sera».

Non è stato con sua moglie Margherita?

«Sì, ma al mattino, al momento del parto. Abbiamo registrato la nascita di Alberto, l’avevamo fatto anche per Christine, nel ’58».

Esiste ancora la registrazione audio?

«Sì, certo. Quelli sono momenti magici, è un’emozione che rimane per tutta la vita. L’ostetrico era vietnamita, si chiamava Levankin, praticava il parto indolore: una tecnica psicologica basata sulla respirazione e sulla collaborazione della paziente».

Cambiamo data: 20 luglio 1969.

«Ero a Capo Kennedy per il lancio dell’Apollo 11. Come tutti i lanci era un momento molto rischioso, le mogli e i figli degli astronauti si tenevano per mano guardando questa candela che si alzava lentamente...».

18 marzo 1981.

«Quark! In via Teulada: una tenda, pochi oggetti e un po’ di luci».

Il suo «Quark» si è riprodotto in numerosi cloni. A quale è più affezionato?

«A La macchina meravigliosa, un viaggio nel corpo umano: avevamo costruito la scenografia con foto originali fatte con il microscopio elettronico. Fu venduto in tutto il mondo».

Studio 18 di Cinecittà. Un’assistente porta il pranzo a Piero Angela, in pausa dalla registrazione di Superquark. Lui apre il sacchetto e lo guarda contrariato: aveva chiesto per due. Smezza la focaccia con prosciutto e formaggio, farà lo stesso con la banana. Tiene per sé la Coca Cola e cede alla cronista la bottiglietta d’acqua. Riceve una telefonata, è per la sua autobiografia: Il mio lungo viaggio. Apre un quadernetto rosso e detta il numero dell’ufficio stampa Mondadori. Riprendiamo.

Ci racconti una sua giornata tipo.

«Colazione alle 8: caffelatte e biscotti, uno yogurt. Poi doccia. Quindi mi siedo alla scrivania per leggere. Il mio lavoro è discontinuo. Ci sono periodi come questo in cui dedico la giornata alla produzione di un programma, altri in cui sto in redazione, altri in cui scrivo libri. Quando voglio rilassarmi, suono il piano».

Il suo mestiere mancato. Quando si decide a incidere un disco?

«Non riesco mai a trovare il tempo! Tra poco andremo al mare, ma lì non posso portare il pianoforte perché si rovina. Però ho amici vecchietti con i quali abbiamo pensato di inciderlo per davvero, un disco».

È vero che ha suonato alla Capannina?

«Sì, ma di Viareggio, non di Forte dei Marmi. Ci pagavamo le vacanze: nel contratto avevamo preteso che a turno potessimo ballare».

Come mai scelse proprio l’«Aria sulla quarta corda» di Bach come sigla di «Quark»?

«Vivevo ancora a Bruxelles per la Rai quando andai a sentire i Swingle Singers. Mi piacquero, comprai un disco e trovai l’Aria. Era perfetta: Bach è il mio musicista preferito, l’intreccio delle note è straordinario. Poi i Swingle Singers seppero dargli un ritmo jazz senza toccare una nota, e questo prova che Bach era un jazzista. Infine, le sigle allora erano tutte trionfanti mentre io volevo dire: “Calma, distendetevi”».

«Topolino» le ha dedicato il personaggio di Piero Papera. Un asteroide e un mollusco hanno il suo nome. Di cosa va più fiero?

«Ma va ancora avanti questa cosa di Topolino?» (non pare troppo felice). «Qualcuno diceva che il segno della popolarità è quando compari sulle parole crociate…».

E delle 8 lauree honoris causa è orgoglioso?

«Otto? Sono dieci. Sì, sono un riconoscimento al mio tentativo di diffondere la cultura scientifica in un Paese che fa poco».

Tra queste lauree c’è anche quella in Ingegneria che non prese mai?

«No, mi hanno dato quella in Fisica…».

Ma allora bisogna rimediare!

(Ride).

Suo figlio Alberto disse che lei non l’ha mai aiutato a fare i compiti.

«Ha ragione, è vero: ognuno deve fare la sua parte. E poi io ero sempre fuori».

È stato fortunato a trovare una moglie come Margherita.

«Lei si è occupata di tutto, io non ho fatto niente».

Ha recuperato almeno con i suoi nipoti Riccardo, Edoardo, Simone e i due Alessandro?

«Il più grande ha 33 anni, il più piccolo 13. Siamo molto legati, ma di solito i nonni hanno tempo a disposizione, sono pensionati. Io non svolgo quelle funzioni…».

E quando vuole andare in pensione?

(Quasi gli va di traverso la Coca Cola).

Come non detto. In una vecchia intervista del 1988 a «Oggi» disse che il lavoro è la cosa più importante. Lo pensa ancora?

«Famiglia e lavoro sono entrambi importanti. Ma chi è disoccupato, vive una situazione psicologica molto dura. Quindi è importante avere un lavoro. Se poi si può avere quello che si ama è il massimo».

Lei ha scritto che la salute del cervello conta più di quella del corpo. Ma cosa pensa di persone come Dj Fabo che si sono ritrovate prigioniere di un corpo ormai spento?

«Sono d’accordo con la sua scelta. Ognuno dovrebbe essere libero di farla, e certamente poterlo fare in Italia sarebbe meglio».

Ci sono tante analogie tra lei e suo padre, uomo dell’800, antifascista che salvò molti ebrei ricoverandoli nella clinica psichiatrica che dirigeva: anche lui viaggiò, visse in Francia e in Inghilterra e lavorò nelle foreste del Congo. Per non parlare del piccolo programma radiofonico di divulgazione medica.

«Credo di aver ereditato da lui il piacere di esplorare e scoprire il mondo, anche se in questa cosa del viaggiatore Alberto ci batte tutti. Papà aveva un carattere molto diverso dal mio, era severo, taciturno, non ho mai visto un ricevimento a casa nostra. Leggeva Tito Livio e Tacito in latino. Mi è mancato il dialogo: è morto quando avevo 20 anni e fino a quell’età non sei in grado di apprezzare queste cose».

Se grazie a una speciale macchina del tempo potesse incontrarlo oggi cosa gli direbbe?

«Lo coinvolgerei nei miei programmi, e gli chiederei se gli piacciono».

Suo figlio Alberto la chiama per nome. Non le dispiace?

«No, gliel’ho chiesto io di chiamarmi Piero, mi piace avere un rapporto di lavoro».

Piatto preferito?

«Vitel tonné».

Dolce?

«Gianduiotti e torroncini».

Nel 1974 fu testimone della prima fake news sulla morte di Alberto Moravia.

«Eravamo al debutto di un nuovo telegiornale serale sul Secondo canale. Ai tempi le agenzie le portavano i fattorini e venne uno con un’Ap sulla morte dello scrittore. Chiamammo Enzo Siciliano per avere il suo contributo in studio. Poi il caporedattore Paolo Bolis notò un errore nel testo in inglese. Insomma, venne fuori che erano stati i colleghi del Tg delle 20 del Primo canale. Uno scherzo da prete...».

Nella sua autobiografia parla più volte delle raccomandazioni in Rai.

«Questa cosa è nota, mi pare…».

Non è un po’ ingeneroso? In fondo lei fu corrispondente a Parigi e a Bruxelles. È stato inviato e anchorman. Voglio dire che ha fatto tutto senza raccomandazioni...

«Conosce quella storia? In Rai ci sono due democristiani, un socialista e uno bravo… Questo è un mestiere in cui ci si espone molto, la Rai è un’azienda trasparente. Vogliono reti lottizzate? Bene, ma che i giornalisti siano bravi».

Tiene ancora un diario in cui annota cosa ha fatto per evitare che possa succedere anche a lei quello che accadde a Enzo Tortora?

«No, lo feci solo in quel periodo. Vede, in tanti mi chiedono una foto, qualcuno allunga il braccio sulla spalla. Sottrarsi sembra scortese, però non sai mai chi ti si avvicina. È un rischio».

Il suo erede nella divulgazione scientifica?

«Sarà la selezione naturale a deciderlo».

Alberto no?

«Chi lo sa».

Ha incontrato attori, pittori, intellettuali: da Sean Connery a Marc Chagall. Addirittura la maestrina dalla penna rossa di De Amicis. Chi le è rimasto nel cuore?

«Ognuno porta con sé qualcosa. Ma io resto legato a Edoardo Amaldi: schiena dritta, grande intelligenza e competenza».

Che cos’è l’intelligenza?

«Lo chiesi a un paleontologo: è flessibilità, capacità di cambiare e abbracciare nuove idee».

Si sente flessibile verso l’omeopatia?

«La scienza non è democratica, ha regole che vanno rispettate: devi dimostrare ciò che dici».

Ha paura di morire?

«La considero una scocciatura».

Dove vorrebbe essere il 22 dicembre 2018?

«Le cose importanti si festeggiano in famiglia. Però devo pensarci: vorrei fare una cosa speciale». Per i suoi 90 anni.

Elvira Serra il 18 marzo 2021 su Il Corriere della Sera. Piero Angela, 92 anni, «nonno», ormai, della divulgazione scientifica in Italia, risponde al telefono con la stessa generosità e gentilezza con cui frequenta le nostre case da quasi 70 anni, prima con il Giornale Radio, poi le corrispondenze da Parigi e Bruxelles, il Tg delle 13.30, i documentari e, nel 1981, la rivoluzione copernicana: 55 minuti di approfondimento scientifico introdotti dall' Aria sulla quarta corda di Bach e un nome che era già una dichiarazione di intento. Quark : la minuscola particella che si trova nel nucleo degli atomi. Con Lorenzo Pinna, Giangi Poli e Marco Visalberghi avrebbe cambiato la televisione per sempre.

Di cosa è più orgoglioso?

«La cosa che mi gratifica di più è avere inciso nella formazione dei ragazzi. Quando ancora giravo per le scuole, in tantissimi mi dicevano: "Sono cresciuto a pane e Quark", "Ho scelto la facoltà scientifica dopo aver letto un suo libro", "Mi sono appassionato alla materia guardando il programma". Con il pubblico si è creato un rapporto speciale».

Seguaci illustri?

«Una volta mi scrisse due righe affettuose un italiano che era a capo di un gruppo di ricerca all' Università di Harvard. "Devo a lei se sono qui"».

Le avevano chiesto di creare il programma o fu una sua idea?

«Lo proposi io e con un po' di scetticismo mi dissero di farlo: temevano che non avrebbe fatto grandi ascolti. Ma io, che da qualche anno facevo documentari, avevo voglia di misurarmi in un progetto di respiro più ampio».

Scenografia essenziale, nessun fronzolo, eppure Quark e i suoi «figli» furono venduti in 40 Paesi.

«Sì, ho ricevuto diverse cassette in cui parlo perfettamente giapponese o arabo! Lì mi aiutò il fatto che avevo registrato le puntate sia in francese che in inglese: alla fine di ogni seguenza, la rifacevo in entrambe le lingue, altrimenti nessuno le avrebbe guardate all' estero».

Imprevisti memorabili?

«Più che imprevisti, difficoltà tecniche: tante. Perché erano cose nuove che ci inventavamo ogni volta».

Mi faccia un esempio.

«Abbiamo fatto sette puntate del Viaggio nel cosmo , dove la scenografia era doppia perché io mi sdoppiavo sempre: da una parte ero in studio e dall' altra ero a bordo di un' astronave immaginaria che si muoveva alla velocità del pensiero e per questo si chiamava Noos , in greco pensiero. Lì il problema era simulare l' assenza di gravità come nelle stazioni spaziali».

E come risolveste?

«Con una serie di trucchi, venuti benissimo! Il segreto era il chroma key , la chiave di colore, grazie a una serie di soprapposizioni. Un altro trucco bellissimo era quando scrivevo con la penna, poi la lasciavo per un attimo, si alzava in aria e la riacchiappavo».

Festeggerà Quark, oggi?

«No, però stiamo già pensando a una nuova serie di Superquark+, che è ancora tutta da registrare: dieci puntate sull' amore, dall' innamoramento alla gelosia al tradimento alla sessualità».

L'amore, visti i tempi che stiamo vivendo, ci salverà? O ci salverà la scienza?

«Diciamo tutte e due. Il nostro problema attuale è quello dell' energia, che fa girare tutto quello che vediamo, ma al tempo stesso avvelena l' atmosfera. L' amore, invece, scende dall' atmosfera e tiene in vita le persone. Mica solo l' innamoramento, anche la solidità dei rapporti».

Da "ilmattino.it" il 18 ottobre 2021. Ospite a Domenica In, Miriam Leone presenta il suo ultimo film e ripercorre le tappe più significative della sua brillante carriera. Tra i racconti, uno in particolare sembra sorprendere i telespettatori, quello del suo innamoramento nei confronti di Piero Angela. Miriam Leone nel salotto di Domenica In rivela il suo amore per il divulgatore scientifico Piero Angela. «Ma è vero che eri innamorata di Piero Angela?», le chiede Mara Venier in studio. «Lo adoravo perchè mi aiutava a conoscere dimezzando il tempo dello studio. A scuola arrivavo sempre più o meno preparata», risponde divertita l'attrice. L'ex Miss Italia racconta a Mara Venier di aver poi incontrato, durante un evento, il divulgatore scientifico e di avergli dichiarato in quell'occasione il suo amore: «Sono andata e gli ho detto di essere innamorata e lui mi ha detto "bene"».

La risposta di Piero Angela: «Sono rimasto molto sorpreso»

Ma a sorprendere Miriam Leone è poi un videomessaggio proiettato in studio inviato dallo stesso Angela: «Sono rimasto molto sorpreso e lusingato dal sapere che sia interessata me» dice Angela, che aggiunge: «Io ho compiuto 66 anni di matrimonio ma so che anche Miriam si è sposata da poco e quindi gli auguro 66 anni di matrimonio felice». L'attrice, a Domenica In per presentare il suo ultimo film "Marilyn ha gli occhi neri" con Stefano Accorsi, ha sposato Paolo Carullo, musicista e imprenditore, lo scorso 18 settembre a Scicli, nel Santuario di Santa Maria La Nova dopo circa due anni di fidanzamento.

Piero Angela compie 93 anni: la moglie Margherita con cui sta da 66 e come nacque Quark , sei cose che non sapete di lui. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2021.

Il sogno di arrivare a 220 anni

Il 22 dicembre 1928 nasceva a Torino Piero Angela. Una lunga e brillante carriera che lo ha portato fino a qui, vivace, lucido, ancora curioso. Una volta, ospite di Fabio Fabio a «Che tempo che fa» ha dichiarato: «Voglio arrivare a 220 anni, ma con una motocicletta e una bionda in sella». E se lo dice lui che di scienza se ne intende, forse lo dice a ragion veduta...Ha dimostrato infatti grande ironia e voglia di scherzare. Tanto che - raccontando un aneddoto - ha fatto la linguaccia davanti a un Fabio Fazio piacevolmente sorpreso e divertito

Il lavoro prima di tutto

Nel 2017, in una lunga intervista al «Il Corriere della Sera» ha ammesso che «il lavoro è la cosa più importante perché chi è disoccupato vive in una situazione psicologica molto dura». E infatti la sua vita è stata davvero dedicata alla professione giornalistica. Dal 1955 al 1968 è corrispondente del Telegiornale, prima a Parigi e poi a Bruxelles. Con il giornalista Andrea Barbato presenta la prima edizione del TeleGiornale delle 13.30. Nel 1976 Piero Angela è il primo conduttore del TG2. Alla fine del 1968 gira una serie di documentari, dal titolo «Il futuro nello spazio», dedicati al progetto «Apollo» che avrebbe portato i primi astronauti sulla Luna. Infatti Angela assistette all’allunaggio da un albergo di New York. Prima era stato a Cape Canaveral per il lancio del Saturno 5. «Agli operatori che mi accompagnavano» ricorda Angela «chiesi di ignorare il lancio e di riprendere le facce del pubblico. Ciò che notai fu l’emozione, quasi fisica, che riguardava indistintamente i parenti degli astronauti quanto gli estranei. Vidi gente piangere senza ragione. Tutti, e non solo i tecnici della Nasa, erano preparati al peggio, sapendo che sarebbe bastato un nonnulla perché la situazione precipitasse. Non era un caso che quella generazione di astronauti provenisse per lo più da famiglie contadine, abituate a grandi sacrifici».

Il figlio Alberto

L’8 aprile 1962 nasce il figlio Alberto che ha seguito le sue orme. Il mattino dell’8 aprile Piero è insieme a sua moglie Margherita al momento del parto e registra la nascita del piccolo Alberto (lo aveva già fatto con la nascita della primogenita Christine) . Poi il pomeriggio vola a Parigi perchè c’è un referendum per l’indipendenza dell’Algeria e la sera aveva un collegamento con la Rai . Con il figlio ha un bel rapporto , molto basato sul lavoro. Alberto infatti non lo chiama papà, ma Piero.

«Quark», il grande successo

Nel 1981 realizza l’idea della rubrica scientifica «Quark», prima trasmissione televisiva di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generalista. Il programma ha un successo notevole e darà vita ad altre trasmissioni: «Quark speciale», «Il mondo di Quark» (documentari naturalistici), «Quark Economia», «Quark Europa» (con contenuti socio-politici). Realizza inoltre 3 serie tv di grande innovazione: viaggia dentro il corpo umano con «La Macchina meravigliosa» (8 puntate), la serie a cui Angela è più legato; nella preistoria con «Il pianeta dei dinosauri» (4 puntate), e nello spazio con «Viaggio nel cosmo» (7 puntate). Le serie sono realizzate con Alberto Angela e vengono girate anche in lingua inglese: verranno poi esportate in oltre 40 paesi, dall’Europa all’America, fino ai paesi arabi e alla Cina. Dal 1995 è autore e conduttore di «Superquark».

L’amore per la musica

Non ha mai nascosto la sua grande passione per la musica. Adora il jazz. Ed è un bravissimo pianista. Ha sempre il sogno nel cassetto di incidere un disco. Da grande appassionato segue spesso i concerti. Quando viveva a Bruxelles andò a sentire i Swingle Singers. Comprò un loro disco è trovò l’Aria sulla quarta coda di Bach con un ritmo jazz. Se ne innamorò e la scelse come sigla di «Quark»

Piero Angela, il papà «giusto» e l’amata moglie

Piero Angela ha una bellissima famiglia. Il papà Carlo salvò tanti ebrei e non volle mai dirlo. Rischiò di essere fucilato dai fascisti. Gli fu conferita l’onorificenza di «Giusto tra le nazioni» proprio per aver aiutato, a rischio della propria vita, molti ebrei durante la Shoah. Certamente dal padre medico Piero ha ereditato l’amore per la scienza e le sue battaglie a favore di essa. Dicendo spesso (per esempio sulla questione vaccini) che «la scienza non è democratica» e che bisogna avere fiducia nella scienza. E’ legatissimo alla moglie Margherita con cui è insieme da 66 anni . Recentemente ha dichiarato: «Mia moglie è stata una santa , il nostro è stato un vero colpo di fulmine e io le devo tutto».

Piero Angela, le sue frasi famose: «La morte è l’unico mistero che ancora non ho esplorato». Una raccolta di aforismi del grande comunicatore della televisione italiana. Redazione LOGIN su Il Corriere della Sera il 14 Agosto 2022.

«Sono come i santi»

«Essere in due posti contemporaneamente una volta era una prerogativa dei santi, ora lo fanno anche gli informatici». Era stato il commento entusiasta di Piero Angela quando, nel settembre 2020, il Corriere insieme a Vodafone l'aveva trasformato in un ologramma. Lui era a Roma (fisicamente) e contemporaneamente anche a Milano (in digitale "tridimensionale") per battezzare il progetto CampBus. «Tra qualche millennio tecnologie del genere permetteranno di trasmettere fisicamente persone o cose da una parte all'altra. Queste tecnologie stanno aprendo un futuro inimmaginabile... era quello che, da ragazzi, pensavamo sarebbe stato il duemila e si sta realizzando».

Mente aperta

«Bisogna avere sempre una mente aperta, ma non così aperta che il cervello caschi per terra». Una frase cara a Piero Angela, che la attribuiva all'illusionista James Randi.

La morte 

«La morte è l’unico mistero che ancora non ho esplorato». Particolarmente significativa oggi, nel giorno della sua morte.

La vita come un pianoforte

«Gli individui che incontrano il maggior successo (e non solo con le donne) solitamente sono forti dentro e cortesi fuori. È un po' come per il pianoforte. Ricordo sempre quello che mi diceva la mia vecchia insegnante di pianoforte: per avere un buon tocco occorrono dita di acciaio in guanti di velluto... Forse anche nella vita è così».

L'Italia

«Nel nostro Paese, così come non si premia il merito, non si punisce chi trasgredisce».

Creatività

«La creatività è soprattutto la capacità di porsi continuamente delle domande».

Grande maestro

Grande esperto di divulgazione, era considerato il "Maestro degli italiani" e sulla scuola del Paese aveva provato più volte a intervenire. Con il motto "Ludendo docere". «Il nostro cervello è fatto in modo che l'attenzione sia tanto più alta quanto più un avvenimento suscita emozioni».

Bene e male

«Il bene e il male sono due simboli. In realtà le cose sono un po' più complicate».

Nascere e vivere

«Abbiamo vissuto. Ci sono quelli che non sono mai nati. Noi per millenni non siamo mai nati. Non nasceremo più, forse».

Il comunicatore

«Per capire prima io le cose, percorro una strada in salita, una strada difficile, tra le spine. Proprio perché mi rendo conto della difficoltà, ai miei lettori, questa strada cerco di fargliela percorrere in discesa, tra le rose».

Il figlio Alberto 

«Ormai Alberto non è più il figlio di Piero Angela, sono io a essere suo padre».

Uguaglianza

«L’uguaglianza deve essere quella delle opportunità, non può essere ovviamente quella dei risultati».

La buona educazione

«La buona educazione consiste non soltanto nel comportarsi bene, ma anche nel fare in modo che gli altri si comportino bene. Rispettare le regole, ma farle anche rispettare».

Parlare, ripetere, spiegare

«Vi sono tre cose importanti: parlare molto, ripetere e spiegare».

La vera ricchezza

«La ricerca è la vera macchina della ricchezza, una ricchezza che la politica spesso si è limitata a redistribuire: ma solo se produci tanto e bene puoi abbassare le tasse».

La razionalità

«La razionalità è sempre stata minoritaria, ma è una battaglia che vale la pena di combattere».

Morire

«Morire è un'avventura nei profondi abissi dell'inconscio e del subconscio, un viaggio verso la più lontana delle supernove e, al contempo, verso il più profondo dei fondali marini».

"Una galassia di persone refrattarie alla scienza. Ma i virologi siano cauti". Marco Leardi il 4 Dicembre 2021 su Il Giornale. La divulgazione scientifica ai tempi del Covid e i no vax. I paradossi della cancel culture. Ma anche i pensieri sull'aldilà. Piero Angela senza filtri e con tanto da insegnare. La razionalità del divulgatore scientifico non l'abbandona mai. Nemmeno quando è a casa propria, lontano dalle telecamere. Piero Angela pronuncia ogni parola selezionandola con cura, con il tono pacato ma vivace di chi ha molte cose da raccontare. E sa perfettamente come farlo. "Bisogna essere molto precisi, soprattutto quando si parla di argomenti delicati", osserva il popolare giornalista, premurandosi del fatto che le sue affermazioni risultino chiare e non vengano fraintese. Dall'alto dei suoi 93 anni, il decano della divulgazione in tv ha uno sguardo attento su tutto ciò che lo circonda, dall'attualità ai temi sociali più dibattuti. Pure sulla sessualità e sui rapporti di coppia ha voce in capitolo, lui che da oltre 60 anni è sposato con la stessa donna, la sua amata Margherita. Ma la nostra conversazione non poteva che iniziare dall'argomento che più sta impegnando la comunità scientifica.

Ormai tutti dicono la loro sul Covid, ma chi fa divulgazione è sempre stato all'altezza del suo compito?

"Diciamo subito che per avere una certezza su qualsiasi scoperta scientifica, bisogna averla verificata con una serie di controlli. Il pubblico deve capire che un conto sono le cose accertate, sulle quali tutti sono d'accordo, ma quando si chiede di prevedere cosa accadrà per un determinato fenomeno nessuno è in grado di dirlo con sicurezza. Per cui si esprimono delle opinioni, che vanno però divise dai fatti. Quello che si sa, lo si può dimostrare in modo preciso, il resto sono soltanto ipotesi"

In tempi non sospetti, lei aveva anche parlato di "virologi oracoli". In che senso?

"Gli scienziati nei dibattiti sono spesso provocati dalle domande dei giornalisti. Ma bisogna far capire, appunto, che ci sono due livelli diversi: quello delle cose che si conoscono e quello delle cose ancora ignote. Molti scienziati giustamente dicono: 'Questo non lo so, però secondo me…'. Dovrebbe essere sempre così. A volte però capita anche che ci siano opinioni legittimamente diverse, che potranno essere validate o meno da quello che si scoprirà in seguito"

Ma in questo caso non si rischia di generare confusione nel pubblico meno attrezzato?

"Sì, capisco. Ma allora bisognerebbe evitare di chiedere agli esperti la loro opinione"

Cosa pensa di chi ancora oggi si dichiara no-vax?

"Quello è un universo fatto di personaggi diversi tra loro. Ci sono alcuni che semplicemente hanno paura del vaccino e non si lasciano convincere dai risultati scientifici. Questo credo sia il nucleo forte dei no-vax e penso che la loro sia una reazione simile a quella di chi ha paura dell'aereo: è un sentimento che prevale sulle dimostrazioni logiche. Poi ci sono anche persone che si riconoscono nei fenomeni paranormali, e nella mia attività in giro per il mondo ne ho conosciute diverse. Il problema è che questi individui si lasciano convincere specialmente sulla rete, dove circolano messaggi di tutti i tipi. Il trucco è che, sempre, questi messaggi vogliono far credere che ci sia qualcosa di nascosto da svelare. 'Non ve l’avevano detto…'. Infine ci sono persone che si infiltrano nelle manifestazioni solo per portare violenza. In Francia si chiamano casseur, guastatori".

A fronte di questo scenario, secondo lei, occorre l'obbligo vaccinale?

"Più che altro mi chiedo: se qualcuno non vuole essere vaccinato perché ha paura, si va con i carabinieri a imporglielo? Come si fa?"

Si paragona spesso la pandemia, con le conseguenti restrizioni, a una guerra. Lei la guerra l’ha vissuta davvero: si riconosce in questo accostamento?

"Quando si era in guerra le condizioni erano molto più dure. Io ho sofferto una fame che avrei persino mangiato i tavoli. Il coprifuoco era continuo, non si poteva uscire, e poi c'erano le bombe. I soldati erano al fronte, non si poteva ballare. Oggi per la pandemia ci sono delle cose limitate, però la situazione è completamente diversa"

Un altro tema attuale e altrettanto discusso è quello dei cambiamenti climatici. Siamo davvero in una fase di emergenza?

"Il discorso è complesso. Quello che emerge da tutte le conferenze sul tema, a cominciare dall'ultima di Glasgow, è che le cose si predicano ma si fanno solo in parte e molto lentamente. Molti si chiedono se ormai non sia già troppo tardi, perché in realtà non c'è una vera mobilitazione per attuare le cose proposte. La Cina stessa, poi, ha detto che continuerà a usare il carbone. Forse, invece di prevenirli, è ormai il caso di far fronte ai cambiamenti, che sarebbero comunque inevitabili"

Nella storia, quante altre volte il pianeta ha assistito a dei cambiamenti climatici?

"Ci sono stati diversi fenomeni naturali, veri e propri traumi dovuti anche ai vulcani o a ragioni astronomiche. La Terra ha attraversato periodi in cui il 90% delle specie viventi era scomparso. Ma l'uomo in quell'epoca non c'era ancora. L’uomo ha conosciuto glaciazioni molto leggere rispetto ad altre precedenti"

Come giudica il fenomeno della "cancel culture" e dei libri messi al bando in nome del politicamente corretto?

"Nella storia siamo stati tutti dominati e dominatori. A questo punto dovremmo tirare giù tutto, anche le statue degli antichi romani, degli imperatori, di Giulio Cesare… (ride, ndr). Queste cose non credo possano avere una grande estensione"

Si domanda mai cosa ci sarà nell'aldilà?

"Io ci sono vicino: ho 93 anni, quanto mi rimane? Ma ho avuto una vita molto gratificante, va bene così. La scienza però non cerca mai di rispondere a cose delle quali non si sa niente. Scienza e religione sono cose diverse, non bisogna mescolarle. Qui siamo nel campo dei pareri, delle convinzioni personali"

Ma quando si estinguerà il pianeta, possiamo immaginare che fine farà l'uomo?

"No, dipenderà troppo dalle circostanze. Per noi il problema è quello di vivere bene adesso, ma nessuno può prevedere con certezza quel tipo di futuro. Ci sono troppe variabili"

Ha dei rimpianti?

"No, in generale non ho mai lasciato cadere le opportunità che erano alla mia portata e raggiungibili con l'impegno. Le ho colte tutte. Ci sono persone che rinunciano per pigrizia o per mancanza di iniziativa. Ma questo no, io non l'ho mai fatto".

A proposito di opportunità: nei mesi scorsi l'ex aviatrice 83enne Wally Funk è andata in orbita per la prima volta. Se ci fosse l'occasione, lo farebbe anche lei?

"Io ho trascorso un anno negli Stati Uniti per seguire il progetto spaziale Apollo. A uno studioso chiesi se un giorno anche le persone comuni sarebbero potute andare nello spazio; alla sua risposta affermativa domandai se potevo iscrivermi. Già all’epoca mi ero messo in lista d’attesa! Ma era una cosa scherzosa, non succederà mai che mi chiamino. Però mi sarebbe piaciuto"

Intanto, su RaiPlay, si è dedicato a spiegare l’amore e il sesso soprattutto ai giovani. Pensa che ne abbiano bisogno?

"Questo programma aveva lo scopo di raccontare cosa la scienza ha scoperto sui vari aspetti dell'amore, psicologici e biologici. Altri aspetti importanti da affrontare erano il rapporto di coppia, perché oggi le coppie si disfano più facilmente, e come cercare il partner. Molte coppie oggi si sono formate su Internet, che è anche uno strumento per incontri usa e getta. Sono argomenti che riguardano in particolare i giovani"

La sessualità per molti è ancora un tabù. Diciamo che lei ha provato a superarlo…

"Le racconto un episodio spiritoso. Quando ho registrato in studio le 10 puntate, la donna delle pulizie che lavorava nello staff alla fine si è avvicinata a me e ha detto: la prossima volta, invece di andare dal ginecologo, vengo da lei. Aveva seguito tutto il programma"

Lei è sposato da 60 anni. Qual è il segreto di un rapporto così longevo?

"Il rispetto reciproco. Se uno inizia a insultare l'altro, finisce tutto. E poi la comprensione. Gli uomini spesso non ascoltano le donne e parlano in prima persona di sé. Le donne invece hanno bisogno di qualcuno che le ascolti. Quindi ascoltare e rispettare: questa è la formula"

Oggi però qualcuno vorrebbe negare che vi siano differenze strutturali tra uomo e donna. Si parla di fluidità di genere…

"La differenza è dovuta al fatto che la donna può fare figli e l'uomo no. Però la superiorità del maschio, che esiste in tutti i mammiferi e è data anche dal dimorfismo, dalla muscolatura più potente, oggi non ha più un valore. Oggi conta il cervello. Le donne in passato erano in una posizione succube, oggi hanno dimostrato di avere risultati migliori anche negli studi e giustamente ambiscono a entrare in carriera. Ma abbiamo anche un problema, che un po' il mio pallino: ormai non si fanno più figli. Questo è molto grave e porterà a una società completamente squilibrata, con conseguenze sociali ed economiche"

Lei di figli ne ha due. Che rapporto ha con Alberto? Di fatto, è già diventato il suo erede anche in tv…

"È stata una cosa casuale. Lui si era laureato in scienze naturali e non pensava di fare questo mestiere. Ma già da piccolo raccontava le sue cose molto bene, in modo efficace, convincente. Mentre lavorava su altro, la tv svizzera lo chiamò per una rubrica che si chiamava Albatros, che poi fu acquistata anche da Telemontecarlo. Solo successivamente iniziò a lavorare in Rai, sebbene io fossi dubbioso perché sapevo che qualcuno avrebbe parlato di nepotismo. Ma in realtà né lui né io siamo assunti in Rai. Siamo dei collaboratori e il nostro contratto viene rinnovato se i programmi vanno bene. Sennò, arrivederci e grazie"

Ogni tanto gli dà ancora dei consigli?

"Lui è molto bravo, credo che ormai non ne abbia bisogno".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

Piero Angela, il saluto al suo pubblico: "Ho fatto la mia parte, cercate di fare anche voi la vostra per il nostro difficile Paese". La Repubblica il 13 Agosto 2022.  

Il messaggio sul sito di Superquark. "Mi spiace non essere più con voi, ma anche la natura ha i suoi ritmi"

Nei giorni scorsi Piero Angela, morto oggi a Roma, ha voluto lasciare al sito internet del suo programma Superquark l'ultimo messaggio di saluto ai telespettatori.

L'annuncio della morte di Piero Angela

Le reazioni: da Mattarella a Jovanotti

Il suo ultimo messaggio al pubblico di Superquark

L'intervista: "Sogno ancora le stelle del jazz"

"Cari amici, mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme. Ma anche la natura ha i suoi ritmi. Sono stati anni per me molto stimolanti che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana. Soprattutto ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha aiutato a realizzare quello che ogni uomo vorrebbe scoprire. Grazie alla scienza e a un metodo che permette di affrontare i problemi in modo razionale ma al tempo stesso umano.

Malgrado una lunga malattia sono riuscito a portare a termine tutte le mie trasmissioni e i miei progetti (persino una piccola soddisfazione: un disco di jazz al pianoforte). Ma anche, sedici puntate dedicate alla scuola sui problemi dell'ambiente e dell'energia.

È stata un'avventura straordinaria, vissuta intensamente e resa possibile grazie alla collaborazione di un grande gruppo di autori, collaboratori, tecnici e scienziati.

A mia volta, ho cercato di raccontare quello che ho imparato.

Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese.

Un grande abbraccio". 

Addio a Piero Angela, chi è Margherita Pastore la compagna di una vita. "Senza di lei non avrei fatto nulla". Vania Colasanti su La Repubblica il 13 Agosto 2022.  

Un matrimonio d'amore durato ben 66 anni e coronato dalla nascita di due figli. "Tra noi - raccontava - è stato un vero e proprio colpo di fulmine. Per me ha rinunciato alla carriera di ballerina classica"

L'uomo che ha passato la vita a indagare l'universo, scomparso oggi a 93 anni dopo una lunga malattia, ha avuto una stella polare: sua moglie Margherita Pastore. Lei sarebbe potuta diventare una étoile della danza e ha preferito rinunciare per lui, lasciare gli studi a La Scala e seguirlo a Parigi, dove negli anni Cinquanta era già corrisponde del tg. 

Piero Angela, parla Renzo Arbore: "Gli invidio il figlio Alberto, è lui il suo erede". Silvia Fumarola La Repubblica il 14 Agosto 2022. 

Il cantautore e conduttore tv ricorda l'amico: insieme hanno suonato per i 40 anni di 'Superquark' ma la loro conoscenza risale a molti anni prima: quando, per poco, non formarono un trio con Lucio Dalla.

Un po’ di nostalgia, per quegli anni in cui la Rai progettava costruiva e c’erano tante idee in circolazione, Renzo Arbore ce l’ha. «Ho conosciuto Piero Angela», racconta, «nel periodo più bello di “Mamma Rai”. C’erano Andrea Barbato, Massimo Fichera. Qualche anno dopo sarebbe nata la Rai 3 di Angelo Guglielmi. C’era aria di rivoluzione, sentivi che stavano cambiando le cose».

Piero Angela, un grande torinese. Dalla guerra al crollo della Mole Antonelliana, ecco cosa lo legava alla sua città. Diego Longhin su La Repubblica il 13 Agosto 2022.  

Giornalista e divulgatore scientifico, si è spento a 94 anni. Un mito della televisione, nato e cresciuto (anche professionalmente) in Piemonte.

A dicembre Piero Angela avrebbe compiuto 94 anni. Si è spento nella notte. Torino per Piero Angela non è solo la città che gli ha dato i natali, ma la città dove si è formato, dove ha trovato il suo grande amore, la moglie Margherita Pastore, e dove Angela tornava spesso, soprattutto prima del Covid, per curare progetti legati ai giovani e alla musica. L’ultimo quello legato con il Politecnico di Torino, tra i "dialoghi sulla sostenibilità" e il "parlare del futuro", due cicli condotti insieme all'amico e giornalista torinese Piero Bianucci. "Interventi che erano stati chiusi a causa della pandemia. Non ha potuto fare il terzo ciclo, era molto dispiaciuto", racconta Bianucci.

Lo ricorda anche il sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, che twitta: "Ha insegnato agli italiani il bello, lo stupore e il rigore della scienza. È stato il giornalista e divulgatore scientifico più grande. Torinese di nascita, cresciuto professionalmente a Torino per diventare presto un mito italiano. Una perdita che colpisce tutto il paese". E il presidente delal Regione, Alberto Cirio: "Credo che un po’ di quello che ognuno di noi conosce del mondo scientifico sia merito suo. Un Maestro con la M maiuscola, capace di avvicinare la scienza con precisione e semplicità anche a chi una mente scientifica non l’ha mai avuta. 93 anni, moderni come pochi. Un piemontese straordinario, che ci lascia una eredità di cui essere orgogliosi. Ma anche da custodire e continuare a diffondere. Grazie Piero Angela".

Angela,  giornalista, conduttore e divulgatore scientifico italiano, famoso per trasmissioni televisive di grande successo e importanti pubblicazioni di divulgazione scientifica era nato a Torino il 22 dicembre 1928. Il padre era il direttore di una clinica psichiatrica a San Maurizio Canavese, luogo in cui Angela trascorse un lungo periodo durante la Seconda Guerra mondiale, per sfuggire ai bombardamenti su Torino. Medico antifascista insignito della medaglia di Giusto tra le Nazioni. Un padre che ha insegnato ad Angela la piemontesità: "Un'educazione molto rigida, con principi molto severi, tra cui quello di tenersi un passo indietro sempre, mai esibire", raccontava il giornalista.

Angela aveva iniziato la sua carriera giornalistica in Rai, nella redazione di Torino,  come cronista radiofonico, divenendo poi inviato e infine conduttore del telegiornale. Il 23 maggio del 1953 lui era al lavoro nel capoluogo piemontese quando crollò una parte della Mole Antonelliana a causa di un violento temporale. "Sessantatre metri della guglia si sono staccati, cadendo quasi verticalmente, sfiorando Piero Angela", raccontò lui stesso durante una puntata di SuperQuark. "La sede della Rai allora era attaccata alla Mole, c'era un cortiletto piccolissimo, e tutta questa roba è venuta giù con violenza e colì uno dei balconcini. Io mi trovato a una finestra che si trovava all'ultimo piano".

Oltre che di scienza, Piero Angela era anche un grande appassionato di jazz. Un amore nato in Piemonte, dove prese le prime lezioni di pianoforte e ascoltò i primi dischi. Una delle sue ultime apparizioni torinesi (seppure in streaming) risale all'anno scorso ed è proprio legata alla musica: durante la presentazione di una nuova etichetta discografica Angela racconto il suo sogno di incidere appunto un disco jazz. Progetto che aveva cercato di portare avanti in questi anni, facendo anche dei cicli di fisioterapia per recuparare maggiore mobilità con le mani.

Angela ha lasciato Torino quando aveva 27 anni, ma nella sua città tornava spesso, per incontri, dibattiti, lezioni e ritirare premi. Nel 2018 era stato insignito dell'onorificenza di Torinese dell'anno dalla Camera di Commercio di Torino. "rappresentato lo stile torinese dell’impegno e della passione per il lavoro, attraverso un linguaggio accurato ma comprensibile e soluzioni innovative di comunicazione che hanno rivoluzionato il mondo della divulgazione scientifica". Angela ha studiato al liceo classico Massimo D'Azeglio di Torino, poi si era iscritto al Politecnico, ma non si è mai laureato, anche se ha poi collezionato otto lauree honoris causa.

Torinese anche la moglie, Margherita Pastore, ballerina etoile allieva della Susanna Egri. I due si sono incontrati quando lui aveva 24 anni e lei 18 anni. Pastore era una ballerina classica della Scala di Milano. "Ho avuto un colpo di fulmine, ma è accaduto in un’epoca nella quale ci si dava ancora del lei. L’ho conosciuta alla festa di un’amica, mi sono messo a suonare il pianoforte e ci siamo innamorati”, raccontava lo stesso Angela. Si sono sposati nella chiesa della Madonna degli Angeli, in via Carlo Alberto, a due passi dall'Hotel Sitea dove Angela stava quando veniva in città. Uno dei piatto preferiti, che ordinava ogni volta che veniva in Piemonte, erano gli agnolotti del plin.

Unica amarezza che gli aveva dato Torino: bocciargli il progetto di riallestimento del Museo di Scienze Naturali, complesso ormai chiuso da più di dieci anni. La commissione ha preferito quello di Giorgio Celli, anche perché più economico, rispetto a quello di Angela. Negli ultimi anni aveva però pensato, sulla scia delle lezioni al Poli, di "donare" alla città un altro museo, pensando ad un luogo dedicato alla divulgazione della scienza e della tecnica. 

Piero Angela: “Fidiamoci degli esperti senza cambiare vita”. Il giornalista: "Questa è una epidemia seria, ma in attesa del vaccino le cure ci sono e funzionano. Bisogna evitare le fake news che drammatizzano". LUCA FRAIOLI su La Repubblica il 13 Agosto 2022.

«Mia madre da ragazza, subito dopo la Prima guerra mondiale, si ammalò di Spagnola, la terribile influenza che avrebbe fatto milioni di morti. Ma lei fu tra coloro che guarirono». Piero Angela, classe 1928, è testimone di un secolo di avvenimenti e di cinquant’anni di scienza raccontata in libri e celebri programmi tv, da SuperQuark a La macchina meravigliosa, alla scoperta del corpo umano.

'Quark', il gioiello popolare inventato da Piero Angela. Antonio Dipollina su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

Il divulgatore, giornalista, conduttore e saggista creò la trasmissione nel 1981: era il suo modo per portare nella casa degli italiani la scienza e non solo

Quark era il titolo perfetto. Immediato, riconoscibile, nonché fumettistico. Era un titolo jazz in qualche modo e riassumeva l’intero metodo Piero Angela. Era il 1981, da lì vennero una incredibile quantità di derivati, Quark-qualcosa su temi specifici e, quando il gioco si fece duro, arrivò Superquark: anno 1995, versione extralarge da due ore per far fronte alla concorrenza degli altri canali che la tiravano in lungo per tutta la sera. 

Piero Angela, l'indimenticabile voce che ha aperto le porte dell'Antica Roma agli italiani. Carlo Alberto Bucci su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

Nella capitale viveva da quasi cinquant'anni, in via Cortina d'Ampezzo. Eentrato in Rai come cronista del giornale radio, prima di passare alla televisione che lo ha reso celebre e amato, è diventato per centinaia di migliaia di romani e di turisti, molti gli stranieri, la voce dei Fori

"Uno spettacolo bellissimo ed interessante. La voce di Piero Angela, che conosciamo bene, ci ha portato direttamente dentro il mondo di Quark". Così la signora Di Bona ha consigliato agli altri utenti di Tripadvisor il viaggio nel foro di Augusto a cui ha assistito alle undici sera seduta su uno degli scranni di via Alessandrina.

E in questa frase della turista di Nonantola c'è il successo per la forma di spettacolo della cultura che dal 2014 va in scena d'estate, con l'organizzazione di Zètema, lungo via dei Fori imperiali: la voce inconfondibile di Piero Angela ad aprire le porte alla conoscenza, che fosse scientifica o umanistica, dell'antica Roma.

(ANSA il 14 agosto 2022) - "E' stato uno straordinario giornalista e divulgatore: sarà contento, in questo momento, perché sono certo che ci vede, di constatare quante cose belle abbia insegnato e quanto il pubblico gli sia riconoscente".

Pippo Baudo, intervistato da Rainews 24, ricorda così Piero Angela, con cui aveva condiviso qualche tempo fa il premio 'De Senectute'. "Quel giorno - racconta il conduttore - mi chiese se ero felice del riconoscimento, io dissi di sì e aggiunsi scherzando 'è un premio per l'età, così basta'. E lui ribatté 'per me no, perché voglio andare avanti'.

E infatti è andato sempre avanti, inventando, cercando, studiando con l'obiettivo bellissimo di divulgare, far sapere, che lo renderà famoso nel tempo". 

Baudo è rimasto colpito anche dall'ultimo saluto rivolto da Piero Angela ai suoi telespettatori: "Sono parole estremamente belle, un grande insegnamento. Piero si guarda allo specchio, dall'alto dei suoi anni, e sottolinea di aver assolto al suo compito dicendo a tutti noi: ora fate la vostra e mi raccomando, non battete la fiacca. Ha incarnato alla perfezione il 'fatti non foste a viver come bruti' dell'Ulisse dantesco".

 "Ho vissuto un'esperienza artistica notevole, ho conosciuto tanta gente, artisti, attori, uomini politici, ma persone come Piero sono difficili da incontrare: era tutto, sapienza, conoscenza, curiosità, voglia matta di continuare a vivere e a sognare", sottolinea ancora Baudo. 

"Per me è morto un giovane di 93 anni: la gioia di fare il mestiere che si ama mantiene giovani, non fa passare il tempo. Anche se il suo era un mestiere difficilissimo, è stato geniale, lo ha fatto con grande passione e volontà che ha trasmesso al figlio, degno erede del padre".

Pippo Baudo: "Credeva nel futuro, voleva migliorare il Paese con la divulgazione". Silvia Fumarola su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

ll ricordo del presentatore e amico: "Ci conoscevamo da oltre 40 anni. Il suo stile, sempre pacato"

"Era un simbolo del servizio pubblico, la Rai gli deve tanto e spero che gli venga intitolato uno studio. Ma tutta l'Italia deve essergli grata, è entrato nelle case preoccupandosi che nessuno rimanesse indietro. Un grande divulgatore".

Pippo Baudo ricorda Piero Angela con grande affetto, e la stima che si deve alle persone da cui si impara qualcosa.

Giorgio Parisi: “Ha reso semplice la scienza così è piaciuta a tutti”. Elena Dusi su La Repubblica il 14 Agosto 2022.  

Parla il premio Nobel per la fisica

«Piero Angela piaceva ai miei figli. E io ero contento che trovassero qualche buona influenza in quella scatola». Giorgio Parisi, 74 anni, premio Nobel per la fisica nel 2001, vicepresidente dell’Accademia dei Lincei e per una vita professore alla Sapienza di Roma, ricorda quegli anni Ottanta in cui il panorama della divulgazione della scienza era in pratica un deserto.

Piero Angela e il calcio: la Juve, il passato da ala destra e le punizioni a Tacconi. Matteo Pinci su La Repubblica il 14 Agosto 2022.

Una sorella dell'Avvocato Agnelli invitò lui e i suoi amici al campo e regalò loro delle maglie bianconere. Al portiere fece parare punizioni calciate da una macchina a cento all'ora, di Buffon disse: "Ha saputo piangere, mi ha commosso"

Una delle prime immagini pubbliche lo ritrae, giovane giornalista, mentre intervista Fausto Coppi. Ma Piero Angela, scomparso all'età di 93 anni, ha avuto anche una passione, mai ostentata, per il calcio. "Ero un'ala veloce, un numero sette", confessò a Tuttosport, cinque anni fa.

Piero Angela tifoso della Juventus

Una passione nata giocando per strada, in Piazza d'Armi, a Torino. Fino a quando, un pomeriggio, una delle sorelle dell'Avvocato Agnelli vedendo quei ragazzi che rincorrevano una palla per strada, non decise di invitarli in uno dei campi su cui si allenava la Juventus. Diede loro anche delle maglie bianconere, accendendo quella che fino a quel momento era solo una simpatia. Sì, Piero Angela era tifoso della Juventus. E dei suoi portieri. Invitò Stefano Tacconi a parre delle punzioni sparate da un robot a cento all'ora. E manifestò apertamente la sua ammirazione per Gigi Buffon: "Mi affascina. Intanto perché è un portiere e i portieri sono sempre speciali. E poi, mi sembra un bel personaggio, di notevole spessore umano". Aggiungendo, poi, in un'altra occasione: "Ha saputo piangere nei momenti difficili, questo mi ha molto commosso". 

Piero Angela e il calcio

La sua passione juventina lo portò a parlarne nello studio di Quelli che... il calcio con Fabio Fazio e Marino Bartoletti. Ma Angela era un tifoso tiepido, a cui la simpatia per la propria squadra non toglieva la lucidità del divulgatore scientifico: "Sono torinese e tifoso della juventino, ma se la squadra gioca male lo ammetto", raccontò in un'intervista. In altra circostanza, mostrò anche una simpatia per l'altra squadra della sua città: "Devo ammettere che è facile essere tifosi della Juventus - disse - una squadra che un anno sì e l’altro no vince il campionato. È molto più nobile essere tifosi del Torino, che fa soffrire i suoi sostenitori, e che proprio per questo richiede tanta dedizione e tanto amore". In ogni caso, non ha mai messo il pallone davanti alle priorità della vita. Anzi, ne ha spesso sottolineato gli eccessi: "Un paese che freme per la ripresa del calcio e non per la scuola non ha futuro", una sua frase di alcune estati fa. E ancora: "Cosa guardo in tv? Cosa non guardo. Io non guardo il calcio in tv". 

Alberto Angela tifa Milan

Anche per questo forse il figlio Alberto non ha faticato a seguire una strada diversa, diventando tifoso del Milan. Addirittura, fu fotografato in tribuna accanto a Donnarumma e Gazidis in occasione di un incotro tra il suo Milan e la  Juventus del papà. 

Addio Piero Angela, il divulgatore gentile che ha insegnato al pubblico il piacere del sapere. Beatrice Dondi su L'Espresso il 13 Agosto 2022.

E' morto a 93 anni il giornalista che ha inventato Quark e ha aperto la strada al gusto della scienza in televisione

Aveva cominciato spiegando i misteri della particella più piccola. Ed era arrivato a raccontare le gioie altrettanto misteriose del sesso. Sempre con quella sua voce suadente, una cantilena che lasciava inchiodata allo schermo milioni e milioni di spettatori, anno dopo anno, storia dopo storia. Piero Angela se ne è andato così, col sorriso a cui ci aveva abituati in una vita di divulgazione al servizio delle persone che avevano bisogno di capire, che avevano bisogno di capire con lui.

Giornalista, scrittore, intellettuale, Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica e poi Cavaliere di Gran Croce (ma senatore a vita, no, “Non fa per me” dichiarò in un’intervista al Corriere), era nato a Torino nel 1928 e ha pensato bene di trascorrere la sua intera esistenza pubblica insegnando agli altri l'importanza della fame di sapere.

Un mercoledì del 1981, giusto dopo una puntata di Dallas partì una futuribile sigla virtuale sul primo canale della Rai. E su quelle ormai celeberrime note di Bach della “Suite in re maggiore” sbucò il suo volto educato, con quegli occhi che sembravano sempre socchiusi per trovare la concentrazione giusta. «Esploreremo il mondo della scienza e della ricerca in modo chiaro e comprensibile nei suoi vari aspetti. Il titolo lo abbiamo ripreso a prestito dalla fisica perché indica i più piccoli mattoni della materia. E noi proveremo ad andare dentro le cose» furono le sue prime parole. Era cominciata una piccola, pacata rivoluzione. Che metteva in campo ingenti mezzi tecnologici in quei tempi lontani senza social, solo per rendere lo spettatore parte attiva di un discorso generalmente respingente. La scienza presentata non come spettacolo ma che spettacolo lo diventava, pur senza alcuna concessione all’allontanamento dal rigore assoluto.

Fu un successo, roboante che tenne incollati alla tv nove milioni di spettatori. Molti dei quali, magari i loro figli, sono rimasti lì, trasmissione dopo trasmissione, a seguire la sua divulgazione, la sua generosità intellettuale. E che oggi, senza Piero Angela, si sentiranno un po' più soli, un po' più piccoli. Come una particella di quark

1928 – 2022. È morto Piero Angela. Mattarella: «Scompare un grande italiano a cui la Repubblica è riconoscente». Il Domani il 13 agosto 2022

Lo storico conduttore e giornalista italiano è deceduto all’età di 93 anni. Per anni è stato il volto più noto della divulgazione scientifica e storica in Italia conducendo i programmi Quark e Superquark. L’annuncio del figlio Alberto

«Buon viaggio papà». Con queste parole Alberto Angela ha annunciato sui social network la morte del padre Piero Angela.

Lo storico conduttore e giornalista italiano è deceduto all’età di 93 anni. Per anni è stato il volto più noto della divulgazione scientifica e storica in Italia conducendo programmi come Quark e Superquark.

LA CARRIERA

Piero Angela è nato a Torino nel 1928 e aveva iniziato la sua carriera giornalistica all’interno della Rai come cronista radiofonico, divenendo poi corrispondente da Parigi e infine conduttore del tg nel 1968, nonché di diversi programmi scientifici.

Durante la sua vita ha pubblicato diversi libri e saggi sempre a carattere divulgativo, tradotti in diverse lingue.

Angela era anche un pianista Jazz, suonava dall’età di 7 anni e prima di diventare giornalista si esibiva nei jazz club di Torino. Negli anni ha ottenuto molti premi e diverse onorificenze, l’ultima nel 2021 quando è stato insignito del titolo di Cavaliere di Gran Croce dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana.

LA PRIMA PUNTATA DI QUARK 

La prima puntata del noto programma Quark, diventato poi Superquark, è andata in onda nel 1981. Nei primi minuti Piero Angela ha spiegato il nome del programma: «Il titolo Quark è un po’ curioso e lo abbiamo preso a prestito dalla fisica, dove molti studi sono in corso su certe ipotetiche particelle subnucleari chiamate appunto quark, che sarebbero i più piccoli mattoni della materia finora conosciuti. È quindi un po’ un andare dentro le cose».

Lo scopo dell’allora giovane conduttore era di «riuscire a spiegare le cose più complesse nel modo più semplice». Il suo obiettivo è stato perseguito anche dal figlio Alberto che ha seguito le sue orme conducendo diversi programmi di carattere storico, artistico e scientifico.

IL CORDOGLIO

Gli esponenti politici italiani da destra a sinistra hanno espresso messaggi di cordoglio alla famiglia di Piero Angela. Tra questi c’è anche quello del presidente della Repubblica Sergio Mattarella: «Provo grande dolore per la morte di Piero Angela, intellettuale raffinato, giornalista e scrittore che ha segnato in misura indimenticabile la storia della televisione in Italia, avvicinando fasce sempre più ampie di pubblico al mondo della cultura e della scienza, promuovendone la diffusione in modo autorevole e coinvolgente. Esprimo le mie condoglianze più sentite e la mia vicinanza alla sua famiglia, sottolineando che scompare un grande italiano cui la Repubblica è riconoscente».

LA VITA STRAORDINARIA DI PIERO ANGELA. Il libro dei “perché”, un insegnante speciale e il jazz di Armstrong. PIERO ANGELA su Il Domani il 13 agosto 2022

Pubblichiamo alcuni passi tratti dall’autobiografia di Piero Angela Il mio lungo viaggio, 90 anni di storie vissute, Mondadori. Per gentile concessione dell’editore

IL LIBRO DEI PERCHÉ

Forse una delle prime occasioni di avvicinarmi alla scienza la ebbi quando mi regalarono l’Enciclopedia dei ragazzi, dieci bei volumi con un mobiletto contenitore. Il mio volume preferito, il più consunto, era quello dei “Perché?”. Probabilmente lì è nato il piacere di capire tante cose, con spiegazioni semplici. E il piacere di capire è proprio uno dei segreti per essere attratti dalla scienza. In fondo, è esattamente quello che ho poi cercato di fare nel mio lavoro: rispondere a dei perché, rendendo attraenti argomenti difficili attraverso spiegazioni semplici. La scienza è piena di cose straordinarie: per renderle interessanti, basta raccontarle nel modo giusto. Alle elementari ero bravo. Ero il secondo della classe (con tanto di premio a fine anno). Il primo della classe era il contino Pier Vittorio Barbiellini Amidei. Debolino in ginnastica. L’insegnante in quarta e quinta elementare era un prete, pur essendo una scuola laica. Si chiamava don Carlo Ughetti. Era basso e rotondetto.

La sua veste nera aveva una serie interminabile di bottoni sul davanti. Mi sono sempre chiesto se li abbottonasse e sbottonasse tutti ogni volta che la indossava e la toglieva.

Portava gli occhialini alla Cavour, e i suoi occhi erano così chiari e gelidi da incutere paura.

Aveva un ottimo metodo di insegnamento: appena arrivati ci portava in palestra a fare ginnastica e ci faceva salire sulle pertiche, per calmare le esuberanze.

Poi, tornati in classe, ci aspettava un componimento di italiano. Ogni giorno. Ma la cosa straordinaria, per l’epoca, erano gli esperimenti scientifici che il maestro Ughetti realizzava in classe.

Portava lui stesso degli strumenti per spiegarci i vasi comunicanti, la produzione di gas idrogeno per elettrolisi, o per mostrarci il funzionamento di una pila, con la produzione di elettricità. Cose che certamente mi hanno lasciato un segno.

IL JAZZ

Anch’io volli imparare a suonare. Fu così che i miei genitori comprarono un pianoforte. Purtroppo però successe quello che troppo spesso avviene: l’insegnamento era noioso e punitivo: scale, solfeggi, setticlavio.

A un certo punto, quando arrivava la maestra, io e mia sorella Sandra (coinvolta anche lei in questa avventura) cominciammo a chiuderci in bagno. Fine delle lezioni.

Questo capitava alla maggior parte delle persone che studiavano musica per diletto (e ancora oggi è così). Ho conosciuto persino signorine che una volta arrivate al diploma hanno smesso di suonare!

L’errore di base è che a tutti viene insegnato il pianoforte allo stesso modo, come se tutti dovessero diventare concertisti.

Fare musica per diletto è un’altra cosa: bisogna anzitutto rendere piacevole e gratificante lo studio, e poi fornire le basi, perché chi non ha ambizioni professionali possa divertirsi, da solo o con amici. Arrivando, magari, a creare musica lui stesso.

Fine delle lezioni, quindi. Però il pianoforte, ormai, era stato comperato. E ripresi a suonarlo da solo. A modo mio. E cominciai a divertirmi.

Mi impratichii suonando “a orecchio”, senza spartiti, musiche di vario genere che sentivo alla radio. Il colpo di fulmine fu l’arrivo della musica jazz nel Dopoguerra.

C’era una stazione americana che da Stoccarda, in Germania, ogni sera alle dieci trasmetteva un’ora di jazz. Con un amico eravamo tutt’orecchi, e scoprimmo così i grandi complessi e solisti dell’epoca.

Nel febbraio del 1948 arrivò a Nizza per la prima volta dall’America Louis Armstrong, con la sua famosa formazione

di solisti.

All’epoca per andare in Francia occorreva però un visto e una motivazione. Mi feci fare dal professor Quaranta del Conservatorio di Torino un certificato nel quale si diceva che «lo studente Piero Angela deve recarsi a Nizza per ragioni di studio».

Ottenni il visto per tre giorni, e vissi un sogno a banane e datteri, viste le poche lire che avevo in tasca, frutto dei miei risparmi.

Furono tre giorni fantastici, con l’emozione di vedere dal vivo non solo Louis Armstrong e Sidney Bechet, ma i solisti della famosa formazione “All Stars”, in particolare il pianista Earl Hines.

Intanto avevo cominciato a comperare dischi a Parigi, inviando franchi francesi in una busta a un negozio specializzato, oltre che dando la caccia ai famosi V-Disc realizzati appositamente per le Forze Armate americane.

Grazie a quei dischi imparai a suonare sempre meglio, e diventai un buon pianista jazz. Addirittura vinsi una votazione, per il Piemonte, indetta dalla rivista “Musica Jazz”.

A quel punto ero davvero motivato, e ripresi a studiare seriamente. E tornai dalla mia maestra, che non credeva alle proprie orecchie.

Preparai il quinto anno di pianoforte e diedi l’esame al Conservatorio. Diedi anche l’esame di armonia e cominciai a preparare l’ottavo anno con il Clavicembalo ben temperato, che mi appassionò moltissimo.

Bach lo si capisce a fondo solo se lo si suona, scoprendo le straordinarie architetture delle sue note. Cominciai anche a comporre musiche per documentari: era un’occupazione che mi piaceva molto. PIERO ANGELA

"Mi spiace ma la natura ha i suoi ritmi". Il messaggio postumo di Piero Angela. Le parole di commiato del celebre conduttore televisivo sono state pubblicate su Facebook dalla Rai. Federico Garau il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Con un messaggio postumo, pubblicato su Facebook dalla Rai, Piero Angela ha voluto salutare il pubblico che per tanti anni lo ha seguito con affetto, decretando il grande successo delle trasmissioni televisive di divulgazione scientifica che lo hanno visto protagonista.

Morto Piero Angela

"Cari amici, mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme. Ma anche la natura ha i suoi ritmi", si legge infatti nel post. "Sono stati anni per me molto stimolanti, che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana. Soprattutto ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha aiutato a realizzare quello che ogni uomo vorrebbe scoprire, grazie alla scienza e a un metodo che permette di affrontare i problemi in modo razionale ma al tempo stesso umano", aggiunge il celebre conduttore, il quale ricorda anche i difficili momenti attraversati a causa di avverse condizioni di salute che comunque non gli hanno impedito di concludere i progetti che aveva in cantiere. "Malgrado una lunga malattia sono riuscito a portare a termine tutte le mie trasmissioni e i miei progetti (persino una piccola soddisfazione: un disco di jazz al pianoforte)", racconta ancora al proprio pubblico Piero Angela,"ma anche le sedici puntate dedicate alla scuola sui problemi dell'ambiente e dell'energia".

Nel momento del commiato, un pensiero viene rivolto dal conduttore anche a quanti, col loro prezioso operato, hanno contribuito a realizzare e rendere immortali le trasmissioni andate in onda per anni alla Rai. "È stata un'avventura straordinaria, vissuta intensamente e resa possibile grazie alla collaborazione di un grande gruppo di autori, collaboratori, tecnici e scienziati. A mia volta, ho cercato di raccontare quello che ho imparato", si legge infatti verso la conclusione del messaggio, prima del saluto finale rivolto a tutti i telespettatori. "Carissimi penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese. Un grande abbraccio, Piero Angela". 

"Non fidatevi dei pareri ma soltanto delle prove". Sul tema delle fake news durante la pandemia: "Troppa gente si fa guidare dalle emozioni". Matteo Sacchi il 14 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Ieri l'Istituto superiore di sanità ha pubblicato un vademecum per smentire le fake news sulla vaccinazione anti Covid: dalle sciocchezze sul Dna modificato dai vaccini alle reazioni avverse. È il segno che la comunicazione sul Covid che ha raggiunto molti italiani è stata «inquinata» da false notizie. Abbiamo cercato di capire cosa è andato storto parlando con Piero Angela (12 lauree honoris causa - ammesso che lo scrivente non ne abbia persa per strada qualcuna). Angela è il «papà» della divulgazione scientifica italiana e anche quest'estate è in onda con Superquark, trasmissione che è un caposaldo nel fornire un accesso «facile» ad argomenti complessi.

Angela come mai sul Covid-19 ci sono tanta disinformazione e fake news?

«Se prendiamo in esame la questione in modo generale è da tantissimi anni che l'informazione pseudoscientifica prospera. È proprio per questo che ho contribuito a fondare il Cicap (Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sulle pseudoscienze, ndr). La pandemia rende più evidente il fenomeno ma era già riscontrabile in altri campi: dagli oroscopi alla fede nella telepatia... Molte persone non distinguono ciò che è un'affermazione scientifica da ciò che non lo è».

E con la pandemia?

«Quello che è capitato ha comprensibilmente spaventato. Le informazioni sui rischi, minimi, dei vaccini sono state amplificate dai No Vax e molti, di conseguenza, hanno finito per farsi guidare più dalle emozioni che dalla razionalità. Le informazioni corrette, come quelle del portale dell'Iss si trovano, ma ricordiamoci che a molti a scuola sono state insegnate le materie scientifiche, ma non il metodo scientifico. Non è lo stesso».

