Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
NOTA BENE
NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB
SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA
NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE
NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO
LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:
accredito/bonifico al conto BancoPosta intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA IBAN: IT15A0760115800000092096221 (CIN IT15A - ABI 07601 - CAB 15800 - c/c n. 000092096221)
versamento in bollettino postale sul c.c. n. 92096221. intestato a: ANTONIO GIANGRANDE, VIA MANZONI, 51, 74020 AVETRANA TA
SCEGLI IL LIBRO
PRESENTAZIONE SU
GOOGLE LIBRI
presidente@controtuttelemafie.it
Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)
3289163996
0999708396
INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA - TELEWEBITALIA
FACEBOOK:
(personale)
ANTONIO GIANGRANDE
(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -
ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI
(pagine) GIANGRANDE LIBRI
WEB TV:
TELE WEB ITALIA
NEWS:
RASSEGNA STAMPA -
CONTROVOCE -
NOTIZIE VERE DAL POPOLO -
NOTIZIE SENZA CENSURA
L’ITALIA ALLO SPECCHIO
IL DNA DEGLI ITALIANI
ANNO 2022
LA SOCIETA’
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
LA SOCIETA’
INDICE PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
Le profezie per il 2022.
I festeggiamenti di capodanno.
Il palindromo.
Il Primo Maggio.
Il Ferragosto.
73 anni dalla tragedia di Superga.
65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.
60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.
52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
51 anni dalla morte di Louis Armstrong.
50 anni dalla morte di Dino Buzzati.
49 anni dalla morte di Bruce Lee.
49 anni dalla morte di Anna Magnani.
45 anni dalla morte di Elvis Presley.
43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.
42 anni dalla morte di Steve McQueen.
40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.
40 anni dalla morte di Marty Feldman.
40 anni dalla morte di John Belushi.
40 anni dalla morte di Beppe Viola.
37 anni dalla morte di Francesca Bertini.
34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.
33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.
33 anni dalla morte di Olga Villi.
32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
31 anni dalla morte di Miles Davis.
30 anni dalla morte di Marisa Mell.
29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.
28 anni dalla morte di Moana Pozzi.
28 anni dalla morte di Kurt Cobain.
28 anni dalla morte di Massimo Troisi.
27 anni dalla morte di Mia Martini.
25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.
25 anni dalla morte di Gianni Versace.
25 anni dalla morte di Ivan Graziani.
24 anni dalla morte di Patrick de Gayardon.
24 anni dalla morte di Frank Sinatra.
23 anni dalla morte di Fabrizio De Andrè.
22 anni dalla morte di Antonio Russo.
22 anni dalla morte di Vittorio Gassman.
20 anni dalla morte di Layne Staley.
20 anni dalla morte di Alex Baroni.
20 anni dalla morte di Umberto Bindi.
20 anni dalla morte di Carmelo Bene.
19 anni dalla morte di Alberto Sordi.
19 anni dalla morte di Giorgio Gaber.
18 anni dalla morte di Ray Charles.
16 anni dalla morte di Alida Valli.
15 anni dalla morte di Ingmar Bergman.
15 anni dalla morte di Luciano Pavarotti.
14 anni dalla morte di Paul Newman.
14 anni dalla morte di Dino Risi.
13 anni dalla morte di Mike Bongiorno.
12 anni dalla morte di Raimondo Vianello.
11 anni dalla morte di Elizabeth Taylor.
10 anni dalla morte di Carlo Rambaldi.
10 anni dalla morte di Gianfranco Funari.
10 anni dalla morte di Whitney Houston.
10 anni dalla morte di Lucio Dalla.
10 anni dalla morte di Piermario Morosini.
10 anni dalla morte di Renato Nicolini.
10 anni dalla morte di Riccardo Schicchi.
10 anni dalla morte di Gore Vidal.
9 anni dalla morte di Pietro Mennea.
9 anni dalla morte di Virna Lisi.
9 anni dalla morte di Enzo Jannacci.
8 anni dalla morte di Robin Williams.
7 anni dalla morte di Pino Daniele.
7 anni dalla morte di Francesco Rosi.
6 anni dalla morte di Tommaso Labranca.
6 anni dalla morte di Lou Reed.
6 anni dalla morte di George Michael.
6 anni dalla morte di Prince.
6 anni dalla morte di David Bowie.
6 anni dalla morte di Bud Spencer.
6 anni dalla morte di Marta Marzotto.
5 anni dalla morte di Gianni Boncompagni.
5 anni dalla morte di Paolo Villaggio.
4 anni dalla morte di Anthony Bourdain.
4 anni dalla morte di Sergio Marchionne.
4 anni dalla morte di Luigi Necco.
3 anni dalla morte di Franco Zeffirelli.
3 anni dalla morte di Luciano De Crescenzo.
3 anni dalla morte di Jeffrey Epstein.
3 anni dalla morte di Nadia Toffa.
3 anni dalla morte di Antonello Falqui.
2 anni dalla morte di Ennio Morricone.
2 anni dalla morte di Diego Maradona.
2 anni dalla morte di Roberto Gervaso.
2 anni dalla morte di Gigi Proietti.
2 anni dalla morte di Ezio Bosso.
2 anni dalla morte di Sergio Zavoli.
2 anni dalla morte di Kobe Bryant.
1 anno dalla morte di Lina Wertmüller.
1 anno dalla morte di Max Mosley.
1 anno dalla morte di Gino Strada.
1 anno dalla morte di Raffaella Carrà.
1 anno dalla morte di Ennio Doris.
1 anno dalla morte di Paolo Isotta.
1 anno dalla morte di Franco Battiato.
I Beatles.
Duran Duran.
I Nirvana.
Gli ABBA.
I Queen.
Emerson Lake & Palmer.
I Simpson.
Il Maggiolino.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI? (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Avvocato…
Quelli che se ne vanno…
John Elkann.
Lapo Elkann.
INDICE SECONDA PARTE
I MORTI FAMOSI.
Vivi per sempre.
Le morti del Cazzo…
Il Necrologio.
E’ morto il giornalista Alessio Viola.
È morto il cantante Terry Hall.
E’ morto il regista Mike Hodges.
È morto lo storico Asor Rosa.
E’ morta la fotografa Maya Ruiz-Picasso.
E’ morta l’artista Shirley Ann Shepherd.
E’ morta la cantante Terry Hall.
E’ morto il produttore Alex Ponti.
Addio all’attore Lando Buzzanca.
E’ morto il giornalista Mario Sconcerti.
È morto il fotografo Carlo Riccardi.
È morto il compositore Angelo Badalamenti.
È morto il cantante Ichiro Mizuki.
È morto Romero Salgari.
E’ morto il cineasta Franco Gaudenzi.
Morto l’attore Gary Friedkin.
E’ morta l’attrice Kirstie Alley.
Morto lo scrittore Dominique Lapierre.
E’ morto il pilota Patrick Tambay.
E’ morto il sarto Cesare Attolini.
E’ morta l’attrice Mylene Demongeot.
E’ morto l’ideatore di «Forum» Italo Felici.
E’ morto l’attore Brad William Henke.
E’ morto l’attore Frank Vallelonga.
È morto il politico Gerardo Bianco.
È morta la tastierista e vocalist Christine McVie.
È morto l'architetto e designer Pierluigi Cerri.
E’ morto il poeta Hans Magnus Enzensberger.
E’ morta la cantante e attrice Irene Cara.
Addio allo stilista Renato Balestra.
Addio al sarto Cesare Attolini.
Morto l’attore Mickey Kuhn.
È morta la rivoluzionaria Hebe de Bonafini.
E’ morto il cantautore Pablo Milanés.
E’ morta l’attrice Nicki Aycox.
Morto il filosofo Fulvio Papi.
E’ morto il regista Jean-Marie Straub.
E' morto il giornalista Gianni Bisiach.
E’ morto il cantante anni Nico Fidenco.
E’ morta Nonna Rosetta di Casa Surace.
E’ morto l’industriale delle giostre Alberto Zamperla.
E’ morta la scienziata Alma Dal Co.
Addio all’industriale Vallarino Gancia.
È morto il musicista Keith Leven.
Morto il manager Luca Panerai.
E’ morto a 78 anni l’industriale Giuseppe Bono.
E’ morta la musicista Mimi Parker.
È morto il musicista Carmelo La Bionda.
È morto il musicista Aaron Carter.
E' morto il musicista Fabrizio Sciannameo.
E’ morto il batterista Marino Rebeschini.
Morto il manager Franco Tatò.
Morto il manager Mauro Forghieri.
È morta la scrittrice Julie Powell.
È morto lo stuntman Holer Togni.
È morto il senatore Domenico Contestabile.
E’ morto il cantante Jerry Lee Lewis.
E’ morto il p.r. Angelo Nizzo.
E’ morto il figlio di Guttuso, Fabio Carapezza.
Morto il critico Marco Vallora.
Addio al critico Franco Fayenz.
E’ morto il DJ Mighty Mouse, vero nome Matthew Ward.
E’ morto il principe Sforza Marescotto Ruspoli, detto Lillio.
Addio all’attore Ron Masak.
E’ morto il cantante Franco Gatti.
E’ morto il cantante Mikaben”, al secolo Michael Benjamin.
È morta la cantante Christina Moser.
E' morto l'attore Robbie Coltrane.
E’ morta Jessica Fletcher.
E’ morto il filosofo Bruno Latour.
E’ morta la cantante Jody Miller.
E’ morta la stilista Franca Fendi.
E’ morto il fotografo Douglas Kirkland.
E’ morto l’industriale Armando Cimolai
E’ morta l’attivista Piccola Piuma, nata Marie Louise Cruz.
Morto lo storico Paul Veyne.
E’ morta la scrittrice Rosetta Loy.
Morto il regista Franco Dragone.
E’ morto il noto wrestler e politico, all'anagrafe Kanji Inoki, Antonio Inoki.
Morto lo scrittore Jim Nisbet.
È morto il rapper Coolio.
Morto l’ex calciatore ed allenatore Bruno Bolchi.
Morto il comico Bruno Arena.
E’ morto il giornalista Gabriello Montemagno.
E’ morta l’attrice Anna Gael.
E’ morta l’attrice Lydia Alfonsi.
E’ morta l’attrice Kitten Natividad.
È morta la scrittrice Hilary Mantel.
È morta l’attrice Louise Fletcher.
E’ morto il tronista Manuel Vallicella.
E’ morto l’attore Henry Silva.
È morto il playboy Beppe Piroddi.
Morto l’attore Jack Ging.
È morta l’attrice Irene Papas.
E’ morto l’industriale Andrea Riello.
E’ morto il regista Jean-Luc Godard.
Morto il regista Alain Tanner.
Addio al giornalista Piero Pirovano.
E' morto il fotografo William Klein.
È morto lo scrittore Javier Marias.
E’ morto il giornalista Roberto Renga.
Morto il latinista Franco Serpa.
E’ morto l’attore Claudio Gaetani.
È morto il regista Just Jaeckin.
Morta la poetessa Mariella Mehr.
Morto lo scrittore Oddone Camerana.
E’ morto l’opinionista Cesare Pompilio.
Addio al radioastronomo Frank Drake.
E’ morto il cantante Drummie Zeb.
E’ morto il pittore Gennaro Picinni.
È morta l’attrice Charlbi Dean.
È morto Camilo Guevara.
E’ morto l’ex presidente URSS Mikhail Gorbaciov.
Morto il giornalista Giulio Giustiniani.
L’addio al politico Mauro Petriccione.
E' morto il fotografo Piergiorgio Branzi.
Morta l’attrice Paola Cerimele.
E' morto il fotografo Tim Page.
Morta la scienziata Laura Perini.
È morto l’attore Enzo Garinei.
Addio al magistrato Domenico Carcano.
E' morta la scrittrice e filosofa Vittoria Ronchey.
E’ morto il comico Gino Cogliandro.
È morto il comico Vito Guerra.
È morta la comica Anna Rita Luceri.
È morto l’avvocato Niccolò Ghedini.
E’ morta la stilista Hanae Mori.
È morto il regista Wolfgang Petersen.
E’ morto il pittore Dimitri Vrubel.
È morto lo scrittore Nicholas Evans.
E’ morta l’attrice Robyn Griggs.
E’ Morta l’attrice Carmen Scivittaro.
Addio all’attrice Denise Dowse.
E’ morta l’attrice Rossana Di Lorenzo.
E’ morto il divulgatore scientifico Piero Angela.
E’ morto il disegnatore Jean-Jacques Sempè.
E’ morta l’attrice Anne Heche.
E’ morto il calciatore Claudio Garella.
È morto lo stilista Issey Miyake.
È morto l’attore Roger E. Mosley.
E’ morta l’attrice Olivia Newton-John.
E’ morto il doppiatore Carlo o Carletto Bonomi.
Morto l’attore Alessandro De Santis.
E’ morto l’attore John Steiner.
È morta l’attrice Nichelle Nichols.
E’ morto il giornalista Omar Monestier.
E’ morto l’attore Antonio Casagrande.
E’ morto il cestista Bill Russell.
Morto l’attore Roberto Nobile.
Morto il pittore Enrico Della Torre.
E’ morta la sciatrice Celina Seghi.
E’ morto l’attore porno Mario Bianchi.
E’ morto lo scienziato James Lovelock.
E’ morto lo scrittore Pietro Citati.
E’ morto l’attore David Warner.
È morto l’attore Paul Sorvino.
Morto il regista Bob Rafelson.
E’ morto il vinaiolo Lucio Tasca.
E’ morto il cantante Vittorio De Scalzi.
È morto il linguista Luca Serianni.
È morta la cantante Shonka Dukureh.
È morto l’ex calciatore Uwe Seeler.
E' morto il dirigente calcistico Luciano Nizzola.
INDICE TERZA PARTE
I MORTI FAMOSI.
È morta Ivana Trump.
È morto il giornalista Eugenio Scalfari.
E’ morto il mago Tony Binarelli.
Addio il giornalista Amedeo Ricucci.
E’ morto il compositore Monty Norman.
E’ morto il giornalista Angelo Guglielmi.
E’ morto lo scrittore Vieri Razzini.
E’ morto la comparsa Emanuele Vaccarini.
E’ morto l’attore Tony Sirico.
E’ morto il mangaka Kazuki Takahashi.
È morto l’attore James Caan.
E’ morto il ciclista Arnaldo Pambianco.
E’ morta la fotografa Lisetta Carmi.
E’ morto l’attore Cuneyt Arkin.
È morto il presidente emerito della Corte costituzionale Paolo Grossi.
E’ morto il cantante Antonio Cripezzi.
E’ morto il regista Peter Brook.
E' morta la cantante Irene Fargo.
E’ morto l’attore Joe Turkel.
E’ morto il regista Maurizio Pradeaux.
E' morto l’imprenditore Aldo Balocco.
E’ morto l’imprenditore Marcello Berloni.
E’ morto l’imprenditore Leonardo Del Vecchio.
E’ morto lo scrittore Raffaele La Capria.
E’ morto il musicista James Rado.
E' morto l'architetto Jordi Bonet.
E' morta la poetessa Patrizia Cavalli.
È morto l’attore Jean-Louis Trintignant.
E’ morto l’imprenditore Giuseppe Cairo.
E’ morto lo scrittore Abraham Yehoshua.
È morto l’attore Philip Baker Hall.
È morto il produttore musicale Piero Sugar.
E’ morta la cantante Julee Cruise.
E’ morta la pittrice Paula Rego.
E’ morto l’imprenditore Pietro Barabaschi: quello della Saila Menta.
E’ morto l’imprenditore il giornalista e scrittore Gianni Clerici.
Morto l’allenatore di nuoto Bubi Dennerlein.
E’ morto Roberto Wirth, proprietario di Hotel.
È morto il bassista Alec John Such.
È morta Sophie Freud, la nipote di Sigmund
E’ morto l’attore Roberto Brunetti, per tutti Er Patata.
E’ morta Liliana De Curtis, figlia di Totò.
Morto lo scrittore Joseph Zoderer.
Morto l’antropologo Luigi Lombardi Satriani.
Addio all’attore Franco Ravera.
Morto il partigiano Carlo Smuraglia.
Morto il conte Manfredi della Gherardesca.
E’ morto il fantino Lester Piggott.
E’ morto l’attore Marino Masé.
E’ morto lo scrittore Boris Pahor.
E’ morto il musicista Alan White.
È morto l'attore John Zderko.
E’ morto il musicista Andrew Fletcher.
E’ morto l’attore Ray Liotta.
E’ morto il cardinale Angelo Sodano.
E’ morto l’attore Bo Hopkins.
I MORTI FAMOSI.
È morto Ciriaco De Mita.
E’ morto l'attore e cantante Gennaro Cannavacciuolo.
E’ morto il taverniere Guido Lembo.
Morto il musicista Vangelis Papathanassiou: Vangelis.
E’ morto il campione di pattinaggio Riccardo Passarotto.
E’ morto Valerio Onida, ex presidente della Corte Costituzionale.
È morto l’attore Fred Ward.
E’ morto lo storico girotondino Paul Ginsborg.
E’ morto il musicista Richard Benson.
E’ morto l’attore Mike Hagerty.
E’ morto l’attore Enzo Robutti.
È morto l’attore Lino Capolicchio.
È morto il fotografo Ron Galella.
Addio alla cantante Naomi Judd.
Addio all’attrice Jossara Jinaro.
È morto il procuratore Mino Raiola.
E' morto il politologo Percy Allum.
Morto il sassofonista Andrew Woolfolk.
E’ morta Raffaela Stramandinoli alias Assunta Almirante.
E’ morto l’industriale Antonio Molinari.
È morto il cantante Marco Occhetti.
Morto Paolo Mauri.
È morto l’attore Jacques Perrin.
È morta l'attrice Ludovica Bargellini.
È morto lo scrittore Piergiorgio Bellocchio.
È morto lo scrittore Valerio Evangelisti.
E’ morta l’attrice Catherine Spaak.
E’ morto Cedric McMillan, campione di bodybuilding.
E’ morta la giornalista Giusi Ferré.
È morto a Parigi l’economista Jean-Paul Fitoussi.
E’ morto il calciatore Freddy Rincon.
E’ morto l’attore Michel Bouquet.
E’ morta la fotografa Letizia Battaglia.
È morto l’attore Gilbert Gottfried.
E’ la storica Morta Chiara Frugoni.
E’ morto l’imprenditore della moda Umberto Cucinelli.
E’ morta la campionessa del game show «Reazione a catena Lucia Menghini.
E’ morto il produttore Massimo Cristaldi.
E’ morto l’attore Nehemiah Persoff.
E’ morto l’assistente televisivo Piero Sonaglia.
E’ morto il fotografo Patrick Demarchelier.
È morto Tom Parker.
Addio al giornalista Franco Venturini.
È morto l’attore Lars Bloch.
E’ morto l’attore Gianni Cavina.
E’ morto il batterista Taylor Hawkins.
Morto inventore delle Gif Stephen Wilhite.
E' morto il giornalista Sergio Canciani.
E’ morto il wrestler Scott Hall, alias Razor Ramon.
Morto lo scrittore Gianluca Ferraris.
Morto l’imprenditore Tomaso Bracco.
E' morto l’attore William Hurt.
E’ morto l’ideatore e sceneggiatore Biagio Proietti.
Addio al giornalista Stefano Vespa.
E’ morto il calciatore Giuseppe “Pino” Wilson.
E’ morto l’imprenditore Vito Artioli.
E’ morto Antonio Martino.
Morto l’attore John Stahl.
E’ morta l’attrice e cantante Sally Kellerman.
E’ morto il cantante Gary Brooker.
Addio al cantante Mark Lanegan.
E’ morto l’imprenditore Marino Golinelli.
E’ morta l’ambasciatrice Francesca Tardioli.
E’ morto il calciatore Francisco 'Paco' Gento.
E’ morto il calciatore Hans-Jürgen Dörner.
E’ morto il calciatore Pierluigi Frosio.
Morta l'attrice Lindsey Erin Pearlman.
Morto il pugile Bepi Ros.
Addio al cantante Fausto Cigliano.
Morto il cantante Amedeo Grisi.
E’ morto il doppiatore Tony Fuochi.
E’ morto il produttore, regista, sceneggiatore Ivan Reitman.
E’ morto l’artista John Wesley.
E’ morto il musicista Ian McDonald.
Addio a Betty Davis, la regina del Funk.
E’ morta Donatella Raffai.
E’ morto l’attore Bob Saget.
E’ morto Luc Montagnier.
E’ morto Douglas Trumbull, mago degli effetti speciali.
Morto Giuseppe Ballarini, il re delle pentole.
Morto Luigi De Pedys, l'uomo delle 'luci rosse' del cinema.
Morto Mario Guido, autore di "Lisa dagli occhi blu".
E' morto Guido Crechici, patron delle carte da gioco Modiano di Trieste.
E’ morta Monica Vitti.
È morto l’attore Paolo Graziosi.
E’ morto l’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini.
E' morto Tito Stagno.
E’ morto l’alpinista Corrado Pesce.
E' morto l’attore Renato Cecchetto.
Morto l’autore televisivo Paolo Taggi.
È morto il faccendiere Flavio Carboni.
E’ morto lo stilista Thierry Mugler.
E’ morto il maestro Zen: Thich Nhat Hanh.
Addio all’allenatore Gianni Di Marzio.
Addio al giornalista Sergio Lepri.
E’ morta l’imprenditrice Maria Chiara Gavioli, ex di Allegri.
E’ morto il cantante Meat Loaf.
E’ morto l’attore Hardy Kruger.
E’ morto l’attore Camillo Milli.
E’ morto l’attore Gaspard Ulliel.
E’ morta l’attrice Yvette Mimieux.
E’ morto il giornalista di moda André Leon Talley.
E’ morto lo stilista Nino Cerruti.
E’ morto il regista Jean-Jacques Beineix.
E’ morta la cantante Ronnie Bennet Spector.
È morto David Sassoli, il presidente del Parlamento europeo.
E’ morta Silvia Tortora.
E’ morta Margherita di Savoia.
Addio all’attore comico Bob Saget.
E’ morto Michael Lang.
E’ morto l’attore Mark Forest.
E’ morto lo scrittore Vitaliano Trevisan.
E’ morto il regista Mariano Laurenti.
E’ morta l'attrice, cantante e showgirl Gloria Piedimonte.
E’ morto l’attore Sidney Poitier.
E’ morto il regista Peter Bogdanovich.
E’ morto il regista e produttore Mario Lanfranchi.
È morto lo scrittore e traduttore Gianni Celati.
È morto il giornalista Fulvio Damiani.
INDICE QUINTA PARTE
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le stirpi reali.
Gli scandali dei Windsor.
Vittoria.
Elisabetta.
La morte della Regina.
Filippo.
Carlo.
Camilla.
Andrea.
Anna.
Diana.
William e Kate.
Harry e Meghan.
LA SOCIETA’
PRIMA PARTE
AUSPICI, RICORDI E GLI ANNIVERSARI.
· Le profezie per il 2022.
Nostradamus dei Balcani, terribile profezia: "Tornerà e farà milioni di morti". Libero Quotidiano il 17 agosto 2022
Da qualche giorno sui social sono tornate d'attualità le profezie di Baba Vanga, la sensitiva bulgara che dopo aver perso la vista avrebbe speso la sua vita a profetizzare il futuro. Scomparsa nel 1996, le teorie e le previsioni della sensitiva continuano ad essere di grande attualità soprattutto sui social network. E questa estate di elevata siccità che ha di fatto reso impossibile coltivare la terra sarebbe stata prevista dalla "Nostradamus dei Balcani".
La sensitiva aveva infatti previsto temperature fuori controllo con siccità e una scarsità d’acqua tale da costringere i governi a trovare soluzioni in tempi rapidi a questo problema. Inoltre, sempre la sensitiva, aveva previsto le inondazioni in Australia che si sono verificate qualche tempo fa. Ma a far tremare sono le sue previsioni per la seconda parte del 2022. La sensitiva infatti avrebbe previsto il ritorno di un virus dalla Siberia che potrebbe provocare milioni di vittime.
Un virus "dormiente" e rimasto "congelato" nel passato, potrebbe tornare a causa del riscaldamento globale. Va detto però che secondo alcuni studi l'attendibilità delle sue previsioni sarebbe intorno all'85 per cento. Ad esempio aveva profetizzato una guerra nucleare in Europa tra il 2010 e il 2014, cosa mai avvenuta. E si spera che la sensitiva si sia sbagliata ancora riguardo a questo ritorno di un virus molto pericoloso.
Nostradamus, "la morte di una Reale": la profezia sconvolge il mondo. Sergio De Benedetti Libero Quotidiano l’11 novembre 2022
Mario Gilbert Priester Reading è stato uno scrittore e divulgatore britannico, nato a Bournemouth (Dorset) il 10 agosto 1953 e deceduto a Londra il 29 gennaio 2017. Specializzato nell'interpretazione delle profezie di Nostradamus, il Sunday Times lo scorso 25 settembre ha ripreso alcune affermazioni del Reading riguardo la Regina Elisabetta II, affermando che nel libro "The Complete Prophecies for the Future", edito nel 2006, sarebbe pubblicata una quartina che riguarderebbe proprio il decesso di sua Maestà. Nel libro, un tascabile che praticamente finora era stato acquistato in poche decine di esemplari, Reading non chiarisce quale sia la quartina personalizzata ad Elisabetta II e lascia quindi al lettore il difficile compito di andarla a trovare e "decifrarla".
Già, perché dovete sapere che invece nella settimana 10/17 settembre la pubblicazione è balzata nella classifica dei bestseller con oltre 10mila copie vendute. Le profezie sono scritte dall'astrologo francese in forma esoterica di complicata interpretazione e se ne deduce quindi che gli improvvisati lettori troveranno non poche difficoltà a trovare e "trasformare" la quartina poetica che, più o meno, dovrebbe dire: «La regina Elisabetta II morirà, intorno al 2022, all'età di circa 96 anni». Michel de Nostradame nacque a Saint-Remy-de-Provence il 14 febbraio 1503. Astrologo, scrittore e farmacista, i suoi sostenitori dicono che abbia predetto una serie incredibile di eventi quali, ad esempio, la rivoluzione francese, l'ascesa di Hitler, la bomba atomica e gli attentati alle torri gemelle di New York.
Studente precoce presso l'Università di Avignone nel 1518, studiò latino e greco ma anche matematica, retorica, astronomia e astrologia. Intraprese diversi viaggi per cercare erbe officinali nella speranza di giungere all'elaborazione di un antidoto per debellare la peste. Nel 1529 frequentò l'Università di Montpellier ma venne espulso quando i Docenti seppero delle sue pratiche di speziale, disciplina all'epoca proibita. Tuttavia, nel 1532 venne ufficialmente definito "Dottore" e si dispose ad una "pillola rosa" contro la peste i cui benèfici effetti non sono noti. Sposò lo stesso anno Henriette d'Encausse che gli dette due figli, deceduti purtroppo con la madre nel 1537 proprio a causa del male.
Nel 1547 si stabilì a Salon, Provenza, dove sposò una ricca vedova, Anne Ponsarde, dalla quale ebbe sei figli. Interessato più all'occulto che alla medicina, nel 1550 scrisse un Almanacco annuale e così continuò fino al 1564, sempre scrivendo profezie nel modo accennato ma aggiungendo, per il timore di fanatismi religiosi, parole in varie lingue quali il provenzale, il greco, il latino, l'italiano, l'ebraico, l'arabo e l'occitano. Si disse che in quegli anni avesse elaborato 6.338 profezie. Il suo Segretario, Emìle Chavigny, raccontò che la sera del 1° luglio 1566 augurandogli la buona notte al termine della giornata, si sentì rispondere "addio" e il giorno dopo lo trovò senza vita, ucciso dalla gotta sfociata in idropisia. Quanto alla Regina Elisabetta, profezia o no, riposi in pace poichè miliardi di ammiratori veglieranno sudi lei.
Le profezie di Nostradamus bestseller in Gran Bretagna: "Ha predetto l'anno della morte di Elisabetta". Redazione cultura La Repubblica il 25 Settembre 2022.
In un libro di qualche anno fa lo scrittore inglese Mario Reading interpreta le quartine dell'astrologo francese, inclusa quella sulla data della scomparsa della regina. In pochi giorni è balzato in testa alle classifiche
Tutto quel che riguarda la regina Elisabetta, scomparsa lo scorso 8 settembre, riscuote in questi giorni un enorme interesse popolare. A stupire non solo i tabloid inglesi, ma anche il prestigioso Sunday Times, è però nelle ultime ore un caso editoriale: un libro uscito parecchi anni fa e scritto da Mario Reading, dal titolo Nostradamus: The Complete Prophecies for the Future, del 2006, è infatti in grande ascesa nelle vendite.
Secondo Reading una delle quartine può essere interpretata come “la Regina Elisabetta II morirà, nel 22 circa, all’età di circa 96 anni”. Insomma, l’idea che l’astrologo francese, oltre 450 anni fa, possa aver predetto con tale precisione la scomparsa di "the Queen", ha fatto lievitare le vendite del libro: nella settimana precedente alla morte di Sua Maestà, il libro ha venduto soltanto 5 copie; nella settimana conclusasi il 17 settembre, invece, ne ha vendute circa 8000, entrando nella così nella classifica dei tascabili. Secondo i suoi estimatori, Nostradamus avrebbe predetto il Grande Incendio di Londra, l'ascesa al potere di Hitler e le guerre che hanno colpito l'Europa, incluso l'attuale conflitto in Ucraina. La maggior parte delle previsioni di Nostradamus sono contenute nel suo famoso libro Les Prophéties, che contiene 942 previsioni sotto forma di quartine, ispirate ai testi biblici e sapienziali.
Dopo aver viaggiato il mondo, venduto libri rari e gestito una scuderia di cavalli da polo in Gloucestershire, Mario Reading si è dedicato alla scrittura. Ha scritto sei romanzi, tra cui la trilogia dell'Anticristo che include Il codice Maya, Le profezie perdute e Il terzo Anticristo, titoli pubblicati anche in Italia.
Maya, la profezia sulla fine del mondo nel 2012? Errore di battitura: "Apocalisse nel 2022", ecco quando. Libero Quotidiano il 31 maggio 2022
La fine del mondo potrebbe essere molto più vicina di quanto pensiamo? La profezia dei Maya sulla catastrofe che si sarebbe dovuta abbattere sul pianeta nel 2012 e che poi non c'è stata sarebbe stata sbagliata. Nulla, infatti, è successo quell'anno. Nel frattempo sono trascorsi 10 anni tra pandemie, terremoti e guerre. Ma nessuna fine del mondo. Adesso si parla dell'ipotesi che la profezia si riferisse in realtà al 2022 e non al 2012.
Stando al Messaggero online, infatti, che cita gli ultimi studi sulla storia dell'America Latina antica, a creare un certo caos sarebbe stato un errore di battitura, che ha portato alla confusione tra i due anni, 2012 e 2022. Pare, insomma, che la data prevista dai Maya fosse sbagliata e che quella giusta fosse invece molto più vicina a noi. Nello specifico, l'Apocalisse potrebbe arrivare in un giorno compreso nel periodo che va dal 21 giugno al 31 dicembre 2022.
Ovviamente si tratta di una profezia e come tale va considerata. In questi casi, infatti, non c'è assolutamente nulla di scientifico. C'è chi è affascinato dalle profezie, chi le teme o le ritiene inquietanti, chi semplicemente le trova curiose. In ogni caso, però, non c'è nulla di certo, anche perché la scienza è tutt'altra cosa.
Nostradamus, la profezia per il 2022. Anno drammatico per l'Italia: "Sette volte appreste", che cosa ha previsto. Libero Quotidiano l'11 dicembre 2021. Ha predetto la rivoluzione francese, la bomba atomica, Adolf Hitler e gli attentati dell'11 settembre 2001. Ma cosa ha presagito per il 2022 Nostradamus? L'astrologo francese conosciuto in tutto il mondo per le sue profezie nelle sei quartine che riguardano l'anno che verrà prevede un'invasione di immigrati, la caduta dell'Unione europea, la morte di Kim Jong un e un terremoto terrificane in Giappone. Ma vediamo nel dettaglio. "Di sangue e fame maggiore calamità / Sette volte appreste alla spiaggia marina/ Monech di fame, luogo preso, prigionia", si legge nella prima quartina. Potrebbe significare che le guerre e i conflitti spingeranno migliaia di persone a migrare. In particolare, Nostradamus vuole dire che sulle spiagge d’Europa arriveranno migranti per sette volte di più del normale. E sarà proprio l'Europa a crollare: "I templi sacri del primo stile romano / Rifiuteranno le fondamenta della Dea”. Secondo Nostradamus insomma potrebbe essere la caduta dell'Unione europea. Inoltre potrebbe esserci una sorta di guerra a Parigi che potrebbe subire un assedio: "Tutt’intorno alla grande Città / Saranno i soldati alloggiati dai campi e dalle città". Secondo gli interpreti delle profezie Nostradamus potrebbe aver previsto anche la morte del dittatore nordcoreano Kim-Jong Un: "L’improvvisa morte del primo personaggio / Porterà un cambiamento e potrà porre un altro personaggio nel regno". Insomma, Kim Jong un potrebbe essere vittima di una morte improvvisa ma essere succeduto da una persona della famiglia. Infine l'astrologo avrebbe presagito per il 2022 un disastroso terremoto in Giappone: "Verso la mezza siccità estrema / Nella profondità dell’Asia diranno terremoto". Un evento che potrebbe verificarsi nelle ore centrali della giornata e potrebbe causare molti danni materiali.
Vittorio Sabadin per lastampa.it il 29 dicembre 2021. Non bastava il Covid: a rovinarci il Capodanno arrivano puntuali anche le profezie di Nostradamus. Il 2022 sarà un anno terribile, caratterizzato da inflazione, fame, cannibalismo, inizio della supremazia dei robot sugli esseri umani, crisi economica con il trionfo delle criptovaulte e siccità seguita da devastanti inondazioni. Il veggente francese ha scritto intorno al 1550 le sue profezie in un modo sufficientemente vago e confuso da prestarsi a decine di interpretazioni, ma la sua figura è stata ammantata nel corso dei secoli da tali aloni di mistero da causare la pubblicazione di decine di libri che si sforzano di venire a capo delle sue inquietanti quartine. Ecco dunque che cosa ci riserva il 2022 secondo le anticipazioni del “New York Daily”.
Tutti sono preoccupati dall’inflazione e dai prezzi dei prodotti alimentari, che segnano ogni giorno nuovi record. Nostradamus lo sapeva già: «Così alto il prezzo del grano – scriveva - / Quell'uomo è agitato / I suoi simili da mangiare nella sua disperazione». La fame causerà episodi di cannibalismo? Gli esseri umani, agitati e disperati, mangeranno i loro simili come si era visto nei film horror sulla fine del mondo? Ancora qualche mese di prezzi alti e di raccolti scarsi e lo sapremo.
I robot, in ogni caso, sono pronti a prendere il nostro posto, secondo gli interpreti delle centurie. «La Luna nel pieno della notte sopra l'alta montagna / La vede il nuovo saggio con un cervello solo / Dai suoi discepoli invitati ad essere immortali / Occhi a sud. Mani nel petto, corpi nel fuoco». Il nuovo saggio immortale con un cervello solo è il robot, destinato a regnare sulla Terra come profetizzato anche da Stephen Hawking, l’astrofisico che ci avvertiva che l’intelligenza artificiale avrebbe causato l’estinzione dell’umanità. E gli occhi a sud? Il “Daily” dà una spiegazione confusa come le quartine di Nostradamus, sostenendo che si tratta di un riferimento a Elon Musk, che ha appena spostato a sud del Texas la sua produzione di robot. I nostri corpi, mani nel petto, sembrano invece destinati a perire nel fuoco, forse per una guerra, forse per un’esplosione, forse per gli incendi che devasteranno il pianeta come hanno già fatto con la California.
Il veggente ha infatti previsto anche le sciagure causate dai mutamenti climatici, che peggioreranno nel 2022": «Per 40 anni l'arcobaleno non si vedrà / Per 40 anni lo si vedrà ogni giorno / La terra asciutta diventerà sempre più arida / E ci saranno grandi inondazioni quando lo si vedrà». Sembra di capire che un lungo periodo di siccità della durata di 40 anni sarà seguito da un analogo periodo di piogge bibliche, che causeranno inondazioni più gravi di quelle che abbiamo visto negli ultimi anni.
Nostradamus invita inoltre a fare attenzione al conto in banca e ai propri investimenti, dando l’impressione di conoscere il potenziale delle criptovalute, i rischi determinati dal crescente debito di tutti i paesi occidentali e quelli connessi alla bolla degli indici di Borsa, da tempo pronta a scoppiare. «Le copie d'oro e d'argento gonfiate – scrive - / Che dopo il furto furono gettate nel lago / Alla scoperta che tutto è esaurito e dissipato dal debito / Tutti gli scritti e le obbligazioni saranno spazzati via».
Bisogna crederci? Molti lo fanno, anche se è evidente che queste profezie sono un esempio di chiaroveggenza retroattiva: volendo, vi si può trovare qualche riferimento all’attualità dopo che le cose sono accadute, e non prima. Nostradamus era lo pseudonimo di Michel de Nostredame o Notre Dame, un astrologo e farmacista nato nel dicembre 1503 in Provenza e morto nel 1566 nella stessa regione a sud della Francia.
Si dice scrivesse in modo confuso usando varie lingue per sfuggire alle persecuzioni dell’Inquisizione, che infatti non lo degnò mai di attenzione. Secondo i suoi estimatori avrebbe predetto la rivoluzione francese, l’avvento al potere di Hitler, l’invenzione della bomba atomica e persino gli attentati dell’11 settembre 2001 a New York e Washington. Ma si tratta di interpretazioni.
L’unica volta che Nostradamus ha indicato una data precisa, quando profetizzò per il 1792 una lunga e crudele persecuzione religiosa, si è clamorosamente sbagliato. Speriamo sia così anche questa volta, e che inflazione, scarsità di cibo, inflazione, crisi economica e mutamenti climatici siano solo nostre fantasie.
Oroscopo 2022, le previsioni astrologiche di Barbanera l'astrologo che incantò Gabriele D'Annunzio. Franco Bechis su Il Tempo il 30 dicembre 2021. La lettera portava la data del 27 febbraio del 1934, ed era diretta al parroco di Gardone Riviera, don Giovanni Fava. Sotto la firma di Gabriele D'Annunzio, che si compiaceva dello scandalo che stava per provocare nel sacerdote: “La gente comune pensa che al mio capezzale io abbia l'Odissea o l'Iliade (vi è più profonda poesia nell'Odissea che nell'Illiade), o la Bibbia, o Virgilio, o Flacco, o Dante, o l'Alcyone di Gabriele D'Annunzio. Il libro del mio capezzale è quello ove s'aduna 'il fiore dei tempi e la saggezza delle Nazioni': il Barbanera...”. Era una passione del Vate compulsare il più celebre almanacco astrologico, che gli inviava ogni anno in dono la moglie, Maria Hardouin, duchessa di Gallese (fu l'unica sposa di Gabriele, tradita mille volte, madre dei suoi tre figli, separata ma restata amica e confidente fino all'ultimo giorno).
Al Vittoriale sono conservate le copie annuali del Barbanera, sottolineate e appuntate dal poeta, che con una certa superstizione a quelle previsioni si affidava, anche per decidere la celebre impresa di Fiume. Manca una sola edizione dell'almanacco astrologico, ed è la più importante: quella del 1938, che era aperta sul tavolo di D'Annunzio il giorno della sua morte, accanto al capo del poeta reclinato, fulminato da una emorragia cerebrale. Quell'almanacco sparì nel 1975, quando il Vittoriale fu aperto al pubblico e qualche manina lo trafugò facendone perdere le tracce. Non c'è più quella pagina che turbò molto D'Annunzio, sul cambio di luna di fine febbraio, con la fosca previsione annotata a margine con la matita rossa dal poeta: “Gravissimo lutto per la Nazione con la scomparsa di una grande personalità...”. E lutto fu il primo di marzo, ultimo giorno in Terra del Vate.
Il Barbanera è uno dei più antichi almanacchi italiani, pubblicato a Foligno per la prima volta nel 1762, ed è così caro alla storia italiana perché insieme a vaticini assai più fausti e allegri di quello che sottolineò D'Annunzio, trasmetteva la tradizione e i consigli anche minuti dei padri. Ne sono stati affascinati anche altri importanti scrittori come Umberto Eco e Leonardo Sciascia. I lettori de Il Tempo lo conoscono, perché ne possono leggere le rapide e ficcanti previsioni astrali nell'ultima pagina del giornale, con quel linguaggio diretto che lo rende così alla mano e diverso dagli altri oroscopi. A loro per questo fine anno abbiamo riservato una sorpresa: il 31 nel giornale ci sarà un fascicolo da tenere lì sullo scrittoio o sul comodino per tutto il 2022, con le previsioni astrologiche di Barbanera mese per mese su ogni segno zodiacale. Una allegra compagnia, da leggere con un sorriso e magari anche con un pizzico di speranza che non fa male dopo i due anni che ci siamo lasciati alle spalle.
Posso anticiparvi che le previsioni sono di un anno di svolta, e c'è tutta la convenienza nello sperare che Barbanera ci azzecchi. Sugli scudi soprattutto i nati sotto il segno di Ariete, Pesci e Gemelli, ma c'è chi leggerà gli sperati vaticini nelle questioni di cuore o di lavoro. Avendone scorso le bozze, sembra proprio che l'anno che abbiamo davanti per Barbanera sarà di reale svolta. La sua storia secolare dice che di solito ci azzecca, e quindi incrociamo le dita: ne abbiamo davvero bisogno tutti.
· I festeggiamenti di capodanno.
Marino Niola per “il Venerdì - la Repubblica” il 31 dicembre 2021. Solare o lunare, solstiziale o equinoziale, primaverile o invernale, rumoroso o silenzioso, il Capodanno è sempre Capodanno. E da che mondo è mondo non c'è popolo che non lo festeggi. Gli antichi romani legavano i rituali d'inizio del nuovo anno al dio Giano, in latino Ianus, da cui deriva il nome di gennaio, il primo dei mesi.
I popoli del Nord Europa festeggiavano il giro di boa stagionale mascherandosi da animali per propiziarsi la natura e le sue specie. In quasi tutti i casi, però, in Occidente come in Oriente, gli elementi fissi di questo rito di passaggio stagionale sono da sempre fuoco, luce e rumore. Il baccano rituale serviva a scacciare gli spiriti maligni, a mettere in fuga tutti i demoni cattivi. Da questo uso, peraltro, deriva la parola pandemonio.
I falò e le lampade accese avevano invece la funzione di illuminare il cammino dell'anno che entrava. Poi con l'invenzione della polvere da sparo luci e suoni sono diventati una cosa sola dando origine ai nostri botti di Capodanno. Non è un caso che ancora oggi, nonostante i richiami alla prudenza, la notte di San Silvestro città e paesi si accendano come polveriere.
È una autentica febbre del fuoco che ogni anno miete vittime, tant'è vero che i notiziari del primo gennaio iniziano quasi sempre con l' elenco degli infortuni. Ma ci sono anche capodanni alla rovescia, come quello di Bali, in Indonesia. Che viene celebrato nel silenzio più assoluto. Uno stand by della vita per ingannare le potenze del male facendo credere loro che l' isola sia disabitata. È una giusta pausa dell' anima. Fra due giorni potremmo provarci anche noi. Forse riusciremmo a sentire il suono del silenzio.
Da ilmessaggero.it il 22 febbraio 2022.
Il 22 febbraio 2022 sarà un giorno particolare: è l'ultima data palindroma fino al 2030. La data 22 02 2022 è infatti simmetrica: potrà essere letta specularmente, sia da sinistra a destra che al contrario, senza perdere il suo significato.
Cosa significa "palindromo"
Il termine palindromo viene dall'unione di due parole del greco antico "palin", che significa "indietro", e "dramein", correre. Comunemente indica una sequenza di caratteri che, letta al contrario, rimane invariata. Per esempio, in italiano: "Ai lati d'Italia" o il nome "Anna". Secondo una leggenda l'inventore e il primo virtuoso del genere sarebbe stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d'Egitto nel III secolo.
In letteratura si possono trovare diversi esempi di palindromi: tra gli esempi più famosi si trova sicuramente il verso latino attribuito a Virgilio "in girum imus nocte et consumimur igni", ovvero "andiamo in giro di notte e siamo arsi dal fuoco".
Il 22 febbraio 2022 sarà un giorno particolare: è l'ultima data palindroma fino al 2030. La data 22 02 2022 è infatti simmetrica: potrà essere letta specularmente, sia da sinistra a destra che al contrario, senza perdere il suo significato.
Cosa significa "palindromo"
Il termine palindromo viene dall'unione di due parole del greco antico "palin", che significa "indietro", e "dramein", correre. Comunemente indica una sequenza di caratteri che, letta al contrario, rimane invariata. Per esempio, in italiano: "Ai lati d'Italia" o il nome "Anna". Secondo una leggenda l'inventore e il primo virtuoso del genere sarebbe stato il poeta greco Sotade, vissuto ad Alessandria d'Egitto nel III secolo. In letteratura si possono trovare diversi esempi di palindromi: tra gli esempi più famosi si trova sicuramente il verso latino attribuito a Virgilio "in girum imus nocte et consumimur igni", ovvero "andiamo in giro di notte e siamo arsi dal fuoco".
Curiosità, le altre date palindrome
Si tratta di una particolarità già accaduta altre sei volte in questo secolo, 10-02-2001, 20-02-2002, 01-02-2010, 11-02-2011 e 21-02-2012 e il 02.02.2020. In questo secolo accadrà altre 22 volte: l’ultima sarà il 29-02-2092, un anno bisestile.
La data speciale scelta per "il raduno dei gemelli d'Italia"
Questa data speciale è stata scelta anche per celebrare un evento curioso: ad Altavilla Irpina si terrà il secondo raduno dei "Gemelli d'Italia" (il primo è avvenuto in un'altra data palindroma, il 2 febbraio 2020).
Il raduno è organizzato dal comune di Altavilla Irpinia e prevede dei riconoscimenti speciali per i gemelli più somiglianti. Perchè viene celebrato proprio in questa cittadina? Perchè tradizionalmente circola la leggenda che in città ci sia un numero stranamente alto di parti gemellari, come testimonierebbe anche il culto dei Santi gemelli Cosma e Damiano.
A confermarlo c'è anche uno studio anagrafico condotto dallo storico Giancarlo Mauro che attesterebbe che tra il 1802 ed il 1950 nel paese irpino siano nati 552 gemelli, una media superiore al 2% della popolazione. Tra gli eventi organizzati, l'idea di raccogliere foto per creare una parete con coppie di fratelli uguali da tutto il mondo.
Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.
Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38".
Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.
Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali».
Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».
I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente».
Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.
Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.
La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.
Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.
"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".
Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.
"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".
I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.
Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.
Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022.
Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.
In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.
Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.
Emilio Orlando per leggo.it il 3 maggio 2022.
Musica, ballo e sballo, tra i centocinquantamila spettatori di piazza San Giovanni, a Roma. Lo storico “Concertone” del Primo Maggio trasformato (anche) in uno “spinello party” all’aperto post Covid. Dopo due anni di stop all’evento e divieti anti assembramento, la piazza romana davanti alla basilica è diventata il luogo ideale non solo per ascoltare musica e ballare, ma anche per fare altro.
Infatti, mentre i tecnici audio e gli addetti alla sicurezza del palco lavoravano per ottimizzare la macchina organizzativa del maxi evento, si muoveva intorno alle strade adiacenti il palco una fitta rete di pusher pronti a vendere droga. Così quella che doveva essere la festa della musica e la festa del lavoro è stata anche la pacchia degli spacciatori.
Sei arresti, tredici persone denunciate per spaccio e alcune segnalazioni alla prefettura come consumatori di sostanze stupefacenti: è il bilancio dell’attività dei carabinieri della Capitale per garantire uno degli eventi più attesi, che come sempre porta a Roma migliaia di persone da tutta Italia.
La prefettura ha potenziato i servizi per il controllo dell’ordine pubblico in piazza e predisposto un servizio di pattugliamento a piedi, in auto e moto, anche in borghese. Non solo droghe classiche, come marijuana e hashish, sono state sequestrate, ma anche potenti stupefacenti sintetici e pasticche di barbiturici pronte ad essere assunte da giovanissimi.
Tra gli arrestati e i denunciati per spaccio ci sono ragazzi di età comprese fra i 18 e i 25 anni, provenienti da varie regioni italiane del Centro e del Sud. I detective in borghese hanno sequestrato più di mezz’etto di hashish, quasi tre etti di marijuana, diverse dosi di cocaina e molte pasticche di farmaci a base di benzodiazepina, micidiali per la salute se assunte e mischiate insieme ad alcolici o ad altri tipi di droghe.
In mezzo allo strepitare di chitarre, tastiere e strumenti musicali, tra la folla non sono mancati nemmeno i venditori abusivi di alcolici, che sono stati sanzionati e a cui è stata sequestrata la merce.
La storia delle celebrazioni. Primo Maggio, quando e perché è nata la festa dei lavoratori: “8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 per dormire”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Maggio 2022.
Il Primo Maggio ricorre la festa dei lavoratori in quasi tutti i paesi del Mondo. Ma perché proprio in questa data? Come è nata l’idea di celebrare tutti i lavoratori? La storia di questa festività inizia nel 1867 negli Usa, precisamente a Chicago. Ma la prima nazione a ufficializzare la ricorrenza fu la Francia. Era il 20 luglio 1889 quando durante il congresso della Seconda Internazionale, riunito nella capitale francese, venne indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.
“Otto ore di lavoro, otto di svago e 8 per dormire”. Era questo lo slogan dei lavoratori, nato in Australia, ma che a fine ‘800 si diffuse in tutto il mondo. Inizia tutto negli Usa, a Chicago, il 1° maggio 1886. Una data che resta scolpita nel diritto dei lavoratori. Quel giorno, infatti, viene approvata la legge per il tetto delle otto ore lavorative nella giornata, secondo il principio dei “tre otto”. Fino ad allora le persone lavoravano anche fino a sedici ore al giorno, spesso in pessime condizioni e rischiando la vita.
L’episodio che ha dato origine a tutto è noto come Haymarket Affair. Nei primi giorni di maggio del 1886 negli Stati Uniti fu organizzato uno sciopero generale, definito dai sindacati “La Grande Rivolta” per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. In quei giorni a Chicago in piazza Haymarket si tenne un raduno di lavoratori e attivisti anarchici in supporto ai lavoratori in sciopero, trasformatosi in tragedia. La protesta durò tre giorni e culminò appunto, il 4 maggio, con un massacro represso nel sangue: le vittime furono 11.
Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi, tranne che negli Stati Uniti dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre ed è differente dall’”International Workers’ Day” che in America è stato riconosciuto ma mai ufficializzato come giorno dei lavoratori.
In Italia la festa dei lavoratori fu ratificata nel 1891 ed è legata ad un altro evento storico tragico, la strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di lavoratori si trovava lì per celebrare la ricorrenza – sospesa durante il fascismo ma poi ristabilita dopo la Seconda guerra mondiale – e per protestare contro il latifondismo. Sul luogo però c’erano anche gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, che aveva rapporti sia con i monarchici sia con la mafia. Giuliano e i suoi uomini spararono sulla folla uccidendo sul momento 11 persone (un’altra morì in seguito a causa delle ferite) tra cui due bambini. Altre 27 furono ferite. I mandanti della banda di Giuliano non furono mai scoperti.
Dal 1990 i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, in collaborazione con il comune di Roma, organizzano un grande concerto in pizza san Giovanni per celebrare il Primo maggio, rivolto soprattutto ai giovani.
Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.
Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.
Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".
Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.
Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?
Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.
Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.
«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?
Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.
Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;
Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;
Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;
Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;
Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;
Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;
Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;
Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;
Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».
Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.
Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.
In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.
Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.
A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.
Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.
· Il Ferragosto.
Ferragosto, quel rito irrinunciabile. La festa inaugurata dall’imperatore Augusto, con l’industrializzazione ha assunto un altro significato. Senza però perdere la sua sacralità. Marino Niola su La Repubblica il 14 Agosto 2022.
Da antica festa in onore dell’imperatore Augusto a data dell’Assunzione di Maria. Da ricorrenza religiosa a transumanza stagionale del popolo vacanziero. Da rito sacro al riposo dei contadini e degli operai a nuovo Capodanno della società del tempo libero. Sono le metamorfosi del giorno simbolo delle ferie. Che sospende ogni attività lavorativa e mette in stand by la società intera.
Marino Niola per la Repubblica il 15 agosto 2022.
Da antica festa in onore dell'imperatore Augusto a data dell'Assunzione di Maria.
Da ricorrenza religiosa a transumanza stagionale del popolo vacanziero. Da rito sacro al riposo dei contadini e degli operai a nuovo Capodanno della società del tempo libero. Sono le metamorfosi del giorno simbolo delle ferie.
Che sospende ogni attività lavorativa e mette in stand by la società intera. In attesa di quella rigenerazione dei corpi e delle anime che segue ogni dì di festa. Soprattutto se si tratta di una festa che fa girare i cardini dell'anno, di un accapo del calendario.
E perfino adesso che il nostro lavoro, proprio come il nostro tempo, si è fatto liquido, interinale, parcellizzato, precario, occasionale, a progetto, part time, il 15 agosto conserva una sua sacralità surriscaldata e stralunata, stremata e stressata. Un raptus collettivo, come lo definiva Pasolini, una frenesia liturgica da rito di passaggio stagionale, da Capodanno senza zampone, ma con obbligo di cenone. In parte perché la pausa dal lavoro non è un'eccezione negoziata, né una concessione occasionale, né un'una tantum. Ma un diritto garantito per la prima volta nel 1936 da una legge rivoluzionaria votata dal Parlamento francese che prevede 15 giorni di vacanze pagate per tutti. E l'anno successivo approfittando dei biglietti ferroviari a prezzi politici, oltre un milione dei nostri cugini d'Oltralpe parte per le vacanze.
Un doppio boom, politico ed economico. Il provvedimento virtuoso ispira nel 1947 la nostra Carta costituzionale che, all'articolo 36, dice testualmente che «Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». il principio viene fatto proprio anche dalla Dichiarazione universale dei diritti umani che nel 1948 stabilisce che «ogni individuo ha diritto al riposo e allo svago, comprendendo in ciò una ragionevole limitazione delle ore di lavoro e ferie periodiche retribuite». E nonostante i tentativi di far saltare gli argini costituzionali e di introdurre nel mercato del lavoro una deregulation sempre più selvaggia, quelle norme scritte a chiare lettere e ripetute come un mantra democratico, restano ben stampate nella mente dei cittadini, anche di quelli che non hanno letto una riga della Costituzione.
In più, il giorno del riposo conserva un senso sociale e simbolico dalla remotissima origine sacrale, che ci riporta al terzo Comandamento. Ricordati di santificare le feste. Ecco perché anche nelle code autostradali agostane, negli assalti ai traghetti, nei bivacchi aeroportuali c'è l'eco lontana di questa legge che fa del riposo qualcosa di divino. Una interruzione delle attività che celebra il Dio tutelando l'uomo. In realtà anche dietro l'esodo vacanziero più spensierato, resta una sacra scintilla dell'antica fiamma festiva.
Batte inavvertito il ritmo biblico del Settimo giorno, ovvero del Sabato ebraico e della Domenica cristiana. Ma riecheggiano anche le parole di Pericle, mitico leader del partito democratico ateniese, che ben cinque secoli prima di Cristo, proclama quella sacralità laica del riposo che, a suo dire, è fatto per rigenerare lo spirito. O per dirla con parole di ora, per scongiurare il burn out, ovvero la spremitura a caldo dei lavoratori.
Che fino a poco fa sembrava un ricordo del passato. Mentre adesso riaffiora pericolosamente alla superficie del presente, ammantata di ragion pratica e mascherata da realismo economico.
Insomma, gite fuori porta, falò sulla spiaggia, cene pantagrueliche, bagni di mezzanotte non li abbiamo inventati noi. Vengono dalle antiche Feriae Augusti, letteralmente "il riposo di Augusto", cioè le feste che celebravano la fine dei lavori agricoli. Ad istituirle nel 18 avanti Cristo, è per l'appunto l'imperatore Augusto, da cui deriva la nostra parola Ferragosto.
Parola d'ordine, baldoria sì, fatica no. E tutti in gita fuori porta. In seguito, il cristianesimo sovrappone ai rituali pagani le sue solennità, proclamando il 15 agosto giorno dell'Assunta, forse la più popolare delle ricorrenze mariane. Celebrata sin dal settimo secolo dell'era cristiana con processioni e indigestioni, balli e abbuffate, sballi e scampagnate per accompagnare il giro di boa dell'anno che annuncia la fine dell'estate.
Il nostro Ferragosto è erede di questi riti. Ma solo in parte. Perché la nostra vita non dipende più dai ritmi della natura, dalle fasi lunari, dall'alternanza tra tempo della semina e tempo del raccolto. Oggi a fare il bello e il cattivo tempo è la tecnologia che sincronizza la nostra esistenza sui ritmi della produzione e del consumo.
Di fatto la nostra civiltà ha ridotto il calendario a due sole stagioni, quella del lavoro e quella del tempo libero. E di questo tempo destagionalizzato e monetizzato il 15 agosto è il nuovo Capodanno. Perché è ora e non il 31 dicembre che le fabbriche e gli uffici chiudono i battenti. E il popolo delle partite IVA spegne i computer. Così le nostre ferie agostane diventano un pit-stop per poter ripartire più veloci di prima. E nonostante la pandemia, la guerra e il vento della crisi mandino in fibrillazione il cuore dell'economia, rendendo la nostra vita sempre più precaria e le nostre vacanze sempre più low cost e last minute, questa destagionalizzazione dell'esistenza rende ancora più necessaria una tregua. Un cessate il fuoco della sfiga. Per l'eterno ritorno del Ferragosto.
Ottaviano, il primo imperatore di Ferragosto. Fu lui a istituirla come ringraziamento al senato che l'aveva eletto Augusto. La festa più modaiola dell'estate ha origini antiche, sempre all'insegna della leggerezza. ANTONIO CAVALLARO su Il Quotidiano del Sud il 14 agosto 2022
FERRAGOSTO è la festa più modaiola dell’estate eppure ha origini antiche che poco hanno a che fare con la tintarella e le gite fuori porta. È l’etimologia stessa del nome a raccontarne la storia: “Ferragosto” deriva dal latino Feriae Augusti. Pare che a istituirla sia stato proprio l’imperatore Ottaviano il quale, come segno di munificenza verso il popolo, dopo essere stato proclamato dal senato Augusto – venerabile, eccelso, un semi-Dio insomma –, nel 18 a.C., stabilì che il sesto mese dell’anno, il mensis sextilis – l’attuale mese di agosto –, fosse interamente dedicato agli svaghi e ai festeggiamenti. Era infatti un mese in cui ricorrevano numerose festività in onore degli dei, in particolar modo i nemoralia, dedicati alla dea Diana Nemorense, durante i quali si accendevano le torce (sta forse qui l’origine dei falò sulla spiaggia?), o i vinalia rustica in onore del dio Giove. Era inoltre il mese che faceva seguito ai duri lavori dei campi, l’Imperatore dunque stabilì che in quel mese ci si astenesse dal lavoro per poter prendere parte alle celebrazioni. È probabilmente questa la ragione principale per cui gli italiani prediligono ancora questo mese per le vacanze, al contrario, per esempio, dei vicini tedeschi o svizzeri che vanno invece in ferie durante il mese di luglio.
Con l’avvento del cristianesimo, la Chiesa, nella sua mirabile operazione di inculturazione – probabilmente la più grandiosa e meglio riuscita rivoluzione culturale della storia dell’umanità – accolse il senso della festa ma ne mutò significato: niente più Diana né altre dei e dee dell’Olimpo ma la Theotókos, la Vergine Maria, venerata nel momento dell’Assunzione al Cielo. Quella dell’Assunta fu così la prima festa mariana della storia della Chiesa, fatto curioso giacché il suo oggetto, l’assunzione al cielo in corpo e anima di Maria, non è suffragata dal conforto delle Scritture.
Che le prime generazioni di cristiani credessero che la madre di Gesù godesse di una sorta di status ontologico speciale che la rendeva in un certo qual modo diversa dal resto del genere umano, è cosa nota. In particolar modo vi erano due aspetti della sua esistenza che, suggeriti dalla fede e supportati dalla speculazione di alcuni teologi, furono destinati a essere causa di accese controversie: il primo è relativo alla concezione verginale di Maria – l’Immacolata Concezione, appunto – che avrebbe posto la Madonna in una condizione assolutamente unica, essendo lei concepita senza peccato originale e, il secondo, strettamente connesso al primo, è appunto quello dell’Assunzione in anima e corpo al Cielo. Secondo la Bibbia e, in particolare secondo l’insegnamento di Paolo, è a causa del peccato che la morte è entrata nel mondo. Se Maria era stata preservata dal peccato, allo stesso modo doveva essere stata preservata dalla morte. Non solo. Ma come poteva colei che aveva condiviso la stessa carne e lo stesso sangue del primo dei risorti non seguirne la medesima sorte?
I vangeli canonici tacciono sul destino ultraterreno di Maria. Nei tre sinottici la Madre di Gesù scompare all’inizio della vita pubblica di Cristo senza comparire nemmeno ai piedi della croce. È solo Giovanni a raccontarci di lei austera e silenziosa sul Calvario. L’autore degli Atti degli Apostoli – che secondo una consolidata tradizione è l’evangelista Luca – cita quasi incidentalmente la presenza di Maria nel Cenacolo nel momento della Pentecoste. Così come con altri episodi e aspetti della vita di Cristo e dei suoi familiari, ciò che le fonti ufficiali tacciono, viene invece raccontato con dovizia di particolari negli scritti apocrifi i quali, pur essendo messi alla porta dalla Chiesa ufficiale, finiscono inevitabilmente per rientrare dalla finestra arrivando persino a influenzarne pratiche e devozioni.
I primi testi che descrivono l’Assunzione di Maria al cielo cominciano ad apparire già dal IV secolo dando vita a un prolifico filone letterario che annovererà apocrifi in greco, latino, copto, arabo, armento, siriaco e slavo. È difficile individuare con assoluta certezza il testo prototipo sebbene tra quelli più noti e più riprodotti vi sia sicuramente il testo della “Dormizione della Santa Madre di Dio”, attribuito dalla tradizione a San Giovanni evangelista – il discepolo a cui Gesù avrebbe affidato la Madre sul Calvario – e pertanto oggetto di grande considerazione presso i contemporanei. Nel racconto che l’autore fa del trapasso della Vergine, possono essere individuati molti degli elementi che si troveranno poi nelle opere d’arte dedicate al tema, come la presenza intorno al letto della morente di tutti gli apostoli giunti in maniera prodigiosa, secondo lo pseudo-Giovanni, dai vari luoghi del mondo in cui una certa tradizione voleva che si trovassero (Pietro e Paolo da Roma, Tommaso dall’India ecc.), e poi la coorte angelica che accoglie la Madonna assunta in Cielo. Anche Maria, secondo il racconto, dorme il sonno della morte per tre giorni al termine dei quali il suo corpo santo viene traslato nell’empireo.
E proprio intorno a questo momento prodigioso si svilupperà la prima grande differenza tra il modo in cui gli orientali e gli occidentali considerano la nostra ricorrenza: i primi raffigureranno e celebreranno la “dormizione” – l’addormentamento potremmo dire di Maria – i secondi invece porranno maggiormente l’accento sulla diretta traslazione in cielo della Madonna, non chiarendo se questa sia avvenuta dopo la morte o mentre era ancora in vita.
Quel che però è certo è che la credenza nel destino ultraterreno di Maria che continuerebbe a vivere in anima e corpo ebbe subito grande diffusione in tutto l’ecumene cristiano. Non è forse un caso che la quasi totalità delle cattedrali sorte sia in occidente che in oriente sia dedicata all’Assunzione o alla Dormizione di Maria. Nonostante la diffusione di una tale devozione, la Chiesa cattolica riconoscerà solo molto tardi, e al termine di innumerevoli dispute teologiche, il dogma dell’Assunzione che verrà sancito definitivamente da Pio XII nel 1950 con la costituzione apostolica “Munificentissimus Deus” con la quale viene solennemente dichiarato che, seguendo la fede secolare del popolo di Dio, la liturgia e l’insegnamento dei Padri della Chiesa e dei teologi, «l’immacolata Madre di Dio sempre vergine Maria, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste in anima e corpo» (si osservi che anche qui si tace riguardo alla morte della Madonna). La proclamazione del dogma è il capitolo finale di una storia lunga quasi quanto quella della Chiesa stessa, che arriva a definire la solennità dell’Assunta la “Pasqua dell’Estate” perché anticipa, in un certo qual modo, la risurrezione della carne, speranza che alimenta il credo cristiano.
Rimane però un cerchio da chiudere: cosa lega tutta questa storia che abbiamo raccontato alle Feriae Augusti? Ecco tornare in gioco la nostra Diana Nemorenense. I nemoralia, le festività dedicate alla Dea, avevano una forte componente misterica, le torce accese condotte nel bosco rappresentavano la luce che illumina le tenebre, l’eterno ciclo di notte e giorno, morte e vita. Con il tempo il culto di Diana sembra sovrapporsi a quello di Proserpina e anche Diana diventa una divinità ctonia che muore e risorge. La morte di Diana veniva celebrata nel giorno corrispondente al nostro 13 agosto, la sua risurrezione il 15. Quale la circostanza migliore per celebrare la risurrezione della donna più venerata dai Cristiani?
Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2022.
Nel giorno di Ferragosto del 2022, all'autogrill di Cantagallo, vero ombelico d'Italia, non accadde nulla. Eppure nel giorno di Ferragosto del 2022, all'autogrill di Cantagallo, vero ombelico d'Italia, è successo di tutto. Piccole cose, nessuna delle quali degna di nota, all'apparenza. Ma...
Ma, in una giornata simbolica, un posto simbolico come l'autogrill che scavalca l'Autostrada del sole nel tratto Bologna-Firenze può restituirci lo stato d'animo del Paese, che si può così sintetizzare: gli italiani sono incazzatissimi.
Al bar-ristorante
Tutti parlano solo di prezzi. Qualcuno entra al bar, legge - un euro e 30 il caffè, due euro il croissant, 6,50 il trancio di pizza, 7,90 la focaccia con la coppa -, sospira, impreca, esce.
Una coppia ordina un Grantoast a 6,90, se lo fa tagliare in due, lo mangia in un angolo. Chi può sale al ristorante, al piano di sopra.
Al primo tavolo, un bambino biondo maleducatissimo sposta di continuo una sedia con stridore molesto; la cameriera ogni volta la rimette a posto, e lui la sposta di nuovo, nell'indifferenza dei genitori. Al secondo tavolo, una famiglia di colore pranza con macedonia e ananas.
Al terzo tavolo, un padre cinquantenne cerca di consolare il figlio adolescente, deluso da lui e dalla vita per il fatto di consumare il pranzo di Ferragosto all'autogrill. «Guarda che il primo ristorante in cui sono stato in vita mia è questo - dice il signore al figlio, anzi al telefonino che il figlio tiene davanti agli occhi -. Avevo la tua età. Qui sotto sfrecciavano le macchine, proprio come adesso. C'era un gigantesco banco degli arrosti, i cuochi con il cappello bianco che affettavano un enorme tacchino, e mio papà, tuo nonno, che ha sempre amato la pittura, disse che sembrava un quadro barocco, l'immagine dell'abbondanza».
Il cinquantenne socchiude gli occhi, ha un attimo di commozione - suo padre dev' essere morto, forse da poco -, ma quando li riapre si ritrova di fronte il cellulare del figlio, e perde la pazienza: «Tu lo sai che tuo nonno ha provato la fame?! Hai idea di cosa rappresentava per lui quel tacchino dell'autogrill?».
Il ristorante del Cantagallo ha un'antica tradizione. Il 18 giugno 1973 si fermò qui il leader missino, Giorgio Almirante, con quattro militanti. Cuochi e camerieri rifiutarono di servirgli da mangiare. Almirante quel giorno aveva appetito ed era di ottimo umore: alle regionali in Friuli Venezia Giulia il Msi era cresciuto dal 5 al 7,5%.
Così lui aveva preso prosciutto crudo e penne al sugo e stava aspettando cotechino e zampone, quando gli portarono il conto - 8.900 lire - e gli dissero di andarsene. Almirante si alzò, salì in macchina, proseguì verso Firenze, si fermò all'autogrill di Roncobilaccio, ordinò il secondo, lo mangiò senz' altri disturbi; poi telefonò alla polizia per fare denuncia.
Oggi, se tra i tavoli si appalesasse la Meloni, il pranzo probabilmente glielo offrirebbero gli altri commensali. Secondo un sondaggio empirico durato tutto il giorno, la Fiamma tricolore veleggia tra l'85 e il 90%. Un po' tutti i viaggiatori di Ferragosto si dicono indignati e disgustati dai politici, ma di lei dicono in sintesi: «È la sola che è sempre stata all'opposizione.
La sola che non abbiamo ancora provato». Oggi però non c'è il cotechino e neppure lo zampone, bensì il «piatto unico bilanciato»: un quarto cereali - riso nero integrale e basmati -, un quarto pesce, il resto verdure che «saziano e donano colore al piatto».
Tra i camionisti Mi sposto al parcheggio dei camionisti. Su un Tir è dipinto un gigantesco ritratto di Gesù. Un altro ha sulla fiancata un Cristo coronato di spine. Poi c'è il camion di Amazon.