La rete è uno strumento formidabile però al suo interno è molto difficile distinguere tra informazione vera e falsa. C'è una qualche ricetta per non farsi accalappiare dalle fake news?

«Prima di Internet l'informazione, anche quella scientifica, era monopolizzata dai giornalisti. Esistevano anche allora riviste che pascolavano nelle pseudoscienze, ma i direttori erano responsabili, rischiavano delle sanzioni. Ora con la rete chiunque può fare informazione, avere la sua radio, fare la sua tv. Il giornalista era perseguibile se violava la deontologia, in questo caso non c'è difesa, è una grande prateria dove la caccia al bisonte è aperta. Alcuni enti scientifici mi hanno consultato su come realizzare dei portali informativi efficaci. Però di norma chi arriva a quelle fonti è già dotato degli strumenti per discernere, ci va chi sta lavorando su una scelta razionale. Il nucleo degli irriducibili della pseudoscienza non ci va, preferiscono le teorie del complotto. E siccome nel mondo a volte qualche malandrino c'è, e anche qualche affarista senza scrupoli, non è difficile capire come sia facile che queste teorie sbagliate possano far presa. Sembrano fare un corretto 2+2. Ma alla prova dei fatti, invece che 4 fanno 5».

Qualche errore di comunicazione però devono averlo fatto anche gli scienziati e i politici...

«Allora, preso atto che per alcuni la pseudoscienza è una religione e non è possibile smuoverli, bisogna invece essere capaci di dialogare con chi è spaventato o ha avuto informazioni errate. Io so che il dialogo paga, funziona. Non si può pensare di irridere o insultare queste persone e ottenere dei risultati. Poi c'è una questione importante quando si parla di scienza...».

Cioè?

«Io uso un piccolo aforisma: La scienza è quello che si sa, non è quello che non si sa. Può far sorridere, ma è importante. La scienza è intersoggettiva, le opinioni non contano. Mi spiego, le opinioni sono utili per fare scienza ma poi vanno dimostrate. I vaccini sono stati sottoposti a trial lunghi e complessi e quello che esce dai trial non è un'opinione. Scienziati e virologi, nei dibattiti a volte sono martellati di domande, dicono anche le loro opinioni. Soprattutto nella fase iniziale della pandemia erano tantissime le cose che non sapevamo e quindi... Le opinioni sono rispettabilissime, ma sono cose diverse dai dati scientifici. La scienza arriva quando le opinioni sono validate. E bisogna insegnare alle persone a vedere la differenza».

Il volto umano della scienza che ha cambiato la televisione e gli italiani. Morto a 93 anni il vero padre della divulgazione. Dalle missioni Apollo sino a "Superquark" il suo scopo è stato rendere semplice il difficile, con classe e ironia. Ha fatto crescere un Paese. Paolo Scotti il 14 Agosto 2022 su Il Giornale.  

È morto a 93 anni Piero Angela, il patriarca della divulgazione italiana. Il 16 agosto, dalle 11,30, sarà allestita in Campidoglio la camera ardente. A seguire è previsto il funerale laico per il grande giornalista e divulgatore scientifico.

Oggi è fin troppo facile vantarsi di quella parola. Oggi più nessuno esita a raccontare il bosone di Higg come fosse una fiction, o la scomparsa del Tirannosaurus Rex quasi si trattasse di un giallo alla Agatha Christie. Oggi fare divulgazione spiegare cioè con parole facili e accattivanti argomenti difficili e (apparentemente) ostici- è diventato un titolo di merito. Ma quarant'anni fa non era così. Allora ci volle il coraggio e il talento di un giornalista della Rai, che inviato ad Houston, Texas, per seguire il programma spaziale Apollo, s'entusiasmò alla soluzione d'un dilemma apparentemente insuperabile: come spiegare a telespettatori di cultura medio-bassa quell'ardua tecnologia, rispettandone l'esattezza ma senza disperderne il fascino? «È cominciato tutto così spiegava lui stesso- Fu allora che capii che rendere facile il difficile, e piacevole l'arido, poteva essere un'avventura entusiasmante». Ecco: questa è stata l'entusiasmante avventura di Piero Angela. Perché se la Rai dei primi vent'anni contribuì all'alfabetizzazione del Paese, quella dei successivi quaranta ha cooperato all'incremento del suo sapere. E se molti italiani il proprio sapere l'hanno aumentato, e prendendoci gusto, nel farlo, lo devono anche a lui. Al più grande, al più amato dei divulgatori tv.

«E pensare che a scuola mi annoiavo a morte», raccontava, dopo aver scritto quaranta libri, ricevuto undici lauree honoris causa, e battezzato un asteroide, il 7197 Piero Angela. Finchè gli capitò fra le mani un libro di scienze: «Scoprii ciò che a scuola non ci dicevano: che bisogna amare le cose, per capirle davvero. Quella fu per me la scoperta di un mondo e, in qualche modo, anche di una vocazione». Anche se, nato a Torino ed educato ad un rigore tutto piemontese dal padre medico Carlo (poi insignito del titolo di «Giusto fra le Nazioni») la sua passione era tutt'altra. «Adoravo la musica jazz. Suonavo al piano nei club della città As time goes by». Quando già celebre giornalista, dopo molte jam sessions con big come Nini Rosso e Franco Cerri, gli chiedevano perché non avesse inciso dei dischi, «Ne feci uno solo, nel 1953 rispondeva, esibendosi al piano a Quark quando si parlava di musica - perché allora ero veramente bravo. Ma oggi».

Il suo destino era un altro. Settant'anni ininterrotti in Rai, dal 1952 al 2022: prima giornalista radiofonico, poi inviato in Iraq e Vietnam, quindi conduttore del primo Telegiornale delle 13,30, fino al debutto come divulgatore nel 1971, con Destinazione uomo. Finchè nel 1981 ecco il programma-simbolo: quel Quark (dal nome della particella subnucleare) che coniugato per decenni in infinite, seguitissime varianti -Superquark, Pillole di Quark, Speciali di Quark- rispettò sempre lo stesso principio. Argomenti alti illustrati con parole semplici. Magari tramite i cartoni animati di Bruno Bozzetto, o la voce di Vittorio Gassman e Gigi Proietti, accompagnando il telespettatore in ogni meandro del sapere: dal DNA ai miti della Storia, fin dentro il corpo umano. Una sola celebrità gli disse no: «Rita Levi Montalcini. Nel '69 le chiesi di spiegare in tre minuti il fattore di crescita nervosa che poi le avrebbe procurato il Nobel. Tre minuti? Scherza? e se ne andò». Semplice, nelle sue parole, perfino la ricetta di una buona divulgazione: «Bisogna mettersi dalla parte degli scienziati per i contenuti, ma da quella del pubblico per il linguaggio. Se un telespettatore non ti capisce la colpa non è sua, ma tua. Poi bisogna evitare di essere noiosi: come fa ad interessarti a qualcosa, se intanto sbadigli? Infine bisogna essere spiritosi. L'umorismo è uno dei compagni di viaggio dell'intelligenza».

Il successo che per decenni ha premiato questa formula con ascolti perennemente alti, ha spesso fatto da alibi alle critiche rivolte a viale Mazzini. Ogni volta che venivano accusati di smarrire il ruolo di servizio pubblico, i direttori di rete tiravano fuori quel nome magico, buono per tutte le stagioni: Piero Angela. Ma lui rifiutava di farsi tirare la giacchetta. Perfino le contese lo vedevano signorile e distaccato: alle polemiche di Alessandro Cecchi Paone (che per anni si ritenne suo misconosciuto avversario) non replicò mai. Del resto, con la parziale eccezione del figlio Alberto («Non volevo che lavorasse con me, Sei matto? Mi accuseranno di nepotismo!. Ma come narratore è migliore di me») è stato un maestro, senza però creare una scuola. Decine di tentativi d'imitazione, più o meno riusciti, non hanno fatto che ribadirne l'unicità. Che lui, con umiltà, commentava: «Sono orgoglioso di un premio ricevuto dall'ordine dei giornalisti. E della sua motivazione: Per aver onorato il nostro mestiere». 

Il nonno moderno che spiegava tutto. Ieri è morto Piero Angela, mio nonno, vostro nonno, il nonno di noi tutti, anche se poi del nonno non aveva niente, era il più giovane e il più moderno di tutti noi. Massimiliano Parente il 14 Agosto 2022 su Il Giornale.

Ieri è morto Piero Angela, mio nonno, vostro nonno, il nonno di noi tutti, anche se poi del nonno non aveva niente, era il più giovane e il più moderno di tutti noi. Ha passato una vita a divulgare la scienza, sulla Rai, il più bravo, il più suadente, il più dolce: è riuscito a rendere pop l'astrofisica, i buchi neri, la relatività di Einstein, l'evoluzionismo di Darwin, la biologia molecolare, tutto, ma non solo. È stato tra i fondatari del Cicap, il Comitato italiano per il controllo delle affermazioni sul paranormale, un'organizzazione che ha sbugiardato tanti cialtroni (anche grazie all'aiuto del mio amico Silvan, anche lui membro del Cicap), da chiromanti a mentalisti a piegatori di cucchiaini con la forza della mente. So che tutti voi sarete dispiaciuti per la morte di Piero, io ne sono addolorato come se fosse un mio familiare (anzi di più, ci sono familiari di cui non me ne importa niente), ma c'è una cosa che bisogna dire: è riuscito a avere un grande successo popolare con un'operazione di assoluto insuccesso. Perché non siamo un Paese scientifico, e forse nessun Paese lo è. Come dice il neuroscienziato Giorgio Vallortigara, Homo sapiens è un animale nato per credere. Era amatissimo, Piero, ma da quanti veramente capito? Lo abbiamo visto con il Covid e con i vaccini, con il seguito che ha avuto la propaganda antiscientifica, i no-vax, e in genere in Italia tutto ciò che si mette contro la comunità scientifica. Piero, il più grande divulgatore di scienza italiano, probabilmente uno dei più grandi al mondo, era così affabile da riuscire a farsi seguire anche sulle cose più terribili, come i quark, gli atomi, le cellule, l'intero universo. Amava la scienza a tal punto da farla diventare uno spettacolo, ma senza mai urtare la sensibilità del pubblico, perché il pubblico non vuole sapere la verità, vuole essere consolato. Piero ha raccontato, con l'ausilio di scienziati divulgatori (tra cui ricordo Nanni Bignami) il mondo in cui siamo, rispettando le credenze di ognuno, senza mai prevaricare nessuno, ma senza mai, neppure, nascondere la verità. Questo solo pochi possono farlo. Nel ricordarlo, oggi, vi prego solo di una cosa: non dite che Piero riposa in pace, che è andato in cielo. Offendereste quello che lui, gentilmente, ha fatto per noi tutti. Gustave Flaubert ha dato la definizione più bella e precisa e tragica della morte, in Madame Bovary, proprio quando muore Emma: «Elle n'existait plus». Piero non esiste più. È per questo che soffriamo.

Il logo del Pd sulla foto di Piero Angela: la figuraccia dem. Marco Leardi il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.

Sui social di un consigliere regionale dem, il volto del compianto Piero Angela era stato affiancato al simbolo del Pd. Scatta la figuraccia, poi il post viene rimosso e sostituito.

Dalle parti del Pd devono essersi accorti della figuraccia, del gesto di pessimo gusto compiuto nell'ora del cordoglio. Meglio tardi che mai. Così, l'imbarazzante "fotomontaggio" è stato rimosso in fretta e furia. Nelle ore in cui l'Italia apprendeva la triste notizia della scomparsa di Piero Angela, tra i dem c'era chi si apprestava a ricordare il popolare divulgatore scientifico in modo a dir poco discutibile. Al riguardo, ha suscitato un certo fastidio il post pubblicato da un esponente piemontese del Partito Democratico nel quale il volto dell'amato conduttore tv veniva accostato al simbolo del suddetto partito.

L'immagine, in particolare, è comparsa sul profilo del consigliere regionale Pd in Piemonte, Raffaele Gallo. "È scomparso all'età di 93 anni Piero Angela, padre della divulgazione scientifica in Italia...", aveva scritto l'esponente dem, offrendo il proprio ricordo del noto giornalista torinese nato nel 1928. E fin qui, nulla di strano. Peccato però che, a margine di quelle parole, il politico piemontese avesse postato un'immagine del compianto conduttore di SuperQuark affiancata da un simbolo Pd. Una mossa quantomeno controversa che infatti ha attirato attenzioni e critiche. Del resto, che c'entrava il riferimento politico in quella circostanza?

"Utilizzare il nome di Piero Angela appena deceduto, per metterci il simbolo del Pd accanto è qualcosa di indegno e vergognoso. Lo schifo non ha mai fine", ha commentato sui social un utente, Tommaso, postando proprio un fermoimmagine del discutibile post. "Vero. Il Pd deve farlo togliere. Subito", aggiungeva un'altra commentatrice. E invece, in un primo momento, l'account del Partito Democratico del Piemonte non solo non aveva preso le distanze da quel contenuto ma lo aveva addirittura rilanciato, come se nulla fosse.

Qualcuno deve essersi reso conto del fatto che quell'immagine, però, risultasse distubante alla sola vista. E infatti, nel giro di un paio d'ore, il post incriminato è scomparso sia dalla bacheca del consigliere Gallo, sia da quella del Pd. L'esponente dem avrebbe poi pubblicato un nuovo ricordo del conduttore accompagnato dalla medesima fotografia, ma senza più il logo di partito. Dietrofront necessario e saggio. Ma la figuraccia, ormai, era stata fatta.

"Macché scienza, il mio sogno era il jazz". Piero Angela, scomparso oggi a 93 anni, rivelò per la prima volta in questa intervista del 2001 la sua grande passione per la musica jazz. Paolo Giordano il 13 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Ripubblichiamo l'intervista che Piero Angela, scomparso oggi a 93 anni, rilasciò a Paolo Giordano nel 2001. Qui per la prima volta il celebre divulgatore scientifico parlò della sua grande passione per la musica jazz. Fino ad allora Piero Angela non aveva mai rivelato questo aspetto della sua vita.

Niente da fare: lo riconosci al volo, appena filtrato dal telefono. Piero Angela parla d’un soffio, seguirlo è un incanto, ad anticiparlo neppure provi. Più che parole, le sue sono lancette: saltano sempre in avanti, lievi lievi, s’acquetano appena ed ecco spiegati i perché e i percome. Proprio come a Quark, sembra di essere davvero in onda: tempo un istante e si rimane a bocca aperta. Accadrà anche ora, vedrete. Il quark di Piero Angela, la particella infinitesimale nell’infinito dei suoi interessi è il jazz. 

Proprio così, vien da stupirsi: le partiture senza catenacci, lo stile libero dell’invenzione sono il suo cromosoma musicale, le suona e se le tiene nell’animo da mezzo secolo o giù di lì. A mezza voce, però, senza calcare mai i toni. E non lo farà neppure a marzo, quando presenterà - pensate un po’ - l’Eurojazz Festival di Ivrea, programma ancora da definire ma qualità garantita, visto che da due decenni è un’adunata di lusso per intenditori. Che anche questa volta s’aggiusteranno lo spirito inseguendo concerti e assoli, ma prenderanno pure appunti molto speciali. Oltre a introdurre lo spettacolo, Piero Angela, torinese del Ventotto, dottore quattro volte honoris causa per meriti scientifici, terrà anche un seminario sull’improvvisazione jazz e immaginatelo a spiegarsi lieve, senza deragliare mai nelle esagerazioni. Cioè swingando con i concetti, magari inalberandosi di entusiasmo ma lasciando alle parole soltanto lo spartito inflessibile della tecnica. 

Allora, è proprio una sorpresa: lei su di un palco jazz.

«Me lo hanno chiesto il direttore artistico Sergio Ramella e Gianni Basso, amico e sassofonista squisito: ho accettato con un po’ di fatica. O meglio: di resistenza». 

C’è da capirlo: impegni tivù?

«Macché, non ho mai voluto rendere troppo pubblico questo lato della mia vita, anche se, qualche volta, alla fine mi lascio andare. Difficile

resistere». 

A che cosa?

«Alla passione, il jazz è la mia passione sin da ragazzo». 

Immediato dopoguerra, allora, tempo di Glenn Miller e delle big bands americane.

«Appunto. Ma qui c’era poco da ascoltare, perciò compravo dischi per corrispondenza in un negozio di Parigi. Mi arrivavano a pacchi e li

ascoltavo con gli amici. Era emozionante, c’era un’energia incredibile». 

Che si fermava solo sul giradischi?

«No, suonavamo anche molto tra di noi. Avevo un trio: io al pianoforte più un basso e una batteria. Ma è accaduto decenni fa». 

E ora?

«Penso sempre di ritrovarmi con qualcuno davanti agli strumenti, ma poi tutto rimane una fantasia. E dire che il jazz è fondamentale per crescere,

un buon maestro di vita. Infatti, da ragazzo, avevo voglia di emulare i maestri che ascoltavo sul vinile». 

Risultati?

«Lo confesso: ho acquisito una tecnica sorprendente». 

Da autodidatta?

«Non proprio. Avevo già studiato al Conservatorio. Ma l’insegnamento spesso scoraggia i giovani e così è accaduto anche a me. Bisognerebbe distinguere tra chi vuole fare il concertista e chi vuole solo divertirsi». 

Lei?

«La seconda ipotesi: perciò allora, quando ero un ragazzino, smisi di studiare. Ma in casa rimase il pianoforte, l’ho rispolverato solo qualche anno dopo, quando dalla Francia iniziarono ad arrivarmi i pacchi con i dischi del grande Benny Goodman, di Gene Krupa e Lionel Hampton. Tempo dopo sono tornato dalla mia professoressa: è rimasta a bocca aperta, suonavo in modo diverso da prima. E meglio, molto meglio». 

Perché non continuare, allora?

«L’ho fatto». 

Da professionista, s’intende.

«La mia vita ha preso altre strade. Per tredici anni, dal 1955 al 1968 sono stato corrispondente per la Rai da Bruxelles e poi da Parigi: ho perso tutti i contatti con l’ambiente». 

Ma non la passione.

«Se qualcosa non gira, metto su un disco e inizio a suonare seguendo la musica». 

Pianista preferito?

«Oscar Peterson. Ho avuto la fortuna di conoscerlo: gli ho stretto quella enorme mano. Una vera emozione».

Piero Angela, la donna nell'ombra: chi è Margherita. Libero Quotidiano il 13 agosto 2022

Piero Angela è morto a 93 anni. A dare il triste annuncio il figlio Alberto. Ma lui non è l'unico a piangere l'addio del divulgatore scientifico che lascia anche la signora Margherita Pastore. La moglie con la quale ha condiviso oltre 60 anni della sua vita. La loro storia è stata da sempre lontana dalle telecamere, riservata. "È stata la prima volta che ho avuto la scossa elettromagnetica – aveva detto tempo fa Angela parlando del primo incontro con la moglie -. Ho avuto un colpo di fulmine, ma è accaduto in un’epoca nella quale ci si dava ancora del lei. L’ho conosciuta alla festa di un’amica, lei aveva 18 anni e io 24, mi sono messo a suonare il pianoforte e ci siamo innamorati".

La coppia è convolata a nozze nel 1955, lei lo seguì a Parigi quando Piero ottenne l'incarico di corrispondente per il telegiornale. Dalla loro storia sono nati Alberto e Christine. Margherita per loro ha scelto di rinunciare alla carriera di ballerina. 

Alberto ha poi deciso di seguire le orme del padre: "Siamo padre e figlio ma anche due colleghi - aveva detto -. Io ho imparato da lui la grande professionalità, grande lavoro e mettere le cose in maniera molto naturale". Una famiglia unitissima la loro e che in queste ore si stringe nel dolore. 

Piero Angela, la rivelazione di Corrado Augias: "Cosa mi ha detto in Rai". Libero Quotidiano il 14 agosto 2022.

Corrado Augias racconta Piero Angela. Il giornalista e conduttore Rai ha voluto ricordare "l'amico Piero" scomparso oggi all'età di 93 anni. Il divulgatore scientifico aveva un sacco di amici fraterni tra i corridoi di viale Mazzini ed è con loro che si confidava o che si lasciava andare a un momento di pausa e relax tra una puntata e un'altra di Superquark.

Così lo stesso Augias ha voluto ricordare Piero Angela svelando un retroscena su queste ultimi mesi che hanno preceduto la morte del conduttore di Superquark: "Ancora poche settimane fa a viale Mazzini - racconta infatti Augias all’AdnKronos - mi parlava dei suoi futuri progetti. Questo è il segreto: ad ogni età, dai 18 anni ai 100, guardare sempre avanti, pensare sempre a quello che si può fare e mai guardare indietro con rimpianto, con nostalgia o con soddisfazione. Questo era il suo segreto, il segreto della sua vitalità". Insomma nei corridoi di viale Mazzini Piero Angela pensava ancora al futuro, alla vita, a quella vita che oggi non c'è più.

Un modo di fare unico che ha accompagnato tutta la sua vita scandita da una continua scoperta su tutti i campi della conoscenza. Un vero esempio per milioni di ragazzi e studenti che hanno seguito le sue trasmissioni segnate da quel modo gentile che lo ha accompagnato fino alla fine.  

Piero Angela, una confessione privatissima. "Solo tre minuti?", chi è la donna che lo ha umiliato. Libero Quotidiano il 31 dicembre 2021

Piero Angela, 93 anni, icona della Rai e padre della divulgazione scientifica, si confessa in una intervista a Gente e racconta un aneddoto molto divertente: "Con gli anni io e Rita Levi-Montalcini diventammo amici. Ma la prima volta che ci incontrammo, lei ricercatrice non ancora famosa, mi trattò malissimo: le dissi che stavo facendo un documentario e che avrei dedicato tre minuti alle sue scoperte sul fattore di crescita nervoso. Mi gelò con lo sguardo, severa: 'Solo tre minuti?'. Poi ne ridemmo molto".

Quindi il giornalista parla della "non scienza" e dei "no vax". "Sono fasi. Gli scettici della scienza sono sempre esistiti. Nel 1978 feci uno speciale sulla parapsicologia, sulle pseudoscienze, sulle sette che inducevano i suicidi di gruppo. Ci lavorai un anno. Alcuni hanno bisogno di credere in queste cose", osserva Piero Angela.

E sono convinti che le loro teorie abbiano la stessa dignità della scienza. "Se le cose non possono essere provate secondo le regole della scienza, come la intendiamo da Galileo in poi, allora non sono scientifiche. Una volta venni citato in giudizio perché in un servizio smontai l’omeopatia senza invitare omeopati a parlarne. Spiegai ai giudici che non potevano avere diritto di parola, non essendo la cosa provata scientificamente. Mi sostennero molti premi Nobel, tra cui anche Rita Levi-Montalcini. Vinsi la causa".

Quando Piero Angela difese Tortora: «E se Enzo fosse innocente?» Il giornalista torinese e lo storico conduttore di Portobello erano amici da 30 anni, prima che la magistratura italiana compiesse uno degli errori giudiziari più eclatanti della storia del nostro Paese. Antonio Alizzi su Il Dubbio il 13 agosto 2022.

Nel 1983 la magistratura italiana compie uno dei più grandi errori giudiziari del nostro Paese. L’arresto di Enzo Tortora, storico conduttore di Portobello, scuote l’Italia. Ma c’è una persona in particolare, già nota all’epoca, che a pochi giorni di distanza di quel maledetto 17 giugno 1983, va in televisione, con il volto sorridente, e dimostra tutta la sua amicizia verso un uomo che in quel momento si trovava dietro le sbarre. “E se Enzo Tortora fosse innocente?”. Se lo domandò proprio lui: Piero Angela.

La sua morte lascia un vuoto incolmabile, essendo il più grande divulgatore scientifico di tutti i tempi. Piero Angela ha avuto la capacità di far appassionare la stragrande maggioranza degli italiani alla scienza. E quel 1983 segna un punto di non ritorno per tutti. Anche per lui.

Piero Angela nel giugno del 1983 è ospite in una trasmissione televisiva. E pronuncia queste parole: «Caro Enzo, so che ci stai ascoltando, che non è un caso se siamo amici da 30 anni. Non è un caso perché al di là delle cose che ci uniscono, ci sono altre cose. C’è un’indipendenza che ognuno di noi ha, c’è una libertà a cui ognuno di noi tiene moltissimo, e c’è un’onestà professionale e nella vita. Evidentemente queste cose le possiamo dire noi che siamo tuoi amici, però devo dire che ho riscontrato una cosa che mi ha fatto molto piacere. Quando abbiamo preparato una lettura che è stata pubblicata da Repubblica, che era un appello “E se Tortora fosse innocente”, che voleva rispondere a tutte le insinuazioni a senso unico che erano uscite nei giorni successivi al tuo arresto, ebbene abbiamo trovato una disponibilità entusiastica da parte di persone che non ti conoscevano, come ti conosciamo noi che siamo tuoi amici, ma non solo nei tuoi confronti, e si erano posti la domanda “se accadesse anche a noi?”»,

«C’è una carcerazione preventiva che ci impedisce di difenderci. E allora io voglio leggere alcuni nomi che hanno sottoscritto l’appello in tuo favore, come Domenico Bartoli. Difficoltà finanziaria? Nessuna difficoltà finanziaria. Oppure può diventare uno spacciatore di droga chi ne consuma, ma lo sappiamo tutti che tu sei stato un pantofolaio, non sa ballare, non è mai andato in un night club. Ricordo quando sbadigliava e ci lasciava lì, e ho protestato alcune volte. Per scusarsi venne a casa mia, in doppio petto e sotto aveva la vestaglia. E questo sarebbe l’uomo introdotto nella malavita?». Era il 1983, e Piero Angela lo aveva capito prima dei magistrati. 

“Super Quark” stasera senza interruzioni: così la Rai ricorda Piero Angela. Il Dubbio il 13 agosto 2022.

cambio di programmazione stasera su Rai 1 che trasmetterà, senza alcuna interruzione pubblicitaria, una nuova puntata di “Super Quark”, alle 21.25, al posto dell'annunciato "The Voice Senior"

Per ricordare la scomparsa di Piero Angela cambio di programmazione stasera su Rai 1 che trasmetterà, senza alcuna interruzione pubblicitaria, una nuova puntata di “Super Quark”, alle 21.25, al posto dell’annunciato “The Voice Senior“.

Piero Angela su Rai Uno: cosa prevede il programma

Si apre con il backstage della serie della Bbc dedicata al gioco della seduzione nel mondo animale, il nuovo appuntamento con “Super Quark”, in onda mercoledì 17 agosto alle 21.25 su Rai 1. Girare in natura non è facile. E le cose si complicano ulteriormente se si vuole riprendere un corteggiamento. Bisogna appostarsi per ore, giorni o settimane per cogliere il momento giusto. E le condizioni sono sempre disagevoli.

Le immagini mostreranno i documentaristi sotto le piogge torrenziali, di notte, divorati dalle zanzare o in mezzo ai salmoni dovendo stare attenti agli orsi. E’ un doveroso omaggio a chi non solo realizza filmati unici, ma permette di conoscere meglio la Natura, per contribuire a salvarla. Nel servizio di Barbara Bernardini, invece, il racconto di una ragazza guarita da una malattia del fegato grazie alla terapia genica. Obiettivo, inoltre, sui rifiuti organici e i residui agricoli, fra i più difficili da smaltire.

Ambiente, il capitolo rifiuti: cosa seguiva Piero Angela

In Italia alcuni impianti all’avanguardia dimostrano come sia possibile gestire lo smaltimento nel rispetto dell’ambiente e trasformare questi rifiuti in nuove materie da reimmettere sul mercato. Si torna a parlare di salute con un misterioso morbo che dalla fine del 1400 semina la morte fra gli inglesi, è il “sudore inglese”. Barbara Gallavotti con Rossella Li Vigni spiega a cosa si pensa fosse dovuto, e perché ancora oggi interessa molto. E ancora, nel servizio di Barbara Gallavotti e Cristina Scardovi si parla di toxoplasmosi, una delle infezioni più diffuse della quale non si conoscono del tutto gli effetti.

Alcuni ricercatori dell’Università di Zurigo hanno trovato il modo di fermare il microbo responsabile con un vaccino destinato ai gatti. Più piccoli, più sicuri e più economici, Giovanni Carrada con Gianpiero Orsingher è andato a vedere a che punto è lo sviluppo della nuova generazione di reattori nucleari che potrebbero aiutare la transizione energetica.

Gli ospiti di Piero Angela nelle rubriche

Tanti gli ospiti di Piero Angela per le rubriche. Per “Scienza in cucina” la dottoressa Elisabetta Bernardi parla di agricoltura verticale con Daniela Franco; per “Dietro le quinte della storia” il professor Alessandro Barbero racconta del blackout di New York del 1977; per “Psicologia di una bufala” Massimo Polidoro parlerà dei complottisti.

Piero Angela sarà anche in seconda serata con “Super Quark Natura”, “I segreti della sopravvivenza”, saranno il tema del quarto episodio completo della serie Bbc, dedicata alla Terra e ai suoi abitanti.

L'icona della televisione aveva 93 anni. È morto Piero Angela, addio al divulgatore scientifico più amato dagli italiani. Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Agosto 2022. 

Quella scocciatura, come l’aveva definita in un’intervista a Il Corriere della Sera, quella scocciatura della morte lo ha raggiunto alla fine la notte scorsa, a Roma. Aveva 93 anni Piero Angela, un’icona già in vita, volto indimenticabile e familiare per tutte le famiglie, genitori e figli e nipoti, era il divulgatore scientifico più amato dagli italiani. Con i suoi programmi ha fatto la storia della tv, segnato un’epoca, lavorato instancabilmente, sempre con precisione e classe. Un uomo di altri tempi, un professionista appassionato che nel suo ultimo saluto ai telespettatori aveva dedicato un pensiero a “questo nostro difficile Paese”.

A dare la notizia della morte il figlio Alberto, anche lui divulgatore scientifico, archeologo, anche lui volto ormai familiare per gli italiani. Erede naturale, in tutto. “Buon viaggio papà”, ha scritto su Twitter. Piero Angela lascia i due figli, la moglie Margherita Pastore e i nipoti Riccardo, Edoardo, Simone e due Alessandro. Era nato a Torino nel dicembre 1928, padre psichiatra antifascista (tra i “Giusti delle nazioni” per aver salvato alcuni ebrei), alla Rai dal 1952. Ha lavorato ininterrottamente per il servizio pubblico per 70 anni, non risparmiando critiche al colosso di viale Mazzini.

Ha scritto libri, saggista, condotto trasmissioni, ideato format rimasti nell’immaginario collettivo e durati per anni. Corrispondente del Telegiornale dal 1955 al 1968. A Parigi e a Bruxelles. Proprio in Francia nacque nel 1962 il primo figlio, Alberto, avuto con la moglie Margherita Pastore. Una storia d’amore lunga 65 anni: lui che al primo incontro a una festa a casa di amici si mise al pianoforte tanto per dare un altro tocco di eleganza a quel colpo di fulmine, lei che lasciò un futuro promettente da ballerina della Scala per seguirlo. Dopo Alberto la seconda figlia Christine.

Piero Angela ha seguito nel luglio del 1969 il lancio dell’Apollo 11 da Cape Canaveral, negli Stati Uniti. A partire dal 1981 la rubrica Quark: prima trasmissione televisiva italiana di divulgazione scientifica rivolta al pubblico generalista. È solo il primo capitolo di un filone che si sarebbe rinnovato ed evoluto Il mondo di Quark, Quark Economia, Quark Europa, SuperQuark.

“Il mio linguaggio sta dalla parte del pubblico, i contenuti dalla parte degli scienziati”, disse spiegando la sua scommessa vinta nonostante lo scetticismo dei vertici Rai. Diceva di essere felice soprattutto di aver inciso nella formazione dei ragazzi, di averli appassionati e incuriositi, sia con le visite nelle scuole che con i suoi programmi. Nei giorni scorsi il decano della Rai, aveva voluto lasciare al sito Internet del suo programma SuperQuark un ultimo messaggio di saluto ai telespettatori.

“Cari amici, mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme. Ma anche la natura ha i suoi ritmi – aveva detto nel suo messaggio sui social – Malgrado una lunga malattia sono riuscito a portare a termine tutte le mie trasmissioni. Carissimi tutti, penso di aver fatto la mia parte. Cercate di fare anche voi la vostra per questo nostro difficile Paese“. Un ultimo tocco di classe e coscienza civile.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L'incontro e il matrimonio. Chi è la moglie di Piero Angela, la storia d’amore con Margherita Pastore lunga 65 anni e i figli Alberto e Christine. Vito Califano su Il Riformista il 13 Agosto 2022 

Una lunga storia d’amore: lunga 65 anni. Piero Angela e Margherita Pastore, una coppia d’altri tempi, eleganza e romanticismo, un amore da altri tempi. Lei che ballava alla Scala, lui che al primo incontro suona il pianoforte per lei e scatta qualcosa. È morto oggi, a 93 anni, il divulgatore scientifico più amato dagli italiani che con la moglie ha avuto due figli.

Si erano conosciuto alla festa di un’amica in comune. Lui aveva 24 anni, lei 18. Scena da commedia. Piero Angela si mise al pianoforte, suonò qualcosa. “Ho avuto un colpo di fulmine ma è accaduto in un’epoca nella quale ci si dava ancora del lei. L’ho conosciuta alla festa di un’amica, lei aveva 18 anni e io 24, mi sono messo a suonare il pianoforte e ci siamo innamorati”, aveva raccontato lui in un’intervista ad AdnKronos.

Margherita Pastore era una giovane promessa della danza classica, era una ballerina alla Scala di Milano. “Ma ho ancora un senso di colpa – disse sempre nella stessa intervista Angela – per avere interrotto, per seguirmi, la sua carriera nel mondo della musica, nel quale era una giovane promessa, però lei mi ha sempre detto di essere stata felice. Ancora oggi abbiamo, l’uno verso l’altra, molto amore e rispetto e tolleranza”.

I due si sono sposati nel 1955. Lei lo seguì a Parigi, quando lui divenne corrispondente per il telegiornale. Alberto Angela, il primo figlio, nacque proprio in Francia, nel 1962. Anni dopo la seconda figlia, Christine. Pastore è sempre stata molto riservata, restia ad apparire in pubblico. È stata per lui stimolo a costanza, come aveva raccontato in un’intervista a Oggi. “Mia moglie mi ha aiutato molto. È più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Mi ha seguito in tutte le mie peregrinazioni. Ha tirato su due figli magnifici”.

Angela nella stessa intervista raccontò di non aver mai detto ti amo alla moglie. “Sono piemontese, anche se levigato da anni all’estero e a Roma. Nel nostro dialetto non esiste il verbo “amare”: usiamo il più contegnoso vorej bin, voler bene. E non esiste neppure la parola bacio: diciamo basin, bacino. Se vale, se questo mi ‘salva’, le ho detto tante volte: T’veuj bin, ti voglio bene”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Piero Angela preso di mira dai No Green Pass: gli insulti sui social network. Chiara Nava il 14/08/2022 su Notizie.it.

Sui social network sono comparsi moltissimi insulti nei confronti di Piero Angela, da parte di Radio Greg e di alcuni No Green Pass.

Sui social network sono comparsi moltissimi insulti nei confronti di Piero Angela, da parte di Radio Greg e di alcuni No Green Pass, per alcune dichiarazioni che il divulgatore scientifico aveva fatto durante gli anni di pandemia.

Piero Angela nel mirino: gli insulti di Radio Greg

Gaston Zama, inviato de Le Iene, ha recuperato un videomessaggio delirante di Luca Gregis, rivenditore di auto che vive a Tenerife, che esprime numerose teorie complottiste su Telegram, sulla sua Radio Greg. “Ci sono quei sabati che iniziano meglio di altri sabati. Se n’è andato un divulgatore scientifico, ma poi soprattutto, chi ca**o è un divulgatore scientifico? 93 anni spesi nella corruzione, nella falsità, nell’ipocrisia, a fare il servo per pochi croccantini.

93 anni, troppi anni, troppi danni, ma se n’è andato. Questo sicuramente sarà un sabato migliore. Aspettiamo gli altri, buon weekend” sono state le sue parole. Gli utenti di Radio Greg hanno subito risposto, unendosi alle sue parole. Piero Angela è stato preso di mira per le sue posizioni sul Covid e sui vaccini.

I No Green Pass contro Piero Angela

“Se è pur vero che la morte livella tutto e bisogna portare sempre rispetto ad un’anima che se ne va, bisogna anche dire che di certi personaggi non sentiremo la mancanza, anzi.

In vita è stato un essere spregevole come il suo collega del CICAP, Cecchi Pavone. È stato il promotore e lo sponsor dell’azione più infame di schiavitù mentale con azioni finanziate dai soliti apparati demoniaci d’oltre oceano volte a insegnare e divulgare operazioni di debunking come la verità sull’omicidio di JFK fino al discorso di genocidio vaccinale. Un’anima dannata in terra che spero possa capire nell’al di là tutto il male fatto in vita..che Dio ti possa perdonare..

” si legge sui social network, dove è stato condiviso l’articolo in cui Piero Angela aveva dichiarato di aver dovuto urlare per farsi controllare il Green Pass al ristorante. 

I commenti degli utenti

I commenti pubblicati dagli utenti sono davvero terribili. Insulti, minacce e festeggiamenti per la morte di Piero Angela. “Ed ora il green pass se lo porterà all’aldila’, magari lo faranno entrare in Purgatorio almeno. vabbè…stendiamo un velo pietoso…chissà che non sia stata proprio la sua ‘scienzah’ a portarselo via ORA, come molti… che Dio lo perdoni davvero!” ha scritto un utente. “Ma dai, tutto questo buonismo sull’anima! spero vada nel girone dell’inferno che gli spetti!” ha scritto un altro utente. “Post duro, ne sto leggendo tanti così, non era sicuramente una brava persona. È un po’ come se morisse Soros, di certo non leggeremmo post belli su di lui. Piero Angela era un collaborazionista del Sistema, il suo scopo era divulgare verità accettate come ‘ufficiali’ tramite programmi pseudo-scientifici. A proposito, per anni ci hanno fatto credere che fosse uno scienziato, invece era un semplice conduttore televisivo, non aveva fatto studi scientifici” è un altro commento su Facebook.

Su Telegram si è scatenata una violenza verbale davvero incredibile contro Piero Angela. “Siero Angela caput” scrivono, esultando per la sua morte. “Adesso urlerai all’inferno ma non ti sentirà nessuno” ha scritto un utente. “Cosa dire di questo essere. Non esiste parola per poterlo offendere e definirlo come si deve. Brucia nell’inferno eterno. Amen” ha scritto un altro utente. “Neanche Caronte ti chiederà il tuo grinc** di me**a” si legge. Alcuni lo hanno definito “nazista“, altri “assassino“, altri ancora hanno scritto insulti davvero molto pesanti. “Il mondo è più pulito oggi” si legge. “Lui era un virus” hanno scritto. La morte di Piero Angela ha scatenato tutte quelle persone che sui social network danno libero sfogo alla parte peggiore di loro.

Ida Di Grazia per leggo.it il 16 agosto 2022.  

Sono tantissimi, romani e non, in fila verso il Campidoglio a rendere omaggio a Piero Angela scomparso lo scorso 13 agosto a 93 anni. Il feretro è stato portato nella sala della Prodomoteca dove c'era a moglie Margherita Pastore e i figli Christine e Alberto, che ha tenuto un discorso molto commovente . tra i presenti vertici Rai e il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Questa sera alle 19 la cerimonia laica.

12.35 La diretta del funerale di Piero Angela termina qui, mentre proseguo l'omaggio da parte di cittadini comuni e di vip al Campidoglio. 

12.23 Renzo Arbore: «Abbiamo suonato varie volte con Piero, ma quella con Lucio Dalla sta spopolando nella rete. Piero l'ha amata moltissimo questa azienda come l'ho amato io. 

Quando facevo l'atra domenica ed eravamo nel tg2 di Barbato, dove Piero Angela era l'ancorman si personalizzava il tg. Per la prima volta c'era un contatto diretto con il pubblico, stavamo sempre insieme perchè l'altra domenica era combinata con sport e spettacolo e facevamo comunella e si parlava molto di Jazz, musica e America. Piero aveva scritto "barba, capelli e baffi" che io gli cantavo spesso. Che aveva fatto questa canzone swing»

12.20 Entrato il segretario del Pd Enrico Letta 

12.07 Tra i volti noti arrivati ad omaggiare Piero Angela in Campidoglio arriva Renzo Arbore 

11.58 Il ricordo di Vincenzo Mollica «E' stato uno dei pochi che si è battuto, insieme a Biagi per l'innocenza di Tortora» 

11.40 Le parole del sindaco di Roma Roberto Gualtieri: «Lascia un'eredità straordinaria. Ha fatto conoscere la scienza e il valore scientifico a milioni di italiani.

Roma gli è grata, ha spiegato in modo dolce e gentile la conoscenza. Bellissimo il suo messaggio: "C'è da unire il Paese rimanendo fermi sulle proprie convinzioni". Un torinese ma anche romano d'adozione, una persona che da Roma ha parlato a tutta l'Italia. In questi giorni sto vedendo che i romani sentono tantissimo l'affetto per Piero Angela, è stato qualcosa di più di un giornalista e di un divulgatore, un grande intellettuale». 

11.28 Lunghissimo appaluso dei presenti e tanta commozione 

Piero Angela, al funerale il discorso commovente del figlio Alberto: «Mi ha insegnato a non aver paura della morte»

11.27 Un racconto quello di Alberto Angela di figlio e collega molto toccante 

11.17 Il discorso del figlio Alberto Angela visibilmente commosso: «Grazie per essere venuti, voi che siete qui, qui è a casa, i media la stampa, da collega vi dico avete fatto un lavoro molto corretto e professionale.

Non è facile per me fare questo discorso, di solito vado a braccio, ma spero mi capirete. Le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci, però accade. Vorrei partire dall'ultima cosa che ha fatto papà, quello è stato l'ultimo discorso con poche forse mia sorella e io lo abbiamo raccolto e trascritto, è un discorso non ufficiale è come un discorso a fine serata agli amici.. 

C'è molto affetto e molto amore nei confronti di tutti. E' riuscito a unire e non dividere tutti. Il suo stile e il suo tatto lo conoscete tutti. La cosa bella che ci ha colpito è il ritorno sotto forma di messaggi, di articoli. Questi giorni per me è stata una tempesta, ma se ne esce. Erano messaggi non di sofferenza, ma di amore, di sentimento, il sentimento è qualcosa che rimane e si trasforma in valore e questo rimane, e credo sia il miglio vestito per papà. 

L'ultimo insegnamento me lo ha fatto non con le parole ma con l'esempio, in questi ultimi giorni mi ha insegnato a non aver paura della morte, non l'ho mai visto in mezzo allo sconforto, alla tristezza al dolore. quando abbiamo fatto lo speciale sullo sbarco sulla luna di 50 anni fa, aveva una quantità di esperienza, una vita riempita, ed è per quello che lui se ne sia andato soddisfatto.

Ha attraversato questo ultimo periodo con i piedi per terra, con grande razionalità, quando ha saputo il tempo che gi rimaneva ha fatto un calcolo a spanne e ha registrato le puntate di SuperQuark che andranno in onda nei prossimi giorni, ha registrato un disco e dopo aver scritto quel post è andato via. Non ho mai visto una cosa del genere. Ho avuto la sensazione di avere Leonardo Da Vinci in casa, aveva sempre la risposta giusta, lui amava questo aforisma " 

Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire". Riempire la vita è un insegnamento per tutti. Continuerà a vivere in tutti quei ragazzi che cercano l'eccellenza, nei ricercatori che cercano di andare a meta nonostante tutte le difficoltà, in tutte le persone che cercano di unire e non di disunire, nelle persone che cercano la curiosità e le bellezze della natura, quelle che cercano di assaporare la vita. L'eredità che ci lascia è importante, non è un'eredità fisica ma di atteggiamento della vita. Concludo come ha detto lui "fate la vostra parte", anche io cercherò di fare la mia. Grazie». Messaggio commovente 

11.15 Iniziato in questo momento lo speciale del Tg1. Alberto Angela commosso sta per prendere la parola

10.50 Si è già creata una lunga fila di persone "comuni" in piazza del Campidoglio  La coda per accedere alla camera ardente, allestita nella Sala della Protomoteca, parte dai piedi della scalinata che porta al Portico del Vignola e gira tutto intorno a Palazzo Senatorio. L'accesso al pubblico sarà consentito a partire dalle 11.30 e fino alle 19 

10.48 Tra i primi volti noti a rendere omaggio al feretro: Antonio Di Bella, direttore del genere approfondimento in Rai e Simona Agnes, membro del CdA dell'azienda e l'Ad Carlo Fuortes 

10.40 Prima dell'apertura al pubblico per l'ultimo saluto a Piero Angela nella Sala della Protomoteca del Campidoglio di Roma è in corso una cerimonia privata per familiari, amici e colleghi

Accolto dai familiari - la moglie, Margherita Pastore e i figli, Alberto e Christine, e i nipoti - e dal sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, il feretro di Piero Angela è appena arrivato in Campidoglio, dove dalle 11.30 alle 19 sarà aperta al pubblico la camera ardente allestita nella Sala della Protomoteca per la cerimonia laica e l'ultimo saluto al grande divulgatore scientifico, scomparso lo scorso 13 agosto a 93 anni. 

Piero Angela, l'ultimo addio ai suoi telespettatori

«Cari amici, mi spiace non essere più con voi dopo 70 anni assieme. Ma anche la natura ha i suoi ritmi. Sono stati anni per me molto stimolanti che mi hanno portato a conoscere il mondo e la natura umana» - si legge nel post scritto da Piero Angela per la pagina Facebook di SuperQuark - «Soprattutto ho avuto la fortuna di conoscere gente che mi ha aiutato a realizzare quello che ogni uomo vorrebbe scoprire. Grazie alla scienza e a un metodo che permette di affrontare i problemi in modo razionale ma al tempo stesso umano».

Ida Di Grazia per leggo.it il 16 agosto 2022.

Tra i volti noti che questa mattina hanno dato l'ultimo saluto a Piero Angela c'è Renzo Arbore. Il musicista e showman, intercettato dal Tg1 in Campidoglio, dopo aver salutato e fatto le condoglianze alla famiglia, ha regalato al pubblico un ricordo un po' diverso del divulgatore scomparso solo pochi giorni fa. 

«Abbiamo suonato varie volte con Piero» così Renzo Arbore ricorda l'amico Piero Angela. Questa mattina il feretro del divulgatore e colonna storica del servizio pubblico è stato portato al Campidoglio per l'ultimo saluto e tra i volti noti presenti c'era anche il presentatore, autore tv e musicista 

Ai microfoni del Tg1 Renzo Arbore ha omaggiato Alberto Angela lanciando un 'appello alla Rai «In questi giorni sta spopolando l'esibizione che abbiamo fatto insieme a Lucio Dalla -  "Meno siamo meglio stiamo", programma che Arbore realizzò nel 2005 - e sarebbe bello se la Rai riuscisse a recuperarlo e a riproporlo».

«Piero l'ha amata moltissimo questa azienda come l'ho amato io - Prosegue Arbore. Quando facevo l'Altra Domenica ed eravamo nel tg2 di Barbato, Piero Angela era l'anchorman, stavamo sempre insieme, facevamo comunella e si parlava molto di Jazz, musica e America. Piero aveva scritto una canzone swing "barba, capelli e baffi" che io gli cantavo spesso e gliela ricordavo»

Ida Di Grazia per leggo.it il 16 agosto 2022.

Un discorso commovente, interrotto solo per qualche attimo da una lacrima subito ritratta per lasciare spazio all'amore e al ricordo del padre, Piero Angela. Il figlio del divulgatore scomparso a Roma dopo una lunga carriera TV all'età' di 93 anni, Alberto ha parlato pubblicamente alla camera ardente del padre, e giornalista, Piero Angela. 

«Penso che le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci. Però' capita», inizia così il discorso che Alberto Angela ha tenuto questa mattina in ricordo del padre, scomparso pochi giorni fa, alla sala della promoteca in Campidoglio dove è allestita la camera ardente del giornalista Piero Angela. Un discorso molto commovente che si è concluso tra gli applausi dei presenti, tutti in piedi ad omaggiare il grande divulgatore.

Funerali Piero Angela - Il discorso del figlio Alberto Angela visibilmente commosso

«Grazie per essere venuti, voi che siete qui, a casa, i media ,la stampa, da collega vi dico avete fatto un lavoro molto corretto e professionale. Non è facile per me fare questo discorso, di solito vado a braccio, ma spero mi capirete. Non è facile per me fare questo discorso, di solito vado a braccio, ma spero mi capirete. 

Le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci, però accade. Vorrei partire dall'ultima cosa che ha fatto papà, quello è stato l'ultimo discorso con poche forze mia sorella e io lo abbiamo raccolto e trascritto, è un discorso non ufficiale è come un discorso a fine serata agli amici.

C'è molto affetto e molto amore nei confronti di tutti. E' riuscito a unire e non dividere tutti. Il suo stile e il suo tatto lo conoscete tutti. La cosa bella che ci ha colpito è il ritorno sotto forma di messaggi, di articoli. 

Questi giorni per me è stata una tempesta, ma se ne esce. Erano messaggi non di sofferenza, ma di amore, di sentimento, il sentimento è qualcosa che rimane e si trasforma in valore e questo rimane, e credo sia il miglio vestito per papà. L'ultimo insegnamento me lo ha fatto non con le parole ma con l'esempio, in questi ultimi giorni mi ha insegnato a non aver paura della morte, non l'ho mai visto in mezzo allo sconforto, alla tristezza al dolore.

Qualche anno fa ricorrevano i 50 anni dello sbarco sulla Luna e io - racconta Alberto Angela - ho insistito perché facessimo qualcosa assieme e abbiamo fatto quella puntata. Lui è tornato nei luoghi in cui aveva visto il decollo dell'Apollo 11. Una volta ha tirato fuori anche delle foto. C'era Armstrong. Aveva una quantità di esperienze. Una vita riempita. Questo è molto importante. Ed è stato uno dei motivi per cui se ne è andato soddisfatto, come quando ci alza da un tavolo dopo una bellissima cena con gli amici. Lui ha attraversato questo ultimo periodo con una razionalità, con i piedi per terra come se fosse una missione Apollo. 

Quando ha saputo che oramai era arrivato il suo tempo, lui ha fatto un calcolo così a spanne, del tempo che gli sarebbe rimasto e ha fatto tutte le trasmissioni che stanno andando in onda adesso di Superquark, un altro ciclo. Ha anche preparato un disco jazz, andando a registrare e tornando indietro. 

Aveva una forza incredibile. Ha fatto discorsi ai familiari e poi a voi. Dopo 24 ore se ne è andato. Questa sua serenità è stata possibile perché aveva un approccio razionale, scientifico ma anche pieno di vita e di amore. Non ho mai visto una cosa del genere. Ho avuto la sensazione di avere Leonardo Da Vinci in casa, aveva sempre la risposta giusta, lui amava questo aforisma " Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire".

Riempire la vita è un insegnamento per tutti. Continuerà a vivere in tutti quei ragazzi che cercano l'eccellenza, nei ricercatori che cercano di andare a meta nonostante tutte le difficoltà, in tutte le persone che cercano di unire e non di disunire, nelle persone che cercano la curiosità e le bellezze della natura, quelle che cercano di assaporare la vita. L'eredità che ci lascia è importante, non è un'eredità fisica ma di atteggiamento della vita. Concludo come ha detto lui "fate la vostra parte", anche io cercherò di fare la mia. Grazie».

Il discorso di Alberto Angela sul papà Piero, alla sua camera ardente. Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Alberto Angela ha tenuto un toccante discorso alla camera ardente del padre Piero, scomparso il 13 agosto all'età di 93 anni: «Ha vissuto fino all'ultimo con razionalità, e se n'è andato dopo una vita piena, come ci si alza da una bella cena con gli amici. Per me, è stato come vivere con Leonardo da Vinci» 

Quello di Alberto Angela a suo padre Piero, nella severità della sala della Protomoteca, al Campidoglio di Roma, è un addio che è insieme da figlio, da allievo del mestiere televisivo, e anche alla fine da collega. 

Un saluto sobrio e insieme forte, al punto che Alberto deve raggiungere la saletta vicina per riprendersi e per abbandonarsi a un pianto solitario prima di riprendere il suo posto accanto alla madre Margherita e alla sorella Christine.

Il punto essenziale è quel rapporto laico e sereno con la morte: «Lui ci ha insegnato tante cose, l'ultimo insegnamento me lo ha fatto non con le parole, ma con l'esempio. Negli ultimi giorni mi ha insegnato a non avere paura della morte. L'ha affrontata con serenità, non l'ho mai visto nello sconforto e nella paura. Quella che è la più grande paura dell'essere umano, lui l'ha attraversata con una serenità che mi ha colpito». 

E cita subito, anche a nome della sorella Christine, il bellissimo addio ai suoi telespettatori e al gruppo di lavoro, in cui ha chiesto a tutti di fare la propria parte in quello che ha definito un difficile Paese : «Quando ha capito che era arrivato il suo tempo, ha fatto un calcolo, a spanne. E ha cominciato a fare tutto quello che vedete, e che vedrete, di nuovo, in questi giorni. Ha registrato trasmissioni, anche un ciclo di Quark che vedrete. Ha inciso anche un disco jazz, facendo prove e registrazioni. Penso che le persone che amiamo non dovrebbero mai lasciarci. Però capita. Quel comunicato — il suo ultimo — è stata l'ultima cosa che ha detto. L'ultimo discorso — con poche forze — che io e mia sorella abbiamo raccolto. Sembra un discorso a fine serata agli amici: c'è molto affetto e molto amore, per tutti. Per il pubblico, per chi lo ha amato. È riuscito a unire e questa è una dote difficile da trovare».

Alberto Angela spiega, in poche parole, il senso di quel commiato: un congedo da tutti, consapevole della morte vicinissima, con un lascito anche civile e di grande spessore. Gli Angela, tutti (Piero era così, e lo stesso vale per Alberto, per la moglie Margherita, per la figlia Christine che sfiora con eleganza la guancia del fratello alla fine del suo discorso) sono molto discreti quindi lo stupore di Alberto per la reazione alla morte del padre è sincero: «La cosa bella che ha colpito noi è stato il ritorno sui social, sugli articoli. Passerò i prossimi giorni a ringraziare tutti». Intanto, da ore, sta ringraziando di persona le centinaia di persone — di ogni età: ma tantissimi, in particolare, i giovani e i giovanissimi — giunti a salutare suo padre. 

Alberto aggiunge un’altra tessera al suo ritratto: «Ho avuto la sensazione di avere Leonardo da Vinci in casa, che dava la risposta giusta sempre con una capacità di sintesi e analisi in modo pacato. Lui amava ripetere un aforisma di Leonardo da Vinci: "Siccome una giornata ben spesa dà lieto dormire così una vita ben usata dà lieto morire"». 

Di nuovo torna il tema della morte come conclusione inevitabile e accettabile di una lunga e densa esistenza. Il ritratto del padre prosegue così: «È stata anche una persona — lo dico da figlio e collega — che si è dedicata a unire, non a dividere: pur mantenendo le sue opinioni ferree. Una dote difficile da trovare. Il suo stile, il suo tatto lo conoscete tutti, ma la cosa bella che ha colpito tutti noi della famiglia è stato vedere questi messaggi che arrivavano e che non erano pieni di dolore o sofferenza ma di amore, che è un sentimento. Ho notato solo questo. È stata una cosa che mi ha molto colpito. Un sentimento che si trasforma in valore: e i valori sono eterni. È questo il miglior vestito per papà, per il viaggio che farà». 

Un uomo che univa e non divideva: lo si vede dalla compattezza del dolore del suo gruppo di lavoro, unitissimo e solidale negli abbracci e nelle lacrime. 

«Per me — ha continuato Alberto — continuerà a vivere attraverso i libri, le trasmissioni, i dischi jazz, ma anche in tutti quei ragazzi che hanno speranza nel futuro e cercano l'eccellenza, nei ricercatori che cercano di andare a meta nonostante tutte le difficoltà, in tutte le persone che cercano di unire e non di disunire, nelle persone che cercano la curiosità e le bellezze della natura, quelle che cercano di assaporare la vita». 

Tutti ora pensano al viaggio di Piero Angela, da poco cominciato. Ammesso che ci sia, chissà dove e chissà come. 

È il modo in cui Alberto aveva annunciato la sua morte sui social: «Buon viaggio, papà». Lui che non lo chiamava mai così: il loro rapporto prevedeva l’uso dei nomi, come si fa tra colleghi che si rispettano. 

Poi l'ultimo saluto: «L'eredità che lascia a tutti noi è importante, ed è un'eredità non fisica o di lavoro, ma di atteggiamento nella vita: quello che ci ha detto come ultima cosa è stato "Anche voi fate la vostra parte". E io cercherò di fare la mia».

Teresa Cioffi per corriere.it il 17 agosto 2022.

Alla camera ardente di Piero Angela, scomparso sabato, in Campidoglio una folla di persone saluta il maestro della divulgazione scientifica. Ci sono i telespettatori, gli amici, i colleghi e i familiari, tra cui i figli. Se Alberto si è prodigato in un discorso molto sentito, in molti si sono domandati chi fosse la signora al suo fianco, ovvero la sorella maggiore. Si chiama Christine, è nata nel 1958 e ha sempre avuto a cuore la propria privacy tanto che di lei si sa ben poco. 

Riservata come la madre

Un carattere riservato forse simile a quello di sua mamma, Margherita Pastore. Piero Angela al contrario è stato intervistato parecchie volte e in qualche occasione ha avuto modo di parlare delle personalità femminili della sua famiglia.

Aveva raccontato di sua moglie, conosciuta negli anni ‘50, il rapporto fatto di stima e di affetto costruito negli anni su quei «ti voglio bene» scambiati nella quotidianità, il supporto in ogni situazione e soprattutto negli spostamenti (Piero soffriva di ernia al disco e Margherita si offriva di portargli le valige da quando aveva 25 anni). «Mia moglie mi ha aiutato molto - aveva raccontato al settimanale Oggi - è più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Ha tirato su due figli magnifici». Di Alberto si sa quasi tutto, di Christine pochissimo. Anche per lei però lo studio, in particolare della storia, rappresenta una parte importante della vita. È, infatti, una ricercatrice.

Il ringraziamento

In un’altra intervista, questa volta al Corriere, Piero Angela raccontò che al momento della nascita dei figli non solo presenziò, ma registrò anche ogni singolo istante. Deformazione professionale. Alberto ha sempre affiancato il padre nel racconto televisivo, ma anche Christine ha avuto l’occasione di appoggiare Piero Angela nel suo lavoro: «Devo ringraziare Christine Angela per la ricerca e l’analisi degli oltre quattrocento articoli scientifici che costituiscono la documentazione di base del libro, un lavoro senza il quale quest’opera non avrebbe potuto essere realizzata».

Il libro in questione è «Ti amerò sempre», uscito nel 2014. Della figlia di Piero Angela si sa poi che ha due figli, Alessandro e Simone. Così come è stato per i cugini Riccardo, Edoardo e Alessandro (figli di Alberto) per i figli di Christine avere un nonno come Piero Angela fu un onore anche se non fu sempre presente: «Siamo molto legati ma di solito i nonni hanno tempo a disposizione, sono pensionati. Io non svolgo quelle funzioni...».

Chi è Christine Angela, figlia di Piero: ricercatrice riservatissima, aiutò il padre nella scrittura dei suoi libri. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.

Classe 58, due figli maschi, sposata, è comparsa a fianco al fratello alla camera ardente. 

Alla camera ardente di Piero Angela, scomparso sabato, in Campidoglio una folla di persone saluta il maestro della divulgazione scientifica. Ci sono i telespettatori, gli amici, i colleghi e i familiari, tra cui i figli. Se Alberto si è prodigato in un discorso molto sentito, in molti si sono domandati chi fosse la signora al suo fianco, ovvero la sorella maggiore. Si chiama Christine, è nata nel 1958 e ha sempre avuto a cuore la propria privacy tanto che di lei si sa ben poco.

Riservata come la madre

Un carattere riservato forse simile a quello di sua mamma, Margherita Pastore. Piero Angela al contrario è stato intervistato parecchie volte e in qualche occasione ha avuto modo di parlare delle personalità femminili della sua famiglia. Aveva raccontato di sua moglie, conosciuta negli anni ‘50, il rapporto fatto di stima e di affetto costruito negli anni su quei «ti voglio bene» scambiati nella quotidianità, il supporto in ogni situazione e soprattutto negli spostamenti (Piero soffriva di ernia al disco e Margherita si offriva di portargli le valige da quando aveva 25 anni). «Mia moglie mi ha aiutato molto - aveva raccontato al settimanale Oggi - è più di metà del mio successo. Ha rinunciato alla carriera e portato pazienza per le mie assenze. Ha tirato su due figli magnifici». Di Alberto si sa quasi tutto, di Christine pochissimo. Anche per lei però lo studio, in particolare della storia, rappresenta una parte importante della vita. È, infatti, una ricercatrice.

Il ringraziamento

In un’altra intervista, questa volta al Corriere, Piero Angela raccontò che al momento della nascita dei figli non solo presenziò, ma registrò anche ogni singolo istante. Deformazione professionale. Alberto ha sempre affiancato il padre nel racconto televisivo, ma anche Christine ha avuto l’occasione di appoggiare Piero Angela nel suo lavoro: «Devo ringraziare Christine Angela per la ricerca e l’analisi degli oltre quattrocento articoli scientifici che costituiscono la documentazione di base del libro, un lavoro senza il quale quest’opera non avrebbe potuto essere realizzata». Il libro in questione è «Ti amerò sempre», uscito nel 2014. Della figlia di Piero Angela si sa poi che ha due figli, Alessandro e Simone. Così come è stato per i cugini Riccardo, Edoardo e Alessandro (figli di Alberto) per i figli di Christine avere un nonno come Piero Angela fu un onore anche se non fu sempre presente: «Siamo molto legati ma di solito i nonni hanno tempo a disposizione, sono pensionati. Io non svolgo quelle funzioni...».

·         E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.

Marco Giusti per Dagospia il 13 agosto 2022.

Se ne va Jean-Jacques Sempè, per tutti Sempè, 89 anni, il disegnatore più amato dai francesi e il più conosciuto in tutto il mondo. Il suo tratto, inconfondibile, mostra piccole storie con piccoli umanissimi personaggi che si muovono in un mondo meraviglioso e pieno di grazia. 

Sempè lì disegnava su grandi tavole dove poteva spaziare con la sua matita. Il suo personaggio più famoso, Le petit Nicolas, il Piccolo Nicolas, un buffo scolaretto candido e curioso, con storie scritte da Renè Goscinny, nato nel 1960, ebbe un successo immediato e enorme. I libri vennero tradotti in 40 lingue diverse e ci furono da subito trasposizione cinematografiche e televisive.

La prima risale al 1964  l'ultima, bellissima, in versione film animato, l'abbiamo vista lo scorso maggio a Cannes e deve uscire quest'autunno in tutto il mondo. Nato nel 1932 a Pennac, nella Gironde, la stessa città di Jean Eustache, Sempè ha cominciato disegnare a 12 anni. Si ispira ai disegnatori francesi del tempo come Chaval e Bosc. Ma si interessa anche di jazz.

Fondamentale fu, subito dopo il militare, l'incontro con Renè Goscinny, col quale farà nascere "Le petit Nicolas". Le sue vignette vengono pubblicate su "Franche Dimanche" e "Paris Match" e presto anche su "Punch" e "Esquire". 

Per l'editore Denoel pubblica un album di vignette all'anno fin dal 1962. Porterà avanti l'impegno fino al 2005. 

Dal 1965 al 1976 collabora a "L'Express". Diventato una celebrità, frequenta a Parigi Francoise Sagan, Brigitte Bardot, Simone Signoret. Nel 1978 pubblica la sua prima copertina del "New Yorker". Ne farà ben 110.

Ma pubblica per una serie infinita di giornali. Nel 2011 gli verrà organizzata una grande retrospettiva all'hotel de la Ville a Parigi. Non ha mai smesso di disegnare. L'ultima vignetta, per "Paris Match" è della settimana scorsa.

·         E’ morta l’attrice Anne Heche.

Da leggo.it il 12 agosto 2022.

Anne Heche «non sopravviverà». È quanto comunicato ieri a “Usa Today” dall'addetto stampa dell'attrice che si trova in ospedale con una “grave lesione cerebrale anossica”. L'attrice, 53 anni, si era schiantata con la sua auto la scorsa settimana contro una casa a due piani nel quartiere Mar Vista di Los Angeles, causando un enorme danno strutturale all'abitazione. 

La Heche era stata tirata fuori dalla sua Mini Cooper ormai in fiamme. La 53enne resta in coma in condizioni critiche: «È stata a lungo una sua scelta di donare i suoi organi e viene tenuta in vita per determinare se alcuni sono vitali», si legge nella dichiarazione che si conclude con un ringraziamento al personale sanitario: «Il personale dedicato e le meravigliose infermiere che si sono prese cura di Anne al Grossman Burn Center del West Hills Hospital» di Los Angeles.

«Anne aveva un cuore enorme e ha toccato tutti quelli che ha incontrato con il suo spirito generoso - si legge ancora nella dichiarazione resa nota dall'addetto stampa dell'attrice - Più che il suo straordinario talento, ha visto diffondere gentilezza e gioia come il lavoro della sua vita, specialmente muovere l'ago per accettare chi ami. Sarà ricordata per la sua coraggiosa onestà e ci mancherà moltissimo per la sua luce». 

La polizia ha detto che gli investigatori stavano indagando sulla Heche per guida sotto effetto di droghe. La polizia, con un mandato di perquisizione, ha prelevato un campione del sangue dell'attrice e ha rilevato la presenza di narcotici, ha detto il portavoce della polizia di Los Angeles Jeff Lee. 

Ma i test tossicologici, che possono richiedere settimane per essere completati, devono essere eseguiti per identificare più chiaramente i farmaci e per differenziarli da qualsiasi farmaco che potrebbe essere stato somministrato alla Heche per il trattamento in ospedale dopo l'incidente.

Anne Heche ed Ellen DeGeneres, la relazione che fece scandalo. Giampiero Casoni il 14/08/2022 su Notizie.it.

Quando anche Hollywood storceva il naso di fronte alle storie gay: Anne Heche ed Ellen DeGeneres, la relazione che fece scandalo e lasciò il segno 

Anne Heche ed Ellen DeGeneres, ovvero la relazione che fece scandalo in una Hollywood ancora ammantata del bigottismo che avrebbe messo da parte solo un decennio dopo. La popolare presentatrice di talk ricorda come l’attrice  scomparsa dopo un incidente a Los Angeles per il quale sono state staccate le macchine che la tenevano in vita si presentò con lei ad una prima e non lavorò più per 10 anni.

Ha scritto la DeGeneres: “Un giorno triste, mando alla famiglia di Anne, ai suoi figli e i suoi amici tutto il mio amore”.

Anne Heche ed Ellen DeGeneres, l’amore difficile

Anne aveva solo 53 anni ed è stata un’attrice di peso, eppure nella sua carriera dovette affrontare anche il bigottismo di una Hollywood che non le perdonò la relazione sentimentale con Ellen DeGeneres, una relazione “apripista” e di libertà pura verso l’universo inclusivo che oggi ci sembra così normale.

Le due si erano conosciute nel 1997 ed Anne avrebbe parlato di quel momento come di “una chimica difficile da descrivere”. Quell’anno uscì il film “Vulcano” ed una copertina del Time fece il “botto” perché su essa Heche dichiarò pubblicamente la sua omosessualità, andando sul red carpet Heche con Ellen DeGeneres. 

Il contratto con la Fox sospeso e i problemi

Aveva raccontato Heche: “Ci fu fu detto che il mio contratto con Fox sarebbe finito e sarei stata licenziata“.

Ed Ellen?  “Provai ad uscire dalla sua vita”. Le avrebbe detto: “Credo che stia rovinando la tua carriera e la tua vita e non penso sia la persona giusta per te“. Quella storia finita dopo circa 3 anni segnò la carriera di Anne Heche che aveva spiegato: “Ho avuto una storia di tre anni e mezzo con Ellen e lo stigma su quella relazione ha fatto si che non potessi più mettere piede in uno studio per dieci anni“.

Anne Heche, "non sopravviverà". E spunta il video dell'incidente: "Auto come un missile". Giada Oricchio su Il Tempo il 12 agosto 2022

Morte celebrale per Anne Heche. E la CBS di Los Angeles mostra un video con gli istanti che precedono il dramma. L’attrice americana, 53 anni, è in coma dal 5 agosto dopo un gravissimo incidente stradale, ma oggi la famiglia, in un comunicato ufficiale, ha annunciato che la donna ha “riportato una grave anossia cerebrale e non ci si aspetta che sopravviva”.

A breve verranno staccate le macchine che la tengono in vita e si procederà alla donazione degli organi nel pieno rispetto delle volontà dell’attrice. Una settimana fa, Anne Heche, protagonista di film di successo come “Il tocco del diavolo”, “Donnie Brasco” e “Psycho” (remake), perse il controllo della sua Mini Cooper blu andando a sbattere contro il muro esterno di una casa del quartiere Mar Vista di Los Angeles. L’auto prese fuoco, i soccorritori impiegarono ore prima di riuscire a estrarla viva dall’abitacolo, ma aveva riportato numerose ustioni ed era in condizioni disperate. Non è chiara la dinamica dell’impatto ma Heche è indagata guida in stato d’ebbrezza: nella vettura c’era una bottiglia di vodka.

L’account @CBSLA ha pubblicato in esclusiva su Twitter il video di una telecamera di sicurezza di una villetta fronte strada in cui prima si sente il sibilo di un veicolo lanciato a tutta velocità, poi si vede l’auto di Anne Heche sfrecciare sulla strada e dopo pochi secondi d silenzio il terrificante rumore dello schianto.   

Una vita segnata da numerose tragedie, quella della star americana: una sorella morì pochi mesi dopo la nascita, a 14 anni perse il padre per Aids e il fratello in un incidente stradale e nel 2006 vide morire la sorella Susan per un cancro al cervello. Ha avuto due mariti e due figli.

Giovanni Gagliardi per repubblica.it il 12 agosto 2022.

L'attrice americana Anne Heche è morta. Lo riporta il Daily Mail spiegando che le macchine a cui era attaccata sono state staccate questa sera. La donna, 53enne, era in ospedale dopo lo schianto della sua auto una settimana fa: aveva subito "una grave anossia cerebrale" ed è stato tenuta in vita per determinare se i suoi organi erano nelle condizioni di essere donati. Heche si era scontrata a bordo della sua Mini Cooper contro una casa nel quartiere di Mar Vista, a Los Angeles. 

"Ho bevuto, ho fumato, mi sono drogata, ho fatto sesso con molte persone, qualunque cosa per eliminare la vergogna dalla mia vita", così Anne Heche si raccontava nel 2011 a Abc News. L'attrice ha avuto un'infanzia tormentata, segnata da lutti familiari e dagli abusi subiti. 

Una vita difficile, fatta di successi ma anche di dipendenze, fino al tragico epilogo dell'incidente stradale avvenuto nel pomeriggio di venerdì 8 agosto, quando si è schiantata con la sua la Mini Cooper contro una casa a due piani nel quartiere Mar Vista di Los Angeles, causando un enorme incendio che aveva investito la sua auto e la casa. I soccorritori erano riusciti ad estrarla dalle lamiere dopo un'ora, ma il suo corpo era stato devastato dalle fiamme.

Un'infanzia segnata

Anne Celeste Heche, questo il suo nome completo, era nata ad Aurora, in Ohio, il 25 maggio 1969, da Nancy e Donald Heche. Nella sua autobiografia Call me crazy spiegava che i suoi problemi con l'alcol erano dovuti a un'infanzia difficile e una vita tragica, con il padre che da bambina la molestava senza che la madre, una fervente cristiana, facesse nulla. L'uomo la contagiò con l'herpes simplex.

I lutti

Il padre, direttore di un coro, si dichiarò omosessuale prima di morire di Aids nel 1983, quando lei aveva 14 anni. Nello stesso anno scomparve anche il fratello Nate in un incidente stradale. Un'altra sua sorella, Cynthia, era morta pochi mesi dopo la nascita per un problema al cuore, mentre nel 2006 sua sorella Susan aveva perso la vita per un cancro al cervello. L'ultima sorella è Abigail, con la quale si era recentemente riconciliata dopo anni di allontanamento. 

I primi lavori

Spinta dalla madre e di una bellezza sconvolgente, tentò di lasciarsi il passato alle spalle e di impegnarsi anima e corpo nella recitazione, diventando piuttosto popolare alla Ocean City High School del New Jersey e alla Francis W. Parker School di Chicago. Anne per mantenersi iniziò a lavorare in vari locali esibendosi come cantante. Durante la scuola superiore prese lezioni di recitazione e lavorò in alcune rappresentazioni teatrali; in queste occasioni venne notata da un talent scout, che le offrì un contratto per partecipare alla soap opera Così gira il mondo, ma su consiglio della madre rifiutò per terminare gli studi. 

Il diploma e la prima serie tv

Poi, la svolta. Subito dopo essersi diplomata, accettò l'offerta di lavoro per entrare nel cast di un'altra soap opera, Another World (Destini, in italiano), girata a New York, così si trasferì nella Grande Mela, dove per quattro anni interpretò il doppio ruolo delle gemelle Marley e Vicki Hudson. Per il suo lavoro vinse un Daytime Emmy nel 1991. 

Film ad alto budget

Il debutto sul grande schermo arrivò nel 1993 nel film Le avventure di Huck Finn, con un giovanissimo Elijah Wood nei panni del protagonista. Successivamente partecipò ad alcuni film indipendenti. Alla fine degli anni 90 era una delle attrici più in voga di Hollywood, una costante sulle copertine delle riviste e nei film ad alto budget. 

Ha recitato insieme a Johnny Depp e Al Pacino nel film del 1997 Donnie Brasco; con Tommy Lee Jones in Vulcano, in Sesso e Potere con Dustin Hoffman e Robert De Niro e in So cosa hai fatto, tutti nel 1997. Poi, nel 1998 è con Harrison Ford in Sei giorni, sette notti e con Vince Vaughn e Joaquin Phoenix in Il tempo di decidere. Ancora nel '98 ha interpretato la parte di Marion Crane in Psyco, diretto da Gus Van Sant, remake shot-for-shot del leggendario film di Alfred Hitchcock del 1960. 

Il coming out

Dopo due anni di relazione con l'attore Steve Martin, l'attrice fece scalpore diventando tra le prime a fare coming out sulla propria bisessualità, portando alla luce la relazione con la collega e conduttrice televisiva Ellen DeGeneres dal 1997 al 2000.

In seguito si lamentò di essere finita sulla lista nera di Hollywood che l'avrebbe boicottata, ma in quegli anni il loro rapporto accrebbe la sua fama, portandola costantemente sotto i riflettori e sulle pagine dei giornali di gossip, in particolare quando tra le due si parlò di matrimonio. E intanto la sua carriera andava avanti. 

Problemi di salute mentale

Durante la relazione con DeGeneres partecipò ad alcuni episodi della sitcom Ellen, dove la compagna era protagonista; in quella occasione conobbe il cameraman Coley Laffoon. Poi la rottura con la compagna e il mondo del gossip tornò ad occuparsi di lei. 

Nell'autunno del 2000, subito dopo la separazione, Heche fu ricoverata in ospedale dopo aver bussato alla porta di uno sconosciuto in una zona rurale vicino a Fresno, in California. Le autorità affermarono che era apparsa scossa e disorientata, parlando incoerentemente. In un libro di memorie pubblicato l'anno successivo, Call me crazy, Heche aveva rivelato di aver combattuto per tutta la vita con problemi di salute mentale a causa anche degli abusi subiti da bambina. 

Il primo matrimonio e il figlio

Nel 2001 sposò Laffoon da cui ebbe un figlio, Homer. Ben presto l'uomo si dimostrò un marito incostante e per questo Anne si separò dal lui nel 2007 per poi divorziare nel 2009. 

Gli anni 2000

Nel 2000 esordì alla regia con il film tv Women, seguito di Tre vite allo specchio in cui aveva recitato nel 1996. Poi prese parte alla popolare serie tv Ally McBeal nel ruolo di Melanie West, ai film John Q, diretto da Nick Cassavetes con Denzel Washington nelle vesti del protagonista e Birth - Io sono Sean, con Nicole Kidman e Lauren Bacall; inoltre ha partecipato ad altre serie tv, come Everwood e Nip/Tuck. Tra il 2006 e il 2008 è stata protagonista della serie Men in Trees - Segnali d'amore. 

Il secondo figlio

Dal 2007 è stata compagna dell'attore James Tupper, protagonista con lei nella serie Tv Segnali d'amore, da cui ha avuto il suo secondo figlio, Atlas, nato nel 2009. La coppia si è separata nel 2018. 

Gli ultimi lavori

Negli ultimi anni Heche ha lavorato costantemente in piccole produzioni, l’ultimo film a cui ha partecipato risale all’anno scorso: 13 Minutes di Lindsay Gossling. Si è anche esibita a Broadway: è stata nominata ai Tony Award come miglior attrice per Twentieth Century del 2004 e ha riscosso un notevole successo in "Proof". Di recente ha recitato nelle serie Chicago PD e All Rise, mentre nel 2020 ha partecipato all'edizione americana di Ballando con le stelle. 

Anne Heche, morta l’attrice a 53 anni dopo l’incidente di una settimana fa. Teresa Cioffi su Il Corriere della Sera il 12 agosto 2022.

Grande commozione a Hollywood per la morte di Anne Heche, attrice americana che, alla fine degli anni ’90, interpretò alcuni film di grido, da «Donnie Brasco» a «Sei giorni, sette notti», e divenne celebre per la relazione molto glamour con Ellen DeGeneres. Il 5 agosto era rimasta coinvolta in un grave incidente e dopo una settimana in ospedale i medici non avevano potuto fare altro che dichiararne la morte cerebrale . Per un po’ ha respirato grazie all’aiuto di un ventilatore, finché la famiglia non ha deciso di staccare le macchine che la tenevano in vita in modo da poterle espiantare gli organi. «Donarli è stata una sua scelta, per questo viene tenuta in vita per determinare se possano essere trapiantati» avevano spiegato infatti i parenti prima della decisione finale: Anne aveva subito una grave lesione cerebrale anossica ed era rimasta in coma. E aveva patito anche una lesione polmonare significativa, mentre le gravi ustioni avevano richiesto un intervento chirurgico. «Vogliamo ringraziare tutti degli auguri e le preghiere per Anne» aveva concluso la famiglia.

Una settimana fa dunque l’attrice stava guidando la sua Mini Cooper nel quartiere Mar Vista di Los Angeles quando ha perso il controllo dell’auto e si è schiantata contro una casa. Poi le fiamme, l’immediato soccorso dei vigili del fuoco e il trasferimento nell’ospedale più vicino. La polizia ha iniziato le indagini per accertare le cause dell’incidente e dai primi esami è risultato che Anne avesse assunto fentanyl e cocaina. Nulla però è confermato, i test devono essere completati e ci potrebbero volere diverse settimane. Anne Heche aveva 53 anni ed era nata in Ohio dove aveva vissuto situazioni familiari difficili, subendo diversi lutti. A partire dal padre, Donald Heche, perso a 14 anni che aveva poi accusato di molestie sessuali nel suo memoir «Call me crazy». Dopo aver affrontato anche la morte di una sorella e di un fratello, si trasferì a Chicago con la madre dove iniziò a cantare in alcuni locali e, mentre studiava, iniziò a frequentare il teatro.

Le proposero una prima volta di partecipare ad una soap, ma Anne rifiutò per concentrarsi sugli studi. Ritornò però sui suoi passi ed entrò nel cast di «Destini», altra telenovela di successo per la quale vinse un Emmy nel 1991. Da qui prese il volo la sua carriera col conseguente debutto sul grande schermo con «Le avventure di Huck Finn». Poi le collaborazioni per le serie tv e i film di cartello: «Donnie Brasco», moglie di Johnny Depp e «Sei giorni, sette notti con Harrison Ford appunto, ma anche «Sesso e potere» e il remake di «Psycho» di Gus Van Sant. Nella vita privata e pubblica, Anne Heche non ha mai nascosto di essere bisessuale. Dopo la relazione con Steve Martin, alla fine degli anni ’90 l’incontro con Ellen DeGeneres. Insieme diventarono la coppia omosessuale più conosciuta di allora, attirando su di sé l’attenzione di Hollywood. Nel 200o la relazione finì e le carriere delle due presero strade opposte: se Ellen divenne una delle più celebri host della tv americana, Anne entrò in un cono d’ombra senza più rinverdire i fasti degli anni ’90. Altre due relazioni con un attore e un cameraman e due figli e una decina di film non memorabili. Fino a quello schianto fatale nella notte di Los Angeles.

Gli organi dell'attrice potrebbero essere donati. L’attrice Anne Heche è morta dopo l’incidente in auto, staccata la spina: era in coma in condizioni critiche. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Agosto 2022 

La famiglia di Anne Heche ha fatto sapere che l’attrice statunitense è cerebralmente morta. Lo scorso venerdì 5 agosto l’attrice era rimasta vittima di un terribile incidente stradale. A dare la notizia della sua morte il Daily Mail spiegando che le macchine a cui era attaccata sono state staccate questa sera.  Heche ha 53 anni, era stata protagonista di numerosi film degli anni ’90 tra cui Six Days, Seven Nights, Donnie Brasco, I know what you did last summer e per aver recitato nella soap opera Another World, tradotta come Destini in Italia, per la quale aveva anche vinto un Daytime Emmy nel 1991.

L’attrice si era schiantata venerdì scorso con la sua Mini Cooper contro una casa a Los Angeles. Dopo l’incidente la sua automobile aveva preso immediatamente fuoco. Le sue condizioni erano apparse subito gravissime. Qualche giorno dopo il suo portavoce aveva fatto sapere che la situazione era ulteriormente peggiorata. L’attrice era in stato di coma. I test tossicologici effettuati dopo lo schianto avevano rivelato presenza di cocaina e fentanyl nel sangue ed Heche era stata indagata per guida in stato di ebbrezza.

L’annuncio delle condizioni irreversibili della donna è stato dato da un rappresentante della famiglia a Deadline. “Anne ha subito una grave lesione cerebrale anossica e rimane in coma, in condizioni critiche. Non ci si aspetta che sopravviva”. La lesione è stata causata da una prolungata mancanza di ossigeno al cervello. È in corso di valutazione la possibilità di donare gli organi dell’attrice. “È stata a lungo una sua scelta di donare i suoi organi e viene tenuta in vita per determinare se alcuni sono vitali”, ha aggiunto il rappresentante.

Heche è ricoverata al momento preso il Grossman Burn Center dell’ospedale di West Hills, a nord di Los Angeles. Ha riportato anche una lesione polmonare nell’incidente. Continuerà a respirare grazie a un ventilatore fino a quando non sarà stabilito se sia possibile donare gli organi che non sono rimasti danneggiati nell’incidente e nell’incendio che era divampato dopo lo schianto.

“Anne aveva un cuore enorme che ha toccato tutti coloro che ha incontrato con il suo spirito generoso. Più che il suo straordinario talento, ha diffuso la gentilezza e la gioia come il lavoro della sua vita. Sarà ricordata per la sua coraggiosa onestà”. L’ultimo film cui aveva lavorato Heche era stato 13 minutes, uscito l’anno scorso, del regista Lindsay Gossling. L’attrice era stata in passato legata in una relazione alla conduttrice Ellen Degeneres.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·         E’ morto il calciatore Claudio Garella.

(ANSA il 12 agosto 2022) - Il calcio italiano è in lutto per la morte di un altro grande ex portiere. A soli 67 se n'è andato Claudio Garella, protagonista dello scudetto con la maglia del Verona, nel 1984/85 e fra i pali del Napoli di Maradona nel 1986/87. "Ciao Garellik. Il Verona piange la scomparsa di un'autentica Leggenda della propria storia: ci ha lasciato oggi, a 67 anni, Claudio Garella. Autentico simbolo del primo Verona guidato da Osvaldo Bagnoli, Garella ha vestito i colori gialloblù dal 1981 al 1985 - si legge sul sito ufficiale del club - difendendo la porta dell'Hellas nella trionfale cavalcata culminata con la vittoria dello scudetto".

Marco Ciriello per mexicanjournalist.wordpress.com il 12 agosto 2022.  

La sua lotta è stata col peso più che con i tiri degli attaccanti avversari. Una vita da pugile – di cui c’aveva il naso – lottando con la bilancia per i chili di troppo che poi l’hanno avvolto appena è uscito dal campo, e che lui ha saputo esibire e portare con l’allegria di chi sa vivere con leggerezza. Eppure volava come una farfalla anche se non pungeva come un’ape. Respingeva da canguro, e si muoveva da Orso, Yoghi. Claudio Garella era un portiere composito, un cocktail, con uno stile sporco, e un grande cuore che teneva insieme specie diverse.

Tutto in lui diceva anni Ottanta, dalla capigliatura alle giacche, un trapezista sulla linea di porta, quando sembrava battuto rimediava (divenendo Garellik, un Diabolik di porta), e quando dava l’impressione d’una imbattibilità da macho cadeva come un soldatino di gomma (garellate, gli errori molto personali, alla Higuita – senza i gol tra l’altro – che l’Italia avrebbe visto solo al mondiale del ‘90). Eppure, a rileggere le pagelle, è tra i migliori. La sua audacia, la pazzia del portiere, tornarono utili al Napoli e salvarono molte partite decisive per lo scudetto.

Parava più con i piedi che con le mani, oggi sarebbe un vanto – vista l’imprescindibilità di Neuer – allora era una anomalia, che Garella sapeva portare senza problemi. Era un portiere d’intuito, indovinava i lati, lottando contro la gravità, spesso faceva balzi da circo, ma erano quei balzi a difendere i risultati. Garella lasciò il Verona dopo aver vinto lo scudetto: «Mi dicevano a Verona: mona, rinunci alla coppa dei campioni? E io: nella vita bisogna anche scegliere», uno slancio d’intuito – ancora una volta – andando dietro Italo Allodi, alla Coppa Campioni preferiva il Napoli, anche perché era stata la squadra dei suoi idoli: Zoff e Castellini. 

«Mi chiamo Claudio Garella e sono passato dalle garellate a Garellik. Sono un uomo felice e un calciatore felice. Non chiedo giustizia alla critica, faccio parlare i risultati, che devo dividere con tutti i compagni, certo, ma per qualcosa c’entrerò pure io. Voi dite che sono brutto, grasso, sgangherato, clownesco, antiatletico, un portiere da hockey eccetera. Io invece dico che sono un portiere vero e non invidio nulla a nessuno, nemmeno a Zenga che pure è il più bravo di tutti».

Così Garella dopo la festa scudetto, si raccontava a Gianni Mura – che lo chiamava Compare Orso –. È il portiere delle anomalie, vince in squadre che non lo avevano mai fatto, litiga con gli allenatori (molto con Bagnoli, abbastanza con Bianchi), ammette i due grossi errori con Atalanta e Fiorentina, sfoderando un pragmatismo alla Deng Xiaoping (che sarebbe piaciuto a Edmondo Berselli), «non importa se il gatto è bianco o nero, l’importante è che acchiappi i topi», non importa che sia con le mani o con i piedi, importa che il portiere non subisca gol. Garella è uno pratico, che non conta i record, non conta i rigori presi e no –  «un portiere mica si giudica dai rigori che para» –, non conta le pagelle con i voti alti, non conserva le foto o i video delle partite, è oltre la nostalgia, e via così, ha scelto di fare il portiere non il contabile, per questo cede e cade all’istinto. 

«Ma io so, per la mia filosofia del ruolo, che noi siamo lì per parare i gol ma anche per beccarli. Un gol per noi è dispiacere (per alcuni dolore, per me no) e per gli altri è spettacolo. Un portiere, secondo me, non deve pensare alla personale prestazione, ma inquadrarsi con gli altri». 

Eccolo il punto differente, Garella si pensava non estraneo alla squadra col vantaggio di prenderla con le mani, ma parte, diluiva i suoi errori alla pari degli attaccanti, era una sorta di uguaglianza calcistica che non ha trovato poeti a cantarla, tivù a spargerla, e lui è rimasto isolato (come compete al ruolo).

Garella voleva uscire dal romanticismo del ruolo, era molto più in là del suo stile e della sua estetica, uno che si vergognava ad esultare, un torinese timido, che cercava di applicare il quotidiano allo straordinario delle domeniche pallonare. La sua oggettività analitica era in anticipo sul calcio d’allora, la sua visione distaccata troppo moderna. E pensare che a vederlo dalle gradinate degli stadi l’orso Yoghi non sembrava avesse tutta quella modernità, miracoli del tempo, e delle vittorie, che illuminano i giusti.

Garella, chi era: le garellate, l’autoradio, Toto Cutugno, l’Avvocato Agnelli, Maradona, le delusioni dal calcio. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 12 Agosto 2022.

L’ex portiere, scomparso il 12 agosto 2022 a 67 anni, aveva vinto due scudetti con Verona (1985) e Napoli (1987). Criticato per lo stile poco elegante negli interventi quanto apprezzato per la sua efficacia, resta un’icona della grande serie A degli anni 80

Garella, un‘icona degli anni 80

Ricordato tanto per i suoi errori quanto per le sue parate e i suoi successi, Claudio Garella è sempre stato oggetto di lunghe discussioni nei bar sportivi. L’ex portiere — scomparso il 12 agosto 2022 a 67 anni — ha giocato dal 1972 al 1991, vincendo anche due scudetti con Verona (1985) e Napoli (1987), era tanto criticato per lo stile poco elegante negli interventi quanto apprezzato per la sua efficacia. Nessuno dei portieri moderni somiglia né può essere paragonato a lui: molti commentatori hanno fatto ironia sulle sue prestazioni, ma tanti tifosi lo hanno identificato come un idolo, anche per i successi ottenuti in piazze che fino a quel momento non avevano mai messo in bacheca trofei significativi. Indimenticabile anche l’aneddoto dell’autoradio, che portava sottobraccio ascoltando, e cantando Toto Cotugno.

«Paperella» e le «garellate»

Nato a Torino nel 1955 e cresciuto nelle giovanili granata, l’esordio in prima squadra arriva nella stagione 1972-73, ma dopo una sola presenza si trasferirà prima allo Juniorcasale, squadra di Casale Monferrato, poi al Novara (38 presenze e 29 reti subite) e alla Lazio (29 partite giocate in campionato e 36 gol subiti). Proprio con la maglia dei biancocelesti colleziona tanti errori fino a guadagnarsi malauguratamente il soprannome di «Paperella». Per i suoi interventi naif il giornalista Beppe Viola coniò addirittura il termine «garellate».

La carriera di Garella

Anche per le sue prestazioni altalenanti Garella non riuscirà mai a giocare in una grande o all’estero, ma saprà farsi strada: dopo la Lazio passa così alla Sampdoria, poi a Verona, Napoli, Udinese e Avellino dove chiuderà la carriera nella stagione 1990-91 all’età di 36 anni. Le esperienze più significative saranno naturalmente con la maglia dell’Hellas dall’81 all’85 (oltre allo scudetto una promozione in serie A nel 1982) e con il Napoli dall’85 all’88 (con, oltre allo scudetto, anche una Coppa Italia nel 1987): li ricorderà sempre come i fasti della sua carriera sportiva.

Gli scudetti di «Garellik»

Hellas Verona e Napoli, due realtà molto diverse dove il tricolore non si era mai visto, riescono a vincere lo scudetto per la prima volta nella loro storia proprio con Garella in porta, che nel frattempo da «Paperella» era diventato «Garellik». Un’autentica impresa per chi parò i tiri di campioni Milan, Inter e Juventus con i piedi, con le ginocchia, con tutte le parti del corpo: un modo forse brutto da vedere ma decisamente efficace, promosso anche da una leggenda come lo stesso Maradona, che lo volle come suo portiere, convincendo anche il presidente del Napoli di allora, Corrado Ferlaino. Un portiere dalle caratteristiche uniche, che in più di un’occasione è tornato sul tema del suo stile: «Questo mito che paravo solo con i piedi non è vero: paravo con un po’ di tutto, ma evidentemente sapevo usare i piedi più di altri, addirittura una volta parai pure in rovesciata... (in Udinese-Cremonese nella stagione 1988-89 in serie B, ndr)».

L’ironia dell’Avvocato Agnelli

Tra le critiche ricevute fu indimenticabile la dichiarazione dello juventino Gianni Agnelli, sempre pungente con la sua brillante ironia e un certo sarcasmo: «È il miglior portiere senza mani». La replica del portiere fu in parte una precisazione e in parte un ringraziamento: «Un grosso onore per me, perché non è da tutti finire tra gli aforismi storici dell’Avvocato. La palla tuttavia deve essere presa in tutte le maniere, non si può andare troppo per il sottile quando ti ritrovavi davanti campioni come Paolo Rossi o Roberto Pruzzo, bastava rimanere nell’ambito del regolamento». Risposta di chi era cresciuto professionalmente anche con il sostegno di Italo Allodi, general manager del Napoli, che gli diceva sempre: «L’importante è parare, non importa come».

Un portiere «vero»

Ma lui naturalmente non condivideva tutte queste critiche un po’ semplicistiche. A Repubblica una volta raccontò: «Mi dispiacque lasciare Verona ma volli fortemente giocare con il calciatore più forte di tutti i tempi, Diego Armando Maradona. Ma gli altri non è che fossero scarsi, anzi se a Verona feci 100 parate nell’anno dello scudetto a Napoli ne feci 10. Non chiedo giustizia alla critica, faccio parlare i risultati, che devo dividere con tutti i compagni, certo, ma per qualcosa c’entrerò pure io. Voi dite che sono brutto, grasso, sgangherato, clownesco, antiatletico, un portiere da hockey eccetera. Io invece dico che sono un portiere vero e non invidio nulla a nessuno».

L’autoradio

Garella era sposato con Laura: hanno avuto due figlie, Claudia (classe 1975) e Chantal (classe 1985). La sua figura è rimasta nell’immaginario di un calcio che non c’è più anche per certi stili e immagini tipiche di quegli anni. Indimenticabile, e spesso rievocata dai nostalgici di quell’epoca, la sua immagine con l’autoradio sottobraccio ascoltando e cantando Toto Cotugno.

Gli ultimi anni

Tecnico e dirigente sportivo diplomato a Coverciano, dopo l’addio al calcio giocato, Garella si era dedicato alla professione di allenatore. Per circa quattro anni, sia come guida tecnica, sia come preparatore dei portieri o delle squadre giovanili, ha assistito i giocatori di piccole realtà calcistiche come il club torinese del Barracuda, della Pergolettese (allora Pergocrema) e della Cit Turin, un’associazione sportiva dilettantistica. A San Giusto Canavese, sempre nel torinese, è stato anche osservatore ed esperto di mercato del club che militava in Serie D.

La gioielleria

Un vero B piano post calcio Garella lo aveva: «Sì, una gioielleria a Verona che poi ho dovuto chiudere per ragioni familiari», raccontò sempre a Repubblica. Allora tornò in campo ad allenare il Barracuda, squadra di II categoria («Volevo sfatare il tabù che i portieri non sono dei bravi allenatori. In ogni caso non sarei mai riuscito a stare sul divano a casa, io devo andare su un campo di calcio qualunque esso sia»), di cui fino a due anni fa è stato anche dirigente.

Il calcio passione e delusione

Un elemento che i tifosi hanno apprezzato quando giocava e anche nella sua esperienza lavorativa nel calcio dilettantistico è stato il suo scarso interesse per i vantaggi economici che potevano derivare da un settore come il calcio: «Non mi sono mai inginocchiato a nessuno», disse una volta Garella, specificando quanto gli piaccia rimanere a contatto con il mondo del calcio senza necessariamente rimanere sui grandi palcoscenici, ma preservando la genuinità di questo sport. Molta passione e denaro «quanto basta per campare». Un approccio alla vita «alternativo» per il quale viene tuttora ammirato ma che gli ha provocato nel tempo più di un’amarezza: «Da quando mi sono diplomato a Coverciano, come direttore sportivo aspetto spesso una telefonata per una chiamata che non arriva mai. Non frequento i giri giusti forse, anche se non rinuncerò mai alla mia integrità morale», disse una volta. Negli ultimi tempi aveva scelto la via della riservatezza: l’ultima intervista risale a due anni fa, deluso dal calcio che non lo ha più cercato.

Per Gianni Agnelli era "il più forte portiere del mondo. Senza mani, però". È morto Claudio Garella, addio al portierone del Napoli del primo scudetto con Maradona. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Agosto 2022. 

Lo stile inconfondibile e il soprannome da supereroe di un fumetto. Claudio Garella, a saltare tra i pali, a parare spesso e volentieri con i piedi o con qualsiasi altra parte del corpo, era rimasto indimenticabile nei ricordi dei tifosi del Napoli. Gli stessi tifosi colpiti dalla notizia che si è diffusa all’improvviso stamattina: il portierone del Napoli di Diego Armando Maradona, quello vincitore del primo scudetto nella storia del club, è morto a 67 anni. Si è spento dopo un intervento chirurgico cui era stato sottoposto. Soffriva di problemi di cuore.

“Garellik” è morto a Torino, dov’era nato nel maggio del 1955. Lo scudetto lo aveva vinto già a Verona, prima che a Napoli, in un’altra impresa sportiva indelebile e insuperata. Gianni Agnelli lo aveva definito “il più forte portiere del mondo. Senza mani, però”. Era diventato un marchio di fabbrica quello stile, le parate con ogni parte del corpo, tutto istinto. Garella aveva debuttato con il Torino in Serie A. Ha vestito anche le maglie di Novara, Lazio, Sampdoria, Udinese e Avellino. E aveva smesso nel 1991. Meno entusiasmante la sua carriera da allenatore tra serie minori e juniores. Quindi la carriera da dirigente sportivo e osservatore.

L’ex portiere lascia la moglie Laura, con la quale aveva avuto le due figlie Claudia e Chantal. La scomparsa proprio a pochi giorni dalla prima partita della stagione di Serie A al via che vedrà contrapposte proprio Hellas Verona e Napoli, le sue squadre. E mentre il club è alle prese con un rebus sul proprio numero uno: tra i saluti di David Ospina, lo sfiduciato Alex Meret, le trattative con Kepa e Keylor Navas. Con gli Azzurri “Garellik” aveva vinto anche una Coppa Italia, nella stessa stagione del primo tricolore, quella del 1986/1987.

La società SSC Napoli ha pubblicato sul suo sito ufficiale una nota di cordoglio in ricordo del portiere: “Il mondo del calcio piange la scomparsa di Claudio Garella, portiere che ha lasciato un segno indelebile nella storia del Napoli. Garella è stato tra i protagonisti assoluti del primo scudetto azzurro nella stagione 1986/87. Era arrivato a Napoli nell’estate del 1985, all’alba della radiosa era maradoniana. In azzurro ha disputato 3 stagioni vincendo il tricolore e la Coppa Italia.

Soprannominato “Garellik”, per il suo stile unico e inconfondibile, Claudio Garella vinse 2 scudetti in due squadre che in precedenza non l’avevano mai conquistato: il Verona nel 1985 e il Napoli due anni dopo. Un primato che definisce i contorni non solo sportivi ma anche umani, emotivi e professionali di un portiere che resterà sempre nella leggenda azzurra. Il Presidente Aurelio De Laurentiis, i dirigenti, lo staff tecnico, la squadra e tutta la SSC Napoli esprimono profondo cordoglio per la scomparsa di un indimenticabile protagonista della nostra storia”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·         È morto lo stilista Issey Miyake.

È morto lo stilista Issey Miyake. Giulia Mattioli su La Repubblica il 9 Agosto 2022 

È morto a 84 anni il celebre stilista e designer giapponese Issey Miyake, re del plissé e straordinario innovatore. Lo riporta un comunicato dell'azienda da lui fondata

Il rivoluzionario stilista giapponese Issey Miyake è morto a 84 anni. L’annuncio è giunto alla stampa tramite un comunicato congiunto dell’Issey Miyake Group e del Miyake Design Studio, nel quale si spiega che il designer si è spento il 5 agosto all’ospedale di Tokyo a causa di un cancro al fegato. Lo statement aggiunge che, per desiderio dello stesso stilista, non ci saranno funerali. 

“Non ha mai abbracciato i trend. Lo spirito dinamico di Miyake era guidato da una curiosità incessante e dal desiderio di incanalare gioia attraverso il design”: così lo ricorda la Maison. “Da sempre un pioniere, abbracciava sia l’artigianato tradizionale che le soluzioni avanguardistiche e la tecnologia più innovativa. Ha sempre lavorato in squadra, creando nuovi design e supervisionando le collezioni delle varie linee che portavano il suo nome”.

Nato a Hiroshima nel 1938 (sopravvisse all'atomica che rase al suolo la città nel 1945 ma sua madre morì tre anni dopo in seguito alle radiazioni), Miyake fondò il suo studio di design a Tokyo nel 1970, dopo un periodo trascorso tra Parigi e New York. Celebre per l’innovativo modo di trattare i tessuti, per le creazioni colorate, pratiche, fu uno dei primi stilisti giapponesi a partecipare alla fashion week parigina, ma la sua fama crebbe in particolare con la creazione del franchise Pleats Please, linea caratterizzata da una particolare pieghettatura ottenuta grazie ad uno speciale trattamento delle stoffe che dava un effetto di movimento, di energia e vitalità agli abiti.

Quello del plissé è un filone sperimentale che caratterizzerà per sempre le sue creazioni, spesso donando loro un effetto origami, anche grazie all'uso di materiali come la carta di riso e il filo metallico. Nel 2013 incanalò la filosofia delle pieghe all'innovativa linea maschile Homme Plissé Issey Miyake.

Emblema della ricerca stilistica votata a trovare il comfort nel design per meglio adattarsi alle esigenze della vita contemporanea, è la linea A-POC (A Piece of Cloth), fondata nel 1998 in collaborazione con Dai Fujiwara, i cui capi sono ottenuti da un unico pezzo di tessuto arrotolato che viene lavorato da uno speciale macchinario in grado di eseguire le istruzioni dei designer. Il concetto alla base di questo progetto era la possibilità di rendere la moda semplice, accessibile, veloce. 

La presentazione della linea avvenne a Parigi nel 1999, in una sfilata epocale nella quale le modelle salirono in passerella tutte unite da un unico lunghissimo pezzo di tessuto. Curiosamente, uno dei più grandi fan di questa linea fu Steve Jobs, i cui iconici dolcevita neri erano proprio creazioni di Miyake.

Negli anni, arrivò ad aprire decine di linee (attualmente se ne contano nove), ognuna in qualche modo emblematica della sua continua ricerca e volontà di innovazione. In tempo recenti si era pian piano ritirato dalla guida di ogni brand, rimanendo però sempre dietro le quinte e senza smettere mai di partecipare all’evoluzione stilistica dei marchi che portano il suo nome. Fra l’altro, l’eredità di Issey Miyake è tangibile anche nel mondo delle fragranze, in particolare per l’iconico L’Eau d’Issey, lanciato nel 1992. 

Si è sempre considerato più un artigiano che un artista, riflette Tim Blanks nel ricordarlo. “Rifiutava l’idea che la sua fosse arte, anche se le sue creazioni erano così trascendentali che era difficile pensare in altri termini. Piuttosto, nelle interviste, nei libri, nelle numerose mostre che gli sono state dedicate Miyake insisteva per essere definito uno che faceva cose”.

Come sottolinea il comunicato rilasciato dalla casa di moda che porta il suo nome "Lo spirito gioioso, empowering, votato alla bellezza di Issey Miyake si tramanderà nelle future generazioni".

Daniela Fedi per “il Giornale” il 10 agosto 2022.

«Il 6 agosto 1945 la prima bomba atomica è stata sganciata sulla mia città natale, Hiroshima. Io ero lì e avevo solo sette anni». Comincia così la splendida lettera che Issey Miyake ha scritto a Obama nel 2016 quando il 44° presidente Usa parlò di eliminazione dell'armamento nucleare. Lo stilista giapponese noto come Il sarto del vento si è spento a Tokyo lo scorso 5 agosto, alla vigilia del 77° anniversario di quella tragica mattina. Per suo stesso volere l'annuncio è stato dato solo ieri a funerali avvenuti e senza enfasi: vivere in salute fino a 84 anni sotto il segno di bellezza e poesia gli dev' essere sembrato un miracolo dopo un inizio tanto brutale.

Non per nulla nella famosa lettera a Obama scrisse anche: «Se chiudo gli occhi vedo ancora cose che nessuno dovrebbe mai vedere: un'accecante luce rossa, la nuvola nera poco dopo, gente che corre nel disperato tentativo di fuggire. Ricordo tutto. Nel giro di tre anni mia madre è morta per le radiazioni. Non ho mai diviso le mie memorie e i miei pensieri su quel giorno prima d'ora. 

Ho tentato di buttarmi tutto alle spalle preferendo pensare a cose che possono essere create, non distrutte, cose che portino gioia e bellezza nel mondo. Mi occupo di design e di moda soprattutto perché è un ambito creativo moderno e ottimista. Cerco di non esser definito dal mio passato, non voglio venir etichettato come lo stilista che è scampato alla bomba atomica».

Quell'anno il Giappone ha ospitato il G7 e finalmente un presidente degli Stati Uniti si è deciso a visitare le città devastate dalla bomba H. Miyake gli consigliò una passeggiata lungo il Ponte della Pace costruito accanto all'epicentro della bomba e con le balaustre decorate dai disegni dello scultore nippo-americano Isamu Noguchi. «Mi hanno sempre ispirato spiegò se faccio questo mestiere lo devo a quelle balaustre da cui ho capito il potere del design». La sua idea di moda come progetto personale e universale allo stesso tempo in cui l'abito diventa habitat del corpo e parte integrante della società comincia nel 1960, quando è ancora un semplice studente della Tama Art University.

Dopo la laurea nel 1965 si trasferisce a Parigi dove frequenta i corsi dell'Ecole de la Chambre Syndicale de la Couture parisienne mentre lavora in atelier prima da Guy Laroche e poi da Hubert de Givenchy. Nel 1970 fonda il mitico Miyake Design Studio in cui ogni processo creativo viene chiamato «making things» (fare cose) e tutto parte da (ipse dixit) «un gioco tra assenza e presenza, vuoti e pieni, gesti e libertà». Un anno dopo presenta la sua prima collezione a New York dove nel frattempo si è trasferito diventando grande amico di un altro genio, Halston, cui consiglia lo speciale tessuto di sintesi che il grande designer americano chiamò «ultrasuede» e che oggi tutti conoscono come similpelle.

Nel '73 torna a Parigi e da allora il marchio è stabilmente presente nel calendario delle sfilate francesi. Alcuni dei suoi show sono stati pietre miliari della moda. Per esempio nel marzo del 1991 ha fatto sfilare quel che in seguito sarebbe diventato Pleats Please, una delle sue invenzioni più geniali. Si tratta di uno speciale tessuto (inizialmente jersey, in seguito poliestere) plissettato a caldo e utilizzato in via sperimentale dai ballerini di William Forsythe per un indimenticabile spettacolo berlinese.

L'effetto fu sensazionale. I costumi avevano una linea semplicissima ispirata del cosiddetto «Delphos», ovvero la tunica creata nel 1907 da Mariano Fortuny in omaggio alle meravigliose pieghe dell'auriga di Delfi e successivamente indossata da Isadora Duncan nei suoi rivoluzionari spettacoli di danza. La grande differenza sta nel fatto che Pleats Please è lavabile in lavatrice a 30 gradi, asciuga in un baleno e non si stira, occupa poco posto in valigia, non ha stagioni e prende forma sulle tue forme, in base ai tuoi movimenti. Su questa idea ci sono stati innumerevoli sviluppi tra cui l'incredibile 3D Steam Stretch, ovvero i rilievi tridimensionali creati sul tessuto grazie al vapore.

Il maestro ha infatti creato una vera e propria scuola socratica affidando le sue collezione ai discepoli più talentuosi. L'ultimo in ordine di tempo è Satoshi Kondo, ma prima di lui ci sono stati Naoki Takizawa, Dai Fujiwara e Myiamae: un esercito di talenti che come lui hanno deciso di lavorare per rendere la gente felice.

Addio allo stilista Issey Miyake: inventò l'abito disco volante. Aveva 84 anni. Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 09 agosto 2022

Daniela Mastromattei è caposervizio di Libero, dove si occupa di attualità, costume, moda e animali. Ha cominciato a fare la giornalista al quotidiano Il Messaggero, dopo un periodo a Mediaset ha preferito tornare alla carta stampata

Si è spento a 84 anni lo stilista giapponese Issey Miyake. Ma come ha lasciato scritto, non si celebrerà alcun funerale.

Se ne va l'uomo che ha rivoluzionato il modo di vestire: non frivoli oggetti fini a sé stessi, ma oggetti che abbiano uno scopo, che sappiano dare una soluzione. Leggeri, lavabili, pratici per essere arrotolati senza mai gualcire. Perfetti per viaggiare. «A Parigi chiamiamo le persone che fanno i vestiti couturier. Loro creano pezzi da indossare, ma il lavoro dello stilista è realizzare qualcosa che funzioni anche nella vita reale» spiegò in un'intervista al The Guardian nel 2016.

Dopo gli sudi di grafica all'Università Tama di Tokyo negli anni ‘60, lasciò il Giappone per  Parigi dove lavorò accanto a Hubert De Givenchy.  Con la collezione primavera estate 1994 Pleats Please, ha dato una sterzata di energia (positiva) alla moda. Indimenticabile l'abito Disco Volante fatto di tessuti che scendono a cascata ondeggiando sul corpo (effetto fisarmonica).   E come non citare Bao Bao Bag  un'opera d'arte da indossare, creata nel 2010. 

“Non ha mai abbracciato i trend. Lo spirito dinamico di Miyake era guidato da una curiosità incessante e dal desiderio di incanalare gioia attraverso il design”: così lo ricorda la Maison. “Da sempre un pioniere, abbracciava sia l’artigianato tradizionale che le soluzioni avanguardistiche e la tecnologia più innovativa. Ha sempre lavorato in squadra, creando nuovi design e supervisionando le collezioni delle varie linee che portavano il suo nome”.

Essia Sahli per vanityfair.it il 9 agosto 2022.

Designer innovativo e anticonformista, Issey Miyake ha segnato un'intera generazione di creativi tra Oriente e Occidente: lo stilista, che era affetto da carcinoma epatocellulare, è scomparso oggi all'età di 84 anni a Tokyo «circondato da amici e intimi collaboratori», come dichiarato da un breve comunicato del Miyake Design Studio. Amante del colore, del dinamismo quasi «spirituale» di cui infondeva i suoi capi d'abbigliamento, così come del concetto di trasformazione, il designer non solo ha costruito ponti tra artigianalità tradizionale e nuove tecnologie applicate ai tessuti, ma è stato un raro esempio di come un brand possa attingere continuamente alle proprie fondamenta senza smettere di reinventarsi.

Issey Miyake ha fondato il suo studio di design nel 1970, e sin da allora ha sfidato convenzioni e modalità standard dell'industria fashion, mixando abiti sportivi e adatti a una vita energica a codici d'abbigliamento più sofisticati, intrecciando la storia del suo marchio d'abbigliamento con quella dei suoi profumi, diventati bestseller. Assieme a Kansai Yamamoto e Kenzo Takada, che come lui ha costruito gran parte della sua vita e carriera a Parigi, il designer ha portato visioni e motivi del Sol Levante nel sistema moda occidentale, dando vita a nuove forme estetiche. 

Tra queste, c'è sicuramente la reinterpretazione del tessuto a pieghe, il celeberrimo plissé di Issey Miyake, diventato un vero e proprio franchise, Pleats Please - approdato con successo anche nell'abbigliamento maschile grazie a Homme Plissé - e ripreso concettualmente anche nell'iconica linea di borse Bao Bao, lanciata nel 2010.

Mai stanco di allargare i propri orizzonti, nel 1998 lo stilista creò anche la linea sperimentale A-POC (o A Piece of Cloth) emblematica della sua ricerca di design, che rispondesse alle esigenze degli stili di vita contemporanei e delle loro continue evoluzioni. Miyake iniziò poi a ritirarsi gradualmente dalla prima linea del processo creativo, passando il testimone a una serie di giovani designer e collaboratori che hanno continuato ad animare la settimana della moda di Parigi con sfilate vivaci e spettacolari tra elementi di danza, performance e fantasiose installazioni.

In una dichiarazione, la casa di moda ha dichiarato: «Mai abbracciando le tendenze, lo spirito dinamico di Miyake è stato guidato da una curiosità incessante e dal desiderio di trasmettere gioia attraverso il design (…) Non si è mai tirato indietro dal suo amore, dal processo di creazione delle cose. Ha continuato a lavorare con i suoi team, creando nuovi modelli e supervisionando tutte le collezioni sotto le varie etichette Issey Miyake. Il suo spirito di gioia, responsabilizzazione e bellezza sarà portato avanti dalle prossime generazioni». Come da volere del designer, non ci sarà alcun funerale o servizio commemorativo.  

Più che uno stilista. Cosa è stato Issey Miyake per il mondo della moda e del design. Aldo Premoli su L'Inkiesta il 10 Agosto 2022

Protagonista di un periodo straordinario per il Giappone, ha fatto conoscere al resto del mondo lo stile del suo Paese. Le sue creazioni (alcune esposte nella collezione permanente del MoMa) sono apparse dove serviva, dal dolcevita di Steve Jobs alle uniformi dei lavoratori della Sony

Alto, bello, la carnagione ambrata tipica di una particolare etnia giapponese, Kazunaru Miyake (questo il suo vero nome) è nato il 22 aprile 1938. Camminava zoppicando a causa della bomba sganciata su Hiroshima, sua città natale, il 6 agosto 1945.

Nel 1963 si laurea in design alla Tama Art University di Tokyo. Nel 1968 vive il maggio ’68 a Parigi. In seguito si sposta a New York, dove nel 1970 fonda il Miyake Design Studio e nel 1971 dà vita alla sua prima sfilata.

Miyake è stato tra i primi designer giapponesi a sfilare all’interno della fashion week parigina (1973) secondo solo a Kenzo Takada che lo aveva fatto dal 1969. Insieme a Yohji Yamamoto e Rei Kawakubo Miyake è stato protagonista di un’ondata di straordinari designer che hanno fatto conoscere la moda giapponese al resto del mondo.

Un merito che gli è stato riconosciuto in patria: nel 2010 è stato insignito dell’Ordine della Cultura, la più alta onorificenza giapponese per le arti. Al suo marchio viene riconosciuto di aver contribuito agli sforzi del paese per diventare una destinazione internazionale per la moda e la cultura pop.

Miyake sottolineava spesso di non considerarsi “uno stilista di moda”. I suoi progetti sono apparsi dove ce ne era bisogno: ha disegnato uniformi per i lavoratori della Sony, ha prodotto il dolcevita nero che è diventato parte del look caratteristico di Steve Jobs. La sua celebre borsa Bao Bao, realizzata in tessuto a rete con piccoli triangoli di polivinile, è stata a lungo un accessorio iconico tra i creativi di ogni nazionalità.

E difatti i suoi disegni sono apparsi sulla copertina di Artforum nel 1982 – un riconoscimento mai visto prima all’epoca – e si trovano pure nella collezione permanente del MoMa di New York.

Tuttavia, la sua fama mondiale Miyake la deve alla capacità di combinare moda, tecnologia e artigianato. Innanzitutto inventando la tecnica secondo cui il vestito doveva essere realizzati da un unico pezzo di tessuto. Poi insistendo all’infinito sulla plissettatura e le tradizionali tecniche di piegatura giapponesi. Le pieghe a fisarmonica dei suoi modelli potevano però essere lavate in lavatrice, senza perdere la loro forma e offrivano la facilità dell’abbigliamento da casa.

Miyake è deceduto a causa di un carcinoma epatocelluare al fegato in un ospedale Tokyo il 5 agosto. Secondo i suoi desideri non si sono tenuti funerali o servizi funebri di sorta.

·         È morto l’attore Roger E. Mosley. 

È morto in un incidente Roger E. Mosley, fu «TC» in «Magnum P.I.» Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022 

La figlia dell’attore ha dato l’annuncio della sua scomparsa. Nella sua carriera aveva preso parte a molti film e serie tv tra cui «Kojak», «Starsky and Hutch» e «Love Boat». 

Il ruolo per cui la maggior parte delle persone lo ricordava è quello di Theodore «TC» Calvin, mitico pilota di elicotteri, a fianco di Tom Selleck in «Magnum P.I.». . È morto a Los Angeles Roger E. Mosley per via di un incidente d’auto in California. Aveva 83 anni. L’attore aveva preso parte anche in molte altre serie tv come «Canon», «Love Boat», «Sanford and Son», «Kojak», «Starsky and Hutch» e in molti film tra cui «Terminal Island (L’isola dei dannati)». Subito dopo la notizia della scomparsa sono arrivati tantissimi i messaggi di cordoglio sui social sia da parte dei colleghi sia da parte degli spettatori. Molti lo ricordano come il «primo eroe della mia vita» e gli augurano «buon volo» proprio per il suo ruolo come TC.

Il messaggio della figlia

Tra i tanti pensieri, anche il messaggio della figlia Ch-a, che ha confermato ai media la morte avvenuta al Cedars-Sinai Medical Center. «Mio padre, il vostro amico, il vostro coach Mosley, il vostro TC di Magnum ci ha lasciati stamane alle 1:17. Era circondato dalla famiglia mentre lasciava questo mondo in pace. Non potremmo mai piangere un uomo così straordinario perché lui odierebbe qualsiasi pianto fatto in suo nome. È tempo di celebrare l’eredità che ha lasciato per tutti noi. Ti amo papà, anche tu mi hai amato. Ho il cuore pesante ma forte. Mi prenderò cura della mamma, il tuo amore da quasi 60 anni. Mi hai cresciuto bene e lei è in buone mani. Stai tranquillo».

·         E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.

Olivia Newton-John, addio alla Sandy di Grease: aveva 73 anni. Il Tempo l'8 agosto 2022

Lutto nel mondo del cinema che dice addio alla Sandy di Grease. È morta a 73 anni Olivia Newton-John, la cantante e attrice australiana, protagonista insieme a John Travolta del film cult. «La signora Olivia Newton-John (73) è morta pacificamente nel suo ranch nel sud della California questa mattina, circondata da familiari e amici», ha annunciato John Easterling, suo marito, sulla sua pagina Facebook ufficiale. «Chiediamo a tutti di rispettare la privacy della famiglia in questo momento molto difficile».

«Olivia - scrive il marito John Easterling su Fb - è stata un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni, condividendo il suo percorso con il cancro al seno. La sua ispirazione nella guarigione e l’esperienza pionieristica con la medicina delle piante continuano con il Fondo della Fondazione Olivia Newton-John, dedicato alla ricerca sulla medicina delle piante e sul cancro. Al posto dei fiori, la famiglia chiede che ogni donazione sia fatta in sua memoria al Fondo Olivia Newton-John Foundation».

Nata il 26 settembre 1948 a Cambridge, in Inghilterra, l’artista si era trasferita con la famiglia a Melbourne quando aveva sei anni. Dopo la vittoria di un talent show in Australia e un (provvisorio) trasferimento nel Regno Unito, la futura stella si dedicò al country negli anni giovanili ma sarebbe stato il passaggio al pop a trasformarla in una star. «Let Me Be There» and «If You Love Me (Let Me Know)», nel 1973, sono le prime canzoni interpretate da Newton-John a sfondare nelle classifiche americane. Secondo lo storico Joel Whitburn, Newton-John è stata la cantante solista femminile di maggiore successo negli anni ’70 quando riuscì a piazzare nove singoli nella Top 10, tre dei quali in cima alla classifica. Tra questi il più celebre è «Yoùre the One That I Want», un duetto con John Travolta tratto dalla colonna sonora di «Grease» che, nel 1978, trascorse quasi sei mesi nelle classifiche americane.

Newton-John rimase una potente forza commerciale anche nel decennio successivo. È nel 1981 che uscì «Physical», il più grande successo della sua carriera. E anche il flop al botteghino di un altro film musicale, «Xanadu», si trasformò in un trionfo nella hit parade: la colonna sonora fu due volte disco di platino e produsse tre singoli, tra cui «Magic», autentico tormentone radiofonico dell’epoca. All’inizio degli anni ’90 finisce l’epoca d’oro ma Newton-John ha continuato a restare un’artista amata anche nel nuovo millennio, grazie soprattutto alla sempreverde fortuna di «Grease», autentico culto per milioni di fan in tutto il mondo che ora piangono la perdita di una delle più belle voci del pop anglosassone.  

(ANSA l'8 Agosto 2022 ) – Addio a Olivia Newton-John. La dolce Sandy di Grease, la biondina timida con il golfino color del cielo sulle spalle e il nastro nei capelli che si trasforma in una pantera sexy inguainata in un total black di pelle nera e capigliatura cotonata nel film cult che l'ha resa indimenticabile accanto a John Travolta, è morta all'età di 73 anni, dopo una lunga battaglia contro il cancro. 

Lo ha annunciato il marito, John Easterling, su Instagram, sottolineando che la cantante e attrice si è spenta "serenamente nella suo ranch nel sud della California, circondata da familiari e amici". 

"Olivia - ha scritto - è stata un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni condividendo il suo viaggio con il cancro al seno. La sua ispirazione curativa e la sua esperienza pionieristica con la fitoterapia continuano con il Fondo Olivia Newton-John Foundation, dedicato alla ricerca sulla fitoterapia e sul cancro.

Al posto dei fiori, la famiglia chiede che qualsiasi donazione sia fatta in sua memoria alla @onjfoundation". Il suo calvario era iniziato nel 1992 con un tumore al seno, che inizialmente aveva sconfitto, diventando una fiera e battagliera sostenitrice dello screening del cancro al seno: a Melbourne, in Australia, un centro per la lotta al cancro porta il suo nome. Poi nel 2013 la doccia fredda e la recidiva, estesa anche alla spalla, che l'aveva costretta a rinviare un tour negli Stati Uniti e in Canada. 

"Paura? No. Mio marito mi è sempre accanto, mi sostiene e sono convinta che sconfiggerò la malattia: questo è il mio obiettivo", aveva spiegato. Nel 2017 le era stato diagnosticato un tumore alla schiena, alla base della colonna vertebrale. Nata a Cambridge nel 1948, dopo l'infanzia e l'adolescenza in Australia, nel 1966 Olivia Newton-John si trasferì nel Regno Unito dove iniziò la carriera nella musica incidendo il suo primo singolo "Till you say be mine".

Nel 1974 si classificò al quarto posto all'Eurovision Song Contest con il brano "Long Live Love". A darle la grande popolarità, nel 1978, fu Grease, il musical di maggior successo nella storia del cinema. Da allora ha pubblicato numerosi singoli di successo, diventati numero uno, collezionato tour a livello internazionale e diversi premi Grammy. Nel 2017 ha girato gli Stati Uniti con l'album "Live On", inizialmente sospeso per i dolori alla schiena causati dal tumore. "

Amo cantare, è tutto ciò che so fare - aveva detto in un'intervista -. Tutto ciò che ho fatto da quando avevo 15 anni, quindi è la mia vita". Tra i suoi più grandi successi, nel 1981 il singolo Physical seguito dall'omonimo album, vincitore di diversi dischi d'oro e di platino. Nello stesso era stata consacrata dalla stella sulla Hollywood Walk of Fame.

Marco Giusti per Dagospia il 9 agosto 2022.

Se ne va per sempre la Sandy di “Grease”, la cantante, ballerina e attrice Olivia Newton-John, stroncata da un cancro che ha combattuto per gran parte della sua vita. Con John Travolta si ritrovarono in “Due come noi”. 

E proprio l’attore le ha scritto un commovente addio, “Mia cara Olivia, hai reso le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile. Ti amo tanto. Ci rivedremo lungo la strada. Tuo, dal primo momento in cui ti ho vista e per sempre. Tuo Danny. Tuo John”. 

Ma cercarono a lungo di fare un sequel di “Grease”, con i personaggi invecchiati, ma non ci riuscirono. Cantante di enorme successo, il suo "Physical" nel 1981 rimase per 10 settimane consecutive al primo posto nelle classifiche, vendendo più di due milioni di copie, Olivia rimase affezionata al personaggio di Sandy per tutta la vita, come disse spesso, “Amerò per sempre Sandy. Nel mio armadio ci sono ancora quei famosi pantaloni di pelle vera”. 

Solo nel 2019, mise all'asta la giacca di pelle e i pantaloni che indossava per 405.700 dollari, a beneficio del suo ente per la ricerca sul cancro. L'anonimo che comprò la sua celebre giacca di pelle, venduta per 243.200 dollari, gentilmente gliela restituì. 

Era nata nel 1948 a Cambridge, in Inghilterra, di famiglia metà gallese e metà ebreo-tedesca, figlia di Brinley Newton-John, importante capo-istituto del King's College di Cambridge e di Irene Born, il nonno era il celebre fisico Max Born, ma la sua famiglia vantava una discendenza diretta con Martin Lutero.

A Cambridge era vissuta per cinque anni, per trasferirsi con la famiglia in Australia, a Melbourne, dove il padre era stato chiamato come capo-istituto dell’Ormond College. Da sempre appassionata di musica e di ballo, a quindici anni si esibisce in tv (“The Happy Show”) e canta “Sing, Sing, Sing” (1962) con l’Elvis Presley australiano, Johnny O'Keefe. Nel 1965 fa il suo primo film, “Funny Things Happen Down Under” di Joe McCormick, dove è se stessa, giovane cantante australiana.

Incide il primo disco con la Decca nel 1966, "Till You Say You'll Be Mine/For Ever". Era poi tornata, già teenager, in patria con la madre. E’ allora che appare i qualche serie tv e nel suo primo film da protagonista, il musicarello con alieni “Together” di Val Guest vel 1970. Già notissima come cantante, a metà degli anni 70 si spostò a Los Angeles, dove rimase per tutta la vita, anche se rimase molto legata all’Australia. 

Il successo internazionale le arriverà con “Grease” di Randal Kleiser nel 1978 dove fa coppia con John Travolta, il partner di una vita. Fu lei a volere assolutamente fare un provino per il ruolo di Sandy Olsson visto che non si sentiva così esperta come attrice, a quel tempo aveva 29 anni, forse troppi per interpretare una ragazza di 18. Bella, bionda, occhi azzurri, ma anche colta, intelligente, vinse il ruolo che era stato pensato per Susan Dey.

Dopo “Grease” la troviamo nel non così riuscito “Xanadu” nel ruolo di Kyra. Nel 1983 la troviamo ancora in coppia con John Travolta in “Due come noi” di John Herzfeld, dove sono la coppia che deve dimostrare a Dio che il genere umano può ancora salvarsi. Anche in questo caso Olivia non si sentiva propriamente un’attrice e non fu facile per la Fox fargli fare, a cinque anni di distanza da “Grease”, un nuovo film. 

Che fu un successo solo musicale, grazie a lei, ma venne bollato come disastro e premiato dagli irriverenti Razzie Award per il peggior attore, la peggiore attrice, la peggior regia, la peggiore sceneggiatura. Per tutti gli anni 80 e 90 Olivia si dedicò soprattutto alle sue canzoni, ai dischi, ai video, comparendo in un paio di special tv, “A Mom for Christmas”, “A Christmas Romance”.

Nel 1988 la troviamo in uno special, “Olivia Down Under”, dove si capisce che in Australia è vista come una star nazionale. La ritroviamo in un vero ruolo cinematografico solo nel 1996 con “Un party per Nick” di Randal Kleiser, un film sull’aids con Eric Roberts, Gregory Harrison, Lee Grant, George Segal. La ritroviamo nel 2000 in “Sordid Lives” di Del Shores con Delta Burke e Bonnie Bedelia e nel 2011 nella serie tv “The Wilde Gorls”, dove è Hasmine Wilde. Anche “Sordid Lives” darà vita a uva serie tv dallo stesso titolo. 

Torna a cantare con John Travolta in un video, “I Think You Might Like It”. Fu l’Australia, che non l’aveva mai dimenticata, a richiamarla al cinema in maniera bizzarra, prima nella commedia matrimoniale “Tre uomini e una pecora” di Stephen Elliott, poi in un episodio del trashissimo “Sharknando”. Il suo ultimo film, girato due anni fa, è “The Very Excellent Mr. Dundee” di Dean Murphy, dove troviamo una serie di personaggi iconici come Chevy Chase, John Cleese, Paul Hogan e dove interpreta se stessa.

Sua sorella, Rona, è anche lei attrice, mentre il fratello, Hugh, è un medico importante, ideatore del polmone d’acciaio portatile. 