Un crocchio di conducenti sta parlando dei prezzi del diesel. Mi accolgono con viva simpatia e profonda stima: «Giornalisti infami! Servi del sistema! Padron comanda asino trotta!». C'è però un camionista che vuole parlare. Si chiama Guglielmo. Mi prende le mani tra le sue: «Vedi queste cicatrici? Le senti? Sono i mozziconi di sigaretta. Servono a tenermi sveglio: quando sto per addormentarmi, la sigaretta accesa mi brucia le dita, e io continuo a guidare. Il problema sono i romeni.
Con i romeni non ce la posso fare. Io posso guidare anche sedici ore di fila, senza mangiare né dormire, sai? Ma dopo sedici ore mi devo fermare per fare la pipì. Il romeno invece può stare anche un giorno intero senza mangiare né dormire né fare la pipì». Guardi Guglielmo che il romeno è un essere umano come noi «No no, il romeno è un concorrente imbattibile. Noi camionisti italiani non ce l'abbiamo con gli stranieri, neppure con i negri. Ma facciamo una vita terribile, soffriamo tanto per mantenere le nostre famiglie. Scrivilo: chiediamo tariffe agevolate per gasolio, autostrade, assicurazioni».
«Guarda che la tariffa agevolata per il gasolio ce l'abbiamo già». La voce viene dal camion con il Gesù coronato di spine. Porta pesche e meloni da Gela a Verona, quindi può viaggiare anche di Ferragosto. Lo guida Salvatore.
«Io ogni quattro ore e mezza, cascasse il mondo, mi fermo. Però il collega ha ragione, il mestiere è duro ed è sempre peggio».
Ai camerieri che avevano rifiutato di servire Almirante arrivarono centinaia di telegrammi di plauso da tutta Italia, il primo firmato da Enrico Vaime, l'autore di Canzonissima: «La mia ammirazione e solidarietà. Bravi!». Tra i camionisti, la percentuale per la Meloni sale al 90-95%. Il pericolo neofascista non è molto sentito, in particolare da Guglielmo: «Mio padre e mio nonno si sono fatti seppellire in camicia nera, sai?».
Gli chiedo di poter vedere il suo camion, dove dorme. Non ci sono i calendari con le modelle nude come da stereotipo, solo l'immagine di padre Pio e la foto dei figli. I panini li ha portati da casa. «Hai notato che non esistono più le trattorie per i camionisti? Sai perché? Perché i soldi per mangiare in trattoria i camionisti non li hanno più».
Al minimarket Per uscire dal bar si passa obbligatoriamente attraverso il paese della cuccagna. Gigantesche confezioni di pop-corn, di chupa-chups, di biscotti; boccioni da due litri di prosecco, taniche da mezzo chilo di patatine. Piccolo angolo per i libri; ma dalla pandemia non si vendono più i giornali.
Le cuffiette per i telefonini possono costare anche 32 euro e 99; qualcuno ha risolto il problema dei controlli rompendo la scatola e intascando il contenuto. Il bambino biondo maleducatissimo grida a pieni polmoni perché vuole un gigantesco pelouche a forma di ranocchio, ma il padre non intende comprarlo, anche perché costa come la paga giornaliera di un impiegato. I passanti protestano per le strida, il padre molla uno scappellotto al figlio; la madre lo difende. Ci sarebbe anche un cane minuscolo che abbaia ininterrottamente da cinque minuti; ma di lui nessuno osa lamentarsi.
Eppure, a restare lì tutto il giorno, accanto alla rabbia e al malumore viene fuori anche l'umanità degli italiani. Una madre anziana si prende cura con amore del figlio nano, si alza sui tacchi per prendergli il pacchetto di Togo sull'ultimo scaffale. Una mamma allatta la sua bambina sul gradino dell'uscita.
Coppia gay con cagnolino in una cesta. Tante comitive di donne che viaggiano sole. Un papà organizza con il figlio uno scherzo alla mamma, che si è attardata nel paese della cuccagna e deve ancora uscire: si nascondono dietro l'angolo e le faranno bau. Passano un cinese con la maglietta del Jova Beach party, due poliziotti, un addetto bengalese alle pulizie, poi finalmente la mamma: «Bau!». «Echecazzo!». La mamma l'ha presa malissimo: « Siete du' bischeri, e che so' scherzi da fare?! ».
All'uscita c'è anche il vigilante. Il lavoro non gli manca: non si ha idea di quanti trucchi inventino gli italiani per rubare. Le famiglie si affidano agli insospettabili, nonne e bambini; ma è accaduto che una signora uscisse con la tanica di patatine sotto il golfino, a simulare una gravidanza, tipo la signorina Silvani con il televisore - «incinta di nove pollici!» - nel secondo tragico Fantozzi.
Alla chiesetta Cantagallo un tempo era un Mottagrill. Il cavaliere del Lavoro Angelo Motta vi volle una piccola chiesa, «a fianco del luogo di ristoro, così che questi non sia soltanto ristoro fisico».
L'edificio è dedicato coerentemente a sant' Angelo ma anche a sant' Ambrogio e san Gennaro, «protettori delle grandi Città che l'Autostrada unisce» (Milano e Napoli), e pure a san Francesco e santa Caterina, patroni d'Italia, e infine a san Cristoforo, protettore degli automobilisti. È un luogo pieno di poesia, con una madonnina, i lumini, e un'urna in cui «si prega di non mettere denaro ma preghiere».
In tutta la giornata nella chiesetta sono entrati solo un bambino di nome Gianfranco - «papà posso accendere una candelina?» - e una famiglia di filippini, per mangiare un panino al fresco.
Sul prato a fianco corrono felici i cani. Un tempo all'autogrill molti venivano abbandonati. Quest' estate sulla Milano-Venezia è stato abbandonato un ragazzo di sedici anni, di origine albanese. I genitori non si sono fatti vivi, il Comune di Cessalto, Treviso, nel cui territorio ricade l'autogrill, ha stanziato 16 mila euro per il suo mantenimento, sino alla maggiore età.
Non è la prima volta. A Ferragosto del 2000 all'autogrill della Milano-Varese fu trovato un bambino di pochi giorni, con un biglietto: «Mi chiamo Angelo, prendetevi cura di me». Poi ci sono i dimenticati. Pane e tulipani , il caso cinematografico sempre del 2000, è la storia di Rosalba - l'attrice era Licia Maglietta - abbandonata da marito e figli in autogrill. Spiegano a Cantagallo che ogni tanto succede ancora. Però adesso ci si avverte con il telefonino, e i ricongiungimenti sono rapidi.
Non si vedono più i venditori che con aria da cospiratore ti informavano che dal tal camion era caduto un carico di televisori o di telefonini: la gente non ci casca più. Questi però erano anche luoghi di gioia: certe notti, cantava Ligabue, «al primo autogrill c'è chi festeggerà». Guccini sognava di prendere la mano della ragazza che «mescolava birra chiara e seven up».
Più prosaicamente, si diceva che alla Lotteria Italia vincessero sempre biglietti venduti all'Autogrill. Ogni tanto passa ancora un pullman di ultrà a devastare tutto; fu in un altro autogrill che l'agente Spaccarotella sparò e uccise un tifoso laziale, Gabriele Sandri, divenuto martire di tutte le curve compresa quella romanista.
Origlio la conversazione tra due poliziotti - uno con l'accento sardo, l'altro napoletano - e un addetto in tuta gialla di Autostrade. Il tema sono gli automobilisti che si comportano male, sfrecciano dove dovrebbero procedere a passo d'uomo, fanno il pieno e scappano senza pagare, oppure lasciano la macchina alla pompa dopo aver fatto il pieno e vanno a prendere il caffè. Dice il poliziotto sardo: «Delle due l'una: o gli tagli le gomme, e non mi pare il caso; o fai la foto alla targa, e ce la segnali. O li becchiamo, ma è difficile, oppure li becca il tutor, se vanno troppo forte». «Sì, ma tanti sono stranieri, e del tutor che gli importa?».
Al bagno
Le toilette sembrano quelle di una clinica svizzera: pulitissime (i cartelli avvertono che la mascherina è obbligatoria, ma in tutta la giornata non ne ho vista indossata una, tranne che dai lavoratori dell'Autogrill. Che, per inciso, danno del lei a tutti; ma quasi tutti danno loro del tu). Soltanto su un muretto discosto una scritta promette, come ai vecchi tempi, prestazioni sessuali dettagliate. Per pura curiosità giornalistica chiamo il numero di cellulare indicato. Mi risponde una voce più rassegnata che arrabbiata: «Di nuovo? Soltanto oggi è il quarto che telefona. Lo volete capire o no che mi hanno fatto uno scherzo?».
Alla pompa di benzina
Anche gli addetti al distributore rifiutarono di fare il pieno ad Almirante. Tre giorni dopo, sempre all'ora di pranzo, arrivò la spedizione punitiva. Una trentina di fascisti presero a ceffoni benzinai, cuochi, camerieri, e pure due poliziotti che tentarono di fermarli. Poi scapparono, ma come in un film di Alberto Sordi una vecchia 600 si fermò dopo pochi metri: i poliziotti arrestarono il conducente e denunciarono gli altri a piede libero, tra cui un deputato missino di Modena.
Nel 1981 l'autogrill andò a fuoco. «Io sono stato assunto qualche mese dopo. Si diceva che fossero stati i fasci. Ma sono le voci che mettono in giro i comunisti». Il benzinaio che racconta si chiama Fabio. Anche lei vota Meloni secco? «Diciamo che io non sono comunista. Però non si fidi di quel che le dicono. La gente parla; ma poi a Bologna restano rossi, e altrove democristiani».
Qui, in direzione Firenze, il diesel costa 2 euro e 12 al litro, la benzina 2 e 15 (in direzione Nord i prezzi sono un po' più bassi: diesel un euro e 97, benzina 1 e 96). Molti ovviamente preferiscono il self. Fabio ha un teoria: «In Italia i soldi ci sono ancora. Ma la gente ha paura; quindi non spende.
Quando ho cominciato, 41 anni fa, questa era una delle più grandi stazioni di servizio d'Europa: 26 milioni di litri di carburante all'anno.
Il giorno della chiusura della Fiat gli operai partivano verso Sud, e c'erano code di un'ora per fare benzina. Ora siamo a 15 milioni di litri». Davvero c'è chi non paga? «Ci sono sempre stati. Un tempo si riusciva a tirar fuori la benzina dai serbatoi; adesso non si può più». E allora? «Allora il più delle volte li lasci andare.
Quelli te lo gridano dietro: "Fammi causa!". Ma fare una denuncia costa molto più di un pieno di benzina. Sa chi sono i peggiori?». Chi sono?
«Gli stranieri. Non salutano, ci trattano come schiavi, sporcano per terra. Si comportano come a casa loro non farebbero mai. Quelli dell'Est, poi gli slavi, i romeni». Pure lei ce l'ha con i romeni? «Non ce l'ho con nessuno, ma li vedi con macchinoni da centomila euro, e pensi a quando da ragazzi andavamo da loro carichi di jeans e calze di nylon. Intendiamoci: eravamo più poveri di adesso. Ma si andava ancora dal meno al più. E andare dal meno al più è meraviglioso. Andare dal più al meno, invece, fa schifo».
Vacanze, combattere la malinconia e ripartire di slancio. Se le vacanze sono agli sgoccioli e la malinconia imperversa, ecco come contrastarla per affrontare di slancio la nuova stagione. Monica Cresci il 22 Agosto 2022 su Il Giornale.
Ferragosto è dietro l'angolo e, per molti, sancisce la fine delle tanto agognate vacanze e la ripresa della routine quotidiana. Dopo giornate dedicate al relax e al divertimento, serate spese a leggere un buon libro oppure a cenare in riva al mare. Inevitabile che la malinconia faccia capolino, specialmente se le ferie si sono rivelate allegre e spensierate, senza tensioni e problemi di sorta.
Anche l'animo più tenace potrebbe incrinarsi al termine di questo idillio, cedendo il passo alla tristezza. Del resto non è facile riprendere in mano le incombenze e i ritmi di sempre, in particolare se per settimane il relax ha imperversato. Alcuni cedono alla malinconia, altri avvertono un forte senso di vuoto e solitudine. Contrastare il tutto è possibile e doveroso, scopriamo come.
La malinconia post vacanze è una condizione molto presente, una vera sindrome condita da stress e blue mood. È un malessere che intacca l'umore e la serenità psicologica, oltre al benessere fisico, appesantito della routine di sempre fatta di incombenze, impegni, scadenze. Il dolce far niente, del tutto appagante, viene soppiantato dall'agenda del quotidiano. Non è certo un problema fisico ma una risposta psicologica e anche psicosomatica, con sintomi passeggeri quali apatia, stanchezza, poca concentrazione, dolori fisici e difficoltà digestive.
Senza dimenticare stress, malinconia e tristezza, come accennato, che possono condurre ad ansia e depressione. In particolare nei soggetti più fragili, a fronte di condizioni esistenziali difficoltose. Una sindrome molto comune, accentuata anche dal limitato effetto positivo regalato dalle vacanze. Troppo brevi per poter contrastare un lungo periodo di fatica, sia mentale che fisica.
Per scivolare fuori da questo mood è importante affrontare un percorso fatto di obiettivi e cure personali, una sorta di rinascita in funzione di una ripartenza piena di energia. Ciò che conta è prendersi tutto il tempo che serve, passo dopo passo vero la meta finale. Ecco come:
riposo e alimentazione: la sensazione positiva data dalle ferie si può prolungare anche a casa, dedicando molto più tempo al relax personale, al sonno notturno e alla nutrizione. La fretta è bandita, è importante concedersi dei momenti di dolce far nulla, leggendo un libro, guardano una serie TV oppure semplicemente ascoltando musica rilassante. Anche l'alimentazione è importante, deve risultare sana, leggera e gustosa così da ricavarne energia e forza;
passeggiate, meditazione e cure, è utile sfruttare le belle giornate per assorbire altra vitamina D. Quale modo migliore se non passeggiando all'aria aperta, approfittandone mentre si porta a spasso il cane. Spazio anche alle cure personali, magari introducendo qualche nuovo hobby, andando in palestra oppure praticando workout casalinghi. Prendendo un appuntamento dall'estetista o dal parrucchiere, oppure semplicemente gratificando mente e corpo con un giorno alla Spa o con della meditazione;
gradualità e pensiero positivo, riprendere serenamente con il lavoro è possibile ma è importante creare una safe zone iniziale. Il famoso periodo di assestamento, magari cambiando il percorso per raggiungere l'ufficio, affrontando prima le incombenze meno pesanti così da riprendere il ritmo. Sfruttando le belle giornate per pranzare all'aperto, magari nel parco di zona. Cambiando le abitudini più radicate e malsane, come quella di procrastinare, interrompendo questa circolarità negativa e introducendo nuovi interessi;
obiettivi e programmi, spostare la mente in avanti verso nuove occasioni di relax, come i ponti o le festività annuali quali Natale e Pasqua. Oppure organizzare il weekend con piccole gite fuoriporta, andare a un concerto o acquistare il biglietto per il museo o per un evento interessante. Affiancando il tutto con una serie di mini impegni a scadenza, ad esempio sistemare un oggetto rotto che langue da tempo in cantina, impegnarsi con una dieta, cambiare il look dell'arredo. Attività in grado di occupare la mente, così da riprendere con nuovi percorsi e un'energia più intensa.
Tobagi: «Ferie d’agosto, milioni di famiglie in viaggio. Treni affollati, lavoratori infelici. Perché?» Walter Tobagi su Il Corriere della Sera il 21 Agosto 2022.
Nel 1972 il giornalista scriveva sul Corriere: «La nostra industria turistica funziona male: due mesi di superaffollamento e poi il letargo. A Ferragosto partono tutti: “È un rito, una dimostrazione di prestigio”. Ma è proprio così?»
Milano, 2 agosto 1974. I viaggiatori in partenza per le vacanze estive salgono sui vagoni del treno già affollato passando dai finestrini (foto Rcs)
Gran parte delle firme storiche del Corriere della Sera hanno scritto articoli che fanno parte della storia di questo giornale e del Paese. Dall’Archivio storico del Corriere vi proponiamo questo intervento di Walter Tobagi (ucciso dai terroristi il 28 maggio 1980) ripubblicato sul numero di 7 in edicola il 19 agosto
18 agosto 1972
Un fiume della portata di 150 miliardi al giorno inonda l’industria turistica. Sono i giorni d’oro, del «tutto esaurito», dei prezzi e dei guadagni spropositati. C’è un calcolo approssimativo, ma accettabile: 15 milioni di persone sono partite per le vacanze nelle settimane cruciali di agosto. Ogni persona, in media, spende 10 mila lire al giorno: ecco, a conti fatti, la stupefacente cifra di 150 miliardi al giorno, inghiottiti vorticosamente dall’industria turistica. E l’industria turistica, a sua volta, si morde la coda: ora sta vivendo i giorni assurdi del superaffollamento, ma presto, tra due settimane, rientrerà nel letargo dell’autunno-inverno-primavera. Nove-dieci mesi di letargo, di impianti vuoti e inutilizzati: due mesi di affollamento e super-sfruttamento: è il segno più vistoso di un’industria turistica che funziona male. E che fa scontare a tutti, agli albergatori come ai clienti, le contraddizioni di un sistema sballato.
«CI SI INCOLONNA IN AUTOSTRADA, CI SI AMMUCCHIA NEI VAGONI PER CONTENDERSI, GOMITO A GOMITO, UN METRO QUADRATO DI SPIAGGIA. SE CONTINUERÀ COSÌ IN FUTURO “SARÀ L’APOCALISSE”. A MENO CHE LE GRANDI FABBRICHE NON CHIUDANO PIÙ NELLO STESSO PERIODO E IL CALENDARIO SCOLASTICO CAMBI»
Cominciamo dalle cifre. Attorno all’ industria turistica italiana ruota un «giro d’affari» di tremila miliardi l’anno (un quinto delle entrate del bilancio statale), con una occupazione di 300 mila persone (quasi il doppio dei dipendenti della Fiat). Gli impianti si sono sviluppati, nell’ultimo decennio, in modo consistente: ora sono disponibili un milione e mezzo di posti alberghieri e altrettanti extra-alberghieri. Se utilizzate razionalmente, queste attrezzature potrebbero accogliere, senza preoccupazioni, l’intera popolazione italiana. E invece danno una sistemazione non sempre soddisfacente, nelle settimane del «grande esodo», ad una percentuale limitata: solo 30 italiani su 100 - dicono le statistiche - vanno in vacanza. Gli altri settanta restano a casa, non si allontanano dal comune di residenza per quattro giorni di seguito (è la condizione minima per essere registrati nelle statistiche delle vacanze).
POTETE CONSULTARE UN SECOLO DI PAGINE, ABBONANDOVI CON LE FORMULE NAVIGA+ O TUTTO+ ALL’EDIZIONE DIGITALE DEL CORRIERE (A QUESTO LINK TROVATE TUTTE LE OFFERTE
Un altro esempio. La rete delle autostrade, in Italia, è tra le più estese d’Europa, seconda soltanto a quella tedesca. Eppure, nei giorni della grande fuga estiva, i 4.500 chilometri di autostrada diventano insufficienti. Alcuni suggeriscono, addirittura, di ampliare le autostrade, di farle a sei, a otto corsie. Ma non sarebbe più semplice sfoltire il traffico, ampliando il periodo delle vacanze?
Tutti i problemi, alla fine, si riportano alla concentrazione delle ferie di milioni di persone nello spazio di poche settimane. Gli effetti sono quelli che tutti i turisti, anche i più entusiasti, vedono e lamentano: l’inevitabile insufficienza dell’organizzazione, i prezzi alle stelle, un servizio non sempre adeguato e, come conseguenza finale, un riposo minore, una vacanza che non soddisfa. Non soddisfa nemmeno le esigenze produttive della società industriale: perché i lavoratori tornano, in molti casi, più stanchi di quando sono partiti. Ma allora: perché si parte tutti insieme, in colonna sulle autostrade e ammucchiati sui treni per contendersi, gomito a gomito, il metro quadrato di spiaggia? C’è una risposta, vecchia tradizionale, che dice: «Ferragosto è un rito, le ferie vanno fatte in agosto per una dimostrazione di prestigio». Ma è proprio vero? Che possibilità hanno, in concreto, i cittadini, gli operai, gli impiegati, i dirigenti di scegliere il periodo di ferie, al di fuori delle solite settimane d’agosto? La risposta è semplice: poche o nessuna.
Nella Costituzione, al terzo comma dell’articolo 36, sta scritto: «Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi». Il principio è sancito con solennità, ma l’applicazione è, inevitabilmente, parziale. Le statistiche riferiscono, si è già detto, che 70 italiani su cento non fanno vacanze fuori dall’abituale Comune di residenza. È una percentuale alta: diciamo pure, in via d’ipotesi, che un altro 20-30 per cento di persone vive abitualmente in località di mare o di montagna, per cui può «fare vacanze» senza allontanarsi da casa. E il restante 40-50 per cento che non va in ferie? Che cosa succederà quando altri 20-25 milioni d’italiani potranno permettersi di andare in vacanza?
Basta dare un’occhiata alle statistiche sulle vacanze: anche queste cifre confermano la tradizionale divisione tra regioni «opulente» e regioni «depresse». Le solite due Italie. In Lombardia, 42 cittadini su cento vanno in vacanza; in Basilicata la percentuale scende al 12 per cento, in Abruzzo al 13, in Calabria al 14. E ancora: lo stesso discorso vale per lo sfruttamento delle possibilità turistiche, offerte dalle coste del Meridione: 16 turisti su cento vanno negli alberghi della Romagna, mentre 2 vanno in Puglia, in Abruzzo e Calabria.
Ecco: queste contraddizioni rendono da tempo «drammatico» il periodo delle vacanze, sia per quei 15 milioni d’italiani che affollano spiagge e montagne sia per gli operatori turistici che devono rispondere all’imponente domanda. Che cosa succederà se, nei prossimi anni, aumenteranno i turisti e continuerà la tendenza a concentrare le ferie in luglio e agosto? «Sarà l’apocalisse», commenta un albergatore riminese. Ma per evitare l’apocalisse, bisognerà eliminare, alla radice, due motivi che inducono milioni di famiglie a prenotare gli alberghi in questo mese: la chiusura delle grandi fabbriche in agosto e il calendario scolastico.
Giornalista e scrittore, Walter Tobagi nacque a Spoleto nel 1947 e morì a Milano il 28 maggio 1980, assassinato dalla brigata XXVII Marzo, un gruppo terroristico di estrema sinistra. Arrivò a Milano a 8 anni e iniziò la sua carriera a La Zanzara, giornale del Liceo classico Parini. Lavorò all’Avanti! e all’Avvenire, quindi al Corriere d’Informazione. Nel 1972 passò al Corriere della Sera dove si occupò di terrorismo e lavorò come cronista politico e sindacale. Venne ucciso in via Salaino con cinque colpi di pistola.
· 73 anni dalla tragedia di Superga.
Grande Torino, «orgoglio d’Italia»: il ricordo a 73 anni dalla tragedia di Superga. Gianluca Sartori su Il Corriere della Sera il 4 maggio 2022.
Live, la commemorazione. Al mattino al Monumentale, al pomeriggio a Superga: i fiori, la messa e le testimonianze. Le parole del presidente granata Urbano Cairo: «È stata una squadra unica», Belotti chiude la giornata leggendo «i nomi dei 31».
SUPERGA, ore 18.05 «I campioni d’Italia. Bacigalupo, Ballarin Aldo, Ballarin Dino…». Il capitano del Torino, Andrea Belotti, ha adempiuto al tradizionale incarico della lettura dei nomi del Grande Torino alle 18 in punto, davanti a centinaia di persone assiepate davanti alla lapide che sorge nel retro della tragedia di Superga. Il rito si è nel silenzio surreale e sotto qualche goccia di pioggia, che raramente manca il 4 maggio, proprio come successe nel 1949. Sono circa 5000 i fedelissimi del Torino che nell’arco del pomeriggio sono saliti sul colle, un pellegrinaggio laico che quest’anno è tornato a compiersi dopo due anni di distanziamento sociale a causa del Covid. La lettura dei nomi si è tenuta dopo la Messa di suffragio celebrata da don Riccardo Robella. Presente il Torino al gran completo, a partire dal presidente Urbano Cairo che già in mattinata aveva presenziato alla cerimonia di commemorazione andata in scena al Cimitero Monumentale. Dopo la funzione religiosa, un fiume di gente ha atteso la squadra. Molto acclamato capitan Belotti, al quale il popolo granata ha espresso il suo desiderio di vederlo continuare col Torino. Grandi ovazioni anche per il tecnico Ivan Juric e per Gleison Bremer, grande protagonista quest’anno sul campo da gioco.
SUPERGA Ora 16.30 Anche il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, si è recato a Superga per rendere omaggio al Grande Torino, insieme alla senatrice Licia Ronzulli. «Grande partecipazione e rispetto - sono state le sue parole dopo aver deposto una corona di fiori alla Lapide del Grande Torino - per questa squadra. Il Grande Torino era un patrimonio della piemontesità ma anche di ogni essere umano. Anzitutto perché erano i più forti di tutti. E poi perché vivevano la loro grandezza con grande rispetto nei confronti di avversari e rivali. Da presidente della Regione sono orgoglioso di dire che oggi siamo tutti granata». Così Cirio, invece, sul primo 4 maggio con libero accesso per i tifosi dopo due anni di Covid: «Molto bello rivedere la gente qui. Ma quello che mi ha sempre colpito è il fatto che chi viene qui trova sempre qualcuno, 365 giorni l’anno, che prega per questo caduti. Questa giornata è anche un segnale di ripartenza nel rispetto delle nuove regole, che ci permettono la convivenza».
Sono passati 73 anni dalla tragedia di Superga, ma ogni 4 maggio la città di Torino si ferma per ricordare il Grande Torino, «orgoglio d’Italia» come lo ha definito la società granata sui canali social. E la Juventus si è accodata alla commemorazione: «73 anni fa, il 4 maggio 1949, nella tragedia di Superga se ne andava il Grande Torino. Juventus si unisce al ricordo di quella squadra straordinaria». Come i bianconeri il Benfica e tanti altri club in Italia e nel mondo ricordano e omaggiano la memoria di Valentino Mazzola e dei suoi straordinari compagni.
In mattinata, con inizio alle 11.30 circa, c’è stata la commemorazione ufficiale al Cimitero Monumentale, dove riposano le spoglie di buona parte dei campioni granata. Un momento di preghiera e raccoglimento celebrato da don Riccardo Robella, padre spirituale del Torino. Presente anche il sindaco Stefano Lo Russo. «Essere qui per la prima volta da sindaco è un’emozione grandissima — sono state le sue parole —. Questa è una data simbolica che ha segnato la storia della nostra città. Quando ho vinto le amministrative, ho dedicato la vittoria ad Aldo Rabino: fu lui a farmi innamorare della storia del Grande Torino , simbolo di grinta determinazione e speranza per il futuro. Le gesta del Grande Torino rappresentano valori importanti dentro e fuori dal campo. Il mito di quella squadra è anche dovuto al fatto che era il simbolo di una Italia che si stava risollevando dalla Guerra. Era il simbolo di un’Italia che dalle difficoltà si voleva rialzare per diventare più forte. Non è un caso se l’aggettivo “grande” è stato attribuito al Torino: erano grandi sul campo, ma grandi anche fuori dal campo. Per la serietà, la correttezza e la grinta che traspariva dalle loro gesta».
A Superga
Non è mancata anche quest’anno la presenza di Urbano Cairo, patron del Torino. «Ogni anno questa ricorrenza è molto sentita da tutti noi e ha un valore speciale — le sue parole —. Quest’anno ancora di più. Ci sono stati due anni di pandemia e ora c’è la guerra, il Grande Torino è stato un motore dopo la seconda guerra mondiale ed è un parallelismo che dobbiamo fare e prendere come esempio per i giorni nostri». Il presidente ha quindi aggiunto. «È stata una squadra unica, dopo 73 anni li ricordiamo ancora, al cimitero e a Superga. È incredibile che tanta gente, che non ha conosciuto nessun calciatore, provi tanto affetto e amore verso questa squadra. È qualcosa di unico, una giornata molto speciale».
Cairo si è quindi soffermato sul campionato di Serie A che sta per concludersi: «Per noi è stato molto positivo. A un certo punto c’era la percezione, condivisa anche dal mister, che si potesse fare qualcosa in più. Poi purtroppo non è stato così ma abbiamo saputo riprenderci molto bene nelle ultime sei partite, ottenendo belle vittorie e buoni pareggi contro squadre forti». Il patron granata ha parlato del momento storico della squadra: «Questo per noi è l’anno della ripartenza. Ricordo quando venimmo qui al Cimitero Monumentale l’ultima volta, nel 2019: stavamo lottando per l’Europa. Fu una stagione molto buona e arrivammo settimi. Poi nei due anni successivi le cose non sono andate altrettanto bene e abbiamo dovuto lottare per altri obiettivi. Ecco perché quella di quest’anno è una svolta. Ho rivisto un Toro aggressivo come non lo avevo mai visto, un Toro che difende nella metà campo avversaria. Ora mancano tre partite, cerchiamo di farle al meglio e poi tireremo le somme pensando al futuro. Obiettivi? Meglio fare le cose piuttosto che annunciarle. Arriviamo da anni difficili: una volta vincevamo lo “scudetto del bilancio”, ora su questo aspetto lottiamo per non retrocedere… Un po’ per il Covid, un po’ perché abbiamo fatto operazioni troppo onerose per le nostre possibilità. Ora stiamo ripartendo seguendo un’altra direzione, quella dei giovani con potenziale da far valorizzare al nostro mister, un po’ come accadeva l’anno scorso. È accaduto già quest’anno: diversi giocatori, giovani e meno giovani, hanno alzato il loro livello grazie al lavoro del mister».
Il presidente ha quindi parlato di colui che è probabilmente il miglior granata di quest’anno. «Bremer? È con noi da quattro anni ormai, è cresciuto tantissimo perché ha grandi valori tecnici, fisici e morali. Quest’anno ha annullato grazie alle sue doti di marcatura praticamente tutti gli attaccanti più importanti della Serie A. È stata una stagione speciale, per lui».
Infine, un commento sul futuro di Andrea Belotti. «Ne abbiamo già parlato tanto e non ci sono state novità. Chissà che, non parlandone, possa accadere qualcosa di diverso da quello che mi aspetto. Se spero possa rimanere? Certo, ha fatto con noi sette anni e 100 gol in A, ci mancherebbe…».
· 65 anni dalla morte di Oliver Norvell Hardy: Ollio.
Ollio nasceva 130 anni fa: il fratello morto a 17 anni, il grande successo e i 70 chili persi alla fine, 9 cose che non sapete sul grande attore. Laura Zangarini su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022.
Sono passati 130 anni dalla nascita, il 18 gennaio 1892, di Oliver Norvell Hardy, con Stan Laurel una delle metà del più celebre duo comico della storia del cinema.
L’infanzia
Figlio di un veterano della Guerra Civile Americana dell’Esercito degli Stati Confederati e di Emily Norvell, Oliver Hardy era il minore di cinque figli. Suo padre Oliver morì quando Hardy aveva meno di un anno. Non fu l’unica disgrazia che colpì la famiglia. Quando aveva 17 anni, suo fratello maggiore Sam fece visita a casa dei fratelli e insieme decisero di andare a nuotare in un vecchio mulino sul fiume Oconee. Sam si arrampicò su un albero e si tuffò nel fiume da un ramo a strapiombo. Avendo tragicamente valutato male la profondità delle acque si spezzò il collo sulle rocce sotto la superficie. Oliver e i fratelli si tuffarono nel fiume e tirarono fuori Sam. Lo riportarono di corsa a casa, ma era troppo tardi: Sam era morto. Decenni dopo, in una apparizione nel programma televisivo «This Is Your Life», Hardy si commuoverà vistosamente rievocando quella la perdita di Sam, rendendo evidente quale traccia avesse lasciato su di lui. Poco interessato all’istruzione formale, dimostrò precocemente un vivo interesse per musica e teatro. All’età di 8 anni si esibiva in spettacolini musicali e la madre, riconosciutone il talento per il canto, decise di mandarlo ad Atlanta a studiare musica con l’insegnante di canto Adolf Dahm-Petersen.
Gli esordi
Nel 1910, nella città natale di Hardy, Milledgeville, apre il cinema The Palace, di cui il 18enne Oliver diviene proiezionista, bigliettaio, uomo delle pulizie e manager. Ben presto le potenzialità della nascente industria cinematografica diventano per lui un’ossessione: Hardy è convinto di poter fare un lavoro migliore degli attori che vede sullo schermo. Un amico gli suggerisce di trasferirsi a Jacksonville, in Florida, dove si stanno girando alcuni film, cosa che Oliver fa nel 1913: di giorno lavora alla Lubin Manufacturing Company, di notte si esibisce come cantante di cabaret e vaudeville. È in questo periodo che Babe, come lo chiamano familiari e amici, incontra Madelyn Saloshin, una pianista, che sposa il 17 novembre 1913 a Macon, in Georgia — e da cui divorzierà nel 1920. Nel 1914 realizza il suo primo film, «Outwitting Dad». È un uomo imponente, pesa 136 chili distribuiti su un’altezza di un metro e 85 centimetri, dimensioni che pongono dei limiti ai ruoli che può interpretare. Verrà scelto spesso per interpretare la parte del «villain», ma ottiene anche piccoli ruoli in cortometraggi comici.
«Ciccio Hardy»
Il fisico massiccio di Oliver fa parte della sua identità (e del suo successo), ma sarà anche la causa dei suoi problemi di salute più avanti negli anni. Durante tutta la sua infanzia lo accompagnerà il soprannome di «Ciccio Hardy». Quel suo corpaccione lo tormenterà sempre, e di certo non lo aiuterà il fatto che la madre gestisca una piccola rete di alberghi locali, per pubblicizzare i quali lo manda in giro per la città indossando una tavola sandwich che ne reclamizza l’ottima cucina. Quando l’America entra nella Prima guerra mondiale, Oliver prova a fare il suo dovere di patriota: intende arruolarsi nell’esercito. Secondo Raymond Valinoti Jr., autore di una biografia su Stan Laurel e Oliver Hardy, quando gli ufficiali vedono Oliver cominciano a sfotterlo per il suo peso, chiamando altri reclutatori e mostrarlo loro manco fosse un fenomeno da baraccone. Oliver se ne va umiliato.
Il primo set con Stan Laurel
Nel 1921, appare nel film «The Lucky Dog» interpretato da Stan Laurel, con il quale non lavorerà più per qualche anno. Nel 1925 recita la parte dell’Uomo di Latta nel «Mago di Oz» e nel film «Sì, Sì, Nanette!», con Jimmy Finlaysone diretto da Stan Laurel. Hardy interpreterà altri due cortometraggi con Laurel alla regia, «Wandering Papas» e «Madame Mystery», entrambi nel 1926. Nello stesso anno sarebbe dovuto apparire in «Get ‘Em Young». Ma, inaspettatamente, viene ricoverato in ospedale dopo essersi bruciato sul set con un cosciotto d’agnello bollente.
La coppia «Stanlio e Ollio»
Già prima di lavorare in coppia, sia Hardy che Laurel sono entrambi attori affermati: Oliver ha lavorato in 250 produzioni, Stan in 50. Durante la loro carriera, durata dal 1919 (con una pausa di sette anni fino al 1926) al 1951, interpreteranno ben 106 film, di cui 32 cortometraggi muti, 40 cortometraggi sonori e 23 lungometraggi. Al successo dei corti girati in coppia tra il 1927 e il 1930 segue, nel 1931, il loro primo lungometraggio (anche se in realtà i due hanno già recitato in due film lunghi: «Hollywood che canta», musical del 1929, e «Il canto del bandito», del 1930, in cui però fanno solo piccole apparizioni), «Muraglie», che riscuote un ottimo successo al botteghino. Seguono «I due legionari» (1931), «Il compagno B» (1932) e «I figli del deserto» (1933); tra i corti di questo periodo sono da citare «I monelli», «Andiamo a lavorare», «Il circo è fallito» e, tra quelli di maggior successo, «La scala musicale» (1932), vincitore del premio Oscar per la migliore comica e scelto, nel 1997, per la conservazione nel National Film Registry della Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti.
Non c’è due senza tre (ma il terzo matrimonio è quello giusto)
Nel 1937, Hardy e Myrtle Reeves divorziano. Sul set di «I diavoli volanti» (1939), in cui Hardy e Laurel interpretano due onesti pescivendoli americani in vacanza di piacere a Parigi, Oliver si innamora di Virginia Lucille Jones, una sceneggiatrice che sposa l’anno successivo. Rimarranno felicemente insieme per il resto della loro vita: Lucille rimarrà vicino al marito fino all’ultimo giorno, sostenendolo nei molti momenti di difficoltà. Col passare degli anni infatti la salute dell’attore diventerà cagionevole e i problemi al cuore sempre più frequenti.
Sul set affiatamento e intesa con Stan
Attori affiatati sul set, Laurel e Hardy si stimano moltissimo e sono amici e complici anche fuori dal set, pur incontrandosi in poche occasioni — qualche cena con le mogli o qualche battuta di pesca. Secondo le parole di Laurel, «Babe» è un «playboy», inteso come un tipo mondano, amante della buona cucina e del divertimento. Finito di girare, Oliver corre a giocare a golf al Country Club di Los Angeles, oppure punta (e perde) alle corse dei cavalli. I suoi amici nel tempo libero sono Bing Crosby, W. C. Fields, il produttore di molti film della coppia, Hal Roach, ma anche Adolphe Menjou (battuto a golf in una famosa partita fra attori di Hollywood) e James Parrott, uno dei registi più prolifici del duo comico. Oliver è un attento esecutore delle indicazioni di Stan, regista-attore-montatore-scrittore dei loro film. Sa perfettamente come realizzare quanto gli viene chiesto; «Chiedi a Stan» è la frase che ripete spesso quando gli vengono chieste delle opinioni sul copione. Questa grande forma di rispetto reciproco rese salda l’amicizia tra i due, durata per più di trent’anni senza mai un litigio — questo, almeno, riportano le biografie più accreditate.
Il declino negli Usa, l’amore dell’Europa
Dopo due film usciti nel 1940, all’inizio del 1941 la coppia «Stanlio e Ollio» lascia Roach e passa alla 20th Century Fox, con cui, insieme alla Metro-Goldwyn-Mayer, gireranno ancora otto film, ma tutti di scarso successo. Nel 1947 Laurel e Hardy si recano in tournée in Europa, dove la loro fama è invece ancora grandissima. Visitano anche l’Italia, dove vengono accolti con entusiasmo — tanto che, secondo alcune fonti, anche papa Pio XII vuole incontrarli in privato. Nel giugno del 1950, durante uno spettacolo teatrale tenutosi a Villa Aldobrandini a Roma, Hardy conosce finalmente di persona il suo doppiatore italiano, un giovane attore di nome Alberto Sordi. Sempre in Europa il duo comico girerà «Atollo K» (1951), il loro ultimo film, che si rivelerà un flop. Nella produzione avrebbe dovuto recitare anche Totò, che però, poco prima dell’avvio delle riprese, firma un contratto con un’altra compagnia cinematografica. Darà forfait anche un altro comico previsto nel cast, il francese Fernandel. La coppia torna ancora in due occasioni sul palcoscenico in Gran Bretagna, prima nel 1952 e poi nel 1953-1954. Il grande favore del pubblico li sprona ad andare avanti finché le condizioni di salute di Babe prima, e Stan dopo, peggiorano al punto da costringere i due a concludere in anticipo il loro ultimo tour nel maggio del 1954.
The End
Alla fine del 1955, alla vigilia delle riprese di una serie di show a colori, alcuni di questi basati su vecchie favole per bambini, intitolata «Le Fiabe di Laurel & Hardy», Oliver ha un attacco di cuore (qualche mese prima è successa la stessa cosa a Stan). Le puntate non verranno mai girate. Hardy trascorre il 1956 cercando di riprendersi e sottoponendosi a una dieta molto rigida: in pochi mesi perde quasi 70 chili. Per la prima volta nella sua vita si ritrova a essere magro, cosa che non gradisce affatto: sceglie di abbandonare le scene e chiudersi in casa, senza vedere più nessuno, accudito dalle amorevoli cure della sua Lucille. Il 14 settembre del 1956, un ictus lo porta alla semiparalisi; non può quasi più muoversi e, come racconta lo stesso Stan, ha difficoltà anche a parlare, per cui i due ricorrono alla loro arte mimica per comunicare a gesti. Alcune lettere scritte da Laurel fanno riferimento a un cancro terminale che fa perdere ulteriore peso all’amico Babe, rendendolo irriconoscibile. Entrambi i comici sono due fumatori accaniti: Hal Roach in passato li ha definiti una coppia di «ciminiere di treni merci». Oliver muore la mattina del 7 agosto del 1957 all’età di 65 anni, presso la casa della suocera, al 5421 di Auckland Avenue, Hollywood, California. Laurel, pur consapevole delle gravissime condizioni di salute dell’amico, rimane comunque sconvolto alla notizia della sua scomparsa. Dichiarerà alla stampa: «Che cosa c’è da dire? È scioccante, naturalmente. Ollie era come un fratello. Questa è la fine della storia di Laurel e Hardy».
· 60 anni dalla morte di Marilyn Monroe.
Blonde è un fumettone barocco impossibile da ignorare. Blonde, il trailer del biopic Netflix su Marilyn Monroe. TERESA MARCHESI su Il Domani l'08 settembre 2022
Il film di Andrew Dominik su Marilyn Monroe è bignami del romanzo di Joyce Carol Oates: un fumettone barocco e sovraccarico, ma chi potrà ignorarlo?
L’attrice cubana Ana de Armas, chiamata a incarnare il mito, non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante
Ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume.
«E quindi il pubblico folto e osannante l’avrebbe guardata, avrebbe guardato lei, la splendida bambola meccanica del presidente, o piuttosto la bambola gonfiabile per lo spasso sessuale del presidente, l’avrebbero guardata e avrebbero immaginato quello che in realtà non potevano vedere, e immaginandolo l’avrebbero visto: l’ombra della fica, l’ombra di una ferita, l’ombra di un nulla tra le cosce burrose di quella voluttuosa femmina, come se già in sé quell’ombra fosse l’eucaristia, irta di mistero»: pagina 748 della mia vecchia edizione Garzanti di Blonde, del 2000.
È uno stralcio della cronaca immaginaria e appassionata di Joyce Carol Oates, la ricostruzione del famoso “Happy Birthday Mister President”. Smaschera, la scrittrice, il cinismo brutale di quella festa. Marilyn è un trofeo da sbandierare. Biografia dell’anima, quella di Oates: i fatti nudi, l’ufficialità, penetrano nel racconto con circospezione. È una lettura ipnotica, se non ti lasci intimidire dallo spessore di un volumetto che sfiora le 800 pagine.
Sono trentasei anni di vita visti in soggettiva da Norma Jeane Baker, l’Attrice Bionda. Oates la chiama di rado Marilyn Monroe, è il nome dell’immagine pubblica, appartiene allo sfruttamento e all’abuso. Per i deuteragonisti, i mariti, usa definizioni generiche: l’Ex-Atleta, il Drammaturgo. Il Billy Wilder di A qualcuno piace caldo è W. Tony Curtis. che «sarebbe stato nemico della Monroe tutta la vita e dopo la morte quante sordide storie avrebbe raccontato su di lei», è C. Non servono i sottotitoli.
FUMETTONE BAROCCO
Nel fumettone che Andrew Dominik ha tratto dal libro – e che sarà su Netflix dal 28 settembre- il baccanale presidenziale non c’è. C’è invece una sovrabbondanza di feti parlanti che basterebbe ad alimentare un’intera campagna antiabortista. Vero è che la scrittrice mette i due aborti – uno volontario, il secondo subito, entrambi indelebili – in cima alla lista dei tormenti privati di Norma Jeane. E a onor del vero Oates ha ufficialmente dato semaforo verde al film, che con i suoi 165 minuti è un bignami del romanzo, parlando di una lettura «assolutamente femminista»: «Non credo che un altro regista maschio abbia mai realizzato nulla di simile».
È un fumettone barocco, sovraccarico, ma chi potrà permettersi il lusso di ignorarlo? Lo voleva Cannes, ma la barriera dell’uscita solo su piattaforma, demonizzata dal festival francese, ha bloccato il business. A Venezia è in concorso: tolleranza lungimirante che premia. Perché fa notizia, e comunque non è un biopic all’acqua di rose.
È il primo film Netflix Original marchiato dal divieto di visione ai minori di 17 anni. E ha tante tappe, tante stazioni, la vita breve del più totemico dei sex symbol, crocevia di magnetismo e fragilità, icona assoluta del XX secolo e oggetto di fantasie macabre e postume. Hugh Hefner sborsò 75mila dollari per il privilegio di farsi seppellire vicino a Marilyn.
TRAUMI
Le grandi battaglie non si combattono sui palcoscenici, scriveva un signore che non usava le parole a sproposito, Jean Giono. Le battaglie che Oates attribuisce a Norma Jeane sono contro un fardello di traumi e dèmoni paralizzante, contro l’aggressione di «maschi d’uomo smaniosi ed eccitati che guardano». «Mi guardano ma non mi vedono», diceva lei.
È il 1954, alle due di notte si sta girando la scena più celebre di Quando la moglie è in vacanza (The Seven Year Itch ) e lei è, in tutte maiuscole per la scrittrice, La Ragazza sulla Grata della Metropolitana, «venere bionda, insonnia bionda, bionde gambe depilate di fresco divaricate». L’Ex-Atleta, il marito Joe Di Maggio ( Bobby Cannavale, nel film) la punirà per l’esibizione a forza di pugni: «Sono mani grosse, mani da atleta, mani esperte, mani col dorso ricoperto di esili peli neri».
Chiamata a incarnare il Mito dopo blockbuster di lusso come No Time to Die e il recente The Gray Man con Ryan Gosling, la cubana Ana De Armas non ha né la luce né la carnalità del modello, ma l’illusione – certi sorrisi , certe espressioni smarrite – a tratti è inquietante. Brad Pitt, tra i produttori, grida al miracolo. Madre schizofrenica, orfanatrofio, Clark Gable contrabbandato in effigie come padre segreto e agognato: è già un miracolo, per un’orfana con madre viva, approdare ai fasti di Hollywood dopo tanta via crucis, passando per gli stupri autorizzati dei produttori.
Molto si tace e molto si dice. Non capisco l’alone di moralismo con cui il regista descrive il ménage à trois con due figli d’arte, Cass Chaplin ed Eddy G. Robinson, “ragazzacci” di liberi costumi figli di celebrità con nomi illustri «che gli pesavano addosso come menomazioni fisiche», scrive Oates. Con loro, in barba alla promiscuità, secondo la scrittrice, MM ha vissuto in realtà gli anni più teneri e meno inquietanti.
Sono “gemelli”: come lei, figli indesiderati. Dal romanzo, cito Eddy G. Robinson: «Cass ed io abbiamo una doppia maledizione: siamo figli e per giunta ci chiamiamo come loro, come quegli uomini che non volevano che noi nascessimo». E Cass Chaplin: «Tuo padre tu non l’hai mai conosciuto, quindi sei libera. Ti puoi inventare». È solo dal 1956 che per l’anagrafe, ufficialmente, Norma Jeane Baker diventa Marilyn Monroe.
GENIALE MARILYN
Poi arrivano le cascate di Niagara. La Rose Loomis del film è sotto contratto per mille dollari la settimana, e quella miseria, firmata quando era in bolletta, «le era sembrata un patrimonio». Seducente e perfida, Rose, ma hot: «era impossibile levarle gli occhi di dosso». «Per tutta la carriera, avrebbe fatto guadagnare milioni allo Studio e sì o no un decimo a Norma, i pezzi grossi dello Studio avrebbero fatto finta di non capire». «La gente era convinta che Marilyn Monroe si limitasse a interpretare sé stessa. Qualunque film facesse, e per quanto quel film fosse diverso dagli altri, la gente trovava sempre un modo per sminuirla. “Quella non sa recitare. Sta solo interpretando sé stessa”. E invece era un’attrice nata. Era un genio, sempre che uno creda nel genio». I dialoghi del film sono interamente farina di Oates.
Per Gli uomini preferiscono le bionde prende 500 dollari la settimana, contro i 100mila di Jane Russell, anche se la “bionda” è lei, è lei la regina del botteghino. È singolare che le madri delle massime icone pop americane di sempre, Elvis e Marilyn (Mickey Mouse fa caso a parte) si chiamassero entrambe Gladys. Meglio coprirsi gli occhi quando Ana De Armas “rifà” il numero di Diamonds Are a Girl’s Best Friends, perché è il meno riuscito del film, mentre le riproduzioni in fiction delle centinaia di foto consegnate alla Storia è davvero encomiabile.
POLVERE DI STELLE
Dopo l’eroe italo-americano del baseball Marilyn sposa A. Miller (Adrien Brody nel film), e corona il suo sogno intellettuale: sentirsi un’attrice vera, con la tecnica giusta, che può aspirare a interpretare in teatro la Natasha delle Tre Sorelle di Cechov senza che si rida delle utopie di un’oca svampita. La «puttana svergognata» – secondo l’italo-americano Joe Di Maggio – che esibiva le bianche mutande da educanda sulle grate della metropolitana sembra alle spalle.
Ma il secondo aborto, naturale questa volta, non come il primo, sofferto ma esiziale per la carriera, di paternità incerta, avvelena il set di A Qualcuno Piace Caldo. Norma Jean è più consapevole, battute del copione come quel «sembra fatta di gelatina» le suonano insulti.
Lo sarebbero per questa stagione del #MeToo. Quando compare nei panni di Sugar Kane Kovalchich e canta I wanna be loved by you/ nobody else but you il remake è da brividi. Dominik ha ‘insertato’ Ana De Armas tra i veri attori del film, e la Marilyn finta è una replica impressionante.
All’appello mancano Come Sposare un Milionario, Il Principe e la Ballerina, Gli Spostati. C’è l’umiliante sveltina con «l’attraente leader del mondo libero», JFK. E il film non sposa l’omicidio di stato, operato dall’Fbi e accreditato da Oates nel suo libro. È polvere di stelle di Marilyn. Chissà se le chiamano star perché la loro luce ci arriva quando sono già estinte.
TERESA MARCHESI. Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.
Una Marilyn postfemminista ma soprattutto tanto kitsch per l'ultimo film Netflix in gara. Fabio Ferzetti su L'Espresso l'8 Settembre 2022.
Tutto quello che sapevamo su Marilyn Monroe, con qualcosa di più e qualcosa di meno, in un melodrammone che alterna bianco e nero e colore citando ogni possibile immagine già esistente della diva con cura filologica pari solo alla libertà delle licenze storiche. L'ultimo film Netflix in Concorso a Venezia, "Blonde" di Andrew Dominik, è ancora una volta una scelta discutibile.
Fuori gara ci avrebbe incuriosito, appassionato, forse commosso, come probabilmente accadrà a chi lo vedrà sulla piattaforma per cui è concepito nel taglio, nel ritmo e perfino nel tono delle immagini. Ma in Concorso alla Mostra è semplicemente fuori posto. A meno di non considerare il Festival solo in termini di promozione, e ogni film come un contenitore di premi virtuali. In questo senso "Blonde", tratto dal romanzo omonimo di Joyce Carol Oates (La Nave di Teseo), già oggetto di una miniserie tv vent'anni fa, è più interessante. quanto meno per la smagliante performance della cubana Ana de Armas, bruna, intensa, molto latina, dunque fisicamente lontana dalla vera Marilyn, ma capace di comunicare un'adesione emotiva perfino inquietante.
L'andamento è canonico, anzi agiografico (le vite infelici dei divi del cinema sono da un secolo ormai le nuove vite dei santi). Si comincia dall'infanzia terribile con la madre destinata a finire in manicomio e a trasmetterle il culto per un padre mai conosciuto ma ricco e famoso, almeno secondo la mamma, che nell'unica foto esistente sembra la brutta copia di Clark Gable. Si prosegue con i primi passi della starlet sul divano del produttore, come anticipato da una celebre scena di "Eva contro Eva" puntualmente e correttamente citata. E avanti così battendo su pochi tasti, sempre quelli, così il racconto procede spedito.
Quindi ecco Marilyn che ai provini cita Dostoevskij mentre tutti non fanno che guardarle il culo (diciamo meglio: Norma Jeane cita Dostoevskij mentre tutti guardano la futura Marilyn, il contrasto fra identità reale e fittizia è uno dei pilastri del film). Scena che si ripeterà più tardi, conquistando Arthur Miller, quando Marilyn, ormai celeberrima e disperata, coglie i riferimenti a Cechov nell'opera del grande drammaturgo lasciandolo sbalordito e innamorato.
La chiave dominante è infatti pesantemente postfemminista, Dunque giù con uomini e mariti maneschi (Joe Di Maggio, che credevamo esser stato uno dei pochi perbene). Vai con abusi, nostalgie del padre mai visto e fantasie di rinascita, dunque di procreazione. Che sfociano in aborti a catena, con feti volteggianti come nel "2001" di Kubrick, ma senza prospettive cosmiche. Quindi una veloce "soggettiva" intrauterina che farà far salti di gioia agli antiabortisti del mondo intero. E addirittura un feto che si rivolge a Marilyn ("Stavolta non mi farai del male, vero?)", tanto la diva è sempre impasticcata e non c'è limite al kitsch.
La parte più interessante, anche perché meno nota e largamente congetturale se non di fantasia, è il ménage à trois tra la futura diva e altri due figli problematici perché non voluti dai loro padri, Charlie Chaplin Jr e Eddy G. Robinson Jr. Figli di stelle del cinema, già amanti, ma capaci di dischiudere le porte del piacere e forse anche dell'amore a quella creatura smarrita (molto bello il passaggio dall'orgasmo alle cascate di "Niagara"). Sia pure a uso futuro ricatto grazie a una serie di foto esplicite.
Il resto naviga più basso. In una sfilata di maschi inadeguati o violenti il peggiore è John F. Kennedy, una sola scena che è un concentrato di nequizie: sesso orale steso sul letto, inguainato nel busto per la spina dorsale mentre telefona a raffica cercando di contenere gli scandali. Tanto l'Oscar per la finezza non esiste ma un premio a Venezia magari lo vinciamo.
“Blonde”, viaggio alla ricerca della vera Norma Jeane. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 9 Settembre 2022
L’edizione numero 79 della Mostra del Cinema di Venezia rievoca la Hollywood degli Studios, dei divi irraggiungibili e le loro vite apparentemente da sogno con Blonde di Andrew Dominik, film biografico sull’esistenza tormentata di Marilyn Monroe. Dall’infanzia fino alla morte per quel che la maggioranza dell’opinione pubblica crede sia suicidio, Blonde, in concorso e su Netflix dal 28 settembre, si basa sull’omonimo romanzo di Joyce Carol Oates e in America uscirà con un divieto ai minori di 17 anni. Scene forti dunque di un percorso, quello dentro la vita di una diva indiscussa e amatissima da donne e uomini, che si concentra sulla Norma Jeane Baker che si celava dietro l’impeccabile Marilyn.
A rappresentarla sul grande schermo, l’attrice cubana Ana De Armas, ex Bond girl, co-protagonista di Blade Runner 2049 accanto a Ryan Gosling ed ora, con questa interpretazione, in collegamento diretto con una possibile Coppa Volpi e, come Venezia spesso rende possibile, una nomination agli Oscar. «Dovevo comprendere, empatizzare e connettermi con il suo dolore e il suo trauma – confessa in conferenza De Armas. Sapevo che dovevo aprirmi e andare in posti che sapevo sarebbero stati scomodi, oscuri e vulnerabili. È lì che ho trovato il legame con Marilyn». Ma qual era il personaggio da rappresentare sullo schermo, Marilyn o Norma Jeane? Risponde emozionata l’attrice di Cena con Delitto: «Credo che la maggior parte del film si concentri sulla figura di Norma Jeane, penso che sia la sua storia. E poi ovviamente Marilyn ha il sopravvento un paio di volte, è presente perché sono la stessa persona. Ma trovare un equilibrio tra i due personaggi, non so, credo che entrambi avessero bisogno l’uno dell’altra e si alimentassero a vicenda. È stato tutto difficile».
Dura due ore e 46 minuti Blonde ed Andrew Dominik relega allo schermo nello schermo il glamour e la presunta gioia scintillante di Hollywood per dare spazio ad una donna, dalla grande forza e grande fragilità che, pur adorando profondamente ciò che faceva, è stata poco amata, usata e abbandonata. Prima di tutti dalla madre che l’ha sempre vista come un ostacolo. Blonde ci mostra una Norma Jeane vittima di violenze, abusi e un mondo del cinema che fa impallidire quello combattuto a spada tratta oggi: «Il MeToo l’avrebbe aiutata, ma non c’era», ricorda Andrew Dominik che decide di prendere posizione anche sulla teoria del suicidio: «Un’overdose è una forma di suicidio, io non credo all’omicidio. Essere un oggetto del desiderio può rivelarsi pericoloso, tanti ne sono stati distrutti. Perché la tua fama sta nella fantasia, nell’inconscio delle persone». Prima di vedere l’attesissimo Blonde, l’ultima parola ad Ana De Armas: «Ho partecipato a questo film come fosse un dono a me stessa, non per far cambiare le idee degli altri su di me. Qualunque cosa succeda, questo film ha cambiato la mia vita. E poi sarà quel che sarà». Chiara Nicoletti
Vita segreta di Marilyn Monroe: gli ultimi misteri di una diva. Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità alla diva e alla donna. Con lo stile da grande romanzo, affronta la vita dell'attrice come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo le prove dai pettegolezzi. Francesca Salvatore il 6 Settembre 2022 su Il Giornale.
Bella, desiderata, sfortunata. Di Marilyn Monroe la storia mediata da Hollywood ha sempre restituito un ritratto da femme fatale condito da citazioni banali su diamanti, capelli biondi e gocce di profumo. Come se l’esistenza terrena di Norma Jeane Mortenson Baker, questo il suo vero nome, fosse stata solo esteriorità e capriccio, dimenticando la bambina cresciuta troppo in fretta che finì i suoi giorni in solitudine.
Nel suo Dea: Le vite segrete di Marilyn Monroe, Anthony Summers ha cercato di restituire dignità a Norma Jeane e alla sua storia. In questo libro, diventato un cult (appena ripubblicato da La Nave di Teseo, 633 pg.), l’autore rifugge dalla ipocrita pruderie ma allo stesso tempo non cade mai nell’ossessione per il pruriginoso. Con il tono da grande romanzo, affronta la vita della diva come una grande inchiesta giornalistica, distinguendo con precisione prove e pettegolezzi.
La sposa bambina
Una vita grama che inizia nel 1926 all’insegna di una figura paterna velata di mistero, una madre assente. A gettare Norma in pasto al mondo degli adulti fu Grace McKee, la sua tutrice che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito: la scelta cadde su Jim Dougherty, figlio di un vicino che conosceva bene. A soli sedici anni, imparava ad essere una buona donna di casa e reprimere l’adolescente desiderosa di svaghi: fuori, impazzava la Seconda guerra mondiale. Per Jim fu presto l’ora di partire per il Pacifico. La giovane moglie, nel frattempo, lavorava alla Radio Plane, una fabbrica di aerei bersaglio usati per le esercitazioni di tiro, circondata da uomini.
Alla fine del 1944, negli ultimi mesi di guerra, il soldato David Conover arrivò alla Radio Plane per fare un servizio fotografico sulle donne che lavoravano negli impianti bellici. Conover era un fotografo dell’esercito e il suo comandante era un certo capitano Ronald Reagan. Quelle foto fruttarono cinque volte il suo stipendio e qualcuna finì sulla scrivania della Blue Book Model Agency: Norma divento rapidamente una ragazza-copertina e Dougherty, di stanza in Cina, venne raggiunto dalla richiesta di divorzio. Nel frattempo Norma aveva iniziato una storia con André de Dienes, il primo fotografo a volerla immortalare nuda: una storia autentica, una delle poche in un mare di millantatori, pronti a giurare di aver fatto questo e quello con il corpo della futura divina.
Finì anche quella storia, all’improvviso, mentre Norma si trasformava in una vedova bambina, come ella stessa si definì, in un mare di squali come Hollywood. Da quel momento i piani del racconto si sovrappongono continuamente, in un continuo mescolarsi tra fondi di verità, le fantasie dell’attrice, le testimonianze di chi le fu vicino e le menzogne di chi volle arricchirsi con i dettagli sulle sue ossessioni. Il sesso e la maternità erano fra questi: nessuno è mai riuscito a saper con certezza se i racconti sulle molestie subite da ragazzina, sugli aborti e su un figlio dato addirittura in adozione corrispondessero a verità.
Norma diventa Marilyn
Avere un bambino fu allo stesso tempo desiderio famelico e incubo: avere una gravidanza sarebbe stato d’intralcio per la Norma che nell’estate del 1946 aveva ottenuto un ruolo di comparsa dalla Twentieth Century-Fox. Le avevano trovato anche un nome d’arte: Marilyn Monroe.
Le smanie di successo, tuttavia, si sono sempre accompagnate alla convinzione di non avere la preparazione adatta. L’attrice diceva di se: “Sapevo di essere scadente. Avvertivo materialmente la mia mancanza di talento come un abito da quattro soldi che uno si sente addosso. Ma, Dio, che voglia di imparare avevo!”. Rastrellava ancora ruoli minori e instabili, tanto che la Fox la licenziò, e colei che era già Marilyn fu costretta a vivere in camere ammobiliate condivise con altre compagne di avventura, lasciandosi tentare dai guadagni come call girl.
Una parte sempre poco raccontata della sua vita, offuscata da ritratti effimeri e voluttuosi, riguardò la cultura. Marilyn non era una sgallettata ignorante come spesso è stata dipinta. Quello per la cultura fu un interesse che perseguì per tutta la vita e che molti avrebbero visto come una posa: divorava Thomas Wolfe, James Joyce, libri di poesia, biografie e libri di storia. Agli inizi del 1949 era di nuovo al verde e senza lavoro. Non aveva che ventitré anni, ma il suo animo era già molto segnato. A venticinque, solo due anni più tardi, viveva, a distanza di pochi mesi, il suo vero debutto cinematografico e il terzo tentativo di suicidio, mentre Hollywood la maneggiava “come la cosa più esplosiva che si fosse mai vista”.
Ben presto fu il tempo della disastrosa relazione con Joe DiMaggio, un circo pubblico nutrito dai flash che regalò pubblicità ai protagonisti e un romanzetto d’amore precotto agli americani del Dopoguerra. La verità è che, come afferma Summers, “Nella fantasia, Marilyn era ora la sposa dell’America intera. Nella realtà, era un relitto tra le braccia di tanti, con un campione di baseball come ancora di salvezza”. Dopo vari annunci andati a vuoto, il matrimonio venne celebrato alla svelta il 14 gennaio del 1954. Iniziato nella discordia, sarebbe durato meno di nove mesi e, stando alle testimonianze e ai racconti della stessa Marilyn, fu scandito da violenze ripetute.
L'"esilio" e il matrimonio con Arthur Miller
Mentre a Hollywood tutti ormai accettavano la ventottenne attrice come star a tutti gli effetti, lei aveva già deciso di rifiutare loro, di voltare completamente le spalle allo star system – al marito, agli amanti, ai baroni del cinema, a tutto. Nel 1954, subito prima di Natale, indossò la sua parrucca nera e gli occhiali scuri e andò all’aeroporto di Los Angeles con in tasca un biglietto a nome di Zelda Zonk. La fuga, che le ragalò qualche mese di vita normale e castigata, si compì con la fondazione di una casa di produzione indipendente, la Marilyn Monroe Productions, di cui lei stessa era presidente, con il cinquantun per cento delle azioni. L’esilio in quel di New York non durò molto: all’orizzonte si stagliava un’altro matrimonio da record, quello con il più eminente drammaturgo d’America.
Arthur Miller: un “progetto” che pare Marilyn avesse già dai tempi dell’unione infelice con DiMaggio. A questo colpo si aggiunse il dietro-front della Fox, costretta a scendere a patti con l’attrice. La primavera del 1956 sembrò segnare una rinascita della diva tormentata, in amore come nel lavoro. Quello stesso anno, il 2 giugno, scoppiò la bomba. A Miller fu presentata l’ingiunzione di comparire davanti alla Commissione del Congresso che intendeva interrogarlo sulle sue presunte simpatie comuniste. Come Miller ben sapeva, si trattava di un’odissea che aveva rovinato dozzine di suoi colleghi. Resistette strenuamente per due anni agli assalti dei residui del maccartismo, supportato coraggiosamente dalla nuova compagna che mai lo abbandonò e che lo spronò a non cedere ai ricatti di quegli anni bui. Il matrimonio, celebrato nel giugno del 1956, apparve come un premio alla resistenza dei due e di Marilyn in particolare, nonchè una porta chiusa in faccia alla Guerra Fredda. Ma ben presto anche quello si trasformò in matrimonio infelice, caratterizzato dalla delusione di lui e dall’infelicità di lei annegata nei barbiturici, costellata da aborti e depressione.
Il difficile 1961 e l'incontro con i Kennedy
Nel frattempo, Marilyn soleva sedere al tavolo con personaggi del calibro di Kruscev e Sukarno, a dispetto della vulgata sulla sua frivolezza e poca intelligenza, mentre alla fine del 1960 il matrimonio con Miller si chiudeva a suon di carte bollate. Nel gennaio del 1961, forse troppo tardi, le si aprirono le porte della Payne Whitney Psychiatric Clinic di New York. La realtà, nel 1961, fu davvero dura. La sua segretaria di New York, Marjorie Stengel, avrebbe ricordato Marilyn, a trentacinque anni, come “l’essere umano più svuotato che avesse mai conosciuto”.
All’inizio del gennaio del 1961, dopo il rehab, Marilyn confidò ad amici che era recentemente andata a “un appuntamento con il prossimo presidente degli Stati Uniti”. La vicenda con il presidente e le ramificazioni che la collegano a John e Robert Kennedy, a Frank Sinatra e ai suoi amici sono diventate una sorta di leggenda. Nel giro di meno di due anni, nell’aura di quei rapporti, Marilyn sarebbe morta. Quale che fosse la natura precisa dei contatti incrociati con i fratelli Kennedy, si può dire che i due stavano giocando con il fuoco.
Quando Marilyn morì, il pericolo si era fatto estremo. Solo anni dopo ci si poté rendere conto della misura in cui i segreti personali dei Kennedy erano esposti, a quel tempo, ai loro peggiori nemici. A questa sarabanda si aggiunse un quarto elemento a complicare le cose: Frank Sinatra. Il grosso punto interrogativo sulla relazione tra Marilyn e Sinatra riguarda non tanto la persona di quest’ultimo, quanto l’opportunità che essa fornì ad altri di danneggiare i Kennedy. La vicinanza con il cantante portò Marilyn in un ambiente frequentato da alcuni dei peggiori nemici di Bob e John. Quanto ne sapesse la mafia e Sam Giancana non è mai stato chiaro.
Verso la fine
All’inizio del 1962, messa a bada la dipendenza da farmaci per qualche tempo, la diva comprò una casa tutta per sè. Da ormai un anno Marilyn non girava film e la percentuale sui profitti di quelli girati in precedenza non sarebbe arrivata ancora per molto tempo: quando comprò la casa aveva pochi liquidi a disposizione. Nessuno, sembra, fece caso a uno strano piccolo stemma inserito tra le mattonelle davanti alla porta della sua nuova abitazione. Il motto diceva, in latino, “cursum perficio”, ovvero “Sto finendo il mio viaggio.”
Da quel momento in poi, rimpallata continuamente da un fratello Kennedy all’altro, tra overdose e nuovi tentativi di suicidio, si trasformò via via in un fantasma, perennemente in vestaglia, svuotata e in preda a crisi maniaco-depressive. Una mina vagante anche per i Kennedy, che iniziarono a prenderne le distanze. “Lo sai da chi sono sempre dipesa?” aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. “Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono!”. L’attrice fece lavorare sodo il suo “migliore amico” negli ultimi giorni della sua vita: chiusa in casa, bersagliò gli amici di telefonate.
Ed è così che venne ritrovata, nella notte del 5 agosto 1962, nella sua casa di Los Angeles: devastata dal Nembutal, un potente barbuturico, con il ricevitore del telefono in mano, come addormentata, in un mare di misteri. Non era più Marilyn Monroe: era tornata Norma Jeane.
Estratto dell'articolo di Francesco Merlo per “la Repubblica” il 22 agosto 2022.
Bello o brutto che sia, è come se tutti avessimo già visto questo Blonde che nessuno ha ancora visto. Il film-evento della Mostra di Venezia, che si aprirà il 31 agosto, è infatti solo un pretesto, l'ennesimo, per ritrovare la Marilyn che c'è nella mente di tutti e di ciascuno. Da sessant' anni, in un ingorgo di piacere e dispiacere, Marilyn è l'erotismo, il combattimento tra sofferenza e gioia della donna inventata dal maschio in stato di mobilitazione sessuale permanente, la femminilità surreale dell'onanismo che, diceva Kraus, «surroga la realtà, ma viene meglio».
Diciamo la verità: di film su Marilyn ne sono già usciti tanti, troppi ma, com' è insaziabile il bisogno di miracoli, così il mito è sempre affamato di "nuove verità": poliziesche, politiche, artistiche. E puntualmente saltano fuori foto e dettagli "inediti" che somigliano agli ovuli non fecondati, e ciclicamente finisce al rogo un nuovo colpevole, anche se i roghi non illuminano le tenebre già affollate di colpevoli: la mafia, i sovietici e poi Casa Bianca, Cia, Fbi, Kgb.