Si sposò due volte, con l’attore Matt Lattanzi, dal quale ebbe una figlia, nel 1984, divorziando nel 1995, e con Amazon John Easterling nel 2008. Non fu sempre fortunata con i partner. Un suo fidanzato del 2005, un cameran di nome Patrick McDermott, mentre stava andando a pesca a San Pedro in California scomparve di colpo. Venne ritrovato quattro anni dopo dagli investigatori in Messico, vicino a Sayulita, dove viveva col nome di Pat Kim e lavorava su uno yacht che portava i turisti in giro.

Estratto dell’articolo di Maurizio Crippa per ilfoglio.it il 10 agosto 2022.

Il post più commosso lo ha danzato il suo Danny, John Travolta: “Mia carissima Olivia, hai reso tutte le nostre vite migliori. Ciò che hai fatto è stato incredibile. Ti amo tanto. Ci ritroveremo e saremo di nuovo tutti insieme. Tuo dal primo momento in cui ti ho vista e per sempre! Il tuo Danny, il tuo John”.

Nei ricordi sui giornali di oggi, sui social di ieri, solo amore, solo commozione. […] Le è bastato quel film di brillantina e rock’n’roll che ha fatto cerniera tra due decenni, uno spericolato passaggio d’epoca. Il luccicante Grease. Senza saperlo, senza volerlo, fu anche la fine di quel decennio new Hollywood di ribellioni impegnate e pezzi non facili […] Grease esce nel 1978 […] quando Hollywood era inclusiva anche senza farselo spiegare.

Sandy […] con i capelli cotonati alti […] che avrebbero segnato gli Ottanta, molto prima che se li cotonasse Jane Fonda […] L’icona della ragazza che voleva solo have a fun. Solo un anno prima La febbre del sabato sera era un film degli anni Settanta. Carico di violenza sociale, sessista […] Grease è la fiaba di tutte le ragazze che già si preparavano a divertirsi con Cyndi Lauper. Cambiava un’éra […] Olivia Newton-John è stata l’addio a un decennio che era anche una noia mortale. Una liberazione finalmente tamarra e pronta al Grande Disimpegno […]

Valentina D'Amico per movieplayer.it l'11 agosto 2022.

Le star di Grease, Olivia Newton-John e John Travolta, hanno entrambi parlato della "tensione sessuale" reciproca all'epoca delle riprese del film musicale di culto. 

Nella sua autobiografia, Don't Stop Believin', Olivia Newton-John ha confermato l'interesse reciproco tra lei e la sua co-star John Travolta scrivendo: "Sì, ci piacevamo molto e c'era attrazione". Una loro co-protagonista ha confermato che un bacio in una scena eliminata era "molto reale, non stavano recitando". 

Travolta è stato una forza trainante dietro il casting della sua co-protagonista, dicendo all'epoca: "C'è solo una persona che dovrebbe interpretare questo ruolo ed è Olivia Newton-John... È il sogno di ogni ragazzo".

Olivia Newton-John ricorda di essere stata persuasa ad accettare il ruolo di Grease, nonostante i dubbi sulla sua età e sui precedenti passi falsi nei film, proprio da Travolta: "Sono stata accolta da quegli occhi azzurri penetranti e dal sorriso più caloroso del pianeta. Di persona, John Travolta irradia pura gioia e amore. Quel giorno, mi ha salutato con un grande abbraccio come se fossimo amici da una vita. Come avrei potuto dire di no a John Travolta?" 

Nel 2019, a Travolta è stato chiesto direttamente se ci fosse stata tensione sessuale tra i due sul set di Grease. Oltre a confermarlo, l'attore ha specificato che è ben visibile durante un numero musicale iconico:

"Penso che l'abbiate visto in You're the One That I Want. C'è quasi una risoluzione di quella tensione proprio lì". 

La canzone rivela Sandy nella sua nuova incarnazione come una mangiatrice di uomini sicura e sexy dopo che il suo look è stato stravolto dalle Pink Ladies. Il nuovo look fa impazzire Danny e anche la maggior parte del pubblico. Ma cosa è successo davvero dietro le quinte? Cosa c'era dietro il bacio fotografato all'after-party dei Paramount Studios?

Quello che i fan non sapevano all'epoca era che c'era già stato un bacio piuttosto appassionato davanti alla telecamera. Il regista Randall Kleiser aveva filmato una versione leggermente diversa del finale che non era stato in grado di usare, ma che ha rivelato nel 2018. In questo finale, mentre volano via, Sandy e Danny si baciano.

La co-protagonista Did Conn, che interpretava Frenchie, ha rivelato che il bacio era molto reale e non sceneggiato: "Vedi che lei per un momento è sorpresa e poi risponde. È appassionato ed è fantastico. Non stavano recitando in quel momento, è era come se avesse avuto la loro occasione e l'avrebbe colta. Era reale, lo era davvero".

1948-2022. È morta Olivia Newton-John, star di Grease. Aveva 73 anni. DANIELE ERLER su Il Domani l'08 agosto 2022

Una vita all’insegna della musica, consacrata nel 1978 da uno dei musical più importanti della storia del cinema, era stata testimone della lotta contro il cancro. La morte è stata confermata su Facebook dal marito

Simbolo di un’epoca e protagonista di uno dei musical più importanti della storia del cinema, Grease, l’attrice e cantante Olivia Newton-John è morta a 73 anni nel suo ranch della California. Lo ha annunciato la sua famiglia e lo ha confermato su Facebook il marito, John Easterling. Le cause della morte non sono state rese note, anche se in passato le era stato diagnosticato un cancro al seno. Era stata operata una prima volta nel 1992, ma la malattia si era ripresentata qualche anno dopo, nel 2013. Da allora era diventata una convinta sostenitrice della ricerca contro il cancro.

Anche se non era sempre amata dalla critica, negli anni Settanta e Ottanta era diventata una stella della musica, capace di scalare le classifiche con la sua voce flebile e riconoscibilissima. Ma è nei panni di Sandy Olsson che era diventa davvero famosa, a livello internazionale, accanto a John Travolta in Grease (1978). Interpretava una ragazza innocente che scopriva la ribellione (e i pantaloni di pelle).

Su Instagram John Travolta l’ha ricordata così: «Mia carissima Olivia, hai reso le nostre vite molto migliori. (…) Tuo, dal primo momento che ti ho visto e per sempre, Danny».

UNA VITA PER LA MUSICA

Ma da quel film è tratto anche uno dei suoi maggiori successi: la canzone Hopelessly Devoted to You, una ballata in crescendo che ha ricevuto una nomination al premio Oscar alla migliore canzone originale nel 1979. Era scritta appositamente per esaltare le sue qualità vocali.

D’altronde la musica era sempre stata la caratteristica preminente della sua vita. Nata a Cambridge il 26 settembre 1948, si era trasferita con la famiglia in Australia a 5 anni. Già durante la scuola aveva iniziato a cantare, fondando un primo gruppo con alcuni compagni. Nel 1966 in Inghilterra, dove era andata in un viaggio premio per evento un concorso musicale, aveva inciso il suo primo singolo: Till You Say Be Mine.

Negli anni aveva saputo reinventarsi più volte, riscoprendo il successo. Come nel 1981 quando aveva inciso Physical, un tormentone che l’aveva portata ad esplorare tinte sonore molto diverse da quelle di Grease. Fino ai tempi più recenti, quando aveva partecipato a un altro musical di tutt’altra natura: è stata la guest star in una puntata di Glee, nel 2010.

Di mezzo ci sono state altre canzoni da classifica, altri ruoli al cinema e in televisione, il trauma della malattia e la forza di testimoniarne la lotta. «Amo cantare, è tutto ciò che so fare – aveva detto in un'intervista –. È la mia vita».

Morta Olivia Newton John: la stella di Grease combatteva contro il cancro da 30 anni. Francesco Curridori l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.

La cantante australiana Olivia Newton John è morta all'età di 73 anni. L'annuncio del marito 

Il mondo della musica e del cinema perde Olivia Newton John. La cantante australiana, divenuta famosa per aver interpretato il ruolo di Sandy Olsson nel film Grease, è morta oggi dopo aver a lungo combattuto contro un cancro al seno. Da oltre trent'anni l'attrice combatteva contro il male e testimoniava la sua battaglia pubblicamente. Fonti vicine all'attrice raccontano che la sua morte è avvenuta "pacificamente" nel suo ranch in Southern California.

"Olivia - scrive il marito John Easterling su Facebook - è stata un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni, condividendo il suo percorso con il cancro al seno. La sua ispirazione nella guarigione e l'esperienza pionieristica con la medicina delle piante continuano con il Fondo della Fondazione Olivia Newton-John, dedicato alla ricerca sulla medicina delle piante e sul cancro. Al posto dei fiori, la famiglia chiede che ogni donazione sia fatta in sua memoria al Fondo Olivia Newton-John Foundation".

La via del successo: dall'Australia a Hollywood

Olivia, nata a Cambridge il 26 settembre 1948, all’età di 5 anni si trasferisce insieme alla famiglia in Australia dove suo padre, il gallese Bryn, va per insegnare tedesco. E tedesco è suo nonno materno, il vincitore del Premio Nobel per la Fisica del ’54, quel Max Born che fuggì dalla Germania nazista. Olivia, invece, si dedica fin da giovanissima alla musica. A 15 anni entra nella band di sole donne Soul Four e contemporaneamente partecipa a varie trasmissioni televisive. Una di queste è Sing Sing Sing, uno show che le consente di vincere un concorso per cantanti esordienti e il relativo premio che consiste in un viaggio a Londra. Olivia, una volta in Gran Bretagna, nel 1966 incide per la Decca Records il singolo Till you say be mine. Per un breve periodo canta insieme all’amica Patt Carroll, poi tenta la carriera da solista fino al 1970 quando arriva un ingaggio dalla band Tomorrrow con la quale partecipa ad un omonimo musical. Nello stesso anno, dopo lo scioglimento del gruppo, esce il suo primo album dal titolo All Things Must Pass. Nel 1974 ottiene il quarto posto all’Eurovision Song Contest e, grazie al singolo I Honestly Love You, conquista il disco d’oro. Vince persino un Grammy Award per registrazione dell’anno e un Grammy Award per la migliore interpretazione vocale femminile. Un discreto successo lo ottiene anche l’anno successivo con il singolo Have You Never Been Mellow ma la consacrazione arriva nel 1978 con il film Grease dove recita accanto a John Travolta.

Olivia Newton John raggiunge la fama mondiale con Grease

“Era stato un musical di enorme successo a Broadway, sentivamo entrambi la responsabilità di portarlo sullo schermo”, commenterà la Newton John parecchi anni dopo nel corso di un’intervista al Corriere della Sera in cui parla anche del suo rapporto con l’attore italoamericano. “Sempre, da allora, ci siamo consigliati in tutte le diverse fasi delle nostre esistenze e ci rende felici ritrovarci in tante e diverse ricorrenze per celebrare una nuova uscita del nostro film, che non risulta datato perché ci sono e ci saranno sempre ragazzi come il ribelle, ma vulnerabile Danny Zuko e come la mia Sandy, che gli giurava amore eterno scuotendo i riccioli biondi”, spiegherà la Newton John che inizialmente non era affatto convinta di voler accettare quella parte. “Nel 1977 feci l’audizione per la parte di Sandy: avevo 29 anni. Ero più grande di John che fu scelto a 24 anni non ancora compiuti per il ruolo di Danny Zuko. I produttori ci fecero un provino per verificare sullo schermo la nostra alchimia”, rivelerà. Il film è un successo al box office e la sua colonna sonora resta per 12 settimane nella hit parade mentre l'album Totally Hot che la cantante incide nello stesso anno diventa disco di platino. La Newton-John, nel 1979, per la sua prova da attrice in Grease, riceverà una nomination ai Golden Globe come Miglior Attrice Protagonista in una Commedia o Film Musicale e una candidatura agli Academy Awards nella categoria Miglior Canzone per Hopelessly Devoted To You.

Gli anni '80 tra Grammy e dischi d'oro e di platino

Il 1980 è, invece, l’anno del musical Xanadu dove la Newton-John recita accanto a Geene Kelly e canta la colonna sonora che sarà disco d’oro di quell’anno. Sul set del film conosce il ballerino italoamericano Matt Lattanzi con cui si sposa quattro anni dopo e, dalla loro unione (che durerà una decina d’anni), nasce la figlia Chloe. Nel 1981 esce il singolo Physical e, poi, l’omonimo album con cui la cantante vince non solo diversi dischi d'oro e di platino ma anche il Grammy Award come cantante pop dell'anno, miglior video, miglior singolo e miglior artista. Sempre nello stesso anno interpreta se stessa nella telenovela brasiliana Jogo Da Vida e ‘conquista’ la stella sulla "Hollywood Boulevard Walk of Fame". Nel 1983 recita nuovamente in coppia con John Travolta nel film Due come noi (Two of a kind), un vero e proprio flop nelle sale ma con una colonna sonora che diventa disco di platino. L’anno seguente apre, insieme all’amica Pat Carroll, una catena di negozi d’abbigliamento chiamata Koala Blue.

Gli ultimi anni di vita: la vita privata e la lotta contro i tumori

Alla fine degli anni ’80 si ritira dalle scene per combattere la sua personale battaglia contro un tumore al seno, sconfitto nel 1992 dopo essersi sottoposta ad una doppia mastectomia e a forti cicli di chemioterapia. In seguito a questo primo episodio, Olivia Newton-John diventata ambasciatrice dello screening del cancro al seno e apre persino un centro a Melbourne, la città australiana in cui ha trascorso la sua infanzia. “Il centro clinico a me intitolato è stato un traguardo per fare ricerche sui tumori che sono sempre e per tanti un rischio. Appena posso vado nell’ospedale, stringo le mani di persone di ogni età, bacio i bambini che combattono senza lacrime il male. La vita vera è questa, non il cinema. Bisogna sempre dirlo, ricordarlo ai ragazzi”, dirà parecchi anni dopo.

Il 1992 è anche l’anno in cui la Newton John si lega sentimentalmente al cameraman Patrick McDermott che nel 2005 si finge morto e, solo nel 2016, si scopre che in realtà si era nascosto in Messico per sfuggire al fisco. Ma gli anni 2000, per la cantante, si aprono con la partecipazione alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Sydney e persino Papa Woijtila vuole che si esibisca in Italia in occasione del Giubileo dello stesso anno. Nel 2001 vince, grazie all’album (2) un altro disco di platino. Olivia, invece, nel 2008 sposa l’imprenditore John Easterling con cui, per svariati anni, ha guidato la Wellness March, una marcia che si svolge a Melbourne a favore della ricerca sul cancro. Cancro che l’ha colpita altre due volte nella sua vita: nel 2013 alla spalla e nel 2018 alla colonna vertebrale. La cantante, anche dopo quest’ultima disavventura, ha voluto tranquillizzare tutti i suoi fan. “Le voci sulla mia imminente morte sono state davvero esagerate. In realtà sto alla grande” ha detto la cantante che ha sempre condotto una vita molto salutista e che ha curato anche il cancro con rimedi naturali.

Quella biondina timida che ha brillato con "Grease". Simbolo degli Anni '70, raggiunse il successo planetario con il musical. Poi la carriera come cantante costellata di hit. Paolo Giordano il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Alla fine se ne è davvero volata via a bordo di una scintillante roadster Mercury come in Grease. Ieri mattina Olivia Newton John ha detto basta a una guerra lunga trent'anni, quella al cancro al seno che la assediava da quando stava presentando il disco Back to basics e, maledizione!, si accorse che doveva farsi operare, e poi doveva affrontare la chemioterapia, e poi doveva mettere tra parentesi una carriera stellare. «È morta pacificamente nel suo ranch nel sud della California» ha scritto suo marito John Easterling.

Addio Olivia, una delle stelle più sfortunate dell'Hollywood Boulevard, bravissima, umile, versatile. Nata nel 1948 a Cambridge vicino all'Università ma quasi subito australiana al seguito della famiglia, Olivia Newton John è, come Liza Minnelli o Judy Garland, un prodigio della versatilità. Cantante per vocazione. Attrice per scelta. Diva per volontà di una generazione. Chi oggi la piange, ha pianto e sorriso vedendo e rivedendo la storia d'amore di Danny e Sandy, di John Travolta nel ruolo che avrebbe dovuto essere di Henry Winkler, cioè Fonzie, e di Olivia nella parte della studentessa australiana che per amore si presenta vestita di pelle, i capelli arricciati, la sigaretta tra le dita e un accendino sotto i luoghi comuni della brava ragazza anni Cinquanta. Se c'è una donna che ha simbolicamente lottato per le donne, eccola qui Olivia «Sandy», bravissima ragazza che rimane bravissima anche inseguendo l'amore con un bulletto ballerino. Grease uscì nel 1978, è tuttora il musical cinematografico più visto di sempre, probabilmente il più ricco, sicuramente il più prezioso per chi usciva dall'adolescenza e si ritrovò in un mondo parallelo al grigiore degli anni Settanta, un metaverso ante litteram fatto di rock'n'roll e brillantina mentre esplodevano il punk e i capelloni, di sentimenti conservatori mentre altrove si celebrava l'amore libero, di collegi severi mentre nelle università si pretendeva il 18 a tutti i costi.

Olivia Newton John era perfetta per questo ruolo. Bionda, lineamenti dolci, bella fama da cantante perché aveva già vinto un Grammy Awards con I Honestly Love You. In fondo la musica è sempre stata la vera missione di una carriera iniziata nel 1966 con un brano volatile e poi decollata con le tournèe al fianco di Cliff Richard, il quarto posto all'Eurovision Song Contest del 1974 e infine Grease, il film che con La febbre del sabato sera è diventato la colonna sonora di una, anzi due generarazioni. «È stata la più bella estate della mia vita ma adesso è finita», dice Sandy. «No, questo è soltanto l'inizio» risponde Danny Zuko imbrillantinato. Una delle coppie che allora non si definivano ancora «iconiche» ma che poi sono tra le poche che dureranno per sempre. Dopo Grease, Olivia Newton John inanella successi e pure tracolli (l'album Physical del 1981 fu un trionfo, il musical Xanadu funzionò solo con la colonna sonora), ritorna di nuovo con John Travolta in Two of a kind (Due come noi) che nessuno o quasi si ricorda e incide persino un adattamento in inglese di Tutta la vita di Lucio Dalla (1988). Ma Sandy resta Sandy.

Anche quando recita nel video Liberian girl di Michael Jackson o arriva in Italia a Ti lascio una canzone nel 2011 o canta per settimane al Flamingo di Las Vegas nel 2014 con la sua voce dolce, i pezzi famosissimi, le Summer nights e la Hopelessly Devoted to You che tutti ancora oggi mandano a memoria. «Sarò per sempre il tuo Danny» ha scritto John Travolta ieri sera al volo su Instagram promettendo che «ci vedremo lungo la strada». E in effetti con questa donna forte e sfortunata, con l'attrice che ha combattuto un cancro per trent'anni senza riuscire a vincerlo, muore anche un po' della favola bella e rock'n'roll che alla fine degli anni Settanta riportò il sorriso e i sentimenti a una generazione che se li era scordati.

Grease, così la trasformazione di Sandy ha reso Olivia Newton-John un'icona. Grease è un film che ha fatto la storia del cinema ed è la pellicola più amata tra quelle realizzate da Olivia Newton-John, che interpreta l'iconica Sandy. Erika Pomella il 9 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Con la morte di Olivia Newton-John, avvenuta alla fine di una lunghissima battaglia contro il cancro, non sorprende che i palinsesti televisivi subiscano dei cambiamenti per omaggiare l'attrice e cantante, all'alba della sua dipartita. Proprio per questo Italia 1 ha deciso di cambiare la propria programmazione e questa sera trasmette in prima serata Grease, il film più conosciuto tra quelli interpretati dall'attrice e vera e propria pietra miliare della storia del musical e della settima arte. L'appuntamento, dunque, è per le 21.20 su Italia 1 con la pellicola firmata da Randal Kleiser e arrivata al cinema nel 1978.

Grease, la trama

Sandy (Olivia Newton-John) e Danny (John Travolta) si conoscono durante l'estate e tra i due nasce una bella relazione estiva, con baci lasciati in riva al mare. Tuttavia, con la fine della stagione, i due sono costretti a lasciarsi. Danny deve tornare a scuola e Sandy è pronta a tornare in Australia, sua terra d'origine, coi suoi genitori. Le cose, tuttavia, non vanno come previsto e il primo giorno di scuola Danny scopre che Sandy non è tornata in Australia e che si è trasferita nella sua scuola. Quello che potrebbe essere un lieto fine si trasforma invece in una serie di ostacoli. Danny, infatti, è il leader dei T-Birds e il ragazzo più popolare della scuola, con una reputazione da difendere che subirebbe un arresto se si avvicinasse a una ragazza tanto casta e ben educata come Sandy. A causa di una piccola trappola ordita da Rizzo (Stockard Channing), Danny è costretto a trattare male Sandy, che non crede ai suoi occhi e promette a se stessa di trovare un modo per superare quella delusione. Mentre la relazione tra Danny e Sandy ondeggia alla ricerca di un proprio equilibrio, Rizzo comincia una relazione con Kenickie (Jeff Conaway), mentre gli altri T-Birds e le Pink Ladies cercano di trovare il proprio posto nel mondo.

Sandy e Olivia Newton-John: storia di un'icona

Grease è stato un film capace di fare la storia del cinema, riuscendo non solo a fare un grande incasso al box-office ai tempi della sua uscita in sala, ma soprattutto a vincere la prova del tempo, diventando un cult transgenerazionale, che finisce con l'irretire sempre nuove fasce di pubblico. E se, da una parte, questo successo è dovuto senza dubbio alla partitura musicale che racconta la storia d'amore tormentata tra il leader Danny e la dolce Sandy, molto del suo successo si deve anche alla scelta di portare sul grande schermo un personaggio come Sandy, capace di reinventarsi, grazie anche alla straordinaria interpretazione di Olivia Newton-John. Spesso, nell'analizzare Grease, si sottolinea come il personaggio di Rizzo sia una vera e propria bandiera del femminismo, capace di sconfiggere i pregiudizi di una società chiusa nei confronti della liberazione femminile. Rizzo è quella che vive il sesso in modo libero, che non accetta di sottostare allo status quo che la vorrebbe silenziosa e pudica, incapace di vivere gli anni migliori della sua vita.

Una costruzione narrativa, questa, che spesso ha messo in ombra l'evoluzione di Sandy, che all'inizio appare come una ragazzina spaventata con larghe gonne color pastello e che, alla fine, è chiusa in una tuta sexy con una giacca di pelle, capace di far cadere letteralmente Danny ai suoi piedi. Sandy è un personaggio che, senza troppe dichiarazioni di indipendenza, dimostrava alle donne dell'epoca che potevano essere quello che volevano e che non dovevano sottostare a una sola categoria. Sandy evolve e lo fa non per accontentare un uomo, ma perché è lei che vuole scegliere chi essere e come apparire. Danny, al contrario, rimane sempre uguale a se stesso, mentre Sandy si trasforma, cambia, si reinventa e gioca con se stessa e con il suo aspetto, dimostrando di essere in realtà molto più libera di Rizzo, chiusa lei stessa in un ruolo che la società scolastica ha deciso per lei. Questo ha fatto sì che il personaggio di Sandy diventasse iconico, aiutato anche dalla scelta dei costumi indossati nella sequenza finale.

Quella biondina timida che ha brillato con "Grease"

Come si legge su Vogue, il costumista di Grease, Albert Wolsky voleva creare una vera e propria dicotomia in Sandy, giocando con i costumi. Per tutto il film Sandy indossa abiti pastello e cerca disperatamente di adeguarsi alle aspettative del fidanzato. Tuttavia, nella scena finale di You're the one that I want, la ragazza appare con una giacca di pelle e pantaloni neri in spandex (un tessuto elastico) e in un attimo emerge dalla folla. Paradossalmente, in una scena ambientata in una sorta di circo dove tutti indossano abiti colorati, Sandy emerge coi suoi abiti neri. Sebbene, come si legge sempre su Vogue, l'abito non fosse il più comodo per danzarci dentro, esso ha contribuito a rendere iconico tanto il personaggio di Sandy quanto l'attrice che l'interpretava.

Olivia Newton-John, 1948-2022. L’egemonia di Sandy, la pessima reputazione di Rizzo e l’età dell’innocenza color pastello. Guia Soncini su L'Inkiesta il 9 Agosto 2022

Piangiamo il tempo andato che non ritornerà e l’intrattenimento a forma di Big Babol di Grease, consapevoli che il lato oscuro prima o poi arriva 

Stavamo tutte dalla parte di Stockard Channing. Lo so che quando muore qualcuno si porta la diplomazia, ma ci sono cose su cui mentire non ha senso, e una di queste è: se siete state bambine (ancora di più: se siete state adolescenti) negli anni in cui usciva Grease, non tifavate per Olivia Newton-John, convinta a ragione che prima o poi l’amore arriva.

Sandy, già dai titoli di testa, era quella che qualche anno dopo avremmo imparato a chiamare «quella gran culo di Cenerentola». Era la brava ragazza. Era quella coi golfini pastello. E nessuna che stia diventando donna, in senso debeauvoiriano, vuol essere la brava ragazza prevedibile e stucchevole, per quanto belloccia. Neanche quelle che lo sono; specialmente quelle che lo sono.

Rizzo, invece. Rizzo che aveva una pessima reputazione, che forse restava incinta per sbaglio (che frisson: all’epoca nessuno ne approfittava per farci la morale circa le legislazioni abortive), Rizzo che la brava ragazza la prendeva così efficacemente per il culo: Look at me, I’m Sandra Dee.

Non sapevamo ancora che egemonia fosse quella della biondina la cui antagonista ha il proprio momento di gloria facendole la parodia. E non sapevamo – almeno non lo sapevo io, che quando uscì avevo sei anni scarsi e notavo solo i colori pastello delle macchine e dei golfini, che poi erano gli stessi di Happy Days; e, poiché non c’era l’internet a spiegarci che sia Happy Days sia Grease erano ambientati vent’anni prima, mi convinsi come tutte che l’America fosse una terra pastellata – che Grease era la storia di tutti i flirt del mondo.

In cui lui racconta agli amici esagerando d’averti ribaltata, perché vuole la loro approvazione; e lei al primo bacio già prova il nome col cognome di lui o quasi, perché quella è la sua parte in commedia (oggi si direbbe: condizionamento patriarcale; che fortuna crescere in anni meno seriosi).

Non sapevamo che, come tutte le eroine ultra-americane da Rossella O’Hara in giù, Sandy non era mica americana. Era un’inglese cresciuta in Australia che a quel punto aveva già una carriera di cantante, aveva vinto tre Grammy (il quarto sarebbe arrivato negli anni Ottanta con Physical, che se non l’avete ballata con gli scaldamuscoli non so cos’abbiate attraversato quel decennio a fare).

Ma sarebbe andata, senza la parte psichiatrica, come con Vivien Leigh: che un ruolo si mangiava tutti gli altri. (Raccontano le biografie della Leigh che in una clinica psichiatrica un’infermiera che cercava di calmarla le dicesse «io la conosco, lei è Rossella O’Hara», e quella strillasse «io non sono Rossella O’Hara, io sono Blanche duBois»).

Qualunque cosa facesse, negli ultimi quarantaquattro anni Olivia Newton-Jonn è stata Sandy. Era sempre la vergine bionda col golfino sulle spalle, non importava quante volte facesse notare che nessuna delle dive virginali del cinema americano aveva davvero un imene intatto, «Doris Day ha avuto quattro mariti». Era sempre quella alla cui svolta con giubbotto di pelle nel finale non credeva nessuno.

In questi quarantaquattro anni, Sandy – diversamente da Danny Zuko – non ha avuto un Tarantino che ne sfruttasse l’iconicità rivoltandogliela contro. La scena di Pulp Fiction in cui balla sfasciato facendo il verso a sé stesso ce l’ha avuta John Travolta, perché sfasciarsi è privilegio dei maschi e Cenerentola deve avere lo stesso punto vita di quand’era ragazzina: lo pretendiamo perché è il nostro specchio, e non vogliamo vedere le ragnatele sui nostri poster di formazione.

Trenta di questi anni, Olivia Newton-John li ha passati con le recidive d’un cancro al seno che le era venuto per la prima volta nel 1992, e sembrava superato, guarito, schivato. È la cosa che più spezza il cuore del sapere che Sandy è morta a 73 anni, un’età che oggi è praticamente l’inizio dell’età adulta.

Piangiamo, come sempre, per noi stesse, e quindi per tutte le amiche che hanno annunciato trionfali «ho battuto il cancro», evidentemente prive di scaramanzia e di contezza dei dati statistici. Piangiamo le certezze che non possiamo avere: che le biondine che redimono i playboy da liceo abbiano vite lunghissime e moderatamente noiose, che il cancro al seno sia ormai una robetta che la prevenzione rende risibile, che Rizzo non possa restare senza una bionda sulla quale infierire quando ha bisogno di distrarsi dal timore d’avere una pagnotta nel forno.

Piangiamo la ragazza nella nuova scuola le cui vecchie allieve le fanno sudare l’integrazione in anni in cui nessuno usava la parola «inclusivo», piangiamo il tempo andato che non ritornerà, l’età dell’innocenza in colori pastello, i musical di cui imparavamo tutte le canzoni a memoria subito per quant’erano moschicide, le canzoni in cui gli amici di lui chiedevano «Dicci un po’: ha provato a opporre resistenza?» senza che nessuno ci dicesse che se guardavamo film che esaltavano la cultura dello stupro eravamo brutte persone.

Piangiamo l’intrattenimento a forma di Big Babol, che sembrava Gioventù Bruciata (che è degli anni in cui era ambientato Grease) ma senza il lato oscuro. Piangiamo la scoperta che poi, fuori dal cinema, prima o poi il lato oscuro arriva. 

Addio all’attrice Olivia Newton-John, indimenticabile protagonista di “Grease”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno l'8 Agosto 2022 

L'attrice e cantante si è spenta "in pace nel suo ranch in California circondata dall'affetto di familiari e amici", spiega un comunicato diffuso sui social. Star planetaria tra fine anni 70 e primi 80, era diventata testimone della lotta contro il cancro al seno, di cui nel 2017 aveva subito una prima recidiva. Il messaggio di John: "Tuo dal primo momento che ti ho visto e per sempre"

Dopo una lunga battaglia contro il cancro all’età di 73 anni è morta Olivia Newton John, la biondina timida, la dolce Sandy con il golfino color del cielo sulle spalle e il nastro nei capelli che si trasforma in una pantera sexy inguainata in un total black di pelle nera e capigliatura cotonata nel film cult di “Grease” che l’ha resa indimenticabile accanto a John Travolta. La triste notizia è stata annunciata su Instagram da suo marito, John Easterling, sottolineando che la cantante e attrice si è spenta “serenamente nella suo ranch nel sud della California, circondata da familiari e amici”. 

Il suo calvario era iniziato nel 1992 con un tumore al seno, che inizialmente aveva sconfitto, diventando una fiera e battagliera sostenitrice dello screening del cancro al seno: a Melbourne, in Australia, un centro per la lotta al cancro porta il suo nome. Poi nel 2013 la doccia fredda e la recidiva, estesa anche alla spalla, che l’aveva costretta a rinviare un tour negli Stati Uniti e in Canada. “Paura? No. Mio marito mi è sempre accanto, mi sostiene e sono convinta che sconfiggerò la malattia: questo è il mio obiettivo“, aveva spiegato. Nel 2017 le era stato diagnosticato un tumore alla schiena, alla base della colonna vertebrale. 

“Olivia è stata un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni condividendo il suo viaggio con il cancro al seno – ha scritto ancora Easterling –La sua ispirazione curativa e la sua esperienza pionieristica con la fitoterapia continuano con il Fondo Olivia Newton-John Foundation, dedicato alla ricerca sulla fitoterapia e sul cancro. Al posto dei fiori, la famiglia chiede che qualsiasi donazione sia fatta in sua memoria alla atonjfoundation“. 

La carriera di Olivia Newton John

Nata a Cambridge nel 1948, dopo l’infanzia e l’adolescenza in Australia, Olivia Newton-John si trasferì nel 1966 nel Regno Unito dove iniziò la carriera nella musica incidendo il suo primo singolo “Till you say be mine”. Nel 1974 si classificò al quarto posto all’Eurovision Song Contest con il brano “Long Live Love“.

Adarle la grande popolarità, nel 1978, fu “Grease“, il musical di maggior successo nella storia del cinema. Da allora ha pubblicato numerosi singoli di successo, diventati numero uno, collezionato tour a livello internazionale e diversi premi Grammy. Nel 2017 ha girato gli Stati Uniti con l’album “Live On“, inizialmente sospeso per i dolori alla schiena causati dal tumore.

Olivia lascia suo marito John Easterling; la figlia Chloe Lattanzi; la sorella Sarah Newton-John; fratello Toby Newton-John; nipoti e nipoti Tottie, Fiona e Brett Goldsmith; Emerson, Charlie, Zac, Jeremy, Randall e Pierz Newton-John; Jude Newton-Stock, Layla Lee; Kira e Tasha Edelstein; e Brin e Valerie Hall.

“Amo cantare, è tutto ciò che so fare – aveva detto in un’intervista -. Tutto ciò che ho fatto da quando avevo 15 anni, quindi è la mia vita“. Tra i suoi più grandi successi, nel 1981 il singolo “Physical” seguito dall’omonimo album, vincitore di diversi dischi d’oro e di platino. Nello stesso era stata consacrata dalla stella sulla Hollywood Walk of Fame. 

L’addio di John Travolta

“Ci rivedremo ancora lungo il cammino e saremo di nuovo uniti, di nuovo insieme. Sono sempre stato tuo dal primo momento in cui ti ho vista e lo sarò sempre. Il tuo Danny, il tuo John”. Con queste parole si chiude il ricordo commovente, che John Travolta ha affidato ai suoi profili social dopo la scomparsa a 73 dell’attrice Olivia Newton-John, sua partner indimenticabile indimenticata nel film ‘Grease‘. “Mia cara Olivia – ha scritto Travolta – hai fatto così tanto per rendere le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile. Ti amo tanto“. Redazione CdG 1947 

 Olivia Newton-John morta a 73 anni. Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera l'8 Agosto 2022

Famosa per Grease e il ruolo di Sandy accanto a John Travolta 

Quando — per la terza volta nel corso della sua esistenza— Olivia Newton-John si era sentita dire da un medico di avere un aggressivo tumore al seno, l’attrice aveva scelto di non chiedere quale fosse la sua prospettiva di vita: «Non so quanto vivrò ancora, non ho nemmeno voluto saperlo dai dottori. Sono grata per ogni giorno che ho», aveva detto, svelando con quel suo garbo che l’aveva resa presto un’icona, che avrebbe inteso ogni giorno che le restava da lì in avanti come un regalo. Era il 2019.

L’8 agosto è stato il suo ultimo. Aveva 73 anni. «La signora Olivia Newton-John è morta pacificamente nel suo ranch nel sud della California questa mattina, circondata da familiari e amici», ha fatto sapere suo marito John Easterling, pubblicando l’annuncio sulla sua pagina Facebook. Aggiungendo: «Olivia è stata un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni, condividendo il suo percorso con il cancro al seno. La sua ispirazione nella guarigione e l’esperienza pionieristica con la medicina delle piante continuano con il Fondo della Fondazione Olivia Newton-John, dedicato alla ricerca sulla medicina delle piante e sul cancro. Al posto dei fiori, la famiglia chiede che ogni donazione sia fatta in sua memoria al Fondo Olivia Newton-John Foundation». Poche parole, quindi, prima di invocare il diritto a un po’ di silenzio: «Chiediamo a tutti di rispettare la privacy della famiglia in questo momento molto difficile».

Poche parole però, che lasciano anche intendere quanto il messaggio che ha lasciato l’attrice dal sorriso gentile e dal temperamento di ferro non si esaurisca con ieri. Se il grande pubblico aveva imparato ad amarla principalmente per il suo indimenticato ruolo di Sandy Olsson in Grease (era il 1978), col tempo tutti avevano capito quante cose questa attrice avesse in comune con quel personaggio: gentile e dolce, è stata capace di affrontare la sfida enorme della malattia con determinazione e coraggio.

In televisione, in una delle sue ultime apparizioni, qualche anno fa, aveva parlato anche della morte: «In quanto essere umano, ciascuno ha una prospettiva di vita. La nostra condizione è quella di morire, prima o poi. Il cancro ti fa ragionare su questo ma in fondo nessuno può sapere quando accadrà». E così, dopo aver già avuto altre due volte il cancro al seno, nel 1992 e nel 2013, dopo aver affrontato una mastectomia e pesanti chemioterapie, aveva deciso di attraversare ancora una volta la malattia senza farsi schiacciare dal suo peso, ma anzi decidendo di prendersi una pausa dal lavoro per dedicarsi agli altri, proprio attraverso la sua associazione. Anche allora, si era definita fortunata. «Fortunata per aver attraversato tutto questo tre volte e essere ancora qui».

La sua voce, per lei che era nata come cantante, in Australia (la musica è sempre rimasta la sua grande passione e nella sua carriera ha venduto oltre cento milioni di dischi), è stata dunque più importante che mai, veicolo di potenti messaggi capaci di fare la differenza per tante persone. Compreso il suo caro amico e grande amore sullo schermo John Travolta, legato a lei da quel musical che per entrambi aveva cambiato tutto. Nel ricordarla, Travolta è tornato ad essere quel Danny Zuko che stravedeva per lei, nonostante le arie da duro. «Mia cara Olivia — ha scritto l’attore poco dopo l’annuncio della morte della sua collega —, hai fatto così tanto per rendere le nostre vite migliori. Il tuo impatto è stato incredibile... Ti ho amato tanto. Ci rivedremo ancora lungo il cammino e saremo di nuovo uniti, di nuovo insieme. Sono sempre stato tuo dal primo momento che ti ho vista e lo sarò sempre. Il tuo Danny, il tuo John». 

Olivia Newton-John, che vita straordinaria: così Sandy di Grease ha indicato la via a Madonna e le altre. Matteo Persivale su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022

Cantante, attrice e ballerina di estremo talento, ha sperimentato gli stili più diversi senza sforzo. Annunciava così il ritorno della malattia: «Ho avuto una vita straordinaria» 

«Ho avuto una vita straordinaria» disse nell’intervista che annunciava il ritorno inaspettato della malattia, con il sorriso di sempre (il coraggio è grazia sotto pressione, diceva Hemingway) per non spaventare il popolo globale dei suoi milioni di fan, come se fosse lei a dover consolare noi e non il contrario.

La vita di Olivia Newton-John, scomparsa ieri a 73 anni, è stata straordinaria come la sua carriera, attraverso cinque decenni, danzando e cantando: musica diversissima, stili diversissimi, con la costante del suo talento e della sua sincerità, illuminando con la sua intelligenza le scelte artistiche più diverse.

Il pop sentimentale di “I Honestly Love You” che la fece conoscere, quasi ragazzina, al mondo; il country (incredibile ma vero) di “Let Me Be There,” la nostalgia anni ‘50 di “Grease” prima che gli anni ‘50 tornassero di moda, la disco, il classico hollywoodiano anni ‘40 con Gene Kelly in “Xanadu”, il rock di “Magic”, la aerobica di “Physical” e così via, fino alla recente “residency” di tre anni a Las Vegas, un concerto dopo l’altro delle sue “greatest hits”.

Aveva il dono – tra i tanti – della leggerezza, di essere se stessa facendo cose diversissime, precedendo Madonna e Kylie e Beyoncé e Lady Gaga e tutte le altre alle quali, senza farlo pesare, indicò la via. Per capire il lutto globale per la sua scomparsa si possono scrivere saggi sulla sua musica, sulle sue scelte professionali, sui suoi look sempre contemporanei anche quando faceva il verso al passato – basta guardare Sandy di “Grease”, con la chioma bionda più famosa del mondo, la frangetta da liceale “old school” ma miracolosamente mai noiosa, e il look più aggressivo cotonato che non diventa mai, come per magia, una “cofana”, perché a portarlo è lei.

Adattava tutto alla sua personalità, illuminando abiti e capelli e makeup con la sua intelligenza (il nonno era un premio Nobel, il papà ex spia del Mi5 e professore universitario con la passione dell’opera), tenendo testa a Kelly e Travolta senza apparentemente faticare (le mancava Astaire, ma era troppo anziano, per poter dire di aver ballato con i tre più grandi del mondo).

Aveva il talento speciale di far sembrare facili le cose impossibili, come farci sorridere anche quando ci disse che il tumore era ritornato dopo trent’anni ma aggiunse subito che con lei c’erano «il marito migliore del mondo e la figlia migliore del mondo, e il mio zoo di gatti, cani, cavalli (da bambina voleva fare la veterinaria, ndr)», troppo umile dall’alto dei suoi 100 milioni di dischi venduti per aggiungere all’elenco i milioni di amici in tutto il mondo che le volevano bene anche senza averla mai conosciuta, e che sanno che non ne vedranno mai un’altra, di Olivia Newton-John. E quando un giorno arriverà un altro talento simile, i suoi fan potranno scegliere il complimento più bello: dire «quest’artista ci ricorda un po’ Olivia Newton-John».

 Olivia Newton-John: "Ho il cancro per la terza volta, ma non voglio sapere quanti giorni mi restano". La Repubblica l'8 Agosto 2022  

L'intervista rilasciata dall'attrice a '60 minutes Australia' sta facendo il giro del mondo. L'attore australiano Hugh Jackman ha inviato un messaggio di solidarietà diventato virale

"Sono fortunata, ci sono passata per tre volte e sono ancora qui". Con il sorriso e la grazia che la caratterizzano, Olivia Newton-John ha raccontato alle telecamere di '60 minutes Australia' cosa significa convivere con il cancro per la terza volta. Dal 2017 l'attrice e cantante, resa celebre dal personaggio di Sandy in 'Grease', sta combattendo un cancro al seno al quarto stadio che i medici hanno definito non curabile.

"Quando ti viene diagnosticato il cancro o una grave malattia - ha detto l'attrice -  improvvisamente ti viene posto davanti un limite di tempo. Se qualcuno ti dice che ti restano sei mesi da vivere - ha continuato - molto probabilmente andrà così perché ci crederai. Per me, psicologicamente, è meglio non avere idea di quanto tempo ho ancora da vivere". Per questo considera "ogni giorno come un regalo". 

La prima volta che le fu diagnosticato il cancro era il 1992, poi di nuovo nel 2013. La terza è stata nel 2017, poco prima di compiere 70 anni. Nonostante le ricadute, la speranza di sconfiggere del tutto la malattia non si è mai affievolita. E ora sembra più determinata che mai a non arrendersi. 

Nella lunga intervista Olivia ha trattato anche il capitolo delle cure. "Credo che la cannabis faccia una grande differenza — ha spiegato —. Se non prendo le gocce sento che fa male, quindi so che funziona". 

A lei e alla sua forza, l'attore australiano Hugh Jackman ha inviato un messaggio di solidarietà diventato virale, registrato durante una data del suo tour 'The Man. The Music. The Show' a Sydney, Jackman con circa 15mila persone presenti.  "Sei una persona fantastica - ha scritto l'attore sul suo profilo Instagram - la madre migliore, la migliore cantante e ballerina. Ti vogliamo bene". 

Olivia Newton-John morta a 73 anni. Divenne una star planetaria con Travolta in 'Grease'. Paolo Gallori La Repubblica l'8 Agosto 2022  

L'attrice e cantante si è spenta "in pace nel suo ranch in California circondata dall'affetto di familiari e amici", spiega un comunicato diffuso sui social. Star planetaria tra fine anni 70 e primi 80, era diventata testimone della lotta contro il cancro al seno, di cui nel 2017 aveva subito una prima recidiva. Il messaggio di John: "Tuo dal primo momento che ti ho visto e per sempre"

La cantante e attrice Olivia Newton-John è morta all'età di 73 anni. Divenne famosa presso il pubblico di tutto il mondo nel 1978, quando interpretò il ruolo di Sandy in Grease accanto a un John Travolta, Danny nel film, al massimo della popolarità dopo La febbre del sabato sera. L'annuncio della morte è arrivato attraverso un post apparso sul profilo instagram di Olivia Newton-John: "La signora si è spenta in pace questa mattina nel suo ranch nella California meridionale, circondata dalla famiglia e dagli amici". Anche il marito dell'artista ha dato la notizia via social, con un comunicato pubblicato su Facebook: "Chiediamo a tutti di rispettare la privacy della famiglia in questo momento molto difficile".

La causa del decesso non è stata resa nota. Di certo, Olivia Newton-John non aveva fatto mistero della sua battaglia contro il cancro al seno. Per questo suo marito l'ha ricordata come "un simbolo di trionfi e speranza per oltre 30 anni, condividendo il suo viaggio con il cancro al seno. La sua ispirazione nella guarigione e l'esperienza pionieristica con la medicina delle piante continuano con la Fondazione Olivia Newton-John dedicata alla ricerca sulla medicina delle piante e sul cancro".

Il messaggio più atteso, quello di John Travolta, arriva via Instagram: "Mia carissima Olivia, hai reso tutte le nostre vite molto migliori. Il tuo impatto è stato incredibile. Ti voglio tanto bene. Ci vedremo lungo la strada e saremo di nuovo tutti insieme. Tuo dal primo momento che ti ho visto e per sempre! Il tuo Danny, il tuo John!".

Olivia Newton-John era nata in Inghilterra, a Cambridge, il 26 settembre del 1948. La sua famiglia si era poi trasferita in Australia quando aveva 5 anni, ma è nel Regno Unito che cominciò la sua ascesa, grazie al concorso per giovani talenti che, premiandola, lì la riportò. Era la seconda metà degli anni 60, Olivia incide il suo primo singolo per la Decca, Til You say Be Mine, conosce Cliff Richard e varca la soglia degli studi televisivi. Il suo volto dolcissimo e la sua vocalità vellutata e cristallina entrano nelle case inglesi poi la sospingono fino a un quarto posto all'Eurofestival del 1974 con il brano Love Live Love, primo di una seria di piazzamenti nelle charts di tutto il Commonwealth, fino alla conquista del Grammy per I Honestly Love You quale migliore intepretazione vocale femminile.

Per Olivia era pronto il salto sul palcoscenico del mondo. Che giunge, come ricordato all'inizio, con la megaproduzione cinematografica per il musical Grease ad opera del grande produttore Robert Stigwood, l'uomo dietro il colossale successo de La febbre del sabato sera appena un anno prima. Quel film di colpo aveva fatto del quasi debuttante John Travolta un divo imitato nell'andatura, nel look e nei passi di danza dai ragazzi nelle discoteche dell'intero pianeta. Una vera febbre, che aveva creato attorno al successivo film di John un'attesa spasmodica. In Grease, Travolta rivestirà i panni di Danny Zucco, leader di una gang di rocker di Los Angeles che, una volta in vacanza a Malibu e smessa la divisa da duro per indossare camicia e costume da bagno, si scioglie come il burro davanti al bel visino di Sandy. Il ruolo della ragazza è il più ambito da tutte le aspiranti divine di fine anni 70. Le qualità vocali e l'esperienza maturata nei musical permetteranno a Olivia Newton-John di vincere la corsa.

Un evento speciale a Cannes celebra i 40 anni di Grease con una proiezione sulla spiaggia della versione restaurata del film, presentata da John Travolta e dal regista Randal Kleiser. Per l'importante anniversario, il musical torna in edizione restaurata in Dvd, Blu-ray e 4K Ultra Hd con Universal Pictures Home Entertainment Italia (che distribuisce sul mercato italiano il marchio Paramount) con più di un'ora di bonus tra cui vecchie interviste e scene eliminate. Inoltre è presente la canzone originale con cui è stata animata la sequenza dei titoli di testa e un finale alternativo recuperato dalla copia originale in 16 mm e bianco e nero scoperta dal regista Randal Kleiser.

Quando il film arrivò nelle sale, negli Stati Uniti il pubblico si mise in fila attorno a interi isolati e per settimane. Immagini che contagiarono nuovamente il resto del mondo, facendo di Grease un nuovo fenomeno, uno dei musical di maggior successo al botteghino nella storia del cinema. Come un grande successo nelle classifiche di tutto il mondo fu la colonna sonora, in cui spiccava il vibrante duetto You Are The One (That I Want) accompagnato dalla indimenticabile sequenza del film in cui la romantica Sandy decide di conquistare il suo Danny usando le maniere forti: via gli abiti da candida liceale e vai di boccoli al vento, giacca di pelle, rossetto sgargiante e sigaretta tra le labbra. Quella scena fece di Olivia Newton-John una celebrità mondiale e da sola valse il ricordo che di lei hanno conservato negli anni a venire i giovani del suo tempo. Ed è quella scena a rendere solo un pallido ricordo il flop di Xanadu, il film musicale cucito addosso a Olivia Newton-John nel 1980, con la partecipazione del mito Gene Kelly. L'ultima importante testimonianza di Olivia superstar resta probabilmente il singolo Physical, che nel 1981, ormai nell'era dei videoclip, la propose in un'immagine sexy fasciata in abitini da palestra. Il video "bucò" e portò Olivia ancora una volta al trionfo nei Grammy.

Nel 1983, con il "travoltismo" in crisi, John e Olivia ci riproveranno insieme con l'obiettivo di rilanciarsi sul grande schermo. Ma Two Of A Kind (in Italia Due come noi) è una scommessa persa, nonostante il buon successo della colonna sonora. La carriera di Olivia Newton-John ovviamente non si fermerà, ma il suo momento d'oro nell'immaginario del pubblico resta legato a quel passaggio di decennio incredibile. Sarà il cancro al seno a fermarla, la prima volta nel 1992. Olivia non si nasconde, lo annuncia al mondo in conferenza stampa e si allontana dalle scene per curarsi. Mastectomia e chemioterapia sembrano aver avuto la meglio sul male e due anni dopo Olivia riprende da dove aveva lasciato, tra dischi, concerti e televisione.

L'illusione si spezza 13 anni dopo, quando Olivia sospende un tour per la recidiva. Stavolta il verdetto è terribile: tumore al seno con metastasi al sacro. Passano due anni e nel corso di uno show tv Olivia Newton-John rivela la diagnosi di una terza recidiva, col coinvolgimento della colonna vertebrale e massiccio uso di morfina per combattere almeno il dolore. Quando Olivia è ormai lontana dai riflettori, John Travolta la ricorda al "G'Day 2020", parlando per la prima volta della malattia che sta consumando la sua partner in Grease. "E' una sopravvissuta. Una donna intelligente, con tanta voglia di vivere. Vede il bicchiere mezzo pieno e questo è il suo bellissimo approccio alla vita. Penso che tutti noi dovremmo farlo". 

Una lezione. Difficile immaginare la sofferenza a cui è stata costretta Olivia Newton-John nello scorcio finale della sua esistenza. Difficile anche immaginarla lontano dalla scena, lei che per lo spettacolo era evidentemente nata. Molto più facile ricordare gli occhioni blu e il sorriso di Sandy, la ragazza che ridusse in burro il cuore di Danny. 

John Travolta ricorda 'Grease': "Mi ha dato la vita, è iniziato tutto da lì". Silvia Bizio su La Repubblica il 16 maggio 2022 

L'attore al festival per presentare 'Gotti' in cui interpreta il boss mafioso di Little Italy e per i 40 anni del cult con Olivia Newton-John: "A 18 anni vidi il musical a Broadway e la mia passione segreta fu quella di interpretare Danny. L'ho fatto al cinema, ed è stata la mia gioia più bella"

John Travolta è la vera star quest'anno sulla Croisette. L'attore è a Cannes per presentare Gotti, il film diretto da Kevin Connolly in cui interpreta il boss mafioso di New York della Little Italy anni 70 e 80 (morto in prigione di cancro a 61 anni nel 2002) e per il 40esimo anniversario di Grease, il musical che ha interpretato con Olivia Newton-John e che ha presentato in versione restaurata in un'affollatissima proiezione sulla spiaggia.

Cannes, come in Pulp Fiction: John Travolta scatenato al concerto di 50 Cent

Non solo, Variety lo ha scelto per il suo primo "Icon Award", premio che gli è stato consegnato durante una grande festa all'Hotel du Cap, con ospiti intrattenuti dal rapper 50 Cent e un video in cui viene celebrato da Barbra Streisand, Oprah Winfrey e Robert De Niro. L'attore e provetto pilota, 64 anni, è arrivato in Costa Azzurra guidando uno dei suoi tre aerei accompagnato dalla famiglia, la moglie Kelly Preston (anche lei nel film, nel ruolo della signora Gotti) e i due figli Ella, 18 anni, e Ben, 7 anni. Lo incontriamo al Carlton Hotel sulla Croisette.John Travolta con la moglie Kelly Preston e i figli Ella e Benjamin (afp)Mr. Travolta, lei ha lavorato per sei anni per realizzare questo film. Cosa l'affascinava tanto di John Gotti?

"Come attore, mi attirava il fatto che Gotti fosse stato un personaggio molto ambiguo e complesso. Si comportava in maniera interessante: c'era la famiglia da una parte e il crimine dall'altra. Una figura divertente, un po' comica, non dico alla Soprano, una serie che mi dicono sia ispirata molto a Gotti, pur non avendo il carisma di James Gandolfini, ma quasi". John Travolta con la moglie Kelly Preston e John A. Gotti (afp)Che ricerche ha compiuto?

"Tantissime. Ho parlato con il figlio John Gotti jr., che è qui a Cannes con noi, con la vedova Victoria e con molte persone che lo conoscevano personalmente. Ho chiesto a tutti: perché gli volevate bene, non era un mafioso?  E loro mi rispondevano: è vero, ma Gotti ci ha anche protetti, e ci dava sempre una mano se andavamo in rosso. Certo, Gotti era un gangster, ma uno di quelli per cui tanti fecero il tifo. Gotti svolse perfino attività umanitarie, a modo suo. E la gente credeva in lui". 

Anche lei anche svolge lavoro umanitario. Senza la mafia di mezzo.

"Certo, sto parlando di Gotti come attore, come sua  maschera, e non voglio difenderlo o giustificarlo. Ma un attore deve sempre provare una 'simpatia' per il personaggio che è chiamato a interpretare. Io come persona, oltre che come celebrità, voglio battermi per i diritti umani e civili, per la giustizia nel mondo".

'Grease', il 40esimo anniversario del musical

È qui a Cannes anche per il 40esimo anniversario di Grease, da lei interpretato accanto a Olivia Newton-John nel 1978, subito dopo La febbre del sabato sera. Un ricordo?

"Ricordi? Un milione. Quando avevo 18 anni vidi quel musical a Broadway e rimasi fulminato. L'anno dopo mi feci avanti e venni ingaggiato dalla stessa compagnia a teatro:  non interpretai il ruolo di protagonista, ma una semplice spalla. La mia passione segreta era sempre stata quella di interpretare Danny in Grease. Non avvenne a Broadway ma al cinema. Non posso lamentarmi. Quel musical mi ha dato la vita, davvero. La mia carriera è iniziata da lì, Grease è stata la mia gioia più bella".

Quindi lei è un amante dei classici di Hollywood?

"Certo, è così che sono nato come attore. Il mago di Oz, Yankee Doodle Dandy (Ribalta di gloria) e film così. Sono uno vecchia maniera. Lo ero allora, a vent'anni, e lo sono ancora adesso". 

Gotti era anche un damerino, cui piaceva vestirsi con abiti di sartoria. Sembra un tratto che vi accomuna.

"Non lo nego, mi piace vestirmi bene e sono un maniaco delle buone maniere, soprattutto a tavola. È un tratto che ho ereditato da mia madre. Anche se non avevamo molti soldi, ha impartito a me e ai miei fratelli e sorelle modi principeschi. 'Voi non avete niente da invidiare ai reali di Windsor' ci diceva. E io sono venuto su così: tengo molto all'etichetta, sia l'uniforme quando piloto i miei aerei - mia moglie Kelly ogni tanto mi costringe a vestirmi da pilota perché dice che sono molto affascinante - che tutto ciò che indossiamo o facciamo. A me piace la classe. Lo confesso, sono un fanatico della moda e soprattutto dello stile italiano. Le mie origini italiane non mentono, e le sento sempre più forti, anche con i miei figli, man mano che passano gli anni". 

A cosa deve il suo enorme successo?

"Alla fortuna, come si dice sempre. Ma diciamo anche che sono tenace per natura, e che riesco a ignorare le interferenze. Sono diventato famoso con due film girati uno dopo l'altro, La febbre del sabato sera e Grease. E ora con Gotti è la quadratura del cerchio. Nel mio prossimo film reciterò in Italia accanto a mia figlia Ella in Poison Rose. Potrei essere più felice?".

Da ansa.it il 12 agosto 2022.

Olivia Newton John avrà funerali di Stato in Australia. Lo ha confermato il premier dello Stato del Victoria, Dan Andrews. In un post su Twitter Andrews ha scritto che la famiglia dell'attrice e cantante morta lo scorso 8 agosto a 73 anni a causa di un cancro ha accettato l'offerta da parte dell'Australia. "Sarà più un concerto che un funerale si legge nel post - all'altezza di una vittoriana che ha vissuto una vita così intensa e generosa". I dettagli della cerimonia non sono ancora stati resi noti.

La Newton-John nacque nel Regno Unito ma si trasferì in Australia all'età di cinque anni divenendo subito una delle celebrity più amate del Paese. Intanto su Instagram il marito John Easterling le ha reso omaggio con un post commovente. Easterling ha definito il loro matrimonio (la coppia si sposò nel 2008) e la loro vita assieme come un 'amore che trascende la comprensione'. Ha aggiunto inoltre che la moglie era come una medicina che usava il mezzo della canzone, delle parole, del tocco.

"Era la donna più coraggiosa che abbia mai conosciuto - dice - la sua capacità di prendersi cura sinceramente delle persone, della natura e di tutte le creature quasi ecclissa ciò che è umanamente possibile. E' solo per grazia di Dio che mi è stato concesso di condividere per così a lungo la passione e la profondità del suo essere".

·         E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.

Marco Giusti per Dagospia il 7 agosto 2022.

Se ne è andato Carlo o Carletto Bonomi, 85 anni, geniale voce di tanti cartoni animati, da La Linea, dove era l'irascibile omino ideato da Osvaldo Cavandoli che parlava un incomprensibile grammelot lombardo commentato dalle musiche di Franco Godi, al tenerissimo pinguino Pingu per i bambini più piccoli a Bern in  Carletto principe dei mostri". 

Ma fino al 2008 fu anche l'inconfondibile voce delle Ferrovie dello Stato alla Stazione di Milano e di Firenze. Irascibile, buffo, milanesissimo e a suo modo tenero, come lo erano tanti vecchi milanesi alla Piero Mazzarello, si chiuse dentro la sua città concedendo poco al resto del mondo. 

Come attore in video fece pochissimo, ricordo un'apparizione nello sceneggiato tv del 1968 "La freccia nera", ma come voce doppiò qualsiasi carosello o cartone animato con una grazia e un'attenzione infinita nei grandi studi milanesi degli anni 60 e 70 per poi trovare la sua fortuna nella Linea. Lo incontrai qualche anni fa in un residence per anziani dove non voleva stare, e .i stupì il candore con cui raccontava la propria vita e la costruzione di tanti personaggi. Così simili a lui. Al punto che mi è sembrato quasi l'anima di questi personaggi più di un doppiatore.

·         Morto l’attore Alessandro De Santis.

Morto a Roma l’attore Alessandro De Santis, interpretò Lillo in Johnny Stecchino di Benigni. Redazione Roma su Il Corriere della Sera il 3 Agosto 2022.

Aveva 50 anni ed era affetto dalla sindrome di Down. I familiari: «Abbiamo ricevuto una lettera di condoglianze da Roberto e questo ci ha colpiti» 

È morto a Roma l’attore Alessandro De Santis, diventato famoso per aver interpretato il personaggio di «Lillo» nel film «Johnny Stecchino» di Roberto Benigni. De Santis, affetto dalla sindrome di Down, aveva 50 anni. A dare notizia della sua scomparsa, la famiglia.

«Johnny Stecchino» compie 30 anni: la scena censurata negli Usa, il (vero) barbiere e gli altri 5 segreti del film

Famosa la scena che fece discutere tanto da essere censurata nella versione del film — che uscì nelle sale cinematografiche 31 anni fa — negli Stati Uniti, in cui il protagonista Dante (interpretato da Benigni) ingenuamente dava la cocaina all’amico Lillo come rimedio per il diabete. «Abbiamo ricevuto anche una lettera di condoglianze e cordoglio da Benigni e questo ci ha molto colpito», hanno riferito i familiari di De Santis, annunciando i funerali domani nella chiesa di San Frumenzio a Roma.

Il film di Benigni, nel 1992, fu premiato con uno speciale David di Donatello. «Johnny Stecchino» ottenne anche due Nastri d’argento e due Ciak d’oro. De Santis, dopo la notorietà conquistata con Benigni, lavorò nel 2011 nella pellicola diretta da Peter Marcias, «I bambini della sua vita», in cui recitò con Piera Degli Esposti e Nino Frassica.

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera” il 4 agosto 2022.

«Vedi questa? È una medicina che fa passare il diabete completamente. La devi prendere quattro volte al giorno», afferma Dante, sventolando davanti all'amico Lillo un sacchetto pieno di polvere bianca, incitandolo a tirare su col naso. Ma Dante, un brav' uomo in assoluta buona fede, non sa che quella è cocaina, al contrario è convinto che si tratti di un prezioso farmaco per la malattia dell'amico. Il povero Lillo, dunque, fidandosi del consiglio, comincia a sniffare, si impiastriccia naso e bocca di polvere, poi inizia a correre urlando per strada felice, rincorso dall'incredulo e involontario «spacciatore».

È la scena finale del film Johnny Stecchino , interpretata da Roberto Benigni e Alessandro De Santis, l'attore down morto ieri all'età di 50 anni a Roma. La notizia della prematura scomparsa è stata diffusa dalla famiglia di De Santis, aggiungendo: «Abbiamo ricevuto una lettera di cordoglio da Benigni e questo ci ha molto colpito». 

Il regista e l'attrice Nicoletta Braschi, che nel film interpretava la parte di Maria, tengono inoltre a sottolineare, in un messaggio commosso: «È tristissima la notizia di Alessandro De Santis. Ricordiamo un professionista impeccabile, che esprimeva una meravigliosa gioia di vivere. L'incontro con lui rimarrà per sempre legato ai ricordi più belli». I funerali si svolgeranno oggi nella chiesa romana di San Frumenzio. Ma la famosa scenetta «drogata» sollevò numerose polemiche. Ritenuta sconveniente, venne addirittura censurata negli Stati Uniti. 

Tuttavia il film , uscito nelle sale nel 1991, riscosse un grande successo al botteghino, pur essendo inizialmente accolto dai critici in maniera piuttosto tiepida e, col passare del tempo, oltre a riscuotere il favore del pubblico, ha ottenuto vari riconoscimenti: David di Donatello, Nastro d'argento e Ciak d'oro, non solo al protagonista-regista, ma anche all'attore Paolo Bonacelli (nel ruolo dell'avvocato D'Agata) e nomination allo sceneggiatore Vincenzo Cerami. 

La vicenda rappresentata, che si ispira al film Totò a Parigi interpretato da Antonio de Curtis e diretto da Camillo Mastrocinque, è un divertente gioco di scambi di persona. Dante Ceccarini fa l'autista di scuolabus per ragazzi disabili, ma non sa di essere il sosia di un pericoloso criminale, il Johnny Stecchino del titolo, e finirà in una rocambolesca avventura a lieto fine.

Morto Alessandro De Santis. Addio a Lillo di Johnny Stecchino. L’attore, affetto da sindrome di Down, aveva 50 anni. La famiglia: “Abbiamo ricevuto una lettera di cordoglio da Roberto Benigni”. Massimo Balsamo il 3 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Addio all’attore Alessandro De Santis. L’uomo, affetto da sindrome di Down, è morto a Roma. La notizia della sua scomparsa è stata confermata dalla famiglia. Noto al grande pubblico per aver interpretato il personaggio di Lillo nel film “Johnny Stecchino” di Roberto Benigni, aveva 50 anni.

“Abbiamo ricevuto anche una lettera di condoglianze e cordoglio da Benigni e questo ci ha molto colpito”, ha reso noto la famiglia di De Santis in una nota riportata dall'Ansa. E fra amici, colleghi e cinefili, sono tanti i messaggi di cordoglio sui social network per la triste notizia. I cari dell’attore, inoltre, hanno reso noto che i funerali si terranno giovedì 4 agosto nella chiesa di San Frumenzio, a Roma.

Alessandro De Santis è ricordato con affetto sui social network per la sua interpretazione in “Johnny Stecchino”, uno dei film migliori di Roberto Benigni. In particolare, viene ricordata una scena, poi censurata negli Stati Uniti: parliamo della sequenza in cui il protagonista Dante, interpretato da Roberto Benigni, dà della cocaina a Lillo come rimedio contro il diabete.

Una scena che ha acceso il dibattito all’epoca, ma che non ha impedito a Benigni di raccogliere parecchi riconoscimenti. Oltre al David Speciale per il successo ottenuto dalla pellicola, l’artista fiorentino ha raccolto un Nastro d’argento e un Ciak d’oro al miglior attore protagonista, senza dimenticare i premi raccolti da Paolo Bonacelli come miglior attore non protagonista. Conosciuto anche per la partecipazione a “I bambini della sua vita” diretto da Peter Marcias, Alessandro De Santis è entrato nel cuore di molti appassionati di cinema. Ecco una carrellata di tweet in sua memoria: “Aveva 50 anni. Dolce e gentile. Quante battute cult insieme a Benigni”, “Ci saluta un grandissimo”, “Riposi in pace, grande Alessandro”.

·         E’ morto l’attore John Steiner.

Marco Giusti per Dagospia il 2 agosto 2022.

Il cinema di genere italiano perde il suo più celebre cattivo. Il bravissimo attore inglese John Steiner, 81 anni, se ne va dopo aver vissuto varie vite. Da giovane promessa della Royal Academy, allievo di Peter Brooks, col quale gira il suo primo ruolo importante, Monsieur Dupere, nel meraviglioso "Marat-Sade" che a metà degli anni 60 tutti vedemmo a teatro e al cinema, a cattivo di punta di qualcosa come novanta film italiani di genere, western, polizieschi, bellici e perfino pornonazi, da "Tepepa" a "Dracula in Brianza", da "Salon Kitty" a Tenebre", a una nuova vita come agente immobiliare a Los Angeles.

Lì si era infatti rifugiato dopo aver lasciato il cinema e l'Italia nel 1991, l'ultimo film fu infatti "Paprika" del suo amico Tinto Brass, avendo capito che il cinema in Italia stava ormai languendo e non si sarebbe potuto facilmente riciclare nel cinema d'autore all'italiana o nelle serie TV. 

Alto, biondo, occhi azzurri, volto sprezzante, fu, per i nostri registi, da Antonio Margheriti a Enzo G. Castellani, da Ruggero Deodato a Lucio Fulci, ma anche da Marco Bellocchio a Damiano Damiani, il perfetto aguzzino tedesco, l'inglese malvagio, ma anche il superiore ambiguo, il vampiro bisex, sempre doppiatissimo.

Perché poi un attore nato tra Peter Brooks e Peter Hall, cresciuto con Patrick Magee e Glenda Jackson, David Warner e Freddie Jones, avesse deciso di staccare con il teatro e il cinema inglese per far carriera in Italia nei sotto-Spielberg e nel cinema di Brass, rimane un mistero. 

Nato nel 1941 nella campagna del Cheshire studia recitazione alla Royal Academy e a metà degli anni60 fa le prime apparizioni in tv, "The Front Page"  "The Saint" e al cinema, prima un ruolino in  Darling" di Joseph Losey poi il ruolo di Monsieur Dupre nel fondamentale "Marat-Sade" del suo maestro Peter Brooks. Gira in Inghilterra anche il divertente "Il mio amico il diavolo" con Dudley Moore, Peter Cook e Raquel Welch  diretto da Stanley Dònen poi "Work Is a Four Letter World" di Peter Hall con David Warner.

Lo chiamano in Italia per recitare a fianco di Tomas Milian e Orson Welles in "Tepepa" di Giulio Petroni nel ruolo del medico, l'occhio morale di un western sulla revolucion piuttosto importante. Fece effetto in un ruolo dove pensavamo di vedere un Lou Castel. Gira contemporaneamente con Vittorio Gassman, Sharon Tate e ancora Orson Welles "Una su 13" di Nicolas Gessner. E seguita con un film dopo l'altro spaziando tra tutti i generi. 

È protagonista del sub-Satyricon di Sergio Spina dedicato a "L'asino d'oro" di Apuleio con Barbara Bouchet e Paolo Poli. Una stravaganza piuttosto disastrosa. Meglio negli erotici sessantottini di Ugo Liberatore, "Alba pagana" e "Incontro d'amore" o nel poliziesco di Damiani "L'istruttoria è chiusa, dimentichi". Ma è attivo anche nelle coproduzione come "Rappressaglia" di George Pan Cosmatos o nei film d'autore  come "L'invenzione di Morel" di Emidio Greco.

Lavora con Lucio Fulci in "Zanna Bianca" e nel divertente "Dracula in Brianza" dove fa un conte Dracula piuttosto ambiguo  e nell'erotico "Ondata di calore" di Ruggero Deodato. Passa da "Salon Kitty" di Tinto Brass ai pornonazi piu assurdi  come "Le deportate della sezione speciale SS" di Rino De Silvestro o il nazicomico "Sturmtruppenfuhrer". Bravissimo, si muove tra film maggiori con Dario Argento, "Tenebre",  o Carlo Verdone, " I due carabinieri, "Troppo forte, Brass, "Caligola", e lo sperimentale "Giulia e Giulia" di Peter Del Monte. Ma è nell'avventuroso di Margheriti e Castellari che eccelle. Se ne va dall'Italia in un momento di crisi (quando non siamo in crisi?) del cinema italiano. E si lascia tutto dietro. 

·         È morta l’attrice Nichelle Nichols.

È morta Nichelle Nichols, il tenente Uhura di «Star Trek». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera l'1 Agosto 2022.

L’attrice, tra le prime donne nere a interpretare un ruolo non stereotipato in tv, ha aiutato molte afroamericane a intraprendere la carriera di astronauta. 

È stata tra le prime attrici nere a interpretare un ruolo d’autorità. Per questo Nichelle Nichols, morta il 30 luglio a 89 anni per cause naturali, resterà per sempre un riferimento. Nella serie «Star Trek» era Lieutenant Nyota Uhura, un personaggio che ha incoraggiato molte donne afroamericane a intraprendere la carriera di astronaute. A dare notizia della sua scomparsa è stato il figlio, Kyle Johnson, che in un comunicato ha scritto: «Mi spiace informarvi del fatto che una grande stella del firmamento non splende più per noi così come ha fatto per così tanti anni. La sua luce, comunque sia, come le galassie lontane che vediamo ora per la prima volta, rimarrà per le future generazioni, perché l’apprezzino, ne traggano insegnamenti e ispirazione».

Il bacio interrazziale

Senza dubbio, la serie «Star Trek» ha distrutto diversi stereotipi, innanzitutto reclutando nel 1960 diversi attori appartenenti a minoranze etniche per ruoli da protagonista. La stessa Nichols interpretava un ufficiale di grande competenza e di alto livello, abbattendo in questo modo e nel modo più efficace le barriere del pregiudizio. Suo è stato anche uno dei primi baci sullo schermo interrazziali, nel 1968, con William Shatner, che interpretava il Capitano Kirk. Un bacio osteggiato anche dalla rete, per le possibili reazioni da parte del pubblico: furono entrambi gli attori a pretendere invece non solo che ci fosse ma che le labbra si toccassero, nonostante non si trattasse di un bacio romantico, ma pilotato da un gruppo di alieni.

L’insistenza di Luther King

Quando l’attrice, anni dopo, fu tentata dall’idea di lasciare la serie, fu convinta da Martin Luther King a rimanere, proprio perché descrisse il suo personaggio come «il primo ritratto non stereotipato di una donna nera in televisione». Pur continuando a lavorare come attrice, Nichols era anche diventata una ambasciatrice della Nasa. Anche il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha voluto ricordarla, dicendo: «La nostra nazione sarà per sempre in debito con artisti stimolanti come Nichelle Nichols, che ci hanno mostrato un futuro in cui unità, dignità e rispetto sono pietre miliari di ogni società».

Matteo Persivale per il “Corriere della Sera” il 2 agosto 2022.

Per capire come mai l'America è in lutto per la scomparsa, a 89 anni, dell'attrice Nichelle Nichols, il tenente Uhura di «Star Trek», si può dire - semplicemente - che fu tra i pionieri dei diritti civili dei neri, e che sul ponte dell'astronave Enterprise (in onda in tv dal 1966 al 1969 e poi attraverso sei film al cinema) ha incarnato l'ideale di un mondo dove le razze non contano più. Perché nel futuro immaginato per la serie di fantascienza, sull'Enterprise gli ufficiali erano bianchi, neri, asiatici, senza distinzioni e nella massima normalità.

In quel 1966 erano da poco più di un anno stati smontati (a malincuore) negli Stati del Sud della segregazione razziale i cartelli «whites only», riservato ai bianchi, ma in tv il tenente Uhura incarnava un futuro diverso e inevitabile. Protagonista anche del primo bacio interrazziale della tv americana con il capitano Kirk, cosa assolutamente scandalosa nel 1968. Senza dimenticare i suoi successi da ambasciatrice della Nasa, che la scelse negli anni '70 per allargare il reclutamento a donne e neri.

Tutto vero: ma in fondo bastano le parole del fan numero 1 di Nichelle Nichols, che non perdeva una puntata, Martin Luther King. Il reverendo premio Nobel per la pace le disse: «Hai aperto una porta che non deve tornare a chiudersi. Sono sicuro che hai avuto molti problemi, e che ne avrai ancora (Nichols voleva lasciare lo show, ndr ). Ma hai cambiato per sempre il volto della televisione. Hai creato un personaggio dotato di dignità, grazia, bellezza e intelligenza. Non vedi che non sei solo un modello per i bambini e le bambine nere?

Sei ancora più importante per le persone che non ci somigliano: per la prima volta, il mondo ci vede come dovremmo essere visti: uguali ai bianchi. Ci vedono come persone intelligenti, al loro livello. Come dovrebbe essere». I tributi alla sua vita e alla sua carriera straordinaria sono stati, ieri, continui: a partire da quello del presidente Joe Biden, che l'ha definita «pionieristica», capace di «distruggere gli stereotipi».

Barack Obama, incontrandola dieci anni fa alla Casa Bianca, le aveva più semplicemente confessato che da ragazzino - come la maggior parte degli spettatori etero di «Star Trek» - era innamorato di lei. Gli ultimi anni furono quelli dell'invisibilità, del crepuscolo e della malattia, ma oggi piangono per lei i fan famosi e non famosi, gli ex colleghi come William Shatner, capitano Kirk che aveva dribblato le preghiere un po' patetiche dei dirigenti della Nbc : terrorizzati da possibili scandali gli avevano chiesto di baciarla rapidamente e possibilmente non sulla bocca (lui ovviamente le diede un bacio vero, che fece la storia).

Piange George Takei, il tenente Sulu, attore d'origine giapponese che era cresciuto da bambino in un campo di prigionia e che ha ricordato «l'amica incomparabile»: «I miei occhi luccicano come le stelle dove sei andata a riposare». 

E su Twitter ci sono anche i fan non famosi, a legioni, come la professoressa universitaria d'astrofisica che ha scritto semplicemente che «oggi sono qui grazie a te», o quelli che ricordano il suo ruolo nella campagna degli attivisti per le nozze gay, alla quale nel 2008 prestò il suo volto (e i capelli ormai candidi) regalando una foto indimenticabile: alzò il pugno chiuso nello stile delle Pantere Nere, con uno slogan pro-uguaglianza dipinto sulla guancia, paladina fino all'ultimo delle libertà civili.

Il figlio del suo amico e collega Leonard Nimoy, che non c'è più e interpretava il gelido vulcaniano Spock, ha postato la foto più bella, inedita, rubata in una pausa sul set, in costume: Uhura accarezza il volto dell'ufficiale vulcaniano senza emozioni che si scioglie in un meraviglioso sorriso, tutto per lei.

·         E’ morto il giornalista Omar Monestier.

Lutto nel giornalismo: è morto Omar Monestier, direttore del 'Messaggero Veneto' e 'Il Piccolo'. Enrico Ferro su La Repubblica l'1 Agosto 2022. 

Il malore, improvviso, nella notte. Aveva 57 anni

I primi messaggi arrivavano poco dopo le 6 del mattino: un riscontro immediato sul lavoro fatto il giorno precedente. Una parola secca: "buco", se la concorrenza aveva qualche notizia in più o "bravo" se invece il lavoro era stato buono. Questo era uno dei tratti caratteristici di Omar Monestier, direttore dei quotidiani Il Piccolo e Messaggero Veneto, ed ex direttore dei quotidiani veneti del gruppo Gedi (Mattino di Padova, Nuova Venezia, Tribuna di Treviso, Corriere delle Alpi).

E' morto improvvisamente nel sonno, a 57 anni, nella casa di Moruzzo, in provincia di Udine, dove abitava da quando aveva assunto la direzione dei giornali del Friuli. Bellunese d'origine, aveva iniziato la carriera facendo il cronista locale, raccontando le comunità di montagna dopo averle ascoltate e capite. Ascolto e comprensione sono state anche la cifra del suo mestiere come direttore.

Nato il 23 settembre 1964, Monestier veniva dalla scuola di Paolo Pagliaro e Fabio Barbieri, con cui aveva lavorato per molti anni fianco a fianco. Cronista dentro, non ha mai perso l'amore per i fatti, per i racconti delle persone, per le testimonianze dei protagonisti di ogni articolo di giornale. Hai intervistato la vittima? Hai sentito la controparte? Hai interpellato i diretti interessati? "Io mi diverto ancora a fare questo mestiere", ha detto fino all'ultimo giorno ai colleghi di lavoro, che veramente interpellava con messaggi e telefonate fin dal primo mattino. Cosa inusuale per i giornalisti, il cui ciclo di produzione inizia tradizionalmente molto più tardi nel corso della giornata. Amava le battaglie. "Ma non per forza dobbiamo vincerle", ripeteva, come dire che l'importante era avere un'identità, distinguersi dalla concorrenza.

Giornalista professionista dal 1992, aveva lavorato alla "Cronaca di Verona" diretta da Paolo Pagliaro, ricoprendo l'incarico di vice caposervizio della redazione provincia. Sempre lì era poi  diventato  caposervizio della cronaca cittadina, dove è rimasto fino a settembre 1994, quando aveva lasciato Verona per andare a Bolzano a "Il Mattino dell'Alto Adige", con il ruolo di caporedattore, a fianco del direttore editoriale Giampaolo Visetti.

Nel 2000 l'arrivo all'allora gruppo Espresso, la grande famiglia di Repubblica. Monestier prese l'incarico di vicedirettore de "Il Mattino di Padova", a cui poi era stata aggiunta la vicedirezione anche degli altri veneti. Un'esperienza vissuta insieme a Fabio Barbieri, che nel frattempo da Repubblica era stato messo alla guida del network di giornali locali che furono diretti da Alberto Statera e Giovanni Valentini. Barbieri e Monestier puntare sull'iper local, obbligando poi anche i concorrenti a percorrere quella strada per tentare di eguagliarne i risultati.  Poi, con la morte prematura di Barbieri, Monestier prese la guida del Mattino di Padova. Tra il 2014 e il 2016 ha diretto anche il Tirreno.

Omar Monestier lascia la moglie Sara e i quattro figli Benedetta, Tommaso e i gemelli Giovanni e Giulio. Il funerale sarà celebrato probabilmente giovedì a Mel, in provincia di Belluno, ma la data sarà decisa nelle prossime ore.

"Ci ha lasciato prematuramente, in punta di piedi, un grande bellunese, un veneto doc, un giornalista stimato in Veneto, ma anche in altre regioni d'Italia, in cui ha lasciato la sua impronta indelebile come il Friuli e il Trentino. Il tocco della sua penna non si può scordare, per la finezza, per la concretezza e per il rispetto e la ricerca della verità che hanno sempre contraddistinto i suoi articoli, elevandolo così anche ruoli direzionali e di alto livello", ha scritto il governatore Luca Zaia.

"Profondo dolore per la scomparsa di un uomo di carattere, di profonda intelligenza e di grande correttezza, umana e professionale, che nella propria carriera di giornalista ha dimostrato di essere un grande direttore per le testate da lui guidate, a partire dal Messaggero Veneto e da Il Piccolo", Ha detto invece il presidente del Friuli Venezia Giulia Massimiliano Fedriga.

"Non era toscano, ma era arrivato in Toscana con la voglia di conoscere e raccontare, alfiere di quella curiosità che è l'ingrediente più importante della professione del giornalista e con la voglia di spiegare ai lettori, e dunque ai cittadini, in modo obiettivo e senza fare sconti a nessuno: un contributo, da giornalista, alla crescita della società. Il presidente della Toscana esprime condoglianze alla famiglia", ha detto il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani.

"L'improvvisa prematura scomparsa di Omar Monestier, direttore de “Il Piccolo” e del “Messaggero Veneto” mi ha fatto rimanere nel silenzio, affranto al pensiero di quanto sia breve e passeggera la vita di un uomo, una persona intelligente e acuta che in questi anni ho avuto modo di conoscere e apprezzare", ha detto Roberto Dipiazza, sindaco di Trieste.

·         E’ morto l’attore Antonio Casagrande.

Marco Giusti per Dagospia il 31 luglio 2022.

Il teatro e il cinema perdono Antonio Casagrande, uno degli ultimi grandi interpreti della scena napoletana e, soprattutto, uno degli ultimi protagonisti del teatro di Eduardo, nonché suo assistente alla regia. Lo ricordiamo a fianco di Isa Danieli in una celebre edizione di “Filumena Marturano”, che portarono anche a Parigi, con Angela Luce in un ‘edizione di “Napoli notte e giorno” di Raffaele Viviani diretta da Giuseppe Patroni Griffi che esordì a Spoleto, a fianco di Raffaella Carrà nel musical “non sparate al reverendo”.

Al cinema, dopo l’esordio nel corale “Le quattro giornate di napoli” di Nanni Loy nel 1962, e “Il duca nero” avventuroso di Pino Mercanti nel 1963, lo troviamo lanciato da protagonista in “Arabella” di Mauro Bolognini con Virna Lisi e soprattutto in “La ragazza del bersagliere” diretto da Alessandro Blasetti nel 1967, dove era appunto il bersagliere del titolo, fidanzato co Graziella Gravata, l’attrice che il produttore, il vecchio Angelo Rizzoli cercava di lanciare.

Forte di una popolarità sia teatrale, sia, soprattutto, televisiva, il pubblico lo aveva visto nella celebre serie di commedie di Eduardo agli inizi del nuovo Secondo Programma tra la fine del 1961 e il 1962, da “Sabato domenica e lunedì" a Questi fantasmi”, da Filumena Marturano” a napoli milionaria”, ma anche in molti sceneggiati del tempo, “Luisa Sanfelice”, “Il cappello del prete”, non riuscì a imporsi sul grande schermo come aveva fatto a teatro e in tv. Recitò in molti film, soprattutto negli anni 70, “Beatrice Cenci” di Lucio Fulci, “Detenuto in attesa di giudizio” di nanni Loy, “Milano rovente” di Umberto Lenzi, ottenendo al massimo qualche ruolo da protagonista solo nelle commedie sexy, “Frittata all’italiana” di Alfonso Brescia e “Lulù la sposa erotica” di Paolo Moffa. 

Contemporaneamente fu notevole doppiatore (doppia Hiram Keller nel “Satyricon” di Fellini, Mario Pilar in "Piedone lo sbirro”, ecc.). Nato a Napoli nel 1931, figlio d’arte, padre attore e madre corista del San Carlo a Napoli, a sua volta padre di un attore popolare come Maurizio Casagrande, studiò come cantante lirico, anche se trovò successo immediato nella compagnia di Eduardo. Del resto il teatro rimase al centro di tutta la sua attività per tutta la vita. Tornò al cinema in questi ultimi anni,  recitando diretto da Vincenzo Salemme in “Amore a prima vista”, e dal figlio Maurizio in “Una donna per la vita” e “Babbo natale non viene dal nord”, ma anche finalmente da protagonista in uno strepitoso episodio di “Vieni a vivere a napoli” e in un film poverissimo e sfortunato di Antonio Capuano, "Bagnoli Jungle", nel 2015, dove è un vecchio pensionato dell'Italsider, e nel recentissimo “I fratelli De Filippo” di Sergio Rubini. Appare anche nella versione di Edoardo De Angelis di “Non ti pago”. Ovviamente tratto da Eduardo.  

·         E’ morto il cestista Bill Russell.

Da gazzetta.it il 31 luglio 2022.

Non gli bastano le dite delle mani per infilarsi gli anelli Nba vinti in carriera: undici. Un pioniere del basket, un mito: Bill Russell se ne è andato oggi a 88 anni. È stato il pilastro dei Boston Celtics tra il 1956 e il 1969, nelle ultime 4 stagioni come giocatore-allenatore. In quelle 14 stagioni, ha condotto i biancoverdi a 11 titoli Nba (8 consecutivi tra il ‘59 e il ‘66).

La notizia è stata diffusa dalla famiglia attraverso i social spiegando che, nel momento dell'addio, Russell aveva al suo fianco la moglie Jeannine. Nella nota non sono stati dati ulteriori dettagli rispetto alle cause del decesso. 

 Non basterebbe tutto l’inchiostro del mondo per raccontare cosa ha rappresentato Russell per i Celtics e per la Nba. Un difensore moderno, stoppatore devastante, rimbalzista, marcatore, un pivot senza eguali. Era il basket. Che da oggi è molto più povero.  

Bill Russell è morto: vinse 11 titoli Nba. Leggenda dei Boston Celtics, lottava per i diritti civili. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 31 luglio 2022 

Russell, centro dei Celtics, ha vinto 11 anelli Nba di cui 8 consecutivi. È nella Hall of fame sia come giocatore, sia come allenatore, primo di colore nella storia.

Con la scomparsa di Bill Russell – spentosi «pacificamente all’età di 88 anni a fianco di sua moglie Jeannine», così ha annunciato la famiglia – il basket perde uno dei più grandi giocatori di sempre e un altro pezzo di quella Nba che aveva un tocco di misterioso perché ancora non esistevano i mezzi di comunicazione con cui oggi la si segue. Si era nel cuore degli anni 50 quando fiorì la leggenda di un uomo che avrebbe marchiato, in 13 anni di carriera, le imprese dei Boston Celtics della cosiddetta «Era della Dinastia», capace di vincere sia come giocatore sia come giocatore-allenatore (mai un afro-americano aveva guidato una squadra in un campionato Usa), prima di trasferire il suo mito agli anni 70 (4 stagioni sulla panchina dei Seattle Supersonics) e agli anni 80 (58 partite, nell’annata 1987-1988, come coach dei Sacramento Kings). 

Quando l’Nba schiacciò in faccia al razzismo

La storia di William Felton Russell, centro di 2 metri e 8 centimetri, nato in Louisiana ma cresciuto a Oakland in California, è incastonata da cifre record e prende le mosse da due circostanze particolari. La prima è che pur di vincere con la Nazionale Usa ai Giochi del 1956 ritardò il passaggio al professionismo: all’epoca il Cio accettava solo i dilettanti. Scelta giusta: l’oro olimpico fu conquistato in carrozza e nel frattempo Russell aveva fatto suo un secondo titolo Ncaa con l’Università di San Francisco, formando con K.C. Jones una coppia che avrebbe spopolato a Boston. Il giovane Bill era già un fenomeno, tant’è che la Ncaa aveva allargato l’area dei 3 secondi per tenerlo il più possibile lontano da canestro.

Il secondo jolly fu il fatto che, grazie all’anno di ritardo nel passaggio ai «pro», su di lui arrivassero le attenzioni di Red Auerbach, coach di Boston. Il «Grande Rosso» ebbe l’intuizione giusta: i Rochester Royals, titolari della prima scelta, non avrebbero chiamato Russell perché già avevano un centro forte. Così Auerbach si accordò con St.Louis che disponeva della seconda chiamata: Bill fu preso dagli Hawks e ceduto ai Celtics, previa contropartita. Auerbach e Russell, i pilastri di una leggenda da 11 titoli Nba in 13 anni (8 dei quali di fila). Gli ultimi due Bill li vinse da capo-allenatore, essendo Auerbach diventato general manager. 

Stephen Curry e gli uomini che hanno cambiato la Nba

Era la consacrazione del giocatore che alzò ad un livello superiore il concetto di difesa. Ed è su questa base che si è consumato pure il confronto con Wilt Chamberlain, il rivale (del quale era amico) con cui Warriors, Sixers e Lakers provarono a fermarlo: ma se Wilt era uno splendido solista, Bill era il perno di un sistema che puntualmente vinceva. Ed era un simbolo di fedeltà: non ebbe altra maglia se non quella dei Celtics.

Russell è stato infine uomo di valori e un paladino dei diritti civili (nel 2011 ricevette la Medaglia presidenziale della libertà). Attivista di Black Power, saltò una partita perché assieme a un compagno era stato respinto da un ristorante. Nella sua vita anche esperienze da telecronista e da scrittore, oltre al ruolo del giudice Ferguson in una puntata di Miami Vice. È il contorno prestigioso di un campione che, assieme all’hockeista Henri Richard dei Montreal Canadiens, detiene il primato di campionati vinti in una Lega nord-americana. All’orizzonte non si vede chi farà meglio. 

·         Morto l’attore Roberto Nobile.

Morto Roberto Nobile: il Parmesan di Distretto di Polizia aveva 74 anni. Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

L’attore scomparso improvvisamente ha lavorato con registi come Gianni Amelio, Giuseppe Tornatore, Michele Placido, Nanni Moretti, Luchetti, Olmi. Era molto amato anche dal pubblico teatrale. 

Il pubblico della tv lo ricorda per uno dei suoi personaggi più amati, Nicolò Zito , il giornalista di Retelibera, complice e consigliere di Luca Zingaretti in tante indagini de Il commissario Montalbano, ruolo interpretato fin dal 1999. Ma, accanto a tv e molto cinema, è il teatro il filo conduttore della sua carriera. È scomparso il 30 luglio Roberto Nobile, per un malore improvviso. Nato a Verona ma ragusano d’origine (e romano di adozione), l’attore aveva 74 anni. Molto amato dal pubblico della tv, sul piccolo schermo aveva debuttato con La piovra. Tra le sue fiction Distretto di Polizia, in cui ha ricoperto il ruolo del poliziotto Antonio Parmesan, Una grande famiglia, Di padre in figlia. Al cinema ha collaborato con registi come Pupi Avati (Festa di laurea, Ultimo m inuto) Gianni Amelio (Porte aperte), Giuseppe Tornatore (Stanno tutti bene), Nanni Moretti (La stanza del figlio, Caro diario, Habemus papam), Ermanno Olmi (Tickets), Daniele Luchetti per La scuola nel ruolo del professor Mortillaro (anche nella versione teatrale, sempre accanto a Silvio Orlando), Costanza Quatriglio, come voce narrante di Terramatta.

Ovidio e Le storie del mondo

Nobile era impegnato nella tournée della sua messa in scena come regista e interprete di uno spettacolo tratto da Le metamorfosi di Ovidio, Le storie del mondo. Era atteso nei prossimi giorni a Genova, al festival Lunaria Teatro. «Mi sono imposto il compito di accorciare la distanza tra il tempo della creazione dei miti, la loro trascrizione da parte di Ovidio, e il nostro tempo — aveva spiegato, a proposito di questo progetto —. Perché la mitologia greca, frutto di uno sconfinato potere immaginativo, era già ai tempi di Ovidio, più che un complesso sapienzale, una fonte mirabile di intrattenimento. Nel corso dello spettacolo cerco di far capire, anche seguendo gli stimoli di Jung e di Hillman, quanto sia importante l’immaginare e come purtroppo si stia perdendo il gusto e la capacità di vedere ciò che non c’è o ciò che sta dall’altra parte del mondo».

Morto Roberto Nobile, amato dal pubblico per i suoi ruoli in 'Distretto di polizia' e 'Montalbano'. Giovanni Gagliardi La Repubblica il 30 Luglio 2022.  

L'attore aveva 74 anni. Ha avuto un malore improvviso. Al cinema ha lavorato, tra gli altri, con Tornatore, Luchetti, Avati e Amelio. Nanni Moretti lo ha scelto per tre film: 'Caro diario', 'La stanza del figlio' e 'Habemus Papam'. Il ricordo commosso di Luca Zingaretti.

È morto l’attore Roberto Nobile aveva 74 anni. Dalle prime notizie avrebbe avuto un malore improvviso. Era noto al grande pubblico della tv per aver recitato in due serie molto amate: Distretto di polizia e Il commissario Montalbano. E proprio il protagonista del celebre personaggio creato da Andrea Camileri, ha rivolto al collega e amico un commosso saluto.

Il ricordo di Luca Zingaretti

"È mancato, improvvisamente, il mio amico Roberto. Faceva Nobile di cognome e mai cognome fu più azzeccato. Aveva l'educazione, la compostezza, la postura e l'eleganza d'animo di un nobiluomo. L'ho conosciuto tanti anni fa sul set del Commissario Montalbano, interpretava Nicolò Zito, il giornalista amico del Commissario Montalbano e devo dire che fu un incontro di quelli che si ricorda perché amici lo diventammo davvero e subito. Per più di vent'anni", dice Luca Zingaretti in una storia Instagram.

"Roberto era un uomo mite, dal sorriso meraviglioso, dalla conversazione brillante, dalla gentilezza innata. Era un artista fine, un attore appassionato del suo lavoro: mi ricordo quando gli davo del rompiballe perché voleva sempre ripetere, limare, cambiare qualche battuta, e mi ricordo che lo prendevo a male parole perché tanto, poi, si faceva come diceva lui", scrive 'Montalbano'.

E poi i ricordi: "Quante cene davanti al mare, quante chiacchiere, quanti progetti e quante risate. Nel nostro mestiere capita che non ci si veda per molto tempo, ma anche che, quando ci si ritrova si ricominci da dove si era lasciato.

Ora te ne sei andato e mi sembra impossibile si sia spento il tuo sorriso e che la tua gentilezza non ci sia più. Sono attonito, sono svuotato e addolorato. Ti voglio bene Roberto, te ne vorrò sempre". 

'Distretto di polizia'

Nel commissariato X Tuscolano di Distretto di polizia, Roberto Nobile era Antonio Parmesan, il personaggio più anziano. Parmesan era addetto alle ricerche e all’archivio, aveva una spiccata dote nel rintracciare pregiudicati con pochi indizi in mano. Ed era anche il più saggio. La fiction è andata in onda su Canale 5 dal 2000 al 2012, per undici stagioni. Roberto Nobile ha recitato dalla prima all’ottava. 

'Il commissario Montalbano'

Come detto, un altro suo ruolo molto amato dal pubblico è quello di Nicolò Zito in Il commissario Montalbano. Nella serie con Luca Zingaretti ha recitato il ruolo di un giornalista, complice e consigliere del commissario in 24 episodi, accompagnando il commissario i tante indagini, dal 1999 al 2019. Prima di Nobile, nel 2017 era deceduto un altro attore molto amato dai fan di 'Montalbano': Marcello Perracchio, 79 anni, conosciuto come il 'dottor Pasquano', brontolone medico legale.

Teatro, cinema e tv

Nobile era nato a Verona l’11 novembre del 1947, ma aveva origini siciliane, di Ragusa per la precisione, ed era ormai romano di adozione. La sua carriera comincia con il teatro di strada per poi abbracciare il cinema, lavorando con alcuni dei più importanti registi italiani. Con Giuseppe Tornatore è stato Guglielmo, uno dei figli di Marcello Mastroianni in Stanno tutti bene. Lavora ne La scuola di Daniele Luchetti e Nanni Moretti lo sceglie per tre film: Caro diario, La stanza del figlio e Habemus Papam. Ha anche lavorato per Pupi Avati, Gianni Amelio, Michele Placido, Giuseppe Ferrara, Ermanno Olmi e molti altri.

Stefano Pesce (a sinistra) e Roberto Nobile mentre girano la scena di un film in piazza dei Fiorentini a Roma, il 20 febbraio 2013 (ansa)In televisione è stato un volto noto ne La Piovra 7 e La Piovra 8. La sua ultima apparizione risale al 2020 quando ha lavorato nella serie Gli orologi del diavolo.

A teatro, è stato in scena con Silvio Orlando nella versione teatrale di La scuola e ultimamente nella commedia Si nota all'imbrunire. Stava preparando un monologo teatrale da Orazio. Il suo ultimo lavoro è stato con Le metamorfosi di Ovidio. "Mi sono imposto il compito - aveva detto l'attore - di accorciare la distanza tra il tempo della creazione dei miti, la loro trascrizione da parte di Ovidio".

Scrittore

Roberto Nobile è stato anche scrittore: nel 2008 ha pubblicato il libro Col cuore in moto.

Da "Montalbano" a "Distretto di Polizia": addio all'attore Roberto Nobile. Roberta Damiata il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

Attore di cinema e teatro, Nobile è morto nella mattinata del 30 luglio. Amatissimo dal pubblico della tv, aveva 74 anni.

È scomparso per un malore improvviso nella mattina di sabato 30 luglio Roberto Nobile, attore di cinema, teatro e tv più amati. Aveva 74 anni. Ricordato soprattutto per il suo personaggio di Parmesan nella fiction Distretto di polizia, è stato in realtà un attore poliedrico e molto profilico. Nato a Verona, di origini ragusane e romano di adozione, ha dedicato quasi quarant’anni della sua vita al cinema e alla televisione. È stato diretto da grandi registi, Pupi Avati, Gianni Amelio, Giuseppe Tornatore e Michele Placido in film come Festa di laurea, Porte aperte, Stanno tutti bene, Le amiche del cuore e Caro diario di Nanni Moretti.

Numerose le interpretazioni per il piccolo schermo. È stato il giornalista di Retelibera, Nicolò Zito dell'immaginaria Vigata, amico e prezioso collaboratore alla risoluzione di casi intricati del commissario Montalbano interpretato da Luca Zingaretti. Ha recitato nella miniserie tv La piovra 7 e 8, un cult degli anni ’90. Ma, come dicevamo, Nobile è stato soprattutto Antonio Parmesan in Distretto di polizia. La serie tv che, a partire dal 2000 e per undici stagioni, ha portato gli spettatori nelle ‘stanze’ del X Tuscolano, il commissariato di Roma sud.

La sua ultima apparizione risale al 2020 quando ha lavorato nella serie Gli orologi del diavolo. A teatro, è stato in scena con Silvio Orlando nella versione teatrale di La scuola e ultimamente nella commedia Si nota all'imbrunire. In questi giorni era impegnato nella tournée della sua messa in scena, come regista e interprete, di uno spettacolo tratto da Le metamorfosi di Ovidio, Le storie del mondo. Era atteso nei prossimi giorni a Genova, al festival Lunaria Teatro. In tanti, in queste ore, lo ricordano con affetto, da ex colleghi a familiari ancora increduli per una scomparsa così improvvisa.

·         Morto il pittore Enrico Della Torre. 

Morto Enrico Della Torre, artista e poeta dalle tinte oscure. STEFANO BUCCI su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.

Era pittore e incisore e rimase costantemente lontano dai centri di potere della cultura. Per gli ottant’anni la Germania gli dedicò una mostra importante

Aveva esordito nel segno del naturalismo, per poi trasformare la sua pittura in qualcosa di sempre più astratto e raffinato. Era nato in provincia (a Pizzighettone, Cremona, il 26 giugno 1931) ma Enrico Della Torre (foto), scomparso venerdì notte a 91 anni, a Teglio, «nella sua amata Valtellina», non è mai stato un pittore provinciale. Tutt’altro: pittore e incisore, ha saputo piuttosto dimostrare come quel suo essere rimasto costantemente lontano dai «centri di potere» dell’arte e dalle correnti più «alla moda» gli avesse regalato una dimensione internazionale e una grande indipendenza. E al suo paese natale Della Torre sarebbe rimasto così legato, nonostante si fosse poi stabilito a Milano, da curarne il Museo civico d’arte istituendo anche una sezione d’arte contemporanea.

Diplomatosi nel 1951 al Liceo di Brera e quattro anni dopo all’Accademia di Belle arti, Della Torre si era dedicato immediatamente alla pittura e all’incisione: una dualità «tecnica» che di fatto non risolverà mai come quella tra Milano e Teglio, in Valtellina, i due luoghi tra cui l’artista dividerà sempre, assieme alla moglie Christa Bert, la propria esistenza «fisica».

La poetica di Della Torre si affida a una ricorrente variazione di toni scuri che dal marrone tendono al nero e al blu, evocando proprio attraverso quelle tinte oscure un universo di presenze nascoste che si definiscono lentamente all’occhio di chi guarda. E che rivelano non solo il grande mestiere di Della Torre, ma anche le ragioni stesse del fascino irresistibile che le sue composizioni continuano a esercitare: da Inni alla notte del 1981, illustrazione per Hymnen an die Nacht di Novalis, a Paesaggio (1984), a Barca (1995).

Dopo la prima mostra personale nel 1956 alla Galleria dell’Ariete a Milano, Della Torre esporrà con regolarità in Italia e all’estero, specialmente in Germania, Austria e Svizzera, insegnando (dal 1992 al 1995) tecniche incisorie all’Accademia di Belle arti di Milano. Tra i riconoscimenti ricevuti: il primo Premio S. Fedele di pittura (1960) e il Premio della Triennale dell’Incisione al Museo della Permanente a Milano (1994). Nel 1999 Enrico Della Torre diventerà membro dell’Accademia nazionale di San Luca mentre nel 2011 è invitato alla 54ª Biennale di Venezia, Padiglione Italia. Per i suoi ottant’anni, tra il 2011 e il 2012 gli venne dedicata in Germania un’esposizione itinerante organizzata dalla Frankfurter Westend Galerie di Francoforte e nello stesso 2012 viene pubblicato da Skira il volume Enrico Della Torre. Catalogo generale dell’opera grafica, 1952-2012. I funerali di Enrico Della Torre si svolgeranno domani alle 11 a Teglio nella Collegiata di Sant’Eufemia, poi l’ultimo viaggio verso la tomba di famiglia, a Pizzighettone.

·         E’ morta la sciatrice Celina Seghi.

Matteo Lignelli per corriere.it il 27 luglio 2022.

Bastano poche parole per inquadrare la leggenda di Celina Seghi: ad esempio, che è stata una delle prime donne a disputare i mondiali di sci. La più vincente di sempre, in Italia, in un’epoca di guerre e di forti pregiudizi nei confronti dello sport femminile. Conosciuta come il «topolino delle nevi», ha sgattaiolato tra i monti, con quel fisico mingherlino che l’ha sempre caratterizzata e il sorriso stampato sul viso, indossando gli sci finché ha potuto, anche dopo gli 80 anni. Era nata all’Abetone (Pistoia) il 6 marzo 1920 (ma a causa di una tempesta di neve, all’anagrafe è stata registrata 48 ore più tardi) dov’è morta a 102 anni. 

Ai tempi sciava «con le sottanine» e la prima volta che indossò dei pantaloni fu per via del parroco che doveva venire a vederla. «Se cadi vestita così — disse sua madre — si vedrà tutto». Del resto la voce di quella ragazza che andava «più veloce dei maschi» si era sparsa velocemente all’Abetone, e in tanti avevano iniziato a seguirla con interesse. Ne fece le spese anche un altro degli azzurri più forti di tutti i tempi: Zeno Colò, suo coetaneo pure lui abetonese.

Riuscì a batterlo ai Mondiali del ‘41 a Cortina, che però non furono mai omologati per via della guerra. E se lei al ritorno venne festeggiata da tutto il paese, c’è una vecchia storia secondo la quale al collega furono regalati i ferri da maglia. «La guerra — ha ammesso Celina Seghi qualche tempo fa in un’intervista — ha rovinato la mia carriera proprio quando avevo cominciato da vincere, avevo vent’anni e scappavamo dalle bombe... altro che sci». 

Eppure è riuscita a vincere 37 medaglie (la prima a 14 anni e l’ultima a 34) con oltre venti titoli italiani, continuando a gareggiare fino alla vigilia dei Giochi olimpici invernali di Cortina del 1956. Comprese competizioni internazionali come l’Arlberg-Kandahar. Nell’edizione del ‘47, disputata a Murren, s’impose nella discesa libera e nella combinata, oltre che seconda nello slalom speciale; in quella del 1948, a Chamonix, trionfò nello slalom speciale e nella combinata e finì terza nella discesa libera. Ricevendo la famosa “K di diamanti”, il premio più prestigioso dell’epoca.

Un vero e proprio simbolo dello sport degli anni Quaranta e Cinquanta ricordata dalla federazione, quando in piena pandemia ha compiuto 100 anni, come la sciatrice detentrice del record di medaglie ai Campionati italiani. La ricetta della longevità? Semplice, almeno secondo lei: «Un pezzetto di cioccolata ogni tanto e una passeggiata quotidiana, andare a letto presto, mangiare con moderazione, tenere vivo il passato». Le piaceva molto, era uno di quei momenti in cui suoi occhi, spesso coperti da eleganti occhiali da sole, si facevano umidi. 

Raccontando le sue discese, o riguardando vecchie fotografie. Come nel 2017 quando voleva essere presente a ogni costo a una mostra sulla storia dello sport a Pistoia, in occasione della nomina della città a Capitale italiana della cultura, o per l’apertura del Museo dello Sci all’Abetone che ha una sala dedicata solo a lei.

·         E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.

Marco Giusti per Dagospia il 27 luglio 2022.

Il mondo del porno è in lutto. Se ne è andato Mario Bianchi, 83 anni, anche noto come Martin White, Jim Reynolds, Alan W. Cools, regista delle prime star dell’hard italiano, Marina Frajese, Cicciolina, Moana Pozzi, Valentine Demy, Milly D’Abbraccio, Rocco Siffredi, Bob Malone, e di film che i fan del genere conoscono bene come “Cicciolina e Moana Mondiali”, dove le due ragazze hanno a che fare con il Maradona di Ron Jeremy, “La dottoressa di campagna” e “Chiamate 6969 taxi per signore” porno-comico-campagnoli con Marina Frajese e Mark Shannon, “Ramba sfida la bestia”, “Desiderando Moana” con Moana e Rocco, “Amiche del Cazzo” con Moana-Cicciolina-Milly, “Ho scopato un’aliena” con Rocco e Cicciolina. 

Anche se, come Joe D’Amato, Antonio D’Agostino, Arduino Sacco,  attraversa tutti i vent’anni dell’hard italiano, dai primissimi anni ’80 alla fine dello scorso millennio, la sua carriera è particolare, perché Mario Bianchi nasce proprio dentro al cinema di genere che faceva il padre, il regista Roberto Bianchi Montero. 

“Per me l’hard non può definirsi cinema”, disse a Franco Grattarola, che più di tutti l’ha seguito ricostruendone la complessa carriera. “E posso dirlo con cognizione di causa, perché io il cinema vero, seppur non d’élite, l’ho sognato e l’ho respirato in casa, sin da piccolo e l’ho praticato. Come si fa a produrre qualcosa di valido se su 2200 metri di pellicola 2100 metri sono scopate nude e crude?”. Bella domanda…

Mario Bianchi era nato a Roma nel 1939 e entra da giovanissimo nel cinema come assistente del padre, Roberto Bianchi Montero, un prolifico, non eccelso, tuttofare. Lo troviamo così su una serie di bellici, avventurosi e western anni’60, “Quella dannata pattuglia”, “36 ore all’inferno”, “Attacco Ranger Ora X”, “Il magnifico Robin Hood”, “Una donna per sette bastardi”.

Lavora anche per altri registi, da Ferdinando Baldi, “L’odio è il mio dio”, a Mario Bava, “5 bambole per la luna d’agosto”, da Siro Marcellini, “Lola Colt”, a Eduardo Mulargia, “Shango, una pistola infallibile”, toccando già il genere erotico con Osvaldo Civirani, “Il pavone nero”, e Tiziano Longo, “La profanazione”.

Diventa regista per l’ultima ondata anni ’70 dello spaghetti western, firmandosi Frank Bronston, in effetti nome più adatto di Mario Bianchi, per “Hai sbagliato, dovevi uccidermi subito”, “In nome del padre, del figlio e della colt”, parte di “Più forte sorelle”, prodotti da un certo Silvio Battistini (“era uno di quei produttori che, non so perché, ad un certo punto si metteva in testa di fare i Carlo Ponti, senza averne però né i soldi, né le aderenze, e così facendo si mangiavano la dote che si erano costruiti magari con venti film piccolini.” ).

Li segue “Lo chiamavano Requiescant… ma avevano sbagliato”, ma passa presto a altri generi più moderni con “Vento vento portami via”, le commedie erotiche “L’infermiera di notte” e “La cameriera nera” con Carla Brait. 

Nel 1976 porta a termine un film iniziato da Guido Zurli e interrotto per malattia, “Gola profonda nera” con Ajita Wilson, che e rivela le qualità adatte per il genere erotico più spinto. Ma bazzica con convinzione anche il poliziesco sia da regista che da attore, “La banda Vallanzasca" (1977), “Napoli: i 5 della squadra speciale”, “Provincia violenta”, “I guappi non si toccano” con Pino Mauro, “Napoli, storia d’amore e di vendetta”.

La svolta è nei primissimi anni ’80, quando si ritrova a girare un paio di commedie erotiche pecorecce che mischiano soft con hard (anche se lui ha sempre negato che fossero anche hard), come “La dottoressa di campagna” e “Chiamate 6969 taxi per signore”, che firma come Alan W. Cools, con Marina Frajese, Mark Shannon alias Manlio Cersosimo, il primo stallone italiano, e qualche comico come Enzo Garinei, Enzo, Andronico, Nino Terzo, Aldo Ralli. Contemporaneamente il vecchio padre, Roberto Bianchi Montero, nel 1981 a 74 anni, firma come George Curor (sic!) due veri e proprio hard “Albergo a ore” con Sandy Samuel e “Erotic Flash”, primo hard di Moana Pozzi, prima di girarne un fantomatico terzo hard con Marina Frajese che completerà proprio il figlio Mario.

A quel punto il passaggio all’hard è fatto, anche se Mario Bianchi si sforzerà di rimanere ancora nel mondo del soft con film alternandoli all’horror ,“La bimba di Satana” e “Non aver paura della zia Marta”, al comico, “Pierino messo comunale… praticamente spione”, “Biancaneve&Co” con Michela Miti, Oreste Lionello, Franco Bracardi, Martufello che fanno i nani e hanno nomi tipo Dammelo, Stronzolo, Godolo, all’erotico, “Una storia ambigua” con Minnie Minoprio.

Ma anche questi sono film di genere molto più spinti del solito. Passa decisamente all’hard con una serie di film a bassissimo costo prodotti da Candido Simeone, un produttore che aveva perso tutto con un film sbagliato di Raimondo Del Balzo. 

“Con Candido Simeone, poveraccio, era un continuo: chiedeva 10 mila lire a te, poi le dava a me, poi le richiedeva a te. I film che produceva costavano poco, ma diciamolo pure, non pagava nessuno, cominciando da me, ecco perché questi film non costavano niente”, spiegava Bianchi illustrando il modello produttivo dei primi hard, “Oggi, quanto c’abbiamo? 100 mila lire? Allora domani ce pijamo tre tramezzini pe’ pranzo e 100 metri di pellicola”.

Arrivano così gli hard che fanno di Marina Frajese la prima stella dell’hard italiano. “Labbra avide”, “Marina miele selvaggio”, “Marina e il suo cinema”. Dalla prima metà degli anni ’80 Mario Bianchi prima come Martin White poi come Arthur Wolf, David Bird, Nicholas Moore, Jim Reynolds gira una massa davvero massiccia di hard con tutte le nostre star, da Ilona Staller alias Cicciolina a Moana, da Angelica Bella a Valentine Demy. 

Quando lo chiamai qualche anno fa per un’intervista a Stracult lo sentii oltremodo depresso. Non voleva parlare dei suoi film, voleva farne di nuovi, aspettava solo una telefonata di qualche produttore pronto a fargli fare un nuovo film. Non importa di che genere fosse, soft o hard. Fuori dal set si sentiva morto. Se ne è andato lo scorso aprile nel silenzio totale di social e giornali.

·         E’ morto lo scienziato James Lovelock.

Muore a 103 anni James Lovelock, il padre della teoria su "Gaia". Lo scienziato britannico aveva definito la Terra come una comunità autoregolata di organismi che interagiscono tra loro e con l'ambiente circostante. Pioniere dell'ambientalismo era favorevole al nucleare. La Repubblica il 27 Luglio 2022.

È morto ieri, nel giorno del suo 103esimo compleanno lo scienziato James Lovelock, noto per aver elaborato la teoria di "Gaia",  per la quale la vita sulla Terra è una comunità autoregolata di organismi che interagiscono tra loro e con l'ambiente circostante. Lovelock, uno dei più autorevoli scienziati indipendenti del Regno Unito, era in buona salute fino a sei mesi fa, quando ha avuto una brutta caduta.

Ritenuto una sorta di anticonformista, dalla metà degli anni Sessanta aveva iniziato a fare previsioni dal suo laboratorio personale e ha sempre continuato a lavorare fino ad età avanzata: due anni fa aveva dichiarato che la biosfera è ridotta all'ultimo 1% della sua vitalità.

La famiglia ha fatto sapere che è deceduto in seguito a complicazioni dopo la caduta, ma che fino a sei mesi fa era ancora in grado di camminare lungo la costa vicino alla sua casa nel Dorset e di rilasciare interviste. "Per il mondo era conosciuto soprattutto come pioniere della scienza - è la dichiarazione ufficiale -, profeta del clima e ideatore della teoria di Gaia. Per noi era un marito affettuoso e un padre meraviglioso, con sconfinati senso di curiosità, senso dell'umorismo malizioso e passione per la natura". 

Secondo Jonathan Watts, redattore per l'ambiente del Guardian, che conosceva Lovelock e stava lavorando a una biografia su di lui, Lovelock è stato "un uomo che ha contribuito a plasmare molti degli eventi scientifici più importanti del XX secolo - la ricerca della vita su Marte da parte della Nasa, la crescente consapevolezza dei rischi climatici posti dai combustibili fossili, il dibattito sulle sostanze chimiche che danneggiano l'ozono nella stratosfera e i pericoli dell'inquinamento industriale - così come il suo lavoro per i servizi segreti britannici".

Lovelock è stato tra i primi scienziati a lanciare l'allarme per l'ambiente e negli ultimi anni era diventato pessimista sulla possibilità di evitare alcuni dei peggiori impatti della crisi climatica. Sempre secondo il Guardian "La sua teoria di Gaia, concepita con la consulente del Pentagono Dian Hitchcock e perfezionata in collaborazione con la biologa statunitense Lynn Margulis, ha gettato le basi della scienza del sistema Terra e di una nuova comprensione dell'interazione tra vita, nuvole, rocce e atmosfera".

Quando propose per la prima volta la sua teoria di Gaia molti lo accusarono di diffondere "sciocchezze new age", ma oggi la sua ipotesi è alla base di gran parte della scienza del clima. Lovelock era criticato anche perché sostenitore dell'impiego dell'energia nucleare. Tra i suoi contributi alla scienza anche l'invenzione di un dispositivo che rilevava i CFC, dannosi per lo strato di ozono. Nel 2011 aveva dichiarato di non voler andare in pensione perché troppo preoccupato per la crisi climatica: "Il motivo principale per cui non mi godo una pensione felice - le sue parole - è che, come la maggior parte di voi, sono profondamente preoccupato per la probabilità di un cambiamento climatico massicciamente dannoso e per la necessità di fare qualcosa al riguardo subito".

Lovelock, lo scienziato che teorizzò "Gaia" ma voleva un'ecologia a energia atomica. Definì per primo la Terra come una comunità autoregolata di organismi. Matteo Sacchi su Il Giornale il 28 Luglio 2022.  

È morto l'altra sera, a 103 anni, James Lovelock, uno degli scienziati più noti e visionari, e quindi anche contestati, del Novecento. Sua è la così detta teoria di «Gaia» - ovvero che il nostro pianeta nel suo insieme costituisca una sorta di organismo olistico autoregolato da sottili e complesse interazioni - che a partire dagli anni Settanta lo ha innalzato a icona dell'ecologismo. Un'idea che anche se scientificamente discutibile ha influenzato tantissimo l'immaginario collettivo sino a diventare portante ad esempio in film di fantascienza come Avatar di James Cameron (tre Oscar).

Lovelock era nato a Letchworth, in Inghilterra, il 26 luglio 1919. Sin da ragazzo mostrò un enorme talento per la scienza e tutte le sue possibili applicazioni. Spaziava dalla curiosità per qualsiasi circuito elettrico all'osservazione dell'ambiente biologico, con quel pizzico di passione per il rischio che lo portava verso le scalate. Alieno a ogni specialismo rigido sfruttò la fluidità delle università e degli enti di ricerca britannici dell'epoca per non farsi ingabbiare in ricerche troppo rigide e di settore. Laureato in chimica, cominciò, nel 1941, a operare in ambito medico, partecipando a esperimenti per rilevare la presenza di agenti patogeni nei luoghi affollati (come i rifugi antiaerei) e al fine di trovare nuove cure per le vittime di ustioni causate dalle incursioni aeree tedesche. La sua prima invenzione epocale è arrivata nel 1957 quando ha creato il rivelatore a cattura di elettroni (fondamentale per riconoscere gli elementi chimici presenti in un campione). Questa scoperta lo portò, nel 1961, ad essere reclutato dalla Nasa: si unì al team incaricato di studiare la possibilità di vita extraterrestre, e come rilevarla, in ambienti come la superficie di altri pianeti. Suo il congegno pensato per questo scopo montato sulla sonda Vikings poi spedita su Marte. Proprio a partire da queste ricerche Lovelock ha sviluppato il suo approccio particolare agli ecosistemi.

Per usare parole sue: «Tutto il complesso della materia vivente sulla Terra, dalle balene alle piante o ai virus, è un'unica entità capace di manipolare l'ambiente allo scopo di soddisfare i propri bisogni». Queste idee, pubblicate una prima volta nel 1972 sulla rivista Atmospheric Environment, sono poi state ampiamente divulgate in saggi come Gaia. Nuove idee per l'ecologia (in Italia per i tipi di Bollati Boringhieri). Scontato il plauso dei movimenti ecologisti, comprensibile lo scetticismo di scienziati abituati ad un approccio meno multidisciplinare e più centrato su tesi molto più empiricamente dimostrabili.

Però si farebbe un torto a Lovelock ad appiattire il suo pensiero sulla più comune melassa ecologista. Se il suo approccio a «Gaia» era non convenzionale, le sue soluzioni erano lontane dalla favola del downshifting. Ha detto a più riprese che per ottenere un'energia pulita era ed è indispensabile il nucleare. Vedeva i rischi della modernità ma sottolineava anche tutti i benefici innegabili della rivoluzione industriale. Conscio del rischio climatico - tra i suoi contributi alla scienza anche l'invenzione di un metodoper rilevare i Cfc, dannosi per lo strato di ozono - ha però guardato con fiducia al Novacene (titolo di un suo saggio sempre per Bollati Boringhieri), ovvero una futura età in cui uomo e intelligenza artificiale potrebbero convivere bene al di là delle previsioni dei catastrofisti. Una nuova alba, anche a energia nucleare, che a molti ecologisti, fan della catastrofe a tutti i costi, non è piaciuto veder preconizzare. Se ci sarà, Lovelock non potrà vederla, di certo gli va riconosciuto il merito di non aver mai voluto vedere la salvaguardia di «Gaia» come un insensato ritorno al passato.

·         E’ morto lo scrittore Pietro Citati.

Da repubblica.it il 28 luglio 2022.

Scrittore poliedrico, saggista e biografo letterario (Alessandro Manzoni, Kafka, Goethe, Tolstoj, Giacomo Leopardi), era nato a Firenze il 20 febbraio 1930. Vari i lavori dedicati ai miti dei popoli antichi e della grecità (Omero innanzi tutto), alle dottrine religiose e filosofiche come l'Ermetismo. Per anni è stato collaboratore di Repubblica

Da cinquantamila.it – La storia raccontata da Giorgio Dell’Arti 

• Firenze 20 febbraio 1930. Critico letterario. «Non si è geni se non si conoscono servi e portinaie».

• Vita «Io ho avuto una formazione francese. In casa nostra si parlava francese, un po’ come nei romanzi russi. Abitavamo in Liguria, a Cervo, in una casa immensa. Leggevo a sei-sette anni le storie di Madame de Ségur».

• «Come disse un professore a mio padre, ero un alunno negligente».

• «Ero un borghese, mia madre non lavorava fuori casa, e poteva occuparsi di me e dei miei fratelli».

• «Trascorrevo le estati in Liguria (dove Rousseau, Buffon, l’Enciclopedia furono le mie prime letture) ma vivevo a Torino, dove ho passato la mia infanzia. Scuole dai gesuiti, il Liceo d’Azeglio, poi non ressi più la pedanteria, l’ordine piemontese. Andai a Pisa, alla Normale».

• «Alla Scuola Normale, regnava allora una meravigliosa indisciplina, come nelle università medioevali. Spesso, la sera, ci perdevamo nella città, risalivamo i Lungarni, fino a contemplare il Duomo, il Battistero e la torre pendente illuminati dalla luna, mentre i pisani dormivano. Ci fermavamo a chiacchierare e a litigare per ore insieme ai miei simpaticissimi amici-nemici stalinisti. Spesso bevevamo troppo. Quando si avvicinava la mattina, tornavamo alla Normale, ci arrampicavamo sulla grata di una finestra a pianterreno, e infine ci infiltravamo attraverso un’altra finestra che un complice ci aveva lasciato aperto. (…) Alle otto di mattina scendevo quasi nudo, in pigiama e vecchie pantofole, in Biblioteca: firmavo frettolosamente diciotto o venti schede e tornavo carico di libri nella mia camera, grondante di ricordi dei Cavalieri cinquecenteschi. Avevo il sogno infantile della scienza pura: la ricerca appassionata, acuminata, spassionata della verità, quale essa sia, con tutta la bibliografia necessaria» [Rep 11/4/2007]. 

• «Dopo la laurea mi trasferii per tre anni all’estero, uno a Zurigo con una borsa di studio, due come lettore d’italiano all’Università di Monaco di Baviera, grazie a Gianfranco Contini. Quei due anni in Germania, mentre il Paese era impegnato nella ricostruzione, mi sono rimasti molto impressi».

• Alla metà degli anni Cinquanta tornò in Italia: «A Roma. Dovevo insegnare alcuni anni nelle scuole per poter chiedere di nuovo di essere inviato all’estero. E invece sono rimasto. Io sono uno dei tanti italiani del Nord che ha tradito con gioia la sua terra d’origine e ama immensamente Roma. Ero un insegnante irregolare, trascuravo la Storia e la Geografia, leggevo in classe. Vivere con 49.500 lire al mese non era facile. E cominciai a collaborare sui giornali. Negli anni Cinquanta, scrivevo su il Punto, un settimanale nato per appoggiare il centrosinistra, una specie di Mondo per i poveri. Io facevo recensioni di narrativa, Pasolini di poesia. Più o meno in quel periodo, Livio Garzanti mi offrì una consulenza. Garzanti era un essere insopportabile eppure era un grande editore. Anzi, il più grande editore italiano. Con molto più talento anche di Giulio Einaudi. La passione con cui ha pubblicato il Pasticciaccio di Gadda e con cui l’ha saputo imporre è una cosa straordinaria». 

• Scrisse sul Giorno: «Il direttore Italo Pietra aveva inaugurato la pagina letteraria. Usciva il mercoledì, e a settimane alterne ci scrivevamo io e Arbasino. Era circa il 1960, e avevamo trent’anni. Io e Arbasino eravamo completamente diversi. Ci accomunava la passione per Gadda, questo sì. Avevo fama di cattivo, scrivevo pezzi molto feroci. Alcuni ingiusti, altri no, come la stroncatura dello Scialo di Vasco Pratolini. Oggi parlo solo dei libri che mi piacciono».

• Ha scritto sul Corriere della Sera: «Arrivai nel 1973, ai tempi di Ottone. Il primo articolo fu un ritratto di Manzoni che prendeva tre pagine intere. Provocò un grande scandalo, perché parlavo della passione edipica di Manzoni per la madre, dei suoi complessi rapporti con i figli: monsignor Cesare Angelini mi scagliò una maledizione. Ma io avevo carta bianca. Anche per la lunghezza dei miei articoli, che erano sterminati». 

• «A metà degli anni Sessanta, cominciò a crescere in me la voglia di scrivere libri. Mi misi a lavorare su Goethe, a cui ho dedicato molti anni».

• «Quando ero giovane, andavo sempre a trovare Emilio Cecchi, nel suo studio vicino alla porta di casa, da dove controllava, credo, l’andirivieni dei macellai, verdurai, formaggiai, postini. Sentiva di abitare nel caldo cuore vivente della casa. Credo che avesse molta simpatia per me: molta meno considerazione per il mio talento di critico».

• «Con Giovanni Macchia avevamo lo stesso tabaccaio, parrucchiere, farmacista, e dentista. Ciò creava tra noi un rapporto strettissimo, molto più grande di quello dato dai libri». 

• «Mario Praz era una delle persone più buone e affettuose che abbia mai conosciuto. Dopo tanti anni, mi sento ancora irradiato dal suo affetto e dalla sua gentilezza. Abbiamo lavorato insieme: ho curato due dei suoi libri. Cecchi ha scritto, probabilmente, i più bei saggi letterari del Novecento. Ma, a un certo punto, ha pensato che la letteratura è una cosa così grande che è inutile parlarne. L’opera di Praz è la più folta, ricca, colorata, sensuale del secolo. Per certi aspetti, è la più tragica. Aveva il demone dell’analogia: il dono maggiore di un critico».

• «Gadda veniva spesso a casa nostra. Era cerimoniosissimo, ci portava sempre regali, soprattutto marrons glacés. Con le sue infinite attenzioni sembrava che volesse farsi perdonare qualcosa; e che, per il solo fatto di vivere, si sentisse in colpa verso tutti gli uomini» [nota a C.E. Gadda, Un gomitolo di concause. Lettere a Pietro Citati (1957-1969), Adelphi]. «Era un eroe di Plutarco. Per anni mi ha telefonato all’una e mezza impedendomi di mangiare un pasto caldo. Se glielo avessi detto sarebbe cascato il mondo...» [a Paolo Mauri, Cds 30/9/2005]. «Per certi aspetti mi aveva eletto suo padre (io ero infinitamente più giovane di lui); mi chiedeva consiglio per tutte le cose della vita: le tasse, la domestica, il cibo, l’editore, il rapporto con gli scrittori e tutti gli esseri umani». «È stato l’unico grande uomo che ho conosciuto nella mia vita, come profondità tragica di esperienza e di spirito». 

• «Non saprei scrivere romanzi: mi mancano completamente i doni della immaginazione e della visione, senza i quali non si possono scrivere. Ho invece il dono della costruzione. Posso raccontare – cioè interpretare raccontando – solo cose che altri hanno già raccontato».

• Libri: Goethe (Adelphi, 1970, premio Viareggio), Alessandro Magno (Adelphi, 1974), Tolstoj (Adelphi, 1983), Kafka (Rizzoli, 1987), Ritratti di donne (Rizzoli, 1992), La colomba pugnalata (Mondadori, 1995), Il male assoluto (Mondadori, 2000), La mente colorata (Mondadori, 2002) ecc.

• Sposato con Elena Londini, un figlio.

• Frasi «Sono una persona non molto intelligente».

• «Sono uno scrittore di terz’ordine».

• «Proust aveva il fondu, io più modestamente ho il ron ron».

• «Proust, se mentiva, mentiva per difendersi, arte che pratico anch’io qualche volta».

• «Sono affascinato dagli aneddoti. Gli aneddoti, nella loro assoluta superficialità, rivelano qualcosa di profondissimo». 

• «L’assassinio del punto e virgola è molto più grave dell’assassinio di padri, madri, figli, figlie, mariti, mogli, nonne, cognati, di cui parlano con infinita voluttà i nostri telegiornali. Una lingua deve la propria eleganza alla ricchezza dei suoi strumenti espressivi. Una vera lingua possiede tutti i segni di interpunzione – punto, due punti, punto e virgola, virgole, trattino, parentesi. Nessuno è inutile, perché essi segnano pause più o meno profonde, e danno ritmi diversi alla prosa. Se perdiamo la ricchezza della lingua, diventiamo incapaci di pensare, o di elaborare i nostri pensieri» [Rep 7/4/2008]. 

• «Il divieto di uccidere e di rubare e di dire falsa testimonianza è molto meno importante, per la società umana, di quello di offendere la consecutio temporum» [Rep 11/4/2007].