E la sociologia rimette sotto accusa i soliti luoghi (comuni) d'America e i vizi sociali, che sono (ancora) quelli di Hollywood Babilonia (Adelphi 1959), l'assassino collettivo che una volta si chiamava "star system", qui con l'aggiunta di orfanatrofi-prigioni, padri adottivi stupratori, l'alcol come vulcano di improperi, gli ospedali per matti con le camere imbottite, le camicie di forza, gli psicofarmaci e i medici che la curarono (si fa per dire), l'ultimo dei quali, Ralph Greenson, è da sessant' anni il più sospettato dei colpevoli.
C'è una sola certezza che resiste al mito: Marilyn è stata uccisa dagli psicofarmaci che ancora oggi aggrediscono ma non guariscono i tormenti della mente. (…) Ma non dimentichiamo mai che Marilyn fu la cavia degli psicanalisti più ricchi e famosi, come ha autorevolmente raccontato Luciano Mecacci in un titolo che, ripubblicato quest' anno da Laterza, andrebbe imparato a memoria: Il caso Marilyn M. e altri disastri della psicanalisi.
Barbara Costa per Dagospia il 6 Agosto 2022.
“Ho passato un sacco di tempo in ginocchio!”. E ancora: “Ci sono andata, a letto con i produttori, sarei una bugiarda se lo negassi. Faceva parte del lavoro. Tutte lo facevano! I produttori volevano un campione della merce e se non ci stavi tu, ce n’erano altre 25 pronte a dire sì”. Signori, ecco come si diventa Marilyn Monroe. Qualcuno ancora crede alla favoletta della povera orfanella che si riscatta a Hollywood? Scaltra, furba, furbissima era Marilyn! Che fosse dalla vita sopraffatta e indifesa è ideale costruzione. Postuma.
A 60 anni dalla morte, è ora di riequilibrarne il mito. E il virgolettato che ho riportato, lo trovi bello scritto in "Goddess", non nuova biografia della diva di Anthony Summers, uno che a indagare su fatti e fattacci di star e di politici, non aveva rivali. E lo scrive, Summers: Marilyn non aveva problemi, non si faceva problemi, a offrirsi a chi il potere a Hollywood ce l’aveva e una parte previo p*mpino – e se bene lo sapevi succhiare, tanto da farti ricordare – te la assegnava, anche se “non basta andare a letto coi pezzi grossi per diventare una star”, precisava Marilyn, “comunque aiuta. Un sacco di attrici hanno avuto la loro prima occasione in quel modo!”.
E Marilyn i primi potenti di Hollywood li conosce quando fa la escort, e se li ritrova come clienti. Altro che lavoro da operaia, altro che le foto su Playboy! Quelle sono venute dopo. All’inizio Marilyn, ancora Norma Jean, fa la taxi-girl, cioè fa la escort. Come si può immaginare che una, bella ma come cento altre prima che a lei pensino gli stylist, senza titolo di studio, senza nulla di nulla, sia potuta assurgere a mito??? Bè, pure crepare giovane conta, ci sto, ma questo mica era nei piani.
Esibire il proprio corpo, concederne le grazie, e così fare fortuna. E esibirlo anche alla cinepresa, anche sul set, non avere pudori a recitare davvero nuda (come in "Niagara", lei sotto le lenzuola, come ne "Gli Spostati", a letto con Clark Gable). Senza vergogne inutili. A Marilyn va riconosciuto: non era una ipocrita!!! Mica come oggi, che le attrici… preciso, certe attrici, più si professano impegnate, più ne fanno dramma, insulto, se non tentato stupro, se un regista in una scena gli chiede un lembo di pelle scoperto in più. Se ne sentono oltraggiate. E si credono serie.
Ma torniamo a Marilyn e al suo mito, dacché sono 60 anni che ci scassano con lei e i Kennedy, lei ammazzata, in uno scenario di disgrazie. Ma disgrazie di che? Sono tutti quelli che sono venuti dopo, ad aver riscritto di loro pugno vita e destino di una donna morta giovane (schiava di medicinali potenti) trasformandola in una eroina dolorosa! E vittima. Ma vittima di che??? Di essersi sc*pata chi voleva, fratelli Kennedy compresi?
Vorrei vedere chi, di fronte all’inquilino capo della Casa Bianca, e qui pure più che piacente… avrebbe risposto no grazie! E basta, con la spy story che l’avrebbero uccisa i Kennedy! Con la complicità di Sinatra! E della mafia! Non si contano i libri e i film su 'sta roba. Secondo Donald H. Wolfe, uno tra i (troppi) biografi di Marilyn, Sinatra avrebbe drogato Marilyn per nuda metterla in un’orgia e in tal posa fotografarla, e così ricattarne il silenzio sui Kennedy. Seee, come no… E se invece fosse andata così? Marilyn e JFK hanno sc*pato, qualche volta, al Carlyle Hotel di New York, dove si sa i Kennedy avevano un appartamento riservato, e va bene, sc*pato lei sopra lui sotto, come ha romanzato Joyce Carol Oates nel suo libro "Blonde" ora pure film, e Marilyn e Bobby hanno sc*pato sì, un paio di volte, in California, nell’auto di lei, e a casa di lei…
Da qui, da pochi incontri pur incantevoli, non dico di no, a farne una telenovela struggente che va avanti da 60 anni, ce ne vuole!!! Ma se Marilyn era così pazza dei Kennedy, perché – parallelamente a loro – flirtava con José Bolanõs, il suo toy-boy, e le foto vere di loro due sono in rete, e però sono assenti in ogni racconto di lei abbandonata e infelice? Occhio!!!
Le foto in rete di John Kennedy e Marilyn, son tutte false, tutti fotomontaggi, tranne una: quella con Bobby, Marilyn, JFK e Isidore Miller, ex suocero di Marilyn. È l’unica salvatasi dal party di compleanno di JFK. Le altre – che c’erano! – sono state distrutte per ordine di Bobby. E Marilyn disperata perché Joe DiMaggio non se la voleva risposare??? Ma per favoreee! Lei seduceva chiunque a lei garbava: “Mai piangere per un uomo, ti si sbava il trucco! E il mio mascara vale di più”.
Ma solo io vedo Marilyn come una donna moderna, che viveva da sola e si pagava i conti da sola (pagava pure quelli del marito Arthur Miller, dei due, era lui, l’uomo, il mantenuto), una donna piena di problemi e però una in gamba, morta dipendente dai farmaci? L’eroina tragica se la sono inventata e tramandata gli uomini a cui un’icona fragile e fatale faceva – e fa – comodo. Fa il loro buon gioco. E fa il gioco pure di tante donnette che con un abusato mito sfortunato ci si possono confrontare da vincenti. Da migliori. Porelle. Loro.
Mica Marilyn! Ma se una son 60 anni che la pensano derelitta, perché sono 60 anni che la imitano, invano, la rincorrono, invano, vogliono essere lei, e non ci riescono? Non sarà che quello che Marilyn Monroe si era costruito, nonostante tutto, lottando, cadendo, rialzandosi, ricadendo, è un personaggio indistruttibile, e inimitabile?
Sono 60 anni che si tenta e non si è buoni a rimarcarne un mignolo. Da ultima, Kim Kardashian, che si è platinata inserendo quel suo c*lone in uno tra gli iconici abiti di Marilyn. Dio, quant’era goffa!?? Perché inadatta. Lo charme è istinto. Innato. Non te lo puoi inventare. Né instagrammare. ("Goddess" di Anthony Summers è stato appena ripubblicato in italiano, col titolo "Dea", per La Nave di Teseo, ed era ora!).
Marilyn, la Dea bionda: una favola crudele. Marilyn Monroe, il Mito a sessant'anni dalla misteriosa scomparsa. Il mito del cinema a sessant'anni (oggi) dalla misteriosa scomparsa. I fotogrammi eterni, gli amanti, la morte. Resta l'icona per definizione del nostro tempo. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 05 Agosto 2022
Marilyn Monroe se ne andò nella notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962. Sessant’anni fa oggi. La notizia era sulle prime pagine il lunedì mattina. La «Gazzetta» la pubblicò con rilievo (riproduciamo l’originale in miniatura) e articoli del nostro Pietro Marino e di Ruggero Orlando. La dea bionda aveva 36 anni e quella morte giovane e misteriosa la consegnò presto al mito. Il caso Marilyn continua a sollevare un interesse spasmodico, come conferma Blonde di Andrew Dominik, attesissimo alla prossima Mostra di Venezia. Il film targato Netflix è tratto dall’omonimo libro di Joyce Carol Oates, tradotto da Sergio Claudio Perroni per Bompiani nel 2000: una rivisitazione dei drammi dell’attrice nella Hollywood Babilonia di allora e di sempre. Protagonista è la Bond Girl cubana Ana de Armas, già attaccata dai fan di Marilyn - sulla base del solo trailer - per il tono della voce che non corrisponderebbe a quello «vellutato» della Monroe.
Ritroviamo la sua favola crudele nelle pagine di Dea - Le vite segrete di Marilyn Monroe di Anthony Summers, appena pubblicato dalla Nave di Teseo, che ripropone anche Blonde. Mentre impazza il mercato dei cimeli: gli abiti di scena di Marilyn, le sue pose audaci o disilluse, un ritratto firmato da Andy Warhol - che la immortalò nei celebri multipli - battuto all’asta giorni fa per 195 milioni di dollari... Insomma, vola la leggenda di Norma Jeane Baker (poi Mortenson), il nome anagrafico della diva, nata a Los Angeles il 1° giugno 1926. La madre Gladys, instabile nella psicologia e nei rapporti affettivi, le sopravviverà fino al 1984. Il lascito simbolico di Marilyn si trasmette di generazione in generazione e contagia i social che pure tendono a dissacrare chicchessia. La sua traiettoria continua oltre il cursum perficio, citazione di una lettera di San Paolo che significa «sto concludendo la mia corsa», iscritta su una mattonella della villa in stile ispanico di Brentwood, Los Angeles, in cui la Monroe morì. Un dettaglio scovato da due tossicologi e una criminologa forense dell’Università di Firenze (Mari, Bertol e Gualco, L’enigma della morte di Marilyn Monroe, Le Lettere ed., 2012). Un segno premonitore dell’«intossicazione da barbiturici» di cui parlava il referto dell’autopsia? Macché, i tre studiosi non concordano: «La modalità di somministrazione del tossico non è avvenuta per via orale. Non si è trattato di atto suicidario. L’omicidio è stato perpetrato a opera di ignoti, legati vuoi alla polizia, vuoi alla criminalità organizzata, vuoi ai servizi segreti... ».
Forse tenendo all’oscuro lo stesso presidente John Fitzgerald Kennedy, indicato come uno dei suoi amanti (si vociferò anche del fratello Bob Kennedy). Per JFK una svampitissima Marilyn due mesi prima, il 29 maggio 1962, s’era prestata a canticchiare il proverbiale Happy Birthday, Mr President al Madison Square Garden di New York. Marilyn resta l’icona per definizione del nostro tempo ossessionato dal divismo. Era stato il filosofo tedesco Gunther Anders a cogliere nel secondo dopoguerra il sentimento di «antiquatezza dell’uomo», cioè la vergogna di non essere una merce immortale come le altre. L’esito è l’ammirazione per le stelle del cinema che «irrompono nella sfera dei prodotti in serie, da noi riconosciuta superiore». Osservazioni perfette per descrivere la parabola della bambola gonfiabile e puntualmente sgonfiata, andata in sposa la prima volta – appena sedicenne – all’operaio Jimmy Dougherty, quindi moglie del campione di baseball Joe Di Maggio, e, ancora, convolata a ingiuste nozze con l’intellettuale Arthur Miller. Tre dei tanti naufragi.
Scrisse il poeta beat Ed Sanders nei versi di For Marilyn Monroe, August 5, 1962: «Chi è l’uomo che non hai mai avuto/ no mai avuto mai avuto/ in nessun giocatore di baseball sorridente/ o commediografo senza uccello/ e i tuoi seni! i tuoi seni! i tuoi seni guardano dall’Occhio della Pace/ bianchi nella loro essenza e i capezzoli sono stelle!». Il mito Marilyn va a conferma, ma anche a dispetto del suo talento e dell’aura di attrice «congelata» in alcuni fotogrammi. Fra tutti, lei con la gonna sollevata dall’aria di una grata in Quando la moglie è in vacanza di Billy Wilder (1955), lo stesso regista che ne fece una sensualissima interprete comica in A qualcuno piace caldo al fianco della irresistibile coppia en travesti Lemmon-Curtis (1959).
«Mi è capitato spesso di finire su un calendario. Ma mai per una data precisa» recita una delle freddure di Marilyn, che ci aveva visto giusto: il suo tempo non finisce mai. È condannata al destino dei fantasmi o degli zombie: il perenne presente in un mondo che non sa più cosa siano il peccato e il candore, binomio indissolubile. Lei, un po’ puttana per allegria quando la madre lo era stata per tristezza. Lei, lo sguardo più malinconico del mondo. Lei, un mondo.
Tra luci e ombre. L’incomprensibile stella di Hollywood e il romanzo che racconta la sua anima. Anthony Summers su L'Inkiesta il 4 Agosto 2022.
Oltre l’immagine della diva, Marilyn è una foto traballante di dolore, sempre pronta a compiacere gli spettatori ma mai sé stessa. Anthony Summers la racconta nella biografia pubblicata da La Nave di Teseo, da cui è nato anche un documentario su Netflix
«Il mio ingresso a scuola, con le labbra dipinte e le sopracciglia ritoccate, suscitò i mormorii di tutti. Perché mi considerassero tanto attraente non ne ho la minima idea. Non desideravo essere baciata e non sognavo di essere sedotta da un duca né da un divo del cinema. La verità è che, nonostante il mio rossetto, il mio rimmel e le mie curve precoci, ero insensibile come un fossile. Ma pareva che alla gente facessi tutt’altra impressione». Così diceva Marilyn Monroe nel 1954, ripensando alla sua adolescenza; quanto meno, questi sono i ricordi riportati dallo scrittore Ben Hecht, al quale quell’anno la nuova star di successo, allora ventottenne, raccontò la storia della sua vita.
Hecht contava di redarre, come autore anonimo, l’autobiografia della giovane Marilyn, commissionata da un noto editore di New York. Questo è un documento importante, poiché in nessun’altra intervista Marilyn rese mai una confessione tanto ampia. Ma è anche un documento controverso.
Dopo una lunga serie di conversazioni con Hecht, Marilyn gli chiese di leggerle ad alta voce tutto il manoscritto: centosessanta pagine. Poi, secondo quanto raccontato dalla vedova di Hecht, si mise a ridere e a piangere e si disse elettrizzata. Non avrei mai immaginato che si potesse scrivere su di lei una storia così bella e Benny aveva colto precisamente ogni fase della sua vita.
Marilyn diede anche una mano a correggere il manoscritto, ma poi i rapporti si raffreddarono. Joe DiMaggio, allora suo marito, si oppose alla pubblicazione e Marilyn mandò a monte il progetto. Quando il testo comparve ugualmente sul British Empire News, Marilyn minacciò di intentare una causa per travisamento delle sue dichiarazioni.
Se lo scrittore non fu preciso, anche Marilyn selezionò accuratamente le proprie verità. Mentre erano in corso le interviste, Hecht disse al suo editore che a volte aveva la netta sensazione che Marilyn stesse inventando. “Quando dico che mente,” spiegò, “intendo che non dice la verità. Non credo che cerchi di ingannarmi, ma piuttosto che si abbandoni alle fantasie.” Egli dovette imparare a interpretare “il curioso linguaggio corporeo di Marilyn, per capire quando stava inoltrandosi in un racconto inventato e quando invece era sincera”.
Molte di queste dichiarazioni di Marilyn riguardanti la sua infanzia sono qui riportate così come si trovano nel manoscritto di Hecht. Dove possibile, esse sono state confermate o smentite da testimoni imparziali. Dobbiamo considerare le cose che ci racconta con accorto scetticismo, e questo non è uno svantaggio.
Marilyn, figura su cui si è fantasticato in tutto il mondo, ha costruito la propria immagine, pubblica e privata, in base a una miscela di fatti e di fantasie autogratificanti, esercitando all’eccesso una comune facoltà umana. La fantasia era un tratto specifico di questa creatura, e la difficoltà della sfida sta nello scoprire la donna che vi si nascondeva dietro.
Le cose che Marilyn raccontò a Ben Hecht erano tristi e difficili da digerire negli anni cinquanta. Quelle che non raccontò avrebbero potuto mettere fine alla sua carriera d’attrice. Ma a quel tempo erano fatti che riguardavano lei soltanto.
A quindici anni Marilyn era ancora “Norma Jeane” (o Norma Jean, quando le andava di scriverlo così), il nome che le aveva dato sua madre alla nascita. Fu all’inizio di quell’anno, il 1942, che la sua tutrice, una donna di mezza età di nome Grace McKee, decise d’un tratto di assolvere il proprio incarico sospingendola nel mondo degli adulti.
I futuri trionfi e le future disgrazie di Norma Jeane sarebbero tutti dipesi da Marilyn. Il primo matrimonio, però, le fu combinato da Grace McKee, che aveva deciso di trasferirsi a Est con il suo nuovo marito. Poiché i due non volevano portare con loro la ragazza, la soluzione era trovarle un marito.
da “Dea: le vite segrete di Marilyn Monroe”, Anthony Summers, La nave di Teseo, 640 pagine, 21 euro
Luca Mastrantonio per corriere.it il 3 agosto 2022.
C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce.
Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili;
infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.
Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962.
Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?
«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni».
L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.
«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni.
In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».
Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?
«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film».
La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?
«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica».
Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più?
«I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».
Estratto da “Dea. Le vite segrete di Marilyn Monroe”, di Anthony Summers, pubblicato da “La Stampa” il 3 agosto 2022.
«Lo sai da chi sono sempre dipesa?» aveva detto Marilyn al giornalista W.J. Weatherby. «Non dagli estranei, non dagli amici. Dal telefono! È lui il mio migliore amico. Adoro telefonare agli amici, soprattutto di notte quando non riesco a dormire» .
Marilyn fece lavorare sodo il suo «migliore amico» negli ultimi giorni della sua vita. (....) Sola con il suo telefono e le sue pillole, Marilyn fece una serie di chiamate in cerca di aiuto. Gli amici o non erano a casa o non capirono che questa disperazione era diversa dalla solita».
Le ripetute chiamate a Robert Kennedy o i frenetici messaggi tramite Peter Lawford non riuscirono a farlo accorrere. Come tanti uomini o donne che intendono lasciare un amante, Kennedy può avere pensato che il sistema migliore fosse quello di tenersi a distanza con durezza e determinazione. Era anche più sicuro non arrischiare un'altra visita a casa di Marilyn, con il pericolo di esporsi ai nemici.
Oggi è impossibile dire se i nemici di Kennedy - gli emissari di Sam Giancana e Jimmy Hoffa - svolsero un ruolo attivo nelle ultime ore di Marilyn. Le prove mediche, come abbiamo visto, lasciano aperta la possibilità che la dose mortale di barbiturici le sia stata somministrata da qualcuno. Scenario più probabile, fu semplicemente lei a sottovalutare gli effetti di un'improvvisa dose massiccia, presa in aggiunta a un consumo ininterrotto di sedativi durante il giorno.
In alternativa, potrebbe aver deciso lei di togliersi la vita. Più tardi, quel sabato sera, probabilmente poco dopo le 22, Marilyn fece la sua ultima telefonata a casa Lawford. Parlava in modo sconnesso e confuso, e a un tratto fu chiaro che stava scivolando nell'incoscienza. È giusto ipotizzare - e si vorrebbe credere - che la notizia provocò in Robert Kennedy una reazione decente, umana.
Potrebbe essere stato lui, forse accompagnato o seguito da Peter Lawford, a precipitarsi a questo punto a casa di Marilyn. La trovarono in coma, ma non ancora morta. Qui la testimonianza secondo la quale fu chiamata un'ambulanza diventa cruciale. Se è esatto quello che dice il direttore del servizio ambulanze, Marilyn fu portata via dalla casa in coma, ma ancora viva. Potrebbe essere spirata all'arrivo all'ospedale di Santa Monica dove, senza trucco e avvolta nelle lenzuola, poteva non essere riconosciuta.
La mia opinione è che probabilmente morì prima di arrivare all'ospedale, e che la persona che l'accompagnò - lo stesso Kennedy, forse? - si trovò di fronte a un terribile dilemma.
Marilyn era morta in circostanze che per il ministro della giustizia potevano significare la completa rovina. Anche nel caso che non avesse mai avuto una relazione con Marilyn - e tutte le prove suggeriscono il contrario - per un Kennedy essere trovato insieme a una Marilyn Monroe morta, anche in una legittima azione di pietoso soccorso, avrebbe significato sicuramente un disastro politico.
La soluzione era riportare il corpo nella casa di Brentwood, sul letto da cui aveva fatto la sua ultima, disperata telefonata. Occorreva tempo, soprattutto per permettere a Robert Kennedy di lasciare la città, e poi per ripulire la casa di Marilyn.
Soltanto a questo punto arrivò la telefonata al dottor Greenson, che si precipitò sul posto e «scoprì» il corpo fra le 3.30 e le 4. Come indica la pista seguita dai reporter Hyams e Woodfield, il ministro della giustizia lasciò la California in aereo.
Suo cognato Peter Lawford incaricò il detective privato Fred Otash di coprire qualsiasi traccia compromettente che potesse essere rimasta. In ogni caso, Otash e i suoi collaboratori furono in grado di fare poco.
Quando entrarono in azione, nelle prime ore della domenica mattina, ingranaggi più potenti si erano messi in moto. Richiamato bruscamente dal concerto all'Hollywood Bowl, il consulente di pubbliche relazioni di Marilyn, Arthur Jacobs, che era un uomo di notevole potere a Los Angeles, si precipitò alla casa di Brentwood.
Forse non seppe mai di tutti gli avvenimenti di quella notte, del viaggio a vuoto dell'ambulanza e degli spostamenti notturni di Robert Kennedy, ma era senza dubbio l'uomo giusto, come dice oggi sua moglie, per «sistemare» le cose.
Nel frattempo qualcuno dotato di un potere effettivo - probabilmente lo stesso Robert Kennedy - svegliava il direttore dell'Fbi, J. Edgar Hoover. Da Washington partì l'ordine di far sparire i dati sulle telefonate fatte da Marilyn nelle ultime ore di vita, che erano ancora recuperabili presso la compagnia telefonica. Questa ricostruzione può non essere esatta in qualche particolare, ma è plausibile in base alle informazioni di cui oggi disponiamo.
Per Robert Kennedy, quelle ore notturne e i giorni che seguirono dovettero essere i momenti più tormentati della sua vita. Se la nostra ricostruzione è esatta, la morte di Marilyn Monroe fu la sua Chappaquiddick. Se, contrariamente al meno fortunato fratello Ted, Robert sfuggì allo scandalo pubblico, fu per miracolo.
Per sempre Marilyn: la diva morta 60 anni fa interpretò i sogni di un’intera epoca. Paolo Mereghetti su Il Corriere della Sera il 31 Luglio 2022.
Affascinante attrice di talento, giudicata con sarcasmo Prigioniera dell’immagine di «oca giuliva» del cinema.
Forse ha ragione chi sostiene che davanti a Marilyn si può solo tacere, che ogni parola rischia di essere stonata, di sembrare di troppo, perché certi innamoramenti e certe passioni non possono che uscire sminuite se le si affida alle parole.
Come descrivere quello che si prova vedendola sullo schermo mentre suona l’ukulele in «A qualcuno piace caldo», mentre cerca un po’ di fresco dalle grate della metropolitana di «Quando la moglie è in vacanza» oppure in maglione e calzamaglia nera mentre canta «My Heart Belongs to Daddy» in «Facciamo l’amore»? E sono solo le prime delle tante immagini che tornano alla mentre ripensando alla diva morta sessant’anni fa, il 4 agosto 1962, portandosi dietro il segreto di un fascino che non si poteva spiegare solo con la sua bellezza o con i film che aveva interpretato o con una vita sentimentale che in troppi si sono presi la briga di sporcare.
Se a tanti anni di distanza siamo ancora qui a rimpiangerla (alla Mostra di Venezia toccherà a Ana de Armas farla rivivere, in «Blonde»), vuol dire che davvero ha saputo dare forma ai sogni non solo della sua generazione ma a quelli di un’epoca tutta, gli anni Cinquanta di Kennedy e di Kruscev, di papa Giovanni e di Castro, di chi cercava il nuovo e di chi voleva dimenticare il passato. Anche a costo di pagare un prezzo troppo alto.
Forse nessuna attrice è stata vivisezionata ed esaminata come lei. E su nessuna si è esercitato il sarcasmo urticante di chi si sentiva in diritto di giudicare e condannare (dimentichiamo chi si è permesso di dire che «dirigere Marilyn è come dirigere Lassie. Ci vogliono quattordici ciak prima che abbai nel modo giusto» e rubrichiamolo nel cassetto di chi deve per forza fare sfoggio di cinismo). Certo, come tutte e come tutti i primi passi non sono stati subito spediti: è facile ironizzare su «Orchidea bionda» (1948), il suo primo ruolo da protagonista, dove è la ragazza di un burlesque soffocata dalla madre e insidiata dal proprietario del locale. Ma già due anni dopo, in «Eva contro Eva», al braccio di George Sanders, sa lasciare il segno. La sua gavetta fu lunga, costretta a passare attraverso i personaggi (spesso stereotipati) che Hollywood creava per chi pensava più bella che brava. Eppure quando finisce nelle mani di un regista che conosce il mestiere, capisci subito di essere di fronte a una rosa che deve solo sbocciare. Come accade altri due anni dopo in «Il magnifico scherzo», dove Howard Hawks (e gli sceneggiatori Ben Hetch, Charles Lederer e I. A. L. Diamond: tre geni assoluti) la trasformano in uno «spaccio di baci a orario continuo», indimenticabile quando mostra i suoi «acetati» (cioè le sue calze di nylon) all’impacciato Cary Grant. Un attore, va ricordato, che non era certo l’ultimo arrivato e a cui Marilyn offriva le batture come una grande professionista.
Fu facile ai tempi ironizzare sulle sue ambizioni artistiche, sulla sua voglia di personaggi diversi dalle «oche giulive» che le imponeva Hollywood. Ma basterebbe scorrere il quaderno di appunti usato durante «A qualcuno piace caldo» (l’ha pubblicato Taschen) per capire l’impegno che l’attrice metteva nel suo mestiere e la sua voglia di migliorare, di superarsi. Che forse non sempre veniva raccolto dai chi le stava accanto, ma che sapeva arrivare a chi la guardava sullo schermo.
Il suo unico vero sbaglio fu quello di non essersi costruita un personaggio capace di zittire la volgarità che imperava (e non solo allora) nel mondo del cinema, come seppero fare molte sue colleghe più furbe e «corazzate» di lei. Marilyn non nascondeva le sue fragilità in un modo di pescecani, le sue insicurezze di fronte a chi sembrava non averne. Confessava i suoi desideri e i suoi sogni con la semplicità e l’immediatezza di una bambina, andando ben al di là dei ruoli che il cinema le attribuiva. Per questo commuove ne «Gli spostati», perché quella neo-divorziata, che sembra continuamente dover fare i conti con il senso di abbandono (e di morte) che la circonda, ha finito per trasformarsi in un testamento a voce alta, nella disperata dichiarazione d’amore di chi non riesce a trovare un amico a cui confidarsi. Proprio come successe quella notte del 4 agosto, quando tutte le telefonate che fece finirono nel vuoto, lasciandola drammaticamente sola.
Marilyn Monroe nell’ultima intervista: «La prego, non mi faccia apparire ridicola». Jonathan Bazzi su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.
Sessant’anni fa moriva la diva. Da bambina non vista e non amata seppe trasformarsi nell’oggetto inesauribile del desiderio e assunse su di sé, fino a condurla al punto di rottura, la questione del rapporto fra noi stessi e gli altri. Avremmo potuto salvarla?
Marilyn ovvero Norma Jeane Baker: la bambina non vista, non amata, sessualmente abusata a nove anni, figlia di una donna affetta da schizofrenia incapace di badare a lei, rimbalzata da una casa-famiglia all’altra, da una coppia affidataria all’altra, si trasforma nell’oggetto inesauribile del desiderio. Diva delle dive, ossessione collettiva, sogno che non smettiamo di sognare. Ha qualcosa di inspiegabile, fuori misura, la trasformazione di Norma Jeane in Marilyn Monroe, ma parlare di miti e icone significa chiamare in causa proprio questo surplus, salto tra i regni e le categorie dell’esistente. Già in vita e ancor di più con la morte Marilyn diventa un ultracorpo, presenza che vibra al di là di sé stessa ed esonda, prende dimora nell’immaginario collettivo. Questo superamento ha forse a che fare con le contraddizioni interne del personaggio/persona. Rifiutata da tutti e poi da tutti voluta, innocua e onnipotente, a disposizione eppure inafferrabile, leggerissima e disperata: le leggende sono ipnotici fermagli che tengono fermo giusto qualcosa in mezzo a una nebulosa di sensazioni e reazioni esterne, per accrescerne il fulgore, il ricordo, rinnovarne il prodigio.
IL 5 AGOSTO 1962 MORIVA A BRENTWOOD (LOS ANGELES) NORMA JEANE BAKER, IN ARTE MARILYN MONROE. IL SUO BISOGNO DI ESSERE GUARDATA L’HA RESA LA PIÙ BRAVA A FARSI SOGNARE. «DA PICCOLA NESSUNO MI DICEVA CHE ERO CARINA, BISOGNEREBBE DIRLO A TUTTE»
I commenti delle persone che l’hanno conosciuta - attori, attrici, amanti, fotografi, registi - risultano del tutto privi di mezze misure: genio della recitazione o incapace assoluta, improvvisata o stacanovista, mente prismatica o debilitata, donna fragilissima o calcolatrice implacabile, forza della natura. C’è chi pensa fosse del tutto consapevole - della cinepresa, dello sguardo altrui, della carriera - e chi la dipinge in balia delle situazioni, personali e mediatiche, una predestinata al dolore (il suo psicanalista la definì, di fatto, una causa persa), che smetteva di essere terrorizzata solo con bambini e animali («gli animali non la umiliavano», disse Arthur Miller). La sua capacità di reggere versioni disparate ed essere interpretabile a piacere, massimo grado della vulnerabilità/massimo grado della forza, è uno dei segreti della sua figura. Così, il fotografo Milton H. Greene: « Non avevo mai incontrato una che avesse quel tono di voce, quella gentilezza, quell’autentica dolcezza. Se per strada vedeva un cane morto, si metteva a piangere. Era così sensibile che bisognava stare sempre attenti al modo in cui le si parlava. In seguito avrei scoperto che era una schizoide, che poteva essere assolutamente brillante o assolutamente gentile, e poi tutto il contrario».
O ancora, Cecil Beaton, autore dei ritratti forse più belli di Marilyn, a proposito delle loro sedute: «Giocherella, squittisce compiaciuta, si adagia sul sofà. Si mette in bocca il gambo di un fiore, aspira una margherita come fosse una sigaretta. È una performance spontanea, improvvisata, vivace. Probabilmente finirà in lacrime». «Nuvola di panna e fragole», «matta come un cavallo», «baciarla era come baciare Hitler», «non era solo difficile, era impossibile», «bimba smarrita»: di qui e di là, e poi da nessuna parte: dov’è Marilyn Monroe? «Spesso ho una strana sensazione», confesserà lei, «come se stessi prendendo in giro qualcuno, ma non so chi. Forse me stessa, forse gli altri. Sapevo di appartenere al pubblico e al mondo, non per il talento o la bellezza, ma perché non ero mai appartenuta a nient’altro o a nessun altro», dice Marilyn altrove.
Da niente a tutto
Vita microscopica e poi gigantesca, negli occhi di tutti: partita dalla più asfittica deprivazione, Norma Jeane è riuscita non solo a farsi vedere dal mondo ma in qualche modo a superarlo, contenerlo in sé. Ragazza venuta dal niente e affamata di tutto, riesce a espandere i suoi confini - della pelle diafana, dei suoi abiti sgargianti ed eccessivi, delle pose immortali: nuda a letto, velluto rosso, gonna che s’alza, happy birthday Mister President - sino farsi presenza simbolica, che assembla e offre tante donne possibili. Adolescente bloccata nel tempo, dea del sesso, imprenditrice, moglie esaltata e poi umiliata, amante dei fratelli più potenti d’America, paziente psichiatrica.
Monna Lisa
Anche così si spiegano gli infiniti tentativi di imitazione, citazione, possessione - da Madonna alla recente polemica per l’abito del 1962 indossato da Kim Kardashian sul red carpet dell’ultimo Met Gala, passando per Cindy Crawford, Gwen Stefani, Naomi Watts, Christina Aguilera, Angelina Jolie, Scarlett Johansson, Michelle Williams, Paris Hilton e G W tantissime altre. Come Monna Lisa, l’immagine di Marilyn penetra nel bagaglio iconografico universale e contamina tutto, continuando a produrre ovunque copie, tracce, marchi, segni di sé, senza mai davvero consumarsi, creare inflazione. L’orfana indesiderata diventa un clamoroso dispositivo mediatico. Dai ritratti seriali di Andy Warhol in poi - lo street artist Banksy nel 2005 ne ha prodotto una specie di sua versione aggiornata, con Kate Moss per protagonista, battuta all’asta quest’anno per un valore più alto degli originali warholiani -, la bambina non amata, incantesimo degli incantesimi, ha ottenuto non solo lo sguardo di massa ma la riproduzione intensiva e globale. È sotto gli occhi di tutti.
Il desiderio e la sua fine
Marilyn, una sopravvissuta che desiderava molto, e perciò veniva molto desiderata. Il suo bisogno di sguardo l’ha resa la più brava a farsi sognare. Disse: «Quando ero piccola, nessuno mi diceva mai che ero carina. Bisognerebbe dirlo a tutte le ragazzine, anche se non lo sono». Marilyn è anche un grande mito sul lato oscuro del desiderio. Lei riempie i nostri occhi, giganteggia fulgida sugli schermi e sui miliardi di stampe e riproduzioni ma, allo stesso tempo, ci parla delle derive di tutta questa forza d’attrazione, insinua quali possono essere i sentieri fatali su cui i desideri conducono. Marilyn muore il 5 agosto 1962, a 36 anni, nel letto, con la cornetta del telefono in mano, e c’è chi ha visto in quel telefono abbandonato a terra un simbolo della sua vita, e della vita umana in generale. La sua storia è finita presto, e tutte le storie interrotte ci invitano a essere continuate nella mente, prolungate nello spazio/tempo di cui non hanno potuto disporre: avremmo potuto salvare Marilyn Monroe?
Le sue mancanze e le nostre
La maschera che occulta l’abisso: Marilyn tiene insieme una dimensione fissa, la bidimensionalità tipica di tutte le icone, e lampi di sconvolgente profondità. Piena di gioia e insieme facile allo strazio, in pubblico macchietta bionda dalla voce tutta sussurri e poi fuori incline, come racconta il costumista Travilla, a smottamenti segreti: «A uno sguardo superficiale sembrava una ragazza leggera. Ma quelli che la criticavano non l’hanno mai vista, come me, piangere come una bambina. Spesso si sentiva così inadeguata. Ogni tanto soffriva di tremende depressioni e si metteva a parlare di morte ». Continuiamo a tornare a lei, le sue mancanze primigenie sono le nostre: consciamente o no, Marilyn Monroe è un eccezionale campo di rispecchiamenti e proiezioni. Ancora oggi ha la capacità di creare narrazione, al di là delle cose che hanno cercato di farle raccontare sullo schermo, che erano poi sempre le stesse - accalappiatrice di mariti ricchi, preda svampita, corpo che riempie bei vestiti. Marilyn ha assecondato tutto questo - comprendere Marilyn è dunque anche comprendere l’addestramento alla femminilità - ma all’interno e fuori dal set ha raccontato altro.
Burattina e Burattinaia
Plasmata dalle figure che aveva attorno - che ne hanno modificato il nome, decolorato i capelli, che le hanno imposto come parlare, camminare, ammiccare -, è riuscita a impadronirsi di questi codici uniformi. Incoraggiata ad aderire a modelli già predisposti, sembrerebbe non essersi inventata nulla - dumb blonde, blonde bombshell, oca bionda, bomba sexy, pin up, in Italia le avremo chiamate “maggiorate”, - salvo poi scuotere lo stereotipo con la sua inquietudine, rendendolo tridimensionale e quindi umbratile, a tratti sinistro. Avendo così tanto bisogno di quello sguardo lei ha fatto sconfinare la caricatura nel mito, rivelandone insieme il potenziale tragico. Burattina e burattinaia, è stata pupazzo e ventriloquo della bambola che lei stessa ha accettato (finto) di essere, creandosi un sé artificiale. Da qui la frattura o dislocazione d’anima: tutto ciò che l’ha resa eccezionale stava forse anche alla base della sua sofferenza.
Le sagome di cartone
Marilyn non fu una donna emancipata nel senso canonico previsto dal femminismo, né di ieri né di oggi, non rifiutò le convenzioni sessiste e oppressive del suo mondo. La sua rivoluzione è di altro tipo. Ebbe bisogno del sistema, del male gaze , del desiderio dei maschi, per mettersi in salvo dalla voragine del passato e provare a sentirsi amata. Il sistema probabilmente ha logorato la sua mente e lacerato il suo cuore ma non ha annientato la sua personalità: mischiando il codice imposto con molte altre cose, sue, originali e struggenti, se n’è impadronita una volta e per sempre. Marilyn Monroe ha reso le sagome di cartone in cui hanno cercato di costringerla a forza molto più vere e vive di quel che volevano essere, e questo l’ha resa più grande del tempo. Ha assunto su di sé, fino a condurla al punto di rottura, alla nefasta, eclatante detonazione, la questione del rapporto tra l’io e gli altri, il nostro essere carne esposta sempre in attesa di una risposta dal mondo. Al giornalista di Life a cui rilascia l’ultima intervista prima di morire, la diva, l’icona, il sogno di tutti, chiede: «La prego, non mi faccia apparire ridicola».
Joyce Carol Oates: «Marylin era volenterosa ma ingenua, fu trasformata in prodotto di consumo». Luca Mastrantonio su Il Corriere della Sera il 30 Luglio 2022.
A 60 anni dalla morte parla la grande scrittrice americana che all’attrice ha dedicato un libro monumentale: « In banca non aveva i soldi neppure per un funerale decente»
C’è una foto a colori del 1955 che ritrae Marilyn Monroe che legge l’ Ulisse di Joyce. Sono le ultime pagine, quelle del monologo di Molly Bloom, la moglie del protagonista Leopold, donna che si converte al sì, al potere di saper dire sì al mondo con tutta sé stessa, anima e corpo. La maggior parte delle persone, per pregiudizio o coda di paglia, perché non tutti hanno letto tutto l’Ulisse, pensano che sia una posa. In realtà il fotografo Eve Arnold, che scattò quel servizio a Long Island, racconta che l’attrice si portava dietro il librone e confessava di faticare a leggerlo ma era affascinata dal suono delle parole, dalla voce, la voce interiore dei personaggi, che è il vero dono di Joyce a chi lo legge e leggendolo si conosce.
Cosa pensava Marilyn mentre leggeva? E come ripensava alla propria vita, senza filtri, in sincerità, con il cuore a nudo come fa Molly Bloom? La risposta, arricchita da una parziale omonimia con l’autore irlandese, è arrivata nel 1999 con Blonde, mille pagine in cui l’americana Joyce Carol Oates ha distillato la vita reale in un romanzo che intreccia tre fasi o livelli di Marilyn: il primo, è la tribolata ragazza di provincia, Norma Jeane Baker; poi, l’attrice, col nome d’arte pieno di emme per suscitare mormorii di apprezzamento (mmh...), voce infantile e make up artificiale, corpo a disposizione di sguardi e fantasie maschili; infine, la Bionda, chioma di platino, vestiti costosi e pelle di burro, che mette assieme stile di vita altolocata e categoria porno, con una rivisitazione della vergine delle favole: fragile e fatua, facile e felice. Le tre donne hanno uno stesso cuore, cui Oates dà vita inventando un timbro che suona autentico, mescolando biografia e finzione: come la balbuzie di cui da giovane soffriva realmente e Oates sublima poi in chiave sentimentale («La balbuzie era ancora dentro Norma Jeane. Ma era scesa dalla lingua al suo cuoricino da colibrì, lì dove nessuno poteva scoprirla»); o come le poesie del diario, che Marilyn scriveva e Oates reinventa.
Dalle tante famiglie cui fu data in adozione, Oates ne ricava una sola, di fantasia; e di tanti veri amanti, problemi di salute, aborti e tentativi di suicidio, compaiono i più simbolici. Gli uomini della sua vita ci sono tutti, da Joe DiMaggio ad Arthur Miller, fino a J.F. Kennedy; più alcuni inventati, come Cass, figlio gay di Charlie Chaplin. Dal libro è stata tratta una serie nel 2001 e recentemente un film che Netflix lancerà il prossimo settembre, firmato da Andrew Dominik, protagonista Ana De Armas. Per Oates è una sorprendente lettura femminista di Marilyn. Per noi, oltre che un mito, dovrebbe essere anche un monito su cosa può celarsi oltre il successo e dentro chi non ha più una vera vita privata, come ci ha ricordato la scrittrice in occasione dei 60 anni dalla morte di Marilyn, il 5 agosto 1962.
Cosa ricorda della notizia della precoce morte di Marilyn a 36 anni?
«In quanto morte dell’icona “Marilyn Monroe”, il fatto era avvolto da molti misteri. Ma a colpirmi fu la scoperta, successiva, che lei aveva pochi dollari nel suo conto in banca, che non bastavano per un funerale dignitoso, così il suo corpo fu portato all’obitorio della contea di Los Angeles. Alla fine sarà l’ex marito Joe DiMaggio a pagare per il funerale e la lapide. Questo è rivelatore: l’immagine glamour di una donna è solo qualcosa che viene venduta al pubblico da cinici produttori e imprenditori, mentre la donna in sé viene sfruttata. Una vittima, nonostante la sua bellezza e talento. Perché “Marilyn Monroe” è morta così giovane? La donna che era dietro l’artista, Norma Jeane Baker, era disperata per la sua vita già all’età di 36 anni».
L’ispirazione del libro è venuta da una foto in cui Norma Jeane Baker è bruna e sconosciuta, come tante ragazze della grande provincia USA.
«Aveva solo 16 anni al tempo di quella foto. Era una ragazza che aveva abbandonato le scuole superiori e si era sposata da giovane, con un amico del vicinato, per evitare di essere rimandata in orfanotrofio fino all’età di 18 anni. In questa fotografia, Norma Jeane è carina ma non affascinante; ha i capelli castani, non biondo platino. È istruttivo vedere come “Marilyn Monroe” sia stata modellata su questa giovane ragazza americana volenterosa ma ingenua, per essere trasformata in un prodotto di consumo per gli studios di Hollywood».
Qual è l’aspetto meno indagato di Marilyn Monroe?
«Mentre riguardavo i film in ordine cronologico, da Giungla d’asfalto e La tua bocca brucia fino a Gli spostati, mi sono resa conto di un’attrice brillante ma sottovalutata. Le prove sono lì, sullo schermo, basta vedere i film».
La vita di Marilyn e il suo romanzo sono pieni di punti di svolta: dalla ragazza alla star, dalla star al sex symbol. Punti spesso oscuri: penso alla scena del provino in cui viene violentata dal produttore che però quasi giustifica; o al celebre servizio fotografico di nudo su un panno rosso fatto per bisogni economici... Delle tante metamorfosi di Marilyn, ce ne è una che ricorda più di altre?
«Direi che il primo “punto di non ritorno” nella vita di Norma Jeane è una foto vestita da operaia durante la Seconda guerra mondiale, apparsa sul quotidiano militare Stars & Stripes. Penso sia stato l’inizio di quella trasformazione che ha portato la sua vita privata ad essere anche vita pubblica». Marilyn aveva la sindrome dell’impostore e cercava continue conferme negli uomini. Chi l’ha amata o aiutata ad amarsi di più? «I suoi mariti l’amavano molto, questo è fuori dubbio. Ma il suo bisogno di attenzione e le sue continue ansie mettevano a dura prova ogni relazione».
Dal corriere.it l'1 maggio 2022.
Lanciatissimo dalla stampa arriva su Netflix (in USA e Gran Bretagna, vedremo quando in Italia) The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes di Emma Cooper. È un nuovo attesissimo e «chiacchieratissimo» documentario dedicato alle ultime ore di vita di Marilyn Monroe. Per la prima volta vengono resi pubblici delle registrazioni finora segrete. Vedremo se aiuteranno a risolvere il «mistero» della bionda più atomica di Hollywood.
Erano le 3.30 della notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. La sua governante Eunice Murray bussò alla sua porta, al 12305 di Fifth Helena Drive, a Brentwood, Los Angeles. Nessuna risposta. La donna chiamò allora il medico e lo psichiatra della diva. Fu quest’ultimo, alle 4.25 ad annunciarne la morte. E a chiamare la polizia.
The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes parte da qui. Da quando ufficialmente inizia il «mistero della morte di Marilyn Monroe». Su Netflix dal 27 aprile, gli anglosassoni potranno saperne di più. Magari sapere finalmente la verità. Fu davvero suicidio, come da versione ufficiale? Oppure qualcuno mise a tacere per sempre colei che era l’amante di Robert Kennedy e del fratello, il presidente JFK a cui aveva cantato Happy Birthday? Le voci e i dubbi circolarono da subito. Il documentario sembrerebbe confermarli…
Perché, come dice il titolo del docu, per la prima volta vengono resi pubblici audio finora mai ascoltati. Aggiungete le interviste esclusive a chi M.M. l’aveva incontrata nel suo ultimo giorno di vita. E in quelli subito precedenti.
«La tragica morte dell’icona hollywoodiana Marilyn Monroe ha generato voci di complotti e cospirazioni per decenni. Spesso mettendo in ombra il suo talento e personalità. Ricostruendo le sue ultime ore attraverso registrazioni inedite e le testimonianze di chi la conosceva bene, il film illumina la sua storia. Quella di una vita affascinante e complessa. Offrendo una nuova visione di quella notte fatidica»…
Tra le voci riportate nel documentario, quella che fosse incinta di uno dei due fratelli Kennedy. Viene riportata la frase dell’attrice: «Ho perso il mio bambino». Altra voce, quella che negli ultimi giorni avesse tentato di mettersi in contatto con Robert, il fratello minore allora Ministro della Giustizia. Come ha scritto Vanity Fair USA, l’attrice aveva confidato che avrebbe sposato l’uomo, già coniugato e con figli. Ne parlò in diverse telefonate ad amici.
Robert Kennedy ha sempre negato di aver incontrato l’attrice nei giorni precedenti la sua morte. E questo anche se alcuni testimoni dissero di averlo visto nei dintorni della villa di Brentwood.
Jeanne Carmen, attrice e amica di Marilyn, raccontò che l’aveva sentita per telefono. Aveva la voce stanca. Le confidò che durante la notte una voce femminile l’aveva tempestata di telefonate. «Lascia stare Bobby, vagabonda. Lascialo stare», le aveva ripetuto. Alla sua richiesta di portarle pillole e vino, l’amica le rispose di no.
L’ultimo giorno della sua vita, Monroe telefonò anche al suo parrucchiere Sydney Guilaroff e al suo psichiatra. Il primo disse che era disperata e si sentiva minacciata «da uomini potenti con cui aveva avuto relazioni sessuali». Lei gli raccontò che Bobby Kennedy era stato da lei e l’aveva «minacciata». Il secondo, che la raggiunse alle 7 di sera, la trovò «rabbiosa». Tra le 21.30/22, allo sceneggiatore Jose Bolanos, disse che lei gli rivelò qualcosa «che avrebbe scioccato il mondo». Ma non svelò mai cosa…
A tutt’oggi, le teorie complottistiche non si sono spente. Tra queste, quella che la diva sarebbe stata uccisa dall’FBI su richiesta dei Kennedy. Secondo altre fonti, sarebbe rimasta vittima della mafia.
Marilyn Monroe, la morte 60 anni fa. Le immagini che costruirono il mito. Alberto Crespi su La Repubblica il 4 agosto 2022.
Dai primi scatti in chiave pin-up alle diverse trasformazioni volute da Hollywood: le foto che raccontano una carriera luminosa e un destino fatale
Lo scorso 1 giugno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Oggi siamo qui a celebrare i sessant’anni trascorsi dalla sua scomparsa, il 5 agosto 1962: ma la cosa più sorprendente, osservando la sua biografia, è che potrebbe essere ancora viva. Un’adorabile vecchietta, da tempo in pensione, sicuramente nascosta in qualche superattico newyorkese (non sarebbe rimasta a Hollywood nemmeno sotto tortura) e inaccessibile ai media e al pubblico come Greta Garbo.
Le due Marilyn
Forse è questo il motivo per cui Marilyn continua a essere “due” Marilyn, decisamente diverse l’una dall’altra. Come diva e come attrice è irrimediabilmente incasellata nel “suo” decennio, gli anni 50, l’ultima decade dorata della vecchia Hollywood che con lei tentò un disperato colpo di coda: creare una diva super-glamour proprio mentre il cinema classico si avviava a una fine gloriosa, tenendola rinchiusa in un’immagine che poteva rimandare a stelle del passato come Mae West o Jean Harlow – la stessa operazione che non riuscì invece con i divi maschi del decennio, i vari Marlon Brando, Monty Clift e Paul Newman, segnati invece dalla modernità. Come icona, invece, Marilyn è attualissima e non conosce né ha mai conosciuto declino. Viene quasi da pensare a che razza di influencer potrebbe essere, oggi, una come lei. A come cavalcherebbe i nuovi media, così come cavalcava quelli di allora.
Marilyn Monroe, un pugno di titoli per una leggenda
Pensare che lei avrebbe voluto “essere Marlon Brando”: un’attrice seria, intellettuale, capace di alternare il cinema al teatro. Come Brando, in fondo, ha fatto pochi film. Le filmografie gliene assegnano 31, ma quelli nei quali è protagonista sono di fatto una decina da Niagara (1953) in poi. Prima ci sono tante particine, spesso neanche accreditate, o valorizzate a posteriori (come la famosa scritta “postuma” nei titoli di testa di Una notte sui tetti, dei fratelli Marx: “E per 41 secondi sullo schermo, Marilyn Monroe!”). La sua leggenda è legata a un pugno di titoli, assai diversi fra loro (musical, commedie ma anche drammi e persino un western, La magnifica preda accanto a Robert Mitchum, bellissimo: da recuperare), e a molte altre cose che in ultima analisi sono più importanti e durature dei film. Nell’ordine: la morte prematura sulla quale ancora si discute, il controverso rapporto con la famiglia Kennedy, alcune campagne pubblicitarie divenute immortali, i servizi con alcuni grandi fotografi e, in generale, le mille metamorfosi che questa donna ha vissuto nella sua breve vita. Proviamo a raccontarne alcune.
La pin-up che piace agli americani
Norma Jeane Mortenson, o Norma Jeane Baker (sono i cognomi dei mariti di sua madre, non si è mai capito chi fosse davvero il padre), diventa Marilyn Monroe a 21 anni, nel 1947. Circolano parecchie sue foto di quell’epoca. Qui ne potete vedere una del 1949, in cui si mette il rossetto davanti a uno specchio, e due del 1950, scattate da Ed Clark.
Marilyn non è ancora famosa. Ed è molto diversa rispetto alle foto della maturità. In altre immagini ancora più antiche, ha i capelli scuri e un viso assai diverso. Hollywood interveniva in maniera pesante sulle fattezze delle attrici, basterebbe vedere certe foto di Rita Hayworth prima che le schiarissero la chioma e le “alzassero” la fronte cambiando l’attaccatura dei capelli, o di Marlene Dietrich in Germania, prima che in America le cavassero i molari per rendere il volto più emaciato e meno “paffuto”. Marilyn viene subito “veicolata” come una pin-up alla Betty Grable o alla Lana Turner, un modello femminile allora di moda. Nelle foto di questo periodo la fanno apparire sempre allegra e vestita da “ragazzina”. Nessun tormento, nessuna ombra. Una All American Girl come ce ne sono tante.
'Niagara', così Marilyn diventa adulta
Subito dopo vediamo una foto da Niagara: sono passati due-tre anni e tutto è cambiato. Niagara è un ruolo drammatico e nella foto Marilyn non sorride. Sembra molto più adulta e la pettinatura è già quella, un po’ cotonata, che Andy Warhol immortalerà nelle sue serigrafie.
'Niagara', 1953 Un anno dopo Niagara, nel 1954, il grande fotografo britannico Baron (nome d’arte di Sterling Henry Nahum) la fotografa sempre in posa seria, con dei pantaloni a righe e una camicia da uomo: la pin-up è sparita e probabilmente a Marilyn piace questo look quasi androgino (incredibile, eh?) che la fa apparire più matura dei suoi 28 anni. Curiosamente, qui “somiglia” ad alcune foto del periodo in cui era sposata con Arthur Miller, dal 1956 al 1961.
A qualcuno piace spiritosa
Dopo Niagara, Hollywood decide che Marilyn è più adatta a ruoli “leggeri” che valorizzino la sua sensualità e la sua immagine glamour. Ecco dunque l’enorme successo di Quando la moglie è in vacanza (1955), Come sposare un milionario (sempre 1953) e A qualcuno piace caldo (1959).La famosa foto della gonna sollevata dall’aria che esce dalla grata della metropolitana non ha bisogno di commenti: è una delle cinque-sei foto più famose della storia del cinema, forse del 900 tutto. Il regista racconta a Cameron Crowe in Conversazioni con Billy Wilder (Adelphi, 2002) che i ragazzi della troupe litigarono per decidere chi dovesse stare sotto la grata per accendere il ventilatore.
Anche la foto tratta da Come sposare un milionario rende bene l’idea dell’immagine di femme fatale che il cinema vuole cucire addosso all’attrice. Per fortuna, produttori e registi sono abbastanza intelligenti da capire che rispetto alla Garbo o alla Dietrich Marilyn ha un’arma in più: è una femme fatale buffa, ironica, il che da un lato sottolinea la sua fragilità, dall’altro la rende una straordinaria comica potenziale. C’è bisogno di ricordare quanto è tenero e spiritoso il suo personaggio in A qualcuno piace caldo?
Marilyn, i Kennedy e l'inizio della fine
Ma se la femme fatale sullo schermo se la cava sempre, nella vita è un altro paio di maniche. Due foto celeberrime ci permettono di ricordare la sua frequentazione dei Kennedy. Nella prima è al leggìo, fotografata da dietro, mentre intona il leggendario “happy birthday” in onore di JFK. È una foto quasi impudica, il vestito non lascia nulla all’immaginazione.
Nell’altra è insieme ai due fratelli, John e Robert, ed è affascinante – e lievemente inquietante – che non si veda il viso di nessuno dei tre. Il rapporto con il presidente, e il modo in cui fu liquidata dal fratello, sono un momento dolorosissimo della sua vita e forse la premessa alla sua tragica fine.
Profumo di donna
Ma quel vestito così attillato non è un unicum: nell’ultima fase della sua vita l’America sta entrando negli anni 60 e dal glamour si passa decisamente al sexy. Marilyn viene “venduta” come una bomba del sesso, e fra tutte le campagne pubblicitarie e le sedute fotografiche che sfruttano la sua fisicità in questo senso rimane primeggia ovviamente quella per Chanel. Ne vediamo due scatti, del fotografo Ed Feingersh. Le fecero dire anche la famosa frase (“a letto indosso soltanto due gocce di Chanel n.5”) che è diventata uno slogan immortale.
'Gli spostati' sul viale del tramonto
È però giusto chiudere questo viaggio fotografico con due immagini prese dal set di un film bellissimo e maledetto, Gli spostati di John Huston (1961). È l’ultimo film nelle carriere di Marilyn e di Clark Gable, che morì d’infarto pochi giorni dopo la fine delle riprese, e uno degli ultimi per Montgomery Clift, già malato e morto cinque anni dopo, nel 1966.
Come è noto, è un film drammatico scritto da Arthur Miller, che fu l’ultimo marito di Marilyn e non certo il più tenero né il più empatico (crediamo sia giusto ricordare che l’unica, vera, grande storia d’amore di questa donna sfortunata fu quella con il fuoriclasse del baseball Joe Di Maggio, l’unico che fino alla sua morte nel 1999 portò una rosa sulla tomba di Marilyn ogni 1 giugno, giorno del suo compleanno).
Wilder, nel libro citato, non è generoso con Miller: «Era un imbecille. Durante le ultime riprese di A qualcuno piace caldo viene da me, mi prende da parte e mi fa: “Marilyn è incinta. La pregherei di non farla lavorare prima delle undici”. “Le undici?! Guardi che sua moglie non si presenta mai sul set prima delle undici! Sua moglie qua non c’è mai!”». Imbecille o meno, forse per merito di Huston Gli spostati è un bel film, e l’immagine di Marilyn in jeans e camicia bianca, con poco trucco e il viso sempre imbronciato, è tra le più belle, forse tra le più vere, di sempre.
Cloralio idrato, solitudine, i Kennedy: quel giallo dietro la morte di Marilyn Monroe. 60 anni di misteri attorno alla morte di una delle dive più note di tutti i tempi. Angela Leucci il 4 Agosto 2022 su Il Giornale
“È così fragile e sottile che può essere colta solo dalla cinepresa, come il volo di un colibrì”. Così Truman Capote descrisse Marilyn Monroe, forse l’attrice hollywoodiana più famosa di tutti i tempi, un’icona con i suoi capelli biondi, l’aria svampita e una dolcezza sconfinata. In molti hanno cercato di afferrarne l’essenza, altri hanno cercato di risolverne il mistero.
Perché quel 4 agosto 1962, con lei, è morto il sogno degli americani. Quello erotico certamente, ma non solo. L’agiografia su Marilyn restituisce un’immagine di caduta e redenzione, di sorriso dietro la sofferenza. In parte questa immagine era reale, in parte no. Ma, 60 anni dopo, a chi importa svelare la magia?
Chi è stata Marilyn Monroe
Classe 1926, ha vissuto la sua giovinezza a sprazzi con la madre, prendendo il cognome anagrafico, Mortenson, da uno dei suoi mariti, che però non era il padre. Come scrive Keith Badman ne “Gli ultimi giorni di Marilyn Monroe”, esistono parti della sua infanzia e della sua adolescenza che sono stati consegnati al mito per diversi motivi, come per giustificare il passato una volta che la diva divenne famosa, o anche perché lei stessa citava determinati eventi traumatici in modo diverso, a volte con la stessa persona. Lo fece perfino con l’amica e collega Shelley Winters, cui parlò per tre volte di un episodio di molestie sessuali avvenuto in tenera età.
Marilyn e la sua morte vanno integrati in un periodo storico molto particolare. Gli anni ’60, nel mondo in generale e negli Stati Uniti in particolare, portarono a grandi sconvolgimenti, che spesso riguardarono attentati a diverse personalità politiche, più o meno importanti. Marilyn, nella sua fragilità e col suo fascino, ne fu involontaria testimonial: prima della morte dei Kennedy, prima dell’attentato a Martin Luther King, il suo presunto suicidio ha rappresentato per molte persone un grande interrogativo. Fu solo l’inizio di un periodo tanto complesso e sanguinoso?
Nella sua carriera, Marilyn non fu una diva, ma la diva, la più famosa di un esercito di maggiorate pronte a portare il sogno erotico di una dolcezza sconfinata nel mondo. Fu accreditata come attrice in 33 pellicole, compreso “Something’s Got to Give”, rimasto incompleto, del quale resta al pubblico una scena della diva senza veli in piscina. Tra i suoi titoli più celebri “Gli uomini preferiscono le bionde”, “Come sposare un milionario”, “Quando la moglie è in vacanza” e “A qualcuno piace caldo”.
A fronte di una carriera a tratti luminosa, c’era però una profonda oscurità nella vita di Marilyn. Non solo per aver trascorso un’infanzia seppur non tragica molto infelice, ma anche per vari problemi di salute, tra cui la sua arcinota endometriosi. Per alleviare il dolore, l’attrice cercò qualunque rimedio, sviluppando una dipendenza da alcol e barbiturici che però ne alterarono la personalità, facendola apparire talvolta semplicemente bizzarra, talaltra violenta e rabbiosa.
I rapporti con i Kennedy
Una delle voci che si diffusero a macchia d’olio a partire dagli anni successivi alla morte di Marilyn è relativa a una presunta relazione tra la diva e i fratelli più famosi d’America, il non ancora senatore e all’epoca procuratore generale Robert Kennedy e il presidente John Fitzgerald Kennedy. Questa relazione è riportata in diversi libri e nelle voci di Wikipedia. Ma Badman riporta un'altra verità.
Infatti, incrociando date e appuntamenti riscontrabili, fonti e fatti, secondo il giornalista la prima relazione non solo non può essere presunta, ma è assolutamente falsa. Con Robert l’attrice ebbe per certo un piccolo flirt nel corso di un paio di feste molto pubbliche. E inoltre si ritiene che l’uomo, fortemente religioso, non avrebbe mai tradito la moglie. Tra J.F.K. e Marylin invece, sempre secondo Badman, ci fu in effetti un rapporto sessuale, a quanto pare poco soddisfacente da ambo le parti per via dei problemi di salute ossea del presidente, mentre i due erano ospiti in una villa di Bing Crosby.
Per cui è difficile immaginare quello che per anni è stato favoleggiato come un suicidio o un omicidio per mano della mafia possa aver a che fare con i Kennedy. Anche se più tardi spuntarono dei carteggi appartenuti a un celebre avvocato, in cui emergevano dei presunti rapporti tra i due politici e la mafia e il fatto che Marilyn ne fosse al corrente, tanto da stipulare un contratto per permettere alla madre di ottenere un vitalizio. Ma su questi documenti, dice Badman nel volume, sono stati sempre sollevati forti dubbi d’autenticità.
In altre parole quello che è sempre apparso come una cospirazione o un affare pruriginoso è solo poco più di una leggenda metropolitana. Anche in relazione a quel 19 maggio 1962, quando l’attrice, durante un gala in onore di J.F.K., cantò “Happy Birthday Mr. President”. Tra l’altro Marilyn aveva un accompagnatore d’eccezione, che non avrebbe abbandonato, a quella festa: Isadore Miller, padre del suo ex marito, lo scrittore Arthur Miller.
La morte
Marilyn non si è suicidata, non è stata uccisa, scrive Badman nel suo libro. È semplicemente morta in completa solitudine - rifiutata da un mondo di cui forse non aveva mai fatto parte - a causa di un mix errato di farmaci.
L’attrice faceva infatti uso di tranquillanti, il Nembutal nello specifico, e da qualche giorno anche del cloralio idrato: benché conoscesse molte sostanze a causa dell’abuso che ne faceva da anni, ignorava che questi farmaci possano essere usati insieme e questo le causò prima un malessere che poi diventò coma e quindi morte.
Marilyn Monroe è morta la sera del 4 agosto 1962, indicativamente tra le 20 e le 21, dopo aver assunto durante la giornata prima il Nembutal e poi il cloralio idrato perché non riusciva a prendere sonno. Cercò aiuto: alcuni non risposero alle sue telefonate perché erano fuori casa, altri sottovalutarono il pericolo, come Peter Lawford, anche lui attore oltre che cognato dei Kennedy. Lawford credette infatti che si trattasse solo di una disperata richiesta di attenzioni.
Neppure la “governante” di Marilyn, Eunice Murray - in realtà era più un’amica, cui i medici avevano chiesto di controllare l’attrice - si accorse di nulla, avendo un problema d’udito e a causa del fatto che stava guardando la tv a tutto volume. Fu però lei a trovare il corpo, supino con il busto appoggiato contro la porta della camera da letto. Il corpo fu spostato e la scena del crimine più volte inquinata, tanto che nelle foto passate alla storia la diva è a letto.
Le teorie
Nei giorni che precedettero il ritrovamento del suo corpo, Marilyn Monroe parlò, al telefono e dal vivo con diverse persone, che ne tracciarono un ritratto altalenante, a partire da Marlon Brando, cui promise una cena la settimana successiva e che la descrisse molto diversamente da una persona depressa. Resta però il fatto che l’attrice ebbe, nel pomeriggio precedente la sua morte, un’accesa discussione con Bobby Kennedy, e in precedenza una telefonata con una giornalista cui parlò dei fratelli Kennedy in tono deluso, accennando i piani del presidente nei confronti di Cuba e raccontando del progetto segreto che riguardava gli ufo.
Tutto questo alimentò una ridda di teorie, accresciute anche dalla scomparsa del “red book” della diva, un quadernetto rosso, un diario su cui l’attrice, che affermava di avere scarsa memoria, appuntava di tutto. Il diario, nonostante la sua esistenza sia stata spesso smentita, esisteva eccome: Marilyn lo portava con sé anche durante la seconda festa in cui incontrò Bobby Kennedy, e lo utilizzò per appuntare le risposte alle domande che gli poneva.
Tra le teorie più bizzarre sulla morte di Marilyn c’è la celeberrima ma falsa iniezione che le fu somministrata dal suo psichiatra Ralph Greenson nel tentativo di rianimarla: in realtà l’attrice non ricevette nessuna forma di soccorso, fu una sua amica mossa a pietà a chiamare per la prima volta un’ambulanza privata per il trasporto della salma alle prime luci del mattino.
Un podcast rivela perché Frank Sinatra e Marilyn Monroe non si sposarono
La più nota è sicuramente la teoria del suicidio, che però non venne in realtà supportata dai riscontri del coroner e dagli esami sul cadavere. Il fatto poi che il medico abbia trovato lo stomaco dell’attrice vuoto - poiché il tempo di assorbimento delle sostanze è minimo in una persona che è già in assuefazione a essi - ha dato voce ai cospirazionisti che hanno iniziato a parlare di omicidio.
Chi sostiene l’omicidio indica nei fantasiosi mandanti i Kennedy, la mafia o la Cia: l’attrice sarebbe stata uccisa perché sapeva troppo. Nonostante siano teorie piene di fascino, non hanno alcun fondamento.
Su Marilyn restano tanti pettegolezzi spesso immotivati, di Marilyn tanti film. Ma è anche giusto non dimenticare quell’agosto 1962. Quando di lei rimasero un corpo non reclamato da nessuno per quasi 21 ore, per poi essere riconosciuto dall’ex marito Joe DiMaggio, l’uomo che l’amò per tutta la propria vita, un cartellino all’alluce con il numero 81128, una vita triste e una morte in solitudine. E un mazzo di rose, inviato al funerale della diva da un uomo misterioso, corredato da una poesia di Elizabeth Barrett Browning. Quella che inizia con: “Quali sono i modi in cui ti amo? Fammeli contare”.
La notte in cui morì Marilyn Monroe. Il Post il 5 agosto 2022.
Sessant'anni fa fu ritrovata nella camera da letto della sua anonima casa di Los Angeles, in circostanze di cui si discute ancora oggi
Marilyn Monroe morì 60 anni fa, nella notte tra sabato 4 e domenica 5 agosto 1962, quando era una delle attrici più famose al mondo e un simbolo universale di erotismo e bellezza femminile, destinato a rimanere tale nei decenni successivi, tutt’oggi quasi senza rivali. Il 6 la notizia arrivò sui giornali di tutto il mondo, in molti casi in gran risalto sulle loro prime pagine. Aveva 36 anni, e fu ritrovata nella stanza da letto di una casa di sua proprietà a Los Angeles, nel distretto di Brentwood, al 12305 di Fifth Helena Drive. Da fuori oggi è una villa con piscina uguale alle centinaia di altre che la circondano.
Monroe era nata il primo giugno 1926 e il suo vero nome era Norma Jeane Mortenson (il cognome venne cambiato da Mortenson a Baker poco dopo la nascita). Nei suoi primi film aveva interpretato la parte della dumb blond, la bionda ingenua, ma col tempo mostrò di saper fare anche molte altre cose. Negli anni Cinquanta e Sessanta, anni di profondi cambiamenti sociali e globali, riuscì ad affermarsi – tra l’altro dopo aver studiato method acting all’Actors Studio di Lee Strasberg – come apprezzata attrice, sia comica che drammatica, non solo come sex symbol.
Fu per anni l’attrice più pagata al mondo, e in vita o dopo diventò un’icona americana con ruoli e funzioni diversi: dalla contrapposizione all’Unione Sovietica all’antirazzismo al femminismo. Il racconto di lei descrisse spesso una donna combattuta tra la volontà di prendere in mano la sua vita e la sua immagine e le difficoltà nel farlo, in mezzo alle aspre critiche e spropositate attenzioni mediatiche che la accompagnarono per tutta la sua breve carriera.
Fu ovviamente una delle celebrità più commentate sui rotocalchi, che raccontarono per filo e per segno i suoi matrimoni: il primo, negli anni della Seconda guerra mondiale, con James Dougherty, il figlio dei vicini di casa; il secondo, con Joe DiMaggio, leggendario giocatore di baseball dei New York Yankees; e il terzo e ultimo con il drammaturgo Arthur Miller. Si parlò molto anche di altre relazioni vere o presunte di Monroe: su tutte quella con il presidente statunitense John F. Kennedy.
Negli anni Sessanta diversi giornali presero a scrivere con sempre più insistenza dei problemi di dipendenza di Monroe, legati all’alcol ma soprattutto al consumo di anfetamine e barbiturici, ad alcuni suoi insuccessi cinematografici e ai problemi che ebbe durante le riprese dei suoi ultimi film, per ansia e depressione.
I suoi ultimi due film completati – Facciamo l’amore e Gli spostati, scritto da Miller – uscirono nel 1960 e nel 1961 e, sebbene poi entrambi rivalutati, non piacquero né alla critica né al pubblico. Nel 1961 Monroe divorziò da Miller (si dice lui le avesse regalato la sceneggiatura del film per San Valentino e che però a lei non piacesse il suo personaggio) e nel maggio 1962 cantò per il compleanno di Kennedy festeggiato al Madison Square Garden di New York la famosa “Happy Birthday, Mr. President”.