• «Se posso dire una cosa ovvia, il grande Louvre è uno dei peggiori, forse il peggiore museo della Terra. Non è un museo, ma un’industria, una fortezza, una cittadella, una Bastiglia, un ministero, una Zecca, uno stadio, una stazione, un aeroporto, una reggia, un lager. Non è fatto per accogliere amanti dell’arte, ma per migliaia di motociclisti, ognuno con il suo casco, che attraversano velocissimamente le sale, senza mettere mai il piede a terra. Un buon museo deve essere piccolo, semivuoto, e silenzioso. Non bisogna ammettervi comitive guidate, né scolaresche festose e indifferenti. Forse alcuni ragazzi si lamenteranno, perché a scuola hanno insegnato loro che “l’inquadramento storico-estetico” è più importante del quadro. I ragazzi si ribellino. Frequentino da soli la Galleria Borghese, o il Musée de Cluny o il Musée Guimet, fermando gli sguardi su un tocco di colore o una linea ardimentosa, cercando di capire senza l’aiuto di nessuno. Poi, in biblioteca, troveranno libri che potranno soccorrere i loro occhi entusiasti» [Rep 11/4/2007]. 

• «Oggi la lettura tende a diventare una specie di orgia, dove ciò che conta è la volgarità dell’immaginazione, la banalità della trama e la mediocrità dello stile. Credo che sia molto meglio non leggere affatto, piuttosto che leggere Dan Brown, Giorgio Faletti e Paulo Coelho» [Cds 9/3/2012]. 

• «Un libro cattivo è un libro senza forma. La qualità essenziale di un libro bello è il trionfo della forma» [a Silvia Truzzi, Fat 21/4/2013].

• «I libri concentrano in sé tutto ciò che la vita umana ha di più prezioso: i sentimenti, la tenerezza, le amicizie, gli amori, le passioni per questo e l’altro mondo, le rivelazioni, l’attività instancabile della mente, il pensiero metafisico (senza il quale la letteratura impoverisce), Dio conosciuto ed inconoscibile, il brusio delle ali degli angeli, l’eterno femminino, la confessione, la preghiera; e, certo, gli abissi del male e della disperazione» [Rep 11/4/2007]. 

• «Scrivere un grande romanzo è la felicità assoluta» [ad Alain Elkann, Sta 11/3/2012].

• «Ogni grande romanzo è nato dall’invenzione di un ritmo, che può essere lentissimo, lento, moderato, frastagliato, spossato, veloce, velocissimo. Il lettore non fa che seguirli nella mente: li intuisce, li fa propri, li fa rinascere in se stesso, provando, ogni volta, una forma diversa di beatitudine temporale» [Cds 22/2/2012]. 

• «Il vero lettore non legge mai il libro apparente, che splende in superficie, ma il libro segreto, che sta nascosto negli strati più profondi, come negli strati successivi di una torta» [ibidem]. 

• «Quand’ero ragazzo, il pomodoro era il frutto supremo del Mediterraneo: quando lo mangiavo, ero penetrato dalla sostanza del sole, trasformato in una pianta. Insieme al cattolicesimo, costituiva l’essenza della civiltà mediterranea: stemperava gli eccessi ascetici della religione, invocava indulgenza per i nostri peccati, ricordava che noi siamo, in primo luogo, corpi. Oggi i pomodori sono morti, come è quasi morta la pittura. Spero che la morte della pittura sia temporanea, ma temo che quella dei pomodori sia irreversibile. Non sanno di niente. Con la morte del pomodoro abbiamo perduto moltissimo, assai più di quanto sospettiamo» [Rep 11/4/2007]. 

• «I veri pomodori hanno un grande pubblico: quasi come i libri di Alessandro Baricco» [ibidem].

• «Il tempo non va frustato come un cavallo riottoso; ma rallentato, sfibrato, ingannato, perché solo il tempo lento può venire assaporato con tutti i sensi. C’è sempre tempo: la morte non giunge mai» [Rep 26/8/2004]. 

• Critica «Considerato il pontefice massimo delle patrie lettere, si occupa rarissimamente di contemporanei. Ciò che lo rende sublime, al di là della sovranità della forma, è l’invidia che provoca fra alcuni colleghi ancora impastati di marxismo e gramscismo, come Alberto Asor Rosa che lo accusa di “proporre con piglio arrogante un’idea sublime della letteratura in realtà a uso delle masse”, o come Cesare Cases che gli rimprovera di “trasformare l’aristocrazia del genio in un articolo di consumo”. Ammirato da Roberto Calasso per “quella mescolanza di insolente drasticità e furiosa passione che in molti suscita irritazione”» (Pietrangelo Buttafuoco).

• «Il dramma ma anche il fascino dei libri di Citati. Lui riscrive per noi Madame Bovary, Delitto e castigo, L’isola del Tesoro. Una situazione paradossale che è stata tradotta anni fa da Ruggero Guarini in una celebre battuta: “A Citati accade spesso di cedere, non si sa se per troppo amore o troppa invidia, alla strana illusione di credersi l’autore di cui parla”. Credo che fra troppo amore o troppa invidia, la vera molla che spinge Citati a scrivere i suoi libri sia alla fine la disperazione. La disperazione che scrittori di quella forza non ce ne siano più, che romanzi di quella bellezza non ne vengano più. Non a caso Citati indugia, spesso splendidamente, sugli scrittori come persone, con una nostalgia quasi fisica» (Antonio D’Orrico). 

• «Troppo critico per essere scrittore, troppo scrittore per essere critico, Citati subisce dal suo destino un verdetto ancora più pesante, condannato com’è alla letteratura della Letteratura» (Enzo Golino) [Alfonso Berardinelli, Fog 23/7/2011].

• Politica «Da giovane, nel 1951, a Torino votai alle amministrative per Celeste Negarville del Pci. Lo considero, quel gesto, un peccato mortale: anche se non l’ho più commesso, potrei finire all’inferno per questo». 

• «Frequentavo la Normale di Pisa. Tutti i giovani erano comunisti. C’era una sorta di dittatura sotto il segno di Delio Cantimori, che pure era una dolce persona. L’atmosfera era irrespirabile, il buon senso comune del Pci intollerabile. Bandita l’ironia, i sentimenti raccomandati erano quelli che rendono la vita grigia, mediocre».

• Vizi «Da vecchi siamo vittime delle abitudini: amiamo lo stesso studio, la stessa disposizione dei mobili, lo stesso inchiostro, le stesse passeggiate, gli stessi vestiti, gli stessi aggettivi; e questo irrita i giovani. Ma l’abitudine non è sempre una qualità negativa: ogni parola e gesto ripetuti possono acquistare col tempo un valore simbolico, e irradiare significati attorno a sé. Quei luoghi che rivediamo sempre acquistano, per i vecchi, una qualità affettiva intensissima: passare una volta al giorno davanti ai pini di Piazza di Siena o scendere una volta alla settimana la scalinata di Trinità dei Monti può suscitare emozioni più ricche che fare tre volte il giro del mondo». 

• «Sono vanitoso».

• «Faccio quello che mi pare e vedo chi mi pare. Uno dei miei migliori amici è l’antico postino di Giuncarico, in Maremma: non certo perché appartiene al popolo, ma perché è molto simpatico e intelligente».

• «Non ritengo di appartenere alla società letteraria. Andare ad un convegno o assistere a un premio sono, per me, la peggiore delle condanne».

• «È così bello entrare nelle chiese vuote, dove non soffia nemmeno un respiro umano; e sedersi su un banco o una seggiola, pensando, ricordando, fantasticando, rimuginando. Essere soli nella chiesa vuota dà all’anima una quiete e una profondità che altrimenti non conosce. La fede solitaria, da solo a solo con il Figlio o il Padre: non c’è nulla di così intimamente cristiano. Tutto il resto del mondo è dimenticato. Non ci sono più i sentimenti, le passioni, la coscienza dell’io, l’orgoglio, il desiderio di potere, il desiderio di scrivere» [Cds 28/1/2013]. 

• A Giovanni Mariotti ha spiegato che, per difendersi dai detrattori, si limita a non leggerli. Forse mi danno addosso – insinua – perché li ignoro. Ma «nella maggior parte dei casi li ignoro veramente, perché non conosco i loro libri che potrebbero essere anche belli o bellissimi. Davvero non ho idea di come e di cosa scrivano».

• Grande fan del tenente Colombo: «Non so quale sia il motivo della mia passione indomabile. Solo Miss Marple - con i suoi cappellini fioriti, i suoi tè, le sue conversazioni, i lampi improvvisi di intelligenza criminale - mi affascina fino a questo punto».

Morto Pietro Citati, scavò nelle vite dei grandi autori. ANTONIO CARIOTI su Il Corriere della Sera il 28 luglio 2022.

Vinse il premio Strega nel 1984 con la biografia di Tolstoj. Critico letterario versatile e brillante, riusciva a spaziare tra le epoche, i generi e gli autori più diversi. 

Ciò che più colpiva in Pietro Citati, scomparso all’età di 92 anni, era la versatilità con cui, nel suo lavoro di critico letterario, riusciva a spaziare tra le epoche, i generi e gli autori più diversi. Dalle opere della classicità greco-romana ai mostri sacri dell’Ottocento russo, dai testi evangelici a Giacomo Leopardi e Franz Kafka. Una sua specialità erano le biografie dei grandi scrittori in forma narrativa: non a caso sulle pagine culturali del «Corriere della Sera», dove aveva scritto a lungo in due fasi diverse, aveva esordito anticipando parte del suo fondamentale saggio Immagini di Alessandro Manzoni (Mondadori 1973).

Era un finissimo interprete degli autori di cui si occupava, esemplare per la capacità di coniugare assoluto rigore filologico e acuta introspezione psicologica. Non a caso, per due biografie Citati aveva ottenuto prestigiosi premi: il Viareggio nel 1970 con il suo Goethe (Mondadori, 1970; Adelphi, 1990) e lo Strega nel 1984 con Tolstoj (Longanesi, 1983; Adelphi, 1996). Altri riconoscimenti gli erano stati assegnati anche all’estero, per esempio in Francia, in Spagna e in Brasile.

Nato a Firenze il 20 febbraio 1930 in una famiglia siciliana di stirpe aristocratica, laureato alla Scuola Normale Superiore di Pisa, Citati non aveva seguito una regolare carriera accademica. La sua stessa passione per la lettura era sbocciata spontaneamente, non da studi sistematici, quando la sua famiglia si era trasferita da Torino in Liguria nel 1942, durante la Seconda guerra mondiale, per sfuggire ai bombardamenti. Allora, dodicenne, aveva cominciato a leggere e approfondire da autodidatta un po’ di tutto: romanzi, poesia, ma anche i dialoghi di Platone. Più tardi, dopo la laurea, aveva insegnato per qualche tempo italiano nelle scuole professionali, per poi intraprendere la carriera del critico letterario, sulle orme di maestri come Emilio Cecchi, Giovanni Macchia e Mario Praz. Sin dalla metà degli anni Cinquanta aveva frequentato lo scrittore Carlo Emilio Gadda, per il quale aveva maturato un’autentica venerazione.

Ai molti articoli su riviste come «Il Punto», «L’approdo» e «Paragone», era seguita negli anni Sessanta la collaborazione organica di Citati con il quotidiano «Il Giorno», sul quale a volte scriveva solenni stroncature. Nel 1970 il primo libro Goethe, subito premiato. Quindi, tre anni dopo, l’esordio sulla terza pagina del «Corriere». A parte l’anticipazione del saggio su Manzoni, colpisce che il primo articolo di Citati fosse dedicato all’immaturità degli italiani. Lo colpiva che tanti giovani talenti, in ogni campo di attività, andassero dispersi per carenza di «passione intellettuale» o di «forza di concentrazione». E ancor più lo addolorava lo spettacolo di persone che invece, dopo essersi affermate, dormivano sugli allori, incantate dal proprio narcisismo. Non gli era estraneo dunque l’interesse per la vita sociale italiana e per le sue magagne, anche se centellinava gli interventi sulle vicende politiche, solitamente molto severi, anche se in tono ironico, verso la classe dirigente.

In un’intervista rilasciata nel 1984, dopo aver vinto lo Strega, Citati dichiarò che detestava due padri della patria sempre omaggiati: il comunista Palmiro Togliatti, per il cinismo saccente, e il democristiano Aldo Moro, per il suo spirito compromissorio.

Il mondo più congeniale a Citati era però pur sempre la letteratura, in particolare le opere più famose, che amava esplorare con l’attitudine dello speleologo che si cala nelle profondità del sottosuolo: «Un grande libro — diceva — è composto di tanti strati: si tratta di scoprire quello più nascosto». Inoltre riteneva che i classici avessero la dote di trasmettere sensazioni e messaggi nuovi a ogni generazione che vi si accostava e vi si accosta: «Penso che i libri si muovano nel tempo. Non sono sempre gli stessi, hanno aspetti diversi secondo i secoli. Mentre noi siamo fermi e dobbiamo cercare di capire il movimento dei libri».

Il valore dell’ingegno di Citati era stato riconosciuto anche con la pubblicazione, nel 2006, di un Meridiano Mondadori composto di suoi scritti, intitolato La civiltà letteraria europea, a cura di Paolo Lagazzi. Ma non era un tipo che gradisse più di tanto gli omaggi, anzi si riteneva sostanzialmente estraneo alla «società letteraria», al mondo dei premi e dei convegni.

Si definiva «preciso e pedantesco» quando si trattava di applicarsi a un’opera, ma anche «assoluto dilettante» di fronte a molti argomenti. In fondo il critico, osservava, non è altro che «una foglia o un piccolo ramo di un’immensa pineta». Amava molto la cultura antica e aveva a lungo diretto la prestigiosa collana Scrittori greci e latini della Fondazione Lorenzo Valla. Lo affascinavano le antinomie riscontrabili in quel patrimonio immenso sui temi più vitali per la l’uomo. Per esempio il bipolarismo tra determinismo e libertà: «Almeno in apparenza il destino omerico non è rigido né ferreo, ma doppio, oscillante, e sempre sul punto di venire sconfitto. Qualche volta, ci sembra una possibilità, piuttosto che un fato», si legge nel suo libro La mente colorata (Mondadori, 2002; Adelphi, 2018) in cui tratta dell’Odissea.

Un’altra dote di Citati era la capacità di portare questa profondità e ampiezza di riflessione anche sui quotidiani, con i tempi e gli spazi che quella sede comporta. Nel 1988 era passato dal «Corriere» a «Repubblica», poi era tornato a via Solferino dal 2011 al 2017, infine aveva ripreso a scrivere per il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari. Ogni volta nella piena consapevolezza della sfida che aveva di fronte e che sembrava esaltarlo: «La cultura di un recensore – notava – è febbrile, improvvisata, minacciata dal tempo e dalla impazienza del redattore capo, che vuole l’articolo per un giorno preciso».

La sua prosa era limpida e scorrevole. Sapeva catturare l’attenzione anche quando affrontava argomenti molto complessi e personaggi sfaccettati, il che gli permetteva di rivolgersi a un pubblico vasto, come dimostra il successo presso i lettori di alcuni suoi libri, come quello dedicato a Franz Kafka nel 1987. Anche in età avanzata non aveva smesso di produrre opere di notevolissimo impegno. Ricordiamo tra le più recenti: Leopardi (Mondadori, 2010); I Vangeli (Mondadori, 2014); Il silenzio e l’abisso (Mondadori, 2018).

Pietro Citati, il cavaliere dell’infinito che dava vita alla letteratura.  

I celebri saggi sui grandi autori. L’amicizia filiale con Gadda. Amava troppo la letteratura, Pietro Citati, per farsene ortodossamente critico, ma troppo era vocato alla critica. Giuseppe Bonifacino su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Luglio 2022

Si potrebbe dire, per ricordarlo con il titolo di uno dei suoi molti, fascinosi libri, che Pietro Citati aveva «la malattia dell’infinito». Ma è una formula su cui bisogna intendersi. Era, la sua, una «malattia» paradossale, si direbbe piuttosto una passione esclusiva e feconda, che gli garantiva l’accesso a una forma perfetta di salute, quella offerta da un mondo di valori impregiudicati ed eterni, da opporre ai mali oscuri della coscienza e alle aspre miserie della storia: il mondo inventato ma autentico della letteratura.

Per Citati, la letteratura comprendeva in sé tutti gli aspetti e le contraddizioni del reale, e dava loro forma. E in questa attribuzione di forma, nelle parole che la componevano, istituiva per sempre il senso della vita, ne salvava il perpetuo trascorrere dall’accecante assedio dell’oblio. La letteratura, nella visione che egli ce ne ha restituito, racchiudeva dentro di sé ogni spazio e ogni tempo, la suggestione archetipica dei miti e il riverbero fragile dell’esistenza, il dettaglio nel quale se ne deposita, occulto, il senso, e il bisogno di assoluto che ne accende i giorni e i destini. Insomma, come dichiarò in una intervista, per lui la letteratura era «l’essenza stessa della vita»: o comunque ne parlava sempre come se lo fosse. Era - lo ha autorevolmente rilevato Luperini - un «surrogato di teologia». E per questo la sua ricchissima opera di saggista e di interprete si differenziava, anche antagonisticamente, da quelle di tanti suoi contemporanei, scrittori o critici che fossero: perché rivolta ad affermare e difendere un Valore, quello, appunto, della letteratura, contro ogni visione ideologica che ne revocasse in dubbio statuti e funzione.

Ma era una scelta nobilmente apologetica, non una posizione culturalmente datata e rétro: Citati si era formato tra la scuola filologica di Gianfranco Contini e studi germanistici e comparatistici che lo avevano subito proiettato verso quella grande tradizione letteraria europea - da Goethe a Kafka, da Proust a Tolstoj - alla quale avrebbe poi dedicato tanti suoi suggestivi, fortunati saggi.

Ma alla sensibilità filologica e all’apertura alle suggestioni culturali dell’orizzonte europeo, egli congiunse la grande lezione di Saint-Beuve: pervenendo, così, ad un armonico, personalissimo intreccio di biografia e testualità, di ricostruzione psicologica e ritraduzione mimetica delle modalità creative che di volta in volta connotavano gli scrittori assunti ad oggetto dei suoi libri.

Da un lato, Citati ne ridisegnava, per esporli al suo lettore, gli itinerari esistenziali, incrociando al dato biografico il risvolto psicologico che potesse illuminarne o viceversa intorbidarne moventi e dinamiche; dall’altro si concentrava, per ampi scorci, in un confronto diretto con percorsi e passaggi testuali, non però assumendoli - secondo le modalità proprie della critica «ufficiale», sia nella sua postura accademica che in quella militante - come oggetti di un’analisi che, scomponendone scientificamente gli elementi per comprenderli e valutarli, finisse, per così dire, coll’allontanarli da sé. La critica di Citati, al contrario, si disponeva, nel suo estremo, programmatico soggettivismo (Moliterni), in una relazione empatica con il testo e il mondo in esso figurato ed implicito - l’esperienza vissuta dell’autore, o le ombre allusive del suo inconscio -, e lo riproduceva come guardandolo dall’interno, ne riattraversava i passaggi affabulandone la genesi, restituendo in una compartecipe parafrasi i movimenti delle forme entro le quali l’autore aveva perseguito la sua rappresentazione o invenzione del reale. Una critica eterodossa, immune da ogni osservanza metodologica, affrancata da ogni rigore categoriale, nutrita solo di una intensa fusione tra il piano esegetico e quello creativo, in una filigrana interpretativa balenante nelle pieghe di una rilettura mimetica del testo, di cui i saggi gaddiani di Citati, e tra essi specialmente quello sulla Cognizione del dolore pubblicato nel ’63, costituiscono esempi di spiccato acume ermeneutico.

Con Gadda, peraltro, Citati, si può dire, giocava in casa: dal ’56, in quanto consulente editoriale della Garzanti, ne era diventato devotissimo sodale, depositario e tutore, o cultore, di ogni dubbio creativo e di ogni groviglio nevrotico, sovente coincidenti nell’autore del Pasticciaccio: del quale, come di altri fondamentali opere di Gadda, si deve a lui, al suo prezioso ufficio di editor, la tormentata, liberatoria pubblicazione.

Amava troppo la letteratura, Pietro Citati, per farsene ortodossamente critico, ma troppo era vocato alla critica - all’intelligenza del testo quale forma della vita segreta del suo auctor - per non riversarla dentro il cuore dei ritratti biografici che offriva, nella sua prosa tersa ed avvolgente, ad un pubblico di non specialisti, a cui voleva schiudere le porte della sua «malattia dell’infinito».

È morto Pietro Citati, quando Scalfari lo definì “il più importante scrittore italiano”. Ripubblichiamo questo scritto per L‘Espresso il 7 novembre 2014 per ricordare l’intellettuale e critico letterario scomparso a 92 anni.

Quando Citati si identifica con Dio.

Lo scrittore, dopo le biografie di Goethe, Tolstoj, Kafka, ora affronta i Vangeli. Ma immedesimarsi in un romanziere è possibile. Diverso farlo con Gesù Cristo 

Pietro Citati ha scritto un libro uscito di recente con l’editore Mondadori. È intitolato “I Vangeli” e dice con chiarezza qual è l’argomento. Sono 152 pagine e illustrano i quattro Vangeli sinottici valendosi anche di alcune interpretazioni specialistiche ma soprattutto dell’eccezionale capacità di Citati di raccontare il testo che gli interessa. 

Uso la parola “raccontare” perché è così che lavora Citati ed è così che è diventato uno dei più importanti scrittori italiani anzi, almeno secondo me, il più importante. Conosco Citati da molti anni durante i quali abbiamo lavorato insieme per “Repubblica”. Di solito veniva definito un critico letterario e forse lo fu nei suoi primissimi anni, ma non è mai stata questa la sua vocazione. Non era un critico letterario e non è stato neppure un romanziere anche se un paio di romanzi li ha scritti e non erano affatto male, anzi furono giudicati positivamente dai suoi recensori e da lui stesso. Di solito Citati non si autoelogia ma in questo caso lo ha fatto, probabilmente perché essere un romanziere lo tenta molto. Però non lo è. È uno scrittore molto particolare, sceglie un autore e lo racconta, lo fa vivere a suo modo sulle sue pagine, lo interpreta, lo riscrive, si identifica con lui. Addirittura diventa lui stesso. Il testo non è più di quell’autore ma è suo. Così ha fatto con Goethe, con Kafka, con Tolstoj, con Leopardi e con una infinità di altri, alle volte dedicando loro un libro oppure un ampio articolo sul giornale dove da alcuni anni scrive, il “Corriere della Sera”. 

Qualche giorno fa è stato  intervistato sul “Foglio” da Gloria Piccioni sul tema dei Vangeli. È un’intervista interessante perché Citati racconta in quale modo ha letto le Sacre Scritture, i Vangeli certamente, ma anche i libri dei profeti, di Isaia soprattutto, ma non soltanto. Insomma il suo personaggio è Gesù, anzi Gesù Cristo, Figlio dell’Uomo e Figlio di Dio; Dio a sua volta non è soltanto il Padre, ma è anche il Figlio prima ancora di incarnarsi. Il libro che Citati ha scritto ha dunque Dio come personaggio. Attenzione però: Citati è cristiano, non è agnostico, non è ateo. Non so fino a che punto sia un cristiano praticante, di quelli che vanno alla Messa tutti i giorni o almeno tutte le domeniche e frequentano regolarmente i Sacramenti. Ma questi sono dettagli, l’importanza è la fede e Citati la fede ce l’ha e non ne fa mistero. 

A questo punto la lettura del suo libro mi pone una domanda: può un cristiano scrivere un libro che usa le Scritture e ricostruisce attraverso di esse la vita di Dio? Del suo Dio?

Nel libro “I Vangeli” l’autore usa le Sacre Scritture come testi veridici prodotti direttamente da Gesù Cristo: Gesù disse, Gesù fece, Gesù pensò, Gesù era Dio e Dio Gesù, Gesù nato da Maria, Giuseppe avvertito dall’Arcangelo Gabriele, la natività a Betlemme, il Sacro Bambino deposto nella mangiatoia e così via, fino alle parole dette al Getsemani, ma forse non dette, e quelle pronunciate mentre spirava sulla Croce ma forse non dette neppure queste. 

Gesù Cristo parla, Citati lo fa parlare, ma lui ha anche la fede con la quale deve irrevocabilmente fare i conti ed ha anche il suo impegno di scrittore ed anche con quello (dovrebbe) fare i conti.

E il conto principale è questo: i Vangeli furono scritti da evangelisti che non conobbero Gesù, vissero e scrissero alcuni anni dopo la sua morte, non furono testimoni diretti, salvo forse Giovanni, del quale però molte analisi storiche mettono in dubbio che sia stato l’Apostolo. Marco a un certo punto dice che fu chiamato da Gesù ma lo dice Marco, perché di Gesù di Nazareth non possediamo alcun segno e alcuna parola che non sia riferita e quindi interpretata da chi la riferisce. Citati cita spesso nel suo libro Gesù come se fosse una fonte diretta, ma non lo è affatto. 

Per me, che sono miscredente, i Vangeli sono racconti e non possono essere scambiati come fonti della Sacra Parola. Citati scrive a suo modo quattro racconti ma lui, cristiano, ce li presenta come fonti dirette. È accettabile questo metodo da me che non credo? 

Io non so se avrà voglia di rispondere a questa domanda, ma quello che a me pare sicuro è che questa volta si è accinto ad un compito affascinante quanto impossibile: ci si può identificare sicuramente con Tolstoj o con Dostoevskij ma può un cristiano identificarsi con Dio? 

Certamente lo può, i mistici nei loro momenti più intensi riescono proprio a far questo e lo racconta molto bene Agostino in un punto essenziale delle sue “Confessioni”. Il mistico si identifica con Dio quando riesce a dimenticare il proprio io, la propria memoria, la propria esistenza e fa tutt’uno con la Luce che emana dal Signore. Questi momenti di identificazione mistica durano un attimo perché poi l’io ritorna ad esistere e quando l’io esiste il misticismo non c’è più. 

Citati non è certamente un mistico, Citati è uno scrittore e come tale si identifica con gli altri scrittori, prende il loro posto, diventa l’autore della loro opera e ne risponde direttamente. Ma può fare questo con Dio-Cristo essendo cristiano? 

1930-2022. L’inestimabile valore dell’amicizia con Pietro Citati. CARLO FRUTTERO su Il Domani il 28 luglio 2022

Poteva essere antipatico, o quanto meno veniva detestato da tutti quelli che non venivano considerati da lui.

Anche per questo è stato il più grande critico letterario degli ultimi anni. Capace di parlare anche ai bambini.

Chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell’urlìo continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.

Roberto Gervaso a Giuseppe Berto: Chi è il migliore tra i critici italiani?

Berto: Citati.

(R. Gervaso, Il dito nell’occhio, Rusconi, Milano 1977, p. 47)

C’è stata un’epoca – non troppo lontana, neanche cinquant’anni fa – in cui i giornalisti intervistavano gli scrittori e gli scrittori parlavano dei critici, e quando nominavano quello che per loro era il più bravo non c’era neanche bisogno di dire il nome di battesimo: tutti – anche chi non leggeva la terza pagina (allora, prima che arrivasse il paginone centrale di Repubblica, la pagina della cultura su tutti i quotidiani – sapevano benissimo chi era Pietro Citati.

Citati è morto ieri, dopo aver attraversato il Novecento e questo pezzo di Ventunesimo secolo facendo sempre la stessa cosa, e cioè parlando di letteratura, anzi di Letteratura con la maiuscola perché – come dice affettuosamente Carlo Fruttero nell’articolo che ripubblichiamo qui di séguito – Citati non era interessato alle minuzie della storia letteraria, agli autori minori che ne formano il tessuto, alle correnti letterarie, agli -ismi che affollano le pagine dei manuali. A lui premevano solo i grandi scrittori, che negli anni ha affrontato con piglio di critico “puro”, senza le cautele ma anche senza i grigiori degli accademici, e i loro ingorghi bibliografici: Tolstòj, Kafka, Goethe, Proust, la Bibbia, ogni tre o quattro anni Citati sceglieva un Grande Autore, leggeva tutto quello che aveva scritto, leggeva una scelta della critica su di lui, e poi gli dedicava un libro. Libro che – oggi sembra incredibile – vendeva decine di migliaia di copie, e veniva letto, e faceva discutere, e guadagnava al Grande Autore nuovi lettori.

Come suona il vecchio adagio, Citati era entrato nella letteratura come si entra nella religione: la stessa serietà, la stessa fede, la stessa composta solennità – tutte qualità che oggi, rispetto al passato (rispetto al gusto di Giuseppe Berto, poniamo, e di tanti altri nati e morti nel Novecento), siamo un po’ meno propensi ad apprezzare. Ma era un lettore onnisciente, un vero divulgatore (un divulgatore alto, si direbbe oggi: ma come alto dev’essere, ed è ormai raramente, il tono con cui l’esperto parla all’inesperto), e una figura cruciale nella pubblicistica culturale del secondo Novecento italiano. E anche più di questo: soprattutto prima che i giornali ne assorbissero l’attenzione e l’impegno, il giovane Citati aveva scritto saggi di grande valore anche scientifico, ancor oggi leggibili con profitto: come quello – ecco una lettura estiva davvero originale – che introduce la raccolta di Leo Spitzer intitolata Marcel Proust e altri saggi di letteratura francese moderna: uscì per Einaudi nel 1959, Citati non aveva ancora trent’anni, era proprio un altro mondo.

(Beppe Cottafavi) 

Tanto vale togliersi subito il pensiero: Pietro Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l’unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esi­stono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tol­stoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile. Gli esclusi lo vorrebbero morto, uno così. Come si permette, chi si crede di essere?

Li capisco benissimo, sia chiaro. Di Citati mi considero oggi un caro amico, ma anche con me, dopo tan­ti anni, se gli viene in mano il coltello a serramanico non esita a far scattare la lama. Mai alle spalle, però, sempre faccia a faccia, che è forse anche più insultan­te. Il critico, il letterato, può dunque apparire e maga­ri saltuariamente essere odioso; ma l’uomo non è cat­tivo, tutt’altro.

Io lo conobbi nel 1958 o 1959 in casa editrice Einaudi, dov’era passato a salutare i suoi compagni di scuola (Normale di Pisa) Ponchiroli e Bollati. Passò anche a salutare Calvino, che ammirava e di cui era amico, ma Italo aveva appena lasciato l’ufficio e Citati restò lì al mio tavolo qualche minuto a parlare di fantascienza, le antologie da me curate essendogli molto piaciute. Gentile, sembrava.

SOTTO IL MIO CAPANNO

Molti anni dopo Gianni Merlini e io, stufi della troppo umida Versilia, cercavamo casa più a sud, in Ma­remma, e Citati, grande amico di Gianni, ci ospitò per due o tre notti a casa sua.

La sua casa era una vera e propria tenuta, con un prato ampissimo, immensi alberi ombrosi, viali infila­ti sotto fitti rami e cespugli, una cappelletta tra gli uli­vi, filari di alberi da frutta. L’edificio, benché costruito negli anni Trenta, restava felicemente fedele a canoni di sobria rusticità toscana.

Niente civetterie anticheg­gianti, solida, comoda naturalezza in quei terrazzi, log­gette, salette e saloni e alti finestroni. La Castellaccia, si chiamava la frazione, dotata di una botteguccia di alimentari e attorno un minuscolo borgo. Citati s’era scelto come studio una cameretta a pianterreno e lì s’in­stallava a scrivere accanitamente dal primo mattino. Poi, quasi ogni giorno, prendeva la macchina e faceva quei venti chilometri fino alla spiaggia della mia pine­ta. Si cambiava, si sedeva sotto il mio capanno di cannucce e si metteva a leggere il giornale.

Per me andava benissimo così, perché con un apodittico cronico la conversazione è sempre piuttosto asimmetrica. Se accenni a un libro che hai cominciato a leggere ieri sera, o a un film che hai appena visto in tv, l’apodittico nove volte su dieci già lo conosce da anni, l’ha già soppesato, valutato, sistemato nel suo archivio mentale e te lo liquida in quattro parole. Se invece capita che non ne sappia niente lo liquida in parole due, come irrilevante. Finché non c’è arrivato lui, alla caduta di Costanti­nopoli, non è il caso di parlarne.

PARLARE AI BAMBINI

Una bella sicurezza, da me molto invidiata. Non voglio dire che la mia indole tenda particolarmente all’amletismo, ma di dubbi ne ho sempre, come tutti, tantissimi, sui cardi delle perplessità mi ci spello i piedi quasi ogni giorno, quasi ogni decisione infine presa mi sembra, a rifletterci, sbagliata. Non così Citati, sereno, sorridente, ben piantato nella sua infallibilità: quella Citroën, di quel colore, di quella cilindrata, è l’unica giusta; quella pasticceria di Gavorrano è l’unica che sa fare i salatini; quel certo albergo in Cadore è l’unico dove si sta veramente bene.

Se solo accenni a un buon albergo in Val d’Aosta dove anche tu una volta... Citati taglia corto con una smorfia. Quale Val d’Aosta? La Val d’Aosta non esiste, è cancellata dalla carta geografica. Ipse dixit. Si può sospettare che sia tutta una difesa per tenere lontano Amleto e i suoi tormenti, ma non credo. Citati è convintissimo di quello che dice, sceglie, fa, la sua stessa voce s’impone con tonalità sbrigative, definitive nel fatale labirinto dei sentieri che si biforcano.

È possibile diventare e restare amici di un personaggio così rostrato? Sì, per una ragione ai miei occhi decisiva: Citati è uno dei rarissimi uomini che sanno parlare ai bambini. Un dono divino, se vogliamo, come san Francesco che sapeva parlare agli animali. Abbiamo ormai la certezza scientifica, o metafisica, che i bambini vengono strappati urlanti da un misterioso mondo extraterrestre e che poi qui da noi si adattano piano piano al nostro.

Per alcuni anni, però, conservano del loro luogo d’origine un sistema logico di strabiliante mutevolezza, dove tutto, assolutamente tutto, si può innestare su tutto, tramutarsi nel suo opposto, trapassare inconcepibili dimensioni, far esplodere o miniaturizzare ogni ordine di grandezza, di probabilità, ogni convergenza euclidea o divergenza non euclidea.

INESTIMABILE VALORE

Come parlano questi piccoli alieni? Be’, più o meno come noi, apparentemente. Ma ricordano d’istinto la lingua delle mummie, per esempio. Sepolti (meno il volto) in tre tumuli sabbiosi, l’egittologo Citati si china su di loro e gli rivolge cavernose parole. Le mummie rispondono, altrettanto cavernose.

Dopo una lunga criptica conversazione l’egittologo si trasforma in promotore di Formula 1, afferra per i piedi una ex mummia e le fa tracciare col fondoschiena un circuito da brividi, tutto curve e controcurve, un solo rettilineo, e piazza in fila di partenza le grosse biglie iridescenti da lui stesso messe a punto in una sua officina. Ed eccolo giudice di gara, a dirimere delicatissime questioni di fair play, a chiudere un occhio con chi bara (tutti), a rimettere in pista chi ne sembrava uscito definitivamente per la terza volta, a decidere chi abbia in realtà vinto (tutti).

«Ma questa è di inestimabile valore?» gli chiede un bambino mostrandogli una conchiglietta poco più rosa del suo palmo aperto. Senza dubbio, risponde ammirato il massimo diamantologo di Anversa dopo averla scrutata a lungo col suo occhialino fatto con due dita. È proprio di inestimabile valore.

Il cliché, che ha una sua nobile carriera fiabesca, deve essere rispettato. E rispettate (con delizia) saranno tutte le deformazioni di parole praticate dai bambini, soltanto un orecchio ottuso correggerà il rogiologio in orologio, il lusignono in usignolo.

Posso ben dire che quelle feste di bambini (e di grandi) alla Castellaccia erano d’inestimabile valore. C’erano zuppe e torte con e senza panna, intingoli e prelibatezze maremmane, fritti e creme e involtini e salsine sparsi su lunghi tavoli ai bordi del prato: il classico «ognibendidio» sempre presente in Pinocchio e in tante dimore fantastiche. 

Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre. Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la nona pecora, l’arrotino laggiù, la Stella un po’ più in basso, e così via fino alla perfezione.

La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, sgocciolante di sciroppi e bave al cioccolato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell’urlìo continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre.

A CENA AL QUIRINALE

Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un il­lustre e potente personaggio dell’establishment cultu­rale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. Ma non l’ho mai visto all’ope­ra con banchieri o ministri o luminari di questo o quel ramo. So che s’era preso di grande affetto per Federico Fellini, che girava degli spot pubblicitari per sopravvi­vere e lo invitava ad assistere alle riprese.

Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d’altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smo­king. Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale.

Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po’ sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A pa­lazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l’ela­stico, che su una bella camicia bianca... Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.

STRISCE ORIZZONTALI

Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, supe­riore alle pompe del mondo? Chissà (c’era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega…). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo.

Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti).

Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati.

Se faceva di testa sua, o piuttosto se si lasciava plagiare da amici sconsiderati, poteva succedere che si presen­tasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimi­li. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzon­tali verdi e beige, terribile.

«Ma sei impazzito?» prote­stavo io. Su queste cosette esteriori si lasciava dire, sor­rideva indulgente, filosofico. «Be’, che c’è di male, l’ho trovata su una bancarella a Arcidosso»,

«Ma non si può, sembri un centrocampista del Celtic Glasgow!». Citati si rimirava la maglia senza vergogna. «Mi hanno detto che è filo di Scozia, bello fresco» si difendeva bonario. 

«SONO PIETRO CITATI»

Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po’ di quel festival.

Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti. Mai una “prima” fastosissima, attesa da anni, mai un vernissage, un’inaugurazione, una celebrazione squillante. Non m’invitavano, per lo più; oppure ero in un altro posto; o mi spaventava la ressa; e nemmeno io avevo uno smoking, del resto.

Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi ap­passionati, gli “scopritori”, già avevano smesso di an­darci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D’altra parte il pubbli­co doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell’influenza aviaria.

«E se non troviamo da dormire?» dicevo io.

Da auten­tico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spo­leto non c’era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita. Lui sparì, taciturno e grintoso, e quan­do tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annun­ciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di sa­lita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarce­ne a dormire dopo lo spettacolo.

«Quale spettacolo?», 

«Così fan tutte, nel famoso teatri­no del festival. E anzi, alzatevi e andiamo»,

«Ma i bi­glietti?».

Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell’ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria.

«Sono Pietro Citati» disse duro alla ragaz­za. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiaris­simo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi al pernacchia.

AVERE RAGIONE

Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le se­die.

Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le ac­cecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. En­trammo in non so quante case (compresa quella di Me­notti, beninteso), attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo).

Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per il mio libro Ti trovo un po’ pallida. Il giorno della partenza andammo a se­derci nel grande caffè sulla piazza che digrada appe­na verso il Duomo. File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolce­mente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate.

«È bello» dissi a Citati, «avevi ragione.»

«Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero. 

CARLO FRUTTERO

Dagospia il 29 luglio 2022. Estratto da “Mutandine di Chiffon. Memorie retribuite”, di Carlo Fruttero (ed. Mondadori) pubblicato da La Stampa.

Tanto vale togliersi subito il pensiero: Citati è ammirato da molti ma da molti detestato. Arrogante, sprezzante, tagliente, è sempre lui l'unico ad aver capito tutto. Gli autori di cui non si occupa non esistono. Quelli che esistono si chiamano Goethe, Omero, Kafka, Proust, Tolstoj e pochi altri dello stesso club inavvicinabile. 

Gli esclusi lo vorrebbero morto, uno così. Come si permette, chi si crede di essere?

Li capisco benissimo, sia chiaro. Di Citati mi considero oggi un caro amico, ma anche con me, dopo tanti anni, se gli viene in mano il coltello a serramanico non esita a far scattare la lama. Mai alle spalle, però, sempre faccia a faccia, che è forse anche più insultante. Il critico, il letterato, può dunque apparire e magari saltuariamente essere odioso; ma l'uomo non è cattivo, tutt' altro. 

Io lo conobbi nel 1958 o '59 in casa editrice Einaudi, dov' era passato a salutare i suoi compagni di scuola (Normale di Pisa) Ponchiroli e Bollati. Passò anche a salutare Calvino, che ammirava e di cui era amico, ma Italo aveva appena lasciato l'ufficio e Citati restò lì al mio tavolo qualche minuto a parlare di fantascienza, le antologie da me curate essendogli molto piaciute. Gentile, sembrava. 

Molti anni dopo Gianni Merlini e io, stufi della troppo umida Versilia, cercavamo casa più a sud, in Maremma, e Citati, grande amico di Gianni, ci ospitò per due o tre notti a casa sua.

La sua casa era una vera e propria tenuta, con un prato ampissimo, immensi alberi ombrosi, viali infilati sotto fitti rami e cespugli, una cappelletta tra gli ulivi, filari di alberi da frutta. L'edificio, benché costruito negli anni Trenta, restava felicemente fedele a canoni di sobria rusticità toscana. Niente civetterie anticheggianti, solida, comoda naturalezza in quei terrazzi, loggette, salette e saloni e alti finestroni. 

La Castellaccia, si chiamava la frazione, dotata di una botteguccia di alimentari e attorno un minuscolo borgo. (...) Affezionatissimo, come tutti noi, alla sua bella casa, Citati ci viveva il più a lungo possibile, veniva già a fine maggio e richiudeva tutte quelle infinite finestre solo a fine ottobre, se non in novembre. 

Spesso riapriva per Pasqua, quasi sempre per le vacanze di Natale, allestendo con suo figlio Stefano e mia figlia Federica (stessa età) un presepe degno di una prima alla Scala, qui il secondo laghetto, lì la quarta gallina, l'arrotino laggiù, la Stella un po' più in basso, e così via fino alla perfezione.

La notte di Capodanno giocavamo a tombola, evento chiassosissimo, eccitato, scandito dal biscazziere venuto appositamente da Las Vegas per gestire il gioco. E qui dico che chi non abbia partecipato a una tombola presieduta a capotavola da Citati nell'urlio continuo dei piccoli alieni non può sapere che cosa sia la douceur de vivre. 

Messo così, Citati sembrerebbe tutto meno che un illustre e potente personaggio dell'establishment culturale italiano. Qualcuno di quel mondo veniva talvolta a trovarlo alla Castellaccia e lui lo portava poi alla mia spiaggia a fare il bagno. (...) 

Vinse anche il premio Strega e una volta non so più quale presidente della Repubblica lo invitò a cena al Quirinale, una cena di alte personalità accademiche, delle arti, e d'altro ancora, immagino. Black tie. Citati spiegò allora al segretario che non possedeva uno smoking. 

Poco male, avrebbe provveduto il Quirinale. Citati rifiutò. Anche solo la giacchetta nera? Anche. Ma non aveva almeno un abito non proprio color ruggine, un po' sullo scuro, diciamo fumo di Londra? A palazzo gli avrebbero fornito un farfallino nero con l'elastico, che su una bella camicia bianca... Citati disse di no, grazie e non salì al Colle.

Sdegnoso dunque di riconoscimenti e onori, superiore alle pompe del mondo? Chissà (c'era pur sempre quella piccola macchia nera del premio Strega...). Circa il suo guardaroba, sua moglie Elena faceva del proprio meglio per renderlo, se non presentabile, almeno inoffensivo. 

Completi neutri, cravatte spente, che Citati si portava addosso senza la minima solidarietà. Né mai provò la minima solidarietà verso marxismo, materialismo dialettico, palingenesi rivoluzionarie e simili tragiche velleità (e per questo forse sta così antipatico a molti). 

Ma fra le tante icone sbandierate in quei cortei il suo rimpianto va al presidente Mao, non tanto per Il libretto rosso quanto perché il Grande Timoniere seppe imporre a miliardi di persone un abito unico, con gli stessi bottoni, risvolti, tasche, della stessa stoffa, dello stesso colore. E non appena si logorava, un altro uguale identico. Questo avrebbe desiderato quanto a sé Citati. 

Poteva succedere che si presentasse alla spiaggia combinato nei modi più inverosimili. Lucidi calzonetti color prugna, polo rosso fuoco, una volta arrivò con una maglietta a larghe strisce orizzontali verdi e beige, terribile. «Ma sei impazzito?» protestavo io. Sulle cosette esteriori si lasciava dire, sorrideva indulgente, filosofico. «Be', che c'è di male, l'ho trovata su una bancarella a Arcidosso». 

Faceva lunghissime nuotate al largo riducendosi a un puntino invisibile tra Montecristo e il Giglio. Ma quanto a visibilità in terraferma ne aveva da vendere, come constatai quando mi propose di andare un paio di giorni a Spoleto a vedere un po' di quel festival. Questi grandi eventi culturali io li ho, si può dire, mancati tutti.

(...) Ma il festival di Spoleto durava già da un bel pezzo, i primi appassionati, gli "scopritori", già avevano smesso di andarci e quindi il fervore iniziatico delle prime due o tre stagioni non era più da temere. D'altra parte il pubblico doveva essere aumentato vertiginosamente, poiché ogni occasione che contenga il virus dello snobismo si propaga peggio dell'influenza aviaria.

«E se non troviamo da dormire?» dicevo io. Da autentico leader, Citati nemmeno mi stava a sentire. A Spoleto non c'era naturalmente una camera o subcamera libera. Pazienza, dicevo io, abbiamo fatto comunque una bella gita. 

Lui sparì, taciturno e grintoso, e quando tornò al caffè dove ci aveva lasciati tutti, annunciò che avremmo dormito in un bellissimo albergo in cima a una montagna lì vicino, pochi chilometri di salita, gli stessi in discesa, gli stessi ancora per andarcene a dormire dopo lo spettacolo. 

«Quale spettacolo?», «Così fan tutte, nel famoso teatrino del festival. E anzi, alzatevi e andiamo», «Ma i biglietti? ». Il leader alzò le spalle senza rispondere e si mise alla testa del titubante gruppetto, a grandi passi. Nell'ingresso del teatro si affacciò allo sportello della biglietteria.

«Sono Pietro Citati» disse duro alla ragazza. Io credetti di leggere nel di lei pensiero un chiarissimo «E chi se ne frega», e intravidi, così mi parve, la sua lingua prepararsi al pernacchio. Invece, in due minuti, ci furono i biglietti, ci fu un intero palco tutto per noi, e quando si vide che le sedie non bastavano ci furono (altri tre minuti) anche le sedie. 

Da quel momento Citati ci guidò per tutte le scale, i giardini, i terrazzi, i saloni, i bianchi divani, le accecanti vetrate, le fresche ombre che provvedevano a fare di Spoleto un memorabile evento mondano. Entrammo in non so quante case, attraversammo con impeto non so quanti ingorghi di invitati, curiosi, musicisti, cantanti, addetti ai lavori, camerieri contorsionisti, personaggi dal portamento che diceva palesemente: «Lei non sa chi sono io» (e infatti non lo sapevo). 

Un trionfo, che ricordo con nostalgia e gratitudine, perché qualcosa senza dubbio mi insegnò per Ti trovo un po' pallida. Il giorno della partenza andammo a sederci nel grande caffè sulla piazza che digrada appena verso il Duomo. 

File e file di sedie erano allineate per il concerto serale, mia figlia Maria Carla era andata con la mamma a cercarsi una di quelle candide camicie da notte in stile nonna allora di moda, io bevevo un bicchiere di bianco e guardavo quella piazza dolcemente inclinata, quel capolavoro di chiesa, quella premonizione di violini, flauti, trombe, clarini, sospesa lì davanti come una nube latente di pagliuzze dorate. «È bello - dissi a Citati -, avevi ragione». «Ma io ho sempre ragione» disse lui sorridendo, più rassegnato che fiero.

Testo e carattere. C’è tanto da imparare dalle opere di Pietro Citati. Chiara Fera su L'Inkiesta il 30 Luglio 2022.

Con la sua prosa ha collegato più universi e più lettori, “setacciando” con rigore e profondità l’anima e i pensieri dei migliori autori. Così il grande scrittore, fonte indiscussa di svariati scenari della letteratura, viene raccontato da Chiara Fera sotto una nuova luce. 

Pubblichiamo un ricordo della figura di Pietro Citati a firma di Chiara Fera, che sul grande letterato ha pubblicato per Rubbettino nel 2018 “Il libro invisibile di Pietro Citati“. 

Avevo ventiquattro anni quando bussai alla sua porta. La mia voce tremava, al punto che lì per lì riuscii goffamente a dire ben poco. Stavo incontrando Pietro Citati. Bussavo alla porta di un uomo che di letteratura – quell’ambigua, sterminata, galvanizzante materia a cui avevo deciso di dedicarmi –  tutto aveva letto e tutto aveva scritto.

Divorato, commentato, vissuto in prima persona fino a trasfigurarsi ora in personaggio letterario, ora in amico fidato degli autori di cui di volta in volta setacciava anima e pensieri. In buona sostanza, di fronte a me si ergeva la storia della letteratura in persona. Era ogni personaggio, ogni dialogo, ogni emozione con cui i grandi capolavori amano conturbare i nostri sensi.

E io, cosa offrivo in dono dietro quella porta? Qualche libro letto, un irrequieto fastidio di averne letti troppo pochi, il desiderio di provare a dominare l’universo letterario intervistandone il negus indiscutibile. Ma anche la sorpresa ancora viva suscitata da quelle poche parole al telefono con cui, lui schivo e discreto, lui allergico al clamore e alla mondanità, accettò la mia richiesta di incontro.

Infine, ancora orfana delle funzioni vitali, portavo con me l’incapacità di capire da dove iniziare. Fu lui a distendere la mia agitazione, sciorinando storie a volte sue a volte tirate fuori da una mente tappezzata di parole altrui. Allora partii con le domande, tante, tantissime, nate dalla curiosità e dall’ammirazione piena per un uomo che aveva vissuto innumerevoli vite: fu al capezzale di Ivan Il’ic, tenne per mano Oliver Twist, rimase incantato al martellante ed esasperato “Nevermore” di Poe, abitò l’infinito in compagnia di Pessoa.

Discorrendo, gli feci notare la cifra stilistica inconfondibile che trapela dai suoi articoli e dai suoi saggi, il fascino del suo lavoro che non consiste nella mera e asettica rielaborazione biografica né nell’intricata e rigida elucubrazione accademica, ma nel febbrile, empatico e seducente slancio nell’individualità più intima di uno scrittore per poter narrare origine e ragioni di un romanzo che da quell’individualità è nato. Una ricerca instancabile, quasi estenuante, nella psiche, negli impulsi, nelle sensazioni e persino nei gesti e nei movimenti e ancora nei pensieri e nelle sfumature più sottili di autori e testi per rischiarare i significati più reconditi dei loro capolavori.

Pietro Citati si è inabissato – e, bisogna dirlo, mai nessuno ne è stato capace – nello scheletro di genialità letterarie, per poi riemergere con incastri narrativi prima di lui inimmaginabili: autori e personaggi, romanzi e testi poetici sono stati spogliati, sviscerati e ricostruiti (o meglio, riscritti) con un ineguagliabile impulso narrativo che invade con prepotenza lo scopo critico dei suoi articoli, in cui autore e opera divengono protagonista e trama di un inedito e appassionante romanzo critico. E quell’impulso narrativo con cui è riuscito a illuminare finanche i lettori inesperti sul viaggio dell’uomo nel mondo ha fatto di lui uno scrittore a tutti gli effetti.

Mi rispose, con austera discrezione: «Quello che io faccio è il racconto di un’analisi. Credo che la critica si faccia sempre così: non a caso, i critici che amo maggiormente sono Proust e Flaubert, ovvero scrittori che parlano di scrittori». Ecco: il racconto di un’analisi. Non potevo non scegliere questa più che calzante espressione come sottotitolo del libro che decisi di dedicargli. Il titolo? “Il libro invisibile di Pietro Citati”. Perché questo gioco di immedesimazione, di empatico sentire, a mio dire è giunto a maggiore compimento con il più illuminante scrittore di tutti i tempi: Fëdor Dostoevskij. A cui però, a differenza di quanto avvenne con  Kafka, Leopardi, Manzoni, Tolstoj, Proust, Cervantes, non dedicò mai una delle sue intense e sublimi monografie. «Non ci ho mai pensato, è troppo difficile» mi confidò con aria dimessa, lasciandomi attonita e sbigottita.

Eppure, leggendo e rileggendo i densi articoli di giornale che ha dedicato negli anni allo scrittore russo, gli feci notare che quella monografia, inavvertitamente e sorprendentemente, l’aveva scritta. Sulle pagine culturali dei quotidiani, per lettori comuni. Vincendo la faticosa sfida contro il reazionario elitarismo della letteratura. Quando gli portai su carta queste mie riflessioni, evidenziando la sua mirabile capacità di individuare ed esprimere la fusione tra la lacerante sensibilità che assale lo spirito dostoevskiano, acuendo la percezione del male che genera irrimediabilmente depressione e nevrosi, e la melanconia inquieta che invade la sua scrittura fino a diventarne tessuto di carne e sangue, ne rimase visibilmente affascinato e insieme stupito.

Glielo spiegai molto chiaramente, senza fronzoli: mai nessuno aveva dato del tu a Dostoevskij, mai nessuno era giunto così vicino ai suoi sconvolgenti ma necessari turbamenti umani, mai nessuno aveva compreso così a fondo la mente tragica e impressionante dell’autore di “Delitto e castigo”, a suo dire «nostro unico nume tutelare». Pietro Citati ci ha consegnato un Dostoevskij ignoto e inesplorato: un nuovo personaggio letterario nato dall’incontro tra l’autore e i suoi personaggi. Infelice ed epilettico come Raskolnikov, disperato e ossessionato dagli abissi dell’intelligenza umana come l’uomo del sottosuolo, algido e diabolico come Stavrogin. Ne avevamo bisogno. Leggete Citati, Leggete Dostoevskij e scoprirete perché.

Una piccola anticipazione: nelle loro pagine troverete tutti i sentimenti umani possibili, anche quelli più impenetrabili, anche le pieghe più mute. Spero che in quel momento, di fronte alle mie parole, alle mie ricerche, alla mia, non lo nego, glorificazione letteraria, Citati abbia preso atto della sua grandezza. Una grandezza che nasce da un fatto molto semplice: contro la spesso artefatta costruzione di storie frigide e leziose di cui ormai è piena zeppa la produzione giornalistica ed editoriale, lui ha saputo sviscerare con immediatezza, facendoci riflettere sulle nostre verità, la materia di cui è fatto l’uomo e che riecheggia per mezzo dei grandi scrittori: passione, sofferenza, destino, morte, felicità, rimorso e pentimento. Il suo più grande merito è stato quello di aver saputo dimostrare, o meglio ricordare, che la letteratura è quanto di più vicino all’uomo possa esistere. La letteratura è imprescindibilmente umana. Non può e non deve essere impolverata con tecnicismi accademici, non può essere rinchiusa nelle aule universitarie, non può essere ridotta a pruriginoso sentimentalismo sulle terze pagine dei quotidiani.

Pietro Citati, con la sua concretezza, la sua lucidità, il suo vivere in bilico tra gli smisurati regni delle infinite possibilità, senza timore di venir travolto da qualcosa più grande di lui – timore che molti addetti ai lavori insinuano nei lettori, contribuendo alla deriva culturale in atto – ha compiuto il più straordinario del miracoli: riportare la letteratura lì dove è nata, tra la gente. Avvicinando donne e uomini alla bellezza delle parole che raccontano la loro stessa vita.

Se ha segnato la mia vita? Oh, sì, tantissimo. Una scelta, in particolare, la maturai dopo i nostri incontri. Lasciare la metropoli in cui vivevo da anni e vivere in disparte, in campagna, circondata da libri e con un tavolo su cui scrivere. Non m’importa d’altro, non ho bisogno d’altro. Ho una libreria sconfinata, il mondo nelle mani. Su una cosa, invece, eravamo antitetici: l’insegnamento. Iniziò esattamente alla stessa età in cui iniziai io. Ma dopo pochi anni lasciò, per dedicarsi esclusivamente alla letteratura. Io senza i miei alunni non potrei immaginare la mia vita. Alcuni, poi, me l’hanno resa migliore. E ogni qualvolta parliamo di Shakespeare, Cervantes, Dostoevskij, Leopardi la mia mente non può che andare alle sue pagine entusiasmanti e vive che inceneriscono titanicamente il tedio sterile dei manuali scolastici. Ai miei alunni continuerò a parlare di lui, che ha reso la letteratura un fatto divertente e irrinunciabile.

Per la sua intransigenza attirò diverse critiche. Ma faceva bene. Nella vita bisogna essere intransigenti. L’alternativa perseguita il nostro tempo: mollezza di spirito, superficialità d’animo, inconcludenza spaventosa. In uno dei nostri incontri mi disse: «Non badi alle chiacchiere che si fanno in giro, lasci perdere le mode del momento, i consigli improvvisati. Legga. Non deve fare altro che leggere, non solo per imparare a scrivere, ma per imparare a vivere». Era austero, inscalfibile, aveva dalla sua la meraviglia della conoscenza sconfinata. Era il mare che arrestava la vanagloria del turbinio mediatico, gli elogi vacui e interessati dei pensatori del momento, il frivolo chiacchiericcio in diretta tv di fatiscenti scrittori.

Ricordo le risate che mi feci quando lessi un suo articolo del 1985 in cui commentava la classifica dei libri più venduti in Italia sostenendo che chi legge i «cattivi libri di oggi» vi troverà soltanto «una purea di viscidi sentimenti, falso sublime, pensieri confusi. Perciò è bene scoraggiare gli italiani dalla lettura. Che disertino le librerie e le biblioteche, che disdicano gli abbonamenti ai Club degli editori, che facciano fallire tutte le case editrici, piuttosto che continuare a leggere i libri in testa alle classifiche della “Stampa”». Eccezionale. Inarrivabile. Necessario. Come faremo senza la prosa fulminante di Pietro Citati?

Non aveva pari e non ne avrà mai. Nessuno osi paragonarsi alla sua prosa fulgida, alla sua astuta intuizione di carpire il tutto con poco. Alla sua freschezza di parola, che con leggerezza racconta i più intricati desideri umani. In uno dei suoi articoli scrisse «Sono lieto di continuare a leggere. La lettura e i libri sono l’unica cosa illimitata del mondo – molto più degli alberi, e di quella parte del Mar Tirreno, che lambisce dolcemente la mia casa. Leggerò, leggerò – chissà cosa, persino il Dizionario teologico del Kittel, e decine di edizioni dell’Antico Testamento e dei Vangeli, e tutto Voltaire, e tutto Sainte-Beuve, e tutto Henry James, e tutto Hawthorne, e tutto Melville, e le chiose spesso indecifrabili di Alessandro Manzoni, e lo Zibaldone. Bisogna che non muoia troppo presto».

Spero abbia avuto il tempo di leggerli tutti. In questo triste giorno, mi avvicino dolcemente al suo ricordo, provando quella stesso bruciore: ho un tormento, non poter leggere tutti i libri del mondo. Che riposi in pace, in uno dei tanti mondi che amava esplorare sulla sua poltrona giallo tenue, con un occhio rivolto alle parole e un altro alla mente fantasiosa. E a voi lettori, giornalisti, editorialisti di chiara fama, un’esortazione: non chiamatelo critico letterario. Pietro Citati è uno scrittore. Il più grande dei nostri tempi.

·         E’ morto l’attore David Warner.

Marco Giusti per Dagospia il 26 luglio 2022.

A 24 anni David Warner, morto ieri a 81 anni, era già una star, grazie al ruolo da protagonista del giovane ribelle rivoluzionario in “Morgan matto da legare” di Karel Reisz, un film che ogni bravo ragazzo di sinistra aveva visto in tutto il mondo, e grazie a due anni da “Hamlet” con la Royal Shakespeare Company. 

Figlio di una famiglia inglese altamente disfunzionale, cosa che gli procurerà non pochi problemi, Warner era arrivato al successo e al teatro un po’ casualmente, entrando prima alla Royal Academy e poi come membro della Royal Schakespeare Company. 

Un successo immediato che non durerà per tanti anni, vista la stravaganza e i problemi del personaggio, più simile di quanto si potesse credere al suo Morgan. Ma a cavallo tra gli anni ’60 e gli anni ’70 Warner è un assoluto protagonista con Albert Finney, Vanessa Redgrave, Tom Courtenay, Richard Harris, Susannah York del nuovo cinema inglese. Pronto a girare a Hollywood e in ogni altra parte del mondo.

Del resto era stato Blifil, l’avversario in amore di Albert Finney nel “Tom Jones” di Tony Richardson, un film di enorme popolarità a suo tempo, Sydney Lumet lo aveva voluto a fianco di James Mason, Simon Signoret e Vanessa Redgrave nella sua versione de “Il gabbiano” di Checkov, Peter Hall lo aveva chiamato per il ruolo di Lysander in “A Midsummer Night’s Dream”, Volker Schloedorff per fare il protagonista di “Michael Kohlhaas il ribelle” da Kleist, ma era stato anche protagonista di “Work Is a Four Letter World”.

Sam Peckinpah, dall’altra parte dell’oceano si innamora pazzamente di lui, e blocca il set di “La ballata di Cable Hogue” per averlo nel ruolo del Reverendo Sloan (“Se non posso puntare al Paradiso punterò all’Inferno!”). Su quel set in Arizona, assieme a un altro grande bevitore come Jason Robards, ne combinano di ogni colore, anche perché il film si interrompe per il maltempo e il conto del bar arriva a 70.000 dollari.

Lo vuole anche Marco Ferreri in Italia per il ruolo del protagonista de “L’udienza”, l’uomo che vuole parlare col Papa. Ma a metà della lavorazione Warner, geloso della prima moglie, Harriet Lindgren, che aveva sposato nel 1969, vola dalla finestra del terzo piano del suo albergo per farla finita non accettando l’amore libero della moglie. 

Fortunatamente mi ha raccontato Dante Matelli, che aveva scritto il film e stava sempre sul set, si era salvato, ma si era rotto le anche e non poteva proseguire le riprese. Al suo posto Ferreri chiamerà Enzo Jannacci. Non sarà la stessa cosa, anche se Janacci non era meno stravagante. 

Con le anche rotte, privo di assicurazione dopo il disastro sul set italiano, lo recupera l’amico Sam Peckinpah a fianco di Dustin Hoffman e Susan George per “Cane di paglia”, anche se non avrà il nome sui manifesti né sui titoli di testa, sia perché Hoffman non voleva dividere il suo nome con nessuno sia per problemi assicurativi. 

Dalla fine degli anni ’70, malgrado qualche notevole apparizione, i “Providence” di Alain Resnais, in “La croce di ferro” del suo amico Peckinpah, in “Casa di bambola” di Joseph Losey con Jane Fonda, perde i ruoli da protagonista, ma diventa una guest star o un grande cattivo per il grande cinema del tempo, come accadrà a molti altri celebri attori inglesi. 

Lo troviamo così ne “Il presagio” nel 1976, ne i “I 39 scalini”, nella serie tv “Olocausto” come tedesco cattivo, in “L’uomo che venne dal futuro” come Jack The Ripper, ne “I banditi del tempo” di Terry Gilliam, i “Tron”, nel “Frankenstein” televisivo del 1984, nel fondamentale “In compagnia dei lupi” di Neil Jordan, un percorso di malvagità che lo porterà al ruolo di Spicer Lovejoy in “Titanic” di James Cameron, forse il suo ruolo che più si ricorda in questi ultimi anni.

Nel frattempo si era risposato nel 1979 con Sheila Kent, avrà pure una figlia, e divorzierà nel 2005. Negli ultimi vent’anni di attività, è morto per cancro in un residence inglese per vecchi attori, lo abbiamo visto in “Penny Dreadful” come Van Helsing, in “Ripper Street” e ne “Il pianeta delle scimmie” dove Tim Burton, fan del suo Morgan matto da legare, lo ripropone come scimmia. 

·         È morto l’attore Paul Sorvino.

È morto Paul Sorvino, il Cicero di «Quei Bravi Ragazzi». Redazione Spettacoli su Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022.

In oltre cinquant’anni di carriera ha interpretato spesso il ruolo del poliziotto o del gangster italoamericano. 

È morto a 83 anni in Indiana per cause naturali l’attore Paul Sorvino, celebre per ruoli come quello del mafioso Paulie Cicero in Quei Bravi Ragazzi e del sergente Phil Cerretta in Law & Order . Lo fa sapere la moglie, Dee Dee Sorvino, in una nota. Figlio di Ford Sorvino, originario di Napoli, e di Angela Renzi, originaria di Casacalenda, in provincia di Campobasso, in oltre cinquant’anni di carriera, Sorvino, nato a Brooklyn nel 1939, ha interpretato spesso il ruolo del poliziotto o del gangster italoamericano. Tra le decine di pellicole dove è apparso si possono citare inoltre Reds di Warren Beatty, Cruising di William Friedkin e Nixon di Oliver Stone, dove veste i panni dell’ex segretario di Stato, Henry Kissinger. Figlio di un operaio tessile e di un’insegnante di piano, Sorvino frequentò l’accademia di Arte Drammatica a New York e fece il debutto a Broadway nel 1964 con Bajour. Nel 1970 arrivò l’esordio sul grande schermo con Senza un filo di classe di Carl Reiner.

La sua vita privata era stata movimentata da tre mogli. La prima fu Lorraine Davis dalla quale ebbe tre figli: Mira (1967) — grande attrice ostracizzata per 20 anni perché disse no a Weinstein —, Amanda (1971) e Michael (1977), anche lui attore, ma di non grande successo. Poi altri due matrimoni: nel 1991 sposa Vanessa Arico, dalla quale divorzia nel 1996. Nel 2014 infine con Dee Dee Benkie. Affetto da asma, aveva istituito una fondazione specificamente dedicata alle persone che soffrono di questo disturbo.

Morto Paul Sorvino, il mafioso di 'Quei bravi ragazzi'. Aveva 83 anni, negli ultimi cinque anni aveva avuto alcuni problemi di salute. La Repubblica il 25 Luglio 2022. 

E' morto a 83 anni l'attore Paul Sorvino, celebre tra l'altro per la sua interpretazione nel film Quei bravi ragazzi e nella serie tv Law & Order. Sorvino è morto per cause naturali, negli ultimi cinque anni aveva avuto alcuni problemi di salute.

Attrice anche sua figlia Mira Sorvino, avuta - insieme all'altra figlia Amanda e al figlio Michael - dalla prima moglie Lorraine Davis. Il secondo matrimonio, con Vanessa Arico, era finito nel 1996 e nel 2014 si era risposato con Dee Dee Benkie.

Di origini italiane - il padre, Ford Sorvino, era di famiglia napoletana mentre la madre, Angela Renzi, era originaria della provincia di Campobasso - Paul Sorvino avrebbe voluto fare il cantante lirico e per quello si iscrisse alla American Musical and Dramatic Academy di new York ma grande fu la delusione quando, affetto da asma, fu costretto a rinunciare alla carriera. Il palcoscenico perse un cantante ma il cinema trovò un grande interprete, partito però dal musical, genere nel quale debuttò a metà degli anni 60 a Broadway, per passare al cinema, il primo timido tentativo accanto a Al Pacino in Panico a Needle Park.

Paul Sorvino, a destra, con Ray Liotta in 'Quei bravi ragazzi' E' il 1971, inizia così una carriera che vedrà Sorvino in tantissimi film, faccia da caratterista e temperamento da protagonista: la pietra miliare è Quei bravi ragazzi diretto da Martin Scorsese nel 1990 (nel ruolo del mafioso Paulie Cicero), stesso anno in cui compare in Dick Tracy accanto a Warren Beatty, mentre risale alla stagione 1991-1992 il suo debutto nella serie Law&Order (è il sergente Phil Cerreta) una delle saghe poliziesce più longeve e amate dal pubblico.

E salvo rare eccezioni, il ruolo del poliziotto italoamericano - o del mafioso - gli è stato sempre congeniale. Ma lo si ricorda anche in Reds di Warren Beatty, Cruising di William Friedkin e Nixon, in cui Oliver Stone gli affidò il ruolo dell'ex segretario di Stato americano Henry Kissinger.

Addio a Paul Sorvino, l'indimenticabile Cicero di "Quei bravi ragazzi". È morto per cause naturali all'età di 83 anni il grande attore italoamericano Paul Sorvino, padre dell'attrice Mira. Tanti i personaggi interpretati nella sua lunga carriera, tra cui il memorabile Cicero in "Quei bravi ragazzi". Roberta Damiata il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Il grande attore statunitense Paul Sorvino, star di cinema e teatro legato a titoli che hanno fatto la storia come Quei bravi ragazzi e Law & Order, è morto, per cause naturali, all'età di 83 anni. A dare la triste notizie la moglie DeeDee Sorvino, tramite il suo account Instagram. "Sono completamente devastata. L'amore della mia vita e l'uomo più meraviglioso che abbia mai conosciuto è scomparso. Sono affranta".

Padre dell'attrice Mira Sorvino, la sua brillane carriera è durata oltre 55 anni, fatta di 170 produzioni tra cinema, tv e grande teatro sul palcoscenico di Broadway. Era nato a New York il 13 aprile del 1939, figlio di Ford Sorvino, originario di Napoli, e di Angela Renzi, originaria di Casacalenda, in provincia di Campobasso. Gli inizi sono però come cantante lirico che studiò all'American Musical and Dramatic Academy di New York. Un problema di asma stroncò però il suo sogno sul nascere, e lo convinse a dedicarsi alla recitazione diplomandosi in arte drammatica.

Il suo debutto a Broadway nel musical Bajour. Nel 1971 recita accanto ad Al Pacino nel film Panico a Needle Park. Torna poi a Broadway dove ottiene grande successo con That Championship Season. La sua straordinaria capacità di empatizzare con l'anima dei personaggi, lo portò dagli anni '70 in poi, ad interpretare moltissimi film, tra cui Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese e Dick Tracy (1990) di Warren Beatty, dove recitava anche Madonna.

Dal '91 al '92, dà vità al sergente Phil Cerreta nella serie televisiva Law & Order- I due volti della giustizia, ruolo che gli regalò la visibilità internazionale. Nel 1993, fu lui ad interpretare il primo film tv della serie Perry Mason dopo la morte di Raymond Burr. Arriva poi nel 1995 la sua magistrale interpretazione Henry Kissinger nel film Gli intrighi del potere - Nixon di Oliver Stone. Le sue origini italiane, così amate in America, fecero di lui un attore caratteristico e riconoscibile che imprimeva la sua immagine sullo schermo in maniera unica. Il nostro Paese, viste le origini dei genitori, è sempre rimasto nel suo cuore.

Nel 2004 viene premiato a Roma dalla Fondazione Tremaglia. Nel corso della cerimonia riesce a realizzare un suo grande sogno, duettando con il tenore Andrea Bocelli. Nel 2006 partecipa allo show televisivo Non facciamoci prendere dal panico di Gianni Morandi, su Rai 1. Tra le sue ultime interpretazioni, quella nella miniserie western Doc West (2009), dove fa coppia con Terence Hill. Nello stesso anno interpreta Beniamino nella serie televisiva L'onore e il rispetto, con Gabriel Garko, in onda su Canale 5. Nel 2008 gli viene assegnato il premio penisola sorrentina Arturo Esposito, nell'ambito dei Grandi Eventi della Regione Campania.

Da adnkronos.com il 26 luglio 2022.

Paul Sorvino, star statunitense del teatro e del cinema legato a titoli che hanno fatto la storia da "Quei bravi ragazzi" a "Law & Order", è morto oggi per cause naturali. L'attore aveva 83 anni. Sua moglie, DeeDee Sorvino, ha postato su Instagram la notizia, dicendo: "Sono completamente devastata. L'amore della mia vita e l'uomo più meraviglioso che abbia mai vissuto sono scomparsi. Sono affranta".  

Sorvino, che era il padre dell'attrice Mira Sorvino, era noto al grande pubblico per il ruolo del sergente Frank Cerreta in "Law & Order", il telefilm della Nbc, ma anche per il ruolo del mafioso don Paul Cicero nel classico gangster movie di Martin Scorsese "Quei bravi ragazzi". Aveva interpretato anche Kissinger in "Nixon" di Oliver Stone. 

In una carriera durata oltre 55 anni, Sorvino ha lavorato a oltre 170 produzioni tra cinema, tv e Broadway. 

Nato a New York il 13 aprile del 1939 e figlio di Ford Sorvino, originario di Napoli, e di Angela Renzi, originaria di Casacalenda, in provincia di Campobasso, Paul Sorvino studia all'American Musical and Dramatic Academy di New York come cantante lirico. 

Non riuscendo a concretizzare il suo sogno, poiché affetto da asma, si dedica alla recitazione, diplomandosi in arte drammatica. Nel 1964 debutta a Broadway nel musical Bajour e nel 1971 recita accanto ad Al Pacino nel film Panico a Needle Park, quindi torna a Broadway dove ottiene grande successo con That Championship Season. 

Dagli anni settanta in poi è nel cast di moltissimi film, tra cui Quei bravi ragazzi (1990) di Martin Scorsese e Dick Tracy (1990) di Warren Beatty.

Nella stagione 1991-1992 interpreta il sergente Phil Cerreta nella serie televisiva Law & Order - I due volti della giustizia, ruolo che gli dà visibilità internazionale. 

Nel 1993 interpreta il primo film tv dopo la morte di Raymond Burr nella serie Perry Mason, nei panni di un collega avvocato. 

Nel 1995 impersona Henry Kissinger nel film Gli intrighi del potere - Nixon di Oliver Stone, mentre negli anni a seguire lo vediamo ancora sullo schermo in altrettante produzioni cinematografiche. 

Nel 2004 è premiato a Roma dalla Fondazione Tremaglia. Nel corso della cerimonia duetta con il tenore Andrea Bocelli.

Nel 2006 partecipa allo show televisivo Non facciamoci prendere dal panico di Gianni Morandi, su Rai 1. Tra le sue ultime interpretazioni, quella nella miniserie western Doc West (2009), dove fa coppia con Terence Hill. Nello stesso anno interpreta Beniamino nella serie televisiva L'onore e il rispetto, in onda su Canale 5. Nel 2008 gli è stato assegnato il premio "penisola sorrentina Arturo Esposito", nell'ambito dei Grandi Eventi della Regione Campania.

Marco Giusti per Dagospia il 26 luglio 2022.

Se ne va pure Paul Sorvino, indimenticabile Paul Cicero, gangster dalle buone maniere di “Goodfellas”/”Quei bravi ragazzi”, capolavoro di Martin Scorsese, dove, con un metro 91 di altezza, e il suo faccione da bravo ragazzo italo-americano di Brooklyn, origini un po’ napoletane (zona Vomero) un po’ molisane (Campobasso), dominava letteralmente la scena. 

Ma era anche un grande cuoco, come lo era nella realtà. Guardate come affetta l’aglio per farlo sciogliere nella padella. 

E dire che, a differenza di Robert De Niro e Joe Pesci, Paul Sorvino non nasce cinematograficamente con Scorsese, anzi, ci arriva già cinquantenne con “Good Fellas”. 

Forte di una sua propria autorevolezza conquistata tra teatro e cinema negli anni precedenti. Dopo aver recitato con grandi registi come Carl Reiner in “Senza un filo di classe” nel 1970, Jerzy Schatzberg in “Panico a Needle Park”, John G. Avildsen in “Cry Uncle” e “Ballando lo slow nella grande città”, Karel Reisz nel formidabile “The Gambler”, Robert Mulligan in “Una strada chiamata domani”, William Friedkin in “Pollice da scasso”, tenendo testa a star come Al Pacino, James Caan, Allan Garfield, Peter Falk, George Segal con i quali è praticamente cresciuto. 

E dopo essere diventato popolare in tv come il sergente Phil Cerletta in “Law and Order". 

Anche se era rimasto umile, come dimostra la sua grande scena di pianto con le mani che gli coprono il viso quando sua figlia Mira Sorvino vinse l’Oscar per “Mighty Aphrodite” di Woody Allen e lo ringraziò di fronte a tutto il mondo. 

Nato a Brooklyn nel 1939, figlio di immigrati italiani, mamma maestra di piano e padre capo cantiere, lo stesso ruolo che interpreterà in uno dei suoi film più belli, “Bloodbrothers”/”Una strada chiamata domani” di Robert Mulligan tratto da un romanzo di Richard Price, dove suo fratello è Tony Lo Bianco e suo nipote è Richard Gere, Paul Sorvino ha sognato fin da piccolo di fare il cantante d’opera. Ma una brutta asma lo ha martoriato per tutta la vita.

Dopo aver studiato all’American Musical & Dramatic Academy di New York, fa il suo esordio nel cinema con “Senza un filo di classe”/”Where’s Poppa?”, tipica commedia ebraico-newyorkese di Carl Reiner con George Segal alle prese con una madre opprimente, Ruth Gordon. 

Con quel tipo di fisicità, che ha avuto fin da giovane, il suo ruolo è quello del padrone di un ristorante. 

Avrà sempre ruoli di comando, poliziotto o gangster poco importa, piccoli o grandi è indifferente, ma sarà sempre un personaggio autorevole.

Nel grande new cinema americano degli anni ’70 trova facilmente il suo spazio, sia in produzioni ricche, come “Il gioro del delfino” di Mike Nichols, sia in film più sperimentali come “Cry Uncle”. 

Nel 1973 vice il Tony Award per la sua interpretazione a teatro in “That Championship Season” messo in scena e poi portato sullo schermo da Jason Miller nel 1982 in una versione che vedrà Sorvino a fianco di Robert Mitchum, Bruce Dern, Stacy Keach e Martin Sheen. 

Lo riporterà lui stesso sullo schermo da regista nel 1992 in una nuova versione. Il suo grande momento è tutto compreso tra gli anni ’70 e gli anni ’80, con film come “Cruising” e “Pollice da scasso” di William Friedkin, “Reds” e “Dick Tracy” di Warren Beatty, “Io, la giuria”. 

Pronto a interpretare qualsiasi ruolo, è perfetto nei grandi film corali, come dimostrerà appunto in “Goodfellas” di Scorsese, che gli darà modo di attraversare senza problemi gli anni ’90, portandolo a ruoli importanti i film come “Nixon” di Oliver Stone, dove interpreta Henry Kissinger, “Romeo+Juliet” di Baz Luhrmann, dove è Fulgenzio Capuleti, “Bulworth” di Warren Beatty.

Non smette praticamente mai di lavorare, tra cinema e tv, anche se deve spesso accettare ruoli da caratterista, come accadde in Italia, dove lo troviamo in film poco riusciti come “Streghe verso Nord” di Giovanni Veronesi con Teo Mammuccari o nella serie di Tarallo per Canale 5 “L’onore e il rispetto” con Gabriel Garko o in quella diretta da Giulio Base “Doc West”. Paul Sorvino, che è morto a Jacksonville in Florida, ha avuto tre mogli, Lorraine Davis (1966-1988), che gli ha dato tre figli, tra i quali l’attrice Mira Sorvino, Vanessa Arico (1991-1996) e Dee Dee Sorvino, che ha sposato nel 2014 e che ha dato la notizia della sua morte 

Marco Giusti per Dagospia il 26 luglio 2022.  

Giornataccia. Dopo David Warner e Paul Sorvino perdiamo anche uno dei padri della New Hollywood, Bob Rafelson, 89 anni, regista di “Cinque pezzi facili” e di altri cinque film con Jack Nicholson, suo amico fraterno, ma anche produttore con Bert Schneider di “Easy Rider” di Dennis Hopper e Peter Fonda, il film che nel 1968 non solo rivoluzionò Hollywood, ma fece incassare alla Columbia cento volte quello che era costato.

Ma fu “Cinque pezzi facili”, presentato al new York Film Festival nel 1970, col suo protagonista, il raffinato pianista Bobby di Jack Nicholson che lascia la famiglia borghese e va a lavorare come operaio in un oleodotto, a costruire un nuovo tipo di eroe o antieroe che segnerà un’epoca, riallacciandosi agli eroi della Nouvelle Vague.

"Quel personaggio è in qualche modo dissociato dal proprio background e dalla propria famiglia e ne sta fuggendo", spiegava Rafelson. “In questo senso, ho cercato di fuggire dal mio passato da quando avevo 14 anni. Bobby era una specie di eroe esistenziale, vestito con maglioni neri, con un po' di barba ispida, capelli lunghi, come ero stato io, su cui volevo fare un film. Questo personaggio era qualcuno che sentivo di aver incontrato molte, molte volte nella mia vita e che avrei dovuto provare a interpretare".

Nato a New York nel 1933 in una ricca famiglia borghese, il padre aveva una fabbrica di cappelli, ma lo zio, Samson Raphaelson, era stato uno dei più importanti sceneggiatori della Hollywood degli anni d’oro e dei film di Ernst Lubitsch in particolare, “Trouble in Paradise”, ma anche di “Il sospetto” di Hitchcock. In fuga dalla famiglia da giovanissimo entra nel circuito dei rodeo in Arizona, poi mette su una jazz band a Acapulco, studia filosofia all’Università di Dartmouth. Da militare evita di un soffio la guerra in Corea e finisce in Giappone come dj. Lì inizia a muoversi nel cinema collaborando con la Shochiku.

Finisce per due volte sotto la corte marziale dell’esercito per insubordinazione e comportamento osceno. Nel 1962 arriva a Hollywood pronto a muoversi nel cinema e alla tv. Ma quando viene alle mani col potente produttore Lew Wasserman viene subito sbattuto fuori dalla Universal. Passa alla Screen gems, dove diventa autore e regista della serie tv del gruppo musicale The Monkees, con i quali realizzerà il suo primo film da regista, “Head” nel 1968, totale stravaganza che unisce all’idea di film musicale i personaggi più diversi, Victor Mature, Frank Zappa, Annette Funicello, Dennis Hopper e, ovviamente, Jack Nicholson, che del film è anche co-sceneggiatore. 

Appena uscito dalla grande factory di Roger Corman, Nicholson trova in Bob Rafelson il compagno ideale di giochi. Assieme gireranno appunto “Cinque pezzi facili”, che lascerà sia Rafelson come regista che Jack Nicholson come attore. Per lo stesso film Rafelson ha fondato col produttore Bert Schneider, figlio di Abe Scheider, capo della Columbia, e con Steve Blauer la BBS che produrrà subito dopo “Easy Rider” per la Columbia.

L’incasso è tale che la Columbia gli offrirà sei film da produrre al 50% dei profitti con tanto di final cut a patto che o superassero il milione di dollari di budget. Tra questi ci saranno “The King of Marvin Gardens” di Rafelson con Nicholson e Bruce Dern, che avrà meno successo del precedente, il bellissimo “The Last Picture Show” di Peter Bogdanovich che verrà candidato a 8 Oscar, “A Safe Place” di Henry Jaglom, “Drive. He Said”, il primo film da regista di Jack Nicholson, il bellissimo film di Jean Eustache “La maman et la putain”, il documentario premio Oscar sulla guerra in Vietnam “Hearts and Minds” e “Stay Hungry” di Rafelson con Jeff Bridges che lanciò nel cinema Sally Field e il giovane culturista austriaco Arnold Schwarzenegger.

 Rafelson continuò a fare cinema con Jack Nicholson con una bellissima versione di “Il postino suona due volte” dove Nicholson divide la scena con una strepitosa Jessica Lange appena uscita dalle braccia dello scimmione in “King Kong”. Negli anni successivi Rafelson non sempre si mosse bene e fece successi. Si scontrò con un direttore di produzione e venne cacciato dopo pochi giorni di lavorazione dal set di “Brubaker” con Robert Redford, ma diresse il thriller erotico “Black Widow” con Theresa Russell e Debra Winger, il biopic “Mountais of the Moon” con Patrick Bergin e Richard Grant.

BOB RAFELSON 8

Flirta col sesso nel film a episodi “Tales of Erotica” del 1996, co-diretto assieme a Ken Russel e Susan Seidelman. E ricordo che aveva iniziato in Francia il film erotico “Le déclic” tratto dalla graphic novel di Milo Manara con Florence Guerin protagonista. Negli anni ’90 tornò a lavorare con Jack Nicholson in “Man Trouble” e “Blood and Wine”. 

 Diresse anche nel 1998 per la tv un interessante “Marlowe: A Poodle Springs", scritto da Tom Stoppard con James Caan che mi piacerebbe vedere. Il suo ultimo film è un onesto adattamento di un romanzo di Dashiell Hammett, “No Good Deed”. Negli ultimi vent’anni si era trasferito con la seconda moglie, Gabrielle Taurek, a Aspen, in Colorado.

·         Morto il regista Bob Rafelson.

Morto Bob Rafelson, regista di 'Il postino suona sempre due volte'. Aveva 89 anni. Nella sua filmografia anche 'Cinque pezzi facili' e 'Il re dei giardini di Marvin'. Il sodalizio artistico con Jack Nicholson, con cui ha girato sei film, oltre al cult-movie 'Easy Rider' (1969), di cui è stato produttore. La Repubblica il 25 Luglio 2022. 

Il regista, sceneggiatore e produttore cinematografico statunitense Bob Rafelson, cineasta anticonformista dell'era della New Hollywood che ha legato la sua fama a Cinque pezzi facili, Il re dei giardini di Marvin e Il postino suona sempre due volte, è morto sabato notte per cause naturali all'età di 89 anni nella sua casa di Aspen, in Colorado. L'annuncio della scomparsa è stato dato dalla moglie Gabrielle Taurek a The Hollywood Reporter. Era Nato a New York il 21 febbraio 1933.

Pioniere in una delle epoche più influenti nella storia del cinema indipendente, Rafelson è stato una figura di spicco tra i 'ribelli' che hanno portato a Hollywood lo spirito e i contenuti della controcultura degli oscillanti e psichedelici anni 60. Fuori dall'underground quanto dallo star system, con i suoi primi film, Sogni perduti (1968), sul gruppo rock The Monkees, e Il re dei giardini di Marvin (1972), ha elaborato originali soluzioni narrative, stabilendo un significativo sodalizio artistico con Jack Nicholson.

Il sodalizio con Jack Nicholson

Il regista ha girato sei film con Nicholson: Sogni perduti, Cinque pezzi facili (1970), Il re dei giardini di Marvin, Il postino suona sempre due volte (1981), La gatta e la volpe (1992) e Blood and Wine - Sangue e vino (1996). A questi lavori va aggiunto il cult-movie Easy Rider (1969), di cui è stato produttore.

L'outsider di Hollywood

Rafelson ha ottenuto la nomination all'Oscar per Cinque pezzi facili e ha prodotto il grande successo di Peter Bogdanovich L'ultimo spettacolo (1971). Il suo spirito libero, simile a quello dei suoi personaggi, hanno fatto di Rafelson l'outsider del cinema hollywoodiano.

Una vita anticonformista

Fin da ragazzo Rafelson ha avuto una vita anticonformista, lavorando in un rodeo, poi come scaricatore di porto e batterista jazz. Dopo aver studiato filosofia al Dartmouth College fu arruolato nell'esercito degli Stati Uniti e finì di stanza in Giappone (dove lavorò come disk jockey in una radio delle forze armate. Poi, cominciò a scrivere sceneggiature per la tv.

Il primo successo

Si trasferì a Hollywood a metà degli anni Sessanta, raggiunse il successo con la serie televisiva The monkees (1966), da lui scritta, diretta e prodotta insieme a Bert Schneider, che esaltava la vena demenziale della rock band dei Monkees. Il grande successo spinse Rafelson a farne un film, Head (1968, titolo italiano Sogni perduti), scritto con il giovane Jack Nicholson.

La candidatura agli Oscar

Nello stesso periodo fu tra i fondatori, con Bert Schneider e Steve Blauner della Bbs Production, che avrebbe prodotto sia il celebre Easy rider - Libertà e paura (1969) di Dennis Hopper sia Cinque pezzi facili (1970), da lui diretto e scritto insieme a Carole Eastman. In Cinque pezzi facili Nicholson è un pianista vagabondo che torna dalla famiglia per salutare il padre in fin di vita: il film fu candidato a quattro premi Oscar (tra cui quelli per il miglior film e la migliore sceneggiatura). Il successivo film I re dei giardini di Marvin racconta il mondo familiare attraverso la storia di un pubblicitario nevrotico (Nicholson) che tenta di coinvolgere il fratello sognatore (Bruce Dern) in un affare dall'epilogo sanguinoso.

L'esordio di Schwarzenegger

Il film Un autentico campione (1976) ha segnato una frattura nella filmografia di Rafelson, anticipando volti e temi degli anni 80, con l'esordiente Arnold Schwarzenegger e Jeff Bridges calati in un mondo di rampantismo e body-building.

Di nuovo il noir

Il regista ha poi riscoperto il noir con Il postino suona sempre due volte (1981), tratto dal romanzo di J.M. Cain e adattato da David Mamet: grazie all'intensa interpretazione di Nicholson, il film è un cupo dramma psicologico ambientato nell'America della Grande depressione. Con il noir La vedova nera (1987) il regista si è concentrato sulla figura della dark lady, raddoppiata nella sfida tra le protagoniste, Theresa Russel e Debra Winger, un'uxoricida e un'investigatrice che si scoprono simili.

Ritorno agli esordi

Nel 1990 ha diretto Le montagne della Luna, storia degli scopritori delle sorgenti del Nilo, incentrata sul tema dell'amicizia virile, alla quale ha fatto seguito la commedia La gatta e la volpe (1992). A metà degli anni 90 Rafelson è sembrato voler ritornare al cinema degli esordi con Blood and wine (1996), che narra la vicenda di un commerciante di vini (Jack Nicholson) pronto ad avventurarsi in un furto in compagnia del vecchio socio (Michael Caine).

Thriller e racconti erotici

Ispirato a un racconto incompiuto di Raymond Chandler è Marlowe - Omicidio a Poodle Springs (1998), in cui il regista ha affidato a James Caan il ruolo di un Marlowe malinconico.

Negli ultimi anni Rafelson ha diretto la storia criminale No good deed - Inganni svelati (2002), da un racconto di Dashiell Hammett, con Samuel L. Jackson e Milla Jovovich, oltre a dilettarsi nel produrre e dirigere brevi racconti erotici quali Wet, della serie Tales of erotica (1996), ed Erotic tales - Porn.com (2002).

·         E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.

Palermo: è morto Lucio Tasca, produttore e ambasciatore del vino siciliano. La Repubblica il 25 Luglio 2022. 

Il conte d'Almerita aveva 82 anni. Fu il primo nell'Isola a sperimentare nell'Isola le varietà internazionali.

E' morto il conte Lucio Tasca d'Almerita, ambasciatore del vino siciliano nel mondo. Aveva 82 anni. A darne notizia è stata Assovini, l'associazione di cui la storica azienda Tasca d'Almerita, è socia. Nel 1985 fu il primo in Sicilia a sperimentare le varietà internazionali, aprendo poi una strada seguita da molti.

Alla tenuta madre, Regaleali - acquisita nel 1830 dai due fratelli Tasca, un'isola verde al centro della Sicilia, nell'antica Contea di Sclafani - negli anni si sono aggiunte Capofaro, a Salina, nell'arcipelago delle Eolie; Tascante sull'Etna; la storica tenuta Whitaker nell'antica isola Mozia; e Sallier de La Tour, a Monreale.

"Sono profondamente addolorato per la scomparsa del conte Lucio Tasca d'Almerita - dice il presidente dell'Ars, Gianfranco Miccichè - Innamorato della sua terra, con lui se ne va un'icona storica della nostra città, un punto di riferimento internazionale della migliore imprenditoria siciliana". Il sindaco di Palermo, Roberto Lagalla, scrive in un comunicato che "Palermo saluta oggi per sempre Lucio Tasca, lungimirante imprenditore del vino che ha fatto della Sicilia un brand internazionale".

Anche l'ex sindaco Leoluca Orlando esprime in una nota "grande affetto e vicinanza alla famiglia Tasca d'Almerita" per la scomparsa di Lucio Tasca, "divenuto riferimento internazionale della migliore imprenditoria siciliana". 

Morto Lucio Tasca d’Almerita, addio all’ambasciatore del vino siciliano. LUCIANO FERRARO su La Repubblica/Il Corriere della Sera il 25 Luglio 2022. 

È morto a 82 anni l’ambasciatore del vino siciliano nel mondo: il conte Lucio Tasca d’Almerita. Fu il primo a impiantare sull’isola le varietà internazionali. 

Indossava lo smoking come una seconda pelle, calzava gli stivali da contadino come se non avesse fatto altro nella vita. Era alto e dritto, la postura rimasta come un marchio degli anni da olimpionico di equitazione negli anni Sessanta. Il conte Lucio Tasca d’Almerita è stato un protagonista del Rinascimento del vino italiano. Da tempo aveva affidato ai figli Alberto e Giuseppe le sorti del suo impero vinicolo, costruito fin dall’inizio con il successo del vino che portava il suo titolo, il Rosso del Conte. Sorrideva quando lo chiamavano l’ultimo dei Gattopardi. Regnava nella sua casa da cui si accede da uno scenografico scalone. Con un salone fresco e imponente, dove faceva servire il caffè per gli ospiti. «Se non avessi questa casa sarei ricchissimo», diceva guardando le 150 palme della villa palermitana cinquecentesca. Dieci anni fa, durante il flagello del punteruolo rosso, le aveva lavate ricorrendo alla misteriosa pozione di un giardiniere egiziano. 

Un impero conosciuto in 50 paesi

Era capace di elencare ogni pianta con il nome latino del suo orto botanico di quasi due ettari, con un laghetto dove nuotavano i cigni Tristano e Isotta, un omaggio a Richard Wagner che nella villa, tra il novembre del 1881 e il marzo del 1882, finì di comporre il Parsifal. Aveva disobbedito al padre, importando vitigni internazionali in Sicilia e dimostrando che quelle terre possono regalare vini straordinari, caldi e carichi di cultura mediterranea. Ha controllato una azienda da 470 ettari di vigneti in cinque tenute, 3 milioni di bottiglie: da Regaleali a Tascante sulle pendici dell’Etna, da Capofaro sull’isola di Salina con il Malvasia, alla Tenuta Whitaker sull’isola di Mozia (con il vitigno Grillo) fino alla Tenuta Sallier de la Tour a Monreale, con Syrah, Inzolia e Nero d’Avola. A quasi due secoli anni dalla fondazione (1830), l’azienda Tasca d’Almerita, sotto la sua guida, ha concluso una fase di espansione che l’ha portata ad esportare in più 50 Paesi, puntando tutto nell’ultimo decennio su una nuova stagione fondata su etica e sostenibilità ambientale con il progetto SOStain. Le sue intuizioni e la sua eleganza resteranno per sempre nei vigneti e nell’oasi di Villa Tasca, tra le palme che incantarono Jacqueline Kennedy oltre a Wagner. E i suoi vini continueranno a dare, come scrisse Luigi Veronelli del Rosso del Conte e del Nozze d’oro, «smisurata gioia».

·         E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.

Da leggo.it

Vittorio De Scalzi morto a 72 anni, il cantante dei New Trolls colpito da fibrosi polmonare dopo il Covid. «Ha raggiunto la sua Aldebaran»- L'annuncio sulla pagina Facebook dell'artista, con riferimento all'album Aldebaran. La morte aa un mese dalla guarigione dal Covid 

Vittorio De Scalzi è morto a 72 anni, un mese dopo la guarigione dal Covid: è stato il fondatore del gruppo rock progressivo dei New Trolls. L'annuncio è stato dato sulla pagina Facebook del cantante, chitarrista e autore, in cui si legge: «Vittorio De Scalzi ci ha lasciato, ha raggiunto la sua Aldebaran. Grazie a tutti per l’amore che in tutti questi anni gli avete dimostrato. Continuate a cantare a squarciagola “quella carezza della sera”...lui vi ascolterà». 

Il riferimento è alla stella Aldebaran, appartenente alla costellazione del toro e dalla quale prendono nome un brano e un album del gruppo musicale di De Scalzi pubblicato nel 1978. Altro riferimento, quello al celebre brano "Quella carezza della sera", che ha fatto sognare migliaia di innamorati sul finire degli anni '70.

Morto Vittorio De Scalzi, fondatore e voce dei New Trolls. su Il Quotidiano del Sud il 24 Luglio 2022. Colpito da fibrosi polmonare dopo la guarigione dal Covid. L'annuncio sulla pagina Facebook del cantante. 

Vittorio De Scalzi è morto a 72 anni: è stato il fondatore del gruppo rock progressivo dei New Trolls.

L’annuncio è stato dato sulla pagina Facebook del cantante, chitarrista e autore, in cui si legge: «Vittorio De Scalzi ci ha lasciato, ha raggiunto la sua Aldebaran. Grazie a tutti per l’amore che in tutti questi anni gli avete dimostrato. Continuate a cantare a squarciagola “quella carezza della sera” …lui vi ascolterà». 

Il riferimento è alla stella Aldebaran, appartenente alla costellazione del toro e dalla quale prendono nome un brano e un album del gruppo musicale di De Scalzi pubblicato nel 1978. 

Vittorio De Scalzi era stato colpito da fibrosi polmonare un mese dopo essere guarito dal Covid. Negli ultimi giorni le sue condizioni si erano aggravate ed era stato ricoperto e messo in coma farmacologico

Vittorio De Scalzi morto a 72 anni: addio al fondatore dei New Trolls. Debora Faravelli il 24/07/2022 su Notizie.it.

Il cantante, polistrumentista e compositore italiano Vittorio De Scalzi è morto a 72 anni: aveva fondato i New Trolls, attivi fino al 1997. 

Addio a Vittorio De Scalzi, fondatore del gruppo musicale rock progressivo New Trolls attivo dal 1967 al 1997, morto all’età di 72 anni. La sua ultima esibizione risale ad una settimana prima a Sanremo con l’orchestra sinfonica, dopodiché l’artista era stato ricoverato d’urgenza e finito in coma farmacologico.

L’anno scorso aveva contratto il Covid e, un mese dopo, era stato colpito da una fibrosi polmonare.

Nato nel 1949, all’interno del gruppo era stato autore di molti brani rivelatisi poi grandi successi tra cui Visioni, Una miniera e Quella carezza della sera. Contemporaneamente, l’artista era impegnato nel lavoro di ricerca sulla musica tradizionale genovese e ha scritto diverse canzoni dialettali parte del patrimonio culturale della sua città.

Parallelamente è stato anche attivo come autore per altri interpreti, tra cui Mina, Ornella Vanoni e Anna Oxa.

Durante la loro carriera, i New Trolls hanno preso parte a sette edizioni del Festival di Sanremo: nel 1996 si sono esibiti in coppia con Umberto Bindi interpretando il brano Letti, scritto dallo stesso Bindi con Renato Zero. Terminata laloro attività, De Scalzi ha avviato una carriera da solista e nel 2008 ha pubblicato il primo album in studio, Mandilli, realizzato interamente in dialetto genovese.

Negli anni successivi ne ha pubblicati altri, tra cui Gli occhi del mondo, L’attesa, Due di noi e Vento di terra, vento di mare (oltre a diversi singoli).

Vittorio De Scalzi è morto, addio al fondatore dei New Trolls. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 24 Luglio 2022.

Il cantante e chitarrista, 72 anni, aveva superato il Covid, ma è stato colpito da fibrosi polmonare. La famiglia ha diffuso una nota su Facebook: «Ha raggiunto la sua Aldebaran, continuate a cantare per lui “Quella carezza della sera”». 

Vittorio De Scalzi è morto: il cantante, chitarrista e autore - fondatore della formazione rock progressive dei New Trolls - aveva 72 anni. 

La notizia, firmata dalla moglie Mara e dai figli Armanda e Alberto, è stata diffusa tramite la sua pagina Facebook: 

«Vittorio De Scalzi ci ha lasciato, ha raggiunto la sua Aldebaran. Grazie a tutti per l’amore che in tutti questi anni gli avete dimostrato. Continuate a cantare a squarciagola “Quella carezza della sera”...lui vi ascolterà». 

Sono due i riferimenti contenuti nel messaggio: la stella Aldebaran della costellazione del Toro, che ha ispirato il titolo dell’omonimo brano e dell’album dei New Trolls pubblicato nel 1978, e il celebre singolo «Quella carezza della sera» uscito nello stesso anno. 

De Scalzi, dopo essere guarito dal Covid, era stato colpito da fibrosi polmonare. Negli ultimi giorni le sue condizioni si erano aggravate ed era stato ricoverato. 

La famiglia ha annunciato che il funerale in forma laica si terrà lunedì 25 luglio alle 18:00 presso la sede del Club Tenco - Premio Tenco in piazza Cesare Battisti a Sanremo e che tutti coloro che vorranno dare l’ultimo saluto potranno farlo fino alle 23:00.

I New Trolls e la carriera solista

Nato a Genova il 4 novembre 1949 da padre ristoratore e madre pianista, De Scalzi si è avvicinato molto presto alla musica (ha iniziato a suonare il pianoforte quando aveva soltanto 4 anni). 

Negli anni Sessanta ha fondato I Trolls insieme a Pino Scarpettini, con il quale ha inciso il singolo «Dietro la nebbia». 

Dopo aver debuttato come solista con lo pseudonimo Napoleone nel 1967 ha dato vita con Nico Di Palo (chitarra), Gianni Belleno (batteria), Giorgio D’Adamo (basso) e Mauro Chiarugi (tastiera) ai New Trolls. La band, nel corso della sua carriera, ha pubblicato 12 album in studio e preso parte a sette edizioni del Festival di Sanremo. In seguito allo scioglimento nel 1997 dato che il nome New Trolls - finito al centro di una lunga disputa legale - può essere utilizzato solo con il consenso unanime dei titolari del marchio (Vittorio De Scalzi, Gianni Belleno, Ricky Belloni) i componenti del gruppo hanno continuato a riproporre la musica della band con altre formazioni (e altri nomi), come Il Mito New Trolls e La Leggenda New Trolls.

Nel corso della sua carriera De Scalzi è stato attivo anche come autore per altri interpreti, tra cui Mina, Ornella Vanoni e Anna Oxa. 

Lo scorso anno il cantante e polistrumentista ha pubblicato un cofanetto celebrativo della sua carriera dal titolo «Una volta suonavo nei New Trolls» e nel 2022 ha preso parte al documentario «La nuova scuola genovese» di Claudio Cabona, per la regia di Yuri Dellacasa e Paolo Fossati. Risale a 10 giorni fa, il 14 luglio, il suo ultimo concerto dal vivo: Concerto Grosso per i New Trolls all’Auditorium Franco Alfano di Sanremo.

Cordoglio social

Alla diffusione della notizia della scomparsa di De Scalzi i social si sono riempiti di messaggi di cordoglio di colleghi del mondo della musica e amici. Come quello di Renato Zero: «Genova e l’Italia intera, piangono la scomparsa di Vittorio De Scalzi. Co-fondatore del gruppo musicale dei New Trolls, nonché musicista ed interprete di prima grandezza. Io sono qui dalle 4:30 di oggi, che respiro un vuoto assoluto, di una perdita per me profonda ed incolmabile. Quello che tenterò di fare per Vittorio, è adoperarmi affinché non vengano dimenticati i suoi talenti e la sua lealtà nei confronti della musica e di chi lo ha amato profondamente come me! Vi chiedo una preghiera per lui». 

«Vittorio De Scalzi ci ha lasciato - ha scritto Roby Facchinetti dei Pooh -, era un musicista, compositore, pluristrumentista e fondatore del gruppo rock progressivo dei New Trolls. I New Trolls sono nati negli anni 60 come i Pooh, e sono tanti i ricordi che ci legano a loro. Abbiamo sempre avuto un profondo rispetto reciproco sia musicalmente che umanamente. Chiamai Vittorio al telefono, dopo che aveva superato miracolosamente il Covid, e durante la nostra lunga chiacchierata, mi raccontò quanto fosse ancora viva in lui la voglia di fare musica. Caro Vittorio, sono convintissimo che da lassù continuerai a fare musica come hai sempre fatto nel corso della tua vita, con sensibilità, passione e talento vero. Buon viaggio caro Vittorio. Riposa in pace». «Ci lascia un altro grande artista...Ciao Vittorio salutaci le stelle», si legge sul profilo dei Nomadi. Questo invece il ricordo di Mogol, che per i New Trolls scrisse nel 1983 il brano «America OK»: «Sono molto dispiaciuto, ricordo di aver composto un brano per la band. Una persona molta simpatica, gentile, affettuosa. I New Trolls hanno lasciato un segno nella musica italiana, uno dei gruppi migliori per la loro capacità di fare musica. Per quanto ne so io, lui era la vera anima della band». 

Anche la Sampdoria, squadra di cui l’artista era tifoso, ha fatto sapere in una nota: «Nella stagione di grazia 1990/91 incise, insieme con il fratello Aldo, l’album Il grande cuore della Sud, regalandoci poesie in musica come Forza Doria e, soprattutto, Lettera da Amsterdam. Alla moglie Mara, ai figli Armanda e Alberto, al fratello Aldo e a tutta la famiglia De Scalzi le più sentite condoglianze da parte del presidente Marco Lanna e della società». 

«Genova perde uno dei suoi musicisti più straordinari - ha scritto su Twitter il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti -. Addio a Vittorio De Scalzi, cantante e compositore genovese, fondatore dei New Trolls. Solo una settimana fa, la sua ultima esibizione a Sanremo. Passione, generosità e talento che la Liguria e il Paese non dimenticheranno». Sullo stesso social le parole di Bobo Craxi: «De Scalzi è stato un inventore musicale originale. Un pensiero grato per lui».

Marinella Venegoni per “La Stampa” il 25 luglio 2022.

Le voci, i cuori, il cervello, l'audacia. L'occhio sul mondo. Questo erano i New Trolls, quando debuttarono ancora ragazzi al tramonto del beat, nel 1967. Giorni irrequieti, con la musica pronta a una nuova rivoluzione, Jimi Hendrix che folleggia con la chitarra elettrica e Sgt. Pepper dei Beatles che diventa l'oppio dei popoli. 

Quei ragazzi genovesi ci mettono del loro, con un cocktail forse inconscio a base di rock e psichedelia, e instraderanno poi con le loro intuizioni tanti increduli giovani (mai contenti già allora) verso la strada del progressive, dopo averli incantati fin dall'inizio con visioni acide e musica che voleva stare al mondo in pari grado con quella anglosassone. Hendrix, Vanilla Fudge, Jeff Beck e via discorrendo. 

È opportuno ricordare questi fantastici momenti, perché se ci fosse nell'aria qualche spicciolo di memoria in più, il pianto dei boomers cadrebbe oggi copioso sul ricordo di Vittorio De Scalzi, il ragazzo più pensante di quel gruppetto di avventurieri delle note capaci di far navigare la fantasia anche ai ragazzotti più sprovveduti.

Vittorio se n'è andato dopo lunghe e dolorose peripezie seguite a un Covid della prima ora, quello ancora senza vaccini. Aveva 72 anni e da musicista di razza ha lottato come un leone. Ha amato sempre la compagnia dei musicanti e se t' incontrava ti riempiva di feste e di sorrisi. Ha tenuto ancora di recente qualche concerto, si era esibito solo l'anno scorso alla Rassegna Tenco. E anzi, il funerale civile si terrà oggi proprio nella sede dell'emerito tempio della canzone d'autore, a Sanremo dove Vittorio viveva da qualche anno dopo aver abbandonato Genova. Era pieno di idee, progetti, registrazioni appena fatte o da fare. Un'energia che pareva niente potesse fermare. 

Non può non venire in mente l'infinita contesa che si era accesa fra i componenti dei New Trolls, dalla fine dei Novanta, approdata ovviamente in vari tribunali e sfociata nel divieto di utilizzare - per sempre - il loro nome, con tutte le derive di varianti che ne erano nate, e potevano soltanto confondere le idee: Il Cuore New Trolls, La Leggenda New Trolls, Of New Trolls. Che tristezza. 

Ci hanno messo tutti il loro bravo accanimento, e adesso che tutto questo è ormai inutile, fra componenti ed ex componenti in lotta non resterebbe che combinare una grande ammucchiata e celebrare Vittorio, l'unico ad esserci sempre stato, dal'67 al'97, e ad aver continuato con la voglia di riproporre i capolavori che hanno reso grande, fin dai primi tempi, la band. 

Lui e Nico Di Palo erano una coppia formidabile, capace di accendere duellando e duettando le loro voci inconfondibili, con quel farsetto killer di Di Palo che saliva sulle vette più assurde (pensiamo solo a Miniera). Nel 1967 la formazione base era composta appunto da loro due, più Giorgio D'Adamo al basso, Marco Chiarugi alla tastiera e alla batteria Gianni Belleno, famoso anche per esser stato poi a lungo il marito di Anna Oxa. 

Grazie a due singoli, Sensazioni e soprattutto Visioni, l'impatto del loro debutto fu tale, che subito furono scelti per aprire i concerti italiani dei Rolling Stones. Poi la loro strada si incrociò con quella di Fabrizio De André, al quale De Scalzi aveva fatto un filo spietato, dandogli la caccia anche agli stabilimenti balneari che frequentava. 

Nel'68, grazie al successo della Canzone di Marinella, Fabrizio lascia l'insegnamento e si vota per sempre alla musica. Ascolta dal vivo la band, suggerisce di utilizzare dei versi di un suo poeta-navigatore, Mannarini, e nasce l'idea di un concept album sul viaggio. La discografia è perplessa, troppa novità. Lo stesso Fabrizio adatta i testi alla musica, Reverberi il maestro sovrintende e crea interludi sinfonici fra i brani. E nasce Senza orario senza bandiera, novità sconvolgente, di modernità internazionale.

Nel '71, la svolta progressive si fa netta con Concerto Grosso, titolo preso da una forma della musica barocca. Il lato A è di Bakalov, il B propone una improvvisazione che si riascolterà poi con i Queen; il tutto trae ispirazione dal progressive britannico che va per la maggiore. Gli archi dell'orchestra, l'esplosione delle chitarre, la batteria, le voci. Successo strepitoso, 800 mila copie vendute. 

Andarsi a vedere Vittorio De Scalzi su You Tube, con i suoi capelli d'argento, e l'energia che lo inonda al flauto. È bello rivederlo così, e usare poi Wikipedia per star dietro ai balletti della formazione che si sfalda già da subito, e si riprende con nuovi compagni, in un processo infinito che il ricordo dell'amico scomparso è forse destinato a riaccendere. E comunque va doverosamente aggiunto che la stagione italiana del prog rock si rivelerà poi molto generosa.

Avrà numeri nomi e un impatto sociale sui '70, diverso da quello di ogni altro angolo d'Europa. Lo stesso Vittorio condividerebbe che addirittura Lucio Battisti si affaccia sul genere producendo Dies Irae dei Formula 3 e anche l'Equipe 84 ci prova con ID. Ma poi ecco le Orme con Collage in italiano, e lo svelamento dei Delirium di Fossati-Prudente, presanremesi con Dolce Acqua, seguiti a breve dagli Osanna. Sarà una stagione lunghissima e non priva di impatto sulle movimentate vicende sociali del Decennio. È un mood che si dilata ad inglobare la Cramps di Gianni Sassi, e fa conoscere un po' a tutti i Perigeo, la PFM, il Banco e gli Alluminogeni per arrivare fino ad Alan Sorrenti. 

Carezze, avventure e rock. Era l'anima dei New Trolls. Tony Damascelli il 25 Luglio 2022 su Il Giornale.

Addio al fondatore del gruppo: segnò un'epoca e fu simbolo della generazione che per prima "trasgredì"

C'erano i New Trolls. C'era Vittorio De Scalzi. Non ci sono più quei New Trolls, non c'è più Vittorio. Se ne è andato per una fibrosi polmonare, eppure l'età sua era ancora bella, di anni settantadue con la voglia di scrivere e cantare ancora, con il naso arricciato e quella faccia un po' così che aveva lui che veniva da Genova. Genova per lui non era affatto una idea come un'altra, lo poteva e lo può dire e cantare Paolo Conte che sta in fondo alla campagna del Piemonte. Genova ha il profumo e il sapore di Fabrizio e di Gino, dico della musica e delle parole che hanno accompagnato una e più generazione, i favolosi anni Sessanta e Settanta, i capelloni e le minigonne, i mangiadischi per la camporella, i pantaloni a zampa d'elefante e poi i borselli, c'era davvero voglia di musica diversa, pure strana, roba psichedelica e ritmi imprevisti, dondolavamo con il twist, si furoreggiava con il rock and roll, si gigioneggiava con l'hully gully, il pomeriggio in discoteca stava prendendo il posto delle feste in casa, quelle con le tapparelle semichiuse, i sandwich con l'oliva maligna nascosta sotto la maionese, coca cola e aranciata, quando la madre improvvisamente apriva la porta del tinello o salone, accendendo la luce scopriva i danzanti avvampati di passione. Sul giradischi andavano i quarantacinque giri di Donaggio e dei Beatles, Alain Barriere e Françoise Hardy, spuntarono i New Trolls. Vittorio, Nico, Gianni, Giorgio, quelli veri, unici, esclusivi, irripetibili, De Scalzi-Di Palo-Belleno-D'Adamo, i critici musicali dicevano che suonassero un rock progressivo, in verità era, di massima, musica vera, di artisti e non zatteranti di balere. Vennero gli Stones, per la prima volta in Italia, debutto a Bologna, aprile, giorno 5 del 1967, i New Trolls erano neonati, al palasport vennero chiamati, assieme agli Stormy Six e a tale Carrisi Al Bano, per avviare il concerto. Giornata calda, non per il clima metereologico felsineo ma per il fatto che Mick Jagger e il resto della band avessero dovuto subire una perquisizione fastidiosa al Forlanini aeroporto di Linate, storie di cannabis e affini, i solerti funzionari dello scalo milanese non trovarono uno spillo, i Rolling Stones misero il broncio, rifiutarono fotografie e autografi, De Scalzi li vide arrivare al Palasport e fu come l'apparizione dei re magi, oro, incenso e birra, a boccali direi. L'esordio di Charlie Watts fu disastroso, sbagliò il tempo d'inizio di The Last Time, Jagger restò muto, richiamò la band nel backstage, due parole in cockney sbrigativo e poi il concerto incominciò sul serio, davanti a spettatori duemila, al pomeriggio, cinquemila la sera. I New Trolls incassarono la fama e due lire, gli inglesi trenta milioni per le quattro esibizioni, Bologna-Roma-Genova-Milano, tre quarti d'ora scarsa di performance ma roba grossa e seria, tra ragazzine deliranti dinanzi alla bocca di Mick e al biondo ondame di capelli di Brian Jones che lanciava rose a tutte. Petali di un tempo strambo, i jukebox stazionavano nei bar e sulle piattaforme delle spiagge, cento lire tre pezzi, cinquanta lire un quarantacinque giri, Ami Continental e Rock Ola gli apparecchi di grande spolvero, luci e rotelle per scegliere i brani.

Vittorio De Scalzi si è portato dentro quest'epoca che sembra antica ma conserva i suoi sapori e profumi chiari, definiti, con un techeteche si può tornare ad annusarli, ripetendo le parole e viaggiando indietro negli anni, chiudendo gli occhi per quella carezza della sera e non sai più se ci manca quella carezza o quella voglia di avventura, voglia di andare via di là. Non un semplice testo ma la culla dei pensieri di Vittorio che era cresciuto alla scuola di Fabrizio de André e dunque la parola aveva la prevalenza sulla melodia, il pensiero sull'urlo.

Eppure l'esistenza di Vittorio De Scalzi non era stata soltanto di festival (sette a Sanremo) e grandi reunion, c'era stata anche la tragedia di Alice, la figlia sua morta di trombosi cerebrale quanto si era affacciata ai trent'anni, e l'incidente terribile in auto, accaduto a Nico Di Palo, compagno di band che nel gennaio del Novantotto si ritrovò in velocità un carico di granoturco caduto da un autocarro che sbandava sulla corsia opposta. Domenico «Nico» restò in coma per oltre un mese, recuperò la vita ma non pienamente la memoria, l'emiparesi gli tolse parte della voce e limitò i movimenti al punto che fu costretto a lasciare la chitarra per le tastiere. Erano anni più recenti, la storia dei New Trolls aveva conosciuto cambi di direzione, in tutti i sensi, conservando tuttavia il fascino che quel tempo si era costruito addosso, il tempo dei complessi detti poi band, le cover dei brani inglesi e americani, i Rokes, l'Equipe 84, i Dik Dik e i Camaleonti che, nei giorni scorsi, hanno perso, pure loro, un testimone, la voce di Tonino Cripezzi addormentatosi in un letto d'hotel, dopo l'ultima esibizione. Negli occhi, nel cuore c'è un vuoto grande più del mare, ritorna alla mente il viso caro di chi spera questa sera, come tante, in un ritorno (Una miniera, De Scalzi-Di Palo-D'Adamo, 1969).

Aveva 72 anni. Addio a Vittorio De Scalzi, la malattia, i Trolls e i Rolling Stones: “Rubai i pantaloni a Mick Jagger”. Redazione su Il Riformista il 24 Luglio 2022. 

Vittorio De Scalzi “ha raggiunto la sua Aldebaran“, la stella più luminosa della costellazione. Così la famiglia del 72enne fondatore del gruppo rock progressivo dei New Trolls annuncia la scomparsa del chitarrista e autore genovese che dialogava con Fabrizio De Andrè. Insieme al pianista e tastierista Pino Scarpettini fondò i Trolls, quintetto che aveva tra le fila anche Ugo Guido al basso, Giulio Menin alla batteria e Piero Darini alla chitarra.

“Vittorio De Scalzi ci ha lasciato, ha raggiunto la sua Aldebaran. Grazie a tutti per l’amore che in tutti questi anni gli avete dimostrato. Continuate a cantare a squarciagola “ quella carezza della sera”…lui vi ascolterà” scrive sui social la moglie Mara e i figli Amanda e Alberto. Alice, la terza figlia, morì

nel 2005 all’età di trent’anni a causa di una trombosi cerebrale. Ricordano Aldebarn, il celebre brano e album pubblicato nel 1978 che consacrò la band. Il funerale in forma laica si terrà lunedì 25 luglio alle 18 nella sede del Club Tenco a Sanremo.

De Scalzi, malato da tempo di fibrosi polmonare che aveva contratto ammalandosi di Covid, è stato autore di molti brani di successo, tra cui Visioni, Una miniera e Quella carezza della sera. Con la collaborazione di Fabrizio De André e del poeta Riccardo Mannerini, compose i brani del primo album dei New Trolls, il concept album Senza orario senza bandiera. La sua ultima esibizione risale allo scorso 15 luglio a Sanremo con l’Orchestra Sinfonica Sanremese diretta da Roberto Izzo.

Dopo l’addio di Scarpettini, la storia del gruppo continuò come New Trolls con Vittorio De Scalzi (voce e chitarra), Nico Di Palo (voce e chitarra), Giorgio D’Adamo (basso), Mauro Chiarugi (tastiere) e Gianni Belleno (batteria e cori). Raggiunta la notorietà, la band venne ingaggiata come gruppo di apertura dei concerti italiani dei Rolling Stones.

A Spettakolo.it De Scalzi nel 2017 raccontò un aneddoto proprio sulla storica band : “In occasione del concerto in apertura ai Rolling Stones, avevamo rubato i pantaloni a Mick Jagger. E io andavo in giro con questi pantaloni, vantandomene con i miei amici, anche se loro non ci credevano. La cosa assurda è che li utilizzavo proprio come dei pantaloni e non come un cimelio, difatti non so più dove sono finiti!”.

·         È morto il linguista Luca Serianni.

Bianca Michelangeli per corriere.it il 18 luglio 2022.

È stato investito ad Ostia Luca Serianni, celebre linguista e filologo che adesso lotta tra la vita e la morte all’ospedale San Camillo. Serianni, 74 anni, stava attraversando la strada all’incrocio fra via Isole del Capo Verde e via dei Velieri quando è stato travolto da un’auto. Alla guida della mezzo – una Toyota Yaris – c’era una donna di 52 anni, che si è fermata a prestare soccorso. L’incidente, le cui dinamiche saranno accertate dalle indagini della polizia locale, è avvenuto intorno alle 7.30 del mattino. 

Le condizioni di Serianni sono parse da subito gravissime e, dopo essere stato trasportato d’urgenza al Grassi di Ostia, lo studioso è stato trasferito all’ospedale San Camillo, dove si troverebbe adesso ricoverato in coma irreversibile. Vicepresidente della Società Dante Alighieri, Luca Serianni ha insegnato all’università Sapienza di Roma per quasi quarant’anni, dal 1980 al 2017. Considerato uno dei più influenti studiosi di storia della lingua italiana, è socio dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia nazionale dei Lincei. Vive da molti anni ad Ostia, dov’è molto attivo in ambito culturale e sociale: l’anno scorso aveva tenuto, nella cornice della Chiesa di Regina Pacis, tre lectio magistralis gratuite sulla Divina Commedia.

Dal “Venerdì di Repubblica” il 2 agosto 2022.  

Il lato nascosto delle parole è il titolo della lezione che il linguista Luca Serianni tenne nel 2018 a Roma ad alcuni bambini (5-13 anni) plusdotati, cioè con un'intelligenza decisamente superiore alla media. Organizzato dall'Associazione genitori di bambini e ragazzi plusdotati (Aget), l'incontro durò un'ora. Eccone un estratto.

Sapete dirmi cosa è una lingua? È una facoltà tipica ed esclusiva della nostra specie. Il linguaggio lo si acquisisce senza sforzo. Voi, per esempio, non commettete mai errori veri e propri. Mai vi verrebbe in mente di esprimervi con una frase come «dillo a io»: tutti i parlanti, anche gli analfabeti, sanno che in questa frase si usa "me" e non "io". 

Basta l'uso a non farci sbagliare. In realtà esiste una lingua artificiale, l'esperanto. Ma anche nelle poche famiglie che lo hanno adottato e poi insegnato ai figli, l'esperanto è cambiato e la sua funzione di lingua immutabile è venuta meno. Ogni generazione, infatti, impercettibilmente cambia la lingua. 

A Roma antica si parlava il latino; l'italiano altro non è che il latino così come si è modificato nel tempo, una generazione dopo l'altra. Singole parole, parole comuni, hanno mutato nel tempo il loro significato. ragazzo, per esempio È una parola di origine araba che voleva dire "fattorino".

Quindi indicava un garzone. In tempi più recenti, fino a pochi decenni fa, significava anche "bambino" e i toscani più anziani ancora dicono "ragazzo" riferendosi a un bambino piccolo. È la stessa ragione per cui abbiamo i "libri per ragazzi", benché non siano certo testi rivolti ai ventenni. 

 Giacomo Leopardi scrive nel primo '800 una canzone dedicata a un vincitore del pallone e lo chiama "garzon bennato", cioè ragazzo di nobili natali e nobili sentimenti. Dante Alighieri, nel rappresentare due dannati nell'Inferno puniti con un prurito che non riescono a dominare, dice che questi due si grattavano così come il garzone di stalla, quando teme di essere picchiato dal padrone, striglia il dorso del cavallo. 

Nei dialetti veneti, abbiamo toso per ragazzo e tosa per ragazza, termine che sopravvive in una serie di cognomi (Tosi e Tosello, per esempio). Viene dal latino tonsus, che significa "tosato": poiché i pidocchi erano comuni, si usava rapare a zero i maschietti e perciò il toso era il ragazzo. In Sicilia, ancora oggi, una forma per indicare il bambino/ragazzo è caruso (anche in questo caso spesso è un cognome): "caruso" vorrebbe dire qualcosa di corrispondente a "cariato", cioè "calvo": la parola ci dice che il bambino/ragazzo veniva rapato a zero.

A proposito della parola "donna", dovete sapere che ci rimanda a domina, che voleva dire "signora". Benché raro, esisteva anche un maschile, "donno", cioè signore, che sopravvive ancora oggi. Sapete sotto quale forma? "Don" (per esempio don Matteo). 

L'etimologia di "signore" e "signora" è il latino senior: di sicuro conoscete questa parola e probabilmente la contrapponete a junior. Voleva dire "più vecchio". Senior era quindi epiteto di persone autorevoli. Qui vicino c'è Palazzo Madama, sede del Senato.Il senatus esisteva anche nell'antica Roma. Si chiama così proprio perché indica l'insieme delle persone più anziane e autorevoli. In un certo senso potremmo definirlo "vecchiume", ma noi ci guarderemo bene dal farlo. 

Casa in latino era domus. La conoscete di certo, non lontano da qui c'è la Domus Aurea. Ha un continuatore diretto nel "duomo", l'edificio che, per dimensione e importanza, spiccava sulle povere case di un abitato. Casa in latino, invece, voleva dire "catapecchia", "stamberga"; oggi è passata a indicare un'abitazione, senza sfumature negative. 

"Donna", domus, e poi "dominio": attraverso la riflessione etimologica ritroviamo la stessa famiglia.

Se solo pensate a quanto sia diffusa la pubblicità degli alimenti per cani, si capisce quanto sia importante per noi questo animale. Ma per molto molto tempo "cane" ha indicato un animale particolarmente vile e disprezzato. 

Ancora oggi se diciamo a qualcuno «Sei un cane!», costui ha tutte le ragioni per offendersi. Se gli diciamo «sei un gatto!», no. Come mai? Perché il gatto è entrato nelle nostre case da meno tempo. Prova ne è il fatto che fino a due secoli fa i gatti non avevano un nome, proprio come le galline e le mucche. 

Altri nomi di animali hanno una sfumatura negativa. «Quel tale è un verme» non è certo un complimento: è qualcuno che si comporta male, è inaffidabile, non si prende le sue responsabilità. Peggio ancora se diciamo che qualcuno è un porco, o un porcello: nella migliore delle ipotesi è sporco... Lo stesso per vacca, per serpente... Come vedete, l'uomo si mette sempre al centro dell'attenzione.

Dal latino all'italiano molte parole si sono perse. È il caso di puer, cioè ragazzo e bambino. Puer non si dice più.

Però abbiamo ancora "puerile". Oppure ignis, cioè fuoco. La parola ignis si è perduta, ma resiste in "ignifugo": una sostanza ignifuga evita la propagazione del fuoco. Quanto a focus, invece, era il focolare dove ardeva il fuoco per cucinare e riscaldarsi: le case erano freddissime e ci si raccoglieva lì per avere un po' di calore. 

Ancora, il verbo che in latino indica l'azione di parlare è fari. Lo ritroviamo in fabula, e quindi in "favola", un racconto che è in primo luogo raccontato, perché le favole vere e proprie sono raccontate, non lette. Da fari abbiamo fama: in origine era qualcosa che gli altri dicevano scambiandosi notizie su qualcuno. E ora ditemi i vostri nomi Ecco, Sonia è un nome recente, di origine russa. 

Corrisponde a Sofia, che è di origine greca e celebra la saggezza, la sapienza.

Sonia era sconosciuto in Europa fino alla fine dell'800, quando si diffuse grazie alle traduzioni in francese dei grandi romanzi russi come Delitto e castigo e lo Zio Vanja. Ci sono poi nomi con una storia molto antica, come Luca, che era un evangelista. Ha avuto scarsa circolazione nel Medioevo e si è affermato solo nel secondo '900.

Quando lo hanno dato a me, era decisamente raro e c'erano persone che si meravigliavano perché, in quanto terminante in "a", poteva sembrare un nome da femmina. Michele ha avuto grande tradizione anche nel medioevo. 

Era il nome dell'arcangelo che simboleggia il trionfo sul male. Edoardo appartiene alla fitta serie di nomi di tradizione germanica. Il suo significato originario è "guardiano dei beni", quindi indica qualcuno di cui possiamo fidarci. Oggi contano fattori imponderabili legati al gusto dei genitori. 

Un tempo non era così. Soprattutto ai maschi si dava il nome dei nonni, un'usanza ancora radicata nell'Italia meridionale, dove si portano nomi altrove rari come Gennaro o Salvatore.

Vi è piaciuto questo viaggio nelle parole? Avete domande? Ricordate che lo scienziato e lo studioso lavorano per questo, per dare una risposta alle vostre domande.

Morto Luca Serianni, un linguista che illuminava con le parole. GIUSEPPE ANTONELLI su Il Corriere della Sera il 21 luglio 2022.

Faceva sembrare semplici gli argomenti più difficili e si sentiva sempre in dovere di rispondere a chiunque gli sottoponesse un dubbio

Il grande linguista Luca Serianni è scomparso giovedì 21 luglio a Roma. Era ricoverato all’ospedale San Camillo, dopo che il 18 luglio era stato investito da un’auto a Ostia, mentre attraversava sulle strisce pedonali. Serianni era nato a Roma il 30 ottobre 1947 e aveva 74 anni. Qui il suo profilo. Qui sotto, un ricordo del linguista Giuseppe Antonelli.

«La forma certo non è tutto». Pausa. «È solo il 95 per cento». Lo capivamo subito che era speciale. Fin dalla prima lezione. Arrivava puntualissimo nell’aula di geografia già gremita e cominciava a leggere e commentare i «Materiali per servire al corso di storia della lingua italiana».