In quegli anni, probabilmente per ristabilire la sua immagine dopo gli insuccessi cinematografici, Monroe fece lunghe interviste con riviste come Life, Cosmopolitan e Vogue e iniziò le riprese di Something’s Got to Give, rimasto però incompiuto (ne esistono solo alcuni minuti, compresa la scena nota come “Il bagno di Marilyn”).
È stato scritto, poi, che per mesi prima della sua morte Monroe passò gran parte del tempo nella sua casa in stile spagnolo al 12305 di Fifth Helena Drive: «praticamente nessun vicino l’ha vista più di una o due volte durante i sei mesi in cui ha vissuto in questo bungalow da due stanze da letto, che è modesto per gli standard di Hollywood», scrisse il New York Times nell’articolo che dettagliava la sua morte.
Su quel che successe il 4 agosto, l’ultimo giorno di vita di Monroe, è stato scritto e detto tantissimo, e tantissime volte le persone hanno ritrattato quanto scritto o detto. Si sa che era un periodo in cui Monroe non stava bene ed era seguita dal suo psichiatra, che quel giorno andarono a visitarla la sua addetta stampa e il fotografo Lawrence Schiller, e pare che Monroe fece, ricevette e tentò di fare anche molte telefonate.
Nella casa con lei c’era la governante Eunice Murray. Fu lei a trovarla incosciente nella notte tra il 4 e il 5, e ad avvisare Ralph Greenson, lo psichiatra. A dichiarare la sua morte e a parlarne come di un possibile suicidio conseguente all’assunzione di barbiturici fu, alcune ore dopo, la polizia di Los Angeles.
Murray, scrisse il 6 agosto 1962 il New York Times, fu «l’ultima persona a vederla viva» e ha raccontato che Monroe era andata a dormire verso le otto di sera. Disse di averla vista incosciente verso le 4 di notte, con la cornetta del telefono in una mano. Sempre il New York Times scrisse che «accanto al letto c’erano un flacone per pillole vuoto» e, sul comodino, diversi altri flaconi, pillole e medicinali.
Il Los Angeles Times scrisse, sempre il 6 agosto, che nel flacone vuoto avrebbero dovuto esserci 50 pillole e che la relativa prescrizione, che parlava di una pillola al giorno, era di due o tre giorni prima.
Quello stesso giorno Variety iniziò così il suo articolo: «Marilyn Monroe, che spesso aveva cercato senza successo di allontanarsi dal mondo [shut herself off from the world], ieri lo ha fatto».
Agli articoli di cronaca e alle celebrazioni di Monroe si accompagnarono ben presto le varie teorie sulla sua morte, alimentate dal fatto che, prima o dopo, chiunque ci ebbe a che fare, dall’autista dell’ambulanza al medico legale che ne fece l’autopsia, disse la sua. Ci fu chi parlò, tra le altre cose, di un fantomatico coinvolgimento della CIA o della mafia, in genere per via dei rapporti di Monroe con John Fitzgerald Kennedy e con suo fratello Robert.
Nel 1982, vent’anni dopo la morte, si fecero nuovi accertamenti sugli eventi di quella notte e sulle successive analisi e dichiarazioni, e anche in quel caso si parlò di probabile suicidio.
Il funerale, organizzato e pagato da DiMaggio, si tenne l’8 agosto: il discorso funebre lo fece Lee Strasberg, che le aveva insegnato recitazione, e tra le altre cose furono suonate la Sinfonia n. 6 di Tchaikovsky e “Over the Rainbow”.
Il funerale di Marilyn Monroe, 1962 (Central Press/Getty Images)
Per i vent’anni successivi, secondo certi resoconti per tre volte a settimana ogni settimana, DiMaggio fece arrivare rose rosse sulla sua tomba. Pare che prima di morire, a 84 anni nel 1999, lui disse: «finalmente riuscirò a vedere Marilyn».
Nell’articolo in cui ne annunciava la morte, il New York Times definì Monroe una «Venere contemporanea». Commentando la sua morte, il regista Joshua Logan, per il quale aveva recitato nel 1956 in Fermata d’autobus, disse invece che Monroe era stata «una delle persone più sottovalutate al mondo».
COME È MORTA MARILYN MONROE? IL MISTERO A 60 ANNI DA QUELLA NOTTE. La notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962 ci lasciava una delle più celebri dive del cinema hollywoodiano: ma quali sono le cause della morte di Marilyn Monroe? Di Giorgio Mirandolina il 3 agosto 2022 su style.corriere.it.
Sono trascorsi sessant'anni dalla morte di Marilyn Monroe, avvenuta esattamente nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962. Il giorno del decesso l'attrice venne trovata, a soli 36 anni, nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, nella quale viveva da sola con la sua governante Eunice Murray. Le cause della sua morte sono avvolte nel mistero che perdura tuttora.
UN MISTERO NON ANCORA RISOLTO
La morte di Marilyn Monroe è sicuramente uno dei più grandi misteri di cronaca nera della storia hollywoodiana. Molti fan e estimatori continuano infatti a chiedersi: com'è morta Marilyn Monroe? Nonostante la folta produzione di film, documentari e libri prodotti per dare risposta al mistero, nessuno è di fatto mai riuscito a dipanarlo in maniera definitiva, rendendolo tuttora ancora irrisolto.
LE CAUSE DELLA MORTE DI MARILYN MONROE
Marilyn venne trovata nuda, con in mano la cornetta del telefono. Era notte fonda. Dai controlli dell'autopsia si stabili che la causa della morte era un'overdose di barbiturici: la versione ufficiale fu sempre quella del suicidio.
Ma l’idea che fosse rimasta vittima di un complotto partì subito. Di Bob Kennedy, magari, ma le teoria sulla morte furono davvero svariate e le testimonianze delle persone legate ad essa confermarono tutte una serie di stranezze e elementi poco chiari.
IL FUNERALE DI MARILYN MONROE
Marilyn Monroe morì a soli 36 anni e il funerale fu organizzato dal suo ex marito, il campione di baseball Joe DiMaggio che ne pagò tutte le spese. La cerimonia si tenne al Westwood Memorial Park l’8 agosto 1962 a cui presenziarono solo trentuno persone. DiMaggio decise di invitare solo gli amici ristretti, lasciando da parte tutte le figure di spicco di Hollywood. Il rito funebre fu celebrato da A.J. Soldancon, accompagnato dalle note di Over the Rainbow di Judy Garland.
Dopo il funerale Marilyn Monroe venne sepolta nel Westwood Village Memorial Park Cemetery, a Westwood, un quartiere di Los Angeles. Il suo amico Truman Capote sostenne però all'epoca che l'attirce avrebbe voluto che le sue ceneri venissero disperse in mare.
La morte di Marilyn Monroe e tutto quello che accadde nei tre giorni successivi. Come cambiò il mondo la mattina del 6 agosto 1962, quando i notiziari annunciarono "Marilyn è morta". Debora Attanasio il 04/08/2022 su marieclaire.it.
Marilyn Monroe, che cercava senza successo di tagliarsi fuori dal mondo, ieri l'ha fatto davvero. L'attrice 36enne è stata trovata morta a letto nella sua casa di Brentwood, apparentemente vittima di un'overdose di sonniferi. Un ricevitore del telefono penzolava dalla sua mano senza vita e la polizia ha riferito di aver raccolto vicino al letto un flacone vuoto che da circa 50 capsule di Nembutal. (Variety, 6 agosto 1962)
Marilyn Monroe, la tormentata bellezza che non è riuscita a trovare la felicità nemmeno come star più brillante di Hollywood, è stata trovata morta domenica scorsa nella sua casa di Brentwood, apparentemente per un’overdose di sonniferi. La bionda attrice 36enne era nuda, sdraiata a faccia in giù sul letto e con in mano un ricevitore del telefono (Los Angeles Times, 6 agosto 1962).
Fu riportata così da due delle testate più diffuse negli Stati Uniti, con dovizia di particolari oggi impensabile, la notizia della morte di Marilyn Monroe, l'annuncio che la sua stella si era spenta nella solitudine con l'unica compagnia della sua barboncina. Si accendeva invece la macchina del mito che procede ancora spedita a distanza di 60 anni esatti e la cui genesi, che per chi non era ancora nato, è difficile da immaginare. Come è possibile che una donna così bella e sexy avesse messo fine alla sua vita tragicamente? Nessuno se ne faceva una ragione, e la domanda ha dato vita a inevitabili complottismi, all’ipotesi che fosse stata fatta fuori dai Kennedy perché depositaria di segreti di Stato, addirittura che sia ancora viva e nascosta. Sarebbe bello pensarlo, ma nessun complotto o insabbiamento sopravvive facilmente dopo tutto questo tempo, mentre sono affiorate negli anni sempre più testimonianze di chi c’era, e ha dovuto avere a che fare con le sue esequie.
Il mondo dopo Marilyn è iniziato la mattina del 5 agosto 1962, quando Eunice Murray, la domestica di Marilyn, si allarmò perché l’attrice non le apriva la porta. La signora Murray telefonò allo psichiatra Ralph Greenson che aveva in cura Marilyn e che arrivò di corsa. Greenson ruppe una finestra, riuscì a entrare è trovò la sua paziente morta, aggrovigliata nelle lenzuola di seta color champagne e con la cornetta del telefono in mano. Questa versione, oggi, viene smentita dal documentario Netflix I Segreti di Marilyn Monroe, secondo il quale la diva era ancora viva ed è morta in ambulanza, ma non ha importanza. Quello che conta è raccontare l’onda d’urto che fece seguito alla notizia della sua morte e che investì tutto il pianeta. Nel 1962 non esistevano i social, nemmeno ancora internet che verrà inventata l’anno dopo. A fare da cassa di risonanza erano i giornali perché persino la tv c'era solo nei paesi e nelle case economicamente più agiati. I commenti a una notizia si "scrivevano" con la voce, parlandone con amici e parenti, o anche estranei durante il breve incontro in un negozio, in un bar o nella sala d’attesa di un medico, ovunque. Nelle ore successive alla diffusione della notizia, le redazioni dei giornali americani ricevettero migliaia di telefonate di lettori sotto shock che volevano sapere maggiori dettagli e per tutto il mese di agosto del 1962 la vendita dei giornali, che continuavano a pubblicare articoli su di lei, raddoppiarono sia negli Stati Uniti che in Europa.
Ma raddoppiò anche la quota di suicidi a Los Angeles, come se il fantasma dell’attrice sussurrasse nell’orecchio di tutti quelli che come lei dovevano fare i conti con la depressione, incoraggiandoli a seguirla. Jean Cocteau, dalla Francia, rilasciò delle inaspettate dichiarazioni su Marilyn. Biasimava per quella scomparsa la stampa stessa, come accadrà molto tempo dopo per lady Diana: "la sua morte”, disse Cocteau, “dovrebbe servire come una terribile lezione per tutti coloro la cui occupazione principale consiste nello spiare e tormentare le star del cinema". Dopo lo shock iniziale, arrivò il momento delle dichiarazioni di attori e registi che avevano lavorato con lei, come oggi avrebbero fatto su Twitter. Laurence Olivier, che nel 1957 aveva recitato con lei nel film Il principe e la ballerina, disse che Marilyn era la vittima del “ballyhoo", il termine dispregiativo con cui si definiva l’eccesso di esposizione a cui i divi di Hollywood venivano costretti dalle cinque major cinematografiche. Joshua Logan, che l’aveva diretta in Fermata d’autobus, disse che era stata "una delle persone meno apprezzate al mondo". Col senno di poi, tutti i colleghi parlavano della sua solitudine e della sua fragilità, ma questo accade sempre quando ormai è troppo tardi.
Nel frattempo c’era da risolvere le questioni pratiche. Marilyn non aveva parenti consanguinei, non era più sposata, non aveva avuto figli. Non le sopravviva nessuno. In assenza di un genitore, di un marito, di un fratello, il coroner non aveva idea di chi avvisare prima che lo scoprisse la stampa. Alla fine rintracciò il suo ex marito Joe DiMaggio, il primo nome che gli venne in mente. Fu la scelta giusta. Il celebre giocatore di baseball e la diva avevano divorziato otto anni prima, i motivi esatti non sono mai stati chiari ma vanno dalla gelosia morbosa con le accuse di tradimenti che lui le rivolgeva, all'ingiusto biasimo perché non riusciva a portare avanti le gravidanze, come se fosse colpa sua. Marilyn aveva scritto sulla motivazione del divorzio “crudeltà mentale”. Ma in quel periodo gli ex coniugi si erano riavvicinati, lui era pentito di come l'aveva trattata e aveva anche detto al compagno di squadra Jerry Coleman che l’avrebbe risposata. Joe DiMaggio era devastato, corse all’obitorio e pianse disperatamente. Poi, mentre i medici legali requisivano il corpo per l'autopsia, il giocatore di baseball assunse la regia del funerale dell’ex moglie insieme alle uniche due persone di cui decise di fidarsi: Berniece Baker Miracle, la figlia dei genitori adottivi di Marilyn, e il suo manager Inez Melson. La prima cosa che fecero di comune accordo fu di escludere dalla funzione tutta la fauna glitterata di Hollywood, niente passerelle. I dirigenti degli studios, che volevano sfruttare l’evento come una vetrina promozionale per i loro artisti, protestarono vivamente ma DiMaggio fu irremovibile: "se non fosse stato per tutta questa gente lei sarebbe ancora qui", rispose durissimo. Venne aperto il testamento: Marilyn aveva lasciato in eredità la sua casa, i suoi abiti, i suoi oggetti personali al suo mentore, Lee Strasberg, più anziano di lei di 25 anni, e aveva aggiunto che se non le fosse sopravvissuto, l’esecutore testamentario designato avrebbe dovuto distribuire tutto “a sua esclusiva discrezione, tra i miei amici, colleghi e coloro ai quali sono devota”. Per fortuna dell’esecutore Strasberg era ancora vivo, sarebbe morto 20 anni dopo, perché delle indicazioni così vaghe sarebbero state problematiche.
Il funerale di Marilyn Monroe si tenne l'8 agosto al Westwood Village Memorial Park Cemetery, dove erano sepolti i suoi genitori adottivi Ana Lower e Grace McKee Goddard. Era chiuso al pubblico e un servizio di sicurezza controllava che non si avvicinassero fans, paparazzi e colleghi indesiderati. C’era solo una trentina di persone tra familiari e amici più stretti. Il commediografo Arthur Miller, l'ultimo marito di Marilyn, non si presentò. La sorellastra Berniece le aveva messo un abito verde di Emilio Pucci e un mazzo di roselline rosa tra le mani. L'elogio funebre fu pronunciato da Lee Strasberg, i musicisti hanno suonato la Sesta Sinfonia di Tchaikovsky e la canzone di Judy Garland Over the Rainbow. Prima di chiudere la bara, DiMaggio baciò le fredde labbra dell'ex moglie e le disse due volte "ti amo". Poi Marilyn fu sistemata nella cripta 24 di una sezione del cimitero dal nome suggestivo: Corridor of Memories, il corridoio dei ricordi. E tutto finì. Norma Jane Baker non c'era più. Rimase solo Marilyn, l’eco della sua voce registrata, i suoi film, e migliaia di foto. O forse tutto iniziò. Chissà cosa avrebbe pensato nel sapere che sarebbe stata amata così tanto, che il suo ex marito avrebbe fatto deporre sulla sua tomba rose fresche tre volte a settimana fino alla propria morte, nel 1999, e se avesse mai immaginato che il patron di Playboy Hugh Hefner, lui che di donne bellissime ne ha viste a centinaia, avrebbe pagato 75mila dollari per avere un posto nella sua stessa cripta a fianco a lei perché, disse ai giornali, “Trascorrere l'eternità accanto a Marilyn è un'opportunità troppo dolce per lasciarsela sfuggire”.
NELLA NOTTE FRA IL 4 E IL 5 AGOSTO. Suicidio o omicidio? Sessant’anni fa moriva Marilyn Monroe. Sessant'anni fa la morte di Marilyn Monroe
Marilyn Monroe moriva 60 anni fa, il 4 agosto 1962. Aveva 36 anni. Nata Norma Jeane Mortenson, è ricordata come un sex symbol degli anni Cinquanta e Sessanta e ha lasciato un segno indelebile nella cultura pop (video via Ap). JONATHAN BAZZI, scrittore, su Il Domani il 27 aprile 2022 Aggiornato, 04 agosto 2022
Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due. Mentre un documentario di Netflix varia la versione ufficiale della morte
Quest’anno Marilyn Monroe avrebbe compiuto 96 anni. Li avrebbe compiuti, e invece non lo farà, perché è stata trovata morta nel letto, dalla sua governante, esattamente 60 anni fa, nella notte tra il 4 e il 5 agosto del 1962, a 36 anni, nuda, con la cornetta del telefono in mano, portata via da un’overdose di barbiturici. Suicidio, omicidio, o qualcosa in mezzo tra i due.
Il documentario disponibile su Netflix I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti si concentra sull’ultima notte dell’attrice, ma anche sulla genesi del mito di Marilyn, sulla costruzione mitopoietica della più grande diva di tutti i tempi, utilizzando interviste inedite rilasciate da persone vicine all’attrice ad Anthony Summers durante la stesura del libro Goddess.
Il rapporto sentimentale coi due fratelli Kennedy, uno presidente degli Stati Uniti e l’altro procuratore generale, le amicizie scomode con gli esuli comunisti all’epoca della crisi di Cuba, i fascicoli dell’Fbi a suo carico, le cimici e le intercettazioni, gli scenari complottistici che a lungo hanno oscurato il talento e l’intelligenza dell’icona di Hollywood: la storia di Marilyn tiene dentro tutto, troppo, la luce e l’abisso, il sogno e il baratro senza rimedio.
MESSA IN SCENA
Il documentario varia la versione ufficiale della morte: Marilyn non sarebbe stata ritrovata riversa nel letto già morta, alle tre del mattino, come si è sempre pensato. Testimonianze dirette raccontano di un viaggio in autoambulanza ancora viva, diverse ore prima, e di una visita di quello che lei chiamava “il generale”, ovvero Bobby Kennedy, proprio quella sera, probabilmente insabbiata per proteggere il buon nome della famiglia più importante d’America. Una messa in scena, la vita di Marilyn, fino alla fine?
Una vita di cui tutto s’è detto, tutto si può dire. Marilyn la pin up giocattolo dei potenti, la diva scaltrissima, Marilyn la gonna che s’alza al passaggio della metro in Quando la moglie è in vacanza, a cui seguono le botte di Joe Di Maggio, geloso della scena che l’ha resa eterna. Le truccatrici riferiscono: «Abbiamo dovuto rimediare ai lividi sulle spalle». Marilyn la bionda, la scema, le tette di fuori.
Le grandi di Hollywood non la sopportano: arrivista, oca, non sa recitare. Lei fa di tutto per piacerti, dicono: ride, si spoglia, come la vuoi? Il documentario restituisce anche ciò che è stato sottratto al suo talento: Marilyn era un’attrice capace e appassionata, molto più capace e consapevole di quel che si è sempre pensato.
Jane Russell di lei racconta: «Voleva imparare sempre di più. La sera io ero distrutta, lei andava dal coach. Voleva essere brava. E quando la telecamera si accendeva era come se una luce elettrica si attivasse in lei. Tutto prendeva vita». Altri aggiungono: «Un corpo autoilluminante, la stella». E ancora: «Attingeva a fondo dalla sua vita personale. Si immergeva a lungo e ne traeva qualcosa di unico e inesplorato».
VOCAZIONE AL MASSACRO
Nata da una donna mentalmente compromessa e incapace di badare a lei, Norma Jean Baker – il suo vero nome – passa l’infanzia tra affidi temporanei e case famiglia. Dieci famiglie affidatarie diverse, due anni di orfanotrofio. Cresce e ama troppo, come un’ingorda, dicono, scrivono: da un uomo all’altro, Joe Di Maggio, Arthur Miller, il rapporto promiscuo coi Kennedy, un po’ padri, un po’ diversivi. La psicologia dell’orfana, della trovatella. Da piccola, a ogni donna che vedeva: “Ecco una mamma”, e a ogni uomo: “Ecco un papà”. Marilyn donna Gemelli ascendente Leone, anche le stelle a sancire la subordinazione radicale allo sguardo degli altri: se in origine nessuno ti ha visto è obbligatorio essere un mito.
Donna-bambina, incatenata al palcoscenico da una fame di attenzioni che si fa vocazione al massacro: Marilyn s’è ammazzata, s’è drogata a morte, Marilyn è stata ammazzata, era fuori controllo. Voci, ancora oggi infinite voci. Il presidente e il fratello di Kennedy, la mafia, sapeva degli ufo? Marilyn la congiura, i segreti, vietato parlare. All’inizio del documentario sono le sue stesse parole in presa diretta a metterci in guardia, ripetendo un monito che risuona come un mantra retrospettivo, indicazione di metodo e sguardo. A un intervistatore Marilyn domanda: «Come si racconta la storia di una vita? Perché le cose vere alla fine circolano raramente. Di solito lo fanno quelle false».
La storia di Marilyn non smette di interrogarci, dato che in lei si sommano questioni fondamentali e perturbanti, come la genealogia del trauma, l’ambivalenza della fama, la natura onnipotente e contraddittoria del desiderio. La sua vita intera è un grande testo di epica contemporanea: se n’è accorta anni fa una fuoriclasse assoluta della narrazione come Joyce Carol Oates, che ne ha fatto un romanzo monumentale, Blonde (da poco ripubblicato in Italia da La Nave di Teseo), le cui pagine moltissimo raccontano anche delle dinamiche di potere di Hollywood, e del trattamento a lungo riservato al femminile in quel mondo.
Lady Gaga una volta su questo ha dichiarato: «È quando i produttori cominciano a comportarsi tipo: «Senza di me non esisteresti”, soprattutto nei confronti delle donne. Questi uomini hanno così tanto potere che riescono a dominare come nessun altro uomo può fare. In ogni momento, qualunque cosa vogliano: cocaina, soldi, champagne, ragazze, le ragazze più sexy che abbiate mai visto. Poi nella stanza entro io e otto volte su dieci mi considerano così, si aspettano da me quello che queste ragazze hanno da offrire, anche se io non ho assolutamente in mente quello. Non sono qui per questo. Non sono un recipiente per il tuo dolore, non sono solo un posto in cui puoi infilarlo. Quando volevano che fossi sexy o pop, io ci infilavo sempre qualche elemento assurdo per mantenere il controllo della situazione: se dovrò essere sexy ai Vmae cantare un brano sui paparazzi, lo farò morendo dissanguata, per ricordare a tutti cos’ha fatto la fama a Marilyn Monroe».
NIENTE ANDRÀ BENE
Una fama ricercata con tutte le forze, quella di Marilyn, per poi scoprire, una volta raggiunta, di essere più sola di prima. Nonostante l’euforia collettiva, le copertine, i successi a oltranza, Norma Jean riferiva allo psichiatra che la seguiva a domicilio, troppi giornalisti per riceverla in studio: «Niente andrà bene, niente andrà come voglio io. Non piaccio a nessuno, rovino tutto». E da lì i ricoveri nelle cliniche psichiatriche, le dipendenze da sonniferi e antidepressivi con cui cercava forse solo di sentire un po’ meno.
La storia di Marilyn, indipendentemente dalle circostanze della sua morte, non smette di parlarci perché proietta le dinamiche di deprivazione affettiva su scala epocale, rendendole maestose e commoventi. Il massimo di bene e il massimo di male si possono toccare, in lei si sono toccati, creando scintille memorabili per l’immaginario sovragenerazionale ma non prive di conseguenze per l’ultracorpo abbacinante di questa donna minuscola e gigantesca.
Tutto è memorabile in Marilyn, dettagli dell’atto finale compresi: il testamento stranamente già steso, per precauzione, le indicazioni minuziose su come recitare anche il giorno del funerale, su come voleva andare alla tomba. La parrucca bionda de Gli Spostati, l’ultimo film, il vestito verde di Emilio Pucci, la bara tutta di bronzo massiccio, foderata di seta champagne.
La madre non ce l’hanno portata, con la schizofrenia non sapeva neanche chi fosse. È finita ma non è finita, Marilyn istrionica e lieve, incantesimo evanescente, sotto gli occhi di tutti, ma anche Marilyn che non regge, stordita, obnubilata, che parla parole non sue. Marilyn disarmata, che ripete per tutta la vita: giochiamo?, vuoi giocare con me? È finita ma non è finita, Marilyn personaggio eterno ma persona impossibile: come si riesce a vivere, davvero, giorno per giorno?
Marilyn enorme, fulgida, tutta per sempre simbolica. Morta in un letto ma viva, ieri, oggi e domani, domani, nella mente del mondo, che ancora e sempre ripeti: «Cercare di essere felice è difficile quasi quanto cercare di essere una brava attrice».
JONATHAN BAZZI, scrittore. Ha esordito nel 2019 con Febbre (Fandango), Libro dell’Anno di Fahrenheit, Premio Bagutta Opera Prima e finalista al Premio Strega.
Morte di Marilyn Monroe. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.
La morte di Marilyn Monroe è stato un caso di cronaca nera avvenuto la notte tra il 4 e il 5 agosto 1962. Il fatto suscitò clamore e interesse nell'opinione pubblica statunitense e mondiale.
Il giorno del decesso l'attrice venne trovata nel letto della sua abitazione al 12305 di Fifth Helena Drive, dove viveva da sola con la sua governante Eunice Murray.
Le circostanze antecedenti il decesso.
Il giorno prima del decesso, Marilyn aveva più volte tentato di chiamare senza successo il suo ultimo amante Robert Kennedy, (tale affermazione trovò successivamente conferma grazie a un operatore telefonico che riferì di diverse chiamate effettuate dall'attrice all'hotel dove Kennedy risiedeva e dove lasciò numerosi messaggi). L'attrice, per consolarsi, chiamò dunque il critico letterario e amico Robert Slatzer, a cui confidò la tristezza di non riuscire a mettersi in contatto con il suo amato.
Il 4 agosto le aveva telefonato il suo ex marito Arthur Miller, poi verso le 18:30 l'amico massaggiatore Ralph Roberts, al quale aveva risposto lo psichiatra Ralph Greenson dicendo che Marilyn non si trovava in casa incuriosendo l'amico. L'ultima persona che le fece visita fu la sua addetta stampa, Patricia Newcomb, che la vide molto nervosa.
Altra telefonata, questa volta ricevuta, fu quella di Joe di Maggio junior, il figlio di un altro dei suoi mariti, Joe di Maggio; Isadore Miller, padre di Arthur, non riuscì invece a parlare con lei. Più tardi, verso le 19:30, Marilyn aveva chiamato anche Peter Lawford, cognato del presidente degli Stati Uniti d'America John Fitzgerald Kennedy. Tale telefonata fu confermata dallo stesso Lawford al giornalista Earl Wilson del New York Post solo anni dopo: le aveva telefonato per invitarla a cena, ma lei rifiutò, e nel salutarlo gli disse «goodbye». Tale saluto insospettì Lawford, che chiamò l'agente di Marilyn Milton Rudin che a sua volta cercò di chiamare l'attrice, la quale aveva telefonato poco prima al poeta Norman Rosten, altro suo amico, col quale prese un appuntamento per vedersi.
La versione ufficiale.
La versione ufficiale riporta che la governante, camminando nel corso della notte per il corridoio, vide la luce della stanza da letto della Monroe accesa, bussò alla porta, ma non ebbe alcuna risposta. Erano le 3.30 circa. Poco dopo, preoccupata, chiamò lo psichiatra che aveva in cura Marilyn, Ralph Greenson. Quest'ultimo, entrato nella camera da letto dell'attrice quando nell'appartamento era intanto giunto anche il medico Hyman Engelberg, ne uscì poco dopo, alle 4.25, annunciando la morte della Monroe. I presenti chiamarono quindi il dipartimento di polizia di Los Angeles.
Le indagini furono affidate al tenente Robert E. Byron. L'attrice si suicidò ingerendo una dose letale di pentobarbital, 47 pasticche prese insieme a una dose sconosciuta di idrato di cloralio.
Altre versioni.
Secondo quanto scritto nel libro-rivelazione Double Cross da Chuck Giancana, fratello minore di Sam Giancana capo di tutti i capi della Cosa Nostra di Chicago negli anni sessanta, 4 sicari agli ordini del boss sarebbero penetrati nella villa di Marilyn Monroe, a Hollywood, nella notte del 4 agosto del 1962 poco dopo che Robert (Bob) Kennedy, ministro della giustizia e fratello del presidente JFK, aveva lasciato la casa dell'attrice e amante. I quattro malavitosi sarebbero riusciti a immobilizzare Marilyn, a spogliarla e a ucciderla con una supposta velenosa. Il movente sarebbe stato quello di vendicarsi di Bob Kennedy, il quale da ministro della giustizia della Nuova Frontiera aveva promosso un'inchiesta senza precedenti sulla mafia. L'uccisione di Marilyn sarebbe servita, secondo le dichiarazioni di Chuck Giancana, a gettare l'ombra della responsabilità della sua morte su Bob Kennedy e rovinare così per sempre la sua carriera politica. L'obiettivo sarebbe stato raggiunto solo per metà, costando la vita all'attrice. Quella notte di agosto, Bob Kennedy fece visita a Marilyn: uscito Kennedy, sarebbero entrati i quattro sicari del boss di Chicago con i guanti in plastica per non lasciare impronte digitali, il viso coperto da passamontagna e la scatola con la supposta letale. Le avrebbero tappato la bocca con un tampone e le avrebbero infilato una supposta avvelenata. La supposta avrebbe agito con la stessa rapidità di un'iniezione letale, senza però lasciare tracce sul braccio o sulla gamba che avrebbero insospettito i medici legali durante l'autopsia, che in realtà, confermò questa ipotesi. Nella parte terminale del colon della Monroe si poteva vedere una sfumatura viola, segno, probabilmente, dell'azione della supposta.
Jack Clemmons.
A rispondere alla chiamata quella notte fu il sergente Jack Clemmons. Aveva telefonato Engelberg asserendo subito che si trattava di suicidio. Il poliziotto corse, preoccupato che fosse uno scherzo, all'abitazione della diva e nel frattempo chiamò un'altra pattuglia. Le fonti concordano nel dire che sia stato lui il primo ufficiale di polizia a giungere a casa della Monroe.
Eunice Murray gli disse che intorno alle 22.00 si era accorta della luce accesa nella camera della donna, ma non fece nulla trovando il fatto normale, ma verso le 24.00 nuovamente si alzò si avvicinò alla porta, bussò ma nessuno le rispose. Non riuscendo a mettersi in contatto con la donna, preoccupata chiamò Greenson, vi era un buco di ore che venne giustificato affermando che stavano aspettando l'autorizzazione della Fox per avvertire le autorità della morte dell'attrice.
La scena che si presentava al sergente era totalmente confusa, descrisse nel suo rapporto la posizione in cui trovò il cadavere: stesa con la pancia in giù in diagonale, coperta dal lenzuolo, Greenson aggiunse che stava stringendo il telefono quando l'aveva trovata. Clemmons raccontò a Robert Slatzer che si trattava di un evidente omicidio, venne informato dei fatti il capo della polizia William Parker. Tempo dopo, in vista dell'imminente intervista che Clemmons voleva rilasciare al giornalista Walter Winchell sull'accaduto, venne allontanato per sempre.
Thomas Noguchi.
Thomas Noguchi alla morte della Monroe era uno dei vicecoroner della Contea di Los Angeles. L'autopsia gli fu affidata dal suo mentore, il coroner Curphey. La iniziò alle 10.30 del 5 agosto 1962, l'operazione durò 5 ore rivelò circa 8 mg di idrato di cloralio e circa la metà di nembutal nel suo sangue. Terminò dicendo che si trattava di un «avvelenamento acuto di barbiturici» ma lasciando scritto nel rapporto anche «in sospeso». Venne intervistato molte volte sull'accaduto ma non trovando pace chiamò per un consulto il tossicologo R.J. Abernethy e gli spedì le carte che non gli arrivarono mai, che invece furono fotocopiate e archiviate.
Nel 1983 pubblicò un libro, Coroner che descriveva in dettaglio le varie autopsie che aveva eseguito sulle celebrità Nel mese di ottobre del 1985 dirà all'ABC Eyewitness News che durante l'autopsia non riuscì a spiegare le contusioni della donna ritrovate vicino all'anca e sulla schiena, inoltre affermò che lo stomaco era quasi vuoto mentre non aveva trovato tracce di pillole ingerite.
James Hall.
Fra le varie testimonianze oculari vi era quella di James Hall, autista di ambulanze. La sua dichiarazione si colloca in linea temporale prima dell'arrivo della polizia, intorno alle 3.00. Come raccontò a Anthony Summers, accorrendo a una chiamata lui e un medico trovarono Marilyn in semicoma; prima di trasportarla come richiesto, le fornirono ossigeno con cui la diva si riprese. La volevano portare in un ospedale per semplici controlli ma un medico non meglio identificato prese il corpo della donna e le fece un'iniezione intercardiaca che le spezzò una costola. L'attrice quindi morì davanti ai suoi occhi, e non trovando altre parole definì l'accaduto omicidio. L'iniezione viene riferita anche da un'altra testimonianza, quella di Norman Jeffries, parente di Eunice, tuttofare, avvertito dalla parente.
Lionel Grandison.
Lionel Grandison era un altro dei vicecoroner, il funzionario che firmò il certificato di morte[25] con l'indicazione di suicidio. Affermò in seguito che aveva protestato vivacemente al momento, egli era convinto che non si trattasse di suicidio ma di omicidio e che venne costretto a firmare quel certificato, così come gli era stato sottoposto. Era convinto che quei segni sul corpo dell'attrice che non trovavano spiegazione potessero essere stati provocati da un'iniezione e che i report dell'autopsia fossero stati alterati. Attaccò quindi pesantemente il suo capo, il coroner Theodore Curfey accusandolo di aver orchestrato il tutto.
John Miner.
John Miner era un procuratore che aveva assistito Noguchi durante l'autopsia, fu il primo a dissentire al riguardo dell'ipotesi del suicidio, notava la violenza con il quale quel corpo sembrava essere stato trattato, giungendo a scrivere nel suo rapporto «I can say definitely that it was not suicide»; in seguito corresse le sue affermazioni, volendo dire che non si trattava di un suicidio intenzionale.
In seguito nel programma televisivo Hard Copy dichiarò che durante le indagini vennero trascurati alcuni elementi che non coincidevano con la tesi del suicidio.
Eunice R. Murray.
Eunice R. Murray (1902 - 1994) era la governante e arredatrice d'interni di Marilyn Monroe. Fu secondo la versione ufficiale la prima persona che si allarmò per il destino dell'attrice. Conosceva Ralph Greenson da molto tempo in quanto anni prima fu una sua paziente, e fu lui a chiederle di stare accanto all'attrice in quel periodo.
Durante le varie testimonianze rese cambiò più volte versione fino a quella raccontata nel libro da lei scritto, The last months redatto insieme a Rose Shade, nome da sposata di Rose Murray imparentata con Eunice, pubblicato nel 1975, anche se in realtà si trattava in buona parte di un'intervista rilasciata dalla testimone nell'estate del 1973. Qui raccontò di aver spostato il cadavere, pulito la camera da letto e di aver lavato le lenzuola e i vestiti che indossava la donna. Aveva chiamato, prima della polizia, l'autista della limousine Rudy Kautzsky, che come testimoniò non vide mai il corpo dell'attrice quella sera, e il suo genero Norman Jeffries. Cambiò versione anche per quanto riguarda la posizione in cui trovò il corpo: inizialmente disse di aver trovato il corpo a terra, e poi sul letto nell'intento di effettuare una telefonata e ancora dopo nudo sempre sul letto.
Si trattava degli ultimi giorni di lavoro della donna, in quanto era stata licenziata.
Ralph Greenson.
Romeo Samuel Greenschpoon (1911 – 1979), è stato un celebre psichiatra che ebbe fra i suoi pazienti oltre a Marilyn anche Tony Curtis, Frank Sinatra, Vivien Leigh e altri. Lui fu il primo a trovare il cadavere; durante le indagini emersero, per le sue dichiarazioni, alcuni lati oscuri della vicenda:
Testimoniò che la donna ingerì un flacone intero di barbiturici: inizialmente non fu trovata traccia di alcun contenitore di acqua o altro liquido vicino al corpo. In seguito venne ritrovato un bicchiere mezzo vuoto vicino al letto dell'attrice, anche se si registrò un guasto nell'impianto idraulico segnalato poco prima dalla governante.
Testimoniò che infranse il vetro della finestra della camera da letto per entrare nella stanza della donna, chiusa a chiave, ma le tracce, i residui dei frammenti di vetro infranto vennero trovate all'esterno della villa e non nella camera come avrebbe dovuto essere, suggerendo che la finestra fosse stata invece rotta dall'interno.
Intorno alla mezzanotte del 5 agosto, il sergente Lynn Franklin fermò una Mercedes nera vicino a Roxbury Drive, che viaggiava a 120 km all'ora superando di molto il limite massimo di velocità. Alla guida dell'auto vi era Peter Lawford e dietro, riconosciuto dal poliziotto, Bob Kennedy. Vi era una terza persona e quando vide delle foto la riconobbe in Greenson. In seguito rilasciò un'intervista per un documentario francese dove non fece menzione del nome dello psichiatra.
Bernie Spindel.
Bernard Spindel (chiamato Bernie) era un esperto di intercettazioni telefoniche, che aveva collaborato più volte con l'FBI. All'epoca disse di lavorare per Jimmy Hoffa e che da lui ebbe l'incarico di sorvegliare le telefonate che provenivano dalla casa dell'attrice. A suo dire aveva registrato conversazioni di entrambi i fratelli Kennedy ma tali conversazioni vennero sequestrate.
L'esistenza di tali nastri fu confermata da Bill Holt, esperto di esplosivi e dall'avvocato Micheal Morrissey. Secondo la testimonianza di Spindel, si registrò una telefonata nelle prime ore del 5 agosto dove si sentiva chiaramente una voce che chiedeva se una persona fosse morta, come da dichiarazione resa da lui stesso davanti a Frank Hogan.
William Graf poi smentì quanto dichiarato da Spindel. Anni dopo, nel 1983, quando la villa fu comprata dall'attrice Veronica Hamel, durante i piccoli restauri e le nuove installazioni furono trovati dei cavi telefonici aggiuntivi a quelli normalmente usati.
Bob Kennedy.
Dopo anni di indagini private, il giornalista Jay Margolis e lo scrittore Richard Buskin hanno scritto nel 2014 il libro L'omicidio di Marilyn Monroe: Caso chiuso nel quale si menziona Robert Kennedy come il mandante della morte della Monroe. Altri partecipanti al delitto sarebbero stati una delle guardie del corpo di Kennedy, il cognato Peter Lawford e lo psichiatra di Marilyn, il Dr. Ralph Greenson, il quale avrebbe di fatto commesso l'omicidio, somministrando alla donna un'iniezione fatale.
A sostegno di quanto scritto nel libro, i due scrittori riportano dichiarazioni di alcuni testimoni e interviste ad alcuni personaggi coinvolti nella vicenda.
A possibile conferma di tali affermazioni c'è il fatto che intorno alla mezzanotte del 5 agosto, Lawford, Bob Kennedy e Greenson erano a bordo di una Mercedes nera che era stata fermata vicino alla casa della Monroe.
Atlantide, questa sera in tv con “Chi ha ucciso Marilyn?”: anticipazioni. Diego Capuano il 23 novembre 2022 today.it.
Andrea Purgatori si interroga sulla tragica morte di un mito della storia dello spettacolo. L’attrice ebbe una carriera folgorante, ma una vita sofferta. Il suo fu davvero un suicidio?
La nuova puntata di “Atlantide”, in onda oggi 23 novembre in prima serata su La7, ha come titolo “Chi ha ucciso Marilyn?”. A 60 anni dalla scomparsa di Marilyn Monroe ancora tanti sono i misteri nella quale è avvolta la sua fine. Andrea Purgatori presenta due documentari e ospita Achille Bonito Oliva e Marianna Aprile.
Atlantide - Chi ha ucciso Marilyn?: le anticipazioni
Lo scorso 4 agosto è caduto un significativo anniversario: il 60° della scomparsa di Marilyn Monroe. Nata a Los Angeles il 1º giugno 1926 con il nome di Norma Jeane Mortenson Baker, debuttò sul grande schermo nel 1947 e pochi anni dopo arrivò la consacrazione: il 1953 rappresentò l’anno della svolta, con lungometraggi come “Niagara”, “Come sposare un miliardario” e, soprattutto, “Gli uomini preferiscono le bionde” di Howard Hawks. Nei successivi anni recitò in film di culto e fu diretta da grandi registi: valga per tutti Billy Wilder, con il quale girò “Quando la moglie è in vacanza” e il capolavoro “A qualcuno piace caldo”.
Cinema e spettacolo a parte, Marilyn visse però una vita infelice, fatta di relazioni fallimentari (come quelle con Joe Di Maggio e Arthur Miller), conoscenze rimaste in parte segrete (John Fitzgerald Kennedy), tre aborti. Il tutto è stato recentemente raccontato - in forma romanzata e provocatoria - dal discutibile film “Blonde”, diretto da Andrew Domikik per Netflix e con Ana De Armas come protagonista.
Marilyn Monroe fu trovata senza vita nella sua casa di Brentwood (Los Angeles) il 5 agosto 1962, all'età di trentasei anni, stroncata da un'overdose di barbiturici. Troppe, però, sono le cose rimaste irrisolte e poco chiare.
Nel corso della nuova puntata di "Atlantide", in onda oggi 23 novembre dalle 21.15 su La7, Andrea Purgatori introduce i documentari “Death of Marilyn Monroe” e “JFK revisited” e ospita Achille Bonito Oliva, Marianna Aprile. Spazio inoltre per la vignetta di Mauro Biani.
Resta il quesito di fondo: è possibile fare maggiore chiarezza sulla tragica fine di un'icona come Marilyn?
Marilyn Monroe, la fine misteriosa di un’attrice dal fascino immortale. Maurizio F. Corte, direttore de ilbiondino.org.
A 60 anni dalla scomparsa della diva americana, restano i dubbi sulla sua morte e sui legami con i Kennedy.
Com’è morta l’attrice Marilyn Monroe? Dove è morta: nella sua casa o all’ospedale? Quali legami vi sono tra il decesso dell’attrice e i fratelli Kennedy, John (allora presidente degli Stati Uniti) e Robert (ministro della Giustizia)?
Dalla notte fra sabato 4 e domenica 5 agosto del 1962, quando la bionda più famosa di Hollywood perde la vita, sono passati sessant’anni. Dopo tanto tempo restano intatti i dubbi sulla versione ufficiale della morte della più amata diva di Hollywood.
Del resto, in quegli anni non era difficile fornire una versione di comodo di fatti scomodi.
Pensiamo, negli Stati, all’omicidio di John Kennedy, a Dallas, nell’ottobre del 1963. E a quello del senatore Bob Kennedy, suo fratello, a Los Angeles, nel 1968, quando era pronto a vincere le primarie democratiche.
Esempi di depistaggi e versioni ufficiali infondate li abbiamo, in Italia, fra Anni Sessanta e Settanta, con i casi criminali della morte di Luigi Tenco (gennaio 1967), raccontato come un suicidio; e di Milena Sutter (maggio 1971), vicenda fatta passare per un sequestro e omicidio.
Marilyn Monroe, le versioni su quella notte d’agosto del 1962
Nel ricostruire in modo critico la vicenda della scomparsa della diva americana mi rifaccio a due articoli: uno del magazine Esquire e l’altro del magazine Town&Country.
I due giornali statunitensi riportano i punti importanti che emergono dal documentario di Netflix, l’ultimo di una serie di ricostruzioni della vicenda di Maryling. Il film inchiesta è intitolato I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.
Il lavoro della regista Emma Cooper rivisita i reportage di Summers. Offre poi agli spettatori l’opportunità di ascoltare le registrazioni delle sue interviste.
Abbiamo quindi la governante della Monroe, la famiglia del suo psichiatra, un investigatore privato, amici e colleghi come John Huston e Billy Wilder.
L’obiettivo del film documentario è di scoprire com’era veramente la vita di Monroe prima della sua morte. E come sono state trascorse le sue ultime ore.
I FATTI SECONDO LA NARRAZIONE TRADIZIONALE
Vediamo i fatti. Alle ore 3.30 del 5 agosto 1962, lo psichiatra di Marilyn Monroe, il dottor Ralph Greenson, riesce a entrare nella sua camera da letto.
Irrompe nella stanza dopo aver rotto una finestra: trova l’attrice nel suo letto, senza vita. Marilyn ha accanto a sé una bottiglia vuota di sonniferi, sistemata sul vicino comodino.
Per il resto, stando al racconto fatto a suo tempo, la stanza da letto di Marilyn è in ordine. Non vi sono segni di colluttazione; o qualcosa che faccia pensare a un intervento esterno per cagionarne la morte.
Tutto era cominciato con la governante di Monroe, Eunice Murray, che si era svegliata nel cuore della notte. La governante aveva visto la luce accesa nella stanza di Marilyn.
La Murray aveva provato a entrare nella camera, per capire se andasse tutto bene. Ma aveva trovato la porta chiusa a chiave.
Di qui la preoccupazione della governante, che aveva chiamato lo psichiatra, il dottor Greenson, con il timore che Marilyn stesse male. Vi era poi stata l’irruzione del medico; e la constatazione del decesso della diva americana.
Tutto si sarebbe svolto, quindi, nelle prime ore di domenica 5 agosto 1962.
LA VERSIONE UFFICIALE E LA RICOSTRUZIONE DELLA MORTE
Fin qui siamo alla versione ufficiale dei fatti, resa nel 1962. Tutto fila: una donna famosa in preda alla depressione, l’abuso di barbiturici e la morte.
Suicidio o decesso involontario per un consumo eccessivo di pastiglie, questa la narrazione. Oppure c’è dell’altro?
In un nuovo documentario Netflix, The Mystery of Marilyn Monroe: The Unheard Tapes (I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti), il biografo della Monroe, Anthony Summers, presenta una nuova cronologia degli eventi della notte in cui l’attrice è morta.
La nuova ricostruzione è il frutto di interviste condotte per una versione aggiornata della biografia di Marilyn, pubblicata nel 1985. Una biografia intitolata Goddess.
Grazie alle nuove interviste audio con i membri della famiglia del dottor Greenson, lo psichiatra, il nuovo documentario di Netflix mette in campo le voci e le incongruenze che circondano la morte di Marilyn Monroe.
Il documentario su Netflix, della durata di 101 minuti in un unico film, smentisce insomma la verità ufficiale raccontata per anni.
Emerge, così, che non tutto quello che fu detto è vero. Restano, in compenso, ancora in ombra i rapporti di Marilyn con John Fitzgerald Kennedy e con Robert Kennedy, sui quali ho scritto alcuni articoli in questo blog.
Il presidente statunitense John Fitzgerald Kennedy
Le relazioni con John e Bob Kennedy
Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti approfondisce anche le presunte relazioni sentimentali dell’attrice. Quelle che più interessano sono con il presidente John Fitzgerald Kennedy (1917-1963) e suo fratello, il ministro della Giustizia Robert Francis Kennedy (1925-1968).
Un’intervista con la vedova del press agent della Monroe, Arthur P. Jacobs, ha prodotto la svolta più significativa per il biografo Summers. Una svolta utile nel contestare la nota sequenza temporale della morte della Monroe.
Secondo il documentario di Netflix, le cose per la diva di Hollywood sarebbero andate in modo diverso. Intorno alle 22.30 di sabato 4 agosto, una persona avrebbe avvertito l’addetto stampa Jacobs che qualcosa non andava con Marilyn Monroe.
Questo avveniva mentre il press agent si trovava all’Hollywood Bowl, un anfiteatro per la musica sulle colline hollywoodiane. E accadeva, quindi, ben prima della scoperta ufficiale del cadavere, alle 3.30 del 5 agosto 1962, dell’attrice.
“Non è vera (la versione ufficiale, ndr.), perché mio marito era lì. Mio marito ha falsificato tutto“, dice la moglie di Arthur P. Jacobs nel nastro riprodotto nel documentario di Netflix.
Il biografo Summers conferma – con i membri dell’ambulanza che ha prestato i soccorsi all’attrice – che Marilyn è stata in realtà portata in ospedale la sera del 4 agosto, mentre era ancora viva. E che è morta durante il tragitto verso l’ospedale.
Nel documentario, la governante Eunice Murray afferma poi, su nastro audio, che Robert Kennedy era a casa di Marilyn Monroe nel pomeriggio di quel 4 agosto.
La notizia di un ministro della Giustizia nella casa di una diva famosa, il giorno in cui questa muore, avrebbe di certo fatto scalpore, se fosse stata resa nota.
L’AMORE PER BOBBY KENNEDY
Nei giorni precedenti la sua morte, secondo il resoconto del biografo Summers, Marilyn Monroe disse a un’amica che era “molto innamorata e avrebbe sposato Bobby Kennedy“.
La governante della diva di Hollywood, Eunice Murray, afferma – in un nastro audio inedito – anche un altro dettaglio importante: Bob Kennedy e la Monroe hanno avuto una terribile lite il giorno della sua morte, il 4 agosto 1962.
Il documentario conferma, poi, che Bob Kennedy è volato all’aeroporto in elicottero per prendere un volo intorno alle 2 o 3 del mattino, nella notte della morte di Marilyn Monroe. Ovvero domenica 5 agosto 1962.
La morte prematura di Marilyn Monroe all’età di 36 anni – l’attrice era nata il primo giugno del 1926 – è così sempre stata avvolta nel mistero. Ora possiamo capirne il motivo.
Adesso abbiamo il biografo Summers che, grazie ai nastri con le testimonianze, mette in luce le incongruenze nella sequenza temporale degli eventi della morte della Monroe. In questo modo, smentisce la verità ufficiale.
Restano, peraltro, intatti i più inquietanti dubbi e misteri presentati nel documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti.
IL RUOLO DEI FRATELLI KENNEDY
Questi i dubbi sul caso della Monroe, che toccano i vertici più alti degli Stati Uniti nel 1962:
il ruolo che i Kennedy hanno svolto nella vita di Marilyn,
i timori del governo sui legami della Monroe con il comunismo,
la presenza di Bob Kennedy il giorno della morte a casa dell’attrice
I segreti di Marylin Monroe: il lavoro per il documentario
Come osserva la regista, Emma Cooper, nel parlare con il magazine Town&Country, tutte le interviste audio raccolte nel film documentario di Netflix sono state fatte negli Anni Ottanta.
“Non ci sono interviste recenti, a parte le nostre con il biografo Tony Summers”, spiega la Cooper. “Ora, tutte quelle persone se ne sono andate. Non c’è più modo di fare un film come questo: questo le rende una risorsa storica“.
La realizzazione del film ha richiesto anni di lavoro. La lavorazione ha seguito il metodo del libro di Summers, il quale ha costruito relazioni con le persone nel tempo; tanto che quei testimoni si sono sentiti in grado di dire la loro verità sulla morte di Marilyn.
La riproduzione in cera, al museo di Istanbul, dell’attrice Marilyn Monroe
La voce di Marilyn finalmente si fa sentire
La regista Emma Cooper fa una serie di affermazioni assai importanti sul film documentario sulla Monroe.
“È molto strano che questo film esca finalmente nel mondo. Prima di iniziare a realizzarlo, sono andata a Hollywood e ho visitato la tomba di Marilyn“, dice la regista al magazine Town&Country.
“Ho provato a dirle che sono qui come una donna che è più grande di lei quando è morta, che sono gli Anni Venti del XXI secolo. E che spero di darle la voce giusta“, racconta la regista.
“L’unica cosa che è importante, per me, è che abbiamo la verità, e credo che l’abbiamo. Voglio che le altre persone, alla fine del film, provino la sensazione di averla conosciuta; e di conoscere le cose che sono successe alla fine della vita dell’attrice; e perché sono accadute”, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.
“Mi interessa solo Marilyn, che è stata curiosamente senza voce per anni. Parte del motivo per cui non ho mai intervistato nessuno tranne Tony è che il mio personaggio principale è Marilyn Monroe”, fa notare la regista del film.
“Ci sono tre elementi nel film: il biografo Tony Summers, le voci che ha registrato e Marilyn. Quindi, spero solo che la gente la senta nel film”, dice Emma Cooper.
UNA DONNA DIVENTATA UN MERAVIGLIOSO ENIGMA
“Marilyn è un meraviglioso enigma e la sua verità è molto più riconoscibile di quanto pensassi. Ha smesso di essere una vittima per me, è diventata una donna molto moderna“, sottolinea l’autrice del documentario di Netflix.
Il documentario I segreti di Marilyn Monroe: i nastri inediti presenta così la vicenda dell’agosto del 1962 sotto una luce assai diversa, rispetto a quanto sapevamo.
Lo fa grazie a un’operazione che un diligente ricercatore e un bravo giornalista compiono in casi del genere: l’andare a controllare, minuto per minuto, i fatti e la loro narrazione.
Accendendo le luci da vicino, utilizzando le testimonianze, prestando attenzione ai dettagli – come ho fatto sul caso di Milena Sutter e Lorenzo Bozano – è possibile smentire le versioni ufficiali di comodo.
I misteri sulla vicenda di Marilyn Monroe – che a 60 anni dalla morte fa ancora parlare – rimangono così intatti alla conclusione del film documentario di Netflix. Mentre un dato è certo: la storia, raccontata dal 1962, della scomparsa della diva americana non ha fondamento.
Maurizio F. Corte. Giornalista professionista, scrittore e media analyst. Insegna Giornalismo Interculturale e Multimedialità all’Università degli Studi di Verona. Dirige l’agenzia d’informazioni e consulenza Corte&Media.
· 52 anni dalla morte di Jimi Hendrix.
Jimi Hendrix tra mito e leggenda il ricordo a 80 anni dalla nascita. Redazione L'Identità il 14 Dicembre 2022 di Benedetta Basile
Ottanta anni fa nacque una figura leggendaria del mondo della musica, Jimi Hendrix.
Nel corso di quella che fu la sua brevissima carriera, fuse blues, funky, soul, hard rock e psichedelica creando dei suoni unici ed entrando nell’empireo dei più grandi chitarristi della storia. Nessuno dopo di lui fu in grado di creare un mix così perfetto. James Allen Hendrix nacque a Seattle il 27 novembre del 1942, in seguito il padre cambiò il nome in James Marshall Hendrix.
La passione per la chitarra nacque presto, già a metà degli anni ’50 girava per la Horace Mann Elementary School che frequentava a quei tempi senza mai separarsi da una scopa con cui faceva finta di suonare. Attirò così tanto l’attenzione che un’assistente sociale cercò inutilmente di convincere la scuola a fornirgli una chitarra vera. Non riuscì a procurarsi strumento migliore di un ukulele, trovato mentre aiutava il padre a sgomberare una cantina. Iniziò così nel 1957 ad imparare ad orecchio le sue prime canzoni. Alla morte della madre Lucille il 2 febbraio 1958 fu il padre stesso a regalargli una chitarra, ma fu per destrorsi e Jimi era mancino. Dovette così imparare in fretta a suonare rovesciandola, un’abitudine che caratterizzò tutta la sua carriera.
Nel 1961, durante il servizio militare, il musicista incontrò Billy Cox, che sentendolo suonare descrisse il suo stile come una combinazione tra “John Lee Hooker e Beethoven”. Quest’ultimo prese in prestito un basso e i due formarono i King Casuals. Era il 1963.
Due anni più tardi Hendrix fece la sua prima apparizione nello show “Night Train”, che divenne il primo filmato di una sua esibizione dal vivo.
Nel 1966 Chas Chandler, noto produttore discografico britannico rimase colpito dalla sua versione di “Hey Joe”, che lo portò con sé a Londra e costruì intorno a lui la band destinata ad esaltarne il talento “The Jimi Hendrix Experience”. In breve tempo arrivò il successo con pezzi come “Hey Joe”, “The Wind cries Mary” e “Purple Haze”.
Il 18 giugno 1967 al Monterey Pop Festival fu presentato come “l’artista più entusiasmante che abbia mai sentito” da Brian Jones e, in quell’occasione, Jimi diede vita a una delle sue performance live più memorabili, che concluse dando fuoco a una chitarra.
Dopo l’uscita del terzo album, che si rivelò anche l’ultimo, “Electric Ladyland”, ritenuto un capolavoro, i rapporti con gli altri membri della band iniziarono a deteriorarsi a causa delle sue dipendenze dalle droghe. La rottura con i colleghi fu annunciata anche sul palco di Woodstock e con il nome di “Band of Gypsy”, con l’amico Billy Cox e Buddy Mules alla batteria registrò un album straordinario di un rock molto potente. Il 6 settembre in Germania Jimi Hendrix si esibì per l’ultima volta in un concerto dove venne fischiato dal pubblico per aver cancellato la performance della sera prima. Scese dal palco e partì per Londra, dove dopo dieci giorni suonò per l’ultima volta. Meno di 48 ore dopo, infatti, venne ritrovato morto nell’appartamento che condivideva con la sua ultima compagna, Monica Dannemann, al Samarkand Hotel.
· 51 anni dalla morte di Louis Armstrong.
Marco Giusti per Dagospia il 18 ottobre 2022.
“A quei tempi la polizia prima ti pestava, poi ti chiedeva chi sei”, racconta Louis Armstrong a Orson Welles che lo sta intervistando in tv. “E oggi pensi che sia tanto diverso?”, gli risponde ironico Welles. E’ solo una della tante gemme racchiuse in questo stupendo documentario di Sacha Jenkins dedicato alla vita del trombettista più famoso del mondo, “Louis Armstrong’s Black & Blue”, passato alla Festa del Cinema di Roma ma in arriva su Apple tv dal 28 ottobre.
Del resto è questo un Festival che ha la caratteristica che ritroviamo tutto o quasi dopo pochi giorni in streaming o in sala. Meglio così. Perché il documentario sulla vita di Satchmo è da vedere e rivedere più volte. Sia per ascoltare la musica sia per ascoltare quello che Armstrong dice. Fissato per la raccolta di articoli e testi che lo riguardavano, Armstrong aveva ritagliato chilometri di giornali riempiendo album su album. Per non parlare di lettere, sue e di fan. Ma nel suo studio, con una serie di registratori, aveva inciso su nastro osservazioni sulla sua vita e i suoi lavori. Meticolosamente.
Senza contare le sue quattro autobiografie che in momenti diversi della sua vita aveva scritto lui stesso alla macchina da scrivere. Al punto che con tutto questo ben di Dio, Sacha Jenkins è riuscito a ricostruire un paio d’ore ricchissime su tutto quello che Armstrong aveva attraversato nel secolo scorso, partendo dal quartiere più povero di New Orleans. Genio musicale indiscusso, pioniere della primissima ora nel farsi largo in un mondo popolato da bianchi, è stato il primo afro-americano a avere il suo nome scritto prima del titolo di testa di un film, Armstrong è stato anche un personaggio controverso per la cultura rivoluzionaria nera a cavallo tra gli anni ’50 e ’60.
Col suo faccione sorridente, gli occhi strabuzzanti, i denti a tastiera di pianoforte, è stato spesso visto come uno “zio Tom”, un nero ammaestrato dai bianchi, per certi intellettuali neri del tempo. In un momento in cui c’era bisogno di esporsi in prima persona e non potevano essere accettati comportamenti ambigui. Eppure, e questo il documentario di Sacha Jenkins lo spiega bene, è proprio la figura così complessa, popolare, succube di Armstrong, a rappresentare tutta la sofferenza del popolo nero.
Perfino il suo modo di suonare alla tromba l’inno americano, “The Star-Spangled Banner”, che anticipa la versione suonata con la chitarra elettrica da Jimi Hendrix, racchiude dentro di sé tutta la sofferenza e l’orgoglio di quello che avevano vissuto e patito milioni di cittadini afro-americani. E se il suo comportamento ufficiale in tv o negli show è quello del personaggio popolare che deve piacere a tutti, a cominciare dai bianchi del sud, i suoi discorsi “seri” sull’America sono estremamente pesanti e duri contro il governo e, ad esempio, il presidente Eisnhower.
Armstrong è incapace di fare sconti, di non dire quello che pensa. E lo dice in giro per il mondo, dall’Egitto alla Russia, dalla Germania all’Italia, dove verrà almeno tre volte, l’ultima per cantare a Sanremo (ma nel film non si vede), mentre si vede lui con Papa Paolo VI (“Avete figli?, chiede il papa a lui a sua moglie Lucille. “No, ma ci diamo dentro”, risponde) e le foto di quando venne nel 1959 per uno show della Rai e cantò addirittura con Claudio Villa. Promosso a ambasciatore del jazz, Armstrong prese seriamente il suo ruolo, mostrandosi fantasista e showman prima che grande musicista, ma come viene ben spiegato nel film da una serie di star del jazz, era quasi impossibile suonare la tromba come lui (chiudere in Do…).
Devo dire che Sacha Jenkins si muove benissimo tra la ricostruzione della sua carriera di musicista, quella di viaggiatore e l’Armstrong al centro della polemica sul personaggio da Zio Tom. Cosa che gli dava moltissima noia e che proprio non capiva. Ossie Davis, grande attore nero degli anni ’60 e ’70, ricorda che capì quanto Armstrong rappresentasse per tutti i neri la tristezza di secoli di torture e di sofferenze. Strepitosa anche la parte sulla marijuana, che Armstrong usava come medicina e calmante e che si portava sempre con sé in tour. Ne riparliamo. Dal 28 ottobre su Apple tv.
· 50 anni dalla morte di Dino Buzzati.
Dino Buzzati, la giovinezza e il mistero d’amore. GIOVANNA STANZIONE su Il Quotidiano del Sud il 30 Gennaio 2022.
Quest’anno cadono i cinquant’anni dalla morte di Dino Buzzati. Cinquanta sono anche gli anni di Antonio Dorigo, il protagonista di Un amore, l’opera più nota e più controversa, più autentica e più simbolica di Buzzati. Un magma di contraddizioni sfuggenti come ne è la materia di cui tratta. Un amore è un amore qualsiasi ne sia l’oggetto anche se non ne sembra degno.
Un amore è un amore pur se inappagato, anzi soprattutto in quest’ultimo caso perché, a proprio avviso, ne rappresenta la manifestazione più pura e disinteressata, più mistica perché consacrata al dolore e alla mortificazione dell’animo più che alla gioia del corpo, più duratura perché destinata ad autoalimentarsi per sempre. Un amore può essere amore per un corpo di carne e pelle morbida, tenere cartilagini, denti lisci, lucidi occhi vetrosi.
E allo stesso modo può essere amore per un organismo fatto di cemento e mattoni, di piazzuole e vicoli, di strade asfaltate e bollenti, muri crepati, slarghi monumentali, tetti affastellati scottati dal sole. La cifra dell’amore, in tutti i casi, è il mistero del desiderio che l’oggetto d’amore scatena nel corpo e nell’anima. Il mistero è fatto di fame, la alimenta e ne è alimentato. La fame d’amore non può mai esserne sazia. In Un amore di Buzzati essere umano e città, Laide e Milano, si confondono nella brama d’amore del protagonista Dorigo e nel respingere costantemente questo suo amore.
Il motivo del rifiuto non sta, come lo si è voluto interpretare, nella natura necessariamente crudele dell’oggetto d’amore, sia essa la natura della donna, dei giovani o della grande città. Ma il motivo sta, ed è sempre stato, nella brama di controllo e di possesso di questo amore che, nel momento in cui si nutre del mistero, cerca costantemente di distruggerlo. Non cerca davvero l’equivalente nell’oggetto d’amore, ma mette in atto tutte le strategie di fallimento, consce, inconsce e dolorose, volte a perpetuare se stesso. E quando l’amore si fa idolatria, si disinteressa della realtà del proprio oggetto, diventa passione, culto narcisistico di se stesso.
Più la si coltiva e più essa cresce di intensità, più cresce di intensità meno salda si fa la sua presa sulla realtà, fino a che non la perde del tutto, coprendola agli occhi, diventando essa stessa unica realtà. Sia ne Il deserto dei Tartari che in Un amore, i suoi due romanzi più importanti, Dino Buzzati scrive di passione, per la morte l’una, per la vita nella sua misura più cruda l’altra. Oggetti per nulla dissimili l’uno dall’altro, anzi incredibilmente vicini nell’essere al di là di uno squarcio.
Buzzati comprende che, oltre la morte, c’è una sola altra cosa, nella vita umana, sfuggente e autodissolutoria come il mistero d’amore, ed è la giovinezza. La giovinezza non può essere posseduta dall’esterno. Non può essere posseduta con la forza, con un’imposizione di violenza, con il convincimento. La si può avere solo finché non la si è perduta, dopo è irrecuperabile in alcuna forma. Laide oltre a essere mistero d’amore, oltre a essere città, oltre a essere donna è, sopra ogni cosa, giovinezza. Un ennesimo oggetto refrattario al controllo di Dorigo. Laide è, con le parole di Dorigo, “sfrontata, maliziosa, civetta, popolaresca, sicura di sé”.
È una ragazza giovanissima, che prostituisce il suo corpo in cambio di vantaggi materiali di cui non è mai sazia, “Per farsi prendere in considerazione da lei, una bella Maserati ultimo modello contava molto di più che aver costruito il Partenone”. In questa frase del cinquantenne Dorigo c’è tutta l’infinita incolmabile distanza destinata ad alimentare tragicamente la sua fame. Vista dall’esterno la giovinezza appare materialistica, approfittatrice, volgare, ignorante, insensibile, indifferente, incomprensibile, peggiore di quando ci apparteneva.
È il travisamento sentimentale che della giovinezza fa chi ne è rimasto escluso o chi ne vuole ancora, per conti in sospeso con la propria. Chi si sente tradito dalla giovinezza, rifiutato, incompreso, e allora cerca di renderla peggiore di come è e di come era stata, di spingerla alla spietatezza. Ma in realtà, la giovinezza, come Laide, respinge quando sente puzza dell’inautenticità e della brama con cui la si avvicina. L’amore di Dorigo già nasce stortamente dal risentimento per l’impossibilità di conciliazione della propria essenza con quella di Laide. Nasce già bagnato di rimpianto.
Più ancora che il mistero d’amore è il mistero della vita trascorsa e perduta che Dorigo cerca di possedere, votandosi all’insuccesso. Non potrà possedere la giovinezza perché non la comprende più e non è compreso. Non la comprende perché si avvicina ad essa con sentimenti inautentici e predatori, non vuole veramente conoscerla, vuole solo fagocitarla. Laide questo lo comprende, tutti i giovani lo fiutano, e reagisce con il rigetto, un rigetto sadico e crudele, almeno quanto lo è l’atteggiamento inconscio dell’uomo che la vuole e la disprezza, l’ama e la ingiuria. La gioventù è sempre deludente quando la si vede dall’esterno, è sempre indolente, inerte, ignava, priva di valori, priva di aspirazioni, di bellezza, votata alla promiscuità sessuale, alla confusione, alla dispersione. In ognuno di questi giudizi c’è la fitta dolorosa di chi per sempre è lasciato indietro da questo turbinio vitale che necessariamente parla un linguaggio che può parlare esso soltanto. Si può comprendere la tanto esecrata crudeltà di Laide solo se si comprende la speculare crudeltà di Dorigo nei suoi confronti.
Non esiste “Ninfetta” senza un uomo, afflitto dall’assenza di giovinezza e votato all’insuccesso del suo proposito, che la definisca tale. Se si fermasse ad ascoltare la giovinezza di Laide, Dorigo sentirebbe che è spaventata, incerta, affamata, impavida, portatrice di una visione nuova, di bisogni nuovi, delle stesse paure, di nuove paure, di considerazioni diverse, di necessità struggente di una spiegazione delle cose, di felicità innate e di infelicità abissali. “Lui la amava per se stessa” dice Dorigo a un certo punto, ma poi in realtà Laide diventa tutt’altro che se stessa, diventa simbolo di qualunque cosa meno che lei, di cento altre cose possedute e perdute, oppure mai avute, di cento altri misteri: “Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuino popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano.”
Dino Buzzati, il cronista magico: in un libro i suoi articoli per il «Corriere». LORENZO VIGANÒ su Il Corriere della Sera il 28 Gennaio 2022.
In occasione dei cinquant’anni della morte del giornalista, dal 28 gennaio per un mese in edicola una nuova edizione di «Cronache terrestri» (edite da «Corriere della Sera» con Mondadori). Qui pubblichiamo la prefazione di Lorenzo Viganò.
La moglie Almerina raccontava di averlo visto piangere una volta sola. Era il 1971, il «Corriere della Sera» voleva mandare a riposo i giornalisti di 65 anni d’età e lui, gli aveva ricordato il direttore, stava per compierli. «Tornò cupo dal giornale, si sedette al tavolo, la testa tra le mani. Era angosciato al pensiero di essere buttato fuori dall’organico degli effettivi. Poi, come folgorato, disse: “Non faranno in tempo a cacciarmi, morirò prima”. E si illuminò in volto».
Basterebbe questo episodio a spiegare il legame di Dino Buzzati (che si sarebbe spento alla fine di gennaio dell’anno successivo, proprio a 65 anni) con il «Corriere». Un legame stretto e profondo, lungo una vita intera; un rapporto intimo e simbiotico, quasi di dipendenza, che, dal suo ingresso appena ventunenne in via Solferino, con la certezza di esserne presto «cacciato come un cane», al suo ultimo elzeviro prima della partenza finale con il Reggimento assegnato, interruppe (ma mai spezzò) una volta soltanto, per poco più di un anno, quando, sospesa l’uscita del giornale dopo la Liberazione, migrò con Gaetano Afeltra, Bruno Fallaci e Benso Fini al «Corriere Lombardo». Tornò al «Corriere» nel novembre 1946, per non lasciarlo più.
Del resto, quelle stanze, dove nelle lunghe, ripetitive e immobili notti in redazione era nata l’idea del Deserto dei Tartari, il suo romanzo più famoso incentrato sul tema dell’attesa, Buzzati non le aveva lasciate nemmeno quando, dopo l’8 settembre 1943, con la caduta del fascismo, la maggioranza dei colleghi se n’era andata. Era rimasto al suo posto per senso del dovere — il giornale gli aveva chiesto di restare e lui aveva ubbidito. Una scelta pericolosa — di cui Indro Montanelli in seguito cercò più volte, invano, di spiegargli la gravità — che gli costò sospetti di collaborazionismo mettendo seriamente a rischio la sua permanenza in via Solferino. Fu solo grazie a Gaetano Afeltra, che conosceva bene lui e quello che definiva il suo «candore politico», se poté restare e persino raccontare la Liberazione di Milano in un articolo (non firmato) apparso sulla prima pagina del «Nuovo Corriere della Sera» il 26 aprile 1945, con il titolo Cronaca di ore memorabili.
«La sua vita era il giornale e il “Corriere” era la sua casa», raccontava ancora la moglie Almerina. Dino Buzzati vi era entrato, quasi laureato (in Giurisprudenza), come praticante addetto alla cronaca, insicuro delle proprie capacità («Al “Corriere” non mi terranno e la vita sarà per me un inferno»). Si era fatto le ossa in redazione, poi aveva via via ricoperto diversi ruoli dello scacchiere giornalistico: corrispondente dall’Africa — per raccontare le nuove colonie dell’impero —, corrispondente di guerra — a bordo degli incrociatori nel Mediterraneo –— e, dopo la fine del conflitto e il suo ritorno in via Solferino, inviato — per raccontare fatti, fattacci e imprese, soprattutto italiane —; e poi titolista, elzevirista, responsabile della Pagina dell’Arte. Il deserto dei Tartari, pubblicato nel 1940 all’età di 34 anni, romanzo nel quale aveva trasposto letterariamente il «Corriere» nella Fortezza Bastiani e sé stesso nell’ufficiale Giovanni Drogo, gli aveva dato la fama, consolidata dai lavori successivi — raccolte di racconti (I sette messaggeri, Sessanta racconti, premio Strega ), romanzi (Un amore), graphic novel (Poema a fumetti). Avrebbe potuto ritagliarsi un ruolo indipendente dalla routine quotidiana del giornale, un ruolo da osservatore e commentatore, da opinionista. Da «firma». Invece non lasciò mai il tavolo di redazione, la macchina del giornale, la sua ideazione; non rinunciò mai all’inchiostro delle bozze, al rapporto con i collaboratori, al contatto con la tipografia, dove mandava i menabò con i titoli disegnati al contrario che venivano poi contesi e custoditi dai linotipisti.
La sua penna — grazie a una sensibilità non comune e a quella straordinaria capacità, diceva Guido Vergani, di cogliere particolari che gli altri non vedevano e di «mettere l’evento dentro alla vita», con un atteggiamento che Oreste Del Buono definiva «stupore perpetuo» — ha raccontato oltre quarant’anni di avvenimenti, al punto che oggi, attraverso i suoi pezzi, si può leggere la storia (non solo) d’Italia e degli italiani. Quando usciva sul «Corriere» un suo articolo, raccontava Giulia Borgese, la prima donna a entrare in via Solferino, in casa sua il giornale veniva lasciato aperto su quella pagina, invito esplicito e imprescindibile a leggerlo. Ma mai, Buzzati vivente, venne stampato un libro che li raccogliesse, in parte o tematicamente. Ci pensarono Domenico Porzio e la stessa Almerina Buzzati pochi mesi dopo la sua morte, dedicando alla lunga attività giornalistica il primo libro postumo dal titolo — bellissimo — Cronache terrestri: una raccolta di scritti esemplari che oggi il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori in occasione del cinquantesimo anniversario della scomparsa dell’autore bellunese. Una sorta di best of che attraversa la sua carriera dal 1932 al 1971, con articoli che toccano i temi più diversi, dalla guerra alle montagne, da Milano al mistero, dai viaggi nei Paesi stranieri ai fenomeni sociali, dall’arte ai personaggi. 99 pezzi (più uno introduttivo sul Meraviglioso mestiere di scrivere) che mostrano la versatilità di Dino Buzzati e il suo modo, unico e inconfondibile, di fare giornalismo, quel giornalismo che, rispetto alla letteratura, era, secondo Eugenio Montale, lo stesso guanto, rovesciato. I grandi servizi giornalistici di un grande scrittore, recitava il sottotitolo sulla copertina della prima edizione: cronache, elzeviri e reportage che il curatore Domenico Porzio ordina in capitoli tematici dai titoli suggestivi (uno per tutti: Dalla babelica città dove abita la paura l’amore la maledizione la solitudine la morte).
«Il giornalismo per me», aveva confessato Buzzati in un’intervista, «non è stato un secondo mestiere ma un aspetto del mio mestiere. L’optimum del giornalismo coincide con l’optimum della letteratura». Lo dimostrano chiaramente gli articoli di questa antologia, nei quali, che si parli di un delitto o di una battaglia navale, di un artista o di un’impresa sportiva, di una sciagura o di una conquista, il giornalista si scambia continuamente il ruolo con lo scrittore (e viceversa).
È Indro Montanelli a parlare di Cronache terrestri sulle colonne del «Corriere», con un attacco tanto spiazzante quanto significativo del lungo e profondo rapporto che lo legava a Dino Buzzati (con cui aveva diviso una stanza in via Solferino) e alla moglie Almerina, alla quale rimarrà vicino per tutta la vita. «Ho sempre pensato che gli scrittori, una volta morti, è bene che lo siano definitivamente, lasciando ai posteri il compito di decidere fino a che punto si possano resuscitare. Ecco perché li vorrei tutti scapoli: per metterli al riparo dalle vedove che tentano di farli anzitempo rivivere raccattando e pubblicando le loro briciole. Ma Buzzati è uno dei pochissimi che si sottraggono alla regola: il suo pane di briciole non ne perdeva, e qualunque cosa toccasse, anche la più umile e consueta, la sua mano vi lasciava il segno, autenticandola. Faceva parte non del suo modo di fare, ma del suo modo di essere».
Ecco allora che in questi articoli, corrispondenze, racconti, Dino Buzzati non si ferma ai doveri del cronista, e alle informazioni che ogni notizia esige e che egli raccoglie e riporta con scrupolo, precisione e dovizia, aggiunge qualcosa di sé, il proprio segno, appunto. Si emoziona, si indigna, si commuove, si immedesima; ammonisce e riflette. E arriva dritto al cuore del lettore. «La camera ardente di Albenga resterà fra le cose più grandi e spaventose di tutti questi anni e della mia personale vita», è l’incipit dell’articolo sulla sciagura del 1947 nella quale morirono annegati 43 bambini (Il trionfo della morte). «Una specie di demonio si aggira dunque per la città, invisibile, e sta forse preparandosi a nuovo sangue», scrive all’indomani della strage di via San Gregorio a Milano, nella quale Rina Fort, «la belva», uccise la moglie dell’amante e i suoi tre figli (Un’ombra gira tra noi). E ancora: «Senza osare ancora crederlo, Milano si è risvegliata ieri mattina all’ultima giornata della sua interminabile attesa» sono le prime parole che leggono i milanesi liberati il 26 aprile 1945, nelle quali quel «senza osare ancora crederlo» racchiude ed esprime l’incertezza, la speranza, ma anche la forte determinazione a tornare finalmente a una vita normale (Cronaca di ore memorabili).
Può raccontare dettagliatamente uno scontro navale (La battaglia del golfo di Sirte) e poi entrare nella mente e nella pelle del cane che vive con i marinai su un incrociatore per riferirne pensieri e paure (Ansie del cane di bordo); può confessare i rimorsi di figlio dopo la morte della madre (I due autisti) e condurre i lettori nell’aldilà attraverso una porta segreta scoperta durante gli scavi per la Metropolitana Milanese (I segreti della MM); può, ancora, rivolgersi direttamente alle Pale di San Martino, sue amate montagne — «patria!» —, guardandole con gli occhi di un sessantenne ex scalatore che le osserva dal basso con tristezza e rassegnazione, e dice loro «addio, addio» (O Pale di San Martino) e rivelare il suo amore profondo per la Milano d’estate, «quando è immersa nell’afa e lentamente fuma» (A qualcuno piace calda). A volte gli basta una pennellata per dare profondità al quadro: la «faccia da garagista » di Albert Camus (Camus: un uomo semplice), Bartali che «si divincola sul sellino come fanno le salamandre sorprese dal viandante in mezzo al sentiero» (Coppi sconfigge il grande avversario), la «calligrafia diabolica» di Orio Vergani (Quattro Vergani), i «tric tric» sulle pietre della piccozza del grande alpinista Ettore Zapparoli mentre si allontana, solo, da questo mondo (Zapparoli).
«Il vero mestiere dello scrivere», dirà Dino Buzzati nella sua ultima, lunga intervista rilasciata a Yves Panafieu pochi mesi prima di morire, «coincide proprio con il mestiere del giornalismo, e consiste nel raccontare le cose nel modo più semplice possibile, più evidente possibile, più drammatico o addirittura poetico che sia possibile». Mettendo a disposizione del lettore, come lui faceva, non solo gli occhi del giornalista, ma anche i pensieri, le paure, le debolezze, i segreti che agitano l’uomo.
«Buzzati non vedeva: immaginava. O per meglio dire, immaginava anche quello che vedeva. E non ha mai vissuto, ha solo sognato di vivere», ha scritto ancora Indro Montanelli nella recensione di Cronache terrestri. «A Buzzati il giornalismo era necessario perché era lì che trovava il suo unico aggancio alla vita. […] Nei fatti vissuti dagli altri egli si procurava il materiale per dare corpo ai suoi fantasmi».
Amato anche all’estero. Romanzi, fiabe... un catalogo in evoluzione
Se le ultime richieste provenienti dall’estero riguardano la pubblicazione del romanzo Un amore in arabo e del Bestiario in giapponese, il catalogo dei libri di Dino Buzzati nella sua lingua madre è ricco e si arricchisce continuamente. Oltre ai titoli usciti quando lo scrittore era ancora in vita — da Bàrnabo delle montagne al Segreto del Bosco Vecchio, da Sessanta racconti a Un amore, dal Colombre a Poema a fumetti a I miracoli di Val Morel — la Mondadori, sua casa editrice dal 1942 (primo libro: I sette messaggeri) ha recentemente pubblicato l’«edizione cult» de Il deserto dei Tartari con importanti inediti (la prima scaletta manoscritta del romanzo e l’unico trattamento cinematografico della storia firmato dallo stesso Buzzati), cui si affiancano il volume in grande formato della fiaba La famosa invasione degli Orsi in Sicilia con disegni inediti, le pagine del «Corrierino» dove la storia apparve la prima volta nel 1945 e i disegni del film d’animazione che ne ha tratto nel 2019 Lorenzo Mattotti, e la riedizione della Nera, raccolta dei suoi articoli di cronaca, con nuovi pezzi e un ricco apparato iconografico. Di imminente pubblicazione anche la nuova edizione dell’Album Buzzati, uscito nel 2006 per il centenario della nascita e riproposto con manoscritti, pagine di diario e foto inedite in occasione del cinquantesimo della morte. Da ricordare anche il libro postumo Il reggimento parte all’alba per l’editore Henry Beyle «lavorato» direttamente sull’agenda personale di Buzzati, con immagini applicate a mano, e i 25 titoli in audiolibro realizzati da Audible, di cui quattro (Il deserto dei Tartari, Un amore, Sessanta racconti e Il Colombre) letti da Gioele Dix.
· 49 anni dalla morte di Bruce Lee.
Valeria Aiello per fanpage.it il 18 Dicembre 2022.
Il celebre attore ed esperto di arti marziali Bruce Lee non sarebbe morto a causa di un edema cerebrale dovuto a una reazione allergica all’Equagesic, un farmaco composto da aspirina e meprobamato, che gli era stato somministrato come antidolorifico dall’amica e attrice Betty Ting Pei a casa di lei a Hong Kong. Secondo un team di ricerca spagnolo, l’edema cerebrale che il 20 luglio 1973 ha stroncato la vita di Lee all’età di soli 32 anni sarebbe invece dovuto all’iponatriemia, una condizione che rifletterebbe un consumo insolitamente elevato di liquidi, che supera l’escrezione renale di acqua . “In altre parole – hanno scritto gli studiosi in un articolo appena pubblicato sul Clinical Kidney Journal – , riteniamo che l’incapacità dei reni di espellere l’acqua in eccesso abbia ucciso Bruce Lee”.
Bruce Lee potrebbe essere morto per aver bevuto troppa acqua
Diversi fattori suggerirebbero che Lee possa aver ingerito un eccesso di liquidi nelle ore che hanno preceduto il suo decesso, in relazione alla sua dieta, che consisteva nel consumo di molti succhi e bevande proteiche, e al consumo di cannabis, che provoca un aumento della sete. “In sintesi, Lee aveva molteplici fattori di rischio che predisponevano all’iponatriemia derivanti dall’interferenza con i meccanismi di omeostasi dell’acqua che regolano sia l’assunzione di acqua sia la sua escrezione” hanno aggiunto i ricercatori.
Per il team, coordinato da Priscila Villalvazo del Dipartimento di Nefrologia e Ipertensione, IIS-Fundacion Jimenez Diaz UAM di Madrid, Bruce Lee sarebbe morto “per una specifica forma di disfunzione renale: l’incapacità di espellere abbastanza acqua per mantenere l’omeostasi dell’acqua”.
“Ironia della sorte – hanno concluso gli studiosi – , Lee ha reso famosa la citazione ‘Be water my friend’ (Sii acqua amico mio), ma sembra che l’acqua in eccesso alla fine lo abbia ucciso”.
L’edema cerebrale e le cause della morte di Bruce Lee
Sulle cause della morte di Bruce Lee, ancora oggi oggetto di discussione, sono state avanzate numerose ipotesi. Oltre all’ipersensibilità all’Equagesic, sono state emerse diverse tesi (dall’assassinio da parte della mafia alla più recente ipotesi del 2018, collegata a un colpo di calore) che non hanno trovato riscontro nei risultati dell’autopsia.
L’esame autoptico indicò la presenza di un grave edema cerebrale, che aveva causato un aumento del 13% del peso del cervello (mediamente il cervello pesa attorno ai 1.400 grammi, mentre nel caso di Lee pesava 1.575 grammi), escludendo segni di lesioni esterne. Le uniche due sostanze rinvenute nell’analisi del sangue furono i componenti dell’Equagesic e 4 grammi di cannabis, che Lee aveva masticato alcune ore prima del decesso. Quanto invece al colpo di calore, l’autopsia non evidenziò alcun segno di disfunzione multiorgano, né il 20 luglio 1973 fu un giorno più caldo della media per l’estate a Hong Kong.
Sulla base delle informazioni pubblicamente disponibili, gli studiosi ritengono invece che l’iponatriemia possa spiegare l’edema cerebrale, in quanto le manifestazioni cliniche di questa condizione, specie in caso di iponatriema iperacuta, sono soprattutto di tipo neurologico.
L’iponatriemia si verifica quando l’organismo contiene una quantità insufficiente di sodio rispetto alla quantità di liquidi, e può essere dovuta al fatto che l’organismo stesso trattiene una maggiore quantità d’acqua. Tuttavia, determinate condizioni possono portare un soggetto a bere quantità eccessive di acqua (polidipsia), il che può contribuire all’insorgenza dell’iponatriemia. Queste comprendono un’anormale assunzione di liquidi e, come detto, fattori che aumentano la sete e l’assunzione di acqua, come l’uso di marijuana, che nel caso di Lee è stato provato dall’autopsia, oltre a prove del consumo ripetuto di liquidi nel giorno della sua morte.
Secondo gli studiosi, Bruce Lee avrebbe dunque avuto molteplici fattori di rischio che predisponevano all’iponatriema, oltre a “una presentazione clinica coerente con l’iponatremia e un riscontro necroscopico di edema cerebrale che è causa di morte nell’iponatriemia grave”.
“Il fatto che siamo fatti per il 60% di acqua – hanno precisato gli studiosi – non ci protegge dalle conseguenze potenzialmente letali di un suo consumo a una velocità superiori a quelle che i nostri reni impiegano per espellere l’acqua in eccesso”.
· 49 anni dalla morte di Anna Magnani.
"Come una cavalla". La corsa di Anna Magnani a essere la più grande. La popolana che ha conquistato il mondo del cinema, ricercata dai più grandi registi italiani e americani, ma che ha regnato come una regina grazie al suo carattere: questa è Anna Magnani. Simona Losito il 30 Novembre 2022 su Il Giornale.
Anna Magnani si raccontava da sola, dicendo: “Assomiglio alla mia cavalla, un animale nobile, coraggioso, nervoso. Più che dalla ragione, la mia vita è guidata dall’istinto”. Nulla di più vero: una descrizione pronunciata dalle sue stesse labbra, ma di una verità straordinaria.
Le origini e il mito di Anna Magnani
La Magnani, lei non è solo nata a Roma. Lei è stata Roma. L’ha vissuta durante la Guerra, l’ha interpretata innumerevoli volte e ne ha portato un pezzetto anche negli Stati Uniti, nonostante i suoi personaggi nei film americani fossero spesso stereotipati. E poi non perdeva occasione di gridare a gran voce la sua origine.
Suo padre era calabrese, ma non lo conobbe mai. Sua madre, Marina Magnani, fu assente: si era trasferita ad Alessandra d’Egitto, motivo per cui molti e per molto tempo avevano creduto che fosse la terra natia di Anna. Una leggenda smentita dopo la sua ascesa nel mondo del cinema. Cresciuta dalla nonna, abitava in una casa insieme a cinque zie: un’infanzia, la sua, tutta al femminile.
“Ma quante volte ve lo devo spiega' che non sono stata raccattata per la strada, che ho fatto fino alla seconda liceo, che ho studiato pianoforte a otto anni, che ho frequentato l’Accademia di Santa Cecilia? […] Ma io so’ nata a Roma da madre romagnola e padre calabrese, come dice il certificato di nascita. In Egitto mia madre ci andò dopo che mi ebbe avuta. Aveva vent’anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo, così andò in Egitto e io restai con la nonna qui a Roma”. Questo ha dovuto sempre ribadirlo, per scindere i ruoli che interpretava da ciò che realmente era, perché nell’immaginario collettivo era Nannarella o Mamma Roma.
La recitazione, il cinema, i riconoscimenti
Dopo pochi mesi in un collegio di suore francesi, le sue doti artistiche si rivelarono e intraprese lo studio del pianoforte, che però abbandonò per iniziare a frequentare, nel 1927, la scuola di arte drammatica Eleonora Duse. Persino il direttore dell’istituto, Silvio D’Amico, ne captò sin da subito il potenziale, il carisma e la forza espressiva.
Dopo il teatro e una serie di personaggi marginali in film dove ha interpretato il ruolo di cameriera o cantante (non si pensi, infatti, che la gavetta le sia stata estranea) le sue doti drammatiche colpirono Vittorio De Sica, il primo a proporle di interpretare un personaggio non secondario nel film Teresa Venerdì del 1941. Da quel momento in poi i film non scarseggiarono, i registi la bramavano e sino negli Stati Uniti conoscevano il suo nome, per quanto non pronunciato nel modo corretto.
Nel 1945 vinse il suo primo Nastro d'argento grazie all'interpretazione nel film, manifesto del Neorealismo, Roma città aperta di Roberto Rossellini. Lei stessa ha raccontato di non aver mai fatto le prove della scena della morte e questo perché con il grande Rossellini, di cui fu anche l’amante, “non si provava. Lui sapeva che, preparandomi l’ambiente, io poi funzionavo”. Fu quella, forse, la prima volta in cui la grande Magnani era diventata il personaggio che interpretava e non sarà certamente l’ultima.
Difatti la sua magnificenza la portò a essere la prima donna italiana nella storia degli Academy Awards a vincere l’Oscar come migliore attrice protagonista e la prima in assoluto non anglofona. Il premio le fu conferito per l'interpretazione di Serafina Delle Rose nel film La rosa tatuata, per la regia di Daniel Mann. È stato il trampolino di lancio che ha cambiato per sempre la sua carriera e la sua vita.
I premi non smisero di lusingarla, dai Golden Globe al David di Donatello e il riconoscimento come migliore attrice al Festival di Berlino. I più grandi registi la bramano: da Monicelli a Fellini, fino a Pier Paolo Pasolini con la maestosa Mamma Roma. È iconica la storia di quando George Cukor, uno dei più grandi registi di Hollywood che aveva già condotto la Magnani al premio come miglior attrice al Festival di Berlino nel 1958 per l'interpretazione del film Selvaggio è il vento, le propons alla fine degli anni ’50 di interpretare il ruolo della mamma di Sofia Loren nel film La ciociara.
“Io sua madre? Ma mi vedete così vecchia? Ma andate tutti a mori' ammazzati”, fu questa la sua risposta incontrovertibile. Cukor allora decise di abbandonare l’incarico “se Anna non è la Ciociara, io non sarò il regista” affermò. Toccò quindi a Vittorio De Sica, ma neanche l’amico che l’aveva condotta per la prima volta sugli schermi riuscì a farle cambiare idea. Anagraficamente, Anna Magnani avrebbe potuto essere davvero la mamma della giovane venticinquenne Sofia Loren all’inizio della sua carriera. L’orgoglio vinse, però. E vinse anche quel film un gran numero di premi, tra cui l’Oscar per Sofia, nonostante i quali il rimorso per quel “no” tanto sonoro non toccò l’animo della Magnani.
La sua ultima apparizione cinematografica avvenne nel 1972, nel film di Federico Fellini Roma. Morì l’anno successivo in seguito a un tumore al pancreas e ancora viene ricordata da molti come l’attrice italiana più grande di tutti i tempi.
La debolezza sotto quell’imponente carattere
Una risata che riecheggiava in tutta la stanza, occhi così espressivi da mettere in soggezione e capelli arruffati, ecco cosa la contraddistingueva. Il suo non era un fascino comune: saranno state forse le borse sotto i suoi occhi, l’imperfezione del suo naso o le rughe di cui andava tanto fiera. Magnani era la popolana e la regina allo stesso tempo. Nella sua carriera è sempre stata accusata di avere un brutto carattere, proprio per la sua istintività. È stata descritta in tutti i modi, anche “virile”, ma la realtà è che non era nient’altro che personalità, una personalità forte, certo, ma è lo stessa che le ha permesso di non farsi mai mettere i piedi in testa.
Oriana Fallaci la inserì infatti nella serie di incontri Gli antipatici, nonostante non la considerasse tale, ma lo fece proprio per smascherare quel lato che tutti temevano. “Non comprendo perché la definiscano maleducata o superba o perché la definiscano una popolana che si nutre di parolacce e fagioli. Per me è una signora con la quale mi sono sempre trovata benissimo. Una popolana o una donna maleducata e superba abiterebbe in una villa con la piscina”, sosteneva la Fallaci.
Roma, scoprirla con le donne del cinema
Qui, però, in questa intervista, la Fallaci aveva intuito quale fosse il suo tallone d’Achille: suo figlio Luca. Il suo pensiero, le sue parole e anche le sue azioni conversero tutte quante verso il suo unico figlio. “Egli è il metro di misura della sua vita - scrisse - la condizione della sua vita, lo scopo della sua vita. La Magnani fa un film? Vuol dire che le servono soldi pel figlio. Non lo fa? Vuol dire che resta vicino a suo figlio. Ed io credo che sia per suo figlio che teme tanto i malanni, odia tanto la morte”.
I legami di sangue furono per Magnani i legami più importanti, gli amori sono solo di passaggio. La mancanza di una figura paterna ha avuto un’influenza amplificatrice per il suo ruolo di madre. Luca Magnani ha affermato che la figura paterna non era mancata, né a lei né a lui. “Si è creata da sola. Non aveva un regista o un produttore accanto. Non aveva via di scampo”, disse, raccontando di una madre che non si è arresa nemmeno quando suo figlio si era ammalato di poliomielite.
Il suo destino si era ripetuto uguale, perché il padre di suo figlio li abbandonò entrambi come fece suo padre con lei. Ma la Magnani ha sempre reagito alle difficoltà con la forza delle donne che ha sempre interpretato nei suoi film: diede a suo figlio il suo cognome e permise allo stesso di perpetuarsi per ben tre generazioni. Quella sua debolezza, quella mancanza che nella vita ha sempre sentito e cercato di colmare, l’ha trasformata in forza e in quel carattere che le ha permesso di diventare la grande Anna Magnani.
· 45 anni dalla morte di Elvis Presley.
Elvis Presley moriva 45 anni fa: storia di un addio tra barbiturici, anfetamine e tanto, tantissimo cibo spazzatura. Giulia Cavaliere su Il Corriere della Sera il 16 Agosto 2022.
Il 16 agosto 1977 se ne andava per un infarto tra mille misteri il re del rock'n'roll, dopo un periodo di eccessi e abusi.
Il decesso
Il 16 agosto 1977 Elvis Presley venne trovato morto nel suo bagno, a Graceland, dalla fidanzata di allora, Ginger Alden; con ogni probabilità era deceduto a causa di un infarto che lo aveva colpito pochi istanti prima, mentre era sul water dove aveva appena vomitato. Tuttavia il suo medico personale - su cui le polemiche e i dubbi si sprecano - il dottor George Nichopoulos, disse che Elvis morì a causa delle conseguenze della costipazione cronica, una malattia che causa la presenza di un colon di dimensioni sproporzionate, una mobilità intestinale scarsissima e anche gravissima obesità. Il cantante sarebbe cioè stato affetto da quella che viene definita «la malattia di Hirschsprung» (che nelle sue memorie Nichopoulos chiama Hershberger).
I funerali
Vestito con un completo bianco e una camicia blu spediti dal suo negozio di abbigliamento preferito di Memphis, il "Lansky Bros", il 18 Agosto 1977, due giorni dopo il decesso, ebbe luogo il funerale, organizzato e gestito in ogni dettaglio dalla "Memphis Funeral Home" di Robert Kendall. La bara scelta per Elvis era identica a quella usata per la sepoltura di sua madre, Gladys Love Smith Presley, morta nell'estate del '58. La figlia Lisa Marie posò un braccialetto nella bara, accanto al padre, per il resto venne sconsigliato l'inserimento nel feretro di tutti gli oggetti di valore - che avrebbero potuto portare a un furto. La cerimonia funebre ebbe forma privata, naturalmente a Graceland e fu condotta e presieduta dal pastore della "Wooddale Church of Crist", il Reverendo Bradley. La durata fu di circa due ore e all'esterno, fuori dai mitici cancelli - pentagramma dell'abitazione, attendevano migliaia di persone.
La musica
Per quanto riguarda le musiche, al funerale vennero perlopiù eseguiti canti gospel molto amati dal cantante, con J.D. Sumner, "Stamps Quartet", Jake Hess, James Blackwood, Kathy Westmoreland e gli "Statemen". La bara fu poi portata su un carro funebre, naturalmente bianco, al Forest Hill Cemetery, situato sull'Elvis Presley Boulevard. La bara arrivò al cimitero intorno alle 16 e dopo un servizio funebre venne posta all'interno di una cripta vicino al luogo dove riposa la madre di Elvis.
I presenti
Foto e testimonianze della giornata accertarono la presenza alle funzioni di Caroline Kennedy (figlia del Presidente John Fitzgerald Kennedy ma lì in veste di giornalista di "Rolling Stone"), Ann-Margret con suo marito Roger Smith, Charlie Hodge, George Hamilton, il colonnello Tom Parker, Chet Atkins, Ginger Alden, James Brown, Linda Thompson, Sammy Davis Jr. E poi dei famigliari: la ex moglie Priscilla, la figlia Lisa Marie, il padre Vernon Presley che distrutto continuava a implorare il cielo di raggiungere il figlio e morì solo due anni dopo e poi l'adorata nonna Minnie Mae e i cugini Gene e Billy Smith.
In tutto il mondo
La voce di Elvis cantava intanto in una sorta di ideale mondovisione, usciva dalle radio di tutto il mondo, nei locali, nelle televisioni, per le strade. Intanto a Memphis, a seguire il regale carro funebre bianco c'erano sedici limousine, ovviamente anche loro bianche. La quantità di persone assiepate ovunque - come abbiamo detto già oltre i cancelli di Graceland ma anche agli angoli della strada e lungo tutto il percorso dal cancello al cimitero - fu incalcolabile.
Elvis è vivo
Paul is Dead e Elvis Lives, due teorie diverse ma analoghe. A partire dalla sua morte cominciarono ad arrivare segnalazioni di avvistamenti di Elvis in ogni parte del mondo e prese dunque piede la teoria che riteneva il cantante ancora vivo e nascosto da qualche parte per sottrarsi ai riflettori. Teorie complottiste che lo vedevano protagonista o ancora teorie aliene che si sprecano ancora oggi e sono entrate nell'immaginario - fantastico - collettivo.
In realtà
In realtà, purtroppo, Elvis vivo non è e pare anzi che a condurlo alla morte fu un provato abuso di psicofarmaci, anfetamine, barbiturici e stimolanti, sembra che il cantante pesasse poco meno di 160 kg quando morì, peso raggiunto abbuffandosi, per cercare di superare uno stato di paranoia perenne, di cibo spazzatura in quantità. Mangiava quantità eccessive di burro di arachidi e banane, dolci, fritti, hamburger, gelati, pizze, panini fritti con bacon, tutti alimenti che aveva adorato per tutta la vita. Inoltre, è provato che negli ultimi anni Elvis mangiasse solo panini che lui stesso ideava, panini a strati con carne, salse, marmellate, e, appunto l'adoratissimo burro d'arachidi. Nessun medico era riuscito a farlo smettere.
Da “il Giornale” il 14 luglio 2022.
Per gentile concessione dell’editore Newton Compton, pubblichiamo uno stralcio di Elvis (pagg. 352, euro 9,90) della giornalista Sally A. Hoedel. Il libro-inchiesta indaga sulla morte di Elvis Presley, deceduto nel 1977 a soli 42 anni, attraverso centinaia di interviste con gli ultimi testimoni.
La sera del secondo concerto del quarto tour, Elvis aveva la testa in un secchio di ghiaccio e il Colonnello urlava: «L'unica cosa che conta è che stasera salga sul palco!». A Baltimora lasciò il palco per mezz' ora, a quanto pare per problemi intestinali. Tornò per terminare l'esibizione, tra lo sconcerto dei fan. Quella sera, ebbe una conversazione molto spirituale con Kathy Westmoreland e Larry Geller.
«Era molto malato e lo sapevamo tutti, ma non parlammo della sua salute», ha ricordato Kathy. Mentre si fissavano, lei ebbe la sensazione che finalmente si stessero dicendo delle cose di cui non avevano mai osato parlare. «Il modo in cui mi fissò negli occhi e in cui io gli restituii lo sguardo... mi fece pensare che fosse consapevole che sapevo che stava morendo». Elvis le stava dicendo che non gli rimaneva molto tempo.
Ancora una volta, c'erano due settimane di pausa prima del tour successivo, il quinto dell'anno: dal 17 al 26 giugno, dieci città e dieci concerti in dieci giorni. A questo punto, era già un successo se Elvis riusciva a salire sul palco. Negli ultimi due tour a volte era dovuto correre dietro le quinte perché aveva dimenticato le parole delle canzoni. Nonostante stesse ricevendo pessime recensioni, il Colonnello prese accordi per farlo comparire nuovamente in televisione.
Non sarebbe stata più solo la stampa locale a dire che non aveva più voce, che il suo giro vita era aumentato ancora e che sembrava confuso. Sarebbe apparso sulla CBS e quindi nelle case di tutti gli americani. Elvis lo ribattezzò «un altro dei grandi affari del Colonnello», perché avrebbe fruttato 750.000 dollari da dividere al cinquanta per cento.
Il cantante era preoccupato del proprio aspetto e aveva paura di non farcela. La trasmissione avrebbe dovuto includere le riprese girate in occasione di due concerti, ma dal primo ci fu ben poco da salvare. Elvis ammise di essere stato tremendo, ma promise che il secondo sarebbe andato meglio. «Era come se stesse dicendo: Ok, eccomi qui. Sto morendo, chi se ne frega»39, ha ricordato il promoter Tom Hulett.
Il secondo show andò un po' meglio, ma il declino fisico e la debolezza della voce imparagonabile a quella che aveva sfoggiato nell'ultimo documentario erano evidenti. Elvis aveva ben altro di cui preoccuparsi che l'uscita del libro di Red e Sonny West. Quando vide il programma in televisione, Jerry Schilling pianse, ammettendo che erano stati tutti ciechi.
Elvis tenne il suo ultimo concerto a Indianapolis, in Indiana, il 26 giugno 1977, alla Market Square Arena. Mentre Larry gli sistemava i capelli, disse: «Lo spirito c'è, Lawrence, ma il corpo è debole Sto davvero male, ma non importa. Stasera salirò comunque sul palco e darò tutto quello che ho, costi quel che costi».
Era il sessantottesimo compleanno del Colonnello. Ironicamente Elvis si esibì per l'ultima volta nella data in cui era nato l'uomo che l'aveva aiutato a raggiungere la fama. Si parlò del concerto come della sua «migliore performance degli ultimi mesi». Come aveva detto a Larry, diede tutto quello che gli era rimasto. Nonostante questo, Kathy Westmoreland finì il tour con la convinzione che Elvis non sarebbe mai più salito su un palco. Sembrava troppo malato per continuare a esibirsi.
Tornò a casa a Memphis. Alla fine di luglio, Lisa Marie lo raggiunse per passare due settimane con lui.
In quei giorni prima che partisse il tour che doveva iniziare il 17 agosto a Portland, nel Maine, Elvis fece le solite cose di sempre. Affittò il luna park per Lisa Marie e il cinema per vedere vari film. Ginger andava e veniva a suo piacimento e lui passò la maggior parte del tempo con il cugino Billy Smith e sua moglie Jo.
Billy sapeva che Elvis era malridotto e lo implorò di smettere di lavorare per un po'. Il cugino aveva visto il padre e la zia compiere la stessa parabola discendente. «Jo dice che cominciò ad avere lo stesso aspetto che aveva mio padre prima di morire. E ha ragione. Se ne stava sempre stravaccato sul letto con i piedi incrociati. Il suo stomaco era gonfio», ha ricordato Billy. «Mio padre aveva lo stesso problema al fegato e all'improvviso il suo stomaco si era gonfiato. Lo stesso accadde alla madre di Elvis. A volte ci chiedevamo come potesse andare avanti».
Il cantante parlò al telefono con Kathy Westmoreland e Lamar Fike ed entrambi gli consigliarono di cancellare il tour successivo. «Perché un altro tour? Perché non ti riposi? Sei malato e per un po' non dovresti neanche pensare a lavorare. I tour e i concerti ti stancano troppo», gli disse Kathy.
«Non posso, tesoro», rispose. «Non posso fermarmi ora. Il Colonnello ha un sacco di debiti di gioco e alcuni ragazzi si ritroverebbero in cattive acque se smettessi di lavorare. Hanno delle famiglie da mantenere».
Parlò con Lamar Fike un paio di giorni prima dell'inizio del tour. Lamar era stato con lui sin dal principio. Gli disse: «Sono stanco. Non mi sento bene. Ho di nuovo dei problemi all'occhio».
Lamar gli rispose: «Annulla il tour, cazzo. Cancellalo!». «Ma devo pagare gli stipendi», concluse Elvis. Il 15 agosto del 1977 si svegliò verso le 4 del pomeriggio, come al solito. Doveva occuparsi di alcune faccende perché il giorno dopo sarebbe partito per il sesto tour dell'anno. Le sue caviglie erano così gonfie che non riuscì a tirare su la chiusura lampo degli stivali.
Con la sua Stutz nera, alle dieci e mezza si recò all'appuntamento dal dentista, per fare la pulizia dei denti e sistemare un paio di otturazioni. Anche Ginger fece la pulizia dei denti. Il dottor Hoffman, il dentista, gli diede alcune pillole di codeina, nel caso in cui le otturazioni gli avessero fatto male, anche se sarebbe bastato dell'ibuprofene. Elvis si mise al volante per tornare verso casa, lucido e nel pieno possesso delle sue capacità.
Alle quattro di notte passate svegliò il cugino Billy Smith e gli chiese di giocare a racquetball. Si unirono a loro anche Ginger e Jo Smith. Prima di lasciare il campo, Elvis si sedette al piano e cantò Blue Eyes Crying in the Rain. Fu l'ultimo pezzo della sua vita. Billy lo accompagnò in camera e lo aiutò a lavarsi e asciugarsi i capelli. Poi si diedero la buona notte ed Elvis disse: «Billy, questo sarà il mio miglior tour di sempre».
Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2022.
Il canale Nove, in occasione dell'uscita del film Elvis di Baz Luhrmann, celebra il re del rock con un fastoso documentario Elvis Presley: un mito senza tempo, diretto da Thom Zimny. Le due puntate rappresentano un viaggio nella sua vita, dall'infanzia povera fino alle ultime sessioni di registrazione del 1976, nella leggendaria «Jungle Room», e includono alcune riprese inedite fatte a Graceland, residenza di Elvis a Memphis, con oltre 20 interviste inedite a produttori, musicisti, registi e altri artisti che lo conobbero, o furono profondamente influenzati da lui. Per chi ama Elvis, ogni frammento d'immagine è reliquia.
Come ha detto Keith Richards, «Prima di Elvis il mondo era in bianco e nero. Poi è arrivato ed ecco un grandioso technicolor». La sua voce era così sexy da suscitare fenomeni d'isteria collettiva, le sue movenze erano viste dal mondo puritano come espressioni del diavolo. Dalla sua, Elvis ha un successo talmente sbalorditivo da diventare un modello per una industria discografica intenta sin dal dopoguerra nell'individuare nei giovani un filone d'oro da sfruttare.
Elvis costruisce il suo stile guidato esclusivamente da un istinto che lo aveva portato sin da adolescente a frequentare musicisti di colore e assimilare da loro quella lezione blues che abilmente fuse con il country western. In oltre vent' anni di carriera è riuscito a produrre tantissimo a livello discografico, spaziando dal classico rock and roll a generi come il rhythm and blues, la musica country, il gospel, la melodica e il pop.
In Italia è stato una fonte di ispirazione per Celentano, Little Tony e Bobby Solo, in Francia per Johnny Hallyday e in Inghilterra per Billy Fury. Nell'immaginario collettivo, la sua figura è assurta a icona. Dopo la morte, il fenomeno si è ulteriormente intensificato, rendendo Presley un vero e proprio oggetto di culto. La sua canzone che amo di più è Love me tender .
Relazioni extraconiugali, abuso di farmaci e la notte d’amore con Cher. Tutte le "verità" su Elvis. Carlo Lanna il 26 Giugno 2022 su Il Giornale.
Dal regista del Grande Gatsby e Moulin Rouge, al cinema rivive il mito di Elvis in un biopic di grande fascino. Ma chi era l'uomo dietro l'artista? Ecco le curiosità e i gossip sul rocker.
Patinato, frenetico, profondo, brillante, fuori dagli schemi. Così si potrebbe descrivere il nuovo film di Buz Luhrmann che, dopo i fasti Moulin Rouge e Il Grande Gasby, porta sullo schermo un biopic – rivisitato – sulla vita di Elvis Presley, interpretato da convincente Austin Butler conosciuto per le serie su Shannara e The Carrie Diaries. Il divo della musica rock che ha fatto impazzire le donne di tutto il mondo rivive in una rappresentazione di rara bellezza dove, alle imprese artistiche e musicali, il regista fotografa l’immagine di Elvis con un tratto fermo e deciso, facendo emergere l’uomo che c’è dietro il mito. Un film lunghissimo ma per nulla pesante, che apre una finestra sulle imprese di Elvis e sull’America degli anni ’50, ’60 e ’70. È come se fosse un ibrido. È un omaggio alla figura del celebre rocker ma, allo stesso tempo, ricostruisce un determinato periodo storico fatto di cambiamenti e gravi tumulti sociali.
Certo, in due ore e quaranta minuti non è facile condensare tutta la carriera di Elvis. Eppure il film riesce a soffermarsi sulle tappe salienti senza lesinare nei dettagli. Si comincia fin dalla tenera età, quando il giovane musicista è cresciuto in un quartiere popolato da neri, fino ad arrivare al primo contratto discografico, per passare poi alle minacce di arresto per il pubblico pudore, ai film di successo, parlando anche dei suoi vizi e delle tante virtù. Elvis è un film vero, sincero. Convince proprio perché esce fuori un’immagine schiettissima di uno tra i cantati più celebri nella storia. Ma è tutto vero quello che Buz Luhrmann racconta nel suo film? Ecco tutto quello che c’è da sapere.
Elvis, così Baz Luhrmann fa rivivere la leggenda del rock
Elvis the "Pelvis" e i tanti appellativi al divo del rock
Oggi è un vero idolo, amato e imitato per il suo stile inconfondibile e per il suo carattere fuori dagli schemi. È il più grande cantante di tutti i tempi, eppure, all’inizio della sua carriera, Elvis non è stato accolto positivamente dal pubblico più conservatore. Se da una parte le donne si struggevano per l’uomo bianco dalla voce graffiante e profonda, c’era chi non vedeva di buon occhio questo giovane che vestiva di rosa e con colori sgargianti, che aveva un’acconciatura tipicamente femminile e che aveva il trucco sotto gli occhi. Un look che, nel corso degli anni ’80, è stato preso d’ispirazione da band come i Duran Duran e i The Cure. Elvis sapeva anche ballare, tanto da ancheggiare a suon di musica, che è stata la sua croce e la sua delizia. Pur di remare contro, alcuni giornali avevano soprannominato Elvis come "Elvis the Pelvis", per un particolare movimento delle anche, appellativo che non l’artista ha mai apprezzato.
"Depravato", "osceno", "delinquente"
Proprio perché è stato un precursore dei tempi e perché è sempre stato un tipo di larghe vedute, alcuni giornalisti hanno cercato di sporcare la sua immagine con ogni mezzo possibile. Dopo un’intervista rilasciata da Elvis nel 1959 al The Memphis World, tipico giornale afroamericano, in cui si schierava dalla parte della comunità di colore, la gente comune ha cominciato a capire che quel ragazzino che sapeva cantare e ballare non sarebbe stato solo una meteora. Aveva del talento e idee ben chiare su cosa volesse fare della sua voce. Per questo motivo, altri giornali e spalleggiati dai politici, cercarono di remare contro l’astro nascente di Elvis. Su Jet, ad esempio, fu pubblicato un articolo in cui un giornalista bianco ha descritto Elvis come un "giovane depravato, un delinquente e un ragazzo adito alle oscenità", ma non solo. Si è arrivato anche ad accusare l’artista di plagio e di "rubare la musica ai neri". Parole pungenti che, secondo Jackie Wilson, celebre musicista di colore, non avrebbero fatto breccia nell’indole del cantante, tanto da affermare che: "Un mucchio di persone hanno accusato Elvis di rubare la musica dei neri, quando in realtà, quasi ogni artista solista nero ha copiato i suoi modi di fare".
Il torbido sodalizio artistico con il Colonello Tom Parker
Tutto il film di Buz Luhrmann viene raccontato dal punto di vista di Tom Parker (con il volto di Tom Hanks) che è il manager ufficiale dell’artista fino alla fine della sua carriera musicale. Personaggio scaltro, eclettico e assai venale, ha "rubato" Elvis a Bob Neal dopo che ha sentito una sua canzone alla radio. Il colonnello è stato l’artefice del successo planetario del cantante che è andato avanti per oltre venti anni. Ha giocato bene le sue carte, lanciando Elvis nelle radio e in tv, anche in programmi nazionali. Tra i due è nato un rapporto quasi paterno, ma Tom Parker non ha mai nascosto le sue attività illecite e le sue trame d’affari per assicurare gli ingaggi al suo assistito e, ovviamente, un lauto ritorno economico che ha poi sperperato in sigari e gioco d’azzardo. Su di lui c’è un alone di mistero che ha dato agio alla stampa di speculare sulle sue origini. Il Colonello non ha mai avuto un passaporto americano – ragion per cui non ha mai lasciato il paese –, e in seguito si è ipotizzato che non avesse mai prestato servizio nei militari e che non fosse originario degli Stati Uniti ma bensì dei Paesi Bassi. Alla morte di Elvis è cominciato il suo declino dato che, i fedelissimi dell’artista, pare che abbiamo accusato il Colonello di aver abusato della sua fama e della sua immagine.
Un corteggiamento lungo 7 anni. Come Priscilla Beaulieu divenne la moglie del rocker
La vita di Elvis è stata costellata da un unico grande amore. Quello con Priscilla è stato unico nel suo genere. Nonostante la coppia non sia riuscita a sopravvivere ai segni del tempo, della fama e dell’abuso di alcol da parte del rocker, i due si sono amanti moltissimo. Nel film viene regalato poco spazio alla conoscenza tra Elvis e Priscilla, ma prima di convolare a nozze, l’artista ha dovuto aspettare ben sette anni. Si sono conosciuti in Germania, durante il servizio militare. Lui aveva 24 anni, lei 10 in meno. Indecisa se cedere o meno, a causa di tutte le malelingue che la stampa vomitava su Elvis, la giovane è arriva a sposare l’uomo che amava solo sette anni dopo il primo incontro. Ovviamente, nonostante il sentimento, il quel lungo periodo di tempo, il cantante non è stato di certo a guardare, passando da una donna all’altra con facilità.
Le amanti e le stranezze di Elvis
Priscilla era a conoscenza dei tradimenti del marito. Il rapporto si è incrinato dopo la nascita della figlia. Elvis non riusciva a fare sesso con la moglie perché non la vedeva più come una donna ma solo come la madre dei suoi figli. Andava con molte donne, "non più di tre alla volta", e prese una sbandata per Ann Margaret. Accecato dai farmaci, era arrivato a pensare di uccidere Priscilla a colpi di karate. Pensò di pagare profumatamente il suo istruttore ma l’ipotesi non si è mai avverata. Alcuni giornali riportavano i rumor che l’artista stesse avvelenando sua moglie, ma tutto fu bollato come becero gossip.
Quella notte di sesso con Cher
Tra i tanti pettegolezzi sulla vita di Elvis c’è anche uno che lo lega a Cher. Secondo dei gossip mai confermati, il cantante e l’immortale performance diventava oggi un’icona della musica pop avrebbero avuto una bollente notte di sesso. Erano gli anni ’60 e Cher da poco aveva fatto i primi passi nel mondo della musica. Di recente, è stata proprio la cantante a smentire le illazioni. Come Cher ha rivelato, tra i due non sarebbe scoccata la scintilla a causa delle "troppe incompatibilità caratteriali".
"Con Elvis racconto il dramma umano della segregazione negli Usa Anni '50"
Elvis che non ha mai viaggiato al di fuori dell’America
Famoso in tutto il mondo, questo è vero. Ma l’artista non è mai uscito dal territorio americano. Tranne una volta per un concerto in Canada. Secondo fondi attendibili, sarebbe stato il Colonello Parker a impedire che si potesse realizzare un tour all’estero. Si è sempre parlato di "motivi di sicurezza", dato che in quel periodo l’America era scossa da rivolte e attentati ma le ragioni sono ben altre. Come si è visto nel film, pare che ci lo zampino del Colonnello che, per paura di perdere la sua influenza su Elvis, avrebbe inventato un mucchio di bugie. Per accontentare l’artista, però, da Las Vegas è stato organizzato il primo live concert via satellite.
Gonfio e balbettante. A 42 anni era già l’ombra di se stesso
Muore a Memphis nell’agosto del 1977 all’apice del successo dopo un ultimo grande concerto all’Internatioinal di Las Vegas (sua casa per 5 anni). Fuori forma tanto da perdere quasi tutti il suo fascino a causa dell’alcol e dei farmaci, il pubblico ricorda ancora il suo ultimo live, in cui Elvis ha lasciato un ricordo indelebile. Quel concerto è stato rimasterizzato e inserito poco prima dei titoli di coda del film di Luhrmann.
Sara Frisco per “il Giornale” il 25 giugno 2022.
Esiste una versione da quattro ore del film Elvis. A rivelarlo è Baz Luhrmann, il regista di progetti sfavillanti come Moulin Rouge e Il Grande Gatzby, che ha appena consegnato al mondo il suo film più sfavillante di tutti, Elvis, ora nelle sale in Italia dopo il successo incontrato al festival di Cannes. «Esiste quella versione lunga, ma poi ho dovuto ridurre il tutto a 2 ore e mezzo», spiega il regista del film del momento, che vede protagonista il giovane emergente Austin Butler nei panni del re del rock e Tom Hanks in quelli del suo manager Tom Parker, conosciuto come il colonnello.
Elvis è un viaggio nell'America degli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta ancora prima di essere il racconto della vita del musicista. È un'esplorazione sociale raccontata nel tipico stile spumeggiante di Baz Luhrmann. «Elvis non è un musical e non è nemmeno un biopic. Prendete Amadeus, per esempio. È la biografia di Mozart o un musical su Mozart? Secondo me né uno né l'altra: è una storia drammatica su un'idea più grande, la gelosia. Raccontata però attraverso la musica.
Per me la musica ha lo stesso valore dei dialoghi o del linguaggio visivo ed è fra i personaggi principali dei miei film. In Elvis è uno strumento per raccontare la sua vita epica che ha attraversato tre decenni molto importanti nella storia recente del mondo e per raccontare gli aspetti meno conosciuti della sua personalità».
Il personaggio di Elvis Presley è stato raccontato molte volte al cinema, è forse la figura pubblica più imitata al mondo. Cosa l'ha spinta a fare un film su di lui?
«Nella città dove sono cresciuto in Australia c'era una piccola sala cinematografica che spesso faceva rassegne con i film di Elvis Presley. L'ho conosciuto così e sono diventato presto un suo grande fan. Lui per me ha sempre rappresentato la quintessenza dell'America, con la sua capacità di assorbire le culture degli altri e farne qualcosa di nuovo».
La musica ha sempre un ruolo importante in tutti i suoi film ma questo ha dichiarato più volte di non considerarlo un musical. E nemmeno un biopic.
«È un dramma. Racconta il dramma della vita di un uomo che si esprimeva comunque sempre attraverso la musica. Elvis era un’uomo di poche parole, quello che voleva dire lo diceva con le sue canzoni e con i gesti che le accompagnavano. Cosa mi ha sorpreso di più della sua breve vita non è stato il successo, il rock and roll, gli eccessi.
Ma che Elvis era un uomo profondamente spirituale che ha trovato la sua via grazie al gospel (i vangeli cantati tipicamente dalla comunità afroamericana ndr). La sua vita è stata breve ma ha lasciato un segno indelebile sulla gente. E non solo per la musica, ma anche per quel buco senza fine che aveva dentro e che cercava di colmare in ogni modo. Il pubblico lo percepiva. Così come percepiva le sue insicurezze, la sua timidezza e la sua sensibilità».
Lei racconta Elvis in un viaggio attraverso tre decenni, dal ragazzo filiforme e snodato degli anni Cinquanta alla gonfia celebrità nei guai con la droga degli anni Settanta.
«Una perfetta storia in tre atti. Il ribelle rockettaro dei primi tempi, l'uomo popolare dei film per la famiglia il decennio dopo, e poi c'è quell'ultimo atto, il più drammatico. Sul set quella parte del racconto la chiamavamo l'Apocalypse Now dei musical».
Come ha trovato Austin Butler?
«È abbastanza risaputo che io non faccia molti film, anzi forse questo sarà l'ultimo e che abbia un modo particolare di lavorare. Non faccio nemmeno le audizioni. È lui che ha trovato me.
Una notte mi ha mandato un'interpretazione di Unchained Melody, con lui che suonava al piano. L'ho trovata notevole e poi ho ricevuto una chiamata da Denzel Washington, che non ho mai conosciuto e che aveva appena lavorato con lui in teatro a Broadway e che mi diceva che dovevo assolutamente ingaggiarlo perché non aveva mai conosciuto una persona più talentuosa e con un’etica del lavoro così sviluppata.
Aveva ragione. Non sarebbe bastato sapere cantare le canzoni di Elvis o assomigliarli, serviva un attore che potesse umanizzare la leggenda. Austin è riuscito, con straordinaria naturalezza a essere lui, a riportarlo in vita, affrontando anche le parti difficili del viaggio. Non poteva che essere Austin ad interpretarlo, mi spiace essere così 'cosmico'', ma sembrava proprio fosse nato per recitare in questo ruolo».
Quando due anni fa il virus ha colpito, il primo caso sul set è stato quello di Tom Hanks sul set di Elvis, in Australia...
«Ma me lo lasci dire, Tom Hanks è come una Ferrari, è un attore straordinario, mai lavorato con una persona come lui e che si sia prestato a recitare nella parte di un uomo così complicato e negativo come il Colonnello Parker, il manager di Elvis è stato un regalo inaspettato e indimenticabile. Per quanto riguarda il suo contagio al Covid devo dire che è stato un fatto non del tutto sfortunato».
Ci spiega?
«Quando il mondo è entrato in lockdown e le riprese sono state sospese io, devo confessarlo, ho tirato un sospiro di sollievo. Mi ero imbarcato in questa avventura, fare un film sulla più grande leggenda pop. Solo dopo aver iniziato sono stato colto da tutte le ansie possibili. Poi c'è stato il lockdown, non sapevamo quando avremo e se avremo mai ripreso il progetto. La pressione che mi si era creata intorno è scemata e ho tirato un sospiro di sollievo. Poi ci sono tornato su, ho ristrutturato completamente il primo atto e ho riacquistato fiducia.
Cosa vorrebbe che la gente imparasse di Elvis dal suo film?
«Non puoi parlare di lui e degli Stati Uniti in quegli anni senza parlare della questione razziale in America. Quando era un bambino e suo padre finì in prigione la madre dovette trasferirsi in un quartiere nero di Menphis. Era una delle poche case abitate da bianchi in una comunità nera. Era il tempo della segregazione razziale. Durante le ricerche per questo film ho conosciuto un uomo, Sam Bell.
Sam da ragazzino prese Elvis sotto la sua ala. I bambini del posto lo adottarono, gli fecero conoscere la musica gospel, la musica nera. Elvis visse nella comunità nera e la sua musica nasce da quella esperienza. Eppure lo accusarono di essere razzista, a favore della segregazione. Un'accusa con cui dovette fare i conti fino alla fine e di cui non si è mai capacitato».
Il "Colonnello" di Elvis racconta un mito rock. Stefano Giani il 23 Giugno 2022 su Il Giornale.
Come si "costruisce" un mito musicale è la sottotrama che attraversa Elvis, ennesimo film su un grande della musica, con l'attenzione, tutt'altro che disinteressata al loro prestigioso repertorio.
Come si «costruisce» un mito musicale è la sottotrama che attraversa Elvis, ennesimo film su un grande della musica - in passato monografie avevano inquadrato i Queen, Elton John, Dalida, Blaze Foley, Edith Piaf, Johnny Cash, Nico, Ray Charles e l'elenco potrebbe tranquillamente continuare - con l'attenzione, tutt'altro che disinteressata al loro prestigioso repertorio. Il biopic su Presley strizza l'occhio al rock che aveva sedotto generazioni di giovanissimi negli anni Cinquanta e Sessanta ma racconta il divo della musica da una prospettiva diversa, quella del «Colonnello» Tom Parker, interpretato da un convincente (e ingrassato) Tom Hanks.
Questi è infatti lo scopritore del talento di Memphis fin da quando non era che uno sconosciuto ragazzotto che suonava nei locali alla sera. L'amicizia, condita da più di qualche ricattino fra i due, ha portato fior di verdoni nelle tasche di Parker e fama indistruttibile - anche qui accompagnata da sonori dobloni - per Elvis che i pochi detrattori avevano soprannominato «the Pelvis». In realtà, il film sottolinea come i destini di entrambi si siano, per così dire, compensati.
Parker si è mangiato una fortuna alle macchinette succhiasoldi di Las Vegas, Presley ha lasciato una casa museo a Graceland, a tutt'oggi meta di appassionati, curiosi, turisti e fan. Il Colonnello è morto in povertà in un'inoltrata senilità mentre Elvis se n'è andato che non aveva nemmeno la metà degli anni del suo manager, 42 contro 88. Insomma ce n'è per tutti i gusti, compresi - anzi, privilegiati - quelli degli amanti del rock. Vera ma inconfessata ragione che ha spinto Baz Luhrmann, furbo quanto bravo, a confezionare un film che tutto sommato piacerà. Come sputare sul piatto di un nostalgico rock d'antan anche se Austin Butler che interpreta Elvis è un imitatore più che un fuoriclasse della recitazione e il reparto trucco e parrucco è sempre più perfezionato nel rendere gli attori - di Hollywood - quello che spesso non sono...
Dagotraduzione dal Guardian il 22 giugno 2022.
Secondo il film biografico di Baz Luhrmann, il sogno di Elvis Presley era quello di diventare un grande attore. Ma le sue ambizioni hollywoodiane sono state spesso soffocate dal suo manager, il colonnello Tom Parker (interpretato da Tom Hanks). Una scena chiave del film vede un triste Elvis (Austin Butler) che spiega che non sarà in grado di recitare al fianco di Barbara Streisand nel remake del 1976 di A Star Is Born (una parte che voleva davvero), perché le trattative tra Streisand e Parker è finita molto male. Anche se questo è l'unico esempio che entra nel film, ci sono un certo numero di altri film che Elvis avrebbe potuto realizzare, e la sua carriera sul grande schermo sarebbe stata molto diversa se Parker avesse esercitato meno influenza.
Il mago della pioggia (The Rainmaker, 1956)
L’anno in cui Elvis ha ottenuto il suo primo ruolo cinematografico in Love Me Tender, gli è stato chiesto di fare un provino per The Rainmaker, un dramma dell'era della Depressione con Burt Lancaster nei panni di un truffatore che inganna una piccola città e si innamora di una donna zitella di mezza età (Katharine Hepburn). Elvis ha fatto il provino per il ruolo del fratello di Hepburn ma, secondo lo sceneggiatore del film Richard Nash, sembrava il «protagonista in una recita scolastica», e la parte è andata a Earl Holliman.
Thunder Road (1958)
Robert Mitchum aveva visto Elvis sul palco prima che diventasse famoso, e i due rimasero amici una volta che Elvis arrivò a Hollywood. A una festa di Natale , mentre suonavano insieme delle canzoni, Mitchum ha cercato di convincere Elvis a prendere la parte di suo fratello minore in Thunder Road, un thriller d’azione. Ma Parker aveva posto il veto all'idea perché non era un musical e non voleva che Elvis «facesse un film da cui non poteva tirare fuori un album». La parte di Robin Doolan alla fine è andata al figlio di Mitchum, James Mitchum.
La gatta sul tetto che scotta (Cat on a Hot Tin Roof, 1958)
Nel 1958, a Elvis fu offerto il ruolo di Brick Pollitt nell'adattamento dell'opera teatrale di Tennessee Williams su un ex atleta alcolizzato che cerca di riconquistare i suoi giorni di gloria e di resistere all'affetto di sua moglie, Maggie "the Cat" (Elizabeth Taylor). Apparentemente Parker ha rifiutato il ruolo per conto di Elvis e la parte è stata assegnata a Paul Newman.
La parete di fango (The Defiant Ones, 1958)
Nel 1958, Elvis aveva realizzato i suoi primi tre film: Love Me Tender, Loving You e Jailhouse Rock. Avviata la sua carriera cinematografica, desiderava interpretare il ruolo di John "Joker" Jackson, al fianco di Sidney Poitier, ne “La parete di fango”: la storia di due evasi, uno bianco e uno nero, incatenati insieme. Ancora una volta, Parker ha messo il veto al ruolo, che alla fine è andato a Tony Curtis: l'attore e il film sono stati entrambi nominati all'Oscar.
West Side Story (1961)
Si dice da tempo che Elvis fosse stato preso in considerazione per la parte di Tony, ma Parker ha rifiutato il ruolo perché non pensava che un film sulle bande di strada sarebbe stato buono per l'immagine del Re del Rock'n'Roll.
La dolce ala della giovinezza (Sweet Bird of Youth, 1962)
Chiaramente, Elvis non ha avuto molta fortuna quando si è trattato di parti in adattamenti di Tennessee Williams che alla fine sono andate a Paul Newman. Gli è stato chiesto di interpretare Chance Wayne, un vagabondo (una versione sterilizzata del gigolò della commedia) che ha una relazione con una star del cinema sbiadita. Ancora una volta, si dice che Parker abbia posto il veto al ruolo perché non voleva che Elvis interpretasse un personaggio squallido.
Your Cheatin’ Heart (1964)
Nel 1964, la MGM considerò Elvis come protagonista nel loro film biografico su Hank Williams. Questa volta, tuttavia, è stata la vedova di Williams, Audrey Williams, a intervenire, dicendo che non voleva che il re portasse via l'eredità di Hank. La parte alla fine è andata a George Hamilton.
La valle delle bambole (Valley of the Dolls, 1967)
Secondo un articolo di Vanity Fair, l'autrice Jacqueline Susann voleva che Elvis interpretasse il cantante Tony Polar nell'adattamento cinematografico del suo romanzo hollywoodiano, ma lo studio ha ignorato la sua richiesta. Elvis probabilmente è stato fortunato in questo caso, perché il film è stato aspramente criticato ed è considerato uno dei peggiori film di tutti i tempi.
Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy, 1969)
La United Artists voleva Elvis per il ruolo di Joe Buck, un ingenuo imbroglione del Texas che cercava di farcela a New York. Fedele alla forma, Parker rifiutò la parte sulla base delle sue connotazioni squallide, senza nemmeno preoccuparsi di consultare Elvis. Di tutti i quasi incidenti di Elvis, questo è quello che probabilmente lo ha ferito di più: il film ha vinto tre Oscar e il protagonista Jon Voight così come il suo co-protagonista Dustin Hoffman, sono stati entrambi nominati.
Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato (Willy Wonka & the Chocolate Factory, 1971)
Elvis è stato brevemente considerato per il ruolo principale nell'adattamento musicale del 1971 di Charlie e la fabbrica di cioccolato di Roald Dahl. La parte alla fine è andata a Gene Wilder (due anni più vecchio di Elvis).
Il padrino (The Godfather, 1972)
Elvis era un grande fan del romanzo di Mario Puzo e voleva interpretare il ruolo del consigliere Tom Hagen, la parte che alla fine è andata a Robert Duvall. Varie fonti suggeriscono che sia arrivato al punto di essere invitato a fare un provino e anche che abbia fatto pressioni per il ruolo del protagonista.
Fulvia Caprara per La Stampa il 22 giugno 2022.
Amarlo teneramente, come dice il titolo di uno dei brani più famosi di Elvis Presley, non sarà difficile. Per diventare il protagonista del film che Buz Luhrmann ha dedicato all'icona rock, Austin Butler, nato nel '91 a Anaheim, in California, ha imposto al suo cuore un modo diverso di battere, in sintonia con il leggendario «Elvis the pelvis», con i suoi dolori profondi e le sue luminose vittorie artistiche.
Adesso che è arrivata l'ora della verità, adesso che, dopo i clamori del Festival di Cannes, il film incontra il pubblico delle sale (in Italia da oggi, con Warner, in Usa il 24 ), Butler si ritrova solo con l'interrogativo cruciale delle prove che cambiano la vita: piacerò oppure no? Un po' come stare sul trampolino dove ormai hai preso la rincorsa e non ti puoi più fermare: «Dal momento in cui ho avuto il ruolo - dice con la voce roca e le sillabe trascinate in pieno stile Elvis -, ho sentito il peso del compito. Ogni giorno, da allora, ho pensato che la cosa più importante fosse onorarlo, rendere giustizia a lui e alla sua famiglia. Non è stato semplice, continuavo a sentirmi come un bambino che si mette il vestito del padre e fatica a camminare con scarpe molto più grandi del suo piede».
Qual è stata la maggiore difficoltà ?
«La gente ha sempre visto Elvis come una specie di divinità, è come se, intorno alla sua immagine, ci fosse un'enorme impalcatura, la cosa più complicata era superarla. Volevo a tutti i costi umanizzarlo, tirare fuori la sua vera natura. L'altro aspetto spinoso riguardava i suoi cambiamenti, volevo essere molto specifico e meticoloso nel ritrarre la sua evoluzione. Ho guardato e riguardato una mole immensa di documentari, studiando ogni minuto delle sue performance, finché ho sentito che Elvis era diventato come un pezzo di me stesso. Tutto, in lui, veniva dalla sua interiorità, dalla fase di vita che stava attraversando».
Lei è nato nel '91, che cosa rappresenta Presley per la sua generazione?
«Molto prima che ricevessi l'offerta di questo ruolo Elvis faceva parte della mia vita. Mia madre è nata negli Anni 50, a casa mia ho sempre sentito suonare quel tipo di musica, lei amava quelle canzoni e quei film. Non sapevo niente della vita di Elvis, ma, grazie al legame con mia madre, ho cercato di capirlo e ho scoperto quanto fosse sensibile, spirituale, profondo e anche divertente. Mi sono innamorato di certi lati del suo carattere, ho provato empatia nei suoi confronti».
Quali sono i lati di Elvis che ama di più e quali meno?
«Amo la sua generosità con tutti, amici, familiari, sconosciuti, e poi il suo incredibile senso dell'umorismo. Aveva una mente profonda, sempre alla ricerca del significato delle cose, e questa caratteristica, in una persona diventata estremamente famosa in modo breve e inatteso, ha creato contraccolpi. Convivere con l'urlo della folla, con l'ammirazione sconfinata, è stato complicato, Elvis si è sentito solo e anche la sua famiglia ne ha risentito».
Le sono pesate le lunghe ore di make-up e preparazione?
«Ho lavorato con una coach, Polly Bennett, che mi ha aiutato moltissimo. Non mi ha solo insegnato il modo con cui Elvis si muoveva, ma mi ha anche fatto comprendere le ragioni per cui una persona decide di muovers così. Poi, certo, anche il look è stato fondamentale, nella performance finale di Elvis, quando era ingrassato e si esibiva costretto nel suo costume, ho avuto l'impressione di capire come si sentisse, con una grande tristezza addosso, quasi privo della possibilità di respirare, eppure ancora con una voce potente, capace di vincere tutto».
Ha recitato accanto a Tom Hanks, come si è trovato e che cosa ha imparato da lui?
«Sul set Tom era gentilissimo, disponibile e divertente con tutti. Lavora duro ed è sempre puntuale. Nelle pause aveva sempre qualcosa da leggere, spesso libri di storia, che con il film non avevano niente a che vedere. Mi ha spiegato che fa bene riempirsi di interessi diversi, è un insegnamento che porterò sempre con me».
Qual è il segno più profondo che ha lasciato in lei la figura di Elvis?
«Ho ridefinito il mio rapporto con la paura, non l'avevo mai avvertita così forte. Mi svegliavo alle 3 e alle 4 del mattino con il cuore che mi batteva a mille e il giorno dopo dovevo lavorare, ho dovuto imparare a convivere con tutto questo, alla fine del giorno certe sensazioni ti restano addosso, compresa una grande energia. Sul palcoscenico Elvis era magnetico, poi, nella vita, era molto timido, mi ci sono ritrovato, ho capito perché, da questa scissione, venisse la sua forza»
· 43 anni dalla morte di Alighiero Noschese.
Alighiero Noschese nasceva 90 anni fa: il permesso per le imitazioni dei politici, i due figli, 9 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 25 Novembre 2022.
Nato a Napoli il 25 novembre 1932 (e morto suicida nel 1979) è considerato il re e pioniere degli imitatori italiani
L’uomo dalle 1000 voci
Ha imitato politici (Giulio Andreotti, Enrico Berlinguer, Francesco Cossiga) ma anche conduttori (Mike Bongiorno, Nunzio Filogamo), cantautori (Lucio Battisti, Domenico Modugno, Gino Paoli), registi e attori (Federico Fellini, Nilla Pizzi), cantanti (Patty Pravo) e giornalisti (Ruggero Orlando, Tito Stagno). Tra gli anni Sessanta e Settanta avere un’imitazione di Alighiero Noschese (che nasceva a Napoli 90 anni fa, il 25 novembre 1932) era un grande motivo di vanto. Il re e pioniere degli imitatori italiani ha personalmente censito nel suo repertorio oltre 1.000 voci, tra personaggi di fantasia e persone realmente esistenti. Chi non amò la sua parodia? Un caso è passato alla storia, quello di Sergio Endrigo, raffigurato tra carri funebri, ballerine vestite da vedove piangenti e corone mortuarie.
Fu allievo di Giovanni Leone
Figlio di un funzionario e di una professoressa Alighiero Noschese frequentò la facoltà di giurisprudenza presso l’Università di Napoli e fu allievo, tra gli altri, di Giovanni Leone (futuro presidente della Repubblica e futuro oggetto di varie sue imitazioni). Successivamente iniziò a collaborare con la redazione locale di Paese Sera e debuttò alla radio nel 1945, con una piccola parte in una trasmissione diretta da Riccardo Mantoni. Negli anni Cinquanta entrò come praticante nel giornale radio Rai diretto da Vittorio Veltroni.
Il permesso per le imitazioni dei politici
La consacrazione di Alighiero Noschese arrivò nel 1969 grazie al varietà televisivo del sabato sera «Doppia coppia»: in quell’occasione il comico riuscì ad ottenere l'autorizzazione per imitare gli esponenti politici, cosa fino a quel momento vietata. In seguito molti personaggi del mondo dello spettacolo e non solo iniziarono a chiedere espressamente di essere imitati, per ottenere maggiore visibilità e popolarità. La carriera di Noschese proseguì con una fortunata edizione di «Canzonissima» (1971), ospite fisso di Corrado e Raffaella Carrà, e con «Formula due» (1973), accanto a Loretta Goggi.