Ho sognato per anni di poterla scrivere anche io prima o poi quella frase: e quando l’ho scritta su una dispensa universitaria è stato come essere diventato finalmente adulto. Passavamo un’ora a prendere ininterrottamente appunti, perché ogni parola era illuminante. Finivamo con un crampo alla mano e un sorriso stampato in faccia. Il tempo volava: perché da ogni parola traspariva la cura, la dedizione, la gioia per quello che stava facendo. Nel suo impeccabile aplomb, l’ironia era il sintomo d’amore al quale non sapeva rinunciare. Anche se lui avrebbe citato piuttosto qualche aria del suo amato Verdi. «A volte», mi raccontò un giorno, «quando le ascolto provo l’incoercibile impulso di imitare un direttore d’orchestra».

Lo capivamo che era speciale quando ci salutava per le scale, quando si faceva dare i numeri dalla segreteria didattica e ci telefonava a casa di persona per comunicare lo spostamento d’una data d’esame. Quando a lezione dava il suo numero di telefono. Il suo è uno dei due numeri fissi — gli unici due — che ancora ricordo a memoria (l’altro è quello della casa dei miei genitori). L’ho chiamato per trent’anni, soprattutto quando ero in difficoltà. Mi ha sempre ascoltato e consigliato (l’ultima volta è stata pochi giorni fa). A volte commentando qualche passaggio con un lapidario «Non bello» (la litote intensiva era la sua figura retorica preferita), molto più spesso sdrammatizzando con il suo proverbiale e salvifico «Fregatene!».

Quando passava al tu voleva che la cosa fosse reciproca. Noi, però, a dargli del tu all’inizio non ci riuscivamo. Ne uscivano fuori improbabili frasi impersonali. «Come si è trovato dunque quel capitolo della tesi?». Lui i capitoli li leggeva a uno a uno, per tutte le tesi e poi per tutti gli articoli che gli mandavamo da leggere. Dalla tesina del primo anno al libro di chi era già professore. L’asterisco per le cose che gli piacevano particolarmente; i richiami tipo correzione di bozze con le spiegazioni che a volte continuavano sull’altra facciata del foglio. La sua grafia nitida ci faceva capire che c’è sempre da migliorare. La sensazione rassicurante di un maestro insuperabile.

Insuperabile anche nella generosità con cui si è dedicato fino all’ultimo alla sua vocazione didattica. Sempre in viaggio verso qualche città, paese, frazione d’Italia per tenere una lezione, una conferenza, un seminario. Dall’università più prestigiosa fino alle classi delle scuole medie. Davanti a platee incantate dalla maniera in cui spiegava le cose, facendo sembrare semplici anche le più difficili. Lo sanno fare solo i fuoriclasse: e infatti le persone lo capivano subito che era speciale. Così, quell’indirizzo di posta elettronica creato con una strana parola — «Il nome di una città immaginaria che avevo inventato da bambino» — era ormai diventato di fatto di dominio pubblico. E lui si sentiva in dovere di rispondere a chiunque gli sottoponesse un dubbio linguistico.

«Si era sempre fatto così», sorrideva sornione quando gli chiedevo come ci riuscisse. La battuta era nata durante una delle tante passeggiate in montagna. «Che facciamo: i giornali li lasciamo in macchina?», «Certo: si era sempre fatto così …». Un’altra tessera di quel lessico famigliare che lui alimentava con divertita autoironia. Come quel suo «Lo penso veramente» con cui giocava a sottolineare alcune affermazioni. Non per svalutare le altre cose che aveva detto, ma per rimarcare la distanza fra quella conversazione e le tante di circostanza che siamo costretti a sostenere ogni giorno.

Una specie di codice cifrato: un linguaggio speciale, un segno di appartenenza per noi che abbiamo avuto dalla vita la fortuna e il privilegio di far parte della sua grande famiglia. Famiglia che in un’accezione più ampia arrivava a comprendere tutta la folla di giovani che negli anni aveva seguito le sue lezioni. E per Luca Serianni era tutt’uno con l’instancabile missione etica e civile ispirata alla Costituzione. «Ai miei studenti di quest’anno», ricordava in chiusura della sua ultima lezione universitaria, «ho chiesto – con una movenza, lo riconosco, da vecchio retore – sapete che cosa rappresentate per me? Immagino che non lo sappiate: voi rappresentate lo Stato».

Mirko Polisano per “il Messaggero” il 19 luglio 2022.

È stato investito sotto casa, di prima mattina quando come consuetudine usciva per una passeggiata. Luca Serianni, tra i più noti linguisti italiani e docente di Storia della lingua italiana alla Sapienza di Roma, è stato travolto a Ostia ieri mattina mentre stava attraversando la strada sulle strisce pedonali. 

È stato trasportato prima all'ospedale Grassi e poi al San Camillo, dove è arrivato in condizioni disperate. La donna alla guida dell'auto, una Toyota Yaris, ora è indagata per lesioni gravissime colpose. La commerciante di 52 anni è stata ascoltata dalla polizia locale: «Non vedevo nulla, ero accecata dal sole», avrebbe detto l'investitrice agli agenti dopo aver negato di procedere a velocità sostenuta. Ma la sua versione dovrà poi trovare riscontro nei rilievi effettuati dai vigili urbani.

I FATTI Sono da poco passate le 7.30 in via Isole del Capo Verde, strada che collega la parte di Ostia Ponente a quella di Levante, il professor Serianni abita a pochi passi e stava attraversando la strada per recarsi in un laboratorio di analisi, quando la Toyota Yaris lo ha investito. L'impatto è stato devastante. Il linguista è balzato sull'asfalto dopo un volo di circa due metri. Le macchie di sangue erano ben visibili sull'asfalto. La donna alla guida è scesa immediatamente dall'auto per prestare soccorso. 

In pochi minuti, sul posto, è arrivata un'ambulanza che ha trasportato Serianni al pronto soccorso dell'ospedale Grassi. I medici hanno subito capito le condizioni critiche in cui versava l'uomo e hanno disposto il trasferimento al San Camillo. Il trasporto è avvenuto via terra e non con l'eliambulanza, considerata a rischio per le gravi ferite riportate ai polmoni. Sul terreno, evidenti chiazze di sangue, oltre al paio di scarpe da ginnastica e a un paio di occhiali. Non sembrerebbero esserci segni di frenata.

Circostanza compatibile con una disattenzione del conducente, forse a causa del riverbero del sole che a quell'ora potrebbe aver disturbato molto la visuale. La 52enne è stata anche sottoposta ai test di rito, per droga e alcol i cui esiti sono attesi nelle prossime ore. 

Sarà riascoltata nei prossimi giorni dagli agenti della polizia locale del X Gruppo Mare, assistita dal suo legale. Il linguista è tutt' ora ricoverato al San Camillo in coma irreversibile. Luca Serianni è stato docente alla Sapienza per quasi quarant' anni, dal 1980 al 2017. È stato il prof ricordato per aver insegnato ai giovani il sé con l'accento e sui suoi libri di grammatica e linguistica hanno studiato intere generazioni. 

L'insegnamento come missione di vita, tanto da restare in cattedra - con un contratto di collaborazione gratuita - anche l'anno successivo al suo pensionamento. A far accendere la scintilla per la didattica, come spesso ha raccontato, era stato Arrigo Castellani, docente fiorentino suo insegnante tra la fine degli anni' 60 e 70 all'università. Socio nazionale dell'Accademia dei Lincei, dell'Accademia della Crusca e dell'Arcadia, direttore delle riviste «Studi linguistici italiani» e «Studi di lessicografia italiana», 

Era arrivato a Ostia all'età di 13 anni e qui aveva frequentato il liceo classico all'Anco Marzio: «Quando c'erano solo due sezioni», raccontava spesso. E in tempi recenti aveva anche preso parte a una rimpatriata con i compagni di classe per ricordare quegli anni spensierati dell'adolescenza e della scuola. È stato anche a capo della commissione speciale del ministero della Pubblica Istruzione che mise a punto il documento di orientamento per l'esame di terza media.

I SOCIAL Centinaia i messaggi di incoraggiamento arrivati da amici, stimatori ed ex studenti al professor Serianni. «Forza Luca», scrive l'amico Francesco Cesati: «Le tue parole che spero con tutto il cuore continuino ad accompagnare e illuminare la mia vita», «È stato investito e non esagero se dico che questa è una delle più brutte notizie che l'Italia potesse ricevere», aggiunge Simone Ruggiero, ex studente del corso di storia della lingua italiana. 

L'ultimo evento pubblico a cui ha partecipato Serianni è stato il 6 luglio scorso a Firenze quando ha presenziato all'inaugurazione delle prime due sale del nuovo Museo dell'Italiano, di cui è coordinatore scientifico, alla presenza del ministro della Cultura, Dario Franceschini. «Luca Serianni è il più autorevole linguista italiano che abbiamo». Le parole di Claudio Marazzini, presidente dell'Accademia della Crusca, che ha appreso con «costernazione e profondo dolore la tragica notizia» dell'incidente che ha coinvolto il professore emerito di storia della lingua italiana dell'Università «La Sapienza». Un dolore che in queste ore sta coinvolgendo l'intera comunità dei linguisti italiani.

È morto il linguista Luca Serianni, era stato travolto da un’auto sulle strisce pedonali. Il professore investito il 18 luglio ad Ostia mentre attraversava la strada. MIRELLA SERRI il 21 Luglio 2022 su La Stampa

Un viso sempre sorridente, cortese, affabile ma anche con l’aspetto compassato di chi difficilmente si lascia andare. Quando formulava dei giudizi, le sue battute erano acute, ironiche, sferzanti, potevano essere come dei colpi di staffile: Luca Serianni, uno dei maggiori linguisti e filologi italiani, si è spento stamattina all’Ospedale San Camillo dopo essere stato investito da un’automobile a Ostia il 18 luglio. Il 74enne docente, che ha insegnato alla Sapienza di Roma fino al 2017, con la cittadina litoranea dove viveva aveva un legame di vecchissima data e ripeteva ai colleghi universitari e agli amici che si sentiva “oppresso” dalla metropoli e considerava insostituibili, anzi addirittura “ineguagliabili”, le sue solitarie passeggiate sul lungomare. Il professor Serianni era molto seguito e apprezzato dai suoi studenti a cui si è dedicato per quarant’anni.

Per i ragazzi che lo seguivano, lo studioso reputava che il saper parlare, il saper scrivere e la conoscenza dei mutamenti del dizionario, fossero il passepartout nella vita e nelle future professioni. Era nato a Roma e tra le sue letture predilette c’erano i romanzi di Pier Paolo Pasolini in dialetto romanesco, “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”. Ai giovani riusciva a far vedere i segreti del testo letterario e mostrava la magia del lessico pasoliniano sviscerando il rapporto costruito dall’autore tra l’apparente naturalezza della lingua e la capacità di invenzione. Secondo Serianni il passo dalla contemporaneità alle opere del Trecento era breve. Nel suo repertorio di studioso non poteva mancare la “Divina Commedia” e per l’editore il Mulino si era cimentato con “La parola di Dante”. Per il suo meticoloso attraversamento della letteratura dantesca era stato nominato vicepresidente della Società Dante Alighieri nonché socio ordinario della Casa di Dante in Roma. Sempre per i suoi meriti danteschi, nel 2002 gli era stata conferita la laurea honoris causa dall’Università di Valladolid. Era anche direttore delle riviste “Studi linguistici italiani” e “Studi di lessicografia italiana”.

E’ stato inoltre uno storico dei mutamenti della lingua anche come sintomi delle sottostanti trasformazioni sociali.

Serianni, che aveva una grande sintonia culturale con Tullio De Mauro e Alberto Asor Rosa, entrambi suoi colleghi nel Dipartimento di italianistica di Roma, era socio dell’Accademia della Crusca e dell’Accademia nazionale dei Lincei. A lui dal 2004 era stata affidata la cura del vocabolario della lingua italiana Devoto-Oli. Con Pietro Trifone ha firmato una bellissima “Storia della lingua italiana” per Einaudi in tre volumi su cui si sono formate tante generazioni di studenti. 

L'addio al linguista. Serianni, il "francescano" ricco solo della parola. Andrea Riccardi venerdì 22 luglio 2022 su  Avvenire.

La scomparsa di Luca Serianni, grande studioso della lingua italiana, ha lasciato costernati per la maniera violenta in cui è avvenuta e per l’enorme vuoto che lascia nella cultura italiana. Infatti, non basterebbe evocare ritualmente la sua sconfinata bibliografia né la sua partecipazione a significative imprese culturali per vari decenni.

C’è qualcosa che va notato, prima di tutto, nella sua personalità. In questo nostro mondo di protagonisti, il grande storico della lingua è stato un uomo schivo e timido, che non s’imponeva. Disse in un’intervista: «Non riesco a essere un conversatore brillante. Tanto deludente in un salotto, quanto efficace in un’aula scolastica».

Serianni è stato un uomo umile, ma per nulla mediocre. Ha mostrato come la grandezza di un intellettuale non si rivelasse nell’imporsi agli altri o ai media, ma nell’intreccio tra scienza e sapienza.

Nell’insegnamento ha dato tutto se stesso con una comunicatività eccezionale verso i suoi allievi, cui contagiava il desiderio di studiare e capire di più. Serianni è stato un maestro in questo nostro tempo spaesato che perso i maestri, ma ha bisogno di riscoprirli, come scrive Gustavo Zagrebelsky. Un maestro che non s’impone, ma riconosciuto da tanti, all’origine di una ricca schiera di studiosi più giovani.

Nel suo rapporto con i giovani, ma anche con il suo pubblico, dava tutto se stesso: «Chi ha scelto di fare l’insegnante non può permettersi il lusso di essere pessimista», diceva. È stato uno dei maggiori intellettuali cattolici degli ultimi decenni, profondamente laico, per nulla confessionale. Non ha mai vissuto, anche in tempi passati, dietro storici steccati, anzi è stato un animatore di cooperazione intellettuale, di dibattiti, di scambi.

Un capitolo importante del suo insegnamento e della sua lezione era proprio il senso dello Stato, il valore della scuola e dell’Università. Amava riferirsi all’articolo 54 della Costituzione (tanto dimenticato), che recita: «I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore... ».

Nella sua sobrietà laboriosa e nelle convinzioni che comunicava con estrema umiltà, Luca Serianni aveva un animo da grande cristiano, formatosi nel contatto con la Bibbia e con i grandi testimoni della spiritualità cristiana. C’era in lui qualcosa di profondamente francescano, che si esprimeva nella semplicità umana, nella generosità verso i giovani ma anche verso i più poveri. Francesco d’Assisi, la cui rivoluzione religiosa e culturale era qualcosa su cui aveva meditato, rappresentava una segreta ispirazione nel vivere la vita. Viveva infatti la sobria serenità di una vita generosa, aperta e offerta agli altri.

Serianni, ricco di cultura, di riconoscimenti accademici, stimato conferenziere, autore di testi di successo, era un uomo povero e semplice: sì di una povertà francescana. Non abitava nei quartieri pregiati della capitale, che segnano anche uno status oltre a offrire comodità maggiori, ma era sempre rimasto nella periferica Ostia, dove ha insegnato a scuola da giovane e dove è morto, investito – come purtroppo troppi a Roma – da una guidatrice distratta. Anzi si sottoponeva al viaggio quotidiano, non breve e sovente disagevole, per raggiungere il centro della capitale.

Non è un caso che uno dei suoi ultimi interventi sia stato in ambiente popolare, ad Ostia, con la Comunità di Sant’Egidio.

Ho conosciuto da vicino Serianni come vicepresidente della Dante Alighieri con la sua capacità di condividere larghe visioni sul ruolo della lingua italiana nel mondo, ma anche di farsi divulgatore e conferenziere a livello molto semplice. In Serianni c’era la concezione della continuità tra cultura alta e cultura popolare, senza cui la prima restava arida erudizione. L’accademico dei Lincei era infatti convinto che l’erudizione, la più raffinata, si potesse spezzare e comunicare, perché in un Paese sconnesso c’era una cultura di popolo da ritessere.

La sua lezione di studioso si lega profondamente alla testimonianza di cristiano proprio nel valore della parola, parola degli uomini e delle donne, parole dei profeti, parola di Dio. Egli scrive in un libro, intitolato 'Parola': «L’importanza della parola, che può essere fonte di vita o di morte, di giustizia e di ingiustizia, di illuminante sapere o di cieca ignoranza è ben presente nelle tre religioni rivelate, che non a caso si definiscono 'religioni del libro'…». Serianni è stato un uomo della parola: parola studiata, parola del credente, parola leale con gli amici e i colleghi, parola comunicata con la sapienza di decenni di studio e di confronto costante. Fragile e riservato, ha vissuto proprio abitato da questa forza della parola.

Da cinquantamila.it – La Storia raccontata da Giorgio Dell’Arti  

• Roma 30 ottobre 1947. Filologo. Insegna Linguistica italiana alla Sapienza di Roma, tra i suoi libri una imponente Grammatica italiana (Utet 2006) e un’agile Prima lezione di grammatica (Laterza 2007), oltre a Italiani scritti (Il Mulino 2003), Un treno di sintomi. I medici e le parole (Garzanti 2005). Da ultimo Leggere scrivere argomentare. Prove ragionate di scrittura (Laterza 20013) e Storia dell’italiano nell’Ottocento (Il Mulino 2013). Accademico della Crusca e dei Lincei, dal 2010 vicepresidente della Società Dante Alighieri. Con Maurizio Trifone dal 2000 cura il Devoto-Oli.

• «È uno dei protagonisti del piccolo fenomeno cui si assiste da qualche tempo: un gran parlare e scrivere di lingua, di grammatica e di sintassi. Al Festivaletteratura di Mantova ha partecipato agli affollati incontri di “pronto soccorso” grammaticale organizzati dall’Accademia della Crusca». 

• In un’intervista a Francesco Erbani ha sostenuto che l’italiano non va così male come si è portati a pensare, almeno l’italiano parlato, che circola ormai diffusamente. «Il congiuntivo non è affatto morto. Un mio collega, Giuseppe Antonelli, ha adottato l’espressione “temperatura percepita”. Sembra che faccia un freddo terribile e invece il termometro non va sotto lo zero. Sembra che il congiuntivo stia sparendo, ma tutte le indagini, persino quelle sulla lingua parlata, attestano, per esempio, che dopo il verbo spero il congiuntivo viene adoperato dalla quasi totalità del campione: spero che tu venga, spero che tu stia bene».

• Quanto alla lingua scritta, «non esiste più una lingua della letteratura, ed è la prima volta nella nostra storia. Gli scrittori tutto si propongono fuorché di essere modello. Ora occupano i diversi livelli della stratificazione linguistica e si riferiscono prevalentemente al parlato. La terza parola che compare in Come Dio comanda, il romanzo di Niccolò Ammaniti che ha vinto lo Strega (nel 2007 – ndr), è “cazzo”. È invece migliorata rispetto al passato la “lingua pubblica”, la lingua della burocrazia. Le istruzioni di un medicinale, poi, sono generalmente più leggibili. Una regressione si avverte, viceversa, per la lingua scritta della scuola». 

• «Farei una battaglia per “sé” stesso, che bisogna scrivere con l’accento, a differenza di quanto si prescrive anche a scuola».

ESPLORATORE CIVICO. Luca Serianni, un intellettuale riservato in un paese che ama chiasso e improvvisazione. RAFFAELE SIMONE su Il Domani il 21 luglio 2022

È difficile ricordare Luca Serianni, scomparso a settantaquattro anni, solo come l’insigne storico della lingua italiana che era, autentico principe nel suo campo.

Le sue lezioni erano famose non solo per la straordinaria cura con cui erano preparate e presentate, ma anche perché riusciva a fondere, con la sua bella parlata da romano colto (un timbro purtroppo in via di sparizione), il massimo della serietà dottrinale con il massimo della vivacità e dello humour.

Serianni era un autore dalla fecondità intensa e regolare. Nelle sue numerose opere accanto all’interesse per le prospettive globali si rivela spesso il gusto coraggioso di esploratore di settori trascurati o ignoti. 

RAFFAELE SIMONE.  Professore ordinario di Linguistica Generale dal 1980. Ha studiato Filosofia a Roma e ha poi trascorso periodi di studio in Francia e in Germania. Ha insegnato in diverse università italiane prima di passare alla Sapienza di Roma (1980) e poi a Roma Tre (1992).

TV 2000. Un’intervista per ricordare Luca Serianni. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Luglio 2022

Luca Serianni dopo la tragedia che lo ha visto morire per i postumi di un incidente a Ostia, dove è stato travolto da una macchina, viene riproposto a Tv2000, in una lunga intervista integrale che aveva rilasciato a «Soul». Stasera alle ore 20.50 su Tv2000. In memoria di Serianni, maestro della lingua e della cultura italiana, scomparso il 21 luglio, l’emittente trasmette quindi il dialogo del grande studioso con Monica Mondo, che andrà in onda anche su InBlu2000 lunedì 25 luglio alle ore 21.

«I miei allievi hanno tutti un loro profilo specifico all’interno di un sapere e di un metodo condiviso - soleva ripetere l’illustre accademico -. La mia impronta, se c’è, si esaurisce in un noto obbligo al quale tutti loro sanno di non poter derogare: l’uso dell’accento grafico su sé stesso». Linguista di fama mondiale, accademico della Crusca, membro dei Lincei, Luca Serianni morto il 21 luglio a 74 anni per i postumi dell’investimento che lo aveva visto vittima qualche giorno fa a Ostia, scherzava così, schernendosi, con gli studenti e i colleghi professori che riempivano all’inverosimile l’aula magna dell’Università La Sapienza di Roma per la sua ultima lezione. Era il giugno del 2017, quel suo discorso, durato oltre un’ora come tutte le sue seguitissime lezioni, andò avanti punteggiato da continui, fragorosi, applausi. Ma anche da tante risate, quasi a voler suggellare la cifra di quello che per 38 anni era stato il suo rapporto con gli studenti e con la disciplina, amatissima, che insegnava, argomento dei suoi infiniti studi e di tanti libri, dalla Grammatica italiana Utet alla Storia della lingua italiana pubblicata da Carocci, da Un treno di sintomi (Garzanti) a Parola (2016) solo per citarne alcuni, oltre naturalmente al dizionario Devoto-Oli curato con Maurizio Trifone, agli scritti su Dante. E alla sterminata serie di attestati e titoli ricevuti.

Intervista di Antonio Gnoli a Luca Serianni su Robinson dell'11 giugno 2022

Provo una certa ammirazione per Luca Serianni, uno dei nostri grandi italianisti. Non ci conoscevamo. Leggevo le sue cose. Poi, qualche settimana fa a Parma, nell’ambito di un convegno dedicato alla lingua volgare, ho potuto seguire le sue considerazioni. Era compostamente seduto sul palco del Teatro Due affrontando con grande padronanza i temi legati alla lingua, all’importanza tutt’oggi dei dialetti e al lento mutare e impoverirsi dell’italiano. In quei momenti ho pensato che quest’uomo dal viso sofferto ed enigmatico, che mi rilanciava l’immagine inattuale di un sacerdote etrusco, fosse una delle eccezioni che aiutano il nostro paese a tenersi a galla. 

Ci siamo visti a cena ed è stato davvero interessante trovare conferme alle parole e ai costrutti appena accennati e ripresi. Gli ho detto che avrei volentieri proseguito quei discorsi e che, per quanto mi riguardava, ogni cosa che diceva era come illuminata dal senso profondo del dovere; lui ha replicato che il dovere è apprezzabile se non nasce da obblighi esternima da un legame con se stessi. Qualcosa di connaturato alla persona che affiora in un certo momento della propria vita.

Che vita è stata e continua ad essere la sua?

«Potrei dirle tranquilla, ma so che vorrebbe dire poco. Da quando sono professore emerito giro molto per le scuole. Incontro insegnanti, studenti e ho l’impressione di aver accentuato gli aspetti divulgativi, spero la buona divulgazione. Dopotutto, anche un linguista, allo stesso modo di un medico, può avvertire la responsabilità di confrontarsi e coinvolgere più persone nelle cose che studia». 

È curioso che le sia venuta in mente la figura del medico.

«Anche lavorare sulla lingua è una forma di cura. E poi sono stato spesso attratto dal linguaggio medico, da certe parole, dalla loro origine e trasformazione.

Ricordo un piccolo studio di tanti anni fa sui modi, piuttosto colorati, con cui il linguaggio medico ottocentesco descriveva l’urina». 

Ma avrebbe voluto fare il medico?

«Era un’opzione possibile dal momento che mio padre era medico, direttore di un istituto di alimentazione e dietologia che aveva fondato. Nel tempo libero si occupava di cose letterarie e gli piaceva leggermi quello che riteneva fosse importante per la mia formazione. Ricordo Pinocchio e il periodo in cui affrontò I promessi sposi. Saltò completamente la parte iniziale che considerava troppo noiosa. A quel tempo avevo cominciato a immergermi nei romanzi di cappa e spada. Mi piaceva in particolare Rafael Sabatini, l’autore di Scaramouche. Poi vennero le letture coatte che non scatenano la fantasia ma creano disciplina». 

Com’era a scuola?

«Bravo e diligente. Ma il mio percorso fu segnato da alcune interruzioni. Restai fuori dalle elementari per due anni e altri due dalle scuole medie. In quei periodi studiavo privatamente».

C’era un motivo per quelle interruzioni?

«Fu mio padre a decidere di tenermi fuori. Era divorato da un’ansia patologica. Credo che il suo assillo fosse la paura del contagio. Era il periodo in cui ci si ammalava di poliomielite. Ma le confesso che sono anni che ricordo male, per dire quanto sia importante la socialità per la nostra memoria individuale». 

È singolare che un padre medico provasse simili apprensioni.

«Medico ma con una visione, probabilmente, catastrofica della vita. Morì che avevo compiuto 22 anni. Mi ero laureato e avevo cominciato a fare qualche supplenza. Una sera rincasai più tardi del previsto. Molto più tardi. E vidi quest’uomo letteralmente fuori di sé. Mi disse che stava per chiamare tutti gli ospedali dove sarei potuto finire.

Guardai il suo volto contratto dall’ansia e pensai alla sua preoccupazione irrazionale, alla dismisura con cui a volte si affrontano certi eventi». 

Gli rimprovera qualcosa?

«So che era più forte di lui e che dovevo convivere con i suoi stati d’animo. Rimproveri? Mah. Forse l’avermi privato negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza di sentirmi pienamente come gli altri, giocare come gli altri, fare sport. Avere un motorino. Le dico le prime cose che mi vengono in mente. Una sorta di catalogo deprimente dell’adolescenza». 

Intende dire che quelle ansie ingiustificate hanno inciso sul suo carattere?

«Molto marginalmente. Alla fine mi hanno aiutato gli studi, l’amore per la lingua e tutto quello che la lingua italiana ha finito col rappresentare per me». 

In fondo ha scelto la cosa più familiare al di fuori della famiglia.

«Ho scelto un percorso che sentivo mio e che probabilmente le prime letture hanno agevolato. A questo proposito, mi torna alla mente che, quando mio padre mi leggeva qualche storia, disponevo attorno a me la serie di peluche con cui di solito giocavo. Avrò avuto sei anni e, ascoltando la sua voce narrante, immaginavo di condividere qualcosa di importante con questa platea di vecchi e improbabili amici». 

A proposito dei suoi studi con chi si è laureato?

«Mi laureai nel 1970 con una ricerca sul dialetto aretino tra il XIII e il XIV secolo. Il mio professore era Arrigo Castellani, uno studioso dotato di sistematicità e chiarezza. Viveva a Firenze e l’estate mi capitava di andare a trovarlo dove villeggiava, a Quercianella. La madre, sospettosa verso tutto ciò che non fosse toscano, chiedeva se io fossi fiorentino. E lui, non ti preoccupare, il dottor Serianni lo è in spirito.

Castellani era stato allievo di Bruno Migliorini. Come filologo aveva preso la cattedra di Gianfranco Contini a Friburgo. Era stato, durante la Seconda guerra mondiale, ufficiale interprete in Polonia, conosceva bene il polacco ma anche l’inglese. Possedeva una collezione di “libercoli”, così li chiamava, sulla fantascienza e le spy story. Erano il suo tributo stravagante alla letteratura di evasione. Alieno da ogni forma di potere baronale, Castellani è stato per me un vero maestro. Come lo fu Aurelio Roncaglia. 

Anche lui filologo romanzo.

«Della miglior specie e grandissimo docente. Adottava lo stesso metodo che poi vidi applicare a Castellani: partiva da un testo e parola per parola lo spiegava». 

Lei si laurea nel 1970, cioè nel pieno della contestazione. Come ha vissuto quegli anni?

«Se intende politicamente, le rispondo che mi accorsi che c’era stato il Sessantotto con almeno tre o quattro anni di ritardo. Fu durante le prime supplenze che percepii un clima mutato. Gli studenti mi sembravano più aperti e curiosi. Capii insomma che qualcosa irrompeva a livello sociale e politico». 

Come reagì?

«Per me fu una scossa benefica. Dai dieci ai quattordici anni avevo nutrito vaghi sentimenti monarchici. Poi pian piano le mie simpatie si sono spostate verso sinistra». 

Le interessa la politica?

«Mi interessa come cittadino. Credo che ciascuno debba esercitare il mestiere per il quale si sente adatto. Ogni tanto bisognerebbe rileggersi l’articolo 54 della Costituzione, la cui prima frase si chiude sul funzionario pubblico che deve svolgere il suo lavoro con disciplina e onore». 

Le piace come è scritta la Costituzione? 

Il mio interesse per i linguaggi settoriali mi ha portato a occuparmi anche di quello giuridico. La Costituzione è scritta molto bene. Anche i codici lo sono. In generale, a livello alto, le parole del linguaggio giuridico sono ben messe. Ma più si scende e più la lingua tende a diventare opaca, a ingarbugliarsi, fino al limite dell’incomprensibilità.

Viene in mente la proliferazione incontrollata delle leggi. La loro pressoché totale illeggibilità.

«È un processo di decadenza linguistica cui è difficile, ma non impossibile, mettere mano». 

In lei l’attenzione alla lingua si risolve soprattutto nel lavoro sul lessico. Le è mai venuto il desiderio di allargare le sue ricerche alle parti più teoriche? In fondo personaggi come De Saussure, Jakobson oHjelmslev, lo stesso De Mauro, hanno riflettuto a lungo sul sistema lingua.

«La mia attenzione agli aspetti teorici è del tutto marginale. Sono stato e rimango uno storico della lingua, incline a una vocazione empirica che si avvale dei singoli sviluppi storici, più che delle strutture. Mi definirei, insomma, un antisistematico, un praticone della parola». 

In che modo la parola è al centro dei suoi interessi?

«Più che analizzarla foneticamente, ho cercato di vedere la parola dal punto di vista del lessico e della possibilità di connetterla e arricchirla nei rapporti che riguardano i suoi aspetti antropologici».

Ossia non fermarsi al solo campo della lingua?

«Esattamente. La parola è spesso la chiave per aprire le porte di altri territori del sapere: dal diritto alla politica alla religione. Pensi a parole come “sacer” o “democrazia” le cui accezioni possono essere diverse da ciò che sospettiamo o riteniamo siano». 

Per esempio?

«L’aggettivo “sacro” si riferisce al mondo religioso e si oppone a profano. Ma se andiamo ad analizzarla, la parola “sacer” oltre all’uso di opporsi a profano aveva un altro significato, cioè quello di “maledetto”. 

Qualcosa, insomma, di esecrabile. Perché all’origine “sacer” sta ad indicare ciò che è impuro. E le conseguenze filologiche possono essere sorprendenti. Pensi all’espressione auri sacra fames. Ne parla Virgilio, poi l’espressione verrà ripresa da Dante. Ma il significato che nel XXII canto del Purgatorio verrà attribuito a “la sacra fame dell’oro” è ricondotto a una passione esecranda e maledetta tale da contagiare chi ne entra in contatto». 

Lei mi sembra al riparo da certe passioni. Mi ricorda quelle figure weberiane in cui il dovere prevale su tutto il resto.

«Più che dovere in senso astratto, la chiamerei responsabilità. Cioè il rispondere a una chiamata. Fu proprio Weber a parlare di “etica della responsabilità”. Si riferiva all’azione dell’uomo politico. Ma il dover rispondere del proprio operato si può estendere al funzionario pubblico, alla figura alla quale accennavo riferendomi all’articolo 54 della Costituzione. 

Ricondotto alla mia esperienza posso dire di essermi impegnato negli ultimi 15 anni nell’attività didattica.

Nell’incessante frequentazione, come ho già detto, di insegnanti e studenti, mi capita di girare molto per l’Italia, soprattutto la provincia, spesso misconosciuta ma fertile di conoscenze e curiosità. Ciò che è importante nel proprio lavoro è credere in quello che si fa». 

Come è stato il rapporto con i suoi allievi?

«Positivo, in larga parte. Nel mio insegnamento ho spesso scelto di fare lezione al primo anno di corso. Bisogna cominciare a investire da subito». 

Si ritiene un maestro?

«Come autodefinzione sarebbe imbarazzante. Ma forse lo sono stato per due aspetti precisi».

Quali?

«Una certa capacità di intuire quelli che hanno talento e su questi investire diventando, anche sul piano personale, un punto di riferimento. E poi lasciare queste persone libere di scegliere cosa studiare. Una volta che si è fornita la base, la guida non è imposizione di una rotta ma un confronto continuo di idee ed esperienze». 

Di lei si dice che abbia molta padronanza del discorso pubblico.

«Non potrei dire lo stesso del privato. Qui non riesco ad essere un conversatore brillante. Tanto deludente in un salotto, quanto efficace in un’aula scolastica. Non so se ho perso qualcosa».

Pensa mai alle occasioni mancate?

«Direi che sono inevitabili. La vita offre possibili sviluppi. Alcuni inattesi, altri prevedibili. In ogni caso siamo noi che scegliamo dove dirigerci. Potevo intraprendere la carriera medica o quella giuridica. Alla fine ho trovato nella lingua italiana la mia identità. E le assicuro che tutto ciò che non ho scelto non l’ho mai veramente percepito come un’occasione mancata». 

1947-2022. L’Italia è una repubblica fondata sulla lingua: la lezione di Luca Serianni sulla Costituzione. LUCA SERIANNI su Il Domani il 22 luglio 2022

La padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione.

Tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.

Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda.

Il primo agosto del 2018 il grande linguista Luca Serianni, scomparso il 21 luglio 2022 dopo un incidente stradale, aveva tenuto una lezione dal titolo La lingua italiana come cittadinanza, ai giardini sopra la stazione della metro Jonio a Roma, nell’ambito del progetto Grande come una città promosso da Christian Raimo. Ne pubblichiamo una sintesi. 

Non di rado la Costituzione viene vista da alcuni come un fastidioso vincolo di cui le persone potrebbero fare a meno e si troverebbero meglio. Questo è un errore notevole perché è proprio l’impalcatura giuridica – e la Costituzione è proprio il massimo strumento del diritto – che permette un vivere ordinato. E l’idea di considerare gli atti della legge in generale come fastidiosi adempimenti burocratici è un’idea deleteria. Quindi partire dalla costituzione può essere giusto. Ma partire da quali aspetti? Forse l’articolo fondamentale è l’articolo 3, l’articolo che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini.

Qualcuno potrebbe dire: bel concetto, ma come si fa a tradurlo in pratica? Un elemento significativo e un elemento di fascino della costituzione è che è carica di auspici segnati dalla Storia che ha portato alla costituzione.  È chiaramente un auspicio, uno sforzo, una tendenza. E del resto non è che un auspicio anche ciò che si legge nel primo articolo, «La Repubblica è fondata sul lavoro».

L’articolo 27, che parla della funzione della pena e fa una scelta di campo molto precisa, non a caso fu oggetto di discussione da parte dei costituenti. La pena svolge anche una funzione retributiva o in generale preventiva. Si interviene con una sanzione e anche con la privazione della libertà personale nei confronti di qualcuno che abbia commesso un delitto per ammonire gli altri a non imitarlo e per risarcire simbolicamente la società di questa violazione. Però accanto a questi elementi che sono elementi costitutivi della sanzione penale, che vengono dati come impliciti, c’è un elemento che viene sottolineato: la funzione rieducativa della pena.

Non si deve perdere la fiducia o la speranza che il reo possa essere riammesso a godere a pieno titolo del godimento dei diritti civili che lui stesso per il suo comportamento si è precluso. E naturalmente da questo dato deriva come necessaria conseguenza l’abolizione della pena di morte. In Italia quando si parla di abolizione della pena di morte viene in mente il nome di Cesare Beccaria. Beccaria sostiene due principi molto importanti: il primo è che la pena di morte è per definizione irriformabile, e quindi non garantisce la possibilità umana dell’errore giudiziario. La verità processuale vuol dire che c’è la possibilità di ritornare sopra la precedente sentenza; addirittura ci sono tre gradi di giudizio.

E Beccaria disse anche un’altra cosa molto importante, che non bisognava ricorrere alla tortura. Perché la tortura non è un mezzo di prova e perché il criminale incallito con particolare resistenza anche sotto tortura non ammetterà mai di aver fatto quello che gli viene imputato, mentre la persona più debole potrà non solo ammettere le sue colpe, ma addirittura cedere alle imputazioni che gli vengono rimproverate senza avere la possibilità di rifiutare queste imputazioni.

Sono due obiezioni di tipo giuridico, oltre che di tipo morale, che rendono particolarmente significativo questo lontano precedente, perché quando Beccaria scriveva queste cose, nel 1764, la pena di morte era normale in tutta Europa.

Ancora un’ultima riflessione vorrei fare sull’articolo della costituzione in cui si dice: l’Italia ripudia la guerra. È un altro articolo che esprime più un auspicio che una condizione strettamente vincolante; ci sono state polemiche sulla partecipazione di soldati italiani a vicende più o meni recenti, per esempio dei Balcani: guerra o non guerra? È un ripudio o non è un ripudio?

Inviterei a vedere questo principio nel senso di un auspicio, come una scelta di fondo: si considera la guerra come un tipico disvalore, per usare la parola tecnica che nel linguaggio del diritto indica qualcosa di negativo da cui la società deve difendersi.

LE LINGUE CAMBIANO

La seconda riflessione che vorrei fare riguarda l’ambito specifico dei miei studi, la lingua, e si riferisce alla necessità linguistica adeguata per l’insieme dei cittadini. La padronanza linguistica implica andare oltre le parole che costituiscono il patrimonio spontaneo di qualunque parlante, quelle che un grande linguista scomparso, Tullio De Mauro, aveva calcolato secondo un complesso sistema di elaborazione in parole del lessico fondamentale – per esempio “ma”, “andare”, “il” o anche “gatto”, “cane” -, parole di alto uso e parole di alta disponibilità.

Le parole di alto uso sono parole di alta frequenza, appena un po’ meno, e le parole di alta disponibilità sono le parole che ciascuno di noi per molti giorni potrebbe non pronunciare mai, non avere modo di evocare, ma che rappresentano però parole che appartengono al nostro orizzonte quotidiano: “aceto” o “alluce”…

C’è questo zoccolo duro di parole che costituiscono l’elemento portante della lingua di ciascuno di noi. Però ci sono parole che vanno oltre, e di cui la scuola in particolare deve farsi carico. Quali parole?

 Prima di tutto le parole che indicano la continuità con la nostra grande tradizione scritta. L’esempio che vorrei fare è attinto da Dante, che è un poeta centrale della nostra esperienza linguistica, non solo perché la sua immagine figura sulla moneta da due euro.

In Dante ci sono molte parole che usiamo ma con un significato diverso. Prendere coscienza di questa evoluzione è un buon modo per storicizzare la trasformazione delle lingue che è un dato assolutamente normale. Però è importante, nel caso della tradizione letteraria, mantenere questo senso di continuità.

Faccio due esempi presi dal ventiseiesimo canto del purgatorio; è il canto in cui Dante incontra tra gli spiriti purganti i lussuriosi. Tra i lussuriosi ci sono quelli contro natura e quelli secondo natura; invece i sodomiti erano stati peggio nell’inferno, distinti dai lussuriosi. Ma non mi interessava qui quest’aspetto, quanto la parola “stupido”. Oggi forse è al gradino più basso dei possibili insulti. Stupido è qualcosa da bambino, qualcosa che ci fa quasi tenerezza. Ma in Dante stupido non vuol dire poco intelligente.

Dante dice per descrivere lo stupore che questi purganti provano nel vedere un vivo come Dante, con tanto di ombra che si aggira nell’oltremondo: «Non altrimenti stupido si turba / lo montanaro, e rimirando ammira / quando rozzo il salvatico si inurba». Allo stesso modo il montanaro che arriva nella città, si trova in un ambiente assolutamente ignoto, e si guarda intorno stupefatto, esprimendo questa sua meraviglia.

L’altro esempio tratto dallo stesso canto è quello di “scemo”. Scemo è oggi sullo stesso piano di stupido. Invece in Dante vuol dire ancora “mancante”, “privo”. Esiste oggi un verbo, non comune ma ancora in uso, che è scemare, diminuire, ridurre. Dice infatti Guido Guinizzelli nel ventiseiesimo canto del Purgatorio: «Farotti ben di me volere scemo. Cioè: toglierò il tuo desiderio di sapere chi io sia dicendoti il mio nome. Farotti ben di me volere scemo: / son Guido Guinizzelli; e già mi purgo / per ben dolermi prima ch’a lo stremo». Scemo e stupido, parole comuni, che però in Dante hanno significato diverso. Questa è una buona occasione per riflettere anche sulla lingua, su come cambia nel corso del tempo.

LA NECESSITÀ LINGUISTICA 

Tenere conto della continuità con la lingua del passato ma tenere conto anche della consapevolezza di capire la lingua di oggi a livello appena colto. Quale è il livello appena colto a cui faccio riferimento? Quello dei giornali. Per darvi l’idea di quello che dico, ho ritagliato un articolo del Corriere della sera di oggi ed è un articolo che tutti, credo, anche un ragazzo delle medie, non dico delle elementari, potrebbe leggere. È un articolo sulla Tav: riporta le dichiarazioni del ministro Toninelli, con il titolo «“Valuteremo se fermare la Tav”. Timori senza fondamento». Ora mi soffermo su tre, quattro parole, parole molto comuni. Ma mi chiedo – avendo insegnato per tanto tempo, e avendo anche avuto anche rapporti molto frequenti con il mondo della scuola, con il mondo degli insegnanti – quanti ragazzini saprebbero capire le parole su cui mi soffermo.

«Basta con le grandi opere infrastrutturali, mastodontiche, dispendiose». Infrastruttura è una parola importante in economia. Ed è una parola che non si ricava da gran parte delle letture che si fanno a scuola, perché non capita che gli autori letti a scuola parlino di infrastruttura o infrastrutturale, che sono parole la cui attestazioni risale a non più di cinquanta o sessant’anni fa. Però la parola infrastruttura è importante per indicare tutta una serie di interventi che si fanno sul piano dei trasporti, dell’edilizia, delle fognature. Non conoscerla vuol dire partire male nella lettura di un articolo come questo abbastanza banale.

Andando oltre troviamo il verbo recedere: «Gli eventuali costi di tutte le alternative compresa quella di recedere dalla prosecuzione dell’opera». Recedere è un bel verbo, che ci permette, ove avessimo mai una minima, davvero minima competenza in latino, quella che si può avere anche solo nel bienno del linguistico di scienze sociali, o a maggior ragione nel liceo scientifico o nel liceo classico, di fare un’osservazione che ci permette di collegare recedere a una famiglia lessicale che è ben viva anche in italiano. L’unica informazione in più che darei è che recedere, verbo già latino formato da cedo, indicava un movimento.

 Il significato fondamentale è quello di andare. Poi, forse anche per un meccanismo eufemistico, già in latino cedere è passato dal significato di andare a quello di ritirarsi; le sconfitte, i ripiegamenti di un esercito in conflitto sono in generale sempre velati perché considerati una sconfitta che è difficile ammettere.

Altri due esempi: «tra gli annunci figura l’arrivo del nuovo codice degli appalti». Figura è un sinonimo più ricercato ma non particolarmente arduo, di quello che noi parlando abitualmente, parlando in maniche di camicia, diremmo c’è. Figura è una possibilità tipica della lingua scritta che ha un lessico più ricercato, più articolato. L’altro elemento non è lessicale ma morfologico, cioè bensì.

Leggo il brano: «Su Alitalia, per esempio, l’indicazione è che non vada semplicemente salvata, bensì rilanciata nell’ambito…». Tutti i parlanti italiani sanno o intuiscono che non si potrebbe dire qui però. Ed è interessante riflettere sulla differenza tra bensì e però. Perché bensì sostituisce, cancella la affermazione fatta in precedenza – «Non siamo nel quarto municipio, bensì nel terzo». Potrei dire anche ma naturalmente. Non potrei dire però, non avrebbe senso, ci sarebbe una violazione logica; perché però lascia sussistere, modificandolo, attenuandolo, ciò che viene detto prima.

Questa riflessione serve a prendere coscienza di un uso che già noi abbiamo. Permettetemi di fare un passo indietro, di ritornare solo per un momento alla cittadinanza e alla Costituzione. Ci sono degli articoli della Costituzione, che tutti quanti applichiamo perché abbiamo interiorizzato ma che non sapremmo riconoscere nella loro formulazione. Facciamo un esempio: l’articolo 3, quello da cui sono partito, Tutti sono uguali.

Non c’è alcun dubbio che è una realtà che tutti noi diamo per assolutamente scontata nella concretezza dei rapporti anche famigliari, insomma non c’è nessun padre che penserebbe di lasciare i suoi averi in una misura diversa ai figli perché uno è maschio e l’altro è femmina; è impensabile.

Però se voi uscite di qui e andate a chiedere a Viale Jonio o a via Scarpànto e chiedete alla prima persona che incontrate che cosa dice l’articolo 3, vedrete che i casi sono tre: c’è una minoranza che risponde, una maggioranza che vi guarda come mezzi pazzi e pensa che vogliate chiedergli soldi, e un altro gruppo che non lo sa.

L’articolo non si sa, ma il concetto è presente. E così anche il rapporto tra ma, però e bensì. Ed è una occasione di riflessione perché nella scuola c’è anche una giusta competenza da sviluppare, una competenza come si dice metalinguistica.

LA CITTADINANZA DELLA LINGUA

Terzo punto sul quale vorrei fare qualche considerazione è la padronanza della lingua da assicurare ai cittadini stranieri. Questa è una condizione fondamentale per quanto riguarda l’integrazione; ci sono altre condizioni che rappresenterebbero se fossero richieste una violenza. Non potremmo chiedere a nessuno di abdicare alla propria religione. Ma neanche di rinunciare alla sua cucina regionale, alla sua cucina etnica.

Tra i vari problemi di convivenza, che sono problemi tra gruppi etnici diversi, c’è il fatto che in alcune cucine si sentono odori che sono sgraditi alla nostra tradizione; non potremmo però dire: tu sei venuto in Italia e devi mangiare spaghetti e non i vari piatti.

Possiamo invece chiedere due cose, o aspettarci due cose: la prima è la padronanza della lingua che in genere gli stranieri sono ben disposti a imparare perché è il modo di comunicare con la realtà che li circonda.

Tuttavia, si dovrebbe fare molto di più da parte dello Stato, perché è nell’interesse dello Stato garantire questo livello di integrazione. E naturalmente, l’altro livello che noi possiamo aspettarci – e lo dico proprio richiamandomi al concetto da cui sono partito, la Costituzione – è il rispetto dei principi generali.

Non possiamo abdicare al principio che per noi è fondante dell’uguaglianza, non possiamo ammettere che ci possano essere differenze tra uomo e donna. Colui che viene nel nostro paese, nel nostro sistema, deve rispecchiarsi in questi valori.

Quindi non si tratta di chiedere conoscenze storiche come in altri paesi è avvenuto; mi risulta anche in Svizzera, per esempio; immaginate se facessimo domande di storia patria quanti sono i cittadini italianissimi che non saprebbero rispondere. Chiediamo invece la competenza linguistica, che procederà attraverso richieste diverse rispetto a quelle a cui alludevo prima. Sono importanti, come sanno coloro che insegnano l’italiano elementare, le formule che si usano nella lingua di tutti i giorni, e che rappresentano delle formule con una forte caratura idiomatica.

La lingua madre – lo ha osservato una scienziata milanese, l’immunologa Maria Luisa Villa – ha un potere straordinario: «La lingua materna ha una superiore capacità di dare corpo ai pensieri e di trasformarle in parole chiare, perché nel corso dell’acquisizione infantile essa plasma in modo le strutture della mia mente». Questa osservazione di Maria Luisa Villa è stata fatta in un suo brillante opuscolo sul principio che l’inglese non basta. Come sapete, nella scienza e non solo nella scienza l’inglese domina senza rivale.

Però, sottolineava la Villa, questo non può essere un buon motivo per abbandonare la lingua materna proprio per la sua capacità di modellare il pensiero, come avviene nell’acquisizione che in modo straordinario – se lo guardiamo dall’esterno – qualunque bambino in qualunque parte del mondo riesce a compiere impadronendosi di una lingua complessa.

E l’osservazione ingenua che qualunque adulto è tentato di fare è di meravigliarsi che bambini cinesi o svedesi possano padroneggiare delle lingue così difficili; naturalmente nessun adulto la fa un’osservazione di questo tipo. Vero è però che proprio in base alla distanza tipologica tra italiano e cinese, e appena un po’ meno tra italiano e svedese, la difficoltà di apprendere questa lingua da adulto è molto maggiore.

Ma questo solo per ricordare che il compito di diffondere l’italiano agli stranieri è compito nostro in generale come società, ed è veramente questo sì un modo per difendere o per proteggere l’italiano, quello di moltiplicarne il più possibile l’uso nei confronti di persone che per contingenze di vita si trovano anche particolarmente esposte a questa esigenza e sono tendenzialmente pronte ad accettarlo. 

LUCA SERIANNI, Linguista

Gian Antonio Stella per il "Corriere della Sera" l'8 febbraio 2022

«Silvi, rimembri ancora / quel tempo della tua vita mortale, / quando beltà splendea / negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi, / e tu, liet e pensos , il limitare / di gioventú salivi?». Direte: che roba? Giacomo Leopardi politically correct: amava Silvia, Silvio o un neutro «non binario»? E l'università, tra le proteste, si adegua. Sia chiaro: aggiustata a modo suo la stupenda poesia leopardiana, il linguista Massimo Arcangeli scommette che lo stesso recanatese capirebbe la provocazione e metterebbe la sua firma in calce all'appello contro l'abuso dello (della?) «schwa» che, pubblicato online sabato da change.org, ha già superato le seimila adesioni e sale rapidamente sempre più su, su, su Con l'arrivo via via di firme quali quelle di Luca Serianni ed Edith Bruck, Alessandro Barbero e Massimo Cacciari, Paolo Flores d'Arcais e tantissimi scrittori, storici, artisti e letterati con in testa Claudio Marazzini, il presidente dell'Accademia della Crusca.

L'istituzione che già mesi fa intervenne in modo molto duro contro l'introduzione dell'«e» capovolto, appunto lo schwa cocciutamente voluto dai promotori «per rendere la lingua italiana più inclusiva e meno legata al predominio maschilista». Esempi? Ecco tre estratti col copia-incolla di sei verbali «redatti da una Commissione per l'abilitazione scientifica nazionale» alle funzioni di professore universitario. «Sono presenti i Professor3...», dove il «3» (in gergo «schwa lungo») sta per professori maschi, femmine e non binari. Oppure: «Ciascun component della Commissione dichiara di non avere relazioni di parentela e/o di affinità, entro il 4° grado incluso, con gli altr3 Commissar3...»

E ancora: «La consultazione da parte dell3 Commissar3 delle pubblicazioni dell3 candidat3 soggette a copyright avverrà nel rispetto della normativa vigente» Al che ti chiedi, al di là dell'ennesimo contorsionismo buro- linguistico di queste regolette che decine di concorsi taroccati dimostrano essere forse formalmente ineccepibili ma troppo spesso manovrabili da inamidati baroni: e gli articoli? «Gli» altr3 Commissar3?«Dell3 candidat3 soggette»? Mascoli asessuati i primi, femmine asessuate le seconde? Ma che modo è di scrivere? C'è poi da stupirsi se troppe procedure concorsuali vengono impugnate per la loro non innocente ambiguità?

La Verità di Maurizio Belpietro tira direttamente in ballo la stessa ministra dell'Università e della Ricerca Maria Cristina Messa, accusandola di aver deciso di «piegarsi all'uso dello schwa in documenti ufficiali come le delibere con gli esiti delle selezioni del personale». Per carità, la colpa non sarà tutta sua ma non danno fastidio anche a lei certe ipocrisie che coprono con un velo storici bullismi baronali arrivati perfino dentro alcuni degli atenei più prestigiosi?

«Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l'italiano a suon di schwa», dice la petizione di protesta lanciata da Arcangeli, «I promotori dell'ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l'uso della "e rovesciata" non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche». 

Peggio: «I fautori dello schwa, proposta di una minoranza che pretende di imporre la sua legge a un'intera comunità di parlanti e di scriventi, esortano a sostituire i pronomi personali "lui" e "lei" con "l i", e sostengono che le forme inclusive di "direttore" o "pittore, "autore" o "lettore" debbano essere "direttor " e "pittor ", autor " e "lettor ", sancendo di fatto la morte di "direttrice" e "pittrice", "autrice" e "lettrice". Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili».

Il tutto per un «perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Con derive come il possibile orientamento verso un neutro omni-benedicente che sostituirebbe «cari tutti, care tutte, car tutt » con la «u» di «Caru tuttu» che richiamerebbe gli strepitosi sketch di Aldo Giovanni e Giacomo dove «Nico il sardo» aveva «nove fratelli e nove cognati che si chiamavano Parrego, Nagasella, Parasanna, Apinno, Gusunilla, Parassinna, Cassacarragnu».

Sinceramente: è su queste cose che si misura il rispetto delle regole, il rispetto dei candidati, il rispetto delle persone che non si riconoscono nell'uno o nell'altro sesso? Mah... Dice la scrittrice Michela Murgia di aver infilato nel suo ultimo libro ( Morgana. L'uomo ricco sono io scritto insieme con Chiara Tagliaferri) un sacco di schwa perché «all'interno di un sistema sessista come il nostro lo schwa è un inciampo necessario dell'occhio.

Sta al sessismo del linguaggio come il vaccino sta al Covid: non cancella la presenza del virus, non è la cura definitiva, ma una modalità per attivare anticorpi». Opinioni. Certo è che l'innovazione, finora, non è piaciuta a un po' tutti i linguisti a partire da Luca Serianni che ha inserito nel nuovo dizionario Devoto-Oli oltre 500 parole nuove (da covidico a climaticida) ma ha spiegato a Simonetta Fiori di voler restare alla larga da asterischi e schwa: «I segni grafici di cui parliamo non hanno un corrispettivo nel parlato. E qualunque lingua è in primo luogo una lingua parlata. Lo schwa che resa può avere? Nessuna».

Men che meno è piaciuta al presidente onorario della Crusca Francesco Sabatini: «So bene perché vogliono introdurlo, quel neutro, ma in italiano non c'è. C'è in abruzzese, se vogliono. Noi il fuoco lo chiamiamo, se proprio vogliamo azzardare qualcosa che foneticamente gli assomiglia "fogh&". È quel suono alla francese che non è né la "e" chiusa , né la "e" aperta, né la o, né la u, né la a... Ma qui si vuole imporre un'altra cosa. Un rovesciamento della lingua creato artificialmente, dall'alto, per motivazioni estranee. Dovremmo rivedere Dante, Petrarca, Leopardi e tutti gli altri? E la poesia, cosa sarebbe della poesia?».

·         È morta la cantante Shonka Dukureh.

È morta la cantante Shonka Dukureh, nel film 'Elvis' era Big Mama Thornton. La Repubblica il 22 Luglio 2022.

Aveva 44 anni. Trovata esanime da uno dei suoi figli, l'autopsia rivelerà le ragioni del decesso

La cantante e attrice americana Shonka Dukureh è stata trovata morta nella sua casa di Nashville, Tennesse. La donna, 44 anni, non dava segni di vita al mattino e uno dei due figli con cui viveva è andato a chiamare un vicino, non ci sono segni di violenza e solo l'autopsia potrà determinare la causa del decesso.

'Elvis', a Cannes e in sala il 22 giugno il biopic di Baz Luhrmann

Shonka Dukureh, dopo una lunga gavetta che l'aveva portata a cantare con Jamie Lidell e the Royal Pharaohs, Nick Cave, Mike Farris, Pete Rock, Smoke Dza e Bahamas, quest'anno aveva avuto il suo momento di gloria grazie al film Elvis di Baz Luhrmann dedicato al re del rock and roll in cui interpreta ruolo di Willie Mae "Big Mama" Thornton, iconica cantautrice R&B, la prima a registrare Hound Dog di Jerry Leiber e Mike Stoller nel 1952, che sarebbe poi diventato anche più famoso nella versione di Elvis Presley. Elvis è stato il primo ruolo importante in un film di Dukureh e la sua voce è presente nella colonna sonora del film nella sua esibizione di Hound Dog.

·         È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.

È morto Uwe Seeler, leggenda del calcio tedesco. Tra i protagonisti di Italia-Germania 4-3 a Messico 70.  Luigi Panella su La Repubblica il 21 Luglio 2022.

Aveva 85 anni, è stato uno dei più grandi cannonieri del calcio. Disputò 4 edizioni della Coppa Rimet e segnò anche nella partita del secolo. A livello di club, ha legato il suo nome all'Amburgo

Per ricordare Uwe Seeler, scomparso all'età di 85 anni, sarebbe fin troppo parlare di quello stacco aereo, imperioso per un uomo dal fisico non certo scultoreo e non particolarmente alto del 17 giugno del 1970. Seeler fa la torre per Gerd Muller, che devia a due passi dal palo difeso - male - da Gianni Rivera. È il penultimo capitolo di ItaliaGermaniaquattroatre, che precede di poco l'acuto finale dello stesso Rivera nella partita più romanzesca e romanzata della storia del calcio.

Partiamo invece da un episodio meno conosciuto, accaduto al tramonto degli anni Settanta. Seeler non gioca più da sei anni e si gode la gloria accumulata in una carriera infinita nella sua Amburgo. Gli irlandesi del Cork lo chiamano per giocare una partita, una di quelle dove la gente va a vedere i vecchi campioni per applaudirne il passato più che il presente. Ci si mette di mezzo l'Adidas, contrattino e via in Irlanda. Esibizione? Sì, forse, anzi no. Una volta arrivato Seeler si trova di fronte a gente nel pieno del vigore agonistico e viene gettato nella mischia in una gara di campionato contro lo Shamrock Rovers.Risultato: il Cork perde 6-2, ma quei due gol li fa proprio Seeler, uno in rovesciata (!).

Gol e Seeler, un connubio inscindibile. Sin da quando nel 1946 entra a 10 anni nei ragazzini dell'Amburgo, società che non lascerà mai (vi chiuderà la carriera nel 1972 dopo 581 gare complessive e 492 reti). Un senso di appartenenza riconosciuto anche dai tifosi dell'Hsv, che ormai da parecchi anni lontani dai fasti del passato (la squadra milita in Zweite), si sono sempre riconosciuti in lui chiamandolo 'Uns Uwe', il 'il nostro Uwe'. Anche la nazionale non tarda ad accorgersi di lui. Fa parte di quella generazione sucessiva al trionfo mondiale del 1954, prendendo il posto di un mito come Ottmar Walter. È il più giovane giocatore ad esordire con la nazionale della Germania Ovest, partecipa a 4 mondiali ed è il primo toccare quota venti presenze nelle fasi finali (alla fine le gare giocate saranno 21). È anche il primo a segnare in 4 edizioni diverse della Coppa Rimet: gol al Marocco al minuto 56, battendo di 3 Pelè, che fa gol al 59' alla Cecoslovacchia. La tradizione di famiglia la sta portando avanti in Bundesliga suo nipote, Levin Oztunali, attualmente in forza all'Union Berlino. Quando giocava nelle giovanili dell'Amburgo i tifosi non gradirono la cessione del ragazzo. Speravano che magari quel Dna così illustre un giorno avrebbe risollevato le sorti del club. Ma in fondo è giusto così. 'Uns Uwe', 'il nostro Uwe'. Ad Amburgo ce ne sarà sempre uno solo.

IL LUTTO. È morto Uwe Seeler, leggenda del calcio tedesco. Aveva rifiutato l’Inter. Il Domani il 21 luglio 2022

Fra i protagonisti dei mondiali del 1966 e del 1970 con la Germania dell’ovest, è stato la bandiera dell’Amburgo e uno dei calciatori tedeschi più forti del suo tempo

Era un’icona del calcio del passato, cresciuto in un’epoca in cui vestire la maglia della Germania (dell’ovest) aveva un significato che superava i confini dello sport. Soprattutto quando si arriva a un passo dalla vittoria di un mondiale, nel 1966, in casa dell’Inghilterra. Uwe Seeler, capitano onorario della nazionale tedesca, è morto a 85 anni giovedì. Lo ha confermato l’Amburgo, la squadra di cui era stato la bandiera.

Oggi in Italia forse in pochi lo ricordano, almeno fra i più giovani (in Germania invece è ancora famosissimo). Ma fra la metà degli anni Cinquanta e gli anni Settanta, Uwe Seeler era conosciuto come uno dei migliori attaccanti al mondo. Complessivamente, tra club e nazionale ha segnato 550 gol in 664 incontri ufficiali, con una media di 0,83 reti a partita.

È STATO VOTATO PER TRE VOLTE CALCIATORE DELL’ANNO NELLA GERMANIA DELL’OVEST, NEL 1960, 1964 E 1970. LO STESSO ANNO È STATO INSIGNITO DELLA CROCE AL MERITO FEDERALE. NEL 1960 HA VINTO IL CAMPIONATO DI CALCIO TEDESCO CON L’AMBURGO, TRE ANNI PRIMA DELLA NASCITA UFFICIALE DELLA BUNDESLIGA, COSÌ COME UN TITOLO DI COPPA DI GERMANIA NEL 1963.

Ma era soprattutto conosciuto per essere un campione del fairplay, soprannominato “uns Uwe” (il nostro Uwe). Nel 1961 avrebbe potuto trasferirsi in Italia, lo aveva corteggiato l’Inter con un’offerta molto allettante. Ha preferito restare all’Amburgo, ininterrottamente dal 1954 al 1972.

Il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, ha definito Seeler un “modello” e ha detto che la Germania piange la sua perdita. Su Twitter ha scritto che «non ci ha lasciati solo un grande calciatore, ma anche un grande uomo». 

·         E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.

E' morto Luciano Nizzola: è stato presidente di Figc e Lega. Il calcio italiano perde uno dei dirigenti storici. Aveva 89 anni ed era malato da tempo. La Repubblica il 20 Luglio 2022.

È morto Luciano Nizzola. Aveva 89 anni ed era malato da tempo, con lui il calcio italiano perde uno dei suoi grandi dirigenti. Nato a Saluzzo, avvocato ma con la grande passione per il calcio. Amministratore delegato del Torino tra il 1982 e il 1987, Nizzola fu poi eletto alla guida della Lega Nazionale Professionisti, incarico che ricoprì fino al 1996. Un'epoca di grandi trasformazioni per il calcio italiano, con la novità delle pay-tv nel mercato dei diritti televisivi. Nel dicembre del 1996 venne poi eletto alla guida della Federcalcio, dove rimase "soltanto" per un quadriennio olimpico, e fu anche membro della Giunta nazionale del Coni. Un periodo comunque positivo per la nazionale italiana: Nizzola scelse prima Cesare Maldini per guidare la nazionale ai Mondiali di Francia 1998, sconfitta soltanto dalla squadra di casa, poi campione, ai calci di rigore, e poi optò per Dino Zoff, che nel 2000 arrivò ad un passo dal successo agli Europei, beffato ancora una volta dalla Francia in una finale che sembrava già vinta dagli azzurri.

La Lega: Con lui uno dei migliori periodi

La Lega Serie A, esprimendo il proprio cordoglio, sottolinea che "sotto la sua gestione il calcio italiano ha vissuto uno dei suoi periodi migliori, in Europa e nel mondo".

"Tutta la Lega Serie A esprime le più sentite condoglianze ai famigliari, unendosi al loro dolore per la sua scomparsa".

Gravina: "Un galantuomo, ha segnato un'epoca"

"Il mondo del calcio saluta un dirigente galantuomo - dichiara il presidente della FIGC Gabriele Gravina - il suo spirito di servizio e la sua disponibilità hanno segnato un'epoca. Nei diversi ruoli che ha ricoperto, si è distinto anche per l'impulso deciso che in quegli anni è stato impresso al nostro sistema".