Ha doppiato il ronzino di Carosello
È di Alighiero Noschese la voce del ronzino parlante di Carosello. Negli anni Sessanta e Settanta l’attore ha partecipato a numerosi sketch poi mandati in onda nella storica rubrica pubblicitaria televisiva (come quelli per i gelati Eldorado e per l’amaro Ramazzotti).
Il matrimonio e i due figli
Sposato dal 1963 al 1974 con Edda De Bellis, un'impiegata del teatro Parioli conosciuta durante una tournée, Noschese ha avuto da lei due figli: Antonello (oggi doppiatore) e Chiara (poi diventata attrice e regista teatrale). «Li lascio completamente liberi. Chiara vuole studiare lingue e Antonello laurearsi in legge e sono d’accordo con le loro scelte - raccontava l’imitatore nel 1978 a Tv Sorrisi e Canzoni -. È che io so quanto questo ambiente sia falso e quanto il mio lavoro sia duro. Ho fatto anni di sacrifici enormi, che non vorrei vedere fare a voi».
L’addio alla Rai
Nel 1974, anno in cui si separò dalla moglie, Noschese lasciò la Rai e iniziò a lavorare in alcune emittenti locali come TeleLazio e Quinta Rete. Quell’anno l’attore abbandonò anche la Massoneria di piazza del Gesù, a cui era iscritto dal 1967, e chiese di entrare nel Grande Oriente d’Italia (Noschese sarebbe poi entrato nella P2 di Licio Gelli).
«Ma che sera» e il caso Moro
Il grande ritorno di Noschese in Rai dopo quattro anni sarebbe dovuto coincidere con il varietà «Ma che sera» (1978). Lo spettacolo condotto da Raffaella Carrà avrebbe dovuto contenere, tra le varie imitazioni, anche quella di Aldo Moro. Il 16 marzo però lo statista fu rapito dalle Brigate Rosse: l’imitazione (registrata in precedenza) fu tagliata e mai più mandata in onda.
L’addio
«Di fronte al mistero di un uomo che si toglie la vita, bisognerebbe tacere. Ma questo mestiere ha le sue pretese, e non consente il silenzio». Così Enzo Biagi nel 1979 apriva il suo articolo di fondo sul Corriere della Sera all’indomani della scomparsa di Alighiero Noschese. Una morte tragica e improvvisa: Noschese si sparò un colpo alla tempia la mattina del 3 dicembre nella cappella del giardino della clinica romana Villa Stuart, dove qualche settimana prima si era fatto ricoverare per curare la depressione. Aveva soltanto 47 anni.
Le strade a lui intitolate
A Noschese sono state intitolate strade in varie località italiane: ce n’è una anche a Roma e non poteva mancare a San Giorgio a Cremano, comune a cui l’attore in vita è sempre stato profondamente legato (ed è proprio qui che sorge la sua tomba).
· 42 anni dalla morte di Steve McQueen.
Marco Tullio Giordana per “la Repubblica” l'11 aprile 2022.
Voglio una vita esagerata/Voglio una vita come Steve McQueen Quando Vasco Rossi intona questi versi sul palcoscenico di Sanremo 1983 nessuno immagina che entreranno nella leggenda.
Il Blasco finirà penultimo nel giudizio della (poco) chiaroveggente giuria, ma il suo canto libero che elogia la solitudine e l'orgoglio del disadattato citandone come emblema l'attore americano morto da appena tre anni, diventerà la più celebre del rocker di Zocca e l'inno di generazioni contropelo che continueranno nel tempo ad amarla come fosse scritta ieri.
D'altra parte Steve McQueen (Beach Grove, 1930- Ciudad Juarez 1980) ha vissuto nella stessa scia del coetaneo James Dean senza mai perdere lo stesso fascino ribelle e bruciato nemmeno col passare degli anni, cedendo alla malattia anziché al mortale car crash che pure ha rischiato.
Amante anche lui delle corse - come l'altro seducente Paul Newman - aveva più volte meditato di ritirarsi e dedicarsi soltanto a quelle, tanto dotato da giungere secondo a Sebring nella 12 Ore del 1970 col copilota Peter Revson dietro la coppia Mario Andretti/Arturo Merzario, pur avendo guidato col piede sinistro ingessato per via di una frattura in sei punti procuratasi due settimane prima in una gara di motocross a Lake Elsinore.
Se James Dean fosse sopravvissuto al maledetto incrocio di Cholame (California) dove la Ford Custon guidata dal ventitreenne Donald Gene Turnupseed centrò in pieno la sua Porsche 550 Little, forse non ci sarebbe stato posto per altri. La sua morte liberò il podio dove s' installerà McQueen, facendo crescere e rendendo adulta la sua ribellione "senza causa".
Figlio di uno stuntman McQueen non aveva mai voluto essere da meno del padre, sempre guidando di persona macchine e moto di scena, dalla Triumph de "La grande fuga" alla Ford Mustang di "Bullit", dalla Gulf-Porsche 917 de "Le 24 ore di Le Mans" alla Dune Buggy de "Il caso Thomas Crown", dove scorrazza sulla spiaggia con la stupenda Faye Dunaway, sempre rischiando l'infarto dei produttori perché le compagnie di assicurazioni si rifiutavano di coprirlo.
Tanto da costringerlo a mettere in piedi una propria casa, la Solar Productions, con la quale realizzare i futuri suoi film e finanziare soprattutto le sue gare. Corse e film a parte, anche nella vita privata Steve McQueen ha sempre manifestato la stessa passione per le automobili, non disdegnando di accompagnare le esclusive Ferrari 250 Lusso o 330 GTS, Porsche 356, Lotus 11, Mercedes 300 SL con le più comuni Austin Cooper S o casalinghe Hudson e Chevrolet americane.
Forse la preferita, a giudicare dalla quantità di fotografie che lo ritraggono con orgoglio al volante, fu la Jaguar XKSS, derivata dalle corse di Le Mans e antesignana delle Jaguar E pronte per uscire e conquistare il mondo con la loro linea filante e avveniristica. Come tutti quelli cari agli dei, Steve McQueen muore (relativamente) giovane. Ha compiuto da sei mesi i cinquanta quando il Grande Sonno lo raggiunge il 7 novembre 1980 illudendosi di averlo spazzato via.
In realtà la sua morte, che addolora in ugual misura ragazze e ragazzi piacendo in modo irresistibile alle une come agli altri, lo fa entrare nella leggenda e lo sottrae all'oblio. Milioni di adolescenti adottano il suo modo di vestire, che siano jeans sdruciti o giubbotti degli eroi irritabili (Bullit, Nevada Smith, Cincinnati Kid etc) oppure i sofisticati completi in tre pezzi da ladro-gentiluomo (Il caso Thomas Crown) realizzati su misura dal sarto londinese Douglas "Dougie" Hayward, l'epitome dell'eleganza swinging London, perché sotto qualsiasi travestimento palpita il loro stesso cuore di non riconciliati, di irriducibili uomini-contro.
· 40 anni dalla morte di Gilles Villeneuve.
Chi era Gilles Villeneuve, l'uomo che sfidava la Velocità. Il più iconico, il più amato. Un mito della Ferrari. L'ultima corsa l'8 maggio di quarant'anni fa. Ecco perché il ricordo è ancora vivo. FURIO ZARA su Vanity Fair l'8 maggio 2022.
Aveva solo 32 anni, una moglie, due figli piccoli, 68 gran premi alle spalle, 6 vittorie - solo 6 vittorie, nel ricordo sembrano molte di più - uno sguardo malinconico, una rettitudine che lo distingueva, un dolore dentro per un’amicizia tradita - dal collega Didier Pironi - una fiamma che gli bruciava dentro fin da piccolo, fin da quando in Canada, nel Québec dov’era nato, guidava le motoslitte sfrecciando sulla neve e abituandosi così a quella temerarietà che sempre l’avrebbe accompagnato. Si chiamava Gilles Villeneuve e da quarant’anni a questa parte - quaranta perché morì l’8 maggio 1982 - occupa un posto speciale nei ricordi dei tanti che amano la Formula 1.
Morì in pista, in Belgio, a Zolder, nelle qualifiche, affrontando una chicane, ultimo sospiro prima di una discesa che porta un nome da fiaba - Terlamenbocht, la «Curva del Bosco» - ma che si rivelò fatale. La sua monoposto - dopo la collisione con la March di Mass - fece un volo di 25 metri e ricadde infine in mezzo alla curva. Villeneuve guidava una Ferrari. L’uomo che l’aveva scelto era il boss, Enzo Ferrari, il Drake. Ferrari amava Villeneuve dell’amore che si riserva ai figli. Ne amava il coraggio, l’ambizione.
Gilles Villeneuve era la velocità. Negli Anni 80 la Formula 1 contemplavano ancora il valore del pilota. L’uomo dominava la macchina. Tra tutti gli uomini di quell’epoca, era Villeneuve il migliore di tutti. Sfidava gli avversari, sfidava se stesso. Sfidava - soprattutto - il Tempo. Questo era il motivo per cui Villeneuve era amato. Perché andava oltre, si faceva carico dei nostri sogni e provava a dargli una forma concreta. A guidarlo era il demone della velocità. Qualche anno prima di morire si era comprato un elicottero, che usava per gli spostamenti da Montecarlo, dove viveva. Prima dell’ultimo giro - quel giorno a Zolder - era stato richiamato ai box della Ferrari e gli era stato detto di non forzare, perché non aveva le gomme per farlo. Quel Mondiale del 1982 era cominciato male: un ritiro in Sudafrica, un incidente in Brasile e una squalifica negli USA Ovest.
Le scarpe di Villeneuve - dopo quella fatale carambola a Terlamenbocht - vennero trovate a duecento metri dalla Ferrari, poco distante c’era il volante. L’incidente era avvenuto alle 13.52. La morte venne annunciata alle 21.12. La moglie Joann era rimasta a casa, per la comunione della figlia più grande, Melanie. L’altro figlio di Villeneuve, il maschio, Jacques, aveva un anno: è diventato pilota anche lui. E nel 1997 gli è riuscita l’impresa che al padre era mancata: vincere un titolo Mondiale. Gilles Villeneuve da quarant’anni riposa nel cimitero di Montréal. Nei ricordi di chi l’ha amato sta guidando una macchina rossa, ad attenderlo una curva. La macchina fila via, veloce come il vento. Da qualche parte, c’è un traguardo che lo aspetta.
GIORGIO TERRUZZI per il Corriere della Sera l'8 maggio 2022.
«Arrivò e disse: ho venduto la casa per comprare una macchina».
«So bene che un giorno o l'altro finirò per avere un tremendo incidente».
La prima frase è di Joann Villeneuve. La seconda è di suo marito, Gilles. Poche parole per comporre un quadro esauriente: inizio e fine di un'esistenza romantica, intensa e tragica. Vita e morte di un uomo mosso da una scelleratezza infantile, talmente manifesta da generare una forma particolare di affezione.
Un bambino, un figlio scapestrato che raddrizzare non puoi. Rimproveri inutili, preoccupazioni permanenti e, alla fine, una resa da impotenza al cospetto di una natura incorreggibile. Per questo siamo qui a ricordare Gilles Villeneuve, morto a Zolder, in Belgio, quarant' anni fa, 8 maggio 1982, in un incidente pirotecnico al pari di molti altri. Sradicato dall'abitacolo della sua Ferrari mentre tentava vanamente un ennesimo exploit velocistico. Non poteva, non avrebbe dovuto. Sì, ma non c'era verso: Gilles correva intrappolato nel proprio destino deliberatamente eroico.
I capitoli di questa storia sono parte di una memoria collettiva costellata di immagini toccanti, sempre replicabili. Gilles appariva fragile nel fisico. Un ragazzo sconosciuto ed esuberante, perfetto per essere adottato dal Grande Padre del motorismo, Enzo Ferrari. Tradito da un figlio di tutt' altra pasta, cresciuto al punto da tenergli testa, Niki Lauda; indispettito al punto da mettere in pista un capriccio dei suoi, camuffato da favola candida.
Quel piccolo canadese campione da motoslitta, toccato dalla bacchetta magica del Cavallino, trasformato in un principe in abito rosso. C'è del romanticismo anche qui. C'è proprio tutto per tenerci stretta questa avventura che appartiene a un mondo estinto, niente a che vedere con questa F1, con questi piloti automatizzati sin dall'infanzia da computer e simulatori, guidati da una rete di interessi raffinatissima. Villeneuve, un pezzo unico. Che a fare Gilles iniziò all'istante: una collisione con Ronnie Peterson, il suo mito; un volo sulla folla, due morti, lui che torna a piedi verso i box «come se niente fosse».
Seconda corsa con la Ferrari.
Voleva essere il più veloce.
Sul chilometro, sul giro, in autostrada. Per riuscirci, forzava, esagerava, distruggeva.
Roba che oggi produrrebbe ritiro della licenza. Ruote trascinate, alettoni divelti, reti e muri. Più osava, più piaceva.
Sei vittorie, rocambolesche come ogni sconfitta, la lealtà tipica del bimbo per accompagnare Jody Scheckter verso il titolo 1979. Un uomo, a differenza sua, da rispettare. E poi motoscafi ed elicotteri pilotati senza giudizio, i record da casello a casello, gomme fumanti. Peripezie di un discolo incapace di risparmiare, trattate come atti strabilianti di generosità. Amato dunque come Ettore, destinato a cadere. Enzo Ferrari andava in bestia osservando i cocci. Tenne il punto, la sua scommessa, ingoiando rabbia e critiche. «È stato un campione di combattività... gli volevo bene». Lo disse dopo la morte di Villeneuve.
È un epitaffio che cela più di un'amarezza e toglie di mezzo il sospetto che il tempo di Gilles a Maranello, in quel 1982, fosse scaduto. Didier Pironi promosso a beniamino, misteriosamente autorizzato a disobbedire tenendo dietro Villeneuve a Imola, dove Gilles cominciò a morire in una foga furibonda, esternata in quel giro fatale a Zolder, 13 giorni dopo. Votato com' era a una fine precoce, come da pronostico e presentimento e per questo immortale. Dolore e amore per una favola compiuta da rileggere all'infinito. Mondata da ogni ombra, per il gusto agrodolce del rimpianto.
Stefano Mancini per “la Stampa” il 7 maggio 2022.
«Il mio ricordo di Gilles? Quello di un grande amico con cui mi sono divertito». Jody Scheckter è stato tante cose: compagno di squadra di Villeneuve in Ferrari nel 1979 e 1980, campione del mondo di Formula 1 ('79), costruttore di sistemi difensivi militari e oggi, a 72 anni, produttore di mozzarelle nella campagna inglese. «Le migliori del mondo - garantisce -. Ma la mia più grande impresa è stata sopravvivere alle corse».
Scheckter risponde da Città del Capo, il suo Sud Africa.
Ruota lo smartphone e inquadra un mare al tramonto «tanto per farle provare invidia».
Otto maggio del 1982, l'ultimo, tragico volo di Gilles Villeneuve. Quando vi incontraste per l'ultima volta?
«Due settimane prima, quando litigò con Pironi a Imola. Non riusciva ad accettare che un compagno di squadra tradisse la sua fiducia. Venne a parlarmi: sapeva che ero sempre stato sincero con lui. Cercava il mio sostegno».
C'era un patto tra i due?
«No, era una regola della Ferrari: se i piloti fossero stati primo e secondo, avrebbero dovuto mantenere la posizione. Pironi invece lo sorpassò e vinse».
Lei che cosa fece?
«Lo accompagnai a Maranello, dove non ricevette l'appoggio che pensava di meritare.
Dalla gara successiva a Zolder si sarebbe ribellato».
E invece ci fu l'incidente fatale con Jochen Mass: dov' era quando lo venne a sapere?
«Ero a Monaco, ero stato operato di ernia. Mia moglie raggiunse la sua in Belgio. Le restò accanto quando decisero di staccare le macchine».
Nel '79 a Monza Gilles rispettò le consegne e le consegnò di fatto il titolo. Davvero non temette un attacco?
«Eh sì, negli ultimi due giri pigiai sull'acceleratore. Mi fidavo, però non si sa mai. Non volevo correre rischi, ma Gilles era una persona leale, per questo fu così amareggiato tre anni dopo dal comportamento diPironi».
Mai una litigata con lui?
«Mai. Solo qualche discussione».
Tipo?
«Dopo il duello di Digione gli parlai a muso duro».
Ma è il simbolo della F 1
«Tutti pensavano che fosse stato fantastico, agli sponsor era piaciuto, il pubblico si era divertito, ma a quei tempi bastava un attimo. Gli dissi "sei uno stupido, pensi che sia divertente e grandioso, ma qui si muore in fretta". Fare a ruotate era pericolosissimo, su questo concordava, ma la volta dopo l'avrebbe rifatto uguale».
Si narra di un vostro viaggio Montecarlo-Maranello in 2 ore e 45 minuti. Verità o leggenda?
«Non ricordo di aver preso il tempo, però sì, guidava come un pazzo. Gli avevo raccomandato di non esagerare, ma a pochi chilometri dall'arrivo cominciò a gommare. Gli piaceva questa immagine di spericolato. Era la sua debolezza».
Lei per 21 anni è stato l'ultimo campione del mondo della Ferrari. Le è dispiaciuto quando Schumacher ha interrotto questo primato?
«No. Dopo il ritiro, sono stato 12 anni in America per sviluppare l'azienda che avevo fondato. Al ritorno in Europa, ero diventato più famoso per il solo fatto di essere stato l'ultimo campione in Ferrari. Eppure non avevo più fatto nulla».
Perché si ritirò un anno dopo il titolo?
«Nel '79 ero competitivo, io e Gilles eravamo più o meno sullo stesso livello. Nella stagione successiva non ero più così veloce, non so perché. Mi svegliavo nel cuore della notte e non capivo che cosa mi succedesse. Era finita. Dopo poche gare annunciai che avrei smesso. Villeneuve era più veloce».
Aveva paura di un incidente?
«Sì. La mia epoca è stata tra le più pericolose. Un anno facevi una curva in terza marcia, quello dopo in quinta. La stessa curva, capisce?».
Saltiamo a oggi: le piace la F1 ipertecnologica e sicura?
«Vedere la Mercedes vincere sempre è stato molto noioso.
Quest' anno è molto più eccitante: la Ferrari sta andando bene e le gare sono più belle. Anche il duello dell'anno scorso tra Hamilton e Verstappen è stato divertente: finalmente c'è stato un nuovo vincitore».
Raikkonen nel 2007 è stato l'ultimo campione in rosso. Non sono i suoi 21 anni, ma ci stiamo avvicinando
«Leclerc è molto bravo, capisce la tattica ed è un duro. Può competere con Verstappen». È stato giusto secondo lei escludere i piloti russi? «Devono cacciarli da tutti gli sport. Quello che sta succedendo in Ucraina è orribile».
Ha qualche rimpianto?
«Nessuno».
Che lavoro fa oggi Jody Scheckter?
«Ho fondato un'azienda in America, ho preso una fattoria in Inghilterra che produce la migliore mozzarella del mondo e intanto sto ristrutturando una casa in Italia. Dopo la F1 ho avuto parecchi impegni».
· 40 anni dalla morte di Ingrid Bergman.
Amori, scandali e i copioni su cui non era disposta a negoziare: la vita da film di Ingrid Bergman. Maria Luisa Agnese su Il Corriere della Sera il 22 Agosto 2022.
La diva svedese: «Non sono né una cattiva moglie né una cattiva madre, eppure non sopporterei l’idea di lasciare il lavoro»
Nel 1941 Hollywood offrì a una giovane e folgorante Ingrid Bergman la parte della moglie del dottor Jekyll accanto a Spencer Tracy, ma lei si battè per avere quella più controversa e meno glamour della cameriera sensuale, Eva. Vinse e scambiò il ruolo con Lana Turner, ben felice di fare la moglie rassicurante. La giovane svedese dimostrava così un temperamento di attrice di nuovo conio per gli standard hollywoodiani. Che rifiutava modifiche alla sua immagine e alla sua bellezza naturale e che non era disposta a negoziare su copioni e scelte di carriera. E difatti dopo una cavalcata nel cinema Usa da Intermezzo a Casablanca a Per chi suona la campana a Not orius , fino al primo Oscar vinto con Angoscia, si stufò e decise di inviare a Roberto Rossellini, alfiere di un cinema meno ingessato, la lettera che cambierà la direzione delle sue ambizioni e della sua vita («Se ha bisogno di un’attrice svedese che in italiano sa dire solo ti amo, sono pronta a venire a lavorare con lei»). Come ha scritto Oriana Fallaci in una delle sue famose interviste, Ingrid aveva lo spirito dell’Uccello migratore, «fuggì giovanissima dalla Svezia, conobbe molti amori e molti paesi, fu americana in America, italiana in Italia, poi è francese in Francia».
Piombò nell’Italia del dopoguerra come un’aliena e fu subito scandalo, per quell’amore scoppiato sull’isola di Stromboli fra il regista italiano che per lei aveva lasciato l’attrice più amata del Paese, Anna Magnani; ma il tradimento non andò giù nemmeno in America, scandalo anche lì, dove Ingrid aveva lasciato un marito e una figlia, Pia: da santa era diventata l’apostolo della degradazione. In Italia intanto erano nati Robertino, in una clinica romana piantonata dalle forze dell’ordine, e le gemelle Isotta e Isabella. E quella nuova famigliola innamorata ha fatto sognare gli italiani che palpitavano per la scoliosi di Isabella e per quella mamma attrice che aveva lasciato il cinema per stare vicino alla figlia costretta in un busto faticoso. «Tutta la sua vita è stata scandita dalla passione per l’arte» ha ricordato Isabella con Giulia Echites. «Tra un film e l’altro, per impegnare il tempo, puliva e riordinava casa, ma non vedeva l’ora di ricominciare a recitare. Papà era sempre a letto, in pigiama, con il ghiaccio in testa, diceva che serviva per far confluire tutte le energie al cervello, mamma era sempre attiva, praticava tanti sport, lo sci, lo sci d’acqua e le sue foto in costume in piscina erano uno scenario insolito per l’Italia degli Anni 40».
Poi Ingrid si stufa anche dell’Italia e si prende la rivincita, richiamata a Hollywood per Anastasia , secondo Oscar che però viene ritirato dall’amico Cary Grant, l’America aveva perdonato ma non del tutto. Intanto volta pagina ancora una volta con il terzo marito, l’impresario svedese Lars Schmidt che la fa riavvicinare al suo Paese. Dopo il terzo Oscar per Assassinio sull’Orient Express, Sinfonia d’autunno per Ingmar Bergman e, poco prima di morire (a Londra il 29 agosto 1982, giorno del suo compleanno), la biografia di Golda Meir. Per lei essere attrice era un modo di esistere: «Perchè, dico, una donna deve scegliere una cosa sola e rinunciare all’altra? Perché?» ha raccontato a Fallaci. «Io non sono né una cattiva moglie né una cattiva madre: eppure non sopporterei l’idea di lasciare il mio lavoro per sempre. Posso interromperlo per una settimana, un mese, un anno: per sempre, mai».
· 40 anni dalla morte di Marty Feldman.
Marty Feldman: 40 anni fa moriva il leggendario attore comico di "Frankenstein Junior". Eva Cabras su Il Corriere della Sera il 2 Dicembre 2022
Dall’indimenticabile strabismo alla morte prematura, tutto quello che c’è da sapere sulla leggenda della comicità britannica
Origini
Martin Alan Feldman nacque l’8 luglio 1934 a Londra, figlio di Cecilia e Myer Feldman, entrambi ebrei ucraini nativi di Kiev.
Adolescenza
Feldman lasciò la scuola all’età di 15 anni e iniziò a lavorare al parco giochi Dreamland nel piccolo paese di mare di Margate, nel sud-est dell’Inghilterra. Il suo sogno di ragazzo era quello di diventare un trombettista jazz professionista, ma raggiunti i 20 anni individuò nella comicità la sua vera vocazione.
Incidenti
L’aspetto del giovane Marty era decisamente peculiare e sul suo volto persistevano i segni di diversi traumi facciali frutto di incidenti durante l’infanzia e adolescenza. La futura leggenda della comicità inglese fu infatti coinvolta in una brutta scazzottata, uno schianto in auto e una disavventura in barca.
Due occhi indimenticabili
I tratti più riconoscibili di Feldman furono lo strabismo e i bulbi oculari sporgenti, determinati a partire dagli anni ’60 dall’insorgere dell’Oftalmopatia di Graves, patologia attribuita all’ipertiroidismo. Tali caratteristiche diventarono un marchio di fabbrica, sfruttato anche artisticamente come nel caso del personaggio di Igor in "Frankenstein Junior".
Stile di vita
Attraverso diverse dichiarazioni rilasciate nel corso della sua carriera, Feldman rese noto di essere vegetariano dell’età di sei anni circa, ateo e socialista.
Matrimonio
Nel gennaio del 1959 Feldman sposò Lauretta Sullivan, che rimase sua moglie per tutta la vita. Dopo la morte della consorte, avvenuta nel 2010, fu rinvenuta un’autobiografia scritta dall’attore, pubblicata nel 2012 con il titolo di "Eye Marty: the newly discovered autobiography of a comic genius".
Morte
Feldman morì a 48 anni il 2 dicembre 1982 nella sua stanza d’albergo a Città del Messico, dove stava girando il film "Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo". La causa del decesso fu un attacco cardiaco, fatale nonostante la chiamata ai soccorsi fatta dal collega e amico Graham Chapman, presente al momento della tragedia.
Dilemma
Feldman non aveva precedenti di problemi cardiaci, ma pare fosse un smodato fumatore, bevitore di caffè, consumatore di uova e latticini, oltre che restio all’utilizzo di controfigure nelle scene pericolose. L’attore fu sepolto al Cimitero Forest Lawn – Hollywood Hills per riposare accanto al suo più grande idolo, Buster Keaton.
· 40 anni dalla morte di John Belushi.
John Belushi moriva 40 anni fa a soli 33 anni: la ricostruzione dell’ultima notte. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 5 Marzo 2022.
Cosa è accaduto all’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House» nella notte tra il 4 e il 5 marzo 1982.
Aveva rifiutato il rehab
Quarant’anni fa un’overdose di cocaina ed eroina metteva fine alla vita di uno dei comici più promettenti di Hollywood, John Belushi, trovato morto il 5 marzo 1982. «Scervellato, sferico attore comico, noto per le sue imitazioni al Saturday Night Live, trovato senza vita in un bungalow a Hollywood»: così sintetizzò in un trafiletto il giorno successivo il New York Times nel dare la notizia della scomparsa improvvisa — a soli 33 anni — dell’attore di «The Blues Brothers» e «Animal House», che gettò nello sconforto i tanti amici e colleghi. Che, a dire il vero, da tempo erano preoccupati per la sua salute e per il suo smodato consumo di sostanza stupefacenti (che consumasse droga fin dai tempi del SNL non era un mistero per nessuno). Più volte gli avevano consigliato di andare in rehab, ma lui si era sempre rifiutato.
L’ultima notte
Il 4 marzo 1982 John era riuscito ad ottenere dal suo manager Bernie Brillstein 1500 dollari, ufficialmente per acquistare una chitarra. Temendo che potesse spenderli in droga inizialmente quest’ultimo glieli rifiutò. Poi, quando Belushi si ripresentò nel suo ufficio, Brillstein — che era nel bel mezzo di un incontro di lavoro — glieli concesse. L’attore decise di investire parte della cifra in un pedale per la sua batteria e il resto in cocaina ed eroina. Decise di passare la serata insieme all’ex autore del Saturday Night Live Nelson Lyon e alla groupie e cantante Cathy Evelyn Smith (morta nel 2020 a 73 anni). I tre, tra feste e locali, bevvero molto e assunsero una grande quantità di droga.
La visita di Robin Williams e Robert De Niro
Nel bel mezzo dei festeggiamenti Belushi accusò un po’ di nausea, e chiese a Smith di riaccompagnarlo al suo bungalow allo Chateau Marmont. Come avrebbe poi raccontato lei a distanza di qualche mese, l’attore — che aveva il terrore degli aghi — le chiese di iniettagli più volte dosi di speedball (così è chiamato in gergo il mix di eroina e cocaina). Durante la notte fecero un salto al bungalow anche due amici, il comico Robin Williams — che prima di andarsene sniffò alcune righe di cocaina — e Robert De Niro che, sconcertato dallo stato in cui versava la stanza, decise di non trattenersi. Più tardi John andò a dormire.
Trovato morto dal personal trainer
John Belushi fu ritrovato privo di vita nella tarda mattinata del 5 marzo dal suo personal trainer di allora, Bill Wallace, che tentò di rianimarlo praticandogli il massaggio cardiaco, prima di chiamare l’ambulanza e il manager. Fu tutto inutile: dopo mezz’ora il medico legale Thomas T. Noguchi, intervenuto sulla scena, ufficializzò il decesso.
Il patto (funebre) con Dan Aykroyd
Ai funerali di Belushi, che si tennero con rito ortodosso, parteciparono i familiari e molte persone che avevano lavorato con lui a partire dal suo grande amico Dan Aykroyd che suonò la canzone «The 2000 Pound Bee» per rispettare un patto scherzoso fatto anni prima. L’attore fu poi sepolto all’Abel’s Hill Cemetery a Martha’s Vineyard, nel Massachusetts.
I progetti interrotti
In seguito alla morte di Belushi Dan Aykroyd affrontò una pesante crisi depressiva, che fece ritardare tutti i progetti cinematografici che i due avevano in cantiere. Tra questi «Una poltrona per due» (John avrebbe dovuto interpretare Valentine, parte poi andata ad Eddie Murphy) e «Ghostbusters», che fu realizzato soltanto nel 1984 con Bill Murray nei panni di Peter Venkman al posto dell’attore scomparso.
John Belushi, i Blues Brothers in tv: gli esordi, i successi, la coca, la tragica fine, cinque cose che non sapete di lui. Alessandro Beretta su Il Corriere della Sera il 18 Gennaio 2022. Il 5 marzo saranno quarant’anni dalla morte, mentre oggi va in onda The Blues Brothers.
John Belushi, 40 anni fa la morte
Il 5 marzo prossimo saranno 40 anni dalla morte di John Belushi, nato il 24 gennaio 1949 a Chicago, di origini albanesi. E a quasi quattro decenni dalla morte, rimasto lì, nel cuore degli spettatori, fermo a una festa alla «Animal House» o in mezzo a una missione musicale come in «The Blues Brothers» (stamattina di nuovo in onda su Iris, alle 10.50) , in situazioni divertenti e folli, dove l’amicizia è la base è di tutto. Come quando si è giovani, viene da pensare, ma nessuno può chiederglielo, perché Belushi è morto di overdose il 5 marzo 1982, a 33 anni, all’inizio di una carriera che assomigliava alle montagne russe, tra grandi incassi e improvvise delusioni, in un giro dello spettacolo - quello degli anni Ottanta in America - dove se lui abusava di stupefacenti, gli altri li gestivano come medicine, comunque a portata di mano. Al pubblico, rimane fortunatamente altro, dal coro «Tooga! Tooga!» al secco «Io li odio i nazisti dell’Illinois», accompagnati dalla fisicità unica della sua comicità.
Saturday Night Live, una palestra di comici.
Belushi era una star comica in America, ma quando mancò, in breve divenne un’icona pop globale. La sua fama nacque inizialmente in televisione, al Saturday Night Live, programma satirico della NBC nato da una celebre rivista satirica e palestra, ancora oggi, di tanti talenti comici come Chevy Chase, Steve Martin, Bill Murray. Belushi, dopo il college passato a giocare a football e alcuni show itineranti, mosse i primi passi lì, fin dal primo episodio l’11 ottobre 1975, tra maschere indimenticabili: da Futaba, samurai sempre pronto all’harakiri che parla un giapponese inventato, alla sfrenata e ironica imitazione di ribelli del rock come Joe Cocker con cui, per altro, si esibì sul palco del programma.
Jake e Elwood: comici, epici e blues.
Se il personaggio di John «Bluto» Blutarsky, capace di schiacciarsi serenamente lattine di birre in testa, ha lanciato Belushi sul grande schermo in «Animal House» (1978) di John Landis, è con «The Blues Brothers» (1980), dello stesso regista, che arriva la consacrazione. La band, con alla voce Belushi e all’armonica e voce Dan Aykroyd, debuttò al Saturday Night Live il 22 aprile 1978 e produsse un album di successo. Nacque allora l’idea del film, scritto da Aykroyd e Landis, che nonostante costi esosi e imprevisti - 30 milioni di dollari - ne incassò 115. Jake-Belushi e Elwood-Aykroyd erano comici, epici e blues: tre aggettivi che era una scommessa, vincente, pensare insieme. I due attori erano amici da tempo, condividevano la stanza in cui scrivevano per il Saturday Night Live e spesso Aykroyd era autore degli sketch di Belushi. Insieme, inoltre, avevano recitato in «1941 - Allarme a Hollywood »(1979) di Steven Spielberg. A unirli, oltre il lavoro, l’uso sfrenato di cocaina e altro, spesso in compagnia della fidanzata di Aykroyd: Carrie Fisher, che appare in «The Blues Brothers» ed era già per tutti, dal 1977, la principessa Leila di «Guerre Stellari».
Gli ultimi film, le troppe droghe.
Belushi cercò nell’ultimo anno di vita di trovare sul grande schermo ruoli da commedia meno irruenti e comici, ma i risultati - anche se in parte rivalutati dal cult per l’attore - furono modesti, in film come Chiamami aquila (1981) di Michael Apted e I vicini di casa (1981) di John G. Avildsen. Cercava una svolta nell’immagine pubblica, ma nel privato le droghe avevano ormai occupato tutto. Dal 1973 Belushi usava cocaina e, sui set, se all’inizio era la stessa produzione a sapere che Belushi doveva drogarsi ogni tanto per, paradossalmente, calmarsi, negli ultimi anni dovevano sorvegliarlo con tanto di body guard per intercettare i pusher. Eppure, Belushi trovava il modo di recuperare la droga e spesso di provarne di nuove. Il passaggio all’eroina, sul finale, fu devastante. A raccontarlo, e a renderlo in maniera quasi spietata, ci ha pensato nel 1984 Bob Woodward, celebre giornalista che svelò con Carl Berstein lo scandalo Watergate, nella biografia «Chi tocca muore».
La morte e un funerale blues.
La notte del 4 marzo 1982 John Belushi andò a un party, incontrando anche Robert De Niro e Robin Williams, allo Chateau Marmont di Hollywood, celebre hotel in stile vecchia Europa rifugio di tante star. Per altro, alloggiava lì, nel bungalow numero 3, e dopo aver fatto baldoria con la cantante Cathy Evelyn Smith, quest’ultima sbagliò le proporzioni in una dose di speedball - mix di eroina e cocaina - e lo mandò in overdose. Il 5 marzo Belushi non si è svegliato più: era morto. Al funerale, in cui sfilarono tanti amici e la moglie, è stato Dan Aykroyd a rendergli l’ultimo omaggio. Si presentò vestito da motociclista e fece suonare per lui un pezzo: la canzone surf «The 2000 Pound Bee» dei Ventures. C’era un patto tra i due amici: alla morte di uno dei due, l’altro l’avrebbe fatta ascoltare quella canzone alla cerimonia. Così, mentre di lì a breve avrebbe dovuto iniziare le riprese di «Ghostbusters», John Belushi, «l’ape da 2000 libbre», era ormai diventato un fantasma.
Antonio Monda per “la Stampa” il 6 marzo 2022.
Aveva compiuto trentatre anni da poco più di un mese, John Belushi, e il compleanno era stato celebrato come sempre con quantitativi enormi di alcool e droga. Era il comico più popolare del mondo, e la sua energia anarchica e rivoluzionaria sembrava potesse irridere e dominare qualunque ostacolo, qualunque istituzione, ma in realtà era lui e esser dominato da demoni che aveva coltivato sin da bambino.
In quei giorni diceva a tutti di essere «stravolto e disilluso», e che «il successo confonde»: Dan Aykroyd, che intuiva il rischio letale di quella deriva psicologica e fisica, cercava in ogni modo di coinvolgerlo in nuovi progetti, a cominciare da Ghostbusters, ripetendogli quotidianamente «È perfetto per te». Nessuno come Aykroyd ne conosceva l'intima fragilità che si nascondeva dietro quella maschera sfacciata e irridente.
Cercò di convincerlo a partecipare a Ghostbusters anche poche ore prima che lui decidesse di anestetizzare il dolore di vivere con un'ennesima miscela micidiale di cocaina ed eroina, che ne stroncò l'esistenza. Fu Cathy Evelyn Smith, compagna occasionale, a sbagliare le dosi, ma quanto avvenne nel bungalow numero tre dello Chateau Marmont è avvolto nel mistero: l'unica cosa certa è che parteciparono a quella festicciola tossica anche Robert De Niro e Robin Williams, e che Belushi aveva acquistato la droga dopo aver chiesto del denaro al suo manager con la scusa di acquistare una chitarra.
La comunità hollywoodiana fu sconvolta da quella morte annunciata, e sorpresa dal fatto che i funerali furono religiosi: al termine del rito ortodosso, lungo e solenne, Aykroyd suonò The 2000 Pound Bee/L'ape da mille chili, per tener fede a una promessa fatta ai tempi del Saturday Night Live, dove l'amico aveva creato quel personaggio, esilarante e completamente nonsense.
Belushi non parlava pubblicamente di religione, ma era affascinato dall'elemento liturgico, cosa alquanto sorprendente per una persona che in ogni occasione manifestava la propria ribellione nei confronti di ogni rito e istituzione. Ed era molto legato alle proprie radici albanesi: il padre, ristoratore, sperava che continuasse l'attività di famiglia, mentre la madre, farmacista, lo incoraggiava a seguire il proprio talento ribelle.
Cominciò a recitare a scuola e poi al college, dove divenne un attivista politico, schierandosi pubblicamente contro la guerra in Vietnam. I suoi primi sketches, a cominciare dalla parodia del sindaco di Chicago Richard Daley, erano politici, ma poi visse come un limite anche la difesa dei propri ideali, e diede vita all'imitazione di Joe Cocker, grazie alla quale divenne una star del National Lampoon e poi del Saturday Night Live, dove entrò a far parte di una squadra di comici formata da Chevy Chase, Bill Murray, Gilda Radner, Eddie Murphy, Steve Martin e ovviamente Aykroyd, del quale divenne intimo amico.
Per la disperazione degli autori e l'assoluto divertimento degli spettatori, improvvisava continuamente, stravolgendo le sceneggiature, e alternando parodie di personaggi diversissimi quali Gandhi e Mussolini a invenzioni irresistibili come l'Ape e il Samurai. Ed è proprio al Saturday Night Live che crea, insieme ad Aykroyd, il personaggio dei Blues Brothers, anticipando nel programma televisivo il film di culto di John Landis. Amava suonare e cantare, ma soprattutto stupire e spiazzare, sovvertendo ogni possibile regola.
Ammirato dal suo talento magnetico e istintivo, Steven Spielberg gli offrì un ruolo nello sfortunato 1941, Allarme a Hollywood, dove risulta evidente che lo strabordante carisma gli consentiva di appropriarsi di tutte le scene che interpretava, come successe anche nei Blues Brothers quando si è trovato a fianco di mostri sacri come Ray Charles, James Brown e Aretha Franklin. Non c'è film che abbia interpretato che non risulti inconcepibile senza la sua presenza, anche quando non era il protagonista assoluto, come in Animal House.
Riuscì a stupire e spiazzare il pubblico anche con un cambio di tono negli ultimi ruoli, dove rivelò una sensibilità dolente e una ricchezza di sfumature interpretative che tuttavia non riscossero il successo del pubblico, voglioso di vederlo all'opera solo nel ruolo di ribelle. Il giorno del funerale c'è chi ricordò che aveva lasciato un ricordo indelebile con soli sette film, due dei quali di successo. C'è chi parlò di un talento vulcanico e autodistruttivo, ma fu proprio Aykroyd a dire, tra le lacrime, che dietro la potenza devastatrice dei suoi sberleffi c'era un disperato bisogno di calore e normalità.
· 40 anni dalla morte di Beppe Viola.
Giorgio Terruzzi per corriere.it il 17 ottobre 2022.
Diceva: «Il golf? Per me è un maglione». Diceva: «Bisogna leggere per scrivere come parli». Diceva: «Non si capisce perché un giornalista chiede lo sconto per comprare il paltò». Mandava indietro i regali di Natale. Era integro e libero. Era malinconico e autolesionista. Era Beppe Viola.
Adesso che sono passati 40 anni dalla morte, 17 ottobre 1982, età 42, ictus dopo un Inter-Napoli a San Siro, la memoria si è addolcita, confina il dolore. Emicranie a furia di tirar tardi, insalata di pollo «bella unta», sigaretta tra indice e pollice, la musica dell’Olivetti, tac, tac, tac, mischiata ai suoni del biliardo. Milano, quella là. Un’energia potentissima per tenere assieme Lucio Fontana e «il Bistecca», portinaio di giorno, battutista formidabile la sera; Enzo Jannacci e i clanda, allibratori specializzati nel darti una storta spacciata per dritta, Derby Club, Bar Gattullo, Ippodromo Trotto, dove capivi subito che i danée erano belli andati.
Per imparare a stare al mondo bastava andargli dietro, dopo le ore 22 possibilmente. Per imparare el mestè bastava osservare il rigore applicato al capoverso, un’etica senza concessioni. Multa di lire 5 mila per ogni scheggia di retorica. Le prime tre righe per agganciare il lettore, le ultime come note di un gran finale. Era un eversore, in mezzo ad altri.
Linguaggio e design, arte, canzoni, comicità. Con dentro, sempre, la percezione del marciapiede, della fabbrica, le straordinarie stimolazioni lessicali offerte dall’immigrazione, la voglia di trovare un modo nuovo perché erano nuovi tic e desideri, case e aspirazioni. Le radici infilate in atmosfere da lungo dopoguerra; gli ultimi presi su, por sacrament, portatori, come erano, di un bisogno ma anche di saggezza, di un cinismo comico e autoironico. Surrealisti tutti visto che « …la realtà è un uccello che non ha memoria, devi immaginare da che parte va». Giorgio Gaber, 1976.
Lavorava alla Rai con orgoglio e disincanto. Eppure, proprio in quella Rai ebbe la libertà di esprimersi, di mostrare il derby dell’anno precedente nel giorno in cui il derby era stato una noia, di intervistare Gianni Rivera sul tram. Aveva fondato una agenzia per condividere un senso compiuto lavorando sul racconto, sulla scrittura, sui contenuti preziosi dello sport. È questo soprattutto che resta, dentro una città, un Paese che ha perso ogni rapporto con quel passato, fatto di concretezze, di anticonformismo. Umorismo e riflessione per andar dentro una storia, evitando di metterla giù dura. Prendere in giro se stessi per prendere in giro l’altro, uno che sgobba, si fa un mazzo così.
Testi per la tv, per i giornali, per il cinema, le canzoni. Con Enzo Jannacci complice, un mix ispiratore composto da balordi, intellettuali, saltimbanchi, jazzisti, pugliesi-milanisti. Sì ma prima, dalla mattina alle 22, come detto, provare a fare meglio, please.
Un’idea da scovare, un progetto da mettere giù, una visione laterale da applicare. La spesa in rosticceria, vino per far ridere il gozzo. «Ma com’è che le cose più buone fanno tutte male?». Forse spese troppo, di se stesso di sicuro. Lo pensava Franca, sua moglie, una santa. Detta «Cianci» da Cianciulli, quella che scioglieva le vittime nella soda caustica, per dire, appunto, del cinismo e dell’ironia in circolazione familiare.
Lo pensano le sue figlie, Renata, Marina, Anna, Serena rovistando in un baule di ricordi grande così, riempito da chi c’era e c’è ancora. Tipi come il Giuliano. Il giorno dopo la morte di Beppe radunò moglie e figlie, le fece sedere sul divano.
Disse, in dialetto: «Se qualcuno vi disturba o infanga la memoria del Viola voi alzate le mani e dite: alt, non è più di mia competenza. Mi avvisate e mi el mazi». Mai stato avvisato. Dai, Beppe, solo roba buona. Cià, mettiamo su la moka, chiacchieriamo un altro po’.
Dagospia il 17 ottobre 2022. Dal profilo Instagram di Marino Bartoletti
Sono stato l’ultimo a vederlo sorridere. E questo lo ritengo un grande privilegio. Oddio, sorridere: sghignazzare, come sapeva fare lui...
Avevamo assistito assieme a Inter-Napoli: il resto, l'intervista a Giacomini, la battuta su San Gennaro "migliore in campo del Napoli", le ho già raccontate. Lasciammo San Siro ormai vuoto. Lui salì sulla sua Mini parcheggiata fuori dallo stadio per andare in Corso Sempione. Fu l'ultima volta che ci salutammo. Quando arrivai, c’era già l’ambulanza. E la faccia sgomenta di Carlo Sassi. Che mi disse soltanto: "Beppe"! Non un nome, ma un’invocazione di dolore. E di incredulità.
Impossibile spiegare Beppe Viola, “andato” - ripeto “andato” (cit. Jannacci), non morto - esattamente 40 anni fa a chi non l'ha conosciuto (e che a volte pretenderebbe di raccontarlo o addirittura di scimmiottarlo): è apprezzabile che i colleghi-amici che hanno avuto il raro privilegio di ascoltarlo, di leggerlo e soprattutto di frequentarlo cerchino di diffondere e di proteggere quel senso di leggerezza, di intelligenza, di sdrammatizzazione, di benedetto sarcasmo - in una parola di libertà - che oggi dà l'idea di essere pericolosamente naufragato. Sua figlia Marina trovò - fra foglietti, manoscritti, scarabocchi e articoli abbozzati - un appunto intitolato “Trenta domande mai fatte al Presidente della Rai”. Quella Rai che ancora oggi, giustamente, lo piange (e lo rimpiange).
Ma che "all'epoca dei fatti" (come direbbe lui), nella persona del responsabile della Domenica Sportiva, non lo voleva in studio perché sudava troppo
Personalmente ho un piccolo motivo d’orgoglio: "Quelli che il calcio" si intitolò così pensando a lui
· 37 anni dalla morte di Francesca Bertini.
Francesca Bertini, pseudonimo di Elena Seracini Vitiello (Prato 5 gennaio 1892 – Roma 13 ottobre 1985), è stata un’attrice italiana.
L’ultima diva. La stella del cinema muto che conquistò Roma con la sua fragilità. Flaminia Marinaro su L'Inkiesta l'8 Settembre 2022.
Come racconta Flaminia Marinaro nel suo ultimo libro, Francesca Bertini consolidò nella capitale una fama da star internazionale, nonostante la giovane età. A colpire gli ammiratori, fra cui Gabriele D’Annunzio, fu il suo modo così naturale di recitare di fronte alla telecamera
La saletta del Caffè si era riempita, ma lei si faceva attendere. Perfino il poeta D’Annunzio, così ombroso e sgarbato, era arrivato puntuale. Accennando qualche sorriso a denti stretti, sprofondò in poltrona. Dal taschino del doppiopetto di velluto spuntava vezzosa una gardenia. Nell’aria c’era odore di buon tabacco, misto a un lieve sentore di profumo muschiato. Francesco Paolo Michetti e Pietro Mascagni conversavano con Roberto Bracco e Francesco Paolo Tosti.Tacquero all’ingresso di Isadora Duncan, al braccio dello scultore Romano Romanelli. Il mondo non parlava che di lei, della sua bellezza e della sua sensualità, sul palco come nella vita. Era una donna emancipata, libera, capace di eccessi e stranezze, una creatura misteriosa e irresistibile perfino per D’Annunzio. Romanelli stava lavorando al busto del Vate, e spesso provavano nel suo studio di Borgo San Frediano a Firenze.
Isadora era sempre lì, con gli occhi di D’Annunzio puntati sul suo seno. Avanzò nel corridoio del Caffè a passo di danza, leggera come una libellula. Gli uomini sedettero a cerchio intorno al poeta, come i cavalieri della Tavola Rotonda. Romanelli era Lancillotto, e Michetti mago Merlino. Si diceva che D’Annunzio andasse a chiedere rimedio a lui, quando entrava in una crisi d’amore. Il che accadeva di frequente.Francesca fece il suo ingresso di lì a poco. Avanzò altera verso Peroni, ma nessuno le rivolse lo sguardo. Furono attimi di tortura. L’indifferenza di quelle signore aristocratiche, che sfoggiavano gioielli, abiti sontuosi e predicati altisonanti, le corrodeva le viscere. Marchesa di… Baronessa del… Erano pietre in pancia, una dopo l’altra. Dure come la sua rabbia. Che umiliazione dover mendicare un sorriso, uno sguardo, un brandello di conversazione! Si sentiva invisibile, esclusa, come agli inizi.
La Signorina Nessuno tornava a perseguitarla. «Che sono venuta a fare?», mormorò. «Francesca Bertini?». Una donna le si avvicinò per salutarla; la scrutava da femmina, con occhi beffardi, sventolando teatralmente un ventaglio. Era bellissima e lo sapeva. «Sono Maria Jacobini». Francesca la conosceva di nome. Era un’attrice come lei, ma nata assai più in alto. Cercò di accattivarsela citando il capocomico della sua compagnia teatrale, Cesare Dondini Jr. L’altra quasi le voltò le spalle, per vezzeggiarsi con Bracco. Non c’era da meravigliarsi, visto che bastava una sua parola per decretare il destino di un artista. Pochi anni prima le sue picconate alla carriera di Scarpetta, colpevole di aver messo in scena un’esilarante parodia di La figlia di Iorio, avevano fatto il giro d’Italia. «Come osa trascinarmi in tribunale, quel pazzo esaltato? I fratelli Goncourt hanno ragione! È un bieco utilisateur!». Francesca sentiva ancora le urla di Scarpetta, mentre vagava inquieto tra le stanze del palazzo. Aveva chiesto aiuto alla Serao, ma lei, integerrima, si rifiutava di censurare la penna di Bracco o di chiunque altro.
Nella querelle, quell’esaltato di D’Annunzio si era enormemente divertito. Se ne faceva addirittura un vanto, quando lo intervistavano, alzando il sopracciglio in segno di profonda soddisfazione. Nessuno diede peso all’epilogo, tranne il povero Scarpetta – che vinse da sconfitto. Francesca si sentì vacillare, sola in mezzo alla sala, senza appigli, al centro di niente. L’abito di seta grigioperla le scivolava addosso rendendola eterea, ma le gambe non reggevano: scappò in bagno e, china sopra il gabinetto, vomitò ansia e bava. Gli schizzi acidi le inzaccherarono il vestito. Non poteva perdere il controllo! Rapidamente lo sfilò, arrotolando la bretella, e le macchie sparirono tra le pieghe di seta. Rientrata in sala, si ritrovò al cospetto di un plotone d’esecuzione. Le parve di sentire il comandante che gridava: «A morte!». E si vide esangue a terra, tra volti noncuranti e spietati. Uno spasmo le piegò il ventre, mentre Giacomo Peroni le prendeva le mani spingendola verso D’Annunzio. «Maestro, vi presento Francesca Bertini. Di lei sentirete parlare, e molto. È un’attrice del cinematografo, bravissima!».
Il Vate stava scrivendo (non da solo) la sceneggiatura di Cabiria, che si annunciava come il film più costoso della storia. Tecniche di ripresa innovative e allestimenti faraonici, al servizio di una storia popolare. «Cabiria traghetterà il cinema in una dimensione moderna», sentenziò D’Annunzio, muovendo gli occhi in cerca di sguardi adoranti. «Non a caso porterà la mia firma!». Francesca confessò di aver letto Il piacere due volte e di conoscerlo quasi tutto a memoria.E realizzò d’essersi cacciata in un guaio. Il Vate le chiese subito di interpretarne un brano: «Al centro della sala, signorina», tuonò. Come un piccione già spacciato prima di una gara di tiro, lei chiuse gli occhi e iniziò a recitare: «Che strano amore!», diceva Elena, ricordando i primissimi giorni, il suo male, la rapida dedizione. «Mi sarei data a te la sera stessa ch’io ti vidi». Il silenzio riempì la sala, finché un applauso non ruppe la magia. Aveva toccato le corde giuste, solleticando la vanità del poeta. «Cosa ne direste se vi offrissi un ruolo da protagonista nel Folchetto di Narbonne, sceneggiato da mio figlio Gabriellino?». Dal fondo del tavolo, la bella Jacobini lanciò un grido di esortazione: «Il sommo D’Annunzio ti ha riservato un grande onore!». E poi, guardandolo di sottecchi, aggiunse: «Come si può dire di no a un uomo come lui?».
“L’ultima diva”, Flaminia Marinaro, Fazi Editore, 192 pagine, 18 euro
· 34 anni dalla morte di Stefano Vanzina detto Steno.
Arianna Finos per “la Repubblica” il 6 ottobre 2022.
La Festa-Festival di Roma sotto il segno di Steno. La rassegna consegna ampio spazio e un premio dedicato (la giuria guidata da Carlo Verdone) alle commedie e un documentario delicato su Stefano Vanzina, 100 film, 48 anni di carriera e un'eredità cinematografica vitalissima: è fresco l'annuncio che Titanus farà una serie tv su Piedone, Salvatore Esposito al posto di Bud Spencer nel ruolo dello sbirro tra Napoli e il mondo.
Steno, firmato da Raffaele Rago (soggetto di Nicola Manuppelli), ripercorre la carriera dell'artista, da umorista del Marc'Aurelio - nave scuola di satira da cui nasce una schiera di talenti del cinema italiano del dopoguerra - alla saga di Totò nel sodalizio con Mario Monicelli, il primo film a colori del cinema italiano ( Totò a colori), il Totò ladro nella guerra (tra poveri) con la guardia Aldo Fabrizi.
«Totò ha capito subito che papà era buffo e lo ha amato», ricorda Enrico Vanzina. Film culto come Un americano a Roma - la locandina italiana più affissa nei ristoranti al mondo - con Alberto Sordi Nando Moriconi, lo spaghetto "m' hai provocato e io me te magno" e Mio figlio Nerone, con Vittorio De Sica e una giovanissima Brigitte Bardot, la prima cotta del giovanissimo Carlo Vanzina.
E la commedia dolce Susanna tutta panna, l'invenzione del poliziottesco con La polizia ringrazia che apre la strada a un filone nuovo, e Febbre da cavallo "col fischio", la soddisfazione di dirigere Orson Welles in L'uomo, la bestia e la virtù, «ne conquistò la stima. Sul set il primo giorno gli tremavano le gambe: vuole dare lei il primo ciak mister Welles? "No, it' s up to you"», racconta Enrico. Ancora, Amori miei, con Monica Vitti, insieme a Franca Valeri l'attrice che amava di più, ricorda ancora Enrico, «perché sapevano far ridere».
Oltre a ripercorrere la carriera sconfinata del cineasta scomparso nel 1988, il documentario si sofferma sulla personalità e sul privato del regista schivo, che si stupiva quando gli chiedevano l'autografo.
A raccontarlo, oltre a un commosso e commovente Enrico Vanzina, che ha consegnato preziosi materiali, foto e video di famiglia, attori e registi, da Giuseppe Tornatore che lo intervistò e ricevette preziosi consigli, a Claudio Amendola, Eleonora Giorgi, Lino Banfi, Diego Abatantuono, Neri Parenti, Giovanna Ralli, Teo Teocoli, Massimo Ranieri e altri.
«Guardando il film una parte del pubblico scoprirà che tanti film diversi che hanno amato appartengono a Steno. E scoprirà la cultura larga - grande conoscitore di musica e letteratura -, un modo di vivere e pensare che caratterizzava la famiglia Vanzina e che Carlo e Enrico hanno ereditato».
Quella di Stefano Vanzina è una storia personale inedita per il grande pubblico, dall'infanzia povera, orfano di padre a 15 anni, agli esordi duri, determinazione e serietà accompagnate a «una gentilezza ed educazione d'altri tempi che poi è stata disintegrata nella contemporaneità» racconta Caterina D'Amico. Un'eleganza fatta di giacche di tweed con cravatte assortite, baffetti curati, capelli lisciati dalla brillantina, la corporatura «esile ma con un'autorevolezza che lo rendeva un gigante, quando s' arrabbiava era incredibile, e anche un po' comico», ride Claudio Amendola.
«I suoi amori erano il cinema e la famiglia, gli amici - racconta Rago - Era un uomo gentile e riservato, sempre un passo indietro malgrado fosse uno dei più grandi registi italiani ». Si ripercorre il grande amore con la bella e volitiva moglie, Maria Teresa Nati, ma anche i dolori e la malattia di lei, il cui racconto porta le lacrime agli occhi di Enrico.
«Quando ha rivisto il film si è commosso - rivela l'autore del documentario - l'unica cosa che mi ha chiesto è stata di aggiungere un video in cui ci fosse Carlo. Il film è anche un omaggio a lui, così simile al padre per cultura e carattere». Emoziona il ricordo, di Marco Risi ed Enrico Vanzina, della morte di Steno: Risi racconta che papà Dino andò dai ragazzi a dire loro che ci sarebbe sempre stato. Il documentario racconta di una schiera di ragazzini figli di registi cresciuti insieme, perché allora il cinema italiano era fatto di una comunità solidale e creativa. Giuseppe Tornatore sottolinea come il cinema di Steno, «divertente e popolare, nascondeva elementi beffardi, un'ironia acuta, un sarcasmo non vago ma riferito al nostro contesto storico, capace di innescare elementi di riflessione critica sul costume nazionale ».
Per Rago, dietro a un'apparente leggerezza c'era «la capacità di lettura della società e la voglia di raccontare il proprio Paese in tutti gli aspetti. Il pubblico si identificava nei suoi film, in quelli di quella generazione di cineasti, perché sentiva che amavano profondamente il Paese, si sentivano partecipi nella costruzione del racconto dell'Italia. Anche quando Totò mette alla berlina l'esercito sconfitto si percepisce un amore verso una nazione che usciva dal fascismo e da una guerra sbagliata e persa».
Enrico Vanzina: «Quella generazione di registi è stata temprata dalle grandi difficoltà, erano giovani pieni di grandi slanci politici, c'erano discussioni, litigate: cercavano di immaginare un futuro, e questo li ha resi migliori».
· 33 anni dalla morte di Franco Lechner: Bombolo.
Estratto dell’articolo di Paolo Travisi per “il Messaggero” il 21 agosto 2022.
Tzè tzè. Bastano due semplici versi per identificare uno dei comici più popolari degli Anni 80. Per tutti, Bombolo, morto 35 anni fa: il 21 agosto 1987. Romano di via Monte Giordano, all'anagrafe Franco Lechner, cognome asburgico, di cui non voleva conoscere le origini. «Forse è un cognome nobile e mio padre ogni tanto ci diceva di voler andare in Austria a vedere l'albero ginecologico, noi lo correggevamo, poi ci ripensava e diceva meglio di no, altrimenti mi trovo pieno di buffi», racconta Stefania Lechner, seconda figlia di Bombolo, nata - con Daniela e Alessandro - dal matrimonio con l'unico amore della sua vita, Reggina Abbatiello.
[…] chissà in quanti sanno che il suo Tzè, tzè, suo cavallo di battaglia, nasceva da un difetto di pronuncia. «Papà aveva la zeppola, e parlava naturalmente così», spiega Stefania. Bombolo cresce nella Roma poverissima del Dopoguerra, dove lavorava come ambulante nel centro storico. «Mio nonno faceva il peracottaro, vendeva le pere cotte. Mio padre piatti, bicchieri e gli ombrelli d'inverno e le sdraio d'estate. Così ha mantenuto tutti noi», aggiunge Stefania Lechner.
«La svolta c'è stata da Picchiottino, l'osteria vicino a casa che diventava il suo palcoscenico. È proprio lì che nacque il personaggio di Bombolo, che non è un nome d'arte. Da ragazzino era cicciottello e tutti lo chiamavano così, mai Franco». A scoprirlo negli Anni Settanta, lì, Castellacci e Pingitore: lo videro e gli proposero il Bagaglino, dove iniziò a lavorare nove mesi l'anno con tre spettacoli al giorno. «Papà aveva 40 anni, non voleva fare l'attore. Fu mia madre a dirgli, mica lasci un lavoro fisso, se va male riprendi il carrettino». […] Bruno Corbucci, lo vide a teatro ed iniziò il sodalizio con Tomas Milian […]
· 33 anni dalla morte di Olga Villi.
Le magie di Olga Villi: guardiana di oche, poi sartina, indossatrice e famosa attrice. Ottavia Casagrande su Il Corriere della Sera il 19 Luglio 2022.
Sposò il principe Raimondo Lanza di Trabia che morì pochi mesi dopo il matrimonio.
Sul finire degli anni Trenta, nella portineria del Corriere della Sera, una ragazza timida aspetta. Alta, bella e giovanissima attende Bruno Fallaci, caporedattore dell’edizione pomeridiana. Nella Milano bigotta di allora, quella relazione con una ragazzina non ancora diciottenne dà scandalo e rischia di compromettergli la carriera. Del resto, Bruno sa bene di non poter legare a sé — ormai prossimo alla cinquantina — una donna così giovane. Decide quindi di sperimentare con lei il ruolo di Pigmalione, mettendosi in testa di incoraggiarne una segreta vocazione teatrale. Le impartisce qualche rudimento di recitazione. All’amico e storica firma del Corriere, Orio Vergani, che già le aveva insegnato a nuotare, affida l’educazione musicale. Dopo averle trovato la prima scrittura, la lascia libera, i due amanti si separano. Bisogna riconoscere a Bruno Fallaci un certo qual talento da Pigmalione: fu il primo maestro di scrittura della nipote Oriana e nemmeno le lezioni impartite a quella ragazza sono andate sprecate.
La carriera
Quella ragazza era Olga Villi, mia nonna. Olga nacque Villani il 20 Luglio 1922 a Suzzara. Sua madre, Roma, era sfollata in quel di Mantova a seguito dell’ennesima esondazione del Po. Il padre era ignoto. Da bambina, scalza, portava le oche a becchettare lungo gli argini delle rogge. Appena adolescente, inizia a lavorare come sartina — piscinina si diceva allora a Milano — dalla Biki, la couturière più in voga dell’epoca, madre di tutti i moderni stilisti meneghini. Cuciva i vestiti delle signore della buona società, delle cantanti della Scala. A quindici anni si trasforma, si allunga, si sfina. Da sarta viene promossa a indossatrice. «Il mio levriero» la chiama affettuosamente la Biki, il cui soprannome era stato coniato a sua volta da D’Annunzio. Tuttavia, alla prima scrittura Olga, oltre a Bruno, lascia anche la moda. Vuole dedicarsi al teatro. Debutta nel varietà a fianco di Erminio Macario, Nino Taranto e Anna Magnani. Rapidamente passa alla prosa. La prima scrittura è ne La quinta colonna di Hemingway, per la regia di Luchino Visconti. Poi entra in compagnia con Renata Morelli e Paolo Stoppa, in seguito con Gino Cervi. Recita Anouilh, Shakespeare, Williams, Pirandello. Olga guarda tutto, assorbe tutto. Osserva e, come aveva già dimostrato con Bruno, impara velocemente. Le lezioni impartitele da Orio Vergani le tornano utili quando nel 1966 si trova a duettare con Marcello Mastroianni, Raffaella Carrà e Ilaria Occhini in Ciao Rudy, il musical di Garinei e Giovannini, con musiche di Armando Trovajoli, ispirato alla vita di Rodolfo Valentino.
Sebbene di temperamento brillante, resta memorabile la sua Clitemnestra al Teatro Greco di Siracusa nell’Agamennone diretto da Vittorio Gassman e tradotto da Pasolini. Prolifica la collaborazione con lo Stabile di Genova di Ivo Chiesa. Lunghissimo l’elenco delle commedie brillanti accanto ad Aroldo Tieri ed Ernesto Calindri, quando il teatro in Italia scoppiava di salute e di spettatori, le compagnie erano di venti, trenta attori e giravano la penisola da settembre a giugno. Olga affronta anche la televisione — sceneggiati, caroselli — e il cinema. Vince un Nastro d’argento per l’interpretazione di Ippolita Gasparini in Signore e signori di Pietro Germi, con Virna Lisi e Gastone Moschin. Con Ugo Tognazzi interpreta Il fischio al naso, tratto da Buzzati. Con Totò recita in Totò e le donne e Yvonne La Nuit, una commedia struggente che vede il comico in uno dei rari ruoli drammatici della sua carriera. Il teatro tuttavia rimane il suo destino. A quanto pare, il viso spigoloso e il naso affilato non prendono bene la luce e non sono adatti al cinema. Il suo marchio di fabbrica restano la falcata elegante, il passo lungo ed elastico, che combinati con «le gambe più belle d’Italia», la rendono unica e inimitabile.
Il matrimonio
Nel 1954 sposa Raimondo Lanza di Trabia, eccentrico aristocratico siciliano, creatore del calciomercato, immortalato da Modugno nella canzone Vecchio frac. Spettatori, critici e rivali si aspettano che Olga smetta di lavorare e si rassegni a una vita da principessa. Quando mai! Raimondo è costretto a partire in viaggio di nozze da solo, perché Olga non ha nessuna intenzione di rinunciare alle sue tournée. Lungi dal disperarsi, era piuttosto orgoglioso di essere il primo uomo ad aver trascorso la luna di miele in solitaria. Quando neanche dieci mesi dopo il matrimonio morì in circostanze misteriose, cadendo da una finestra dell’Hotel Eden di Roma, Olga si trovava a Milano. Aveva appena terminato di registrare uno sceneggiato e iniziava le prove di un nuovo spettacolo. Naturalmente corse nella Capitale, ma era troppo tardi. Era incinta e non lo sapeva. Qualche mese più tardi nacque mia madre, Raimonda, che non avrebbe mai conosciuto suo padre. Quando con mia madre iniziammo le ricerche per Mi toccherà ballare (Feltrinelli 2014), la biografia su Raimondo, la prima persona che intervistammo fu Gerlando Micciché. La scelta era ovvia, anzi obbligata. Gerlando, vicedirettore del Banco di Sicilia, oltre a essere un’incontestabile autorità circa fatti e intrecci siciliani, aveva conosciuto di persona tutti i protagonisti del libro che ci accingevamo a scrivere. Sul finire del colloquio, scosse il capo: «Voi non dovreste scrivere la vita di Raimondo. Voi dovreste scrivere la vita di Olga». Gerlando era sentimentale e amava l’Italia del futuro, delle possibilità, delle occasioni. Il Paese nel quale era stato giovane: un Paese in grado di riscattarsi attraverso il lavoro e attraverso le rivincite del progresso. Parlo dell’Italia del dopoguerra, naturalmente. Lo stesso Paese in cui una guardiana di oche poverissima poteva diventare una sofisticata mannequin prima e attrice famosa poi; dove una giovane donna, figlia di N/N, poteva sposare un principe affascinante e scapestrato e, vedova dopo appena nove mesi, riusciva a ricostruirsi una vita con due figlie a carico, senza smettere di perseguire la propria passione, il teatro.
· 32 anni dalla morte di Ugo Tognazzi.
Prefazione di Ricky Tognazzi alla riedizione del libro di suo padre Ugo, “Il rigettario” (ed. Rizzoli), pubblicato dal “Fatto quotidiano” il 22 novembre 2022.
Nel corso di tutta la sua straordinaria esistenza, papà ha sempre utilizzato la cucina per nutrire chi aveva accanto, la famiglia, gli amici di sempre, i colleghi vecchi e nuovi, per sedurre i produttori, le mogli, le amanti, in un unico gesto d'amore, un rituale autentico che diventava espressione della sua accoglienza e del suo desiderio di convivialità, il suo teatro. Il cinema gli aveva dato tanto: successo, soldi, popolarità, ma gli mancava l'applauso a scena aperta, l'emozione di esibirsi dal vivo.
Sopportava le critiche più feroci all'ultimo film, ma era del tutto intollerante ai giudizi negativi sulla sua ribollita, anche perché era finalmente riuscito a coltivare il cavolo nero nel suo orto. Ugo, infatti, era un papà a chilometro zero, che coltivava le sue meraviglie nell'orto di Velletri. Vino, olio, uova, galline, oche, papere, Gigetto il maiale, frutta e verdura, tutto mantenuto con l'acqua di un pozzo. (...) Lo chiamavamo "il matriarca": "Non potendo allattare i miei figli, io cucino per loro" diceva, fiero.
Così la cucina era un modo per diventare proprio quel cibo che gli altri avrebbero dovuto mangiare: Ugo insieme al cibo donava se stesso, in un rito quasi religioso. Quando a Velletri, durante i fine settimana, noi figli scendevamo assonnati e affamati in tarda mattinata, lui era già sveglio dall'alba e alle undici aveva già divorato i quotidiani, messo a bollire i sughi e a marinare le aringhe per Thomas, il fratello norvegese.
E mentre ci faceva la rassegna stampa, distribuiva le cipolle da affettare, i pomodori da passare, il brodo da filtrare. Era un autodidatta con grandi competenze professionali, la sua estrosità era infinita e non poteva che provare a raccoglierla in diversi libri di ricette. Tentando di mantenere quasi un'agenda della sua arte culinaria, ecco che faceva pubblicare i libri, ma non bastavano mai. Il rigettario è il secondo dei suoi quattro volumi di cucina. Il quinto, quello che non è riuscito a finire, era un ambizioso dizionario gastronomico, che includeva un inventario degli utensili e degli attrezzi di cui disponeva a casa e di quelli che disgraziatamente gli manca vano.
Tra i primissimi compariva "l'ago in osso di cavallo", che serviva a testare la stagiona tura del maiale: lo "spillatore" annusava il prosciutto con l'osso della tibia del cavallo. Una procedura da esperti, antichissima, che Ugo non poteva certo disconoscere. Insomma, un uomo che non si è mai accontentato solo di mangiare, ma che ha voluto esplorare l'intero universo della cucina, portando con sé tutto ciò che aveva visto e sperimentato nel mondo: è così che è riuscito a cucinare persino una ventresca di balena o una coscia di ippopotamo, certo in tempi diversi da questi, quando non saresti incorso nelle ire della legge e di chi, con il buonsenso di oggi, ha imposto delle regole per proteggere flora e fauna.
Un'estate a Torvajanica papà portò in tavola il famoso pesce finto, una scultura a forma di pesce, appunto, composta da un impasto di patate, maionese, capperi e - naturalmente - il tonno. Un piatto semplice, delizioso ed economico che papà preparava come antipasto quando gli ospiti erano in esubero. Il piatto era squisito, solo ogni tanto ci si ritrovava tra i denti qualche anomalo ossicino. Incrociai lo sguardo di Ugo, che mi fece cenno di seguirlo in cucina mentre gli ospiti si cibavano beatamente del pesce finto. Si aggirava per la dispensa piena di scatolame dannandosi e dicendo tra sé: "Come ho potuto? Potremmo morire tutti!
Avvelenati!". "Come è possibile?" "Ho usato il cibo per i gatti. " Strabuzzai gli occhi nella speranza di vomitare ciò che avevo appena ingerito. A quel punto minimizzò: "Ricky, i nostri gatti sono sanissimi e grassi. Quindi questo cibo è commestibile anche per noi". Ma dopo pochi secondi Carmina, la sua straordinaria assistente ciociara, che ci aveva cresciuto, ritirò il pesce finto dalla tavola mentre gli ospiti protestavano: "No, ancora, ancora!". Ma Ugo disse: "Lo diamo ai gatti!".
Quindi geniale, sperimentale, poliedrico, innovatore. Le sue ricette, dai titoli quasi cinematografici: Il risotto al blu di metilene, Le farfalle fucsia, Le tagliatelle alle nocciole, Il risotto prosciutto e melone, Le costolette alla Mao, La Checca sul rogo, La spigola al cartoccio con funghi porcini e chi più ne ha più ne metta, vengono ancora cucinate dalla famiglia, dai suoi amici ristoratori tra i quali eccelle Benito Morelli, di Benito al Bosco a Velletri e, in occasione dei suoi anniversari, a Cremona gran parte dei ristoranti offre ricette di Tognazzi.
Il titolo Il rigettario nasce dalla filosofia del rigetto, come spiega Ugo nella sua prefazione: il rifiuto cioè di tutto ciò che è convenzionale, il suo anticonformismo non solo applicato alle scelte coraggiose nel suo lavoro, ma anche alla sua cucina. (...) Ha scritto que sto libro a Quiberon, in una lussuosissima clinica per dimagrire, che non sacrificava al dimagrimento l'esigenza gastronomica: medaglioni di aragosta, gamberi crudi, caviale, ostriche vive. Era partito insieme all'amico di sempre, il regista della Grande abbuffata (1973), Marco Ferreri, perché anche per perdere peso, pur salvando il palato, Ugo aveva bisogno di un complice. E proprio lì è nato il libro più colorato, più gustoso, più succoso e più invitante che si potesse scrivere durante una dieta.
Tognazzi l’irregolare: da repubblichino di Salò, a “capo delle Br” fino al Partito Radicale. Censurato in tv con Vianello, in un’intervista con Pippo Baudo appoggiò le battaglie di Marco Pannella. Valter Vecellio su Il Dubbio il 15 novembre 2022.
Ugo Tognazzi: il suo primo vagito cent’anni fa, in quella Cremona famosa per il suo “Torrazzo”, i torroni, le mostarde, Stradivari; e per essere stata la città di Roberto Farinacci, uno dei “duri” del fascismo. Un giovanissimo Ugo, come molti (Giorgio Albertazzi, Walter Chiari, Dario Fo, Marcello Mastroianni, Enrico Maria Salerno, Raimondo Vianello, per dire dei primi che vengono in mente), aderisce alla Repubblica di Salò. Capita da giovani di fare sciocchezze (spesso anche “dopo”). Certo provarlo a immaginare l’Ugo in orbace fa lo stesso effetto, comico e patetico, di Primo Arcovazzi, il protagonista de Il Federale di Luciano Salce; chissà cosa a pensa mentre gira quel film… Non solo attore. Tognazzi è stato anche non disprezzabile regista, sceneggiatore teatrale, cinematografico, televisivo. Con Vittorio Gassman, Nino Manfredi, Marcello Mastroianni, Alberto Sordi, un pokerissimo del cinema italiano. Ci lascia presto: 68 anni appena…, il 27 ottobre 1990.
Giustamente lo si ricorda con Vianello, coppia di grande successo che dal 1954 al 1960 lavora per la neonata Rai Tv; e per tanti film: con Alberto Bevilacqua (La Califfa, 1971; Questa specie d’amore, 1972); con Bernardo Bertolucci ( La tragedia di un uomo ridicolo, 1981, gli vale la Palma d’Oro al Festival di Cannes). Ancora: La marcia su Roma ( 1962) di Dino Risi; il citato Il federale ( 1961) di Salce; la trilogia Amici miei ( 1975, 1982, 1985), e Il Vizietto ( 1978, 1980, 1985); Molti i film da regista: Il mantenuto, 1961; Il fischio al naso, 1966; Sissignore, 1968; Cattivi pensieri, 1976; I viaggiatori della sera, 1979). Il tanto teatro: da I Sei personaggi in cerca d’autore, a L’avaro, e M. Butterfly.
La dice lunga, sui tempi che sono appena “ieri”, la censura televisiva subita quando, il 25 giugno del 1959, con Vianello mette in burla l’incidente capitato la sera prima alla Scala di Milano, taciuto dai giornali: il presidente della Repubblica Giovanni Gronchi vuol essere galante con una signora, e cade rovinosamente a terra per la sottrazione della sedia, sotto lo sguardo di un divertito Charles De Gaulle. Tognazzi e Vianello ripetono la scena in tv: Vianello toglie la sedia a Tognazzi, che cade; Vianello gli grida: ‘ Chi ti credi di essere?’. La sera stessa la trasmissione è cancellata, cacciato il direttore della sede di Milano.
Vent’anni dopo, nel 1979, Tognazzi prende parte a uno dei più clamorosi ‘ scherzi’ mediatici: si fa fotografare ammanettato da finti poliziotti. Lo sberleffo è organizzato dal settimanale satirico Il Male: tre finte edizioni de Il Giorno, La Stampa, Paese Sera, titoli cubitali annunciano l’arresto dell’attore in quanto ‘ grande vecchio’ delle Brigate Rosse. Della ‘ Direzione strategica’ fa parte anche Vianello. L’ispettore di polizia è ‘ interpretato’ da un serissimo Sergio Saviane; Vincino, geniale disegnatore morto troppo presto, è uno dei poliziotti che ‘ arrestano’ Tognazzi.
C’è poi l’intervista- sberleffo in diretta tv a un Pippo Baudo che quasi sviene: Tognazzi auspica la liberalizzazione della marijuana; denuncia lo scandalo dell’interminabile detenzione di Toni Negri; infine si pronuncia per la legalizzazione della prostituzione.
Una cosa non viene ricordata: la sua iscrizione al Partito Radicale. È il 1986. Il partito è allo stremo; chiede a chi crede nelle battaglie che conduce, di iscriversi. Accorrono dalla Francia Eugène Ionesco e Marek Halter; poi Lindsay Kemp, Michele Pantaleone, che apre una sezione radicale nella sua Villalba, cuore di una Sicilia ancora appestata di Cosa nostra; si iscrive Sandra Mondaini, che d’ufficio ‘ arruola’ il marito Vianello. Tra i tantissimi anche Tognazzi. Al riguardo, un aneddoto divertente: si iscrivono anche Vincenzo Andraous, Cesare Chiti e Giuseppe Piromalli: ergastolani che hanno praticamente infranto tutti i reati possibili contemplati nel codice penale.
Iscrizioni ‘ imbarazzanti‘ per tutti, non per Pannella che anzi le strombazza ai quattro venti. Qualche giornale pubblica la loro fotografia assieme a quella di Tognazzi; lui si adonta per l’accostamento, minaccia sfracelli, gli fai il nome di Pannella e partono raffiche di invettive e anatemi. Come finisce la storia? L’arrabbiatura dura una settimana; poi Tognazzi si ri-iscrive, con tutta la famiglia… Ecco: Tognazzi è stato anche questo.
Luciano Di Bacco per Dagospia il 30 Agosto 2022.
Lucilla Quaglia per “Il Messaggero – Edizione Roma” il 30 Agosto 2022.
La kermesse dedicata al centenario di Ugo Tognazzi volge al termine, con un grande successo di pubblico e vip. Ieri sera, sulla piazza Ungheria di Torvaianica, di fronte ad un'incantata e coinvolta platea di amici, artisti e attori, si è conclusa la parte cinematografica. Una chiusura in grande stile.
Sul palco sale la bellissima Violante Placido: presenta il suo videoclip Tu stai bene con me, che riprende il film di Marco Ferreri La donna scimmia ed è girato con il compagno e regista Massimiliano D'Epiro. «La storia del riscatto di una donna dice la Placido che non rispecchia i canoni estetici tradizionali ma si accetta come è e trova anche l'amore». Ed è un successo.
Come il film I cassamortari di Claudio Amendola, presentato poco dopo. Il regista si collega in diretta con il festival ringraziando la piazza e gli organizzatori, che gli assegnano il premio alla carriera cinematografica: ovvero una bella scultura in legno di Ferdinando Codognotto, grande artista e amico di Ugo. Da segnalare, sempre nel cast del film di Amendola, Massimo Ghini: a lui va invece il premio I mostri, proprio come il celebre titolo.
Nel corso di un video messaggio l'attore romano spiega, dopo aver citato la storica supercazzola del mattatore in celebrazione, che è assente perché impegnato con un nuovo lavoro in cui interpreta un vampiro. Poi racconta la sua esperienza sul set con Ugo nella pellicola La battaglia dei tre tamburi di fuoco. La platea gradisce e applaude.
Si riconoscono Ricky, Gianmarco e Maria Sole Tognazzi. Tutti molto colpiti dai ricordi degli attori. Arrivano a sorpresa, gli attori Iaia Forte e Tommaso Ragno. Il Premio Città di Torvaianica, infine, va all'attrice Simona Patitucci.
Ma le celebrazioni di 100% Ugo non si fermano qui. Oggi parte il torneo di padel La padella d'oro che si concluderà domani. Trenta giocatori vip si contenderanno la padella d'oro: rievocazione dello storico scolapasta, ambitissimo premio dei tornei di tennis organizzati dall'interprete de La voglia matta.
Questa sera inoltre Michele Placido ritirerà il premio scultura Dallo scolapasta al padel, firmato Codognotto, mentre sosterranno i giocatori dalla tribuna anche Michela Andreozzi e Patrizia Pellegrino. Scenderanno in campo, tra i tanti, Massimiliano Vado, Dino Abbrescia, Roberto Ciufoli, Antonio Giuliani, Giorgio Borghetti, Max Giusti e Marco Bonini. E che vinca il migliore.
Lu.Qua. per “Il Messaggero – Edizione Roma” il 30 Agosto 2022.
Ricordi e gare. Le celebrazioni di 100% Ugo si chiudono con allori eccellenti e una notevole manifestazione agonistica. Il grande regista e attore Michele Placido ritira il premio scultura Dallo scolapasta al padel, firmato dal celebre scultore del legno Ferdinando Codognotto, tra il plauso in primis della famiglia Tognazzi. Per l'occasione quasi al completo.
Si prosegue a suon di sport con la due giorni del torneo di padel che si è conclusa ieri sera sui campi di Torvaianica. Trenta giocatori vip si sono contesi la padella d'oro: mitica rievocazione dello storico scolapasta, ambitissimo premio dei tornei di tennis organizzati dall'interprete de La voglia matta. E come si conviene, non mancano le presenze femminili glam lungo gli spalti.
Ed ecco fare il tifo per gli atletici e famosi giocatori anche Patrizia Pellegrino e Emanuela Tittocchia, in corto abito fucsia. Sono scesi in campo, tra i tanti, Jimmy Ghione, Massimiliano Vado, Marco Risi, Leonardo Metalli, Dino Abbrescia, Roberto Ciufoli ma anche Dario Bandiera, Antonio Giuliani, Simone Colombari, Stefano Natale, Andrea Rivera, Giampaolo Gherarducci, Max Giusti e ancora Manuele Labate, Marco Bonini, Gianmarco Tognazzi, Giulio Base, Padraig O'Broin, parente della famiglia Tognazzi, Edoardo Siravo, Edoardo Bettoja, Marco Aceti, Andrea Delli Colli, Marco Minetti e il giornalista Pierluigi Pardo.
La lotta è stata davvero serrata. La prima giornata è vinta dal duo Jimmy Ghione e Padraig O'Broin. Tra i favoriti del secondo round Max Giusti e l'attore Simone Colombari. Conduzione a cura di Fabrizio Sabatucci. A sorpresa appare il regista Riccardo Milani: arriva tra gli spalti e riceve il premio Romanzo popolare, che non aveva ritirato giorni fa. Ecco Massimo Ghini. Dinner buffet nel corso del torneo a base di cous cous, lasagne, formaggi, melanzane, bollicine.
Cento anni fa la nascita. Chi era Ugo Tognazzi, grande attore che abbiamo dimenticato. Fulvio Abbate su Il Riformista il 23 Marzo 2022.
Ugo Tognazzi, cento anni adesso, esatto coetaneo di Pier Paolo Pasolini, che lo volle in Porcile, film allegorico sul potere. Per lungo tempo il suo talento non mi ha sfiorato. Invisibile, ai miei occhi inizialmente distratti, la straordinaria, immensa, sempre sua, capacità di restituire una recitazione priva di retorica, asciutta, pura misura, ora dolente ora rassegnata, sarcasmo nel fondo dello sguardo; se stesso. Colpa o merito, forse, di un dato, come dire, geografico, antropologico.
Tognazzi, tra i “colonnelli” della cinematografica commedia all’italiana – Sordi, Gassman, Manfredi, Mastroianni, e la Vitti insieme a loro – Tognazzi restituiva infatti altri campanili, lontani da Roma, da Cinecittà e i suoi “cestini” destinati alla caciara dei set, da certa koinè che suscita complicità retorica capitolina, in grado di restituire empatia meridionale immediata. Per lui occorreva figurarsi Cremona, lo stesso luogo di Mina; il Nord, la Pianura Padana, la nebbia, i portici, le biciclette.
Così finché non mi è venuto incontro insieme a un film di Marco Ferreri, un regista cui Tognazzi molto ha dato e dal quale altrettanto ha ricevuto. Esattamente era L’udienza (1972), dove Tognazzi interpreta un commissario di pubblica sicurezza presso la Città del Vaticano. Ne ho compreso la grandezza espressiva, essenziale, immediata per un gesto minimo, asciutto e insieme significante: spezzare le noci sul tavolo della cucina con un manganello, proprio lo sfollagente in dotazione alla Celere.
Ugo Tognazzi, storia nota, giunge alle scene dalla scuola del varietà, autodidatta, nessuna accademia, solo il suo talento, l’indole, la voglia matta, così come un film a venire, di chiudere con il ricordo della guerra, consegnarsi a una professione ludica, poi, come bagaglio somatico, mimico, un volto, una faccia all’apparenza anonima, da assicuratore, come già suo padre. Dapprima in coppia con Raimondo Vianello nella finestrella televisiva in bianco e nero dei primissimi anni Sessanta. Che piccino scandalo lo sketch dove ironizzavano sul presidente della Repubblica, Gronchi, caduto dalla sedia durante un ricevimento ufficiale con De Gaulle, oppure quell’altro, comicamente irrefrenabile, del tronco d’albero dal quale si ricava un solo stuzzicadenti, il “troncio” dell’immaginaria Val Clavicola. E commediole da visione pomeridiana tra porta carraia, garitta e pontile di Capitaneria, come Marinai, donne e guai, così nel 1958, o sempre lui in divisa fante o da pompiere insieme a Walter Chiari, altro immenso autodidatta. La pellicola che lo ha reso però popolare, prossimo al pubblico, è Il federale di Luciano Salce, commedia dolce-amara, anno 1961, dove si racconta il passato ancora prossimo del fascismo, Tognazzi sul sidecar: “… buca, buca, sasso, buca con acqua, buca con fango”. Tognazzi antieroe, i tratti del volto declinanti, l’aria tra bastonato e scafato, o magari più semplicemente scettico.
Troneggia ancora nel personaggio di Gigi Baggini – “… facce er treno!” – in Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli, del 1965, semplice cameo che in verità diventa una struggente Iliade degli sconfitti, del cinismo crudele altrui. O la straordinaria prestazione ne I mostri, dove è Enea Guarnacci, derelitto impresario di pugili altrettanto anime morte, tra rimpianto dei ring di quartiere e la spiaggia di Ladispoli. Struggente e immenso nel finale accanto a Vittorio Gassman-Artemio Altidori ormai in sedia rotelle, Enea gli gira intorno con un aquilone, pochi passi appena; stenografia gestuale del dolore e del disincanto. Poi le vette di un cinema paradossale, grottesco, forse anche metafisico, così torna al Marco Ferreri di La donna scimmia insieme a una barbuta Annie Girardot: eccoli nei vicoli di Napoli mentre intonano “La novia”, un brano di quei giorni, nella crudeltà del paradosso. Impossibile da dimenticare ancora ne La marcia su Roma, nuovamente accanto a Vittorio Gassman. Tognazzi, in parte si è già detto, è forse stato l’unico grande interprete del nostro cinema a concedere se stesso a una filmografia “concettuale”, proprio con l’esperienza che lo mostra complice, maschera, feticcio, volto di Marco Ferreri; così come Marcello M. lo è stato di Federico F.
Neppure bisognerà dimenticare il suo contributo alla commedia “civile”, è il caso di In nome del popolo italiano (1971) di Dino Risi, film ultimativo di un genere già a colori, o l’inenarrabile parodia del golpe Borghese, Vogliamo i colonnelli (1973) di Mario Monicelli, e Romanzo popolare dell’anno successivo, un piccolo capolavoro. Oppure tornando indietro La vita agra dal romanzo di Luciano Bianciardi. Bisogna però pensare a La grande abbuffata per registrare il suo unicum espressivo, ancora Marco Ferreri. Peccato, che per molti Tognazzi sia soprattutto il conte Mascetti a Amici miei, il tormentone della “supercazzola”, entrato perfino nel lessico giornalistico e da baretto, film che lo stesso Monicelli, dopo averlo ereditato da Germi, riteneva non meritevole di del successo popolare ottenuto. Tognazzi si racconta da regista nel cupo I viaggiatori della sera (1979), di cui l’amico Raimondo Vianello disse: “L’abbiamo visto soltanto io e lui”. E ancora, tra i successi al botteghino, la commedia Il vizietto (1978), pessima traduzione del titolo originale francese, La cage aux folles. E stavo dimenticando, restando nella metafisica kafkiana, un piccolo gioiello come Il fischio al naso tratto da Dino Buzzati. Oppure La terrazza di Ettore Scola, Casotto di Sergio Citti… Infine I nuovi mostri (1977), dove Tognazzi nell’episodio “Hostaria!” è un cuoco gay, irresistibile la sequenza della lite in cucina con il fidanzato “bujaccaro” interpretato Vittorio Gassman, tra improperi – “ma vada via il cul…” – e colpi di mattarello, apologo d’amor omosessuale avanti lettera in un contesto di popolo inenarrabile davanti al menu che innalza la “pasta alla porcara”. Lo rammentiamo poi in Straziami ma di baci saziami di Dino Risi, nel ruolo del sarto muto Umberto Ciceri, una grande prova di mimica.
Nell’ideale cinemondo che altrettanto accompagna la sua avventura pubblica e insieme privata vive invece nell’età dell’oro mondano del “Villaggio Tognazzi”, laggiù a Torvaianica: i tornei di tennis, il trofeo dello Scolapasta d’oro, le gare ciclistiche; i suoi ragazzi, Ricky, Gianmarco, Thomas, Maria Sole quando raccontano papà sempre lo chiamano “Ugo”, i colleghi amici, Luciano Salce, Paolo Villaggio, Monicelli… Perfino la volta in cui si rese complice dei “compagni” del giornale satirico “Il Male” che titolò “Ugo Tognazzi è il capo delle Brigate rosse!” con tanto di foto del suo presunto arresto con Sergio Saviane nella parte del commissario e Vincino in divisa di carabiniere a trattenerlo, Tognazzi portato via dalla sua cucina, ancora addosso la parannanza. Qualcuno credette davvero che quelle false prime pagine esposte nelle edicole corrispondessero al vero. La sua passione per cucina coltivata nella casa di Velletri di cui prosaicamente si narra altrettanto sempre, che trova la sua summa editoriale in una raccolta di pietanze, “Il Rigettario”, ogni menù disegnato da lui stesso con i pennarelli colorati. Ricky, nello straordinario documentario che gli ha appena dedicato, ne racconta i giorni dolenti, gli ultimi, la depressione, la sensazione che il mondo del lavoro cinematografico si fosse dimenticato di lui, rimosso. Poco prima di lasciarci a soli 68 anni nell’ottobre del 1990. Lo ricordiamo seduto, immobile, silenzioso all’“Hemingway”, giorni romani, l’ultimo soffio di vita mondana conosciuta a Roma, nell’oro della pace serale dei tardi anni Ottanta, lui dolente nel brillio tutt’intorno. 100 anni oggi; Ugo, la storia del nostro cinema.
Fulvio Abbate. Fulvio Abbate è nato nel 1956 e vive a Roma. Scrittore, tra i suoi romanzi “Zero maggio a Palermo” (1990), “Oggi è un secolo” (1992), “Dopo l’estate” (1995), “Teledurruti” (2002), “Quando è la rivoluzione” (2008), “Intanto anche dicembre è passato” (2013), "La peste nuova" (2020). E ancora, tra l'altro, ha pubblicato, “Il ministro anarchico” (2004), “Sul conformismo di sinistra” (2005), “Roma vista controvento” (2015), “LOve. Discorso generale sull'amore” (2018), "Quando c'era Pasolini" (2022). Nel 2013 ha ricevuto il Premio della satira politica di Forte dei Marmi. Teledurruti è il suo canale su YouTube.
Enrico Sisti per “la Repubblica - Roma” il 23 marzo 2022.
Un uomo particolare con una vita fatta di giornate particolari, un'altra gemma composita, viso, intonazioni, smorfie, degli anni in cui il cinema italiano era veramente l'isola dei giganti, comici nati comici, comici pescati nel drammatico, comici perché funzionava così, comici per il grande schermo, la televisione, la rivista, comici con una vena drammatica che li rendeva ancora più speciali.
Tognazzi era, in quello scenario, una specie di inviato dal nord sempre pronto a vivere in diretta e ad arricchire le battute e le ambientazioni in cui, fatalmente, prevaleva il romanesco dei suoi compagni di viaggio, da Vittorio Gassman, che poi era nato a Genova, a Nino Manfredi e Alberto Sordi. Quel Tognazzi così stilisticamente ancorato alla sua terra, scelse però di riposizionarsi qui da noi, a Velletri e a Torvajanica.
Sui colli crebbe la sua vita privata e sentimentale, lì divenne padre a ripetizione, lì aprì la villa alle feste. Sulla riva del mare esplorò la cucina con una vena di velleitarismo e di lucida consapevolezza: una gastronomia amata, la sua, discussa, a volte sbeffeggiata, sicuramente "usata", che ha portato alla deificazione controversa di un personaggio reale totalmente alternativo all'attore.
Sino alla creazione, quasi inevitabile, del celebre "Villaggio Tognazzi". Cremonese, tifoso del Milan, incapace di rispettare le regole e, nel contempo, incline a inventarne di nuove, Tognazzi fu l'unico a non prestarsi (come fece per esempio il Celentano attore) alla dominante lingua del cinema: il romanesco. Non per opposizione, ma per convenienza. I suoi personaggi, parlando quel " nordico" generico, tra lumbard e veneto, proponevano qualcosa di esotico che si incastrava a meraviglia nel contesto delle sceneggiature di Cinecittà e nel gramelot televisivo (pensate alla coppia Tognazzi- Vianello).
Tre esempi: in Io la conoscevo bene, l'attore fanfarone Biaggini si contrappone con la sua burbera calata settentrionale alla verace sostanza romanaccia del produttore Cianfanna (Manfredi). I personaggi erano Tognazzi, non il contrario. Il Mascetti di Amici miei chi era se non lui stesso, sfrontato, cinico, fatalista e spiritoso? Tognazzi avvicinava tra di loro le piccole produzioni e i film di maggior spessore, favorendo l'impressione che tra Totò nella luna e Romanzo popolare, tra Psycosissimo e L'udienza, tra I tromboni di Fra' Diavolo e La tragedia di un uomo ridicolo, tra Il federale ("buca buca con acqua!") e Il petomane non vi fosse alcuna differenza.
E sempre sul contrasto fra alto e basso, sull'armonia di dialetti diversi, puntava lo spettacolare Nell'anno del Signore di Magni, dove il Cardinal Rivarola/ Tognazzi è all'opposto di tutto, incluso il Papa che egli stesso serve. Epica la scena nella seconda metà del film. Scoperto che il ciabattino Cornacchia (Manfredi) non è analfabeta ma sa leggere e scrivere (è lui Pasquino!), a Roma comincia a circolare la voce e tutti mormorano: "Bono a sapesse!".
Ma il Cardinal Rivarola, ripreso in quel momento soltanto dal collo in su, scandendo la corretta pronuncia proprio con l'intenzione di sollevarsi dal misero e corrotto mondo della ribellione, non si adegua e dice: "Buono a sapersi!". Ecco: Tognazzi è questa ostinata, poetica diversità. Che tutti difesero. Perché era chiaramente una marcia in più. E non su Roma. Ma con Roma.
Ricky Tognazzi per “Specchio – La Stampa” l'1 agosto 2022.
Lo diceva Pasolini, «noi siamo quelli che hanno visto il mare», e quelli come me, poco più giovani di lui, nati tra gli anni Cinquanta e Sessanta con il boom economico, ci siamo cresciuti al mare, noi che avevamo i piedi pizzicati dalle tracine di Torvajanica, di Ostia, di Fregene, noi che avevamo il mare vicino a Roma, quel mare trasparente che abbiamo visto solo noi, perché oggi i nostri figli, i nostri nipoti per vedere il mare, quello bello, che noi avevamo ad un passo da casa, devono andare in giro per il mondo, fare venti ore di volo, fino alle Maldive e trovare quei pesci meravigliosi che noi non abbiamo mai visto, perché avevamo le tracine, gli scorfani, le sardine, il pesce azzurro, le telline, le meduse grandi come torte nuziali che si spiaggiavano sulla battigia bianche e trasparenti e le infilzavamo come spiedini con i remi dei canotti, anche se erano innocue; questi pesci, anche se non c'era la barriera corallina, erano stupendi perché erano i nostri.
Biglie e vulcani Ho ancora nella mente il profumo di salsedine dei tre mesi di vacanza al mare, i nostri genitori, ci mollavano sulla battigia, che trasformavamo in cittadelle di piste per le biglie, con curve paraboliche solcate dal sedere dell'amichetto di turno trascinato per i piedi, i castelli diroccati dal passaggio distratto dei bagnanti e al tramonto, i vulcani di sabbia che non si accendevano mai; avevamo sempre un gran da fare sotto al sol leone e poi, di notte, le mani di mia madre che mi spalma sulla schiena paonazza quel miracoloso e soprattutto gelido unguento di bianco d'uovo e olio d'oliva.
Il bagnino abbronzatissimo, con la catena d'oro al collo, orgoglioso, mani sui fianchi, accanto al suo pattino rosso fiammante e le Kodak instamatic, con il rullino che non sviluppavi mai, ti rimaneva nel cassetto per tutta l'estate e, a volte, anche tutto l'inverno, finché un giorno non lo ritrovavi per caso, lo facevi sviluppare dal fotografo e riaffioravano i ricordi di una vita e mezza fa.
Poi i panini che si riempivano di sabbia, il cocco fresco, il ghiacciolo arcobaleno, lo jo jo, le battaglie di bombe d'acqua, i primi baci dietro alle cabine e quel senso di libertà che i nostri figli, e ancor di più i nostri nipoti, non hanno mai vissuto perché, i ragazzi, oggi, di libertà ne hanno fin troppa e bisogna tenerli al guinzaglio perché c'è il bullismo, c'è la droga e ci sono "gli uomini cattivi che ti portano via".
L'estate sembrava non finire mai, eppure gli amichetti più cari e le fidanzatine li conoscevi sempre troppo tardi, l'ultimo giorno, che avevi già le valige pronte per tornare a casa.
Meglio di Venezia Per me l'estate era papà, l'inverno era mamma, la scuola a Milano, poi in Inghilterra. Ma a giugno, mi dirigevo a Torvajanica, in quel posto magico, di fianco alla pineta della tenuta presidenziale dove è nato il Villaggio Tognazzi. Non perché quel luogo fosse di papà ma perché Ugo che, a quel posto, aveva letteralmente dato i natali. Lì, la famiglia si è allargata, è nato prima Gian Marco, poi Maria Sole, poi è arrivato il biondo Thomas dalla Norvegia, che aveva già otto anni, non sapevamo che fosse nostro fratello ma lo è diventato presto, nel modo più naturale possibile.
Durante l'estate sbocciava una vita diversa, prendeva forma un'altra quotidianità basata sull'amore di una famiglia aperta, priva di pregiudizi.
La mia estate, era anche il torneo di tennis, il mitico "Scolapasta d'oro" che era la risposta ironica e godereccia di Ugo alla banale e frugale "Insalatiera d'argento" della coppa Davis; perché il torneo, il tennis, erano il pretesto per aggregare gli amici, i colleghi, gli attori, i registi quasi tutti delle gran pippe a tennis ma era lo stesso, perché era sempre festa e la gente veniva soprattutto per mangiare i mitici spaghetti di papà, conoscere gente e ridere insieme; Michele Placido disse che era più facile trovare lavoro allo "Scolapasta d'oro" che al festival di Venezia, perché lì, a casa di papà, c'erano proprio tutti: Monicelli, Gassman, Salce, Pontecorvo, Pavarotti, Diletta D'Andrea, le gemelle Kessler; una volta vennero anche i Rolling Stones, che non giocarono a tennis e non mangiarono nemmeno gli spaghetti ma si fecero una canna in giardino.
Il colpo di scena Franca, organizzava tutto insieme a papà, Nazarena e Carmen, le sue due assistenti ciociare che lo aiutavano a fare queste enormi padellate di sughi, di cozze, di pesci innaffiati dal vino Velletrano che faceva lui, nel suo adorato vigneto. Sì, perché papà era bucolico, ma amava soprattutto le sorprese, i colpi di scena; alle premiazioni del torneo, arrivavano elefanti, ballerine, giocolieri, Philippe Leroy faceva il mangia fuoco, Anthony Quinn si esibiva con la sua frusta messicana, che una volta, per poco, non acceca Ugo, per spegnergli la sigaretta che aveva in bocca, e poi quella volta che chiamò quelli degli effetti speciali e fece nevicare ad Agosto.
Era veramente un'estate che più di così non potrei immaginare. Venticinque anni è durato quel delirio, poi papà se n'è andato ed è calato il sipario. Quest' anno che ricorre il suo centenario, celebriamo lui e la nostra estate con uno schermo sulla spiaggia dove proietteremo i film di Ugo, uno schermo in piazza con le commedie italiane più divertenti dell'anno e poi un torneo di padel. Una volta si giocava a tennis ed ora si gioca a padel, cambia il nome, è vero, ma il gioco più o meno è lo stesso: ci sono le racchette, che assomigliano a delle padelle e il mitico trofeo "Scolapasta d'oro" si è trasformato ne "La padella d'oro", l'occasione per giocare di nuovo tutti insieme.
Goffredo Fofi per “Avvenire” il 23 marzo 2022.
Tognazzi era cremonese, e ci teneva. Alle tre T che tradizionalmente caratterizzavano, nella Padania, quella città - Torre, Torrone e Tette - aggiungeva volentieri la sua, di Tognazzi.
Aveva esordito in tempo di guerra nel teatro di varietà, e si fece strada molto lentamente, più lentamente di altri comici, perché era di una verve diversa, meno esplicita ed esteriore, con qualcosa perfino di introverso. I suoi inizi cinematografici furono nel gruppo di comici minori, dialettali o semi- dialettali, cui ricorreva Mario Mattoli, maestro nei "telefoni bianchi" e nei "film che parlano al vostro cuore", capo-comico e regista tra i più acuti nello scoprire a teatro e portare nel cinema minore nuovi talenti (da De Sica a Totò, da Billi e Riva a Franchi e Ingrassia.
Fa, una lunga storia dimenticata). Oltre alla rivista, in teatro, fece coppia in cime dapprima con Raimondo Vianello, finché Luciano Salce non riuscì a imporlo con Il federale e La voglia matta, a fianco nel primo con un grande del teatro francese, Georges Wilson. Dopo di allora, tutto gli fu più facile, e diventò uno dei "colonnelli" della commedia all'italiana, pari a Mastroianni e Sordi e a Monica Vitti, e al meno simpatico, tuttavia assai bravo sia come attore che colme regista Nino Manfredi.
L'interpretazione che forse preferisco, delle tante, fu quella per Venga a prendere il caffè da noi, feroce commedia di vita provinciale scritta di Chiara e diretta da Lattuada: conteso tra tre sorelle, abile a costruirsi una sorta di grottesco harem.
Ma sono tanti i film che andrebbero ricordati, insieme ad alcune sue prerogative: sentirsi grande chef maestro di gastronomia; e accettare di buon grado di prender parte a strambe beffe politiche, come quando la rivista "Il Male", di estremismo comico di sinistra, lo indicò nel pieno del terrorismo come il «grande vecchio» a capo delle Brigate Rosse.
Ma voglio ricordare Tognazzi, grande attore e ottima persona, per un episodio che mi riguarda. Con Franca Faldini lo intervistammo per la nostra Avventurosa storia del cinema italiano, che lui volle presentare insieme a noi e a Mario Monicelli in una libreria romana, e in quel libro era raccolta la testimonianza di un attore che diceva di un certo produttore-regista che era il produttore più avaro e il regista più antipatico con cui avesse lavorato. Quel tale ci querelò e voleva un mucchio di soldi, una cifra assurda, ma Tognazzi lo seppe e, siccome avrebbe dovuto fare un film con quel tale, gli disse che se non calava la cresta quel film non lo avrebbe fatto. E quel tale ridusse le sue pretese a quasi niente (che gli dette la Faldini, ché io non ero proprio in grado). Caro, generoso, e bravissimo Tognazzi!
La voglia matta. Tognazzi, la commedia popolare e l’arte di sapere le cose anche se non sai di saperle. Guia Soncini su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.
A cento anni dalla nascita dell’attore, arriva un documentario e torna la nostalgia fortissima di un cinema e di una cultura di cui ora non c’è più traccia
Il mio Tognazzi preferito è del 1981. Prima ancora di arrivare a Cannes, vincere come migliore attore per “La tragedia di un uomo ridicolo”, salire sul palco e chiedere se fosse uno scherzo, «se è uno scherzo mi suicido sulla Croisette con una forchetta, e ovviamente degli spaghetti». Tre mesi prima, Ugo Tognazzi era a Sanremo, nella prima giuria di qualità della storia del festival. Il presidente era Sergio Leone; ma, se avete un ricordo della sera in cui Cecchetto presenta la giuria, non può che essere un ricordo di Ugo Tognazzi.
Bisogna pensare a una tv che non era, tecnicamente, quella di oggi: niente telecamere a spalla, niente microfoni senza filo. Quindi, quando Cecchetto scende in platea a intervistare i giurati, il tutto è un po’ goffo: parlare col conduttore guardandolo in faccia e dando le spalle alla platea, o viceversa? A domanda, Cecchetto risponde: fai un po’ e un po’. Tognazzi, però, è Tognazzi: fa come gli pare.
E il suo come-gli-pare di quella sera è mollare lì Cecchetto e decidere di salire sul palco, dove si terrà la sua intervista. Se solo ci fosse una telecamera che lo segue, un filo abbastanza lungo, una tecnologia in grado di stargli dietro. È il Tognazzi che nella cucina dei “Nuovi mostri” lancia un pesce sulla collottola di Gassman sbottando «ma va’ a dar via il cü», però beneducato e benvestito.
Cecchetto esita un po’, poi lo raggiunge. La star della serata è sul palco, capotavola è dove si siede lui.
La commedia è un carattere ereditario? Ci penso ogni volta che Maria Sole Tognazzi – tra le figlie di uomini famosi che m’è capitato d’incontrare, l’unica con una parvenza di sanità mentale – mi manda qualche foto da qualche posto stupendo, firmando il messaggio «Mascetti». Non credo ci sia bisogno di spiegarlo – “Amici miei” è lessico famigliare per non so più quante generazioni d’italiani – ma la firma serve a dire (mentendo, sennò che commedia sarebbe) che è lì a scrocco: è pur sempre la figlia del conte Mascetti.
La commedia dev’essere un carattere ereditario, lo si capisce al primo minuto di “La voglia matta di vivere”, il documentario che Ricky Tognazzi ha girato per i cent’anni dalla nascita di suo padre (nel 1922 erano nati Gassman e Tognazzi, ma non sarò io a piangere il cinema italiano vivente: secoli fa Francesca Archibugi mi rimproverò dicendo che non ha senso paragonare le epoche d’oro a quelle ordinarie, e forse aveva ragione lei).
Ugo Tognazzi era nato il 23 marzo, ma “La voglia matta di vivere” è andato in onda ieri sera (potete recuperarlo su RaiPlay), perché ormai siamo tutti così terrorizzati che qualcuno arrivi prima a celebrare il decennale d’una morte, il centenario d’una nascita, il cinquantennale d’un film, che arriviamo in anticipo come gli insicuri agli appuntamenti. Ma sto divagando (che stranezza). La commedia, dicevo.
La voglia matta di vivere inizia in un cimitero, come “Per Lucio”, il documentario per i dieci anni dalla morte di Dalla che, pur avendo stupendi materiali d’archivio, non trova mai il tono giusto. “La voglia matta di vivere” lo trova subito, giacché la commedia non è un carattere recessivo: nel cimitero Ricky e Gianmarco e Thomas bisticciano sulla data da far incidere o no sulla lapide di papà.
Il mio Tognazzi preferito è del 1965. Non farò quella che vi promuove il suo nuovo libro dicendovi che lì ha scritto già tutto quel che aveva da dire su come Tognazzi che balla sul tavolo in “Io la conoscevo bene” sia la scena più straziante della storia del cinema italiano, e quella che più dice cosa siamo noialtri oggi: pronti a coprirci di ridicolo per una promessa di gloria, per elemosinare un riflettore, perché qualcuno o qualcosa faccia di noi una star.
Pronti a coprirci di ridicolo ma dal ridicolo terrorizzati: tutto il discorso pubblico sull’hate speech e la legge Zan e tutte quelle cose che andavano di moda l’anno scorso (ora ce le siamo dimenticate perché abbiamo nuovi giocattoli dialettici: siamo tutti opinionisti geopolitici, ma poi il ciclo delle stagioni farà tornare quei temi), quel tema lì si fonda sulla convinzione che nessun delitto sia grave quanto prenderci in giro. Che ridano di noi è la prospettiva più terribile.
E quindi la commedia è un carattere recessivo, è impossibile non pensarlo quando il documentario arriva a «Se molta gente ci è cascata, forse un po’ la faccia da brigatista ce l’ho», il commento di Ugo alla copertina del Male col titolo «Arrestato Ugo Tognazzi, è il capo delle BR». Non riesco a immaginare un attore di oggi che si presti a una cosa del genere; non riesco a immaginare un’opinione pubblica che non lo aggredisca al grido di «Non ti vergogniiii, le brigate rosse ammazzano la gente e tu fai lo spiritosoooo»; non riesco a immaginare quello spericolato attore che, intervistato sulla questione, non si scusi per aver ferito assortite sensibilità ma anzi dica d’avere la faccia da brigatista.
È uno strazio guardare le immagini del funerale di Tognazzi, è uno strazio catalogare quella stagione di cui non è rimasto quasi nessuno. Villaggio, Gassman, Scola, Monicelli, la Vitti, Ferreri, Risi, Vianello, la Mondaini. Sono tutti morti, e non dirò con quali scarsi ci abbiano lasciato perché poi Archibugi mi sgrida e mi dice che rivaluterò da morti quelli che ora mi sembrano cani e mi pentirò di non averli apprezzati in tempo.
Il mio Tognazzi preferito è del 1980. È il produttore che, ne “La terrazza”, tormenta facendolo finire in un ospedale psichiatrico lo sceneggiatore interpretato da Trintignant. Quello di «Fa ridere? Fa ridere?». Quello cornificato e trattato con perpetuo sprezzo dalla moglie, Ombretta Colli. Anni fa ho scritto un film che non si è mai fatto. C’era un protagonista ridicolo e narciso, che si ritoccava continuamente la tinta dei capelli con uno di quegli affari che si comprano facilmente oggigiorno, quei mascara per capelli, ti ritocchi l’occasionale filo bianco senza stare ad andare dal parrucchiere.
Tempo dopo aver finito quel soggetto, ho rivisto “La terrazza”. Il mio conscio aveva dimenticato che Tognazzi in quel film lì si ritocca i capelli grigi sulle tempie con un mascara, con decenni d’anticipo sulla diffusione sul mercato di quel prodotto a quello scopo. Non lo sapevo, ma lo sapevo. Come Mascetti e come il capo delle BR, il mascara per capelli stava nel mio subconscio, e forse in quello della nazione. La cultura popolare è quella cosa lì: le cose che sai anche senza sapere di saperle. Ed è solo per non farmi sgridare che non dico che Tognazzi era quella roba lì, cultura popolare, perché all’epoca il cinema era cultura popolare, e adesso non so bene cosa sia, e sono passati pochi anni, ma sembrano cento.
Ritratto di famiglia dei fratelli Tognazzi. «Ugo, un bravo padre, forse un po’ troppo uguista». Enrico Caiano su Il Corriere della Sera il 16 marzo 2022.
Avrebbe compiuto 100 anni quest’anno il grande attore della commedia all’italiana, noto per due celebri film come ‘Il Vizietto’ e ‘La grande abbuffata’. Nel ricordo dei figli (avuti da tre madri diverse) un uomo giocherellone, e tombeur de femmes.
I quattro fratelli Tognazzi oggi. Da sinistra Thomas (57 anni) il “norvegese”, figlio di Margrete Robsham; Maria Sole (50); Ricky (66), figlio di Pat O’Hara; Gianmarco (54): lui e la sorella sono figli di Franca Bettoia, 85 anni, compagna di Ugo per oltre 30, sposata soltanto nel 1972
Una chiacchierata con i fratelli Tognazzi a parlare di papà Ugo potrebbe durare anche un giorno intero. Se ne è «andato via» come dice Gianmarco, ormai quasi 32 anni fa. Eppure sembra che lo abbiano lasciato poco prima dopo aver riso all’ultima battuta di qualche pranzo domenicale cucinato da lui. Chissà se senza quella maledetta emorragia cerebrale del 1990, a 68 anni, il 23 marzo prossimo avrebbe celebrato il proprio centenario. Impossibile dirlo, anche se certo nella vita si è fatto mancare poco sul fronte dei piatti, diciamo così «nutrienti». E anche su altri fronti. Nel girare con Marco Ferreri un capolavoro come La grande abbuffata (1973), ovvero l’arte dell’eccesso tra cibo e sesso, Ugo Tognazzi da Cremona deve essersi sentito a suo agio. L’affetto con cui questi 4 figli di tre madri diverse parlano del loro padre imperfetto è però così genuino e trascinante da farti quasi credere che meglio di così non poteva andare: papà con il suo «uguismo», come definiscono per abitudine ormai consolidata il suo modo di essere un filino egocentrico, è stato il migliore dei padri possibili.
L’empatia di Ugo
Non può essere un caso se tutti, come si dice, hanno seguito le sue orme. Attori (Ricky, Gianmarco, qualcosa anche Thomas), registi (ancora Ricky e Maria Sole) o produttori (Thomas). Lui faceva cinema vivendo, anche con loro. E loro hanno fatto cinema su di lui. Con due documentari. Prima la più piccola, Maria Sole, che papà Ugo l’ha perduto quand’era 19enne: nel 2000, a 10 anni dalla morte, ha girato Ritratto di mio padre. Poi, ora, il maggiore, Ricky: giovedì prossimo in prima serata su Rai2 ecco La voglia matta di vivere per il centenario della nascita, scritto e diretto da Ricky e coprodotto da Rai Documentari, Ruvido Produzioni, Dean Film, Surf Film e Mact. «Non l’ho mai visto non tenere banco», confessa su Zoom Ricky, collegato con gli altri due fratelli (Thomas, dalla Norvegia, non poteva, ma interverrà a parte nel “dibattito”). E sull’empatia come vera qualità di Ugo sono d’accordo tutti i fratelli. «Era magnetico, aperto e trasparente», ricorda Gianmarco, «e anche quando faceva gaffe ed errori li faceva in buona fede. Il suo essere accentratore in realtà era un modo per favorire l’apertura degli altri». Ricky ricorda gli “spettacolini” a cena, davanti agli amici, che puntualmente si chiudevano con il racconto di una sua figuraccia: «Lui sapeva che dandosi addosso faceva più ridere...». «E alla fine usciva di scena», chiosa Maria Sole. «Figura di m... e sipario!». Ricky si fa serio ma è una finta: «Volevo dire che ho le prove: è stato visto anche ascoltare. Esistono persone, poche ma esistono, che ha ascoltato». Per Gianmarco «la sua estroversione alla fine era un modo per coprire la timidezza». Ma sua sorella non è proprio d’accordo: «Non lo definirei affatto un uomo timido. Uno che provocava andando controcorrente come lui non poteva essere un timido». Il fratello maggiore mette un punto fermo: «Nei suoi sentimenti era timido. Nell’esprimere la sua affettività raramente abbracciava noi e Franca. Non era un toccone».
Un amore grande grande, a dispetto dei tradimenti
Già Franca, oggi 85enne, la donna che è stata con lui per oltre 30 anni, accogliendo e crescendo un figlio non suo (Ricky, nato dalla relazione con l’attrice Pat O’Hara; ndr) e ospitando Thomas nei mesi di vacanza, dopo avere – lei, non lui – spiegato agli altri due figli maschi che era loro fratello, nato dall’amore di Ugo per l’attrice norvegese Margrete Robsham. La sposò solo nel 1972, Franca Bettoia, attrice del cinema italiano Anni 60. Ma stavano insieme da prima: Gianmarco nacque nel 1967. Ricky la adora: «Aveva una pazienza e una sensibilità estreme. Con lei Ugo ha fatto cose non da gentleman ma lo ha sempre perdonato e accolto facendo in modo che le scivolate “ugoistiche” non compromettessero gli equilibri di una famiglia difficile come la nostra». Il fratello gli ricorda quando lei chiese a Ricky se poteva «fare Gianmarco», se lui l’avrebbe accettato. «Vero, avemmo un dialogo profondo su questo. L’eterno farfallone solo grazie a lei imparò che la famiglia era importante», ricorda emozionato Ricky. E Maria Sole regala un’immagine definitiva: «Avevano un rapporto speciale e personalissimo. Magari si sono tirati i quadri addosso, ma papà è morto tra le braccia di Franca».
Maria Sole, la cocca di papà
Basta tristezza, qualche aneddoto per tirarsi su. Parte Ricky: «Ugo raccontò di un’attrice americana che diceva di ricordarlo in un film come soldier, soldato. Lui era spiazzato ma poi capì: era un film con Manfredi. Fece finta di nulla «per non imbarazzarla», mi disse. «E se avevo qualche possibilità di portarmela a letto poi, dovevo per forza tacere». Tocca a Gianmarco. Che racconta di un’altra attrice: «Lui parlava poco l’inglese ma ci provava. Lei dopo un po’ cominciò a dire Iugo, Iugo. Ma non era il suo nome come pensava lui: gli stava dicendo You, go! Tipo: E vatteneeee!». E le prime storie d’amore di loro ragazzi come le prendeva Ugo? Ancora Gianmarco: «Il mio primo amore fu una bella ragazza alta 1,75. Non un capriccio, stavamo insieme da due anni. Lui non si capacitava che stesse con me, grassoccio: mangiavo tantissimo. A un certo punto arrivò a dirglielo. E quasi a proporsi: «Ma perché stai con uno come lui? Avresti bisogno di un uomo più maturo». È Maria Sole ora a piazzare il colpo: «Riuscii a presentargli il mio primo ragazzo, Giorgio, un argentino bellissimo, un modello che si mise con me ma forse capii dopo che era stato pagato da Gianmarco per farlo. Eravamo in Sardegna e lo portai a cena come un trofeo. Lo guardò con una strana curiosità... forse a pagarlo era stato lui».
A scuola tutti 10
Maria Sole al tempo era la preferita perché a scuola «aveva tutti 10». Thomas era l’orgoglio invece alle cene perché «sapeva alla perfezione tutte le formazioni delle squadre europee», ricorda Ricky. «E tutte quelle dei mondiali del 1974», conferma Thomas dalla Norvegia, preso dal successo di La persona peggiore del mondo, il film norvegese da lui prodotto in corsa per l’Oscar: «Sarebbe bello regalare il primo Oscar alla famiglia Tognazzi. Lui ebbe la nomination per Il vizietto, ricordo». I fratelli tifano tutti per lui. Anche contro Sorrentino. Tognazzi senior fu infine campione di grandi litigi: «Per una battuta rompeva un’amicizia», ricorda Ricky. «Capitò con Elio Petri, romanissimo regista sempre a casa nostra. Gli dissero che lui sì era di sinistra. Anche papà in realtà votava così. E però gli venne da dire che lui abitava di fronte alla sede del Pci, dunque era facile. Se avesse abitato di fronte a un bar forse era campione di biliardo... Se la prese da matti: avvocati. mogli a mediare, si riconciliarono solo dopo tantissimo tempo».
L'attore arci-italiano più anti-italiano che ci sia mai stato (supercazzola inclusa). Alessandro Gnocchi il 15 Marzo 2022.
Il 23 marzo si celebrerà il centenario della nascita di un mattatore atipico.
Forse noi italiani ci siamo meritati Alberto Sordi, come diceva Nanni Moretti. Senz'altro non ci siamo meritati Ugo Tognazzi. Certo, l'attore ha avuto uno straordinario successo, impreziosito da una Palma d'oro a Cannes; eppure si ha l'impressione che la portata della sua cinematografia (e del suo repertorio teatrale) non sia stata colta fino in fondo. In occasione del centenario della nascita, Ignazio Senatore pubblica per l'editore Gremese un utile strumento: Ugo Tognazzi. La vita, i film, il teatro, la televisione e altro ancora. Una rassegna puntuale dell'opera di Tognazzi, titolo per titolo, ruolo per ruolo, regista per regista, battuta per battuta, recensione per recensione. L'introduzione è affidata a Pupi Avati che diresse Tognazzi, tra le altre cose, in uno dei migliori film sul calcio mai girati: Ultimo minuto.
Ottavio Ugo Tognazzi nasce il 23 marzo 1922, a Cremona in via Antica Porta Tintoria, un tempo via Cantarane, al numero 6. Nell'Abbuffone (1974, ora edito da Avagliano), una esilarante autobiografia per ricette d'autore, Tognazzi racconta i suoi giorni da attore scapigliato. Nel 1940, parte per la guerra. Finisce al comando superiore della marina a La Spezia. Per fortuna i superiori non lo mandano per mare, aveva già rischiato di morire annegato nel Po. Lo mettono invece a fare di conto, ma grazie all'incontro con Lucio Ardenzi, cantante e futuro impresario, si esibisce per i soldati. Tognazzi inizia a sognare di fare l'attore di varietà. Dopo l'8 settembre rientra a Cremona e torna a fare l'impiegato presso il salumificio Negroni ma continua ad assentarsi per recitare nelle caserme della Rsi. Alla fine viene ripreso dal capoufficio. Lui lo fissa sorridendo, e canticchia: «La sua bocca è tanto bella / salamino e mortadella / il suo sguardo par divino / mortadella e salamino». Grandi risate, seguite dal licenziamento seduta stante. Nel 1943, Tognazzi ha l'opportunità di organizzare uno spettacolo al Teatro Ponchielli a patto che l'incasso sia «pro armi alla patria», Tognazzi mette subito assieme la compagnia. I finanziatori sono un impresario di pompe funebri, un rampollo di famiglia benestante, un funzionario del consorzio agricolo. Il 4 maggio 1944 debutta Una nuvola in vacanza. Il varietà si direbbe innocuo ma in un palco c'è il gerarca Roberto Farinacci. Racconta Tognazzi: «Rischiai di essere impacchettato per la Germania perché mentre cantavo la canzoncina satirica Lassa pur lè, che in cremonese vuol dire piantala, pare indicassi con il braccio il palco in cui era seduto Farinacci». In quanto all'incasso: «Terminammo con un deficit di lire sessantaquattromila. Calcolando il valore della moneta di allora, ritengo di aver contribuito a sottrarre quattro mitra alla Repubblica sociale italiana».
Alla fine della guerra, Tognazzi decide di far rotta verso Milano. Non lo accompagneremo nella sua scalata nel varietà e in televisione. Però ricordiamo che il ruolo decisivo per il decollo nel mondo del cinema fu lo zelante graduato delle Brigate nere protagonista de Il federale di Luciano Salce (1961). Personaggio indimenticabile fin dal nome: Primo Arcovazzi da Azzanello, minuscolo paese a un tiro di schioppo da Cremona. In questa occasione, Tognazzi decide di cambiare passo, come leggiamo in una testimonianza dell'attore raccolta da Senatore: «Col Federale è cominciata una specie di analisi, un asciugare, un abbandonare certi eccessi di comicità pura da rivista o da varietà».
Scorrendo il libro di Senatore ci si rende conto della incredibile rassegna di arci-italiani e di anti-italiani (spesso le due categorie coincidono) messi in scena da Tognazzi. Gli anni Sessanta sono un trionfo. Bastano i titoli per accendere la memoria collettiva: La marcia su Roma, L'ape regina, I mostri, La vita agra, Io la conoscevo bene. E siamo solo al 1965...
Tognazzi lavorerà con tutti i grandi registi e vincerà la Palma d'oro a Cannes (nel 1981 con La tragedia di un uomo ridicolo di Bernardo Bertolucci). Nel suo pantheon ci sono maschere entrate nel costume come il Conte Mascetti di Amici miei (di Mario Monicelli, 1975) con la sua «supercazzola», metafora perfetta di un Paese, il nostro, innamorato della vuota retorica al punto da diventare ridicolo in ogni occasione ufficiale. Per non dire delle «supercazzole» dei politici, dei virologi, dei giornalisti, degli esperti (si fa per dire) di geopolitica.
Soprattutto con Marco Ferreri, ma anche con Mario Monicelli, Tognazzi ha dissacrato tutto il dissacrabile: la famiglia tradizionale, la società dello spettacolo, il consumismo; e si è permesso di rivolgere perfino un malinconico sberleffo alla morte. Tuttavia, nella sua sterminata carriera, ci sono anche i ruoli di funzionario dello Stato (magistrato o commissario) in un periodo in cui andavano di moda i rivoluzionari.
Nel Commisario Pepe (1969) di Ettore Scola, Tognazzi ritrae l'ipocrisia della provincia e la rassegnazione di un ispettore al quale viene chiesto di fermare un'indagine pruriginosa. Tognazzi è straordinario, con pochissimi tocchi (spalle incassate e petto in fuori, provate davanti allo specchio se pensate sia facile) costruisce un universo morale e sentimentale. Ecco il risultato di quell'«asciugare» di cui Tognazzi parlava a proposito del Federale. Del resto, l'indagine della mediocrità, condotta con misurata ironia, è una delle specialità della casa. Un esempio per tutti, il trentanovenne protagonista della Voglia matta (1962) di Luciano Salce, che si lascia irretire da una ragazzina, una splendida Catherine Spaak, per la quale, naturalmente, il flirt è tutto un gioco. Invece, per l'ingegner Antonio Berlingheri, è forse l'ultima possibilità di sentirsi vivo, a costo di rendersi ridicolo, facendo la ruota fuori tempo massimo.
Che dire di un film come il Vizietto (1978) di Edouard Molinaro? Dietro alla caricatura della omosessualità, si sente la profonda tenerezza: oggi però nessuno avrebbe il coraggio di girare un film del genere. Poi c'è il personaggio pubblico, che si fa ritrarre in manette sulla finta prima pagina di Paese sera sotto il titolo: «Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle BR». È un falso della rivista Il male e scatena i polemisti di mezza Italia. Siamo nel 1979, nel pieno degli anni di piombo. Lui, invece di intavolare pensosi dibattiti sulla satira, taglia corto: «Rivendico il diritto alla cazzata». Gol, palla al centro.
Nell'attore c'è molto della terra padana in cui è nato e in cui capitava di incontrarlo (dal salumiere Saronni, come Mina, o allo stadio Zini, che lo accoglieva sempre con un grande applauso). La concretezza che può scadere nella grettezza o rivelarsi un formidabile antidoto contro la retorica. L'aria sorniona, il mezzo sorriso che può nascondere la depressione ma anche la sorprendente zampata ironica. La tranquillità che sembra apatia ma è il pudore di un uomo in realtà goloso della vita in tutti i suoi aspetti. Tognazzi rende universale questo modo di essere grazie al talento inimitabile. Anche ridere è una cosa seria.
· 31 anni dalla morte di Miles Davis.
Stralci della lettera inedita di Charles Mingus a Miles Davis (1955), contenuta in “Peggio di un bastardo” (ed. Sur) e pubblicata da “il Fatto quotidiano” il 15 aprile 2022.
Mi siedo e provo a trascrivere in modo sincero i miei pensieri in una lettera aperta a Miles Davis. Ho scartato parecchie lettere "mentali" prima di quest'ultima che ho scritto ieri sera mentre guardavo alcune foto di Bird (Charlie Parker, ndr) scattate da Bob Parent durante una registrazione al Village. Se serve una foto per illustrare il mio racconto, dovrebbe essere questa di Bird che, in piedi, guarda dall'alto Monk (Thelonious, ndr) con un amore che più grande non troveremo mai in questo business del jazz!...
COSA FARÀ Miles adesso che riprende a suonare? Farà come in quel concerto non molto tempo fa a Brooklyn, con Max (Roach, ndr), Monk e il sottoscritto, quando continuava a dire a Monk di "farsi da parte" perché sbagliava tutti gli accordi? O come durante una registrazione più recente, quando si è messo a inveire, si è interrotto, ha dato i numeri, e poi ha minacciato Monk e ha chiesto a Bob Weinstock perché mai avesse preso un non-musicista come quello e di non farlo suonare durante i suoi assolo di tromba? Che cosa sta succedendo a noi discepoli di Bird?
O forse per Miles sono un presuntuoso se mi considero tale? Sembra così difficile per alcuni di noi maturare quanto basta per capire che esistono altre persone in carne e ossa, proprio come noi, su questa grande grande terra. E se queste persone non stanno mai ferme, o non si muovono mai, o non "swingano", hanno ragione quanto noi, anche se secondo i nostri standard hanno torto marcio...
Miles, non ti ricordi che Mingus Fingers lo scrissi nel 1945 quando avevo solo ventidue anni, studiavo e mi dannavo per scrivere secondo la tradizione di Ellington (Duke, ndr)? Miles, questo era dieci anni fa, quando pesavo ottantatré chili.
I vestiti che portavo allora sono ormai lisi e non mi vanno più bene. Sono un uomo adesso, peso quasi cento chili e la penso a modo mio. Non la penso come te, e la mia musica non vuole solo farti battere il piede e scenderti lungo la schiena. Se e quando mi sento allegro e spensierato, compongo o suono di conseguenza - e anche quando sono depresso. Solo perché suono il jazz non mi dimentico di me stesso.
Suono o scrivo le mie sensazioni attraverso il jazz, o chiamalo come vuoi. La musica è, o era, un linguaggio delle emozioni. Chi continua a fuggire dalla realtà, non mi aspetto che apprezzi la mia musica, e mi preoccuperei del mio modo di comporre se cominciasse a piacergli veramente. La mia musica è viva e parla dei vivi e dei morti, del bene e del male. È piena di rabbia ma è genuina perché sa di essere piena di rabbia.
So che stai tornando sulla scena, Miles, e sono felice per te più di quanto tu possa immaginare. Stai suonando il più grande Miles che abbia mai sentito, e sicuramente lo sai di essere uno dei più grandi jazzisti d'America. Tu sei spesso molto innovativo e, semmai, ti sottovaluti - in apparenza - e fai lo stesso anche con altri artisti. Ti voglio bene, Miles, veramente, e voglio che tu sappia che qui c'è bisogno di te.
Ma sei una persona troppo importante nel jazz e devi stare molto attento a quello che dici di altri musicisti che stanno anche loro cercando di creare qualcosa di nuovo... Ti ricordi di me, Miles? Sono Charles. Sì, Mingus! Eri la terza tromba nelle mie sessioni di registrazione in California undici anni fa su raccomandazione di Lucky Thompson.
Perciò vacci piano, amico, con chi ti ha fatto da trampolino di lancio... Se dovessi rispondere a questa mia lettera aperta, Miles, vorrei sapere una cosa riguardo quanto hai detto a Nat Hentoff a proposito dei brani che hai registrato negli ultimi due anni. Perché hai continuato a registrarli, sessione dopo sessione, se adesso dici che non ti piacevano, a parte due lp? Mi chiedo se hai dimenticato i nomi di quei brani; e mi chiedo anche come un vero artista possa permettere che si venda al pubblico del jazz tutta questa musica che nemmeno gli piace. O anche accettare di farsi pagare per un lavoro che lui stesso non considera ben fatto. Buona fortuna per il tuo ritorno sulle scene, Miles.
· 30 anni dalla morte di Marisa Mell.
Marisa Mell, storia e curiosità sull’attrice dalla vita turbolenta. Federica Bandirali su Il Corriere della Sera il 13 Agosto 2022.
Morta prematuramente per tumore nel 1992, è protagonista del film “La liceale al mare con l'amica di papà“. Il suo sguardo seducente e le sue forme hanno conquistato il cinema degli anni Sessanta
Il cinema italiano
Un uomo, sottomesso a una consorte ricca ed autoritaria, porta l'amante al mare con la famiglia, travestendola da suora: è in sintesi la trama del film “La liceale al mare con l'amica di papà“ in onda su sabato 13 agosto su Sky. Insieme ad Alvaro Vitali, protagonista è Marisa Mell nata nel 1939 e morta il 16 maggio 1992, a soli 52 anni.
Nata in Austria (a Graz), arrivò nel cinema italiano grazie a Mario Monicelli, che la scelse per Casanova 70 (nel 1964). Dopo essersi stabilita in modo fisso in Italia, si legò sentimentalmente al produttore cinematografico Pierluigi Torri ma le relazioni che le vennero attribuite quella con il grande attore francese Alain Delon.
Il tragico incidente
Nel 1963 Marisa rimase coinvolta in un grave incidente automobilistico in Francia. Per sei ore rimase totalmente incosciente, inconsapevole di aver quasi perso l’occhio destro. La deturpazione si estese anche al suo labbro. Dopo due anni di chirurgia plastica, non rimase alcun danno evidente sul suo viso, a eccezione di una piccola cicatrice sul labbro superiore destro.
I problemi con l’alcool
Negli anni Ottanta si allontanò piano piano dal mondo dello spettacolo e del cinema. Tornata in Austria, visse gli ultimi anni di vita in condizioni economiche precarie legate, si dice, anche a un abuso di alcol e droghe.
La malattia
La morte prematura dell’attrice è legata a una malattia prematura, un tumore che non le ha lasciato scampo. Era ricoverata da tempo in un ospedale austriaco, sua patria natale. Al suo funerale hanno partecipato poche persone.
Bellezza prorompente
La bellezza di Marisa aveva conquistato un’ampia fetta di cinema: merito di uno sguardo intenso e di un corpo seducente. Capelli neri lisci e occhi verdi per l’attrice austriaca ancora oggi considerata una bellezza degli anni Sessanta.
· 29 anni dalla morte di Audrey Hepburn.
Audrey Hepburn: le prime nozze saltate, il matrimonio con uno psichiatra italiano, storia degli amori della star di «Colazione da Tiffany». Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2022.
L’attrice, icona mondiale del cinema, se ne andava il 20 gennaio 1993 a 63 anni: le tappe della sua vita sentimentale.
«L’amore è tutto»
Il 20 gennaio 1993, a 63 anni, se ne andava una delle icone più amate del cinema, regina di stile con la sua eleganza, capace di attraversare le generazioni con il suo fascino immortale e la sua semplicità: Audrey Hepburn. Più che diva (suo malgrado) l’anti-diva per eccellenza dato che, nonostante il successo ottenuto con pellicole diventate cult («Colazione da Tiffany», «Vacanze Romane», «Sabrina»), ha sempre preferito alla mondanità e alle luci dei riflettori la tranquillità della vita familiare. «Alcuni pensano che rinunciare alla mia carriera sia stato un grande sacrificio fatto per la mia famiglia, ma non è per niente così - raccontò una volta l’attrice -. È la cosa che più desideravo fare». Del resto «l’amore è tutto», come amava ripetere.
Nozze mancate
Nel 1952 Audrey Hepburn, all’epoca 23enne, annunciò il suo fidanzamento con l'imprenditore James Hanson. Nonostante fosse molto impegnata sul set del film che l’avrebbe lanciata nel firmamento di Hollywood («Vacanze Romane») nelle pause delle riprese continuava a portare avanti i preparativi per le nozze. L’attrice decise di far confezionare il suo abito da sposa proprio a Roma, nel prestigioso atelier delle sorelle Fontana. Ma non avrebbe mai indossato quel bellissimo vestito: il matrimonio saltò nel 1953 per via dei crescenti impegni lavorativi della coppia. «Per un anno ho pensato che fosse possibile far funzionare le nostre vite e combinare le nostre carriere - scrisse Audrey, affranta, in una lettera -. È tutto molto triste, ma sono sicuro che sia stata l'unica decisione sensata».
Il matrimonio segreto in Svizzera
Un anno dopo, ad una festa organizzata da Gregory Peck, Audrey Hepburn incontrò di nuovo l’amore: l’attore, suo partner di scena in «Vacanze Romane», le presentò Mel Ferrer, star della pellicola «Lili». Il 25 settembre 1954 la coppia convolò a nozze in Svizzera, in una chiesetta lontana da occhi indiscreti. Dall’unione, che durò in tutto 14 anni (e qualche film insieme, da «Guerra e pace» a «Mayerling»), il 17 luglio 1960 nacque un figlio: Sean Hepburn Ferrer. Per Hepburn fu una grande gioia: prima di riuscire a diventare mamma infatti aveva subito due aborti spontanei, di cui uno in seguito a una caduta da cavallo durante la lavorazione del film «Gli inesorabili» (1960).
Lo psichiatra italiano
Dopo il divorzio da Mel Ferrer, durante una crociera in Grecia, Audrey Hepburn conobbe colui che sarebbe diventato il suo secondo marito: lo psichiatra italiano Andrea Dotti, sposato nel gennaio del 1969. Da Dotti l’attrice nel 1970 avrà un altro figlio: Luca. Che descrisse così, nel 2015 a Vanity Fair, il rapporto tra i suoi genitori: «Mamma aveva perso la testa per papà, non era mai stata così innamorata. Sposarlo fu una scommessa. Sperava che lui crescesse più in fretta, ma non accadde: era un farfallone. Avevano dieci anni di differenza, ed era come se ne avessero ancora di più. I 30 anni di mio padre erano simili a quelli di oggi, i 40 di mia madre erano pesanti, soprattutto a causa della guerra. Erano troppo diversi: lui mondano e urbano, lei riservata e quasi contadina». Inoltre «per molti uomini è difficile avere una moglie famosa. Da italiano, il ruolo di principe consorte a mio padre non piaceva». Così, nel 1982, arrivò il divorzio.
Con Robert Wolders
Delusa dalla fine del suo secondo matrimonio Audrey Hepburn incominciò a frequentare l’attore olandese Robert Wolders, da qualche anno vedovo dell'attrice Merle Oberon: i due andarono a vivere insieme in Svizzera, sul lago di Ginevra. Non si sposarono mai e rimasero legati fino alla morte di lei. «Eravamo pronti l'uno per l'altra - ha raccontato lui nel 2017 a People -. Nel momento in cui ci siamo incontrati, entrambi avevamo commesso i nostri errori». Wolders ha condiviso con l’attrice anche l’attivismo: è sempre stato al suo fianco durante le campagne umanitarie per l’Unicef che hanno tenuto impegnata la star di «Colazione da Tiffany» negli ultimi anni della sua vita.
· 28 anni dalla morte di Moana Pozzi.
Moana Pozzi moriva 28 anni fa: lo scandalo del porno, la liaison con Craxi, la morte misteriosa. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera il 15 Settembre 2022.
Ritratto della più grande attrice a luci rosse italiana, nata a Genova il 27 aprile 1961. Gli scandali e le relazioni «pericolose», la politica fino al decesso, con le ipotesi più diverse
La matematica, il clavicembalo e la fuga a Roma
Il suo nome era uno scivolo morbido di vocali, pronto a terminare la sua corsa nella taglia numero sei del suo seno, ma pure con il rischio di schiantarsi nello sguardo serio dei suoi occhi intelligenti. Moana. Per la precisione Anna Moana Rosa Pozzi: uno dei misteri più affascinanti del cinema a luci rosse (quando il porno era ancora un mondo sotterraneo e le videoteche avevano quella tenda nera che copriva le cassette vietate) terminato il 15 settembre 1994, esattamente 28 anni fa. Ma ecco alcune curiosità su di lei. Nata a Genova il 27 aprile 1961, figlia di un fisico nucleare e di una casalinga, seppe mescolare quei due mondi dentro di sé senza troppi squilibri: la madre spazzava la polvere dai pavimenti, il padre ne studiava la parte radioattiva. Moana, in mezzo, studiò e tanto: il liceo scientifico prima, il conservatorio poi. Le sue esibizioni di chitarra e clavicembalo devono essere state affascinanti. Ma Moana ebbe voglia di andare oltre: a 18 anni lasciò la famiglia per trasferirsi a Roma. Non dopo aver seguito i genitori nei tanti posti del mondo dove il padre veniva trasferito per lavoro: Brasile, Canada, infine Lione. Una città a cui Moana si affezionò in modo particolare, dove forse si sentiva sicura e anonima, e dove decise di vivere i suoi ultimi giorni: come fanno certi animaletti che si nascondono per morire, scegliendo un posto lontano ma conosciuto.
Gli esordi (già un “po’ porno”)
Estate 1980, camera da letto della Reggia di Caserta: è lì, in mezzo alla storia borbonica, che Moana scopre il seno davanti alla telecamera, per la prima volta. Senza troppi problemi, sicura del proprio corpo, nutrita di una certa dose di libertà post sessantottina che le cresce dentro. Si tratta di un cortometraggio, “Smorza ‘e llights ovvero Caserta by night”, di Arnaldo Delehaye, con Renzo Arbore. Ma l’ingresso “ufficiale” nella pornografia di “Serie A” avverrà solo sette anni più tardi. In mezzo, Moana, sembra quasi divertirsi a tirare la corda, calibrando uscite osè a lavori più istituzionali. A Roma si mantiene facendo la modella, con piccole parti nelle commedie italiane, che vivono la loro stagione più florida. Ma Moana osa troppo: nel 1982 le viene affidata una grande occasione, quella di condurre un programma per bambini su Rai 2 (“Tip Tap Club”), ma contemporaneamente si intensificano le sue presenze nei film proibiti, con scene sempre più hot. A nulla le servirà la sfilza di pseudonimi usati in quegli anni (Margaux Jobert si alternava a Linda Heveret): beccata dai dirigenti Rai, fu allontanata dal programma. Lì, il pubblico, inizio ad interessarsi a lei.
Fantastica Moana
È il 1987, l’esordio nei cinema è frontale: una pellicola con il suo nome, la regia di Riccardo Schicchi, un contratto con l’agenzia Diva Futura. Con “Fantastica Moana” si celebra il battesimo di fuoco di quella che sarà ricordata come la più grande pornostar italiana. Da lì, l’agenda della bionda genovese, non avrà più un giorno libero. “Moana la bella di giorno”, “Cicciolina e Moana Mondiali” sono solo due delle pellicole diventate cult, e cucite addosso alla fortissima personalità dell’attrice. Il mito in quegli anni sale di giorno in giorno: le tv se la contendono, i giornali la seguono, al pubblico piace pensare alla rivalità con Ilona Staller (i protagonisti del porno in quel periodo strategico diventano sempre più pop, hanno finalmente un volto e una vita extra, come dimostra anche il caso di Rocco Siffredi). Moana accontenta tutti: non risparmia ospitate nei salotti tv e nei primi, scandalosissimi “Erotik Festival” in terra italiana, incisioni musicali (“Mi sono rotta lo sai”; “Supermacho”), un libro sulle sue conquiste di letto che inguaia non poco personaggi istituzionali, come l’allora segretario del Psi Bettino Craxi. Il gioco delle ambiguità è un crescendo: nell’Araba Fenice, nel 1988, parla vestita solo di cellophane, scoppia il famoso caso della “rivolta delle casalinghe”, una sua lunga intervista a Baudo resta negli annali. Blob la manda in onda a più non posso. Censura permettendo. Lei stessa dirà più volte: “Il mio è un erotismo consapevole. Faccio all’amore e mi diverto. Ho fatto quello che volevo”.
La politica
Un cuore rosa, dentro una foto stilizzata di Moana. È il simbolo del Partito dell’Amore, fondato da Riccardo Schicchi e Mauro Biuzzi: nato all’inizio degli anni Novanta, vide un passaggio di testimone proprio fra le due antagoniste dell’hardcore, Cicciolina-Moana. La prima aveva già avuto la fortuna di entrare in parlamento con i Radicali, la seconda, meno fortunata, scese in campo per le elezioni politiche del 1992 e poi per le amministrative nella capitale. Nonostante i punti “seri” del suo programma (lotta alla corruzione e alla criminalità organizzata) rispetto a quelli precedentemente sostenuti dalla collega (creazione di parchi dell’amore, legalizzazione delle case chiuse), non riuscì ad arrivare all’elezione. Ma Moana prese più voti (12.393 nominali) di Umberto Bossi e Francesco Rutelli. La sconfitta fece virare ancora di più il programma verso temi più seri e sempre meno scandalistici. Moana organizzava direttivi nella sua casa romana, metteva soldi di tasca propria (il partito aveva perso il diritto al rimborso elettorale), ci credeva. Il partito, sebbene trafitto dalle sconfitte elettorali, morì con la scomparsa di Moana. Anche se per un certo periodo lo ressero Biuzzi e la mamma dell’attrice, sostanzialmente per difenderne l’immagine, anche in tribunale.
La morte, tutto un altro film
“Moana è viva!” Moana è viva!”. Sembrano visioni. Con regolare periodicità una voce che non si arrende, si leva da qualche giornale, pronta a giurare che Moana esiste, si nasconde da qualche parte del mondo, come uno di quegli ex leader pronti a tornare al momento giusto. Voci pronte ad alimentare il mito, e a far male alla famiglia. Moana è morta all’Hotel-Dieu di Lione il 15 settembre 1994, dove era ricoverata da mesi. La sua morte è ufficialmente dovuta ad un tumore al fegato, ma si parla anche di epatite cronicizzata. E qui inizia un altro film, l’ultimo di Moana: la sua morte, a soli 33 anni, è ancora fonte di misteri. Dai più neri, come l’ipotesi di essersi spenta a causa dell’Aids a quelle più colorate (viva, felice, al caldo). A posteriori, tutti hanno qualcosa da dire: chi se la ricorda emaciata nelle ultime ospitate, chi la vedeva sempre più triste, chi ha letto spiegazioni nuove in sue vecchie dichiarazioni. La verità è che il pubblico ha bisogno di ricordare un personaggio che ha segnato un’epoca: una ribelle, sensuale libera, elegante e intelligente. Quasi ossimori se cuciti addosso ad una donna, fino a pochi decenni fa.
· 28 anni dalla morte di Kurt Cobain.
Dagotraduzione dal New York Post il 5 marzo 2022.
Quando "Nevermind" dei Nirvana ha detronizzato "Dangerous" di Michael Jackson dalla vetta delle classifiche nel gennaio 1992, Kurt Cobain è stato effettivamente incoronato il nuovo re del rock. E il mese successivo aveva ufficialmente una regina dopo aver sposato Courtney Love - ormai 30 anni fa, il 24 febbraio 1992, a Waikiki Beach a Honolulu, Hawaii.
Ma, in vero stile punk-rock, non era esattamente un matrimonio reale: la sposa - rimasta incinta della figlia Frances Bean quattro mesi dopo aver iniziato a frequentarlo - indossava un abito bianco di raso e pizzo che in precedenza era di proprietà della tragica attrice (e musa di Cobain) Frances Farmer. Lo sposo ha indossato un pigiama di flanella verde e bianco per un gruppo di otto ospiti, incluso il suo compagno di band dei Nirvana Dave Grohl.
«Beh, erano entrambi persone piuttosto non convenzionali», ha detto a The Post Charles R. Cross, autore del libro del 2001 "Heavier Than Heaven: A Biography of Kurt Cobain. «Penso che l'idea del matrimonio in una chiesa... non potrei immaginare che sarebbe accaduta in un miliardo di anni».
Benedetta dagli dei del grunge, era un'unione che sarebbe passata alla storia della musica. Purtroppo, la loro storia d'amore sarebbe finita in tragedia quando Cobain si suicidò poco più di due anni dopo, il 5 aprile 1994. Ma nonostante tutti i loro problemi - dalla tossicodipendenza alle accuse di violenza domestica - c'era molto amore lungo la strada.
«Kurt Cobain ha scelto Courtney Love e Courtney Love ha scelto Kurt Cobain», ha detto Cross. «Non importa quanto fossero imperfetti a volte come individui, erano due persone che si amavano».
E quando hanno preso quei voti, si riferivano a loro - e non si sono scusati con i dubbiosi che hanno predetto un futuro difficile per la coppia.
«Stavo dicendo, 'Sì, so cosa accadrà'", ha detto Love a Rolling Stone della loro tumultuosa vita insieme in un'intervista del 1994 dopo la morte di Cobain. “Non me ne frega – – k. Amo questo ragazzo. Il mio principe su un dannato cavallo bianco”».
Alleanza di estranei
Cobain e Love hanno avuto il loro primo fatidico incontro il 12 gennaio 1990, al nightclub Satyricon di Portland, Oregon, dove i Nirvana stavano suonando uno dei primi concerti. Ma hanno finito per passare più tempo insieme quando i Nirvana andarono a Los Angeles per registrare "Nevermind" nella primavera del 1991, poiché Love viveva vicino allo studio Van Nuys dove la band stava realizzando il loro album di successo. Love, che era amica di Grohl, andò persino con lui e Cobain a vedere il documentario di Madonna "Truth or Dare" in un'uscita platonica.
Ma la notte successiva, nel 1991, portarono la loro amicizia civettuola al livello successivo, in uno spettacolo dei Nirvana al Metro di Chicago. Love, che all'epoca usciva con Billy Corgan, era volata lì per stare con il frontman degli Smashing Pumpkins. «Ha scoperto che Billy era con un'altra donna, quindi se n'è andata e sapeva che i Nirvana erano in città», ha detto Lyndsey Parker, conduttrice di SiriusXM Volume West.
Sparks è volato tra Love e Cobain dopo lo spettacolo dei Nirvana, quando finalmente si sono incontrati e hanno iniziato la loro storia d'amore. «Cinque minuti dopo essere entrata nello spogliatoio, era seduta sulle ginocchia di Kurt», ha detto Parker.
Cobain era attratto da Love come una donna che era sua pari e pari con il suo stesso gruppo - la band di Love Hole aveva debuttato con l'album "Pretty on the Inside" una settimana prima che "Nevermind" uscisse nel settembre 1991.
«Kurt era molto femminista... e penso che fosse molto attratto da una donna forte», ha detto Parker. «Aveva una personalità molto forte. Era già una specie di figura polarizzante. Penso che fosse attratto da una donna tosta... Avrebbe potuto uscire con chiunque fosse la top model sexy, e ha scelto questa trasandata ragazza punk-rock».
Ma Cobain e Love si sono uniti per qualcosa di più della semplice musica. «Courtney una volta mi ha detto qualcosa che penso sia davvero uno dei motivi per cui si sono legati: ha detto che Kurt sapeva qual era il sapore del formaggio del governo», ha detto Cross. «In un certo senso, penso che quello che stava dicendo... è che c'era un legame traumatico. Entrambi avevano avuto un'educazione piuttosto difficile. Entrambi erano stati degli estranei. E anche se entrambi avevano ambizioni creative ed erano entrambi sulla strada per la fama... vivendo in povertà e crescendo con abbandono, cosa che entrambi avevano [fatto], penso che non si possa sopravvalutare il modo in cui si sono legati».
Comportamento pericoloso
Ma le droghe, in particolare l'eroina, erano una forza distruttiva nella loro relazione.
«Certamente Kurt era molto drogato prima di incontrare Courtney», ha detto Cross. «Aveva già rotto essenzialmente con due fidanzate che non volevano uscire con lui a causa del suo uso di droghe. E per Courtney, la decisione di stare con Kurt è stata in qualche modo una decisione difficile per lei perché stava cercando di evitare quella vita... Sai, Kurt soffriva di una dipendenza piuttosto seria. Oltre a questo, c'erano altre due cose che non possono essere sottovalutate. C'erano i problemi di dolore cronico che aveva sia allo stomaco che alla schiena. E poi il terzo problema era che aveva chiaramente la depressione».
Nel 1992, uscì un controverso articolo di Vanity Fair che affermava che la Love aveva fatto uso di eroina durante la gravidanza con Frances Bean. Anche se inizialmente lei ha negato, sostenendo di aver smesso di usare l'eroina non appena ha scoperto di essere incinta, la coppia ha temporaneamente perso la custodia della figlia di conseguenza. Ma nel documentario del 2015 "Kurt Cobain: Montage of Heck", Love ha ammesso: «L'ho usata una volta, poi ho smesso. Sapevo che sarebbe andata bene».
Poi, nel 1993, c'è stata una disputa interna che ha fatto notizia quando Cobain è stato arrestato dalla polizia di Seattle con l'accusa di aver aggredito Love durante una rissa per avere pistole in casa. Tuttavia, nessuna accusa è stata presentata e il caso è stato archiviato.
Ma mentre Cobain e Love a volte erano in guerra - tra loro e con se stessi - c'era anche una tremenda tenerezza tra di loro. Si lasciavano anche tutti i tipi di note d'amore in tutti i tipi di forme.
«Erano scritte sul retro di una busta o di un fax inviato a un hotel o un post-it», ha detto Cross. «E molte di queste cose sono state salvate. Questi ragazzi non erano governanti pazzi, e le note che Kurt ha scritto sul retro di una busta potevano essere ancora lì un anno e mezzo dopo. E sai, una parte è stata salvata per i posteri: entrambi erano molto consapevoli del fatto che stavano scrivendo la storia».
Doppie muse
I Nirvana hanno pubblicato il seguito di "Nevermind", "In Utero", nel settembre 1993, e Cross sostiene che puoi sentire l'influenza di Love su quell'album. «Penso che Courtney abbia reso Kurt un paroliere migliore», ha detto. «E penso che Kurt abbia reso Courtney uno scrittore di riff migliore. E in un certo senso, è stata una competizione».
Mentre si spingevano a vicenda musicalmente, Love e Cobain non erano sempre in grado di fornirsi lo stesso tipo di influenza positiva quando si trattava di diventare - e rimanere - sobri.
«Hai due tossicodipendenti, ma la loro dipendenza e i loro desideri non sempre combaciavano», ha detto Cross. «Non è proprio giusto dire chi fosse il peggior tossicodipendente. Ma le dipendenze di Kurt, purtroppo, erano più profonde di chiunque altro intorno a lui».
Nel marzo 1994, Cobain andò in overdose di antidolorifici nella sua stanza d'albergo di Roma e cadde in coma. Dopo essersi ripreso, Love lo ha aiutato a mettere in scena un intervento ed è andato in riabilitazione. Ma Cobain lasciò presto la riabilitazione, tornò a Seattle e si suicidò con sparandosi in testa con un il 5 aprile 1994. Le sue ultime parole a Love? «Qualunque cosa accada, hai fatto un grande album», ha detto di "Live Through This" di Hole, uscito il 12 aprile, esattamente una settimana dopo la sua morte.
C'erano quelli che incolpavano Love per la caduta di Cobain dopo la sua morte. C'erano persino teorie del complotto che suggerivano che lei in qualche modo lo avesse fatto assassinare.
«Mi arrabbio estremamente quando qualcuno la incolpa in qualsiasi modo per la sua morte... sia se pensano che lei lo abbia spinto al suicidio perché lo ha reso infelice sia se credono alle strane teorie del complotto», ha detto Parker.
Più tardi, nel 1994, Love rifletté sulla perdita del suo «principe su un dannato cavallo bianco» a causa di Rolling Stone: «Mi sentivo come se piangerlo fosse davvero egoistico perché lo avrebbe fatto sentire in colpa. E la cosa migliore da fare era pregare per lui e mostrargli gioia, in modo che potesse sentire la vibrazione della gioia. Ma ora so che si è dissipato e se n'è andato. Non è rimasto niente».
· 28 anni dalla morte di Massimo Troisi.
Ida Di Grazia per leggo.it il 18 gennaio 2022.
Tra le sorprese di questa edizione del Grande Fratello Vip c'è senza ombra di dubbio Nathaly Caldonazzo. L'attrice ha raccontato la sua storia e il suo rapporto con gli uomini, che spesso sono stati cattivi con lei. Tra loro però c'è un'eccezione ed è stato Massimo Troisi.
«Sono passati 28 anni - racconta emozionata la Caldonazzo - ero al ristorante con una mia amica e lui mi guardava continuamente, uscendo l'ho salutato e non se l'aspettava. Ha chiesto al proprietario come mi chiamavo, ma io all'epoca avevo un cognome diverso e quindi non mi trovava, poi il suo miglior amico si mise con la parrucchiera di mia sorella e mi invitò a prendere un caffè a casa sua. Mi aprì quest'uomo affascinante, e subito ho pensato potesse essere il mio uomo».
Nathaly e Massimo Troisi hanno vissuto insieme gli ultimi due anni di vita dell'attore napoletano: «Abbiamo fatto viaggi meravigliosi, poi durante l'ultimo viaggio in Costa Rica dimenticò un po' le medicine ed era molto affaticato. Io sapevo della sua malattia - spiega Nathaly - sentivo il ticchettio del suo cuore, mi raccontò che a 18 anni gli si fermò il cuore dopo una partita e il suo quartiere fece una colletta per farlo operare a Houston».
Le fatiche del viaggio costrinsero la coppia a volare proprio a Houston e il responso del medico non fu dei migliori: «Gli dissero che aveva un cuore di un settantenne, pieno di cicatrici e si doveva rioperare, ma l'operazione non andò bene. Rimanemmo un mese e mezzo in quell'ospedale. Io avevo 25 anni, ha avuto un infarto sotto i ferri, ma io non gliel'ho mai detto, e doveva fare un trapianto.
Non riuscivamo mai a tornare. Dopo un mese e mezzo siamo tornati e lui ha voluto per forza fare il suo film (Il Postino ndr). Morì il 4 giugno e aveva la morte in faccia, facevo di tutto ma lui era caduto in una depressione molto forte, era difficile tirarlo fuori. Mi disse una frase di Neruda: "Il depresso è come un prigioniero con la porta aperta, io mi sento così". Mi manca come essere umano, come persona, ha sempre preso di mira se stesso e mai gli altri, non credo manchi solo a me».
Natascia Festa per corriere.it il 17 dicembre 2022.
«Avrebbe compiuto 70 anni il 19 febbraio 2023. Massimo era un Aquario cuspide Pesci. Non che se ne importasse molto dei segni zodiacali, ma le stelle - alle quali è tornato - lo avevano disegnato così: sognatore e appassionato come un Aquario, protettivo e artista come un Pesci. E come un pesce non lo acchiappavi mai». Ricordando, sorride Nathaly Caldonazzo che aveva 24 anni quando conobbe il trentanovenne Massimo Troisi, all’apice della carriera e consapevole del suo charme.
Non era più il ragazzo timido di San Giorgio a Cremano quando si mise in testa che quella bionda, figlia di una ballerina olandese delle Bluebell da cui aveva ereditato bellezza e seduzione, doveva dirgli di sì. Così Nathaly diventa l’ultima fidanzata di Troisi. Vivevano insieme a Roma, quando lui finì di girare “Il postino”: tra l’ultimo ciak e l’ultimo respiro passarono appena 24 ore.
Ma partiamo dall’inizio, Nathaly. Come vi siete conosciuti?
«Era primavera inoltrata, lo ricordo come fosse ora. Dopo le sette di sera c’era ancora luce. Io venivo da un set fotografico: ero tutta truccata, carina. E affamata. Entro in un ristorante e lui era seduto a un tavolo con altre due persone. Da qual momento non mi ha tolto gli occhi da dosso. Vista l’insistenza, quando sono uscita dal locale gli faccio: “Ciao”. E lui: “Ciao”, risponde imbarazzato».
Lei ovviamente sapeva chi fosse.
«Sì, e non mi piaceva affatto. In quel periodo ero fidanzata con un ragazzo che avevo rubato alla mia migliore amica. Sì, avevo fatto un macello, un errore madornale che non ho mai più ripetuto. Dopo averlo sfilato all’amica, mi accorsi però che non me ne fregava nulla. In questa mia confusione emotiva, Massimo si è intrufolato benissimo».
Come l’ha trovata dopo quel furtivo “ciao”?
«Ha chiesto il mio nome al proprietario del ristorante che però gli diede solo il cognome: Caldonazzo. Così mi cercò sull’annuario degli attori, ma non mi trovò; io ero registrata Snell (come sua madre; ndr). Il destino ha fatto il resto: il suo migliore amico dell’epoca, Massimo Bonetti, si fidanzò con la parrucchiera di mia sorella. Lo chiamò e gli disse: “Massimo, per la Caldonazzo abbiamo risolto. Va a farsi i capelli da Elena”».
Quindi?
«Mi fa chiamare dalla parrucchiera che mi fa: c’è questo Massimo Troisi che ti vorrebbe telefonare… Posso dargli il numero? A quel punto cedo. Anche perché, la certezza che non mi piacesse mi faceva sentire al sicuro. Il giorno dopo mi arriva questa telefonata durante la quale, inutile dirlo, mi fa ridere molto. Stiamo un’oretta al telefono. E alla fine l’invito. “Un caffè da me?”. Rifiutai.
Lui insistette molto e io mi lasciai convincere sempre per lo stesso motivo: tanto non mi piace! Arrivai davanti alla porta di casa sua. Mi aprì ed era bello come il sole: jeans, t-shirt e spalle enormi da maschio mediterraneo. Dico la verità, pensai: che gran figo! E non fu più vero che non mi piaceva affatto. Parlando sul divano pieno di sole, sentii questo tic tic… “Cos’è?”, gli chiesi. E lui: ‘O core mio. E mi raccontò della valvola ma senza particolare preoccupazione».
“’O core mio” era anche una metafora d’amore, no?
«Non pensai a una cosa romantica, mi dispiace deluderla. Lui mi incalzava con gli inviti. Che fai quest’estate? Vieni a cena da me domani… Andai. C’era il nostro amico comune e produttore americano Gianni Nunnari con la nuova fidanzata. Dopo cena decisero di andare a Porto Rafael in Sardegna. All’inizio rifiutai: “Non ci penso minimamente” e tra me e me pensavo che ero fidanzata e non avrei dovuto nemmeno starci in quella casa. In un niente però, mi ritrovai con loro in aeroporto, in partenza per Olbia. Una follia.
Arrivati lì, gli diedi la buonanotte e mi chiusi nella stanza di questa grande villa che ci ospitava: se non te ne frega molto di chi ti corteggia, sei più decisa e risulti pure più attraente. Ma Massimo se la prese e il giorno dopo, in barca, non mi rivolse la parola. Ero nel panico: mia madre aveva saputo che ero partita con un attore molto più grande di me e il mio fidanzato non si era bevuto la bugia pessimamente inventata che gli avevo propinato. Il tutto per uno che non mi parlava nemmeno: è la fine, pensai. Invece era l’inizio».
Racconti: ora vogliamo sapere tutto. Troisi, per chi lo ama, è come un parente. E dobbiamo sapere.
«Tutto successe quando dalla barca passammo al tender: era al tramonto, io ero triste e stavo per i cavoli miei quando lui mi abbraccia da dietro con il suo maglione, in silenzio. E stiamo così fino a quando mi chiede: restiamo qui un altro giorno io e te? Così ci conosciamo meglio”. Da allora non ci siamo più lasciati».
Al rientro?
«Novella 2000 ci aveva paparazzati: presi una sberla dal mio fidanzato e urla da mia madre. Intanto ci eravamo innamorati e siamo stati insieme negli ultimi due anni della sua vita».
Coppia bellissima: quanto l’abbiamo invidiata…
«Sì, eravamo molto uniti. Ci siamo presi totalmente, nel bello e nel brutto».
Qual è stato il bello?
«L’amore e i viaggi: è noto che Massimo fosse sedentario e proverbialmente pigro. Certe sere mi faceva preparare a puntino, io mi mettevo in tiro per uscire e poi: “Amo’ veramente mi è passata la voglia. Rimaniamo a casa?”. Era così tenero. Con i viaggi svoltammo.
Massimo non aveva viaggiato tanto, era stato solo a Santo Domingo, ma con me iniziò a farlo: Los Angeles, Belize, Miami e tanta Europa. Per il viaggio a Parigi mi fece uno scherzo: disse che non poteva portarmi perché si trattava di lavoro. Il giorno dopo eravamo a casa e mi telefonò. Lo facevamo spesso perché l’appartamento era a due piani. Scesi e trovai sul pavimento i biglietti con il mio nome».
Sorprese d’amore. E litigate?
«Tante, soprattutto per gelosia: sia sua che mia. Era molto vendicativo nella relazione. Te la faceva pagare sempre. Ricordo una sera in Sardegna c’era una tavolata con una trentina di persone. Il figlio del proprietario della villa si era rotto un braccio e non riusciva a mangiare, così lo imboccai. Non l’avessi mai fatto. Per tutta la sera, Massimo non mi guardò più e parlò solo con le altre donne di quella tavolata: solo che si chiamavano Monica Bellucci, Isabella Ferrari e Alba Parietti… non so se mi spiego. Litigammo tutta la notte».
Com’era la convivenza con Troisi?
«Ci divertivamo. A me piace cucinare e passavo molto tempo a imparare i piatti che gli piacevano di più: gateau, salsiccie e friarielli, pasta con le polpettine e la ricotta. E che gioia quando arrivavano le mozzarelle da Napoli. Ricordo la festa intorno a quei contenitori di polistirolo dai quali uscivano delle trecce pazzesche, grandi come bambini».
E il brutto qual era?
«Iniziò durante un viaggio in Costa Rica: eravamo a San José, la capitale. Avevamo fatto un casting perché Massimo cercava volti femminili per “Il Postino”. Non li trovammo. Così lanciammo una moneta in aria per decidere se andare a Nord o Sud. Scegliemmo Limon, Puerto Viejo: capanna sulla spiaggia e nulla intorno a noi. Lui aveva finito le medicine, gli venne l’asma, iniziò a non stare bene. Tornammo finalmente, eravamo un po’ provati da questo viaggio, ma dopo una settimana lui volle ripartire: “Dobbiamo andare a Los Angeles da Redford e passiamo per Huston: devo fare un controllo al cuore”. Era lì che si era operato la prima volta a 18 anni. La buttò giù così, in maniera light. A Los Angeles stette benissimo: faceva addirittura allenamento sul tapis roulant. Avevamo un albergo su una spiaggia magnifica. A Huston presi alloggio di fronte alla clinica perché non mi facevano dormire con lui. Dovevamo stare una settimana, restammo un mese e mezzo. Lo ricordo come in un film: eravamo in sala d’attesa, entra il dottore, prende carta e penna e disegna il suo cuore. “E’ di un settantenne. Bisogna operare, ma decidi tu”. Ci guardammo, pensammo che fosse l’unica cosa da fare, invece fu una tragedia».
Lei ha detto che “Il postino” l’ha ucciso.
«E’ vero. Era ostinato a finire il film anche senza forze. Non a caso ha cambiato il finale: nel libro Mario non muore. Nella sua versione sì. Se non è premonizione questa… Quando è morto io ero stata fuori per due giorni. Lui aveva finito di girare ed era a casa della sorella, nei pressi di Cinecittà. Aveva lasciato detto che se avessi telefonato io avrebbero dovuto svegliarlo. Io chiamo, la sorella va, ma lui non si sveglia. Io suggerisco di lasciarlo riposare.
Rientro a Roma, arrivo a casa per raggiungerlo di corsa e sento la segreteria telefonica che impazzisce, un messaggio dopo l’altro. Ettore Scola, che era uno dei suoi migliori amici, l’architetto che ci stava rifacendo il bagno, tanti altri… ma non ci faccio caso. Sono di corsa, devo andare da lui. Invece era già morto: la tv l’aveva annunciato. Stavo per uscire quando chiamò mia madre: ora devi essere forte. Solo allora capii. Corsi da lui, gli misi una lettera tra le mani. Del resto non voglio parlare».
Cosa ha conservato di Massimo?
«Ho portato con me alcuni suoi pigiami e il maglione blu di Armani che aveva addosso durante quell’estate così felice. Ogni tanto lo rimetto, mi fa sentire bene, è la mia coperta di Linus».
Clarissa Burt e l’amore con Massimo Troisi: «Ci lasciammo perché insieme si sta in due, non in 200. Prendeva i farmaci e poi giocava a calcio». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 10 Dicembre 2022.
L'attrice ed ex modella, che oggi ha 63 anni, ricorda l’attore scomparso nel 1994 nel documentario di Alessandro Bencivenga (dal 15 dicembre nelle sale): «Per il problema al cuore prendeva medicine in maniera disciplinata, sembrava che tutto si potesse gestire»
Clarissa Burt, un amore lungo tre anni nella vita di Massimo Troisi. Ne parla col suo fare gentile e un filo distante. È una delle voci del documentario «Il mio amico Massimo» di Alessandro Bencivenga, dal 15 al 21 dicembre nelle sale per Lucky Red, uno dei quattro che si stanno ultimando (compreso quello in uscita di Mario Martone). Nel 2023 saranno 70 anni dalla nascita di Troisi, scomparso nel 1994, tradito dal suo cuore malandato.
Come vi conosceste?
«Nel 1988, a cena da amici, era inverno, io mi lamentavo per il riscaldamento ma avevo in casa un camino. Massimo il giorno dopo mi mandò un furgoncino pieno di legna con un bigliettino: per tenerti al caldo».
E cominciò la storia.
«Era dolce, carino, affettuoso. Mi colpivano la sua gentilezza e la sua calma».
Dicono che amasse le carte e il biliardo.
«Nei tre anni in cui siamo stati insieme non l’ho mai visto giocare né a carte né a biliardo. Massimo si svegliava tardi, poi andava nello studio a scrivere progetti. Erano usciti i computer e i primi rudimentali cellulari. Era affascinato dalla tecnologia. Se rivedeva mai i suoi film? No, mai».
Quando recitava in napoletano stretto lo capiva?
«Ci ho messo un po’, ho dovuto imparare. Massimo mi “tradiva” anche le canzoni, per esempio "Malafemmena". Scusi, volevo dire mi traduceva».
Lapsus freudiano.
«Sì, ci lasciammo perché quando si sta insieme si sta in due e non in duecento. Ci lasciammo per questo».
La stessa situazione la visse con Francesco Nuti. Una donna così desiderata, come lo spiega?
«Non me lo spiego, dovete farvi qualche domanda voi uomini. Parlo di tutti gli uomini sulla faccia della Terra, non solo di quelli italiani».
Quelle di Troisi erano interpretazioni nevrotiche e piene di grazia.
«Era una napoletanità originale, mai scontata».
Carlo Verdone dice che era pigro.
«Sì, un tocco di pigrizia c’era in lui. Facevamo vita di casa, gli habitué erano l’attore Massimo Bonetti e l’autore televisivo Giovanni Benincasa».
Il ritratto di una coppia casa e pantofole.
«Io preparavo le torte, poi era il periodo che facevo tv nel programma di Raffaella Carrà. Ma uscivamo anche. Ricordo quando vinse lo scudetto il Napoli: andammo a festeggiare in barca con tutta la squadra, Maradona conosceva i film di Massimo».
Lei lo accompagnò al Festival di Venezia?
«Sì, quando vinse la Coppa Volpi per "Che ora è" di Ettore Scola. Ci chiamarono dal festival chiedendoci di non partire. Risposi io, cominciai a saltellare sul letto, allora hai vinto! E Massimo, non dire così, per carità, mi hanno solo chiesto di restare... Era superstizioso».
Vinse ex aequo con Marcello Mastroianni.
«Adoravo la sua semplicità, se penso agli attori di oggi».
Del problema al cuore le parlava?
«Sapevo che c’era quel problema, prendeva medicinali in maniera disciplinata, poi giocava a calcio, era una cosa che sembrava si potesse gestire, nessuno pensava che se ne sarebbe andato così presto, nemmeno lui. Quando morì ero appena tornata in America. Ripresi l’aereo e andai al funerale. Ci ho messo dieci anni per vedere il suo ultimo film, "Il postino"».
Quando arrivò in Italia?
«Nel 1983, facevo la modella, sapevo dire solo ciao e arrivederci. Vi restai per 22 anni, fino al ritorno a Phoenix, Arizona, dove vivevano i miei genitori».
Perché si presentò alle elezioni per Alleanza Nazionale?
«Solo per raggiungere il quorum, una cosa veloce, per le donne. Mi presentarono nei collegi rossi, ricordo qualche comizio, non feci quell’esperienza per essere eletta. Ma sono qui per parlare di Massimo. Eravamo come due bambini, felici di vivere una vita tranquilla».
Vi dovevate sposare, scrissero le riviste patinate.
Fa una lunga pausa. «Non lo so, non ricordo, è passato tanto tempo».
Di cosa si occupa ora?
«Ho un gruppo multimediale, si chiama Sotto i riflettori, ho una tv su una piattaforma, ci occupiamo di libri, di benessere, si insegna management. Ho una rivista digitale. Sono una imprenditrice. La mancata maternità? Ho otto nipoti che adoro».
· 27 anni dalla morte di Mia Martini.
Talento, infamia e successo: la vita "dolorosissima" di Mia Martini. Mia Martini, Mimì, Domenica Rita Adriana Bertè sono tre nomi e tre personalità di un corpo solo, quello di una delle più grandi interpreti italiane di tutti i tempi. Laura Lipari il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Cos’è la sfortuna? Molti credono che sia solo un'invenzione dell'uomo, altri invece sono convinti che esista e per questo stringono, portano al collo oppure spargono per casa amuleti per cacciarla via. Ma quando si sparge la voce che a portare scalogna è una persona, quasi istintivamente la prima cosa che si fa è quella di allontanarla, stigmatizzarla, isolarla anche dall'applauso per il suo successo. Si dice che di solito la fama preceda il nome ma nel caso di Mia Martini è accaduto esattamente il contrario e a volte un nome e cognome, nonostante siano solo uno pseudonimo, pesano come un macigno legato al piede.
I primi esordi
Domenica Bertè, detta Mimì, nasce il 20 settembre 1947 a Bagnara Calabra, in provincia di Reggio Calabria. È la seconda di quattro sorelle: Loredana che nasce lo stesso giorno di tre anni prima, Leda e Olivia. I genitori, entrambi insegnanti, si accorgono presto dell’amore di Domenica verso la musica italiana che la bambina ascolta estasiata in radio. Inizia quindi, nonostante la contrarietà del padre, a partecipare a feste, serate ed eventi in balere durante i quali sprigiona la sua voce con una potenza che fuoriesce nel momento in cui tiene in mano un microfono. Ha capito cosa vuole fare nella vita: cantare, solo cantare.
Nel 1962, all'età di soli 15 anni, convince la madre ad accompagnarla a Milano in cerca di un’audizione che possa darle una mano per farsi conoscere. Qui viene provinata dal compositore Carlo Alberto Rossi che la lancia come ragazza “yeye”, cioè quel genere che mescola il rock leggero e il genere pop in voga in quegli anni. Partecipa quindi ad alcuni festival musicali e incide i suoi primi dischi, ma senza riscuotere grande successo. La sua voce e il suo temperamento non convincono.
Il trasferimento e il secondo periodo musicale
Domenica è consapevole: la strada che ha scelto di intraprendere è difficile, tortuosa e deve sgomitare. Quindi con la madre, che nel frattempo si era separata dal padre, e le sorelle, si trasferisce a Roma e tenta nuovamente di emergere creando un trio assieme alla sorella Loredana e all’amico Renato Fiacchini, che più tardi sarà conosciuto con il nome di Renato Zero.
Il 1969 è l’anno che per primo inciderà negativamente sulla sua vita. Domenica si trova a una serata in una nota discoteca della Sardegna e la sta trascorrendo come qualsiasi ragazza della sua età fino a quando, all’improvviso, la situazione cambia e degli uomini che avanzano verso di lei l’ammanettano e la portano in caserma. Scopre di essere stata arrestata perché in possesso di una sigaretta di marijuana, reato che all’epoca veniva punito come per altre forme di sostanze stupefacenti. Dall’accusa però la cantante viene presto prosciolta ma l’evento la sconvolge profondamente e i produttori non sanno che farsene di un'artista che ha avuto guai con la giustizia.
L’anno dopo, spinta anche dai familiari e dagli amici, cerca nuovamente di farsi strada. Il suo incontro fortunato è quello con Alberigo Crocetta, colui che scopre anche Patty Pravo e Mal e da questa collaborazione viene partorito “Mia Martini”, un nome studiato a tavolino che deriva dall’unione del nome dell’attrice preferita della cantante, Mia Forrow, e la nota marca di bevande alcoliche famosa in tutto il mondo. Cambia il nome e lo stile: trucca gli occhi di nero, indossa numerosi anelli e spesso anche un cappellino a bombetta che la caratterizza. Infatti i primi due brani sotto il nuovo pseudonimo, “Padre davvero” e “Amore…amore…un corno”, quest’ultimo scritto da un giovanissimo Claudio Baglioni, hanno un successo travolgente sia per il ritmo ma soprattutto per il testo e difatti vincerà il Festival di Musica d’Avanguardia e Nuove tendenze di Viareggio.
Segue un lp “Oltre la collina” considerato uno dei migliori lavori mai realizzati da una donna e notati anche da artisti ormai noti come Lucio Battisti. Al suo interno Mimì mette tutta se stessa parlando nel testo di disperazione solitudine giovanile. Infatti, se dal punto di vista lavorativo quelli sono anni d’oro per Mia, sul piano emotivo trasuda un malessere che pian piano si insidia come un parassita per Domenica.
Gli anni d’oro
Dopo l’uscita di “Piccolo uomo” Mimì viene invitata nelle trasmissioni televisive più importanti e il 45 giri raggiunge le vette della hit-parade facendole vincere il Disco d’oro per le vendite. A questo successo ne segue un altro, “Donna sola” che le conferirà la Gondola D’Oro. Entrambi i brani verranno pubblicati anche all’estero. Ma il vero successo senza tempo sarà “Minuetto”, un’opera travolgente creata grazie all’aiuto di Franco Califano che viene pensata e scritta seguendo le vicende intime della cantante. È un brano così ricco di sensazioni che il pubblico ne rimane estasiato e infatti diventa in assoluto la canzone più venduta; le permetterà di vincere il disco d’oro, di platino e il Festivalbar nonché il maggior successo de 1973.
Ma al tempo stesso Mia è controversa, amata e odiata anche per i temi affrontati nelle sue canzoni che all’epoca erano una novità da censurare come quello sulla droga e la tossicodipendenza che verrà affrontato con la canzone “La malattia”.
Nel 1973 Mia Martini è la cantante femminile che ha venduto più dischi nell’arco dell’intero anno insieme a Ornella Vanoni e Patty Pravo. Fino al ’75 il suo successo è europeo. È invitata come ospite nelle varie trasmissioni musicali e il 6 febbraio va in onda il suo primo special televisivo dal titolo "Mia".
Il successo è una medaglia che ha due facce e questo Domenica lo sa bene. Se da un lato viene ripagata per tutti i sacrifici, i periodi neri e quelli di sconforto, dall’altro le pressioni arrivano da chiunque: dal pubblico che si aspetta sempre qualcosa in più, dalla casa discografica, dai produttori e anche dai colleghi. Seguono altri brani e altri successi anche se non mancheranno alti e bassi con la sua casa discografica Ricordi, che si trasformeranno in una rottura decisiva e una citazione in tribunale da cui ne scaturirà un sequestro dei beni e dei guadagni della cantante e il pagamento di una penale di 90 milioni di lire. Passa da tutto a niente, ancora una volta.
È un periodo negativo che viene però risollevato con l’invito a rappresentare l'Italia all’Eurovision Song Contest del 1977 dove parteciperà con il brano “Libera” che le conferirà il tredicesimo posto in classifica. Nello stesso anno conosce l’uomo che le farà perdere la testa. Si chiama Ivano Fossati ed è un cantautore con cui collaborerà per l’album “Per amarti” e più tardi quello che verrà intitolato “Danza”.
Il rapporto tra i due è fatto di amore e contrasti. "Mia" è un nome, non un aggettivo possessivo, eppure Fossati è convinto del contrario, tanto che durante un’intervista la cantante ricorderà la relazione fatta di basi “sanguinolente e catastrofiche, - e continuerà – Avevo un contratto con un’altra casa discografica e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, degli amici, di tutti. Ma soprattutto era geloso di me come cantante”.
L'infamia e il declino
In seguito a due difficili interventi alle corde vocali Mia torna sul palco con un look più sobrio e discreto e realizza un album dal nome “Mimì” che contiene dieci brani interamente scritti da lei. Seguono altri successi fino al 1982 l’anno in cui decide di partecipare al Festival di Sanremo. Dopo che si era tirata indietro per ben due volte, quell'anno invece sente di farcela e porta un brano scritto da Fossati: “E non finisce mica il cielo”, con cui vince il Premio della Critica riconosciuto dai giornalisti; lo stesso premio dopo la sua morte prenderà proprio il nome Premio Mia Martini. Successivamente ritrova il successo con “Quante volte…ho incontrato le stelle” e collabora con grandi nomi come Cocciante, Giani bella, Mogol.
La carriera da artista pesa sulle spalle di chi è emotivamente più sensibile e Mimì è una persona estremamente empatica. Questo per lei è un dono perché scrive e interpreta testi che smuovono l'anima, ma è anche una condanna perché la costringe a sentire in modo amplificato tutto ciò che la circonda. Ancora peggio se si deve sorreggere il peso di un'infamia nata solo per il pretesto di alienarla e gettarle ombra. Comincia infatti a spargersi la diceria che Mia Martini porti sfortuna a chi le sta a fianco a causa di un episodio avvenuto qualche anno prima. Un rientro da un concerto in Sicilia era finito in tragedia: durante un incidente stradale erano morti Gianni Caia e Steve Stogel, che poche ore prima si erano esibiti con Mia e la colpa era ricaduta proprio su di lei. Da lì in poi molti le applicano l’etichetta di “portatrice di jella”.
Dieci anni dopo, nel 1983 Mimì è ancora bersaglio di parole sbagliate nei suoi confronti che non riesce a cancellare dalla sua mente. Qualcuno fa il gesto delle corna, qualcun altro si gira dall'altra parte quando la incrocia. Decide quindi di ritirarsi dalle scene per vivere lontana dai riflettori: “La mia vita era diventata impossibile. Qualsiasi cosa facessi era destinata a non avere alcun riscontro e tutte le porte mi si chiudevano in faccia. C’era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch’io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival…”.
Anche gli amici, come Patty Pravo che in seguito negherà, le girano le spalle, e infatti durante un’altra intervista racconta un episodio in cui doveva essere ospite per un programma di cui il regista era l’amico Gianni Boncompagni: “Appena entrai in studio sentii Boncompagni che diceva alla sua troupe: ragazzi attenti, da adesso può succedere di tutto, salteranno i microfoni, ci sarà un black out”, per schernire la cantante già vittima di infamia. Addirittura per un periodo la Rai non trasmette le sue canzoni.
Stanca e avvilita si rifugia quindi nelle campagne umbre isolata da tutto e tutti. Il periodo di depressione dura anni e per arginare il problema economico si esibisce solo in serate nelle località di provincia con un pubblico ristretto.
Il terzo periodo musicale
Nel 1889 il musicista e discografico Gianni Sanjust la convince a ritornare a cantare con il brano per anni rimasto inedito: “Almeno tu nell’universo”, che viene selezionato per gareggiare al Festival di Sanremo. Gli incubi, in quei giorni, li fa di notte e di giorno: l'intervento le ha cambiato il timbro, molti se ne accorgono ma nessuno glielo dice e poi ci sono ancora colleghi che non la guardano dritto negli occhi perché fa ancora paura. Sul palco trema, inizia il sottofondo musicale e cala il silenzio. Tutti aspettano trepidanti e l'attacco è lento. All'improvviso arriva il ritornello e ruggisce"...tu, tu che sei diverso, almeno tu nell'universo".
Ce l'ha fatta, ha lasciato tutti sbalorditi con la sua potenza. Arriva solo al nono posto, ma vince il premio alla critica con l’entusiasmo dei giornalisti e del pubblico, premio che per chi ci vede lungo e solo di consolazione. Ne segue un breve periodo durante il quale la cantante viene nuovamente acclamata e invitata nei programmi televisivi e nell’estate dell’anno successivo partecipa al Festivalbar dove le viene conferito il disco d’oro per l’ultimo album “Martini Mia”. In autunno riceve la Targa Tenco come migliore interprete femminile dell’anno e un mese dopo viene premiata dal presidente del Consiglio Giulio Andreotti come “Interprete per eccellenza”.
Da questo momento escono vari singoli e una raccolta, nel ’92 partecipa nuovamente a Sanremo con “Gli uomini non cambiano” con cui arriva seconda ma non le impedisce di partecipare all’Eurovision e con l’album “Lacrime” riceve un ulteriore Disco d’oro. L’anno successivo si presenta nuovamente al Festival insieme alla sorella Loredana Bertè con la quale recupera il rapporto dopo dieci anni di silenzio. La canzone si chiama “Stiamo come stiamo” e le aspettative da parte del pubblico e della critica appaiono sin da subito altissime, ma a penalizzarla saranno i rapporti ancora tesi tra le due Bertè. Dal 1993 inizia una serie di collaborazioni, tra queste vi doveva essere anche quella con Mina con il fine di intraprendere vari progetti musicali.
Negli ultimi mesi del ’95 la cantante scopre di avere un fibroma all’utero ma decide di non sottoporsi all’operazione perché teme che possa incidere sul suo timbro vocale. Per alleviare le sofferenze quindi, inizia a prendere vari antidolorifici che le causano la spossatezza di cui si lamenta con amici e parenti.
Il 14 maggio 1995, a seguito di alcuni giorni di irreperibilità, i vigili del fuoco entrano nella sua casa in provincia di Varese trovando il corpo esanime sul letto: sulle orecchie ancora le cuffie con cui ascoltava la musica e il braccio teso verso l’apparecchio telefonico. L'autopsia dichiarerà che a stroncare la cantante è stato, due giorni prima del ritrovamento, un arresto cardiaco determinato dall’abuso di cocaina, ma le sorelle non crederanno mai all'ipotesi di suicidio. Negli anni successivi infatti innumerevoli congetture e sospetti hanno reso la morte dell'artista un mistero ancora non risolto.
Il suo ricordo eterno, però, è stato reso possibile grazie ai colleghi artisti che continuano ancora oggi a dedicarle le loro interpretazioni dei suoi più grandi successi. Anche nel campo televisivo moltissimi sono stati gli omaggi alla cantante come il film “Io sono Mia” con Serena Rossi e il docu-film “Fammi sentire bella”.
Qualcuno si chiede cosa o chi l'ha davvero uccisa e se sia morta quel giorno del 12 maggio o mese dopo mese dai colpi subiti quotidianamente da chi aveva paura di lei e di pronunciare il suo nome. Una vita “dolorosissima”, come l’aveva descritta lei durante un’intervista, con picchi e crisi costanti, senza neanche un attimo di tregua da quel successo che tanto dà, ma tanto toglie a personalità immense e allo stesso tempo delicate come quella di Mimì.
Mia Martini avrebbe 75 anni: le origini del nome d’arte, l’amore con Ivano Fossati, 10 segreti. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2022.
«Almeno tu nell'universo», «Minuetto», «Gli uomini non cambiano»: il 20 settembre 1947 nasceva a Bagnara Calabra una delle voci simbolo della musica italiana
Seconda di quattro figlie
Domenica Rita Adriana Bertè in arte Mia Martini («Mimì»), una delle voci simbolo della musica italiana, compirebbe oggi 75 anni. La cantante, prematuramente scomparsa nel 1995, era nata a Bagnara Calabra in provincia di Reggio Calabria il 20 settembre 1947, figlia di un insegnante di latino e greco e di una maestra elementare. Era la secondogenita di quattro figlie: le sue sorelle sono Leda (1946), Loredana (nata nel 1950, anche lei il 20 settembre) e Olivia (1958). La sua carriera prenderà il via nei primi anni Sessanta, quando convincerà la madre ad accompagnarla a Milano, in cerca di un'audizione per un contratto discografico. L’anno successivo inciderà i suoi primi 45 giri, ma ci sono molte altre curiosità e aneddoti poco noti sul suo conto.
Le origini del nome d’arte
Fu l'avvocato Alberigo Crocetta, produttore discografico (scopritore di talenti come Patty Pravo e Mal) e fondatore del Piper, a suggerirle il nome d’arte Mia Martini: Mia - dall’attrice Mia Farrow - e Martini dall’omonimo marchio (all'epoca una delle tre parole italiane più famose all'estero).
Il provino Rai
«Video - Giovanile ma banale. Voce un po’ nasale ma incisiva. Stile moderno, tipo urlatori alla Celentano. In quel genere ha una certa aggressività e può essere utilizzata». Così si legge sulla scheda del provino fatto in Rai da «Minù Berté» il 6 maggio 1964.
Due vittorie consecutive al Festivalbar
Forse non tutti sanno che Mia Martini è l'unica interprete femminile ad aver vinto due Festivalbar consecutivamente, nel 1972 (con «Piccolo Uomo») e nel 1973 (con «Minuetto»).
L’amore con Ivano Fossati
Nella seconda metà degli anni Settanta Mia Martini incontra Ivano Fossati, con cui vivrà una storia d’amore molto travagliata (lei la descriverà come un «campo minato»). «Avevo un contratto con un'altra casa discografica e ho dovuto romperlo a causa sua. Perché era geloso, dei dirigenti, dei musicisti, di tutti - raccontava nel 1990 la cantante alla giornalista Ivana Zomparelli di Noi Donne -. Ma soprattutto era geloso di me come cantante. Diceva che mi voleva come donna, ma non era vero perché infatti non ha voluto nemmeno un figlio da me, e la prova d'amore era abbandonare del tutto anche la sola idea di cantare e distruggere completamente Mia Martini». Il cantautore scriverà per lei diverse canzoni, molte delle quali incluse nell'album «Danza» (1978).
Il Premio della Critica a Sanremo
Nel 1982 Mia Martini canta al Festival di Sanremo «E non finisce mica il cielo», scritta sempre da Ivano Fossati. Vincerà il Premio della Critica, istituito proprio per la sua interpretazione. Tale riconoscimento a partire dal 1996 prenderà il suo nome (Premio della Critica Mia Martini).
Il ritiro
«C'era gente che aveva paura di me, che per esempio rifiutava di partecipare a manifestazioni nelle quali avrei dovuto esserci anch'io. Mi ricordo che un manager mi scongiurò di non partecipare a un festival, perché con me nessuna casa discografica avrebbe mandato i propri artisti. Eravamo ormai arrivati all'assurdo, per cui decisi di ritirarmi». Nel 1983 Mia Martini decide di ritirarsi dalle scene a causa della maldicenza che la perseguitava dal decennio precedente. Tutto era iniziato nel 1970 (lo raccontò la stessa Mimì al giornalista Paolo Butturini di Epoca): un impresario, Fausto Paddeu soprannominato «Ciccio Piper», che aveva incassato un suo rifiuto per un’esclusiva a vita, le «appiccicò l’etichetta di porta jella» in seguito ad un incidente di ritorno da un concerto in Sicilia («Il pulmino su cui viaggiavo con il mio gruppo fu coinvolto in un incidente. Due ragazzi persero la vita»). L’esilio volontario di Mia Martini durerà fino al 1989, quando presenterà a Sanremo «Almeno tu nell'universo», che la riporterà al successo.
Due volte ad Eurovision Song Contest
Mia Martini ha rappresentato l'Italia all'Eurovision Song Contest per due volte, nel 1977 a Londra con «Libera» (otterrà il 13mo posto) e nel 1992, in Svezia, con «Rapsodia» (anno in cui ottenne una grande attenzione mediatica in quanto cognata dell’ex tennista svedese Björn Borg, che aveva sposato sua sorella Loredana. Arriverà quarta).
Il duetto con Loredana
«C’è una piramide di cielo ancora da scalare». Con sua sorella Loredana, con cui ha mosso i suoi primi passi artistici (insieme allo storico amico Renato Zero), Mia Martini ha partecipato a Sanremo: è accaduto nel 1993, il brano era «Stiamo come stiamo».
Tifava Napoli
Mia Martini era molto legata alla città di Napoli (memorabile la collaborazione con Roberto Murolo ed Enzo Gragnaniello su «Cu'mme»). Era anche una grande tifosa della squadra partenopea: cinque giorni prima di morire era andata allo stadio, in curva, per vedere il match Napoli-Inter.
Mia Martini, 27 anni fa l’addio: il racconto delle sue ultime ore. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 12 Maggio 2022.
La cantante, straordinaria interprete della musica italiana, se ne andava il 12 maggio 1995 nella sua casa di Cardano al Campo.
Addio Mimì
«Sono Mimì, sono di Bagnara Calabra, abbiamo un sole noi che ci fa le radiografie appena nati. Gli odori, i colori della natura nella mia terra sono forti e violenti anche nell’animo umano. Odio essere un idolo, che male ho fatto per essere un idolo? Perché non posso essere una persona normale?». Sono le parole che Domenica Rita Adriana Berté, in arte Mia Martini, affidò al giornalista Gabriele Bojano qualche mese prima di morire. La cantante desiderava soltanto un po’ di normalità, dopo aver passato anni a combattere quelle vergognose maldicenze che hanno gettato per troppo tempo ombre sulla sua carriera condannandola alla solitudine. Era sola anche quando ha chiuso gli occhi per sempre a soli 47 anni, il 12 maggio di 27 anni fa nella sua casa di Cardano al Campo. La voce straordinaria di Mimì, capace di attraversare le corde dell’anima, si è spenta troppo presto nel silenzio ma ancora oggi risuona grazie all’amore del pubblico che non l’ha mai dimenticata e continua a ricordarla.
L’ultima apparizione in tv
«Lei mi disse una cosa bellissima prima di cantare, e con gli anni ho capito cosa volesse dire: “Mi fai venire voglia di cantare”. È bello quando c’è uno scambio tra musicisti, è tutto». L’8 aprile 1995 Mia Martini viene invitata a «Papaveri e papere», programma che celebrava il Festival di Sanremo ideato da Michele Guardì e condotto da Pippo Baudo e Giancarlo Magalli. Era l’anno della vittoria di Giorgia, e proprio con l’artista romana e Michele Zarrillo Mimì ha duettato su «Come saprei» e su altri brani che hanno fatto la storia della kermesse. Sarebbe stata la sua ultima esibizione televisiva.
Il brano per Viva Napoli
Un disco di canzoni napoletane (che si sarebbe dovuto intitolare «Napoli Mia»), un album dedicato alla luna («Canto alla luna», dal brano del 1978 scritto per lei da Ivano Fossati e pubblicato in «Danza»), tributi a Tom Waits e Billie Holiday: aveva diversi progetti in cantiere Mia Martini in quei primi mesi del 1995, e presto avrebbe preso parte al programma di Canale 5 Viva Napoli, condotto da Mike Bongiorno. Con la musica napoletana Mimì da tempo ha stretto un legame molto forte: ha ottenuto ottimi riscontri dopo aver interpretato «Cu'mme», in coppia con Roberto Murolo ed Enzo Gragnaniello, e grande successo aveva avuto anche la sua apparizione a Viva Napoli (nel 1994, aveva cantato «Luna rossa»). Negli ultimi giorni della sua vita Mia stava preparando il brano che avrebbe dovuto cantare durante la seconda edizione della trasmissione, e - nel corso della sua ultima telefonata alla sorella Olivia - l’aveva avvisata: se non avesse risposto al telefono nei giorni successivi non si sarebbe dovuta preoccupare («Ho sempre le cuffie sulla testa», le disse).
14 maggio 1995
Il manager di Mia Nando Sepe, che doveva accompagnarla ad un concerto in programma a Salerno, da giorni non riesce a mettersi in contatto con lei. Il 14 maggio 1995 si precipita in via Liguria 2, a Cardano del Campo (era lì, in provincia di Varese, che da qualche settimana la cantante si era trasferita per stare più vicina al padre), e dopo aver provato più volte a citofonare si fa dare le chiavi dalla padrona di casa. Non riuscendo ad aprire la porta, perché l’appartamento è chiuso dall’interno, è costretto a chiamare i pompieri. Saranno loro a trovare l’artista senza vita, distesa sul suo letto, in pigiama, con le cuffie del walkman poggiate sulle orecchie e con il braccio proteso verso il telefono. La notizia della morte di Mimì si diffonde immediatamente (la prima a darla è Mara Venier a Domenica In). Nei giorni successivi vengono celebrati i funerali, nella chiesa di San Giuseppe a Busto Arsizio, il corpo viene cremato e le ceneri deposte nel cimitero di Cavaria con Premezzo.
Le ipotesi sulla morte
All’indomani della scoperta della morte di Mia Martini la Procura apre un’inchiesta: il decesso viene attribuito ad un arresto cardiocircolatorio ma le circostanze non sono mai state chiarite del tutto e negli anni si sono rincorse le ipotesi più disparate (si è parlato ad esempio di un’overdose di cocaina e anche di un possibile suicidio, ma la famiglia ha sempre smentito con forza queste ricostruzioni). Della morte di Mimì hanno spesso parlato i suoi familiari (Loredana Bertè, le altre sorelle Leda e Olivia e il padre Giuseppe, scomparso nel 2017 a 96 anni), e c’è un dettaglio in particolare - nel racconto delle ultime ore dell’artista - che ritorna spesso e che rende la scomparsa di Mia ancora più dolorosa: quella mano protesa verso il telefono. «La mia occasione mancata? Una telefonata», ha raccontato Loredana al settimanale Chi qualche anno fa. Una telefonata mancata che ancora oggi la tormenta: «Molti anni fa mia sorella Mimì mi regalò uno dei primi telefoni cellulari. Il motivo del regalo era strettamente legato alla voglia di sentirmi più spesso ma io, senza un perché, lo buttai. Tempo dopo, il telefono di casa iniziò a squillare ma non risposi. Quella sera morì Mimì e io rimarrò sempre con il dubbio di aver perso la telefonata della vita».
· 25 anni dalla morte di Giorgio Strehler.
Giorgio Strehler, meglio anche delle stelle. EDVIGE VITALIANO su Il Quotidiano del Sud il 18 Dicembre 2022.
GIORGIO Strehler: vita e morte di un visionario geniale capace anche di intervistarsi meglio di chiunque altro. “Sovente lo spettacolo è già fatto in pochi giorni e sono dei giorni di felicità creativa. Non può sempre essere così. Ecco la dannazione, la grandezza, la disciplina, il martirio del teatro: il gioco, l’invenzione creatrice debbono sempre essere fissate, riprodotte… e colui che le ha inventate spesso non si ricorda più come vi è giunto o non riesce più a riprodurle è qui che interviene più che mai il regista che deve saper registrare e rendere cosciente il processo che ha scatenato questo momento. È il periodo più duro del lavoro che io faccio al Piccolo e altrove: ridare corpo, suono e splendore all’invenzione perduta di tutti gli attori. Poco a poco, con umiltà questi piccoli segmenti di spettacolo ritrovano un colore iridescente ma per giungerci bisogna spesso passare attraverso un lavoro opaco…”
Questa lunga intervista “a sé stesso” pubblicata da De Piante di cui è possibile ascoltarne anche un estratto audio sul sito della casa editrice, fu stampata su un programma di sala del Piccolo Teatro nel 1984 e non fu mai pubblicata. Dimenticata e poi ritrovata negli archivi del teatro milanese svela l’essenza di Giorgio Strehler. Alla soglia dei 65 anni, Strehler qui raccontava “la sua straordinaria carriera, come regista e come intellettuale, ma anche i dubbi e le mancanze di un lavoro sui testi e sugli autori più grandi che fu maniacale, ma non sufficiente a colmare la vastità della possibilità che la storia millenaria del teatro apre”.
«Il teatro è una metafora della vita e della morte, ma è anche storia e cronaca che, a loro volta, sono politica», osservava il regista. Rovesciando la clessidra delle parole, nel suo caso si potrebbe dire che la sua vita è stata una metafora del teatro. Sono trascorsi venticinque anni dalla sua scomparsa avvenuta il 25 dicembre 1997. Un vuoto che però continua ad essere un pieno per chi il teatro lo ha fatto e lo fa, lo ama e lo vive e per chi a teatro ci va. Perché Strehler è tra i nomi che ne hanno fatto la Storia, ne hanno scritto regole e ne hanno scardinate altre. Un innovatore, geniale al punto che Le Monde lo definirà “il più grande regista del ‘900”. Affascinante e colto. Iconico. Lo sguardo inquieto, la voce inconfondibile, i gesti, il maglione a collo alto… Anche la sua fisicità era teatrale. Come la sua morte a sorpresa. Alle quattro del mattino di quel 25 dicembre nella sua abitazione di Lugano dove aveva trascorso la vigilia della festa “cenando con alcuni amici, dopo aver fatto l’albero di Natale nel giardinetto di casa”, riportarono le cronache del tempo. L’albero, le luci, la festa e in testa quel “Così fan tutte” di Mozart a cui stava lavorando: l’ultimo allestimento resta per lui un sogno spezzato. Il debutto negato. L’applauso di scena mancato. Centinaia e centinaia le persone che affollarono la camera ardente aperta per 24 ore nella platea del Piccolo a Milano. Come fu per Paolo Grassi con cui Strehler, insieme a Nina Vinchi, aveva creato quel teatro: il primo teatro pubblico e stabile italiano.
Lacrime e dolore sulle note di Mozart nel giorno dell’ultimo saluto. «Si è spenta la grande luce», disse Valentina Cortese che ne seguirà il feretro stringendo tra le mani tre rose bianche. Milano poi Trieste dove le sue ceneri riposano nel cimitero di sant’Anna nella semplicissima tomba di famiglia e dove Strehler era nato il 14 agosto 1921 a Barcola il quartiere affacciato sul mare in una famiglia crocevia di lingue e culture diverse: slavo il nonno musicista, francese la nonna di cui per un certo tempo userà il nome come pseudonimo, di origini viennesi il padre.
A sette anni, Giorgio orfano del padre si trasferisce con la madre Alberta Lovric, violinista di fama, a Milano. È qui che inizia la partita a scacchi con il teatro che lo accompagnerà per tutta la vita. La scintilla si accende durante la rappresentazione di “Una delle ultime sere di Carnovale” di Carlo Goldoni a cui assiste da giovane spettatore. Giorgio rimane folgorato. Si iscrive all’Accademia dei Filodrammatici, dove si diploma nel 1940. Il debutto alla regia è datato 1943: a Novara con tre atti unici di Pirandello. La guerra spariglia le carte ma non spegne la passione per il palcoscenico, anzi. “Ostile al regime fascista, nel gennaio 1944 lascia l’Italia e si rifugia in Svizzera, dove continua a fare teatro: con una compagnia di soli uomini, nel Campo di Mürren, poi a Ginevra, dove fonda la Compagnie des Masques e firma gli spettacoli con lo pseudonimo Georges Firmy, dal cognome della nonna materna”, si ricorda sul sito del Piccolo teatro. La guerra finisce e Strehler torna a Milano. È il 14 maggio 1947 quando il sipario si alza su “L’albergo dei poveri” di Maksim Gorkij, titolo che Grassi, Strehler e Vinchi scelgono per inaugurare il Piccolo: la sala di via Rovello restituita all’arte dopo la guerra. Strehler stesso è in scena nel ruolo del ciabattino Alioša. Appena due mesi prima, aveva debuttato al Teatro alla Scala con “La traviata” di Giuseppe Verdi.
Il successo dei suoi spettacoli supera i confini. E c’è come un alone di magia e incanto tra le parole, gli scritti, le interviste, i film documentari, i racconti di e su Strehler. Come quando Gabriele Lavia in un’intervista racconta della capacità del regista di dilatare lo spazio attraverso le sue messe in scena così che anche il Piccolo – un palcoscenico di soli sei metri profondità per cinque e mezzo di lunghezza e cinquecento posti a sedere – diventava immenso…
Magie che riescono ai geni che scalfiscono e graffiano anche la cronaca. C’è ad esempio nella vita di Strehler anche un celeberrimo “mi dimetto da italiano”. Era il 1993, il regista viene processato dal Tribunale di Milano per truffa e malversazione relativa all’utilizzo di contributi del Fondo sociale europeo. Nel 1995 verrà completamente scagionato ed assolto: “il fatto non sussiste” ma il dolore per quell’accusa lo porterà a pronunciare quelle parole che hanno il rumore di un tuono prima di lasciare l’Italia per Lugano, città che torna spesso nella biografia del regista votato alla religione del teatro.
Il Teatro – inclusa la “scoperta” per il pubblico italiano di un autore come Bertold Brecht – ma anche l’opera lirica, la politica e le donne che puntellano la vita privata e quella sul palcoscenico di Giorgio: la prima moglie, la ballerina e coreografa Rosita Lupi, Ornella Vanoni a cui ritagliò il ruolo dell’interprete delle canzoni della mala e di “Ma mi…” musicata da Fiorenzo Carpi, l’ultima moglie l’attrice tedesca Andrea Jonasson. E poi le primedonne che hanno lavorato con lui da Giulia Lazzarini a Ottavia Piccolo, da Valentina Cortese a Monica Guerritore, da Pamela Villoresi a Milva. Ma, qual è il debito che abbiamo con Strehler? La risposta migliore probabilmente l’ha data qualche tempo fa Andrea Jonasson a Maurizio Porro tra i più noti critici cinematografici e teatrali italiani in un’intervista per «la Lettura» del Corriere della sera: «Faceva un teatro comprensibile a tutti: una sera il fisico Carlo Rubbia, il Premio Nobel, ci disse che vedere le prove di Strehler era meglio che guardare le stelle».
Meglio che guardare le stelle? Forse perché il lavoro del regista si nutriva di quel “teatro umano” da lui teorizzato? «Non ci può essere teatro senza il valore dell’umano. Senza quella luce non c’è niente», asseriva Strehler. E sembra di vederlo l’uomo, l’essere umano al centro del palco sotto la sua regia magari con indosso una maschera da commedia dell’arte come quella dell’ Arlecchino servo di due padroni di Goldoni. Intramontabile l’allestimento che ne fece Strehler . «Ha il segno della vita che passa e si rinnova. È sangue che pulsa e scorre nelle vene di un teatro reale e immaginario, come in un corpo umano», diceva di quello spettacolo che gli è sopravvissuto così come il suo teatro umano. Una magia che riesce a pochi.
Da corriere.it il 24 giugno 2022.
Gaffe di Fedez che durante una diretta del podcast “Muschio Selvaggio” ha ammesso di non conoscere il nome di Giorgio Strehler. Tutto è successo nella puntata con ospite Gerry Scotti. Ad un certo punto, il conduttore ha citato Strehler, regista teatrale e direttore artistico prima in Italia poi all’estero.
Fedez ha dapprima annuito, poi ammesso di non conoscerlo: «E chi è Streller?» ha chiesto rivolto alla telecamera, storpiando il nome. Gerry Scotti, calmo ma serio, ha spiegato: «Uno dei più grandi registi ed attori di teatro italiani». «Ah scusatemi» la risposta del cantante che ha poi cambiato argomento.
Sui social una pioggia di commenti per lui e Luis Sal divisi tra chi considera assurdo che i due non conoscano il regista considerando che vivono a Milano e chi li difende perché giovani (Strehler è scomparso quando Fedez non aveva nemmeno 10 anni).
Guglo, quindi sono. L’ignoranza di Fedez su Strehler e la velleitaria sapienza degli editorialisti su Twitter. Guia Soncini su L'Inkiesta il 25 Giugno 2022.
Perché uno nato nel 1989, in una famiglia non ricca e non colta, dovrebbe sapere chi è uno dei più importanti registi teatrali italiani? Avete mai visto un intellettuale vantarsi di conoscere la data di nascita di Manzoni?
Me la vedo, l’editorialista ignorante come un carabiniere, che va sulla voce Wikipedia di Giorgio Strehler. Cinque minuti prima, di lui sapeva che era un tizio coi capelli bianchi e il golf a dolcevita, ah sì quello del teatro vicino alla fermata del metrò in Brera; cinque minuti dopo, si sente istruita e in grado di fare il suo bravo post Instagram in cui esprimere sussiego nei confronti dell’arricchito semianalfabeta che osa non conoscere a memoria gli allestimenti strehleriani di Brecht, e mica sarà una giustificazione che siano andati in scena trent’anni prima che l’arricchito nascesse.
Esistono ancora ricchi colti? È la domanda che mi sono fatta più spesso negli ultimi anni, da quando i ricchi stanno per la maggior parte su Instagram, e svelano ogni giorno il loro non essere in grado di scrivere una didascalia senza errori d’ortografia. La prima volta che mi parlarono di Gianluca Vacchi mi dissero che un intellettuale che conosco gli faceva da precettore, e non mi sono mai presa il disturbo di verificare se fosse vero, ma non ho mai smesso di pensarci: perché quelli che non hanno studiato, quando si arricchiscono, non si prendono tutti un precettore che li renda conversatori passabili, gente che sa i nomi delle correnti filosofiche e quelli degli scrittori quel tanto che basta ad avere, a cena, argomenti che non siano la manicure semipermanente e i bitcoin?
Non lo fa nessuno: sono impegnati a fatturare. Ogni ora che passi con un precettore che t’insegni la storia della letteratura – ammesso tu riesca ad ascoltarlo, con l’attenzione fragile e frammentata che ormai a